STORIA Il volontariato mi‑ litare di Vincenzo CUOMO L’adesione spontanea di un singolo o di un grup‑ po di individui ad un esercito o ad un raggruppa‑ mento armato, impegnato in una guerra ideolo‑ gica, religiosa, di conquista, oppure di difesa dei propri diritti o confini, è un fenomeno antico, le cui origini possono tranquillamente farsi risalire agli albori della storia dell’Umanità. Ingresso di Garibaldi a Napoli Per quanto verte la nostra civiltà occidentale il primo vero episodio di volontariato guerriero in grande stile furono indubbiamente le Crociate. Fu un imponente esodo di milizie cristiane, animate da un profondo ideale religioso, che mossero da ogni angolo d’Europa per andare a liberare il Santo Sepolcro, caduto in mani infedeli. Altro interessante esempio di volontariato militare lo troviamo poi tra il XVI e il XVII secolo, in relazione alla trasformazione del regno inglese da stato isolano a grande potenza navale. A tale crescita politico-militare tanto contribuirono le molte navi corsare al servizio della Corona. Gli equipaggi, formati da volontari, esercitavano una vera e propria attività di pirateria, ma non la intendevano finalizzata unicamente al loro tornaconto. Ciò, in quanto parte del bottino razziato veniva poi versato nelle casse della Corona. In merito al volontariato di questo periodo non possiamo non ricordare, oltre i grandi navigatori olandesi e portoghesi (anche dei secoli successivi), i Conquistadores, uomini che, in una dimensione tra la legale appartenenza alle milizie del re di Spagna ed una autonomia non discosta però da fedeltà ed obbedienza a Madrid, spontaneamente, anche se al fine del loro arricchimento personale, conquistarono nel Nuovo Mondo tante terre da regalare al proprio sovrano un vasto impero. Nel corso dei primi decenni dell’Ottocento il volontariato militare ritornò La Rassegna d’Ischia 7/98 17 Il volontariato militare nella storia ad essere appannaggio degli inglesi, anche se questa volta finalizzato ad una nobile causa. Infatti, in tali anni, molti abitanti della Gran Bretagna, animati da un profondo e sincero amore per la libertà, lasciarono le proprie case per raggiungere quei posti, anche lontani, in cui popoli oppressi lottavano per la loro autonomia ed indipendenza. Oltre a coloro che andarono ad aiutare le colonie spagnole e portoghesi nel SudAmerica, la pagina indubbiamente più entusiasmante fu quella scritta a favore della Grecia che anelava liberarsi dal duro dominio turco. Tra i tanti, che nobilmente trovarono la morte in quella circostanza, ricordiamo il poeta Lord Byron (15 aprile 1825), ma anche l’italiano Santorre di Santarosa (9 maggio 1825). Comunque, malgrado tale massiccia presenza di volontari in giro per il mondo a sostegno di popoli oppressi, a cui poi si affiancheranno francesi, spagnoli, belgi ed ungheresi, che giungeranno in Italia a lottare per la sua indipendenza, il fenomeno, presso tutti gli stati europei, nel corso di questi secoli dell’età moderna, resta però limitato a particolari occasioni o circostanze. Il Paese ove esso da sempre era stato più vivace che altrove e si avviava a grandi passi a divenirlo ancora di più, era invece l’Italia. Nella nostra penisola infatti, ad iniziare dal periodo rinascimentale, il volontariato ha avuto una ramificazione nel tessuto sociale tanto profonda da divenire una vera e propria tradizione ed influenzare lo stesso cammino storico della Nazione. Dalla fine del ‘300 e sino alla prima metà del ‘500 sul suolo italiano si ebbe un proliferare di Compagnie di ventura. Vera e propria manifestazione di volontariato guerriero in grande stile. Formate da valorosi combattenti e guidate da capi di notevoli qualità e capacità militari, in una penisola mortificata da un notevole frazionamento politico di stati e staterelli in perenne lotta, offrivano i loro servigi ai vari signorotti in cambio di una paga. Lo sfrenato individualismo 18 La Rassegna d’Ischia 7/98 che spingeva il capitano di ventura a perseguire unicamente obiettivi legati al proprio tornaconto e la mancanza da parte di tutti i componenti di una matrice ideologica, fecero sì che tali energie, invece di arrecare vantaggi all’Italia, divenissero solo fonte di lutti, di sofferenze ed ancor maggiormente di divisione politica. Per giungere al volontariato militare nella sua accezione più alta e nobile, dobbiamo tuttavia attendere l’arrivo in