ACLI TRENTINE - PRESIDENZA PROVINCIALE LE ACLI E LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA Lo statuto delle ACLI alla luce della DSC Primo incontro di don Rodolfo Pizzolli Articolo 1 dello Statuto delle ACLI «Le Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani (ACLI) fondano sul Messaggio Evangelico e sull'insegnamento della Chiesa la loro azione per la promozione dei lavoratori e operano per una società in cui sia assicurato, secondo democrazia e giustizia, lo sviluppo integrale di ogni persona». Ci sembra importante spiegare che l’approccio alla DSC che ha questo corso è stato scelto in base agli articolo dello statuto delle ACLI (in quanto si poteva iniziare a parlare della DSC dal molte altre angolature). Tale approccio ci è sembrato più corrispondente alle esigenze di chi avrebbe frequentato questo percorso: per gli aclisti di approfondire la conoscenza del movimento a cui sono iscritti e per coloro che non conoscono le ACLI di averne un’idea. Naturalmente non si può capire il significato delle ACLI, e quindi non solo del suo statuto, se non si conosce la DSC. 1. Introduzione: un po’ di storia Ci sembra molto importante all’inizio di questo nostro semplice, ma comunque importante, corso, ribadire il motivo che ha portato al sorgere delle ACLI. Per rinfrescare la memoria di chi è aclista da lunga data e per chi tra i presenti non ha mai avuto un approccio alle ACLI, ma è qui perché interessato alla DSC. Dobbiamo ritornare al momento in cui il fascismo decide di entrare in guerra a fianco del Terzo Reich. La sensazione ( una certezza più che una speranza) negli antifascisti è che per il regime di Mussolini è iniziata la fine. Per questo coloro che facevano parte del sciolto Partito popolare hanno deciso di rischiare e cominciare a ritrovarsi, nella clandestinità, per essere pronti a ritornare sulla scena politica appena il Partito fascista fosse caduto. Si sa che «almeno dal novembre del 1941 De Gasperi intensificò gli incontri con un gruppo di ex-popolari che avevano resistito alle lusinghe del regime»1. Anche I. Giordani ci conferma questo quando scrive, a riguardo dell’anno 1943, che egli incontrò in «quei mesi, De Gasperi, Cadorna, Bonomi e Spataro e altri illustri antifascisti nelle case di Mons. Barbieri e di Spataro e altrove; e partecipai e promossi raduni nello scantinato della parrocchia concorrendo modestamente a preparare il clima politico nuovo, o almeno la libertà»2. Il politico trentino cercò anche di coinvolgere nuove leve formatesi nella FUCI, nel movimento laureati dell’Azione cattolica e alcuni docenti dell’università cattolica di Milano. Nacque subito la preoccupazione di riuscire a coniugare coloro che avevano vissuto l’esperienza del Partito Popolare con le nuove leve: il confronto fu lungo, anche sulla denominazione del nuovo partito e, alla fine, si scelse il nome di Democrazia cristiana, riprendendo la definizione che alcuni cattolici democratici si erano dati all’inizio del Novecento. Oltre all’aspetto politico si mossero anche le parti sindacali. «Già dal 1944 si progettò un’unità sindacale. Era il 12 giugno del 1944 e Achille Grandi, a nome della Democrazia Cristiana, Giuseppe di Vittorio per il Partito Comunista e Emilio Canevari per il Partito Socialista ponevano le basi per un esperimento di sindacato unitario. Il protocollo del Patto di Roma conteneva altresì un allegato, voluto fortemente da Grandi, nel quale si affermava la possibilità che, oltre al sindacato, i lavoratori potessero organizzarsi “in associazioni libere e private per scopi educativi, politici, assistenziali e ricreativi, ed in altre opere di carattere cooperativo e professionale”. In quelle poche righe dell’art. 5 dell’allegato al Patto di Roma c’era già il DNA delle ACLI. Attingendo, in particolare, sulla ricostruzione che ci offre Mons. Luigi Civardi, primo assistente ecclesiastico centrale delle Acli, apprendiamo che è nel 1 A. CANAVERO, A. CANAVERO, Alcide De Gasperi. Cristiano, democratico, europeo, Soveria Mannelli 2003., p. 57. 2 I. GIORDANI, Memorie di un cristiano ingenuo, Roma 19943, p. 102. 2 Convento di Santa Maria sopra Minerva che, dal 26 al 28 agosto 1944, si tenne (nel Salone dei Domenicani) il convegno che poi apparirà come “l’atto costitutivo delle Acli nella loro vera fisionomia”. Infatti, in questo convegno, presieduto da Achille Grandi, fu tracciato il cammino delle Acli, si deliberò di compilare uno statuto provvisorio, di cui fu incaricato Vittorino Veronese, e venne inoltre nominata una Commissione Centrale, provvisoria, composta da Achille Grandi, Vittorino Veronese, Giulio Pastore, Ludovico Montini (fratello del futuro Paolo VI), Paolo Pandimiglio, Ugo Strinati, Maria Federici, (la prima donna che contribuisce alla fondazione delle Acli) come delegata nazionale per le lavoratrici, ai quali si aggiungerà presto Roberto Cuzzanti. In una lettera che il Cardinale Luigi Lavitrano inviò a tutti i vescovi d’Italia, nell’ottobre 1944, come Presidente della Commissione cardinalizia per l’alta direzione dell’ACI, si afferma esplicitamente che: “Le associazioni cristiane dei lavoratori italiani riguardano i lavoratori delle varie categorie dell’agricoltura, dell’artigianato, dell’industria e del commercio e rispondono al duplice scopo di educare i lavoratori stessi alla franca professione della fede nella vita sociale e di curare quindi che la loro partecipazione nel sindacato unitario sia veramente proficua al bene comune”. Sono indipendenti da ogni partito politico e, benché sorgano sotto gli auspici dell’Azione Cattolica sono autonome, vengono rette con ordinamento proprio e svolgono la loro attività sotto la responsabilità dei propri organi direttivi. Sono aperte a tutti. Essendo loro fine principale la formazione cristiana delle coscienze dei lavoratori e la loro preparazione alla vita sociale, queste associazioni saranno assistite in modo speciale dai sacerdoti, che ne dovranno essere l’anima”. Sarà poi Pio XII che approverà lo statuto delle Acli come associazioni autonome e democratiche e le definirà nel suo primo incontro che ebbe con le Acli dell’Italia liberata “cellule dell’apostolato cristiano moderno”. Se l’idea delle ACLI nacque nella mente e nel cuore di Achille Grandi, il nome invece è un invenzione di Vittorino Veronese, Presidente dell’ICAS (Istituto Cattolico di Attività Sociali), anche lui presente all’incontro fondativo del 26 Agosto e componente della prima Commissione centrale provvisoria nominata proprio in quei giorni. L’acronimo – che sciolto rinvia ad Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani – contiene almeno due elementi fortemente innovativi ed originali. Il primo, la “A”, va letta al plurale e non al singolare come spesso avviene nella vulgata popolare. Perché quel plurale? Perché lo statuto prevedeva che, sotto la bandiera della medesima organizzazione, vi fosse una pluralità di forme associative: circoli, nuclei aziendali, società cooperative, sportive, teatrali, associazioni di categoria. Il secondo elemento originale è la “C” da leggere non come “cattoliche” ma “cristiane”. Per quegli anni era una scelta anomala che rinviava alle esperienze di Paesi quali la Germania e il Belgio dove le associazioni operaie si chiamavano già “cristiane” e non “cattoliche” perché quelle società erano pluriconfessionali. Tale scelta venne approvata da Pio XII, che essendo stato Nunzio Apostolico della Santa Sede in Germania, comprendeva la necessità di un’identità capace di unire e non di dividere. La terza lettera, la “L”, è la tutela e la promozione delle persone che lavorano. La “L” contiene, oggi, una sfida ancora più radicale: come riuscire ad organizzare la solidarietà di fronte a lavoratori e lavoratrici che vivono condizioni di lavoro ed esprimono attese molto più diversificate, spesso individualizzate» (tratto dal sito www.acli.it). 2.La Parola di Oggi Dal Libro dell’Esodo (20,1-17) Dio allora pronunciò tutte queste parole: Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi. Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano. Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei 3 giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro. Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio. Non uccidere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. 1 Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo" Parola di Dio Dieci parole che cambiano un’esperienza drammatica: quella della schiavitù in Egitto. Esse, donate durante il cammino di liberazione (Esodo), diventano un progetto di libertà, per non ricreare un altro Egitto. Le dieci parole sono gli atteggiamenti, le scelte che uno attua nel contesto grande dell’Alleanza tra Dio e lui stesso; infatti «i dieci comandamenti appartengono alla rivelazione di Dio. Al tempo stesso ci insegnano la vera umanità dell'uomo. Mettono in luce i doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti fondamentali inerenti alla natura della persona umana» (CCC 2070). a. Un significato particolare deriva dal fatto che i comandamenti sono preceduti dalla autopresentazione di JHWH. Le varie norme contenute nella Bibbia non sono né presentate né interpretate come il frutto di un’etica razionale, ma sono comprese nella loro profonda ed essenziale connessione con l’esperienza di JHWH. In altri termini, esse suppongono una comunità che ha l’esperienza di Dio e vive nella luce della sua manifestazione: il Sinai è al centro della Tôrâh. Ciò porta a comprendere che i vari orientamenti e valori, che possono svilupparsi in una dottrina sociale della Chiesa, non devono essere ritenuti semplicemente come espressione di un’etica razionale. Essi maturano all’interno di quel rapporto salvifico con Dio, che è caratterizzato dalla fede nel Signore risorto, e scaturiscono da questa esperienza salvifica con Dio. Se leggiamo Dt 12-26 si constata che tutte le norme, comprese quelle più concrete che strutturavano la società di allora, sono viste all’interno di questo rapporto e, quindi, come conseguenza a di una parola che la comunità ha accolto e porta nella propria storia, perché JWHW si è manifestato. La DSC non è solo sociologia, filosofia sociale , ma “teologia”, in quanto gli aspetti storico-esistenziali della vita sociale dell’uomo non sono esterni, ma interni alla comprensione della fede3. b. Il prologo storico, con il richiamo dell’intervento del Signore che libera dalla schiavitù, mostra che i vari orientamenti, che Israele assume nel cammino della propria tradizione, si configurano come una conseguenza dell’esodo. Effettivamente nell’orizzonte teologico della Torah, l’intervento salvifico di Dio è compreso con la categoria dell’esodo, che è essenzialmente caratterizzato dal dono della liberazione e da un intinerario proiettato verso la pienezza della libertà, nella maturazione della coscienza della propria identità e nell’assunzione dei valori della giustizia e della solidarietà. Ciò ha delle conseguenze fondamentali sulla 3 La Chiesa, in questa prospettiva, non ha solo il diritto, ma anche il dovere di sviluppare una comprensione teologica della dimensione sociale dell’esistenza umana. Probabilmente per la DSC è successo quanto si è verificato anche nel campo della teologia delle religioni. Il magistero ha dovuto intervenire d’urgenza per evitare determinate deviazioni dai valori specifici della fede cristiana, prima ancora che la riflessione teologica avesse potuto sviluppare una comprensione globale delle religioni alla luce della Parola di Dio. Analogamente nella comprensione teologica dell’azione sociale è fondamentale sviluppare una riflessione globale che non si accontenti della citazione di alcuni testi biblici, presi isolatamente, ma promuova una riflessione che si muove nell’orizzonte della teologia biblica a partire dal nucleo fondamentale che è l’automanifestazione di Dio: “io sono JWHW”. 4 riflessione della DSC. Il vivere sociale è essenzialmente formato e plasmato dal motivo della liberazione e dell’esodo. Non ci può essere una dottrina sociale che non parta dall’esodo e non conduca ad una nuova comprensione dell’esodo salvifico di Dio. La DSC, che illumina l’azione della Chiesa stessa, sia al suo interno sia nel suo con-vivere con le altre religioni sia nel suo interagire con tutta la società, sviluppa la propria virtualità e capacità di attualizzazione se si muove nell’orizzonte biblico dell’esodo e, quindi, nella prospettiva dinamica della liberazione. Là dove non si mira alla liberazione e alla promozione umana non si hanno un’azione e un pensiero realmente ispirati dalla Scrittura. Ciò che è connesso con il vivere sociale dell’uomo, nella giustizia e nella solidarietà, trova nella categoria biblica dell’esodo le coordinate teologiche che ne assicurano uno sviluppo autentico, coerente, profetico, libero da quelle strumentalizzazioni e mistificazioni totalitario-demagogiche che, per la comunità credente, sono totalmente antitetiche alla Parola di Dio. Per il popolo del Signore l’esodo è la categoria fondamentale in cui si scopre la presenza e l’agire di Dio all’interno della storia. In questa visuale appare che la Chiesa realizza la propria missione profetica nel