Ci vuole coraggio per parlare di felicità…

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Ci vuole coraggio per parlare di felicità…
Report del seminario Fnp - Piemonte
Il 25 settembre 2015 si è svolto il Seminario della Fnp Piemonte “Manifesto per la felicità - Associarsi al
sindacato contribuisce a vivere meglio?”. Parlare di una tematica come la felicità richiede oggi un coraggio
notevole, in un mondo concentrato quasi esclusivamente sugli aspetti economici della vita. Ma un sindacato che
si prefigge di riconquistare il proprio spazio di azione sul territorio non può prescindere da questo discorso. Si
ritiene dunque che la divulgazione di un breve report della giornata possa essere utile in tale senso.
Prof. Stefano Bartolini, docente di economia politica presso l’Università di Siena.
A lungo un concetto astratto come quello di “Felicità” è stato escluso dal campo di studi
dell’economia, scienza che costruisce il suo sapere su dati concreti e misurabili. Tuttavia,
negli ultimi anni questa tematica ha saputo ritagliarsi un ampio spazio nel dibattito degli
economisti, molti dei quali concordi nel dire che la prosperità finanziaria non può più
essere l’unico parametro con cui misurare il benessere delle persone. Il primo passo per
garantire a questo tema una credibilità scientifica è stato la costruzione di indicatori che
potessero valutare quantitativamente un’idea apparentemente molto difficile da misurare.
Per questo sono state individuate due possibili strade da percorrere: l’utilizzo di dati soggettivi oppure
oggettivi. Nel primo caso la rilevazione avviene con domande dirette, quale ad esempio “Lei è felice?”. I dati
oggettivi permettono invece di quantificare la felicità basandosi su indicatori quali il numero di suicidi, il tasso
di malattie mentali nella popolazione, il consumo di droghe e altri elementi analoghi. Quasi sempre le tendenze
evidenziate dagli studi sulla felicità sono molto simili, indipendentemente dal tipo di dati utilizzato: questo
conferma come entrambe le strade siano percorribili e possano dare risultati di grande interesse.
Perché fare ricerca sulla felicità, perché farlo negli Stati Uniti
Uno degli apripista in Italia di questo filone di studi è il prof. Stefano Bartolini, capace di uscire dagli ambienti
accademici e raggiungere il grande pubblico con il suo libro “Manifesto per la felicità - Come passare dalla
società del ben-avere a quella del ben-essere”, tradotto in molte lingue. Nel corso dell’incontro, il professore
ci spiega come sia nato in lui l’interesse per un filone di studi allora non così diffuso: cresciuto in un quartiere di
Firenze dove abbondavano circoli ricreativi e luoghi di aggregazione per anziani, l’autore ebbe la possibilità di
vedere personalmente gli effetti della chiusura di questi luoghi di socialità, sostituiti da più remunerativi locali
di alto livello, supermercati e parcheggi. Se attualmente non si può negare la maggiore prosperità economica
di quel quartiere, anche il malessere dei residenti è aumentato, arrivando in taluni casi a conseguenze
drammatiche. Partendo dall’osservazione di questo fenomeno, il professore desidera approfondire la
correlazione tra la ricchezza e la felicità, sospettando che la questione sia più complessa di quanto il senso
comune suggerirebbe con l’equazione “più soldi = più felicità”. Gli studi che il professore compie per elaborare
le sue teorie vengono svolti quasi interamente negli Stati Uniti d’America: anche se potrebbe sembrare una
scelta inspiegabile, alla base vi è in realtà una logica ineccepibile. Molti dei fenomeni studiati mostrano proprio
là il loro volto più severo e controproducente, in una società molto ricca che ha saputo reagire meglio di
chiunque altro alla crisi, ma al contempo decisamente infelice. Tuttavia non si tratta di tematiche limitate agli
USA: riguardano anche l’Europa, nelle ultime decadi impegnata in una costante “rincorsa” verso il paradigma
statunitense. Sapere cosa non abbia funzionato in una società diversa dalla nostra, ma che spesso viene elevata
a nostro modello, può essere decisivo nell’arrestare il processo di “americanizzazione” dell’Europa.