Italia, nel 1796, dell’armata francese guidata dal generale Buonaparte. La sua presenza favorì il sorgere spontaneo di numerose piccole repubbliche che si ispiravano a quei principi di libertà e di uguaglianza che già avevano animato la Francia rivoluzionaria. Tali germogli di spiritualità nazionale diedero anche vita a unità da combattimento su basi volontarie, il cui compito precipuo era quello di difendere e tutelare le conquiste politiche, sociali ed economiche, appena realizzate. Al volontariato, avventuriero e mercenario, dei secoli precedenti, ne subentrava uno completamente diverso, animato da uno spirito patriottico e risorgimentale. Il primo reparto che venne a trovarsi impegnato in un combattimento fu quello del governo provvisorio di Reggio Emilia. Esso, in località Montechiarugolo, non solo riuscirà a prevalere su un piccolo raggruppamento austriaco, ma anche a trarlo prigioniero. L’azione piacque molto al Buonaparte, il quale invitò i reggiani a unirsi con le popolazioni di Bologna, Ferrara, Modena, anch’esse insorte, per darsi un comune assetto politico. Il 16 ottobre 1796 si ebbe così la nascita di una Confederazione detta cispadana a base essenzialmente militare. Tra i primi provvedimenti vi fu il decreto che sanciva la nascita di una “Legione Italiana”, con un organico iniziale di tremila uomini. Si costituiva così un piccolo esercito di volontari italiani destinato con il tempo a veder sempre più lievitare il proprio organico. Dopo questi primi avvenimenti, dal 27 dicembre 1796 al 9 gennaio 1797, a Reggio Emilia, si riuniva un secondo congresso cispadano. Scopo era quello di dar vita ad una vera e propria repubblica in sostituzione della confederazione militare precedente, a base moderata, in quanto fu proclamata da un’assemblea di deputati liberamente eletti dal popolo. Non solo, ma anche perché il 7 gennaio decretò che la Bandiera del nuovo Stato, sotto la quale avrebbero dovuto continuare a combattere le sue libere truppe repubblicane, fosse quel Tricolore verde bianco rosso che già a suo tempo era stato adottato dalla “Legione Lombarda”. Nasceva così in forma statutaria e non più limitato ad un semplice reparto combattente, quel vessillo destinato a divenir il simbolo di un’espressione morale e spirituale di patriottismo, a cui nel corso dell’Ottocento tanti dovevano fare riferimento nel desiderio di un’Italia finalmente unita e libera dallo straniero. l primo Tricolore adottato da un’entità statale italiana sventolò il 7 gennaio 1797 nella Repubblica Cispadana voluta dalle popolazioni di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia. In questo periodo in cui in tanta parte d’Italia nascevano i primi vaghi e ondeggianti concetti di patria, libertà e indipendenza, i cui sostenitori tanto fidavano in un aiuto da parte di altri popoli, vi furono anche uomini fermamente convinti che gli abitanti della penisola avrebbero invece dovuto “fare da sé”. Uno dei più noti assertori di questa teoria, che però nella nostra storiografia non ha mai trovato giusto spazio, è Giuseppe Lahoz. Ufficiale austriaco, all’arrivo del Buonaparte in Italia, sulla scia del più puro volontariato militare, smise l’uniforme degli Asburgo per porsi al servizio di quegli ideali che le truppe francesi incarnavano. Accortosi, nel tempo, che gli obiettivi del direttorio minavano o erano in contrasto con quelli perseguiti dagli italiani, decise allora di iniziare una guerra personale per la liberazione della penisola da ogni presenza straniera. Nelle Marche, riunita intorno a sé una piccola formazione militare di ardenti patrioti e puri volontari, iniziò una serrata guerriglia contro francesi e austriaci. I tempi non si mostrarono però maturi per comprendere lo spessore e la lungimiranza del suo pensiero. Non essendo riuscito a trovare altro aiuto se non quello di alcuni capi briganti, cadde nel corso di uno sfortunato combattimento. In prosieguo agli avvenimenti di cui l’Italia settentrionale era protagonista e spettatrice nello stesso tempo, si ebbe la fusione della Repubblica cispadana in quella cisalpina, anch’essa già da tempo esistente. Pure i due eserciti si riunirono in una sola entità militare, con il Tricolore che continuava a restare il vessillo ufficiale. Nel 1799 con l’arrivo a Napoli di un’armata francese al comando del generale Championnet, anche qui si ebbe la nascita di una repubblica rivoluzionaria. La