Il contratto, e le fonti del diritto

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Il contratto, e le fonti del diritto
SOMMARIO: 1. Il contratto come norma: teorie. – 2. Il contratto come norma: evidenze
empiriche. – 3. Il contratto come norma, e i paradossi della globalizzazione: «mercanti del diritto» e «inadempimento efficiente». – 4. Le norme sul contratto: esaurita
la spinta propulsiva della Costituzione? – 5. Le norme sul contratto: dominanza delle
leggi speciali. – 6. Le leggi speciali di ultima generazione: leggi di matrice europea,
leggi di regolazione del mercato. – 7. Cambia il ritmo della circolazione transfrontaliera dei modelli. – 8. Dominano le norme imperative; recedono norme dispositive e
usi. – 9. Il linguaggio legislativo subisce contaminazioni gergali. – 10. Si offuscano le
coerenze di sistema. Due esempi: nullità speciali, e recesso dai contratti negoziati
fuori dei locali commerciali. – 11. Si moltiplicano le norme delegate. Qualità del
drafting normativo, e nuova rilevanza del sindacato sull’eccesso di delega: il caso dell’anatocismo bancario. – 12. Si moltiplicano le norme subprimarie: dal ruolo normativo delle Authorities di settore alla nuova rilevanza del sindacato sulla riserva di legge (e, per questa via, della tutela costituzionale del contratto?).
1. Il contratto come norma: teorie
La riflessione sui rapporti fra contratto e fonti del diritto si sviluppa,
tendenzialmente, intorno a due assi: il contratto come fonte, e le fonti del
contratto.
Il primo asse organizza un dibattito che ha natura prevalentemente
concettuale, teorica. Lo comanda una questione: se, e in che senso, il
contratto possa riguardarsi come fattore di produzione di norme giuridiche, dunque come fonte del diritto esso stesso.
Questione immensa, e vertiginosa.
Chi l’affronta può muovere da qualche elementare dato normativo:
come il «regolare» dell’art. 1321 cod. civ.; o la «forza di legge» dell’art.
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1372, 1° comma, cod. civ.; o ancora l’«autonomia» che rubrica l’art. 1322
cod. civ.
Ma poi si trova fare i conti con alcuni fra i più significativi passaggi
della riflessione gius-teorica prodotta dal secolo XX (quel secolo che ancora fatichiamo a chiamare «scorso»!). Nell’ambito di quella riflessione,
l’idea del contratto come norma nutre e accomuna diversi filoni di pensiero, pur molto diversi fra loro.
Hans Kelsen la pone a fondamento della relazione fra il contratto e l’ordinamento giuridico, collocando a pieno titolo il contratto (e più in generale il negozio) entro lo Stufenbau dell’ordinamento, in quanto produttore di norme (convenzionali) funzionalmente legate a norme (legali) di livello superiore, che le legittimano.
Ma, a veder bene, la medesima idea è sottesa a una concezione per
molti versi antitetica a quella kelseniana, come la concezione della pluralità degli ordinamenti giuridici di Santi Romano: perché in definitiva è il
contratto a fondare molti di quegli ordinamenti privati che, accanto all’ordinamento statuale e in posizione di pari dignità con questo, danno corpo alla realtà giuridica complessiva.
Ed è sempre l’idea del contratto come norma a sostenere quella teoria
«precettiva» che identifica l’essenza del fenomeno contrattuale (e negoziale) nell’auto-regolamentazione degli interessi privati.
2. Il contratto come norma: evidenze empiriche
Sul piano empirico, la concezione che vuole il contratto partecipe della natura di fonte del diritto trova sostegno in fenomeni del nostro tempo, che esaltano il valore generale, o comunque superindividuale, della regola contrattuale.
Il pensiero va, naturalmente, ai contratti standard, e alla risalente intuizione di Raymond Saleilles sulla portata normativa delle condizioni generali di contratto.
Poi ai contratti collettivi, che si riconducono alla figura non per caso
definita come contratto «normativo».
Poi ancora alla crescente diffusione e rilevanza dei contratti associativi, che costituiscono le organizzazioni e ne determinano, con gli statuti, le
regole di funzionamento.
