STORIA
Il volontariato mi‑
litare
di Vincenzo CUOMO
L’adesione spontanea di un singolo o di un grup‑
po di individui ad un esercito o ad un raggruppa‑
mento armato, impegnato in una guerra ideolo‑
gica, religiosa, di conquista, oppure di difesa dei
propri diritti o confini, è un fenomeno antico, le
cui origini possono tranquillamente farsi risalire
agli albori della storia dell’Umanità.
Ingresso di Garibaldi a Napoli
Per quanto verte la nostra civiltà
occidentale il primo vero episodio di
volontariato guerriero in grande stile
furono indubbiamente le Crociate. Fu
un imponente esodo di milizie cristiane,
animate da un profondo ideale religioso,
che mossero da ogni angolo d’Europa
per andare a liberare il Santo Sepolcro,
caduto in mani infedeli.
Altro interessante esempio di volontariato militare lo troviamo poi tra il
XVI e il XVII secolo, in relazione alla
trasformazione del regno inglese da
stato isolano a grande potenza navale.
A tale crescita politico-militare tanto
contribuirono le molte navi corsare al
servizio della Corona. Gli equipaggi,
formati da volontari, esercitavano una
vera e propria attività di pirateria, ma
non la intendevano finalizzata unicamente al loro tornaconto. Ciò, in quanto
parte del bottino razziato veniva poi
versato nelle casse della Corona. In
merito al volontariato di questo periodo non possiamo non ricordare, oltre i
grandi navigatori olandesi e portoghesi
(anche dei secoli successivi), i Conquistadores, uomini che, in una dimensione
tra la legale appartenenza alle milizie
del re di Spagna ed una autonomia non
discosta però da fedeltà ed obbedienza
a Madrid, spontaneamente, anche se al
fine del loro arricchimento personale,
conquistarono nel Nuovo Mondo tante
terre da regalare al proprio sovrano un
vasto impero.
Nel corso dei primi decenni dell’Ottocento il volontariato militare ritornò
La Rassegna d’Ischia 7/98
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Il volontariato militare nella storia
ad essere appannaggio degli inglesi,
anche se questa volta finalizzato ad una
nobile causa. Infatti, in tali anni, molti
abitanti della Gran Bretagna, animati
da un profondo e sincero amore per la
libertà, lasciarono le proprie case per
raggiungere quei posti, anche lontani,
in cui popoli oppressi lottavano per la
loro autonomia ed indipendenza. Oltre
a coloro che andarono ad aiutare le
colonie spagnole e portoghesi nel SudAmerica, la pagina indubbiamente più
entusiasmante fu quella scritta a favore
della Grecia che anelava liberarsi dal
duro dominio turco. Tra i tanti, che
nobilmente trovarono la morte in quella
circostanza, ricordiamo il poeta Lord
Byron (15 aprile 1825), ma anche l’italiano Santorre di Santarosa (9 maggio
1825).
Comunque, malgrado tale massiccia
presenza di volontari in giro per il mondo a sostegno di popoli oppressi, a cui
poi si affiancheranno francesi, spagnoli,
belgi ed ungheresi, che giungeranno in
Italia a lottare per la sua indipendenza, il
fenomeno, presso tutti gli stati europei,
nel corso di questi secoli dell’età moderna, resta però limitato a particolari
occasioni o circostanze. Il Paese ove
esso da sempre era stato più vivace
che altrove e si avviava a grandi passi
a divenirlo ancora di più, era invece
l’Italia. Nella nostra penisola infatti, ad
iniziare dal periodo rinascimentale, il
volontariato ha avuto una ramificazione
nel tessuto sociale tanto profonda da
divenire una vera e propria tradizione
ed influenzare lo stesso cammino storico
della Nazione.
Dalla fine del ‘300 e sino alla prima
metà del ‘500 sul suolo italiano si ebbe
un proliferare di Compagnie di ventura.
Vera e propria manifestazione di volontariato guerriero in grande stile. Formate
da valorosi combattenti e guidate da
capi di notevoli qualità e capacità militari, in una penisola mortificata da un
notevole frazionamento politico di stati
e staterelli in perenne lotta, offrivano i
loro servigi ai vari signorotti in cambio
di una paga. Lo sfrenato individualismo
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che spingeva il capitano di ventura a
perseguire unicamente obiettivi legati
al proprio tornaconto e la mancanza
da parte di tutti i componenti di una
matrice ideologica, fecero sì che tali
energie, invece di arrecare vantaggi
all’Italia, divenissero solo fonte di lutti,
di sofferenze ed ancor maggiormente di
divisione politica.