ricordiamo non solo per la nobiltà d’animo e lo spessore morale dei suoi animatori, ma anche in quanto provocò una doppia forma di volontariato militare molto diffusa o ramificata presso tutte le classi sociali del Reame. Mentre la parte colta, erudita e intellettualmente valida imbracciò le armi a sostegno della Repubblica e delle sue idee, da parte di popolino, plebe e contadini si ebbe invece una vera e propria esplosione di aderenza al campo avverso. Ciò in quanto costoro, nella stragrande maggioranza culturalmente poverissimi e abbrutiti da miseria, disoccupazione e servitù sociali e feudali, si mostrarono incapaci di comprendere concetti come Libertà e Democrazia, non riuscendo ad andare al di là dell’appagamento dei bisogni materiali più elementari e immediati. Durante l’impero napoleonico in Italia il volontariato fu una realtà quasi del tutto inesistente, sia a favore che contraria. I moti carbonari del 1820-21 poi ugualmente, al di là delle poche e selezionate presenze, non diedero luogo a grossi coinvolgimenti di massa, in quanto, sia a Napoli che a Torino, erano animati soprattutto da militari dell’esercito regolare. Dopo che nel 1830-31 una insurrezione nell’Italia centrale aveva invece avuto una maggiore affluenza di volontari, nel 1834 si ebbe una spedizione armata in Savoia. Al richiamo del Mazzini, che l’aveva ideata e voluta, molti volontari, soprattutto esuli, accorsero ad ingrossare le fila del raggruppamento, il quale, però, sia per una serie di circostanze avverse che per le carenti qualità del comandante, nonché per la poca consistenza numerica, venne fermato e disperso dalle truppe sabaude. Il periodo che segue è caratterizzato da una serie di piccole e slegate iniziative insurrezionali volontarie, che costituiranno l’alba di quella ben più massiccia e corale presenza che si avrà a partire dal 1848 a favore del Risorgimento. Dopo aver ricordato la presenza sull’isola di Malta della “Legione Italica” di Nicola Fabrizi ed alcune insurrezioni nel 1843 sul territorio italiano, che però non portarono ad alcun risultato positivo, nel 1844 si ebbe la spedizione dei Fratelli Bandiera. Italiani che volontariamente vollero tentare una impresa impossibile per dare al mondo un esempio di fede, di amor patria e per scuotere tante coscienze ancora sopite. Oltre ai tanti patrioti che in questi anni combattevano e morivano in Italia, altri, sempre ardenti di libertà, furono attivi sia in Spagna che in Sudamerica. Ivi, nel momento in cui l’Uruguay venne attaccato dalla vicina Argentina, gli italiani esuli presenti in loco diedero vita a Montevideo ad una “Legione” di volontari, la quale al comando di Garibaldi si mostrò subito in grado di saper combattere e vincere. Successivamente la ben nota Camicia Rossa andrà a costituire il nucleo di quella più numerosa unità che si coprirà di gloria in Italia nel corso della realizzazione dell’unità nazionale. Dopo che già si erano avute altre sollevazioni in molte città e capitali europee, ove aspirazioni nazionali si erano intrecciate con spiritualità liberali, il 18 marzo 1848 pure a Milano si ebbe una spontanea e corale insurrezione contro il dominio austriaco. Avevano così iniziò quelle entusiasmanti ed epiche “Cinque Giornate”, intrise di un profondo significato patriottico e risorgimentale, destinate a restare nella nostra storiografia come uno dei momenti più intensi legato alla partecipazione delle masse al movimento di riscatto nazionale. In merito a questa insurrezione, ma anche a quella quasi contemporanea di Venezia, va detto che tale volontariato militare da parte della popolazione civile in breve venne incanalato verso la formazione di vere e proprie unià da combattimento. Degno di nota è che in questo volontariato guerriero furono presenti anche numerose donne, che si distinsero per disciplina e coraggio alla pari degli uomini e degli adolescenti, destinate però unicamente a compiti di collegamento. Tra i tanti reparti che in quei giorni si costituirono e che continuarono a restare in armi e a battersi per tutta la durata del conflitto, indubbiamente il più noto fu il Battaglione dei “Bersaglieri lombardi” di Luciano Manara. Nel momento in cui costituì questa splendida unità da combattimento, destinata a passare alla storia con lui, questi aveva appena 24 anni. Allorquando l’esercito di Carlo Alberto mosse dalle sue basi per recare aiuto