Infine al fenomeno, sempre più esteso, dell’autoregolamentazione di
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categoria: le associazioni rappresentative delle categorie di operatori professionali elaborano regole per disciplinare i comportamenti degli associati nell’esercizio dell’attività di riferimento e nei corrispondenti rapporti
esterni (per lo più coi clienti); e l’assoggettamento a queste norme di produzione privata ha base contrattuale, perché il singolo operatore, esponente della categoria, vi è sottoposto in quanto ha aderito, col contratto
associativo, all’organizzazione che le produce.
3. Il contratto come norma, e i paradossi della globalizzazione: «mercanti del diritto» e «inadempimento efficiente»
Il fenomeno che siamo oramai abituati a definire «globalizzazione» (e
che sostanzialmente coincide con un gigantesco trasferimento di funzioni
dagli Stati ai mercati) ha col contratto un rapporto ambiguo: per un verso ne esalta la forza normativa; per altro verso la deprime.
Chi analizza le conseguenze istituzionali della globalizzazione segnala,
fra l’altro, come i processi di produzione normativa vedano oggi il ruolo
crescente di un nuovo attore: le grandi compagnie multi- o trans-nazionali, e per esse il loro braccio giuridico, ovvero le grandi law firms, a loro
volta organizzate e operanti a scala planetaria. Indica, più di preciso, come il diritto vivente che oggi regola le grandi transazioni economiche, ma
anche le micro-transazioni di massa su beni o servizi di consumo, non scaturisca più, in prevalenza, da leggi dello Stato, ma in misura crescente s’identifichi in corpi di regole prodotte dalle stesse imprese che di quelle
operazioni e transazioni sono le protagoniste: regole forgiate, tecnicamente, nelle clausole dei contratti scritti per esse dai legali che le assistono.
Potrebbe dirsi: norme create a colpi di contratto. Perché il contratto
si fa prassi; la prassi genera l’uso; e l’uso crea la norma.
Per inciso: un ritorno alla lex mercatoria? Sì e no. Sì, ove si consideri il
dato comune di un’autoproduzione delle norme ad opera dei suoi stessi
destinatari (si chiamino – come un tempo – «ceto dei mercanti», oppure
– come oggi – business community). No, invece, se si ha riguardo ai modi
e ai tempi della produzione: perché mentre la tradizionale lex mercatoria
si veniva costruendo nella «lunga durata», con progressione lenta e costante, per sovrapposizioni e sedimentazioni successive, le regole create
dai nuovi «mercanti del diritto» (per riprendere il felice epiteto di Yves
Dezalay) seguono ritmi di formazione/trasformazione più accelerati e vio-
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lenti, con la logica dello strappo e del colpo intenzionali, molto più che
con quella della crescita spontanea. Ho detto: norme create «a colpi di
contratto». Aggiungo: a colpi di schemi contrattuali sempre pronti a essere modificati, in un processo di adeguamento serrato e veloce, secondo
le mutevoli esigenze delle imprese predisponenti.
Ma se sotto il profilo appena indicato la globalizzazione esalta la forza
normativa del contratto, sotto un altro profilo lavora a incrinarla.
È vero che per effetto di essa il contratto, in luogo della legge, tende a
porsi come il paradigma dominante della regula iuris. Ma quale figura di
contratto? Il contratto dell’economia e della società globalizzate è un
contratto in cui l’esigenza della flessibilità fa premio sui valori della certezza e della stabilità. Un contratto la cui figura pericolosamente inclina
verso gli estremismi di quell’ala radicale dell’analisi economica del diritto
che – sviluppando una vecchia suggestione di Oliver W. Holmes – teorizza l’inadempimento «efficiente» (efficient breach): ovvero fa discendere dal contratto non obblighi di adempimento, ma poteri di scelta fra adempimento e inadempimento/risarcimento; colloca l’opzione fra rispetto e violazione del contratto in un’area d’indiffe-renza assiologica; e la riduce ad apprezzamenti di pura convenienza economica, privilegiando la
soluzione che garantisca la «migliore» allocazione delle risorse.
In breve: una figura di contratto sempre meno tributaria all’idea di vincolo, alla sacertà del pacta sunt servanda, alla metafora della «forza di legge»; dunque una figura di contratto sempre meno aderente al paradigma
della norma, per come tradizionalmente lo possediamo.