Per giungere al volontariato militare
nella sua accezione più alta e nobile,
dobbiamo tuttavia attendere l’arrivo in
Italia, nel 1796, dell’armata francese
guidata dal generale Buonaparte. La
sua presenza favorì il sorgere spontaneo
di numerose piccole repubbliche che si
ispiravano a quei principi di libertà e di
uguaglianza che già avevano animato la
Francia rivoluzionaria. Tali germogli di
spiritualità nazionale diedero anche vita
a unità da combattimento su basi volontarie, il cui compito precipuo era quello
di difendere e tutelare le conquiste politiche, sociali ed economiche, appena
realizzate. Al volontariato, avventuriero
e mercenario, dei secoli precedenti, ne
subentrava uno completamente diverso, animato da uno spirito patriottico e
risorgimentale.
Il primo reparto che venne a trovarsi
impegnato in un combattimento fu quello del governo provvisorio di Reggio
Emilia. Esso, in località Montechiarugolo, non solo riuscirà a prevalere su
un piccolo raggruppamento austriaco,
ma anche a trarlo prigioniero. L’azione
piacque molto al Buonaparte, il quale
invitò i reggiani a unirsi con le popolazioni di Bologna, Ferrara, Modena,
anch’esse insorte, per darsi un comune
assetto politico. Il 16 ottobre 1796 si
ebbe così la nascita di una Confederazione detta cispadana a base essenzialmente militare. Tra i primi provvedimenti vi fu il decreto che sanciva la
nascita di una “Legione Italiana”, con
un organico iniziale di tremila uomini.
Si costituiva così un piccolo esercito di
volontari italiani destinato con il tempo
a veder sempre più lievitare il proprio
organico.
Dopo questi primi avvenimenti, dal
27 dicembre 1796 al 9 gennaio 1797, a
Reggio Emilia, si riuniva un secondo
congresso cispadano. Scopo era quello
di dar vita ad una vera e propria repubblica in sostituzione della confederazione militare precedente, a base moderata,
in quanto fu proclamata da un’assemblea di deputati liberamente eletti dal
popolo. Non solo, ma anche perché il
7 gennaio decretò che la Bandiera del
nuovo Stato, sotto la quale avrebbero
dovuto continuare a combattere le sue
libere truppe repubblicane, fosse quel
Tricolore verde bianco rosso che già
a suo tempo era stato adottato dalla
“Legione Lombarda”. Nasceva così in
forma statutaria e non più limitato ad
un semplice reparto combattente, quel
vessillo destinato a divenir il simbolo
di un’espressione morale e spirituale
di patriottismo, a cui nel corso dell’Ottocento tanti dovevano fare riferimento
nel desiderio di un’Italia finalmente
unita e libera dallo straniero.
l primo Tricolore adottato da un’entità statale
italiana sventolò il 7 gennaio 1797 nella Repubblica Cispadana voluta dalle popolazioni
di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia.
In questo periodo in cui in tanta
parte d’Italia nascevano i primi vaghi
e ondeggianti concetti di patria, libertà
e indipendenza, i cui sostenitori tanto
fidavano in un aiuto da parte di altri
popoli, vi furono anche uomini fermamente convinti che gli abitanti della penisola avrebbero invece dovuto “fare da
sé”. Uno dei più noti assertori di questa
teoria, che però nella nostra storiografia non ha mai trovato giusto spazio, è
Giuseppe Lahoz. Ufficiale austriaco,
all’arrivo del Buonaparte in Italia, sulla
scia del più puro volontariato militare,
smise l’uniforme degli Asburgo per
porsi al servizio di quegli ideali che le
truppe francesi incarnavano. Accortosi,
nel tempo, che gli obiettivi del direttorio minavano o erano in contrasto con
quelli perseguiti dagli italiani, decise
allora di iniziare una guerra personale
per la liberazione della penisola da
ogni presenza straniera. Nelle Marche,
riunita intorno a sé una piccola formazione militare di ardenti patrioti e puri
volontari, iniziò una serrata guerriglia
contro francesi e austriaci. I tempi non
si mostrarono però maturi per comprendere lo spessore e la lungimiranza
del suo pensiero. Non essendo riuscito
a trovare altro aiuto se non quello di
alcuni capi briganti, cadde nel corso
di uno sfortunato combattimento. In
prosieguo agli avvenimenti di cui l’Italia settentrionale era protagonista e
spettatrice nello stesso tempo, si ebbe
la fusione della Repubblica cispadana
in quella cisalpina, anch’essa già da
tempo esistente. Pure i due eserciti si
riunirono in una sola entità militare, con
il Tricolore che continuava a restare il
vessillo ufficiale.