ai lombardi insorti, da ogni parte della penisola affluirono moltissimi volontari pronti a dare il loro contributo. Non solo, in quanto dagli stati dove il volere popolare si era imposto a quello dei propri reggitori giunsero anche delle complete formazioni regolari. Tra i reparti autonomi erano presenti anche 150 uomini provenienti da Napoli e animati da quella pasionaria del nostro Risorgimento che fu la principessa di Belgioioso. Vi erano ancora i volontari romani al comando del generale Andrea Ferrari, La Rassegna d’Ischia 7/98 19 Il volontariato militare nella storia La difesa degli Archi di Porta Nuova, un episodio delle Cinque giornate (Museo di Milano, Milano) una legione di patrioti polacchi, nonché un piccolo raggruppamento di siciliani guidati da La Masa. Inoltre risultava essere presente anche il battaglione di volontari toscani di Giuseppe Montanelli; questo, composto per la maggior parte da studenti dell’Università di Pisa, si sacrificherà quasi completamente a Curtatone e Montanara per impedire alle truppe austriache di giungere alle spalle dell’esercito piemontese che stava assediando Peschiera. A ben guardare, quel sogno di una Italia federale, tanto caro alla sensibilità politica del Gioberti, sembrava essere finalmente divenuto una felice realtà! Questa guerra, combattuta in condominio tra l’armata sarda e le formazioni volontarie, era però destinata a concludersi con la sconfitta di Custoza (23-25 luglio 1848). Successivamente vi sarà anche quella di Novara (23 marzo 1849), in relazione a una ripresa della lotta da parte di Carlo Alberto. Ritiratosi dalla scena politico-militare l’esercito piemontese, l’iniziativa della lotta restava adesso completamente nelle mani di volontari, di cui la maggior parte animati da impulsi democratici intensi e marcati. Fu una vera e propria epopea del volontariato italiano che trovò il suo momento di gloria nella difesa delle due repubbliche 20 La Rassegna d’Ischia 7/98 di Roma e di Venezia. Con la resa di queste due città si chiudeva negativamente il primo capitolo della lotta degli italiani per l’indipendenza nazionale. Ma la partecipazione popolare, per quanto massiccia, era stata però limitata unicamente agli abitanti delle città, mentre le masse contadine, che costituivano oltre il 70% della popolazione, erano rimaste completamente assenti. L’aver preso coscienza di ciò, unitamente alla certezza che anche per il futuro il solo volontariato non sarebbe stato sufficiente per cacciare dall’Italia una potenza militarmente forte come l’Austria, portò i patrioti volontari alla convinzione che ci si sarebbe dovuti appoggiare ad uno Stato in possesso di un esercito preparato, allenato e ben armato. Di conseguenza si iniziò a guardare con sempre maggiore insistenza al re di Sardegna Vittorio Emanuele II, il quale, non abolendo lo statuto, aveva subito fatto intendere di non voler abbandonare quegli ideali che già erano stati cari al padre. Nel 1859, allo scoppio della seconda guerra di indipendenza, allorquando l’esercito piemontese, con l’appoggio di quello francese, riprese la lotta contro l’ Austria, il volontariato assunse subito uno status di complemento alle armate sabaude. Pertanto con la gran quantità di volontari accorsi a Torino, oltre ad infoltire i Battaglioni regi, fu anche creata una speciale unità autonoma che assunse la denominazione di “Cacciatori delle Alpi” e che, al comando di Garibaldi, a cui era stato dato il grado di generale dell’esercito sardo, combatterà indossando la divisa delle truppe regolari. Con tale scelta si volle così conservare intatta la spiritualità di questi uomini, ma anche dare al mondo l’immagine di una guerra che non fosse solo monarchica, bensì di un intero popolo anelante alla propria autonomia e libertà. La Brigata, inquadrata nella Divisione Cialdini, venne subito inviata in territorio nemico, non solo per contrastare gli Asburgici nelle retrovie, ma anche per accendere nei cuori degli abitanti dei luoghi attraversati l’amor patrio e provocare un nuovo afflusso di volontari. Malgrado fossero male armati e carenti di equipaggiamento, artiglieria e cavalleria, i “Cacciatori delle Alpi” fecero presto ad imporsi al nemico. Seguendo quella tattica da guerriglia che aveva imparato nel Sud-America, Garibaldi riuscì per lungo tempo a tenere in scacco ben sei Brigate austriache. La guerra si concludeva poi favorevolmente