“Non è vero che i soldi non fanno la felicità”, asserisce Bartolini. Al crescere delle condizioni economiche, è
lecito attendersi che anche il benessere aumenti. Questo è vero a maggior ragione per quanto riguarda le classi
reddituali più deboli: si conferma dunque la naturale idea secondo cui sia molto improbabile potersi definire
felici in assenza dei mezzi di sostentamento basilari. È interessante però notare come nella parte di
popolazione più abbiente questa relazione venga decisamente meno: all’aumentare del reddito, non si
evidenziano più differenze significative negli indicatori di benessere. Guardando ai dati complessivi americani,
infatti, si nota un risultato sorprendente: negli ultimi cent’anni, negli Stati Uniti, a fronte di un enorme aumento
del PIL, la felicità è diminuita drasticamente. Ai fini di una corretta analisi è dunque importante individuare gli
altri fattori che incidono sul benessere.
“Manifesto per la felicità”: l’importanza delle relazioni
La tesi del professore, surrogata dai dati, è che la variabile più importante a influire sul benessere non sia
affatto quella economica, ma la qualità delle relazioni. Il crollo della felicità in America sarebbe dunque da
imputare a un declino relazionale senza precedenti. “Non è possibile stare bene da soli” è la tesi centrale del
discorso sulla felicità. Se una società perde il suo tessuto connettivo, finisce col lasciare i suoi membri in uno
stato di forte malessere e di paura. Tra le cause di questa individualizzazione, Bartolini indica l’evoluzione
delle città che ha marginalizzato gli spazi di socialità e ha reso difficile la viabilità pedonale, peraltro relegando
in casa le due categorie più fragili: gli anziani e i bambini. L’individualismo, poi, alimenta le paure. “L’altro” non
è più visto come una risorsa, ma come un pericolo: ecco venire meno, dunque, anche il bisogno associativo.
Una società basata sulla solitudine dei suoi membri, resi sospettosi e privi di fiducia reciproca, non può in alcun
modo essere idonea al prosperare della felicità: in compenso è una spinta formidabile per il consumismo.
Con questa teoria viene spiegata anche la prosperità economica americana. Man mano che le persone vedono
deteriorarsi il tessuto sociale di cui facevano parte, si vedono costrette a spendere molto denaro, per sostituire
con costosi beni privati ciò che fino a poco tempo prima era pubblico e gratuito. Così una città inquinata e
impraticabile costringe i suoi abitanti a cercare l’evasione con costose vacanze nei paradisi tropicali;
l’invivibilità della città relega le persone in casa, spingendole ad acquistare dispendiosi impianti di
intrattenimento per lenire questa solitudine. Se una volta le difficoltà di un anziano erano assorbite dal suo
quartiere, che si faceva carico di aiutarlo nelle incombenze quotidiane, adesso è necessaria l’assunzione di una
badante; anche l’infanzia diventa molto più onerosa, dovendo sostituire il gioco all’aria aperta, sano e gratuito,
con giocattoli tanto tecnologici quanto freddi e impersonali. Completa il quadro della sfiducia relazionale un
dato impressionante riguardante il mondo del lavoro: un americano su sei ha come mansione principale
quella di controllare il lavoro di altre persone. Un compito improduttivo ma indispensabile col venir meno
della fiducia. A soffiare sul fuoco di questo consumismo spasmodico ed eccessivo c’è poi la pubblicità, sempre
più invadente e sempre più indirizzata verso le fasce più giovani della popolazione, che rischiano di crescere
sostituendo i valori delle generazioni precedenti con un unico grande imperativo: acquistare per essere più
felici e per costruire la propria identità, ignorando invece di stare entrando in un tunnel di solitudine e di
infelicità.
L’unico motivo per cui, a fronte di questi dati, il modello americano potrebbe risultare ancora desiderabile è
quello relativo all’occupazione. Una società che consuma in modo incontrollato crea ovviamente molti posti di
lavoro. Non si dimentichi, però, che se le persone sono spinte a voler acquistare sempre di più necessitano di
una quantità di denaro sempre maggiore. Vorranno dunque lavorare più ore, e in ogni famiglia sarà sempre
maggiore il numero di persone in cerca di occupazione, aumentando di conseguenza la pressione sul mercato
del lavoro, col risultato di lasciare la situazione occupazionale invariata.
Le proposte
Una volta dipinto questo gelido quadro americano, è naturale pensare che nella nostra società le cose non
siano tanto drastiche: è vero, ma spesso guardiamo in quella direzione, e lo facciamo con un’inspiegabile
rassegnazione. Percorrere quella strada non è affatto inevitabile. È necessario acquisire consapevolezza del
fatto che a chiedere un cambiamento nello stile di vita non siano poche persone particolarmente idealiste, ma
milioni: in questo il ruolo del sindacato può essere davvero decisivo. Il fulcro del lavoro di Bartolini non è la
critica, ma l’aspetto propositivo: in particolare, l’autore propone di intervenire su lavoro, scuola, sanità,
organizzazione degli spazi urbani, media e democrazia. La lettura del libro può essere illuminante nello scoprire
nel dettaglio queste proposte, che per questioni di spazio non possono essere sviluppate adeguatamente.