Nel 1799 con l’arrivo a Napoli di
un’armata francese al comando del
generale Championnet, anche qui si
ebbe la nascita di una repubblica rivoluzionaria. La ricordiamo non solo per
la nobiltà d’animo e lo spessore morale
dei suoi animatori, ma anche in quanto
provocò una doppia forma di volontariato militare molto diffusa o ramificata
presso tutte le classi sociali del Reame.
Mentre la parte colta, erudita e intellettualmente valida imbracciò le armi a sostegno della Repubblica e delle sue idee,
da parte di popolino, plebe e contadini
si ebbe invece una vera e propria esplosione di aderenza al campo avverso.
Ciò in quanto costoro, nella stragrande
maggioranza culturalmente poverissimi
e abbrutiti da miseria, disoccupazione e
servitù sociali e feudali, si mostrarono
incapaci di comprendere concetti come
Libertà e Democrazia, non riuscendo
ad andare al di là dell’appagamento
dei bisogni materiali più elementari e
immediati.
Durante l’impero napoleonico in
Italia il volontariato fu una realtà quasi
del tutto inesistente, sia a favore che
contraria. I moti carbonari del 1820-21
poi ugualmente, al di là delle poche e
selezionate presenze, non diedero luogo
a grossi coinvolgimenti di massa, in
quanto, sia a Napoli che a Torino, erano
animati soprattutto da militari dell’esercito regolare. Dopo che nel 1830-31 una
insurrezione nell’Italia centrale aveva
invece avuto una maggiore affluenza
di volontari, nel 1834 si ebbe una spedizione armata in Savoia. Al richiamo
del Mazzini, che l’aveva ideata e voluta, molti volontari, soprattutto esuli,
accorsero ad ingrossare le fila del raggruppamento, il quale, però, sia per una
serie di circostanze avverse che per le
carenti qualità del comandante, nonché
per la poca consistenza numerica, venne
fermato e disperso dalle truppe sabaude.
Il periodo che segue è caratterizzato
da una serie di piccole e slegate iniziative insurrezionali volontarie, che costituiranno l’alba di quella ben più massiccia
e corale presenza che si avrà a partire dal
1848 a favore del Risorgimento. Dopo
aver ricordato la presenza sull’isola di
Malta della “Legione Italica” di Nicola
Fabrizi ed alcune insurrezioni nel 1843
sul territorio italiano, che però non portarono ad alcun risultato positivo, nel
1844 si ebbe la spedizione dei Fratelli
Bandiera. Italiani che volontariamente
vollero tentare una impresa impossibile
per dare al mondo un esempio di fede,
di amor patria e per scuotere tante coscienze ancora sopite.
Oltre ai tanti patrioti che in questi
anni combattevano e morivano in Italia,
altri, sempre ardenti di libertà, furono
attivi sia in Spagna che in Sudamerica. Ivi, nel momento in cui l’Uruguay
venne attaccato dalla vicina Argentina,
gli italiani esuli presenti in loco diedero
vita a Montevideo ad una “Legione” di
volontari, la quale al comando di Garibaldi si mostrò subito in grado di saper
combattere e vincere. Successivamente
la ben nota Camicia Rossa andrà a costituire il nucleo di quella più numerosa
unità che si coprirà di gloria in Italia
nel corso della realizzazione dell’unità
nazionale.
Dopo che già si erano avute altre
sollevazioni in molte città e capitali europee, ove aspirazioni nazionali si erano
intrecciate con spiritualità liberali, il 18
marzo 1848 pure a Milano si ebbe una
spontanea e corale insurrezione contro il
dominio austriaco. Avevano così iniziò
quelle entusiasmanti ed epiche “Cinque Giornate”, intrise di un profondo
significato patriottico e risorgimentale,
destinate a restare nella nostra storiografia come uno dei momenti più intensi
legato alla partecipazione delle masse al
movimento di riscatto nazionale.
In merito a questa insurrezione, ma
anche a quella quasi contemporanea di
Venezia, va detto che tale volontariato
militare da parte della popolazione
civile in breve venne incanalato verso
la formazione di vere e proprie unià da
combattimento. Degno di nota è che in
questo volontariato guerriero furono
presenti anche numerose donne, che si
distinsero per disciplina e coraggio alla
pari degli uomini e degli adolescenti,
destinate però unicamente a compiti di
collegamento. Tra i tanti reparti che in
quei giorni si costituirono e che continuarono a restare in armi e a battersi
per tutta la durata del conflitto, indubbiamente il più noto fu il Battaglione
dei “Bersaglieri lombardi” di Luciano
Manara. Nel momento in cui costituì
questa splendida unità da combattimento, destinata a passare alla storia con lui,
questi aveva appena 24 anni.