4. Le norme sul contratto: esaurita la spinta propulsiva della Costituzione?
Il secondo asse della riflessione su contratto e fonti del diritto è quello
che assume il contratto non già come fonte del diritto esso stesso, bensì
come realtà esposta a fonti del diritto esterne, diverse da sé: in breve, alle
fonti eteronome che ne fanno, in luogo di fattore regolante, fatto regolato.
Tradizionalmente, quando si ragiona intorno al sistema delle fonti del
diritto dei contratti si muove da una ricognizione delle macro-componenti
di quel sistema, e dei loro spostamenti progressivi. Le macro-componenti
sono tre: al centro stanno le norme del codice; sopra di esse le norme della
Costituzione; accanto ad esse le leggi speciali.
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Il primo rilievo riguarda la legge fondamentale: l’osservatore registra
un certo qual esaurimento della spinta propulsiva della Costituzione, quale
fattore normativo capace di incidere sulla figura e sulla disciplina del
contratto.
La stagione d’oro, in questo senso, fu quella degli anni ’70 del secolo
XX. In quella fase la dottrina elaborava con generosità le possibili ricadute, sul piano delle regole contrattuali, del principio di solidarietà dell’art. 2 Cost., o dei principi di socialità dell’art. 41, 2° comma, Cost., domandandosi se da essi potessero desumersi direttamente impugnative o
invalidità. E poi, in altra prospettiva, fervidamente s’interrogava sul grado e sui modi di una tutela costituzionale del contratto e della libertà contrattuale, dividendosi fra chi patrocinava una tutela diretta e chi preferiva
ipotizzare una tutela indiretta, filtrata per il medium delle tutele costituzionali dell’iniziativa economica (art. 41 Cost.) e della proprietà privata
(art. 42 Cost.). Mentre la stessa Corte produceva ripetutamente sentenze
(quasi sempre di rigetto) dedicate a valutare in che misura la libertà di
contratto abbia copertura costituzionale, e a decidere se – entro quella
misura – dovesse ritenersi per avventura lesa da questa o da quella legge
ordinaria di segno restrittivo o compulsivo dell’autonomia privata.
Ma fu una stagione breve. Passati i ’70 e i primi ’80, quel genere di
giurisprudenza ha cominciato a rarefarsi per poi sparire. Ed è vistosamente deperito – anche in dottrina – l’impegno a valorizzare le norme
costituzionali quali fonti del diritto dei contratti: vuoi nella loro veste
primaria di criterio di legittimità delle leggi, vuoi nel possibile ruolo di
regole suscettibili di applicazione diretta a rapporti contrattuali litigiosi.
Tramonto definitivo, o eclissi solo temporanea? Questione intrigante:
ma non è questa la sede per affrontarla, al di là di un piccolissimo spunto
che si offrirà più avanti.
5. Le norme sul contratto: dominanza delle leggi speciali
Nel momento stesso in cui vede la Costituzione respinta un po’ ai
margini, il quadro delle fonti del diritto dei contratti registra l’avanzata
prepotente della legislazione speciale.
Con le conseguenze che la dottrina – già dagli scorsi anni ’80 – ha individuato, analizzato e tradotto in formule cui è arrisa meritata fortuna.
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L’irrompere delle leggi speciali quali fonti sempre più rilevanti del
diritto dei contratti significa decodificazione; significa erezione, ai margini di un codice in ritirata, di microsistemi extracodicistici; significa (nella
misura in cui le leggi speciali sul contratto sono leggi su singoli tipi o
classi di contratti) nuova centralità dei tipi contrattuali a scapito del «contratto in genere», e difficoltà crescente a ricostruire, in questo quadro di
frammentazione sempre più spinta, una significativa unitarietà della figura
contrattuale.
Significa infine – almeno per chi vede in questi processi qualche rischio di sbocchi incontrollati e indesiderabili – l’impegno verso obiettivi
di ricodificazione, di ricomposizione dei frammenti, di recupero della figura e della disciplina del contratto a un più apprezzabile livello di generalità.
6. Le leggi speciali di ultima generazione: leggi di matrice europea,
leggi di regolazione del mercato
Ma rispetto alle leggi speciali degli anni ’70 e ’80 (prototipo: la legge
n. 392/1978 sulle locazioni urbane), intorno alle quali si era avviata la riflessione su decodificazione e microsistemi, la legislazione speciale prodotta nell’ultimo decennio del secolo segna un vero e proprio salto di
qualità, un mutamento di paradigma che obbliga gli interpreti a misurarsi con fenomeni inediti, con trasformazioni del diritto dei contratti spinte
molto al di là dell’orizzonte contemplato da Natalino Irti e dai suoi epigoni.