Sollecitato dal pubblico sul tema del progresso, che apparentemente mal si concilia con le idee esposte, il
professore chiude il suo intervento proponendo una nuova concezione di progresso, che guardi in modo
realistico e obiettivo al benessere delle persone e non soltanto al loro portafoglio.
Dott.ssa Silvana Quadrino, psicologa e psicoterapeuta, cofondatrice di Slow Medicine.
L’intervento della dottoressa Quadrino contestualizza in una sfera ben precisa, quella della
sanità, molte delle idee espresse nel “Manifesto per la felicità”.
Secondo la dottoressa il consumismo ha trovato un terreno particolarmente fertile in tale
ambito. La paura come abbiamo visto è spesso il motore che spinge ad acquisti immotivati
ed eccessivi: non è difficile immaginare come tale sentimento possa essere diffuso
facilmente parlando di salute. Il consumismo esasperato sembra essere anche in questo
campo la risposta scelta dalla nostra società: in un contesto in cui la vita media si allunga ma
la salute non sembra migliorare vengono proposte soluzioni atte più a incrementare i consumi che il benessere.
Così vengono venduti più medicinali rispetto a quelli realmente necessari, e vengono prescritte ed effettuate
un gran numero di visite specialistiche inutili.
Per aumentare i consumi si assiste alla vera e propria creazione ad arte di nuove malattie. La dottoressa porta
l’esempio della “Depressione da lutto” che può venire diagnosticata a chi dopo la morte di una persona cara
non ha saputo riprendere la sua normale esistenza dopo un lasso di tempo arbitrariamente definito adeguato;
anche la cellulite in un noto spot pubblicitario assurge all’inedito status di “malattia”. Laddove non è possibile
introdurre nuovi malanni, spesso si agisce su un’altra leva: vengono alterati i parametri di normalità degli
esami, per fare apparire anomalo ciò che fino a poco tempo prima era perfettamente nella norma. A tutto ciò si
aggiunge la forte diffusione della sfiducia verso i medici, che vengono spesso accusati di non avere ottemperato
al loro dovere qualora non abbiano prescritto gli esami e i medicinali ritenuti adeguati dal paziente, poco
importa se inutili o sproporzionati ai sintomi. Rispondendo all’intervento di un partecipante, Quadrino spiega
che la sua non vuole essere una crociata contro la prevenzione, che è anzi molto importante: tuttavia, è
necessario ristabilire un giusto equilibrio e diffondere la consapevolezza che “fare di più non vuole dire fare
meglio”. Proprio questo è uno degli slogan dell’associazione Slow Medicine, che si propone di diffondere una
medicina che sappia conformarsi a tre parole chiave: sobria, rispettosa e giusta. Sobria, perché ogni cittadino
ha diritto alle cure di cui ha bisogno: niente di più e niente di meno, anche per evitare la creazione di liste
d’attesa infinite. Rispettosa, perché fondata su un sano rapporto di cura e di fiducia instaurato tra medico e
paziente. Giusta, infine, perché aperta a tutti senza esclusioni.
Dott.ssa Deborah Lucchetti, presidente FAIR, portavoce della campagna Abiti Puliti.
La società dei consumi occidentale ha risvolti spesso terribili sui paesi del terzo mondo e su
quelli definiti “emergenti”. Le multinazionali e sempre più spesso anche le aziende di medie
dimensioni attuano delocalizzazioni, cercando nei nuovi mercati la loro forza lavoro: dietro ai
costi ridotti, però, si nascondono situazioni di vero e proprio schiavismo. Un confronto
quotidiano con ONG e sindacati di questi paesi, in cui lo sfruttamento è la norma, non fa che
confermare quanto detto dal prof. Bartolini: laddove c’è meno ricchezza, spesso fioriscono
sani rapporti associativi. A questi gruppi locali di difesa dei lavoratori mancano però risorse
ed esperienza: per questo è necessario che si operi una forte sensibilizzazione su queste tematiche anche nei
paesi del “primo mondo”, per creare una sinergia che porti beneficio ad entrambe le parti. Infatti, come
abbiamo visto, l’eccesso di consumi è deleterio anche per i paesi che ne beneficiano. I casi presentati dalla
dott.ssa Lucchetti sono parte della quotidianità di molte persone: il cibo spazzatura, per esempio, che si
sostituisce ad una sana alimentazione con risvolti inquietanti sulla salute. Spesso anche i capi di abbigliamento
prodotti in paesi che fondano il successo delle loro esportazioni su prezzi molto concorrenziali possono
risultare estremamente dannosi. Su alcuni capi sono stati individuati fino a settemila additivi chimici;
addirittura i vestiti per i bambini non sono estranei a questa tendenza, presentando in alcuni casi elementi
cancerogeni. Proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa tematica spesso sottovalutata e per
sostenere i diritti dei lavoratori nell’industria tessile globale nasce la campagna “Abiti Puliti”, ramo italiano
della Clean Clothes Campaign.