Allorquando l’esercito di Carlo Alberto mosse dalle sue basi per recare
aiuto ai lombardi insorti, da ogni parte
della penisola affluirono moltissimi
volontari pronti a dare il loro contributo.
Non solo, in quanto dagli stati dove il
volere popolare si era imposto a quello
dei propri reggitori giunsero anche delle
complete formazioni regolari. Tra i reparti autonomi erano presenti anche 150
uomini provenienti da Napoli e animati
da quella pasionaria del nostro Risorgimento che fu la principessa di Belgioioso. Vi erano ancora i volontari romani
al comando del generale Andrea Ferrari,
La Rassegna d’Ischia 7/98
19
Il volontariato militare nella storia
La difesa degli Archi di Porta Nuova, un episodio delle Cinque giornate (Museo di Milano, Milano)
una legione di patrioti polacchi, nonché
un piccolo raggruppamento di siciliani
guidati da La Masa. Inoltre risultava
essere presente anche il battaglione di
volontari toscani di Giuseppe Montanelli; questo, composto per la maggior
parte da studenti dell’Università di Pisa,
si sacrificherà quasi completamente a
Curtatone e Montanara per impedire alle
truppe austriache di giungere alle spalle
dell’esercito piemontese che stava assediando Peschiera. A ben guardare, quel
sogno di una Italia federale, tanto caro
alla sensibilità politica del Gioberti,
sembrava essere finalmente divenuto
una felice realtà!
Questa guerra, combattuta in condominio tra l’armata sarda e le formazioni
volontarie, era però destinata a concludersi con la sconfitta di Custoza (23-25
luglio 1848). Successivamente vi sarà
anche quella di Novara (23 marzo
1849), in relazione a una ripresa della
lotta da parte di Carlo Alberto.
Ritiratosi dalla scena politico-militare l’esercito piemontese, l’iniziativa
della lotta restava adesso completamente nelle mani di volontari, di cui
la maggior parte animati da impulsi
democratici intensi e marcati. Fu una
vera e propria epopea del volontariato
italiano che trovò il suo momento di
gloria nella difesa delle due repubbliche
20 La Rassegna d’Ischia 7/98
di Roma e di Venezia.
Con la resa di queste due città si chiudeva negativamente il primo capitolo
della lotta degli italiani per l’indipendenza nazionale. Ma la partecipazione
popolare, per quanto massiccia, era stata
però limitata unicamente agli abitanti
delle città, mentre le masse contadine,
che costituivano oltre il 70% della popolazione, erano rimaste completamente
assenti. L’aver preso coscienza di ciò,
unitamente alla certezza che anche per
il futuro il solo volontariato non sarebbe
stato sufficiente per cacciare dall’Italia
una potenza militarmente forte come
l’Austria, portò i patrioti volontari alla
convinzione che ci si sarebbe dovuti
appoggiare ad uno Stato in possesso
di un esercito preparato, allenato e ben
armato. Di conseguenza si iniziò a guardare con sempre maggiore insistenza al
re di Sardegna Vittorio Emanuele II, il
quale, non abolendo lo statuto, aveva
subito fatto intendere di non voler abbandonare quegli ideali che già erano
stati cari al padre.
Nel 1859, allo scoppio della seconda
guerra di indipendenza, allorquando
l’esercito piemontese, con l’appoggio
di quello francese, riprese la lotta contro l’ Austria, il volontariato assunse
subito uno status di complemento alle
armate sabaude. Pertanto con la gran
quantità di volontari accorsi a Torino,
oltre ad infoltire i Battaglioni regi, fu
anche creata una speciale unità autonoma che assunse la denominazione
di “Cacciatori delle Alpi” e che, al
comando di Garibaldi, a cui era stato
dato il grado di generale dell’esercito
sardo, combatterà indossando la divisa
delle truppe regolari. Con tale scelta si
volle così conservare intatta la spiritualità di questi uomini, ma anche dare al
mondo l’immagine di una guerra che
non fosse solo monarchica, bensì di un
intero popolo anelante alla propria autonomia e libertà. La Brigata, inquadrata
nella Divisione Cialdini, venne subito
inviata in territorio nemico, non solo per
contrastare gli Asburgici nelle retrovie,
ma anche per accendere nei cuori degli
abitanti dei luoghi attraversati l’amor
patrio e provocare un nuovo afflusso di
volontari.
Malgrado fossero male armati e
carenti di equipaggiamento, artiglieria
e cavalleria, i “Cacciatori delle Alpi”
fecero presto ad imporsi al nemico.
Seguendo quella tattica da guerriglia
che aveva imparato nel Sud-America,
Garibaldi riuscì per lungo tempo a tenere in scacco ben sei Brigate austriache.