Alludo a leggi – tutte variamente rilevanti per la materia contrattuale –
come quelle in tema di: cessione di crediti d’impresa (legge n. 52/1991);
contratti negoziati fuori dei locali commerciali (d.lgs. n. 50/1992); contratti bancari e di credito al consumo (d.lgs. n. 385/1993); viaggi, vacanze
e circuiti «tutto compreso» (d.lgs. n. 111/1995); contratti di assicurazione vita (d.lgs. n. 174/1995) e di assicurazione danni (d.lgs. n. 175/1995);
contratti relativi alla prestazione di servizi finanziari (d.lgs. n. 58/1998);
contratti per la vendita di multiproprietà (d.lgs. n. 427/1998); contratti di
subfornitura (legge n. 192/1998); contratti a distanza (d.lgs. n. 185/1999).
Queste leggi hanno due caratteristiche prevalenti, che le accomunano
e al tempo stesso le differenziano dalle leggi speciali sul contratto di più
risalente generazione.
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In primo luogo, hanno origine europea: quasi tutte le normative appena richiamate scaturiscono dall’attuazione di direttive comunitarie. E
fra poco (inizi del 2002, se il legislatore italiano sarà osservante) altre due
leggi di rilevanza contrattuale e di matrice europea potranno aggiungersi
all’elenco: quando saranno recepite nel nostro diritto interno la direttiva
n. 1999/44/CE sulle garanzie nella vendita di beni di consumo, e la direttiva n. 2000/31/CE sul commercio elettronico.
In secondo luogo, hanno obiettivi di regolazione del mercato: sono
leggi mirate a disciplinare singoli settori di mercato, o determinate modalità delle operazioni di mercato, per dare assetti di maggiore efficienza ed
equità alle relazioni fra i protagonisti istituzionali del mercato stesso (essenzialmente fra imprese e consumatori, ma anche fra imprese).
Le due caratteristiche, tipiche delle leggi contrattuali di ultima generazione, sono alla radice delle innovazioni che investono la figura e la disciplina del contratto a questo giro di secolo: innovazioni così estese e
profonde, da sfiorare veri e propri effetti destabilizzanti, rispetto ai termini in cui quella figura e quella disciplina ci erano consegnate dalla tradizione. Il XX secolo si apre con i dieci giorni che sconvolsero il mondo
(per ripetere il titolo del famoso libro di John Reed sulla rivoluzione bolscevica del 1917): parafrasando quel titolo, possiamo dire che si chiude
con i dieci anni che sconvolsero il contratto (appunto quel decennio ’90,
in cui si concentrano le nuove leggi per molti aspetti così «rivoluzionarie»).
Le innovazioni più significative riguardano i contenuti delle recenti
discipline contrattuali: le regole e i principi «sostanziali» che esse introducono. Ma non è di queste che ci si occupa in questa sede. Qui ci si dedica alle novità che il diritto dei contratti registra, sotto profili di tipo esterno, formale, non contenutistico: profili che attengono, in breve, al sistema delle sue fonti.
In questa prospettiva, mi sembrano degni di nota sei punti di novità.
Li indicherò in termini di estrema sintesi, e valutativamente neutri: cioè
senza discutere se, e in che senso, si tratti di novità desiderabili o invece
deprecabili (un giudizio che – dovendosi differenziare e articolare in relazione ai singoli punti, e a tante variabili rilevanti per ciascuno di essi –
richiederebbe considerazioni più complesse di quelle sostenibili dallo
spazio del presente contributo).
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7. Cambia il ritmo della circolazione transfrontaliera dei modelli
Il fatto che la gran parte delle nuove discipline contrattuali degli anni
’90 abbiano alle spalle direttive europee assoggetta la circolazione dei
modelli a ritmi molto diversi da quelli tradizionali.
La tradizionale circolazione dei modelli passava, per lo più, attraverso
l’assimilazione di influenze dottrinali e giurisprudenziali. Procedeva quindi
con i ritmi lenti dell’elaborazione culturale: filtraggi graduali, sedimentazioni successive. Il ritmo cambia quando il fattore dominante della circolazione non è più il lavoro intellettuale, bensì la decisione politica incorporata nelle direttive.