mondo quando sviluppa la propria autocoscienza nutrendo costantemente la propria fede con la Scrittura. Anche la distinzione tra comandamento fondamentale e leggi particolari, appare teologicamente feconda per la comprensione teologico-biblica dell’azione sociale della Chiesa. Infatti l’agire sociale e il servizio verso i fratelli attingono la loro energia e il fondamento della propria autenticità se hanno come fondamento, in chi li pratica, la fede in Dio e l’orientamento del credenteoverso di lui. L’azione sociale e conseguentemente la DSC, non sono riducibili a una generica “filantropia”, ma scaturiscono e trovano la loro energia esistenziale dall’esperienza “profetica” dell’amore di Dio e il loro statuto epistemologico dalla comprensione biblica del Dio dell’esodo e dell’alleanza. Nella prospettiva della fede, che si nutre della Scrittura, non è possibile un orientamento autentico verso Dio che non abbia il suo risvolto in un simultaneo ed autentico orientamento verso l’uomo e le sue necessità. Una chiesa che chiudesse gli occhi davanti alle ingiustizie del mondo non sarebbe più fedele al Dio dell’Esodo, perderebbe l’autenticità del suo stesso essere da Dio e di Dio. c. Infine, l’elemento della benedizione e della maledizione, caratteristico nel formulario dell’alleanza, offre un apporto illuminante. Esso permette anzitutto alla comunità cristiana di comprendere il significato della sua esperienza di fede per la quale i battezzati sono nella benedizione di Dio e, quindi, nella salvezza che consiste nel partecipare alla risurrezione del Cristo (cf. Ef 1,3ss.). Al tempo stesso da questo elemento si evince la responsabilità dei singoli battezzati e della Chiesa in quanto comunità pasquale della salvezza di Dio nel Cristo risorto. La comunità è chiamata a compiere delle scelte dalla quale dipende o la vita o la morte, un futuro di libertà o di oppressione, di giustizia o di ingiustizia, di promozione umana o di strumentalizzazione dell’uomo. Dio chiama sempre alla vita, ma l’uomo potrebbe chiudersi all’ascolto e scegliere la morte ponendosi fuori della salvezza di Dio. Si sceglie la vita se si sceglie di amare il fratello in un atteggiamento autentico di responsabilità grazie al quale l’uomo vive nella ricerca di una costante sintonia profetica con il disegno di Dio, in un cammino di fraternità, di giustizia e solidarietà. Certo, Israele e la Chiesa non sono gli unici soggetti all’interno della storia umana. Entrambi, però, sono chiamati – ciascuno nella specificità della propria tradizionedi fede - ad un discernimento e a una coerenza che li renda, in mezzo ai popoli, testimoni di una cultura della vita e della dignità umana, testimoni della benedizione di Dio sulla terra. 5 2. La Parola nell’esperienza di un Popolo Per un’azione sociale che nasca dall’esperienza biblica, dobbiamo cogliere le linee profonde di riflessione e di pensiero che la Scrittura e il Nuovo Testamento contengono, quale frutto maturo e sostanzioso di un processo vivo della tradizione sviluppasi, ininterrottamente, nella plurisecolare storia di Israele e nel tempo della nascita e diffusione della Chiesa, come è presupposto dall'insieme del Nuovo Testamento stesso. La Parola di Dio nella Scrittura è compresa come la luce che risplende nel cammino del popolo di JHWH: luce di sapienza che dà conoscenza e che rappresenta il valore supremo che l'uomo possa sperimentare sulla terra. Questa visuale, si incontra formulata con straordinaria profondità e arditezza di pensiero in Dt 4, 5-8, 5 Vedete, io vi ho insegnato leggi e norme come il Signore mio Dio mi ha ordinato, perché le mettiate in pratica nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso. 6 Le osserverete dunque e le metterete in pratica perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente. 7 Infatti qual grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? 8 E qual grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi espongo? 9 Ma guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita. Le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli. Un brano che riflette la strategia sviluppata dalle guide spirituali e sapienziali per tutelare la fede degli Israeliti, quando questa si trovò seriamente minacciata dall'impatto con il mondo culturale e religioso di Babilonia. In questo testo appare chiara la forza straordinaria di (ri)generazione del popolo di Israele, forza che si manifesta nella consapevolezza che la sua identità non è determinata dallo "status" socio-politico, ma unicamente dalla Parola di JHWH. Proprio questa Parola secondo il testo citato, è la sorgente della sapienza che rende Israele ammirato e stimato tra le nazioni. La Parola di Dio porta in sé un’istanza profetica. Ciò significa che la Parola si manifesta e si sviluppa anzitutto con la vita e nella vita. Il profeta, infatti, è colui che è raggiunto dall'esperienza del Signore in modo che tutta la sua vita rimane determinata da questa esperienza e aperta a ulteriori esperienze che JHWH gli comunica perché sia messaggero della Parola in mezzo al suo popolo. Nella luce di questa esperienza il profeta percepisce il disegno di Dio per il popolo di JHWH e per tutte le genti, un disegno che raggiunge la dimensione sociale, politica culturale e religiosa dell'uomo. La dimensione profetica della Parola sottende precisamente l'esigenza nel credente dell'apertura interiore all'esperienza di Dio mediante la fede e, al tempo stesso, la necessità che la Parola della Bibbia sia compresa nella globalità del suo significato e dunque come Parola che investe non solo l'ambito esistenziale e comunitario, ma anche quello sociale nella pluralità delle sue espressioni e nel discernimento delle potenzialità autenticamente positive. La parola ha dentro di sé la luce, un progetto per il rinnovamento di una società e dei rapporti sociali delle persone. 2.2. L’azione sociale alla luce dell’Alleanza Per la teologia biblica dell’alleanza è fondamentale il testo di Es 24, 3-8 “Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose insieme e disse: «Tutti i comandi che ha dati il Signore, noi li eseguiremo!». Mosè scrisse tutte le parole del Signore, poi si alzò di buon mattino e costruì un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d'Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l'altra metà 6 sull'altare. Quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo ascolteremo!». Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!». Due sono gli elementi che caratterizzano l’alleanza secondo la pericope citata di Es 24: a. la comunione di vita, tra JHWH e la comunità, Israele. In virtù di questa comunione Israele è unito a Dio, forma la famiglia di Dio. A sua volta, questa comunione con JHWH (dimensione verticale) è sorgente di comunione all’interno del popolo (dimensione orizzontale). b. l’impegno a camminare nelle vie di Dio e ad adempiere la sua Parola. L’alleanza è comunione di vita e, proprio per questa sua caratteristica essenziale, esige un impegno totale. Si tratta di due orientamenti fondamentali per la realizzazione dell’alleanza. Tutte le norme, gli orientamenti che nella Torah riguardano la vita sociale, comunitaria, costituiscono il contenuto dell’impegno che Israele è chiamato a rinnovare, per vivere nell’alleanza, cioè per vivere nella comunione con il suo Dio. Le norme per vivere nella giustizia non sono accessorie né secondarie, ma entrano nella struttura centrale dell’alleanza, rappresentano l’assunzione di un impegno che è condizione indispensabile perché si realizzi la comunione di vita tra YHWH ed Israele. Una profonda conoscenza della teologia dell’alleanza è necessaria se si vuole sviluppare una teologia biblica dell’azione sociale. L’azione sociale non è solo il contenuto di una concezione etica, morale. Essa a livello biblico è il contenuto dell’esperienza della fede che si autocomprende come alleanza con Dio: un’esperienza di fede che ha al suo centro la consapevolezza che la comunione con il Dio dell’esodo si esplicita e si invera nella comunione con i fratelli, nella realizzazione di una vita comunitaria e sociale improntata all’apertura e all’accoglienza nella solidarietà e nella giustizia. L’azione sociale della Chiesa non è qualcosa di marginale, ma essa diventa la comunità di coloro che nella partecipazione alla resurrezione di Cristo, testimoniano un’umanità che si costruisce sulla fraternità reale, fondata sul rispetto della dignità insita in ogni uomo immagine di Dio. L’azione sociale della Chiesa non è un aspetto marginale o di qualche tempo particolare, ma è un valore permanente. 3. L’insegnamento della Chiesa Non ci addentriamo qui sul significato del Magistero né sul significato e grado di normatività. Quello che ci interessa è capire perché le ACLI basano sull’insegnamento della Chiesa la loro azione, oltre alla Parola di Dio. Questo è importante da capire perché probabilmente anche noi respiriamo quell’aria di diffidenza verso la Chiesa, che del resto non è nuova. Dobbiamo cogliere con sincerità che è grazie alla Chiesa che noi ora possediamo qualle Parola biblica che tanto ci piace. La Chiesa è inoltre quella realtà dove possiamo confrontarci con prsone che pensano, meditono e pregano per potere discernere nelle circostanze attuali e in questo mondo che cambia la volontà di Dio. Essere nella Chiesa significa poggiare su di una garanzia di autenticità deel’attualizzazione della Parola e di poter camminare nel suo progetto. Interessante mi pare la riflessione contenuta nel patto associativo dove leggiamo che La fedeltà alla Chiesa è un elemento generativo delle Acli. Per questo la rigenerazione delle Acli è affidata alla nostra capacità di mettere al centro del nostro essere e del nostro fare la vita cristiana, ossia la fede nel Dio trinitario, nella Verità rivelata del Mistero pasquale da testimoniare nel quotidiano impegno sociale. In questo modo le Acli vogliono rendere più coerente e visibile il passaggio dall'ispirazione cristiana alla "vita cristiana", in comunione con la Chiesa universale, nella convinzione che soltanto il Vangelo fa nuove le Acli. 7 L’insegnamento della Chiesa, anche per le ACLI, è la base su cui poter costruire il proprio impegno per il bene delle persone. 3.1 Chi è la Chiesa e cosa deve fare E’ bene ora qualche semplice accenno alla missione della Chiesa. Essa il compito principale di continuare a far udire la parola del Cristo e di celebrare i misteri della salvezza. Per questo all’interno della Chiesa ci si è sempre chiesti cosa significasse essere cristiani. Proponiamo qui qualche passo della famosa “lettera a Diogneto” che rigurdano il vivere in una società: ci sono delle riflessioni significative su come i credenti in Cristo si concepivano rispetto alla realtà del mondo. Per il nostro discorso risulta bello il capitolo quinto dove leggiamo che: Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 4. Dalla rivelazione della scrittura la Chiesa di comprende come comunità che ha la vocazione ad essere sale del mondo e luce della terra (cfr. Mt 5,13); deve anche essere lievito (cfr. Mt 13,33) in questa pasta che è la storia dell’umanità. La Chiesa, comunità di coloro che sono convocati da Gesù Cristo Risorto e si mettono alla Sua sequela, è «segno e tutela della trascendenza della persona umana ». Essa « è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (LG, n. 1) La missione della Chiesa è quella di annunciare e comunicare la salvezza realizzata in Gesù Cristo, che Egli chiama «Regno di Dio » (Mc 1,15), cioè la comunione con Dio e tra gli uomini. Il fine della salvezza, il Regno di Dio, abbraccia tutti gli uomini e si realizzerà pienamente oltre la storia, in Dio. La Chiesa ha ricevuto « la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il Regno di Cristo e di Dio, e di questo Regno costituisce sulla terra il germe e l'inizio» (LG, n. 56) (CDSC, n. 49). All'identità e alla missione della Chiesa nel mondo, secondo il progetto di Dio realizzato in Cristo, corrisponde «una finalità salvifica ed escatologica, che non può essere raggiunta pienamente se non nel mondo futuro» (GS, n. 40). Proprio per questo, la Chiesa offre un contributo originale e insostituibile con la sollecitudine che la spinge a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia e a porsi come baluardo contro ogni tentazione totalitaristica, additando all'uomo la sua integrale e definitiva vocazione (CCC, n. 2244) » (CDSC, n. 51) La trasformazione dei rapporti sociali rispondente alle esigenze del Regno di Dio non è stabilita nelle sue determinazioni concrete una volta per tutte. Si tratta, piuttosto, di un compito affidato alla comunità cristiana, che lo deve elaborare e realizzare attraverso la riflessione e la prassi ispirate dal Vangelo. È lo stesso Spirito del Signore, che conduce il popolo di Dio e insieme riempie l'universo (GS, n. 11) a ispirare, di tempo in tempo, soluzioni nuove e attuali alla responsabile creatività degli uomini (OA, n. 37) alla comunità dei cristiani inserita nel mondo e nella storia e perciò aperta al dialogo con tutte le persone di buona volontà, nella comune ricerca dei germi di verità e di libertà disseminati nel vasto campo dell'umanità. La dinamica di tale rinnovamento va ancorata ai principi immutabili della legge naturale, impressa da Dio Creatore in ogni Sua creatura (cfr. Rm 2,14-15) e illuminata escatologicamente tramite Gesù Cristo (CDSC, n. 53) L’insegnamento della Chiesa ha dentro di sé una certezza che nasce dalla possibilità che ha la Chiesa stessa di essere in ascolto di Dio, di lasciarsi illuminare dalla sapienza dello Spirito. Nella sua missione essa deve essere prima di tutto in ascolto. Ma ogni battezzato ha dentro di sé la possibilità di essere corresponsabile all’edificazione della Chiesa, anche con un contributo teologico, soprattutto per quanto riguarda la DSC. Infatti noi normalmente vediamo in essa un magistero sociale ed una teologia sociale. 