Ambiziosa e fragile opera prima (di finzione) del documentarista

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Ambiziosa e fragile opera prima (di finzione) del documentarista Yaron Zilberman
Marzia Gandolfi
Peter Mitchell è violoncellista e vedovo inconsolabile di un mezzosoprano, Daniel Lerner è primo
violino con l'ossessione della perfezione, Robert Gelbart è secondo violino col complesso del
numero due, Juliette Gelbart è violista e moglie insoddisfatta di Robert. Insieme compongono un
celebre quartetto d'archi che da venticinque anni raccoglie applausi e consensi in tutto il mondo. Il
Parkinson diagnosticato a Peter getta il gruppo nel panico e nello sconforto. Alla vigilia di una
nuova stagione dovranno fare i conti con la malattia di Peter, l'Opera 131 di Beethoven e la vita che
mette a dura prova i loro sentimenti e la loro relazione. Tra colpi di scena e colpi di archetto si
'accorderanno' perdendo la leggerezza ma ritrovando l'armonia.
Opera prima (di finzione) del documentarista Yaron Zilberman, Una fragile armonia combina la
malattia imprevedibile con la necessità programmatica di osservare le cose da più punti di vista per
non farsene travolgere. I punti di vista sono quelli personali e professionali di quattro artisti
inseparabili nella vita come sul palcoscenico, chiamati a prendere coscienza del momento
drammatico, a ripensarsi e a ripartire trasformati. Emotivamente alle prese con uno shock, i
protagonisti di Zilberman si perdono comprensibilmente muovendosi nella vita come nell'Opera
131 di Beethoven, che vogliono eseguire alla prossima esibizione. E come la celebre partitura, il
film apre con una fuga che procede e sperimenta la composizione dei parametri (ritmo, melodia,
armonia) fino quasi al punto di rottura.
A quello stesso breakpoint arrivano i personaggi scritti e diretti (male) da Zilberman, lontano anni
luce dalla complessità e dall'enigmaticità del compositore tedesco, di cui ricalca pedestremente
l'architettura senza mai centrare o anche solo avvicinare nella narrazione gli inseguimenti, le
variazioni, gli accordi, i pizzicati, gli inserimenti degli strumenti gravi e di quelli acuti. Di greve poi
c'è la retorica dei dialoghi, a cui si accompagna una messa in scena convenzionale che nel suo
declinarsi in 'dramma' rimane schiacciata dalle eccessive ambizioni, cedendo alla formula di facile
consumo. Ambizioso e fragile come l'armonia del titolo, il dramma di Zilberman lo è pure nella
scelta del cast (Philip Seymour Hoffman, Christopher Walken, Catherine Keener, Mark Ivanir),
nobile e nondimeno inefficace in una storia svenevole che accumula eventi in modo naïf e
annunciato. A dirigere e (r)accordare i destini dei personaggi in scena è il protagonista di
Christopher Walken, che alla maniera dei suoi colleghi non aderisce mai al personaggio che incarna
e che si vorrebbe innamorato fino allo spasmo del proprio mestiere. Walken e compagni
mantengono con lo strumento 'suonato' una relazione artificiosa e una distanza fastidiosa quanto gli
aneddoti che il suo Peter enuncia in aula davanti a studenti sapientemente addomesticati. Il risultato
è un prodotto senza colpi d'ala in altezza e troppi virtuosismi imbranati, un dramma niente affatto
appagante per chi vi interviene e per chi vi assiste.
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