La relatrice, forte di una ricca esperienza sindacale, individua tre linee guida che il sindacato dovrebbe
abbracciare per farsi vero sostenitore dei diritti dei suoi associati e per contribuire a sgretolare un’idea di
progresso fondata in modo fallace sul solo pilastro della crescita economica: si dovrebbe tentare di ridurre la
sfera di influenza dell’onnipresente economia, ricercando invece una sobrietà felice. Inoltre, si dovrebbe
insistere per la creazione di spazi comuni all’interno delle città. Infine, sarebbe necessario aiutare gli iscritti a
riscoprire il valore della sfera politica, spesso sporcata da scandali e ingiustizie. Particolarmente accorato è
l’appello ai pensionati, portatori di una grande e preziosa conoscenza, in campo sindacale e non. “Non
lasciateci soli, non privateci della vostra esperienza”.
Patrizia Volponi, Segreteria FNP Cisl Nazionale
L’intervento della Segretaria Patrizia Volponi inizia con una riflessione dai toni
agrodolci: ci vuole coraggio, oggi, per parlare di felicità. In un momento di crisi e
di difficoltà, è più facile ancorarsi a tematiche consolidate quali la crescita e il
benessere economico, ma questo non esaurisce certo la sfera dei bisogni dei
nostri associati.
Il discorso relativo alla felicità non è certo nuovo: già nel terzo secolo a.C.,
Epicuro la mette al centro della sua opera. Il filosofo indica una strada quanto
mai attuale per perseguire una vita soddisfacente: “Non è possibile vivere felici
se non si vive con saggezza, onore e giustizia. Né vivere con saggezza, onore e giustizia senza essere
felici”. E’ dunque la rettitudine morale a condurre alla felicità: la solidità economica può essere senza
dubbio una base, ma da sola non può essere sufficiente.
Un’altra citazione, più vicina nel tempo e nello spazio, è quella di una poesia di Trilussa: “C’è un’ape
che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e ne va… Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa”.
Spesso c’è un forte interesse economico nel volerci soli e tristi: più ci abbandoniamo alla solitudine,
più spendiamo, spesso malamente, creando un’economia insostenibile. Ma è necessario ritrovare la
felicità anche nelle piccole cose di ogni giorno, per poter guardare alla nostra società con ottimismo e
fiducia.
Una parola va ripudiata a tutti i costi, un termine che ci fa male come Cisl e come cittadini:
“Rassegnazione”. L’autocritica è importante, anche perché permette di imparare dai propri errori, ma
è altrettanto fondamentale ricordare sempre che siamo una grande forza, che non deve essere
vittima delle proprie paure.
La segretaria ricorda i due tavoli di dibattito aperti con il governo: quello su fisco e previdenza e quello
sulle politiche sociali. In entrambi devono poter entrare le tematiche affrontate nel corso del
seminario.
Nella conclusione dell’intervento, ci viene ricordato come l’ideogramma cinese che rappresenta la
parola “crisi” identifichi anche la parola “opportunità”: è dunque necessario fare risplendere la
speranza e non avere paura di interrogarci, parlando ai nostri associati, non solo sui loro redditi ma
anche sulla loro felicità.
Per chi lo desiderasse, è possibile
approfondire i temi trattati nel seminario
con la lettura dei libri “Manifesto per la
Felicità”, di Stefano Bartolini (edito da
Donzelli e in seguito ripubblicato da
Feltrinelli) e “Slow Medicine”, di Giorgio
Bert, Andrea Gardini e Silvana Quadrino
(edito da Sperling & Kupfer).
Stefano Bartolini
www.econ-pol.unisi.it/bartolini
Slow Medicine
www.slowmedicine.it
Abiti Puliti
www.abitipuliti.org
Report a cura di Paolo Arnolfo, Fnp Piemonte
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