8 4. Uno sviluppo integrale di ogni persona. Questo obiettivo non è semplice, ma è indispensabile da avere presente. Due elementi fondamentali si pongono in una relazione complementare: il concetto di persona e la sua visione integrale. La DSC ha una concezione piena di speranza dell’uomo: essa lo vede capace di Bene, vero e trascendente. La persona ha dentro di sé un’innata capacità di aspirare e realizzare il bene ed il vero; questo perché è capace di trascendenza, cioè di aprirsi a Dio e agli altri. Questa è una visione, a mio avviso, realistica e non ottimistica. L’uomo è si “ferito dal peccato”, ma rimangono dentro di lui quelle dimensioni che lo fanno riconoscere come “creato ad immagine di Dio” (Gen 1,27). Il dramma di fondo dell’umanità è stato quello di non essere riuscita a cogliere una chiara concezione della persona, a non vederla in modo integrale, ma riduttivo. La prima sfida l’ha affrontata proprio la Bibbia, quando si è dovuta trovare di fronte al potere imperiale che arrogava a se solamente l’esser un dio in terra e addirittura l’esser fatto a immagine di dio. Il particolare viene contrastata la pretesa del re assiro di essere l’unico re al quale si doveva un giuramento di fedeltà; tradirlo significava andare contro la stessa divinità. La Bibbia dice che solo il Signore regna in eterno (cfr. Es 15, 1-18) e che solo a Lui si deve la fedeltà. In Genesi 1 quando Dio dice facciamo l’uomo a nostra immagine si sottolinea che l’uomo, e non solo il re, è a somiglianza di Dio; per cui in Deuteronomio abbiamo chiara l’idea che tutti gli uomini hanno la stessa dignità e non c’è nessun uomo che abbia la sua somiglianza con Dio basata su una funzione; la somiglianza con Dio è legata con il suo essere uomo. Possiamo dire che tutta questa visone si svilupperà poi nella tradizione di Israele, ad esempio nell’idea di una salvezza futura, dove tutte le genti andranno in pellegrinaggio al monte di Sion per ricevere la Torah. Ma si sale al monte di Dio perché è Egli ad indicarci le sue vie: abbiamo qui una liberazione da ogni sistema totalitario ed oppressivo: si trasformeranno gli strumenti di guerra in strumenti agricoli e non si imparerà più “l’arte” (disciplina) della guerra (cfr Is 2,2-5) ed ricordiamo pure l’immagine del banchetto per tutti i popoli al quale tutta l’umanità è chiamata (cfr Is 25, 6 ss). Notiamo che nel Deuteronomio abbiamo lo sviluppo di elementi preesistenti che vengono redatti in modo sistematico in una visione di fede che sottrae il credente a qualunque legittimazione di sostenere una potenza totalitaria. Possiamo concludere rilevando che in questa orizzonte biblico la fede si presenta come esperienza vitale dell’amore di Dio e conseguente risposta di fedeltà totale ed esclusiva a Lui. In Osea 14 si mette in bocca alla comunità una formula con la quale essa rinnova l’impegno della propria conversione e fedeltà al Signore. Questo testo recente recita: «Assur non ci salverà, non cavalcheremo più su cavalli, né chiameremo più dio nostro l’opera delle nostre mani, poiché presso di te l’orfano trova tenerezza. Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò di vero cuore, poiché la mia ira si è allontanata da loro» (Os 14, 4-5). Nell’orizzonte biblico si sviluppa la cultura della pace e della giustizia e ciò appare come la confluenza dell’orizzonte teologico ed antropologico. Infatti nella visione di fede JHWH è l’unico Signore e salvatore; nella prospettiva antropologica ogni uomo è creato ad immagine di Dio e quindi ciascuno ha la dignità regale. La conseguenza dell’unità di questi due aspetti e che l’umanità può vivere nella pace, che nessuna forma di potere può violare la libertà dell’uomo e nessuna forma di ingiustizia possa violare la dignità dell’uomo. Questo impegno ha animato anche la storia della Chiesa; ma anche la storia ha posto questa sfida alla Chiesa. Pensiamo ad alcune sfide: a) la concezione della persona davanti alla filosofia greca 9 b) dopo la scoperta dell’America e la nascita del colonialismo - visione della prima unità didattica su DVD, Diritti unami e sviluppo in A. M. Baggio, Economia e civiltà secondo la dottrina sociale della Chiesa, Citta Nuova, Roma 2005. c) davanti alla formazione degli stati con il loro concetto della sovranità Per il punto primo basta dire che il cristianesimo introdusse la dignità di tutte le persone, che non dipendeva più da circostanze estrinseche, da cose, status che uno possedeva esternamente (filosofo, nobile, ruolo di potere oppure cittadino romano). Inoltre vide la persona come capace di responsabilità, libertà di scelta, capace di relazionalità, con il primato della propria coscienza. Infatti va rilevato che, nonostante le vette altissime raggiunte dal pensiero greco pre-cristiano, esso, sottomettendo tutto al fato, quindi anche l’uomo e persino gli dèi, risultò completamente incapace di elaborare in qualche modo una dottrina del libero arbitrio, ovvero della capacità tipica dell’uomo di essere padrone delle proprie scelte. Inoltre la cultura classica pre-cristiana non riconosceva valore assoluto all’individuo, mentre ne faceva dipendere l’importanza dal ceto, dal censo, dalla razza. Come è stato ben sottolineato, «la singolarità della persona, unica e irripetibile e, di conseguenza, la sostanziale eguaglianza in dignità e nobiltà di ogni esponente della specie umana, il suo valore assoluto, è una verità portata, affermata e diffusa dal cristianesimo, e fu una verità carica di un “potere sovversivo” come poche altre nella storia: man mano che essa riuscì a farsi strada e a penetrare nella cultura pagana, la trasformò profondamente, sostanzialmente, dando origine a una nuova cultura e a una nuova società: la cultura e la società che prenderanno forma nella respublica christiana del medioevo»4. Più problematica fu la sfida