La guerra si concludeva poi favorevolmente con gli scontri di San Martino e
Solferino (24 giugno 1859), mentre la
Brigata dei volontari ancora era intenta
a mietere successi e ingrossare le sue
fila.
Il 5 maggio 1860 un Corpo di volontari, la cui consistenza superava di
poco le mille unità ed era al comando
dell’Eroe dei due mondi, partiva da
Quarto per la Sicilia. Al grido di “Italia e
Vittorio Emanuele” anelava aggiungere
al nascente grande Stato dell’Italia del
nord anche il Regno delle Due Sicilie.
Iniziava così una spedizione che doveva consentire al nostro volontariato
nazionale di raggiungere il suo risultato
più fulgido e brillante, nonché di guadagnarsi un posto di gran rilievo nella
storia dell’età contemporanea. I volontari, che dal loro esiguo numero iniziale
dovevano, nel corso dell’impresa, raggiungere l’entità di un vero e proprio
esercito, sempre seppero combattere
con valore e audacia e mai vennero
meno anche a disciplina e serietà, dimostrando di non aver niente in meno di
una armata regolare. Dopo i tanti e noti
scontri, la campagna si concludeva con
la battaglia del Volturno (1-2 ottobre),
ove Garibaldi dimostrò di essere pure un
valente generale e non solo un audace
guerrigliero, e i volontari dei veri soldati
in grado di compiere azioni manovrate
e non unicamente dei temerari colpi di
mano.
Nel momento in cui i Garibaldini
furono a contatto con le truppe regie dei
Savoia, giunte dal nord per sostenere e
controllare questo volontariato, tra i due
schieramenti venne a crearsi un notevole attrito. Attrito che quotidianamente
era alimentato dall’alterigia e dall’albagia con cui gli ufficiali piemontesi si
rivolgevano ai loro colleghi in camicia
rossa, completamente dimentichi che
costoro, malgrado tutto, erano riusciti
a conquistare un regno e vincere tante
battaglie. A sanare una situazione che
stava per divenire esplosiva intervenne
allora Garibaldi. A Teano, non volendo
compromettere la finalmente raggiunta
unità nazionale, consegnò, senza alcuna
condizione, il reame ex borbonico a
Vittorio Emanuele II, salutandolo Re
d’Italia ed ordinando nel contempo alla
sua armata di sciogliersi. Con la nascita
del Regno d’Italia e del conseguente
esercito italiano, ai volontari, ancora
una volta, non fu resa giustizia. Di essi,
infatti, solo ad un ristretto numero, altamente selezionato, venne concesso di
accedere tra le fila dei regolari, adducendo a pretesto una scarsa preparazione
militare, mentre in realtà si temeva la
loro matrice ideologica democratica.
Dopo lo spiacevole episodio avvenuto sull’Aspromonte, dove i volontari
diretti a Roma furono fermati dalle
truppe regie, nel giugno del 1866 l’Italia
iniziava una nuova guerra contro l’Austria nell’intento di raggiungere il naturale confine delle Alpi. Anche questa
volta fu consentito ad una formazione
volontaria di prendere parte alle operazioni militari. Guidata da Garibaldi e
con una maggiore consistenza rispetto
alla precedente guerra di indipendenza,
ottenne delle ottime affermazioni sul
nemico a Monte Suello e al Ponte di
Caffaro. Al termine di un periodo di
stasi, in relazione alla sconfitta dell’esercito regolare a Custoza (24 giugno),
la Divisione volontaria iniziò un’azione
di penetrazione nel Trentino. Fu così vittoriosa a Condino, prima della conquista
del forte di Ampola. A Bezzecca poi il
21 luglio, nel corso di una memorabile
battaglia, in cui ancora una volta rifulsero le capacità tattiche e strategiche
di Garibaldi, nonché l’elevato grado di
preparazione dei volontari, gli austriaci
vennero seccamente sconfitti. Con il
famoso “obbedisco” con cui l’Eroe dei
due mondi rispose al telegramma che gli
ingiungeva di sospendere le operazioni
e di sgomberare il Trentino, si dimostrò altresì che volontari italiani, oltre
a valore e audacia, erano dotati anche
di un altissimo senso della disciplina
che li portava ad una stretta osservanza
degli ordini ricevuti e a sottoporsi di
buon grado alla volontà delle superiori
autorità militari.
Nel corso del mese di ottobre del
1867 volontari italiani, già da tempo in
fermento, diedero vita a una spontanea
concentrazione fuori dai confini del
Lazio, per una prospettata azione di
annessione di Roma al Regno d’Italia.
Iniziata la marcia di avvicinamento
verso la Città Eterna, il raggruppamento, al comando di Garibaldi, venne
però fermato da un corpo di spedizione
francese inviato da Napoleone III.