con gli scontri di San Martino e Solferino (24 giugno 1859), mentre la Brigata dei volontari ancora era intenta a mietere successi e ingrossare le sue fila. Il 5 maggio 1860 un Corpo di volontari, la cui consistenza superava di poco le mille unità ed era al comando dell’Eroe dei due mondi, partiva da Quarto per la Sicilia. Al grido di “Italia e Vittorio Emanuele” anelava aggiungere al nascente grande Stato dell’Italia del nord anche il Regno delle Due Sicilie. Iniziava così una spedizione che doveva consentire al nostro volontariato nazionale di raggiungere il suo risultato più fulgido e brillante, nonché di guadagnarsi un posto di gran rilievo nella storia dell’età contemporanea. I volontari, che dal loro esiguo numero iniziale dovevano, nel corso dell’impresa, raggiungere l’entità di un vero e proprio esercito, sempre seppero combattere con valore e audacia e mai vennero meno anche a disciplina e serietà, dimostrando di non aver niente in meno di una armata regolare. Dopo i tanti e noti scontri, la campagna si concludeva con la battaglia del Volturno (1-2 ottobre), ove Garibaldi dimostrò di essere pure un valente generale e non solo un audace guerrigliero, e i volontari dei veri soldati in grado di compiere azioni manovrate e non unicamente dei temerari colpi di mano. Nel momento in cui i Garibaldini furono a contatto con le truppe regie dei Savoia, giunte dal nord per sostenere e controllare questo volontariato, tra i due schieramenti venne a crearsi un notevole attrito. Attrito che quotidianamente era alimentato dall’alterigia e dall’albagia con cui gli ufficiali piemontesi si rivolgevano ai loro colleghi in camicia rossa, completamente dimentichi che costoro, malgrado tutto, erano riusciti a conquistare un regno e vincere tante battaglie. A sanare una situazione che stava per divenire esplosiva intervenne allora Garibaldi. A Teano, non volendo compromettere la finalmente raggiunta unità nazionale, consegnò, senza alcuna condizione, il reame ex borbonico a Vittorio Emanuele II, salutandolo Re d’Italia ed ordinando nel contempo alla sua armata di sciogliersi. Con la nascita del Regno d’Italia e del conseguente esercito italiano, ai volontari, ancora una volta, non fu resa giustizia. Di essi, infatti, solo ad un ristretto numero, altamente selezionato, venne concesso di accedere tra le fila dei regolari, adducendo a pretesto una scarsa preparazione militare, mentre in realtà si temeva la loro matrice ideologica democratica. Dopo lo spiacevole episodio avvenuto sull’Aspromonte, dove i volontari diretti a Roma furono fermati dalle truppe regie, nel giugno del 1866 l’Italia iniziava una nuova guerra contro l’Austria nell’intento di raggiungere il naturale confine delle Alpi. Anche questa volta fu consentito ad una formazione volontaria di prendere parte alle operazioni militari. Guidata da Garibaldi e con una maggiore consistenza rispetto alla precedente guerra di indipendenza, ottenne delle ottime affermazioni sul nemico a Monte Suello e al Ponte di Caffaro. Al termine di un periodo di stasi, in relazione alla sconfitta dell’esercito regolare a Custoza (24 giugno), la Divisione volontaria iniziò un’azione di penetrazione nel Trentino. Fu così vittoriosa a Condino, prima della conquista del forte di Ampola. A Bezzecca poi il 21 luglio, nel corso di una memorabile battaglia, in cui ancora una volta rifulsero le capacità tattiche e strategiche di Garibaldi, nonché l’elevato grado di preparazione dei volontari, gli austriaci vennero seccamente sconfitti. Con il famoso “obbedisco” con cui l’Eroe dei due mondi rispose al telegramma che gli ingiungeva di sospendere le operazioni e di sgomberare il Trentino, si dimostrò altresì che volontari italiani, oltre a valore e audacia, erano dotati anche di un altissimo senso della disciplina che li portava ad una stretta osservanza degli ordini ricevuti e a sottoporsi di buon grado alla volontà delle superiori autorità militari. Nel corso del mese di ottobre del 1867 volontari italiani, già da tempo in fermento, diedero vita a una spontanea concentrazione fuori dai confini del Lazio, per una prospettata azione di annessione di Roma al Regno d’Italia. Iniziata la marcia di avvicinamento verso la Città Eterna, il raggruppamento, al comando di Garibaldi, venne però fermato da un corpo di spedizione francese inviato da Napoleone III. Successivamente al 1863, allorquando un