a riguardo delle nuove popolazioni che si incontrarono dopo il viaggio di Colombo e il suo incontro con le popolazioni locali. Sorse subito la domanda se anch’essi fossero persone Appare sulla scena la riflessione di Bartolomeo de Las Casas, (Siviglia, 1484 – Madrid, 18 luglio 1566) La drammatica e nello stesso tempo provvidenziale vicenda di s. Paolo di Tarso, persecutore dei cristiani e poi con Pietro il più grande degli Apostoli, si è ripetuta molte volte nel corso della storia della cristianità. Anche durante la grande epopea dei “conquistadores” spagnoli nel Continente americano da poco scoperto, ci fu un Paolo di Tarso il cui nome è fra’ Bartolomeo de Las Casas, prima colono sfruttatore degli indios poi domenicano difensore strenuo dei loro diritti. Si chiamava Bartolomé Casuas e nacque a Siviglia nel 1484, figlio di don Francisco Casuas che accompagnò Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio verso le Antille, effettuato nel 1493. Degno rappresentante di una famiglia avventurosa, anche gli zii avevano seguito Colombo, Bartolomeo dopo essersi laureato in Diritto all’Università di Salamanca, si imbarcò per il Nuovo Mondo nel 1502 con la spedizione di Nicolas de Ovando (terzo governatore delle Indie Occidentali) per prendere possesso delle piantagioni paterne nell’isola di Hispaniola (attualmente suddivisa fra Haiti e la Repubblica Dominicana), con il proposito di arricchirsi e di ottenere benefici ecclesiastici; così gli fu affidata la gestione di una “encomienda”. L’encomienda’ era una istituzione spagnola introdotta nell’America centromeridionale nel XVI sec. che aveva la struttura organizzativa di un feudo medioevale; si trattava infatti di grandi estensioni di terreno sottoposte, assieme alle persone che vi abitavano, al comando di un solo padrone (encomendero). Regolata inizialmente da leggi ispirate a principi umanitari che comprendevano anche l’evangelizzazione degli indigeni che vi lavoravano, sofferse di molti abusi che ne degenerarono il contenuto sino a mutarla in breve tempo in una Istituzione di stampo autoritario, nella quale i lavoratori erano ridotti in schiavitù, sebbene fossero loro riconosciute alcune libertà. Proprio per questo strapotere degli ‘encomenderos’ non fu mai riconosciuto all’encomienda il carattere ereditario. Per alcuni anni combatté anche lui contro gli Indios, impiegandoli come schiavi nelle sue proprietà, chiudendo altresì gli occhi davanti alle stragi, prevaricazioni e soprusi di ogni genere, perpetrati dai ‘conquistadores’ spagnoli avidi di ricchezze, contro le 4 Battista MONDIN, voce “Persona”, in Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino, II ed., ESD, Bologna 2000. 1 inermi popolazioni locali. Nel 1510 fu il primo sacerdote ad essere ordinato nel Nuovo Mondo e si trasferì a Cuba; benché non fosse un ‘encomendero’ peggiore degli altri, ai contemporanei appariva come un prete attaccato ai beni del mondo e abbastanza astuto per conservarli; non tenendo conto delle raccomandazioni della defunta regina Isabella di Castiglia (1451-1504) e dei papi di quel periodo, intese a promuovere l’evangelizzazione e la giustizia fra quei popoli, impropriamente chiamati ‘Indiani’ da Colombo. Verso la fine del 1511, assisté alla predicazione festiva di padre Antonio Montesinos domenicano, il quale senza mezzi termini si esprimeva: “Siete in stato di peccato mortale e ci morirete, a causa della vostra crudeltà nei confronti di un popolo innocente”. I coloni si scandalizzarono e dopo aver rifiutato di liberare gli schiavi, si trovarono esclusi dal Sacramento della Penitenza, tanto importante in quel tempo di continuo e giornaliero pericolo di morte. Anche Bartolomeo che aveva cambiato il cognome di origine francese Casuas in Las Casas, fece queste riflessioni, grazie anche alle prediche del frate domenicano Pedro da Cordova e da allora, dopo essersi liberato dell’encomienda, iniziò la sua conversione a quegli ideali per i quali combatté per tutto il resto della sua vita. Si dedicò totalmente alla difesa degli Indios, per i quali reclamò libertà e parità di diritti con i conquistatori; come era da aspettarselo ebbe l’opposizione dei coloni e quindi la sua predicazione non diede risultati favorevoli. Allora padre Bartolomeo de Las Casas decise di recarsi nel 1516 in Spagna per ottenere dal governo spagnolo la promulgazione di leggi favorevoli agli indigeni; il governatore di Madrid e reggente del regno, Cisneros, lo nominò procuratore generale e protettore degli Indios, ma pur avendo acquisita una certa benevolenza dall’imperatore Carlo V, le sue buone intenzioni furono vanificate dall’avversione dei conquistatori. Bartolomeo Las Casas, fattosi domenicano nel 1523, continuò allora la sua battaglia attraverso la predicazione; ma non solo con le prediche cercò di aiutare gli Indios, ma anche con delle iniziative che alla fine si rivelarono come errori, che lo resero vulnerabile ai detrattori di allora e di oggi. Il primo insuccesso fu la “riserva evangelica”, che Bartolomeo tentò di fondare a Cumaná nel nord-ovest dell’attuale Venezuela, con l’obiettivo di riunire delle comunità ispano-indiane dirette da religiosi, in altre parole contadini spagnoli sarebbero potuti convivere in pace con gli indios insegnando loro l’agricoltura. Ma i coloni si rivelarono tutt’altro che altruisti con gli indios, ci fu una rivolta provocata dall’alcool e un naufragio e il progetto del domenicano fallì. Un secondo errore, che la storia non ha voluto dimenticare, fu che Las Casas nel 1516 propose nell’ambito di un progetto di riforma delle colonie, l’importazione di schiavi neri che fornissero la manodopera necessaria; la proposta scaturì da una errata sua informazione sui modi con cui le popolazioni africane erano asservite dall’Islam. Questo ha fatto sì che Bartolomeo Las Casas, venisse considerato un fautore della tratta dei neri e benché fosse pentito profondamente della sua sciagurata idea, più volte dichiarato nei suoi scritti, questa colpa ha impedito di fatto finora la beatificazione del grande difensore degli indios. Grande fu la sua opera di convinzione, sia in Spagna che in America, presso vescovi, autorità civili e militari, corte imperiale, affinché si modificasse il criterio interpretativo di un passo della “politica” di Aristotele, in cui si legge di “schiavi per natura”, criterio applicato dagli spagnoli agli indios. La sua lunga lotta, che gli procurò comunque tanti nemici, ebbe un coronamento con le “Nuove leggi” promulgate nel 1543 da Carlo V, le quali prevedevano l’estinzione delle concessioni a danno degli