Successivamente al 1863, allorquando
un nucleo di patrioti italiani, guidati
da Francesco Nullo, era stato attivo e
operante in Polonia a difesa di quelle
terre, lo spirito di libertà che animava il
volontariato militare italiano colse una
nuova entusiasmante affermazione a
Digione. Ivi, nel 1870, nel momento in
cui la Francia venne invasa dalle armate
prussiane, una formazione di volontari,
sempre con a capo Garibaldi, dimentichi
del tradimento di Mentana, volle andare a sostenere quel popolo che lottava
strenuamente a difesa della sua libertà.
Il volontariato militare, che tanto
aveva contribuito all’unità nazionale,
nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento e nel primo Novecento divenne
un sentimento piuttosto marginale. Esso
non era però scomparso dal cuore degli
La morte dei fratelli Bandiera (Ballagny e figli, Milano, Museo del Risorgimento
La Rassegna d’Ischia 7/98
21
Il volontariato militare nella storia
italiani e attendeva solo una nuova occasione per poter riemergere ed imporsi
all’attenzione di tutti. Tale momento
giunse allorquando, con lo scoppio della
prima guerra mondiale, l’Italia si chiuse
in una stretta neutralità. In relazione
a ciò, infatti, in molti divenne forte il
desiderio di cogliere l’occasione per
estendere i nostri confini sino alle Alpi
orientali. Tra costoro la figura indubbiamente più nota fu quella di Gabriele
D’Annunzio. Il suo contributo a favore
dell’intervento, oltre che oratorio, fu anche letterario. Scrisse infatti una grande
quantità di appelli poetici, che trovarono
ampio riscontro in ogni parte d’Italia ed
infiammarono tanti giovani cuori. Il momento culmine della sua regìa avvenne
a Quarto, in occasione dell’anniversario
della partenza dei Mille, allorquando
organizzò una grandiosa manifestazione che ebbe vasta risonanza in campo
nazionale.
Il movimento interventista vero e
proprio, che prese consistenza nei primi
mesi subito dopo la proclamazione ufficiale della neutralità da parte dell’Italia,
si articolava su diverse correnti principali, il più delle volte divise tra loro
da una profonda diversità ideologica.
Mentre il partito socialista, fedele agli
insegnamenti dell’Internazionalismo,
che considerava la guerra un’e-spressione capitalista, era per la neutralità
più assoluta, i socialisti riformisti, che
facevano capo a Leonida Bissolati,
erano invece per l’entrata in guerra;
ciò soprattutto nel superiore intento di
liberare le nazionalità ancora oppresse.
Anche i repubblicani si mostrarono
favorevoli all’intervento, sostenuti in
questa loro aspirazione dalle alte sfere
della Massoneria. In merito ricordiamo
che costoro si fecero pure promotori
della costituzione di un reparto armato
di volontari italiani che, sotto la guida
di Peppino Garibaldi, si recò in Francia
a combattere contro i tedeschi. Oltre
i capi del partito radicale - ma non
la massa - che pure si mostrarono a
favore dell’intervento, va ricordata la
pattuglia degli irredentisti che faceva
22 La Rassegna d’Ischia 7/98
capo alla nobile figura di Cesare Battisti. A costoro sono poi da affiancare gli
interventisti di matrice rivoluzionaria,
tra cui ricordiamo Filippo Corridoni.
Essi volevano la guerra essenzialmente
nella speranza di riuscire a demolire
quell’ideale politico di autoritarismo
e militarismo di cui gli imperi centrali
apparivano i massimi depositari. I nazionalisti infine, per i quali la guerra
era alla base del loro pensiero politico,
inizialmente si mostrarono orientati per
un intervento a favore della Germania.
Gradatamente spostarono poi le loro
armate verso Francia, Russia e Gran
Bretagna e le loro aspirazioni verso un
completo dominio dell’Adriatico, base
per una futura espansione nei Balcani.
Oltre le tante figure di spicco e i movimenti politici di vario orientamento
che sollecitavano il governo ad entrare
in guerra, anche gran parte della stampa
diede il suo contributo. Le due testate
indubbiamente più rilevanti, impegnate in tale operazione di propaganda,
furono “Il Corriere della Sera” di
Luigi Albertini e “Il Popolo d’Italia”
di Mussolini, che intanto s’era staccato
dal partito socialista. Mentre il primo,
di orientamento liberale, si rivolgeva a
coloro che erano allineati con tale posizione politica, il secondo, di recente
fondazione, raccoglieva e diffondeva le
istanze di intervento dei democratici e
dei socialisti. Non va dimenticato infine
che i fautori della guerra erano sostenuti
anche dall’autorevole pensiero di molti
intellettuali: ad eccezione di Croce,
ebbero infatti dalla loro parte Giovanni
Gentile e Renato Serra, nonché storici
del calibro di Gaetano Salvemini e
Gioacchino Volpe.