nucleo di patrioti italiani, guidati da Francesco Nullo, era stato attivo e operante in Polonia a difesa di quelle terre, lo spirito di libertà che animava il volontariato militare italiano colse una nuova entusiasmante affermazione a Digione. Ivi, nel 1870, nel momento in cui la Francia venne invasa dalle armate prussiane, una formazione di volontari, sempre con a capo Garibaldi, dimentichi del tradimento di Mentana, volle andare a sostenere quel popolo che lottava strenuamente a difesa della sua libertà. Il volontariato militare, che tanto aveva contribuito all’unità nazionale, nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento e nel primo Novecento divenne un sentimento piuttosto marginale. Esso non era però scomparso dal cuore degli La morte dei fratelli Bandiera (Ballagny e figli, Milano, Museo del Risorgimento La Rassegna d’Ischia 7/98 21 Il volontariato militare nella storia italiani e attendeva solo una nuova occasione per poter riemergere ed imporsi all’attenzione di tutti. Tale momento giunse allorquando, con lo scoppio della prima guerra mondiale, l’Italia si chiuse in una stretta neutralità. In relazione a ciò, infatti, in molti divenne forte il desiderio di cogliere l’occasione per estendere i nostri confini sino alle Alpi orientali. Tra costoro la figura indubbiamente più nota fu quella di Gabriele D’Annunzio. Il suo contributo a favore dell’intervento, oltre che oratorio, fu anche letterario. Scrisse infatti una grande quantità di appelli poetici, che trovarono ampio riscontro in ogni parte d’Italia ed infiammarono tanti giovani cuori. Il momento culmine della sua regìa avvenne a Quarto, in occasione dell’anniversario della partenza dei Mille, allorquando organizzò una grandiosa manifestazione che ebbe vasta risonanza in campo nazionale. Il movimento interventista vero e proprio, che prese consistenza nei primi mesi subito dopo la proclamazione ufficiale della neutralità da parte dell’Italia, si articolava su diverse correnti principali, il più delle volte divise tra loro da una profonda diversità ideologica. Mentre il partito socialista, fedele agli insegnamenti dell’Internazionalismo, che considerava la guerra un’e-spressione capitalista, era per la neutralità più assoluta, i socialisti riformisti, che facevano capo a Leonida Bissolati, erano invece per l’entrata in guerra; ciò soprattutto nel superiore intento di liberare le nazionalità ancora oppresse. Anche i repubblicani si mostrarono favorevoli all’intervento, sostenuti in questa loro aspirazione dalle alte sfere della Massoneria. In merito ricordiamo che costoro si fecero pure promotori della costituzione di un reparto armato di volontari italiani che, sotto la guida di Peppino Garibaldi, si recò in Francia a combattere contro i tedeschi. Oltre i capi del partito radicale - ma non la massa - che pure si mostrarono a favore dell’intervento, va ricordata la pattuglia degli irredentisti che faceva 22 La Rassegna d’Ischia 7/98 capo alla nobile figura di Cesare Battisti. A costoro sono poi da affiancare gli interventisti di matrice rivoluzionaria, tra cui ricordiamo Filippo Corridoni. Essi volevano la guerra essenzialmente nella speranza di riuscire a demolire quell’ideale politico di autoritarismo e militarismo di cui gli imperi centrali apparivano i massimi depositari. I nazionalisti infine, per i quali la guerra era alla base del loro pensiero politico, inizialmente si mostrarono orientati per un intervento a favore della Germania. Gradatamente spostarono poi le loro armate verso Francia, Russia e Gran Bretagna e le loro aspirazioni verso un completo dominio dell’Adriatico, base per una futura espansione nei Balcani. Oltre le tante figure di spicco e i movimenti politici di vario orientamento che sollecitavano il governo ad entrare in guerra, anche gran parte della stampa diede il suo contributo. Le due testate indubbiamente più rilevanti, impegnate in tale operazione di propaganda, furono “Il Corriere della Sera” di Luigi Albertini e “Il Popolo d’Italia” di Mussolini, che intanto s’era staccato dal partito socialista. Mentre il primo, di orientamento liberale, si rivolgeva a coloro che erano allineati con tale posizione politica, il secondo, di recente fondazione, raccoglieva e diffondeva le istanze di intervento dei democratici e dei socialisti. Non va dimenticato infine che i fautori della guerra erano sostenuti anche