indios e il divieto di nuove, inoltre tutti i documenti affermavano che la schiavitù era abolita. Nel 1544 Bartolomeo Las Casas venne nominato vescovo di Chiapa, nello Stato di Chiapas (Messico) immensa diocesi attualmente divisa fra Messico e Guatemala. Da vescovo, facendo tesoro degli insuccessi precedenti, avviò una evangelizzazione capillare fra i nativi, usufruendo dell’opera discreta di indios già convertiti escludendo così i coloni europei, organizzandoli in piccole comunità operose, rispettando gli usi, i costumi, le lingue locali. Opera che si ripeterà nel XVII secolo, in forma più organizzata nelle famose “riduzioni” dei Gesuiti, create in Paraguay. Gli “encomenderos” lo combatterono aspramente, accusandolo di eresia e tradimento, giungendo alla fine ad ottenere l’abolizione delle “Nuove leggi”. Il vescovo Las Casas fu costretto nel 1547 a ritornare in Spagna per discolparsi dalle accuse ricevute, in un confronto diretto con J. Ginés de Sepulveda (sostenitore della naturale schiavitù degli indigeni conquistati). Non ritornò più in America, ritenendo più utile continuare la sua lotta nel centro del potere coloniale spagnolo. Vinta la causa nel 1550, si ritirò fino alla morte in un convento domenicano, dove scrisse numerose opere letterarie in difesa della libertà non solo fisica, ma anche economica, sociale, politica degli Indios, fino all’annuncio nel suo ‘Testamento’ della distruzione della Spagna come castigo divino. “Credo che a causa di queste opere empie, scellerate ed ignominiose, perpetrate in modo così ingiusto e tirannico, Dio riverserà sulla Spagna la sua ira e il suo furore, giacché tutta la Spagna si è presa la sua parte, grande o piccola, delle sanguinose ricchezze usurpate a prezzo di tante rovine e di tanti massacri”. È di quel tempo la disastrosa invasione e distruzione dei Maya e degli Incas; di Bartolomeo Las Casas è la poderosa “Storia delle Indie” (pubblicata solo nel 1875), opera fondamentale e preziosissima fonte storica sulla prima colonizzazione americana e sulla vicende e tradizioni dei popoli conquistati. Il grande domenicano morì a Madrid il 18 luglio 1566; alla luce delle valutazioni moderne sul suo operato, i padri Domenicani della Curia Provinciale di Siviglia, hanno promosso la causa per la sua beatificazione, attualmente a livello diocesano. (Autore: Antonio Borrelli) 1 La preoccupazione della Chiesa per il rispetto delle persone non europee era già presente prima. Ricordiamo brevemente la bolla di Eugenio IV “Dudum nostras” del 13 gennaio 1435, contro la tratta dei negri delle Canarie e quella di Paolo III “Veritas ipsa” del 02 giugno 1537, sulla dignità umana degli indiani d’America e sui loro diritti di libertà e di uso e possesso dei beni. Un'altra sfida che ancora non è risolta è il rispetto della dignità della persona umana da parte degli stati moderni, che iniziarono ad affacciarsi nella storia quando «l’idea di frontiera, come la concepiamo oggi, comincia ad essere applicata […] nel XVII secolo, in particolare in occasione dei trattati di Westfalia del 1648»5. Ciò porto alla nascita del nazionalismo. Oltre a ciò si evidenzia l’accendersi di un «antico meccanismo di identificazione collettiva: il “risentimento” condiviso da una popolazione nei confronti dell’altra che improvvisamente appare nemica a seguito di un violento trauma storico»6. Un elemento che comunque sembra accomunare diversi pensatori si trova nell’identificare le caratteristiche del nazionalismo è che «l’odio ha ispirato per la prima volta l’idea di un territorio etnoculturale proprio»7. Entrando nell’epoca moderna si ha lo sviluppo del concetto di Stato, che si legittima rispetto agli altri ordini dell’esistenza e quindi esige anche un’egemonia sull’ordine sociale e civile; tutto diventa significativo se è lo Stato che lo legittima e solo ciò che è legittimato può essere considerato esistente. Si inizia a vivere in un orizzonte nel quale si respirano idee sempre più marcate di un’identità totalizzante da parte dello Stato, in cui «la sovranità è una proprietà assoluta e indivisibile, che non può essere partecipata ad altri e che non ammette gradi e che appartiene al sovrano indipendentemente dal tutto politico, in quanto diritto legato alla sua persona» 8. I re assolutistici hanno dato in eredità tale sovranità allo stato assoluto, del quale Hegel ha formulato una spiegazione nell’interpretare il passaggio dal passato al moderno, per un fondamento della stato come realtà che congloba in sé la persona. Il filosofo tedesco, che visse tra il XVII e XVIII secolo, ha affermato che in seguito alla scissione Chiesa - Stato questa ha perso il suo potere unificante e la civiltà cristiana viene meno; parlando dello stato diceva Hegel “Lo stato, in sé e per sé, è la totalità etica, la realizzazione della libertà; ed è finalità assoluta della ragione, che la libertà sia reale. Lo stato è lo Spirito che sta nel mondo, e si realizza nel medesimo con coscienza, mentre nella natura, esso si realizza soltanto in quanto altro da sé, in quanto spirito sopito. [...] L’ingresso di Dio nel mondo è lo stato; il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza come volontà”. In questa concezione lo stato non esiste per il cittadino, ma il cittadino per lo stato; in breve il cittadino esiste solo in quanto membro della stato. Infatti se lo stato è la ragione che si dispiega nel mondo, la Storia che nasce dalla dialettica degli stati, è nient’altro che il dispiegarsi di questa stessa ragione9. Prima di Hegel già T. Hobbes aveva presentato una teoria dell’assolutismo politico della stato: ciò per chiudere definitivamente con il pensiero medievale ed evidenziare «la necessità di fondare una nuova scienza dello stato sul modello galileiano»10. Secondo il filosofo inglese l’uomo non è naturalmente fatto per vivere insieme agli altri in una società organizzata e strutturata, come affermava la visione aristotelica, ma l’uomo, che è animato da spirito di contesa ed egoismo, esprime una concezione diversa tra il bene privato e il bene pubblico: infatti «la 5 G. HERMET, Nazioni e nazionalismi in Europa, Bologna 1997, p. 40. Ibid., p. 42. 7 Ivi. 8 J. MARITAIN, L’uomo e lo stato, Genova-Milano 20033, p. 40. 9 G. REALE - D. ANTISERI, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, vol. 3, Brescia 1983, pp. 112 – 113. 10 Ibid., p.362. 