GIUSTINO MARTIRE II più famoso dei primi apologisti fu Giustino martire, che insegnava la filosofia cristiana nelle sue stanze sovrastanti uno stabilimento termale di Roma. Pagano di nascita, nato attorno all'anno 100 a Flavia Neapolis (l'attuale Nablus in Cisgiordania, a poca distanza dall'antica Sichem), fu istruito nella filosofia greca, specialmente negli insegnamenti di Platone. Era ancora giovane quando la verità gli venne rivelata in una discussione casuale con un vecchio sconosciuto e si convertì al Cristianesimo. Nel tentativo di convincere l'imperatore Antonino Pio delle virtù dei Cristianesimo, Giustino gli dedicò nel 155 la sua “Prima apologia”, un saggio alquanto prolisso che difende il Cristianesimo dall'accusa di ateismo. Ricorrendo alla propria formazione filosofica, Giustino criticava aspramente il concetto di “pietas” (religiosità) dei pagani ed affermava che i cristiani erano realmente colpevoli di ateismo, se "pietas" significava soltanto adorazione di corrotti dèi pagani. Giustino sosteneva la superiorità dei modello cristiano di vita, specialmente se confrontato con alcune pratiche immorali di maghi e seguaci di religioni misteriche. Sviluppando un metodo che aveva usato anche nel “Dialogo” con l'ebreo Trifone, cercava di comprovare la verità della fede cristiana dimostrando come Cristo avesse adempiuto le profezie degli antichi profeti Ebrei. Per confutare le voci incessanti circa il cannibalismo dei Cristiani, Giustino spiegò la dottrina della Santa Cena, scrivendo che essa consisteva soltanto in pane e in vino che ricordano “la carne e il sangue di Gesù fatto uomo”. Non mancò, inoltre, di dare informazioni importanti sullo svolgimento della vita interna della comunità cristiana, specialmente per quanto concerneva l'iniziazione dei credenti con il rito dei battesimo in acqua. Giustino cercò anche di conciliare il Cristianesimo con la filosofia greca, sostenendo che Gesù aveva incarnato il concetto filosofico di ragionamento divino, cioè il Logos. Gesù, egli affermava, è il Logos incarnato in forma umana, quindi i grandi filosofi antichi come Socrate o Platone avevano, in realtà, soltanto intravisto delle verità parziali, ossia dei “semi” del Logos. Giustino conclude audacemente questa sua prima apologia rivolta all'imperatore pagano Antonino Pio, affermando con vari ragionamenti che i Cristiani, per la loro morale rigida e severa, sono i sudditi migliori dell'Impero e possono costituire il cemento spirituale di cui la società pagana dimostra di avere assolutamente bisogno, all'unica condizione, però, che l'imperatore romano rinunci, a sua volta, all'assurda pretesa di sostituirsi alla divinità e di esigere onori divini. Durante il regno di Antonino Pio, forse nello stesso anno 15.5, Giustino scrisse il “Dialogo con l'ebreo Trifone”, anche se è probabile che il dibattito risalisse a circa 20 anni prima. Benché il messaggio cristiano non avesse fatto presa sulla grande maggioranza degli Ebrei, questo scritto ci fornisce la prova che Cristiani del II secolo erano ancora decisi a diffondere il Vangelo in mezzo a loro. Quest'opera racconta di un avvincente dibattito che il filosofo cristiano ha avuto con un Ebreo di lingua greca di nome Trifone. In questo scritto Giustino afferma ripetutamente che l'avvento di Cristo rappresentava l'adempimento delle profezie dell'Antico Testamento. In un passaggio, Trifone chiede come Gesù potesse essere il Christos (il termine greco per “Messia”, dato che, in base alla legge ebraica, la morte per crocifissione era degradante e, quindi, indegna del Messia. Giustino spiega che il mistero della croce può essere fatto risalire all'Antico Testamento, dove era prefigurato simbolicamente e, per dimostrarlo, ricorre al libro dell'Esodo in cui si dice che Mosè era rimasto a braccia aperte per ore, in un gesto che assicurava gli Israeliti la vittoria sul nemico. Secondo Giustino, il simbolo delle braccia aperte significava la salvezza di Israele, concretizzatasi poi con la morte in croce di Cristo. La Chiesa è il nuovo Israele, prosegue Giustino e incita Trifone e gli altri Ebrei ad accettare il fatto che Cristo era venuto sulla terra per la salvezza di tutte le genti: “II Legislatore è venuto, ma voi non lo vedete; ai poveri è stato predicato il Vangelo, i ciechi vedono, ma voi non comprendete”. Il Dialogo è un incontro garbato fra un ebreo e un cristiano, ben diverso dai violenti attacchi al Giudaismo che avrebbero caratterizzato l'opera di scrittori di epoche successive. Giustino mostra comprensione per il disorientamento di Trifone di fronte alle diverse credenze che sommergevano la Chiesa e gli assicura che Gesù stesso aveva profetizzato: “Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti”. Attorno al 161, Giustino scrisse una seconda, più breve, apologia, questa volta rivolta all'imperatore Marco Aurelio, in cui denunciava le persecuzioni dei Cristiani, mostrando quanto fosse ingiusto condannare persone il cui solo crimine era la confessione della propria fede. Giustino non esita ad indicare il prefetto di Roma Lollio Urbico come la causa diretta dell'ostilità promossa contro i Cristiani, così come non dubita di accennare al filosofo cinico Crescenzio come promotore della sua prossima denuncia. Ma egli non teme, perché ai Cristiani sta a cuore più la verità che non la vita. I giusti, in ogni tempo, hanno subito le persecuzioni, e Dio le permette perché essi, attraverso le prove, possano giungere al premio da Lui promesso. Questa seconda apologia, quindi, si conclude con la supplica, rivolta all'imperatore, di giudicare i Cristiani secondo i criteri della giustizia, della pietà e dell'amore della verità. Poco tempo dopo, Giustino fu davvero denunciato dal suo nemico personale, il filosofo cinico Crescente, un anticristiano che egli aveva sconfitto anni prima in un dibattito e che aveva già cercato una volta di farlo arrestare, senza riuscirvi. Ma nel 167, i Romani furono colpiti da una pestilenza e Crescente accusò nuovamente Giustino. Questa denuncia costò a Giustino la vita. Fu portato in giudizio davanti a Quinto Giunio Rustico, magistrato severo ma onesto, che aveva grande influenza su Marco Aurelio. Minacciato di venire flagellato, Giustino rispose: “Non chiediamo niente di meglio che soffrire per amore dei nostro Signore Gesù Cristo”. Rifiutò di rinnegare la fede che aveva difeso così brillantemente e con tanto ardore e subì il martirio tramite decapitazione.