dall’autorevole pensiero di molti intellettuali: ad eccezione di Croce, ebbero infatti dalla loro parte Giovanni Gentile e Renato Serra, nonché storici del calibro di Gaetano Salvemini e Gioacchino Volpe. Dichiarata la guerra all’Austria, in breve il sogno di una gaia campagna di sapore risorgimentale si infranse, così come l’entusiasmo di tanti interventisti, sui reticolati nemici. Diventata la lotta una lunga e snervante attesa nelle trincee, spezzata di tanto in tanto da furiosi attacchi contro gli asburgici, l’amaro per la sconfitta di Caporetto fece nuovamente affiorare nell’animo degli italiani lo spirito del volontariato. La strada che questa volta trovò, per potersi affermare in uomini che già erano inseriti all’interno di una struttura militare, portò alla costituzione di alcuni reparti sceltissimi: gli Arditi. Provenienti da tutte le armi e corpi, quelli usciti dalle fila dei Bersaglieri presero il nome di “Fiamme Cremisi”. Anticipando i metodi di combattimento dei moderni commandos, si imposero immediatamente all’attenzione del nemico con temerarie azioni di guerra. Incursioni, compiute soprattutto di notte, con l’intento di arrecare quanto più danno possibile ad uomini e cose. Armati di pugnali e bombe a mano, più che dell’ingombrante moschetto, ecellevano in modo particolare nella lotta corpo a corpo, e quale fosse lo spirito che li animava lo possiamo leggere nel loro stesso nome. Terminata la guerra, la mancata cessione di Fiume fece nascere, sulle ali dell’infiammata oratoria del D’Annunzio, il mito della “vittoria mutilata”, che condusse alla creazione di un gruppo di volontari, i quali sotto la guida del poeta andarono ad occupare la città. Sul territorio nazionale invece, i tanti problemi, sociali, politici ed economici, legati alla riconversione dell’intera nazione ad una realtà non bellicistica, provocarono la formazione di organizzazioni volontarie paramilitari. Tra queste fecero presto ad affermarsi e prevalere le squadre d’azione del movimento fascista. Queste Camicie Nere inizialmente, non ancora partito statalista e corporativo, raccoglievano persone di tutti i ceti sociali e delle più svariate ideologie e si ergevano a garanzia di ordine e legalità contro gli scioperi e i sommovimenti causati dai socialisti. Successivamente, il Fascismo, assunta una posizione politica più chiara e delineata, vide le sue fila infoltirsi sempre più, grazie anche all’arrivo di futuristi, nazionalisti ed ex arditi, nonché di tutti coloro che vedevano in esso una garanzia per la salvaguardia dell’autorità dello Stato. Con l’istaurazione della dittatura (3 gennaio 1925) il regime, sia perché ancora sentiva il bisogno di una forza armata che lo proteggesse, sia per conservare intatto quello spirito di volontariato che aveva animato i suoi sostenitori, ordinò che le Camicie Nere venissero inquadrate all’interno della “Milizia volontaria della sicurezza nazionale”. Dopo che anche nel corso della conquista dell’Etiopia non erano mancati volontari, nel 1936 Germania e Italia iniziarono ad inviare aiuti a quelle parti che in Spagna si erano ribellate al governo repubblicano. Oltre a tali unità, in crescente aumento, che, almeno da parte italiana, erano caratterizzate da una folta presenza di volontari, pure il governo legittimo vide ingrossare le sue fila con l’accorrere di molte presenze spontanee. Essi, nella stragrande maggioranza, erano fuorusciti italiani, con una configurazione politica che comprendeva uomini di ogni ideologia democratica. Comunque, la maggior parte erano comunisti, nonché appartenenti all’organizzazione antifascista “Giustizia e Libertà” di Carlo Rosselli, aspirante ad un socialismo a base liberale. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 l’Italia venne a trovarsi divisa in due tronconi. Mentre nella parte nord, occupata militarmente dai tedeschi, fu proclamata la Repubblica di Salò, nel meridione, ove già erano giunte le truppe anglo-americane, si costituiva invece uno nuovo Stato libero. In relazione soprattutto ad un comportamento all’insegna della più fosca barbara ferocia da parte dei germanici, unita ad una costante continua montante dissidenza contro l’ideologia nazifascista, in breve, all’interno del territorio della Repubblica Sociale, si formarono un po’ dappertutto sempre più numerose bande armate di partigiani. E sorgeva così nuovamente quello spirito di volontariato