6 1 condizione in cui gli uomini naturalmente si trovano è quella di guerra di tutti contro tutti. [...] In questa situazione, l’uomo rischia di perdere il bene primario che è la vita»11. Per salvaguardare questo bene primario Hobbes, nel Leviatano, elabora diciannove regole per sforzarsi di cercare la pace, la realizzazione di patti, il diritto, il rispetto reciproco; ma «queste leggi, tuttavia, non bastano ancora di per sé per costruire la società, giacché occorre anche un potere che costringa a rispettarle»12. Nasce qui l’esigenza di un potere assoluto, al quale i cittadini consegnino tutti i loro diritti e la loro libertà in un patto sociale che le persone stipulano tra di loro: lo stato, quindi, diventa il «depositario delle rinunce dei diritti dei cittadini, e, dunque, unico a mantenere tutti gli originari diritti.[...] Il potere del sovrano (o dell’assemblea) è indiviso ed assoluto»13. Si capisce che lo stato terrà i diritti dei cittadini in modo irrevocabile ed esso sarà superiore ad ogni regola; tutti i poteri saranno nelle sue mani e anche la Chiesa gli deve essere sottomessa. Il titolo della famosa opera di Hobbes Il Leviatano rappresenta anche la sua idea di stato assoluto, che è un po’ un mostro e un po’ un dio mortale. Con questa idea di uno stato quasi divino, si inizia a respirare una delle categorie più preoccupanti che sfocieranno in un totalitarismo che si avvicina ad un fenomeno religioso, il quale tenderà ad «investire tutti gli aspetti dell’esistenza e a porsi come significato ultimo di tutte le azioni della persona. [...]. Di fronte allo Stato totalitario, ad essere messi in pericolo non furono più e soltanto i diritti della Chiesa, [...] bensì i diritti medesimi dell’individuo, la cui esistenza, [...] veniva posta al servizio dell’ideologia dominante»14. La Chiesa aveva già pensato ad una condanna, a cominciare da Pio XI con l’enciclica Ubi arcano sulla vera pace e il bene dei popoli, pubblicata due mesi dopo la marcia su Roma effettuata dalle squadre fasciste. In quest’enciclica si denuncia come negativa quell’esaltazione dell’amor di patria che diventa nazionalismo «quando dimentica che tutti i popoli sono fratelli nella grande famiglia dell'umanità, che anche le altre nazioni hanno diritto a vivere e prosperare, che non è mai lecito né savio disgiungere l'utile dall'onesto, e che infine, “la giustizia è quella che solleva le nazioni, laddove il peccato fa miseri i popoli” (cfr. Pr 14,34) »15. La Chiesa allora elabora un pensiero sociale che tende a difendere la dignità costitutiva della persona umana e non accetta una concezione in cui si crede che sia lo stato che può dare dignità, libertà e riconoscimento alla persona. Per questo la Chiesa ha sempre difeso la persona da qualsiasi pensiero che ne riduceva la sua identità e da quelle strutture sociale che riducesse l’uomo ad un ingranaggio del sistema e non ne rispettasse la soggettività. Infatti La Chiesa, segno nella storia dell'amore di Dio per gli uomini e della vocazione dell'intero genere umano all'unità nella figliolanza dell'unico Padre (cfr. LG, n.1), anche con questo documento sulla sua dottrina sociale intende proporre a tutti gli uomini un umanesimo all'altezza del disegno d'amore di Dio sulla storia, un umanesimo integrale e solidale, capace di animare un nuovo ordine sociale, economico e politico, fondato sulla dignità e sulla libertà di ogni persona umana, da attuare nella pace, nella giustizia e nella solidarietà. Tale umanesimo può essere realizzato se i singoli uomini e donne e le loro comunità sapranno coltivare le virtù morali e sociali in se stessi e diffonderle nella società, «cosicché vi siano davvero uomini nuovi e artefici di una nuova umanità, con il necessario aiuto della grazia divina (cfr GS, n. 30)» (CDSC, n. 19). L’impegno per uno sviluppo integrale dell’uomo è un punto che non si può negoziare; esso dev’essere presente ad ogni livello, in ogni processo educativo o politico, sociale od 11 Ibid., p. 371. Ibid., p. 372. 13 Ibid., p. 373. 14 M. ROMANO, Chiesa e totalitarismo (1919-1945), in Università cattolica del Sacro Cuore- Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa (a cura di), Dizionario della dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, Milano 2004, p. 690. 15 PIUS XI, Litterae Encyclicae Ubi arcano, 23 dicembre 1922, in AAS 14 (1922) 682. 12 1 economico. Tale prospettiva parte da una visione cristiana, il cui centro è «l'uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l'uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà,» (GS, n.3). Questo uomo, che trova la sua identità e la sua vocazione nella rivelazione divina è il centro dell’azione della Chiesa. «La dottrina sociale oggi specialmente mira all'uomo, in quanto inserito nella complessa rete di relazioni delle società moderne. Le scienze umane e la filosofia sono di aiuto per interpretare la centralità dell'uomo dentro la società e per metterlo in grado di capir meglio se stesso, in quanto «essere sociale». Soltanto la fede, però, gli rivela pienamente la sua identità vera, e proprio da essa prende avvio la dottrina sociale della Chiesa, la quale, valendosi di tutti gli apporti delle scienze e della filosofia, si propone di assistere l'uomo nel cammino della salvezza. L'Enciclica Rerum novarum può essere letta come un importante apporto all'analisi socio-economica della fine del secolo XIX, ma il suo particolare valore le deriva dall'essere un Documento del Magistero, che ben si inserisce nella missione evangelizzatrice della Chiesa insieme con molti altri Documenti di questa natura. Da ciò si evince che la dottrina sociale ha di per sé il valore di uno strumento di evangelizzazione: in quanto tale, annuncia Dio ed il mistero di salvezza in Cristo ad ogni uomo e, per la medesima ragione, rivela l'uomo a se stesso. In questa luce, e solo in questa luce, si occupa del resto: dei diritti umani di ciascuno e, in particolare, del «proletariato», della famiglia e dell'educazione, dei doveri dello Stato, dell'ordinamento della società nazionale e internazionale, della vita economica, della cultura, della guerra e della pace, del rispetto alla vita dal momento del concepimento fino alla morte (CA, n. 54). Tenere presente la visione integrale dell'uomo è fondamentale per costruire una societa, in tutti i suoi vari aspetti, che possa realizzare il bene della persona stessa e contribuire alla sua piena realizzazione. Sigle: AAS CCC CDSC DSC GS CA LG = = = = = = = Acta Apostolicae Sedis Catechismo della Chiesa Cattolica Compendio della dottrina sociale della Chiesa Dottrina sociale della Chiesa Concilio ecumenico vaticano II- Costituzione pastorale - Gaudium et spes Giovanni Paolo II – Enciclica sociale - Centesimus annus Concilio ecumenico vaticano II - Costituzione dogmatica - Lumen gentium 1