atomi metafore paradossi - Casa editrice Le Lettere

SANDRO PETRUCCIOLI
ATOMI METAFORE PARADOSSI
Niels Bohr e la costruzione di una nuova fisica
Le Lettere
SOMMARIO
Premessa ………………….…………………………….
p.
7
Introduzione ……………….…………………………..
»
13
I.
IL PARADIGMA DELLA COMPLEMENTARITÀ ……..
»
22
II. MODELLO D’ATOMO E IPOTESI QUANTISTICHE ...
»
52
III. IL PRINCIPIO DI CORRISPONDENZA ……………...
»
98
IV. LA TEORIA DEGLI OSCILLATORI VIRTUALI ………
»
135
»
162
……………………..
»
217
Bibliografia ……………………………………………
»
257
Indice dei nomi ………………………………………..
»
283
V. LA FONDAZIONE CONCETTUALE DELLA
MECCANICA QUANTISTICA
………………………
VI. IL CONFRONTO BOHR EINSTEIN:
FENOMENI E REALTÀ FISICA
II.
MODELLO D’ATOMO E IPOTESI QUANTISTICHE
1. Nel 1913 Bohr pubblicava sul «Philosophical magazine» un lungo articolo in tre parti che contiene la prima teoria quantistica
dell’atomo – il titolo dell’articolo è On the Constitution of Atoms
and Molecules e divenne ben presto noto negli ambienti scientifici
del tempo come “trilogia” di Bohr1. Con essa riceveva un efficace
fondamento teorico quel modello d’atomo nucleare affermatosi agli inizi del secondo decennio del secolo grazie a nuove scoperte
sperimentali sui costituenti elementari della materia. Di solito,
l’importanza e l’originalità del contributo di Bohr vengono attribuite al fatto che egli utilizzava con successo concetti quantistici
nella soluzione di problemi riguardanti la costituzione e le proprietà fisiche degli atomi, operando così una significativa estensione
del campo di validità delle ipotesi di quantizzazione introdotte per
la prima volta da Planck all’inizio del secolo. Fino al 1910, se si escludono pochissime anche se rilevanti eccezioni (soprattutto Einstein, von Laue, Ehrenfest), era infatti largamente diffusa tra i fisici
la convinzione che la costante h di Planck fosse caratteristica soltanto del problema della radiazione termica, cioè fosse un’ipotesi
particolare che consentiva la derivazione teorica della legge del
corpo nero2. Il lavoro di Bohr assumerebbe perciò un doppio valoN. Bohr, On the Constitution of Atoms and Molecules, «Philosophical Magazine», 26, 1913, pp. 1-25, 476-502, 857-75; CW2, pp. 161-85, 188-214, 215-33; TA, pp.
11-83.
2
Th. S. Kuhn, The black-body theory and the quantum discontinuity, 1894-1912,
Oxford University Press, New York 1978, in part. cap. IX.
1
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re nell’evoluzione della fisica del Novecento: per un verso, rappresenterebbe il primo tentativo di elaborare una teoria coerente sulla
costituzione dell’atomo, in grado di spiegare buona parte del materiale sperimentale disponibile e di dedurre le leggi empiriche sugli
spettri degli elementi; per l’altro, segnerebbe un decisivo progresso
delle concezioni quantistiche, riconoscendo ad esse un alto grado
di generalità.
Tuttavia, vedremo che, su entrambi questi aspetti, la trilogia
non comportava l’affermazione di un nuovo paradigma, essendo
molti più i problemi che essa sollevava rispetto a quelli effettivamente risolti; il suo contenuto va considerato piuttosto come un
impegnativo e ambizioso programma di ricerca che obbligherà i
fisici, dopo il 1913, a cimentarsi sul duplice fronte dell’allargamento della conoscenza dei fenomeni atomici e di una radicale e per
certi aspetti allora imprevedibile revisione dei fondamenti della fisica. Questa fase di sviluppo della teoria atomica sorretta dal programma di Bohr del 1913 fu tutt’altro che breve e si concluse soltanto nell’autunno del 1927, quando, come si è visto, lo stesso
Bohr fornì l’interpretazione fisica della meccanica quantistica alla
luce dell’idea di complementarità.
Il lavoro di Bohr del 1913 si colloca dunque in una prospettiva storica che va ben oltre il ruolo che la trilogia svolse al suo apparire rispetto alle questioni interne a un particolare dominio della fisica, quelle della natura e del comportamento osservabile di
oggetti microscopici. Soltanto in questo quadro più ampio è possibile ricostruire la complessa rete di rapporti concettuali e metodologici che si estende dalla comparsa della prima ipotesi quantistica di Planck all’affermazione di una nuova meccanica, nel corso degli anni Venti. Fu necessario, infatti, circa un trentennio di
ricerche perché, come avrebbe osservato in seguito Bohr, si riuscisse a svelare l’effettivo significato fisico e a mostrare tutte le
implicazioni concettuali dell’idea di Planck, secondo cui la quantità di energia scambiata tra un campo di radiazione e un oscillatore di frequenza n (una carica che oscilla attorno a una posizione
di equilibrio) non è il risultato di un processo continuo, bensì dipende da eventi distinti, in ciascuno dei quali interviene una
quantità finita e indivisibile di energia.