Dichiarata la guerra all’Austria, in
breve il sogno di una gaia campagna di
sapore risorgimentale si infranse, così
come l’entusiasmo di tanti interventisti,
sui reticolati nemici. Diventata la lotta
una lunga e snervante attesa nelle trincee, spezzata di tanto in tanto da furiosi
attacchi contro gli asburgici, l’amaro per
la sconfitta di Caporetto fece nuovamente affiorare nell’animo degli italiani lo
spirito del volontariato. La strada che
questa volta trovò, per potersi affermare
in uomini che già erano inseriti all’interno di una struttura militare, portò alla
costituzione di alcuni reparti sceltissimi:
gli Arditi. Provenienti da tutte le armi
e corpi, quelli usciti dalle fila dei Bersaglieri presero il nome di “Fiamme
Cremisi”. Anticipando i metodi di combattimento dei moderni commandos, si
imposero immediatamente all’attenzione del nemico con temerarie azioni di
guerra. Incursioni, compiute soprattutto
di notte, con l’intento di arrecare quanto
più danno possibile ad uomini e cose.
Armati di pugnali e bombe a mano, più
che dell’ingombrante moschetto, ecellevano in modo particolare nella lotta
corpo a corpo, e quale fosse lo spirito
che li animava lo possiamo leggere nel
loro stesso nome.
Terminata la guerra, la mancata cessione di Fiume fece nascere, sulle ali
dell’infiammata oratoria del D’Annunzio, il mito della “vittoria mutilata”, che
condusse alla creazione di un gruppo di
volontari, i quali sotto la guida del poeta
andarono ad occupare la città. Sul territorio nazionale invece, i tanti problemi,
sociali, politici ed economici, legati alla
riconversione dell’intera nazione ad una
realtà non bellicistica, provocarono la
formazione di organizzazioni volontarie
paramilitari. Tra queste fecero presto
ad affermarsi e prevalere le squadre
d’azione del movimento fascista. Queste Camicie Nere inizialmente, non
ancora partito statalista e corporativo,
raccoglievano persone di tutti i ceti
sociali e delle più svariate ideologie e si
ergevano a garanzia di ordine e legalità
contro gli scioperi e i sommovimenti
causati dai socialisti. Successivamente, il Fascismo, assunta una posizione
politica più chiara e delineata, vide le
sue fila infoltirsi sempre più, grazie
anche all’arrivo di futuristi, nazionalisti
ed ex arditi, nonché di tutti coloro che
vedevano in esso una garanzia per la
salvaguardia dell’autorità dello Stato.
Con l’istaurazione della dittatura (3 gennaio 1925) il regime, sia perché ancora
sentiva il bisogno di una forza armata
che lo proteggesse, sia per conservare
intatto quello spirito di volontariato che
aveva animato i suoi sostenitori, ordinò
che le Camicie Nere venissero inquadrate all’interno della “Milizia volontaria
della sicurezza nazionale”.
Dopo che anche nel corso della conquista dell’Etiopia non erano mancati
volontari, nel 1936 Germania e Italia
iniziarono ad inviare aiuti a quelle parti
che in Spagna si erano ribellate al governo repubblicano. Oltre a tali unità, in
crescente aumento, che, almeno da parte
italiana, erano caratterizzate da una folta
presenza di volontari, pure il governo
legittimo vide ingrossare le sue fila con
l’accorrere di molte presenze spontanee.
Essi, nella stragrande maggioranza,
erano fuorusciti italiani, con una configurazione politica che comprendeva
uomini di ogni ideologia democratica.
Comunque, la maggior parte erano
comunisti, nonché appartenenti all’organizzazione antifascista “Giustizia e
Libertà” di Carlo Rosselli, aspirante ad
un socialismo a base liberale.