Nelle direttive (per quanto mediate e negoziate) è quasi sempre riconoscibile l’impronta prevalente di questo o di quel modello nazionale: per
limitarsi a un esempio ben noto, la direttiva n. 1993/13/CE sulle clausole
abusive nei contratti dei consumatori è vistosamente tributaria di schemi
tedeschi.
Le direttive devono essere trasposte nei sistemi nazionali entro termini stringenti, il cui rispetto è sempre più fortemente presidiato dall’ordinamento comunitario.
Combinando i due fenomeni, si ha che la trasposizione delle direttive
immette negli ordinamenti nazionali modelli stranieri, secondo ritmi ben
più accelerati e sincopati di quelli che presiedevano alle tradizionali dinamiche di circolazione. E l’immissione è meccanica e forzosa, più di
quanto sia culturalmente filtrata.
Il fenomeno è tanto più marcato per il nostro ordinamento, in quanto
la ridotta influenza «istituzionale» che l’Italia esercita a Bruxelles fa sì
che il testo finale delle direttive rifletta per lo più modelli non italiani.
Non dico che sia necessariamente un male. Dico che è una significativa novità.
8. Dominano le norme imperative; recedono norme dispositive e usi
La circostanza che le nuove norme sul contratto siano figlie di direttive europee ha un’altra conseguenza.
Le direttive europee di rilevanza contrattuale hanno solitamente obiettivi di tutela (e più precisamente di tutela «minimale») di determinate
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categorie di contraenti: in particolare i consumatori. Questo fa sì che le
loro prescrizioni siano non derogabili (se non nella misura in cui la deroga offra ai contraenti protetti un livello di tutela più elevato del minimo
legale). A sua volta la legislazione nazionale di recepimento, per conformarsi a siffatte prescrizioni delle direttive, deve introdurre nelle discipline contrattuali di riferimento norme non derogabili (se non a vantaggio
delle categorie tutelate) che sole consentono di salvaguardare l’effettività
dei livelli di tutela comunitariamente imposti.
Di qui una severa alterazione, rispetto ai modelli consueti, del mix che
compone la disciplina legale dei tipi o delle classi di contratto. Tradizionalmente il mix vedeva la prevalenza delle norme dispositive o suppletive, fra le quali s’inserivano sporadiche norme imperative viste come eccezionale vincolo a una libertà contrattuale che si concepiva generalmente abilitata a derogare la disciplina legale. Oggi la composizione del mix
tende a essere rovesciata, perché le discipline contrattuali di origine europea segnano la netta prevalenza delle norme imperative (meglio: unilateralmente imperative, nel senso detto sopra) su quelle dispositive.
Insieme con le norme dispositive, recede anche l’altra fonte d’integrazione suppletiva del regolamento contrattuale: gli usi, essi pure messi
fuori gioco dalla dominanza delle discipline imperative. Contro gli usi
gioca altresì un alone di sospetto, perché in essi si vede un fattore di opacità del regolamento contrattuale, in contrasto col sempre più valorizzato
principio di trasparenza: se ne trova chiaro riscontro, per esempio, nell’art. 117, 6° comma del T.U. bancario.
Più precisamente. Gli usi sono visti come fattore di opacità nei contratti fra parti in posizioni sbilanciate, perché una di esse è insider della
materia cui il contratto si riferisce, in quanto pratica professionalmente il
relativo mercato e ne conosce le prassi (tipicamente: l’impresa che offre
un certo bene o servizio), mentre l’altra parte si accosta al contratto da
outsider, come tale sfornita di adeguate conoscenze ed esperienze delle
prassi di quel mercato (tipicamente: il consumatore, o l’investitore non
professionale). Il giudizio sugli usi può mutare, in relazione ai contratti
business-to-business in cui entrambe le parti sono operatori professionali:
ecco perché la valorizzazione di usages and practices, apertamente patrocinata dall’Art. 1.8 dei Principi Unidroit con riferimento ai contratti commerciali internazionali, non entra in contraddizione con l’opposta tendenza a marginalizzare gli usi, che si è segnalata poco sopra con riguardo
al diverso contesto dei contratti con consumatori.