patriottico a cui la nazione tanto doveva. Nascosti sui monti, nei boschi e nei luoghi più impervi e inaccessibili, diedero vita a La Rassegna d’Ischia 7/98 23 Il volontariato militare nella storia una guerriglia intensa che logorò enormemente le forze tedesche e repubblicane. Essi, malgrado le difficoltà, sempre combatterono con onore, devozione alla Causa e sprezzo del pericolo e mai si lasciarono intimorire o scoraggiare da quei metodi, spietatamente violenti e intrisi di terrore, con i quali venivano contrastanti dalle forze regolari. Circa questi difensori della libertà, non si può concludere l’argomento senza pure aver rilevato che essi fecero ogni sforzo anche per tenere viva un’opposizione morale, ideologica e intellettuale contro quei principi totalitari che Fascismo e Nazismo rappresentavano. Pure presso la Repubblica Sociale si era avuto un affluire di molti volontari che vollero andare a combattere per una causa che ritenevano giusta. Anche non volendo negare che tanti erano realmente degli idealisti, convinti di dover salvare dal baratro un regime politico che si stava consumando tra le fiamme della guerra, la maggior parte di essi, male impiegati, divennero solo gli aguzzini al servizio delle SS. germaniche. Pertanto, il loro utilizzo militare non risultò volto tanto contro le truppe anglo-americane, quanto ad alimentare una feroce e mortificante guerra civile nei confronti di dissidenti, oppositori e partigiani. Nell’Italia meridionale il governo di questo nuovo Stato libero, il 27 settembre 1943, veniva autorizzato dal comando militare alleato a costituire un raggruppamento che cooperasse al riscatto dell’intera penisola. In esso, tutto a base volontaria, tra le varie specialità trovò posto anche il 51° Battaglione Bersaglieri, ovviamente pur esso formato da giovani volontari. Tale reparto, a Monte Lungo (8 dicembre), ebbe occasione di porsi prepotentemente in luce nella lotta contro i tedeschi. L’azione costò un gran numero di morti e feriti. Tuttavia tutti seppero e vollero morire con onore a tutela dei perenni ideali di Libertà e Giustizia, ma anche a difesa della propria patria oltraggiata dal furore teutonico. Dopo che il generale Clark aveva additato questi uomini 24 La Rassegna d’Ischia 7/98 Armellini, Mazzini e Soffici, i triumviri della Repubblica romana (Museo del Risorgimento di Roma) quale esempio da imitare a tutti popoli d’Europa ancora oppressi, l’iniziale raggruppamento aumentò la sua consistenza fino a divenire il “Corpo italiano di liberazione”. Esso continuò così ininterrottamente, a fianco degli alleati, a prendere parte a tutte le successive fasi della guerra, destinata a concludersi con la totale liberazione del suolo italiano. Con il ristabilimento della pace le nostre forze armate ritornarono nella loro condizione di non belligeranza, continuando nel contempo ad essere una palestra formativa e addestrativa di un’idea morale di tutela e difesa della libertà, della democrazia e della dignità. Lo spirito del volontariato intanto, mai sopito, ricompariva, con diversa spiritualità e finalità, ogni qual volta una sciagura si abbatteva sul territorio nazionale. In tali circostanze infatti gli uomini dei reparti impegnati, andando ben al di là degli ordini ricevuti, con slancio, dedizione e abnegazione, davano vita ad una nobile fraterna gara di spontaneo generoso altruismo. La storia del volontariato militare non termina qui, in quanto, proprio in questi ultimi anni, con il modellarsi dell’esercito su basi volontarie, sta raggiungendo la sua perfezione storica. È infatti in corso la realizzazione di una sintesi tra volontari e regolari. Raccogliendo e fondendo queste due antiche tradizioni, si sta così creando una nuova forza armata: il sempre tanto desiderato e auspicato intreccio tra esercito e popolo. Di conseguenza, i risultati non si sono fatti attendere! Oltre ad un efficiente contributo dato in operazioni di ordine pubblico, molte unità italiane, composte da soli volontari, hanno anche partecipato a rischiose e delicate operazioni umanitarie fuori dai confini nazionali. Ivi, pur muovendosi in uno scenario caratterizzato da gravi difficoltà, ambientali e operative, sempre hanno agito con dedizione ed elevata professionalità, in una lotta a favore della pace e della civiltà, ma anche a tutela della vita e della dignità di minoranze etniche e religiose. Vincenzo Cuomo