Con l’armistizio dell’8 settembre
1943 l’Italia venne a trovarsi divisa in
due tronconi. Mentre nella parte nord,
occupata militarmente dai tedeschi, fu
proclamata la Repubblica di Salò, nel
meridione, ove già erano giunte le truppe anglo-americane, si costituiva invece
uno nuovo Stato libero. In relazione
soprattutto ad un comportamento all’insegna della più fosca barbara ferocia da
parte dei germanici, unita ad una costante continua montante dissidenza contro
l’ideologia nazifascista, in breve, all’interno del territorio della Repubblica
Sociale, si formarono un po’ dappertutto
sempre più numerose bande armate di
partigiani. E sorgeva così nuovamente
quello spirito di volontariato patriottico
a cui la nazione tanto doveva. Nascosti
sui monti, nei boschi e nei luoghi più
impervi e inaccessibili, diedero vita a
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Il volontariato militare nella storia
una guerriglia intensa che logorò enormemente le forze tedesche e repubblicane. Essi, malgrado le difficoltà, sempre
combatterono con onore, devozione
alla Causa e sprezzo del pericolo e mai
si lasciarono intimorire o scoraggiare
da quei metodi, spietatamente violenti
e intrisi di terrore, con i quali venivano
contrastanti dalle forze regolari. Circa
questi difensori della libertà, non si
può concludere l’argomento senza pure
aver rilevato che essi fecero ogni sforzo
anche per tenere viva un’opposizione
morale, ideologica e intellettuale contro
quei principi totalitari che Fascismo e
Nazismo rappresentavano. Pure presso
la Repubblica Sociale si era avuto un
affluire di molti volontari che vollero
andare a combattere per una causa che
ritenevano giusta. Anche non volendo
negare che tanti erano realmente degli
idealisti, convinti di dover salvare dal
baratro un regime politico che si stava
consumando tra le fiamme della guerra,
la maggior parte di essi, male impiegati,
divennero solo gli aguzzini al servizio
delle SS. germaniche. Pertanto, il loro
utilizzo militare non risultò volto tanto contro le truppe anglo-americane,
quanto ad alimentare una feroce e
mortificante guerra civile nei confronti
di dissidenti, oppositori e partigiani.
Nell’Italia meridionale il governo
di questo nuovo Stato libero, il 27
settembre 1943, veniva autorizzato dal
comando militare alleato a costituire
un raggruppamento che cooperasse al
riscatto dell’intera penisola. In esso,
tutto a base volontaria, tra le varie
specialità trovò posto anche il 51° Battaglione Bersaglieri, ovviamente pur
esso formato da giovani volontari. Tale
reparto, a Monte Lungo (8 dicembre),
ebbe occasione di porsi prepotentemente in luce nella lotta contro i tedeschi.
L’azione costò un gran numero di morti
e feriti. Tuttavia tutti seppero e vollero
morire con onore a tutela dei perenni
ideali di Libertà e Giustizia, ma anche
a difesa della propria patria oltraggiata
dal furore teutonico. Dopo che il generale Clark aveva additato questi uomini
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Armellini, Mazzini e Soffici, i triumviri della Repubblica romana
(Museo del Risorgimento di Roma)
quale esempio da imitare a tutti popoli
d’Europa ancora oppressi, l’iniziale
raggruppamento aumentò la sua consistenza fino a divenire il “Corpo italiano
di liberazione”. Esso continuò così
ininterrottamente, a fianco degli alleati,
a prendere parte a tutte le successive fasi
della guerra, destinata a concludersi con
la totale liberazione del suolo italiano.
Con il ristabilimento della pace le
nostre forze armate ritornarono nella
loro condizione di non belligeranza,
continuando nel contempo ad essere
una palestra formativa e addestrativa di
un’idea morale di tutela e difesa della
libertà, della democrazia e della dignità. Lo spirito del volontariato intanto,
mai sopito, ricompariva, con diversa
spiritualità e finalità, ogni qual volta
una sciagura si abbatteva sul territorio
nazionale. In tali circostanze infatti gli
uomini dei reparti impegnati, andando
ben al di là degli ordini ricevuti, con
slancio, dedizione e abnegazione, davano vita ad una nobile fraterna gara di
spontaneo generoso altruismo.
La storia del volontariato militare
non termina qui, in quanto, proprio in
questi ultimi anni, con il modellarsi
dell’esercito su basi volontarie, sta
raggiungendo la sua perfezione storica. È infatti in corso la realizzazione
di una sintesi tra volontari e regolari.
Raccogliendo e fondendo queste due
antiche tradizioni, si sta così creando
una nuova forza armata: il sempre
tanto desiderato e auspicato intreccio
tra esercito e popolo. Di conseguenza,
i risultati non si sono fatti attendere!
Oltre ad un efficiente contributo dato
in operazioni di ordine pubblico, molte
unità italiane, composte da soli volontari, hanno anche partecipato a rischiose
e delicate operazioni umanitarie fuori
dai confini nazionali. Ivi, pur muovendosi in uno scenario caratterizzato da
gravi difficoltà, ambientali e operative,
sempre hanno agito con dedizione ed
elevata professionalità, in una lotta a
favore della pace e della civiltà, ma
anche a tutela della vita e della dignità
di minoranze etniche e religiose.
Vincenzo Cuomo