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In realtà, questo modo di leggere Planck, e soprattutto le conseguenze inevitabili che dal concetto di discontinuità deriverebbero riguardo al fallimento dell’elettrodinamica classica, fu a lungo
controverso. Infatti, l’originaria formulazione planckiana della teoria del corpo nero faceva uso della quantizzazione come ipotesi sul
modo in cui l’energia totale del sistema può distribuirsi tra N oscillatori di frequenze diverse. Essa era cioè utilizzata come base per
alcune considerazioni probabilistiche necessarie a ricavare il valore
dell’entropia del sistema, e almeno fino al 1908 non era interpretabile, per Planck, da un punto di vista fisico, come applicazione del
concetto di discontinuità ai processi atomici. Inoltre, essa non implicava necessariamente che l’interazione tra oscillatore e radiazione fosse un processo estraneo alle possibilità interpretative dell’elettrodinamica ottocentesca, cioè fosse un processo non classico.
La convinzione che si dovesse associare al quanto l’idea di discontinuità fisica cominciò soltanto più tardi a farsi strada lentamente,
anche dopo le prime dimostrazioni che la quantizzazione dell’energia era applicabile nello studio di altri settori dell’esperienza
(per es., nell’interpretazione dell’effetto fotoelettrico a opera di
Einstein); si giunse così a mettere in evidenza un contenuto fisico
del quanto h ben più profondo di quello originariamente riconosciuto dallo stesso Planck3.
«Anche quando la fama di Einstein crebbe, e lo fece rapidamente, le sue posizioni circa la necessità della discontinuità quantistica restarono sospette, poiché erano
costantemente associate all’ipotesi generalmente rifiutata dei quanti di luce. Se il mestiere del fisico consisteva nel riconoscere la sfida della legge di Planck, sarebbero state
necessarie immagini meglio fondate per essere persuasi che essa richiedeva una frattura
con la fisica classica. Nel corso del 1908, Lorentz produsse una nuova e particolarmente avvincente derivazione della legge di Rayleigh-Jeans. Di conseguenza poco dopo egli
si persuase che i suoi risultati richiedevano l’adozione della teoria di Planck, compresa
la discontinuità o qualche analogo distacco dalla tradizione. Wien e Planck adottarono
rapidamente posizioni analoghe, il primo probabilmente e quest’ultimo sicuramente
sotto l’influenza di Lorentz. [...] Questi sono gli eventi centrali attraverso i quali il
quanto di energia e la discontinuità cominciarono a sfidare la fisica» (Th.S. Kuhn, The
black-body, cit. n, 2, p. 189). Si riportano queste affermazioni di Kuhn ben sapendo
che la sua interpretazione, peraltro costruita attorno a una ricchissima documentazione
e su un’analisi puntuale dei testi, è stata oggetto di critiche; in part. Martin Klein (Paradigm lost? A review symposium, «Isis», 70, 1979, pp. 429-34), ha contestato la fondatezza storiografica di una delle tesi principali del lavoro di Kuhn, quella secondo la
quale l’originaria derivazione planckiana della legge di distribuzione della radiazione
sarebbe ancorata al contesto della tradizione classica e in essa non svolgerebbe alcun
3
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55
A una prima lettura, il panorama della fisica nei primi decenni
del secolo sembrerebbe caratterizzato dalla crescente consapevolezza del fallimento delle basi sulle quali era cresciuta la cosiddetta fisica classica, la meccanica di Newton e l’elettrodinamica di Maxwell;
la relatività di Einstein e la teoria quantistica di Planck avrebbero
prodotto una tale lacerazione nel corpo delle conoscenze fisiche acquisite da costringere la comunità scientifica alla rifondazione di un
intero settore del sapere. In questo quadro apparirebbero perciò del
tutto giustificabili e razionalmente legittimi i passi che si ritiene Bohr
abbia compiuto nella costruzione della teoria quantistica dell’atomo:
adesione al modello di Rutherford composto da un nucleo carico
positivamente e da un numero di elettroni liberi di muoversi su orbite prefissate; riconoscimento dei limiti dell’elettrodinamica classica
nella giustificazione della stabilità radiativa degli elettroni; applicazione dell’ipotesi di Planck a tale modello, che si tradusse nelle asserzioni generali secondo cui: (a) gli elettroni possono occupare stabilmente soltanto orbite discrete, alle quali è associato un valore
dell’energia ricavabile dalla cosiddetta condizione quantistica per gli
stati stazionari; (b) l’atomo emette e assorbe energia sotto forma di
radiazione non in modo continuo, ma per quanti – a ogni processo
di emissione della radiazione corrisponde una transizione di un elettrone da uno stato stazionario a un altro, cioè da un’orbita a un’altra
di differenti valori dell’energia4.
In realtà conclusioni del genere, che fanno appello a fasi di
brusche discontinuità nello sviluppo della conoscenza per giustificare le scelte operate dagli scienziati, dovrebbero essere subordinaruolo la nozione di discontinuità. D’altra parte, è noto che Kuhn definisce il proprio
lavoro un’eresia storiografica.
4
Questa interpretazione costituisce lo standard dei manuali di fisica atomica; cfr.
per es., E.K. Richmyer, E.H. Kennard, T. Lauritsen, Introduction to modem physics,
McGraw-Hill, New York, i quali sostengono che «la teoria di Bohr rappresentò
un’estensione della teoria del quanti di Planck all’atomo nucleare dl Rutheriord, nel
tentativo di rimuovere le difficoltà del modello a nucleo e spiegare le origini degli spettri caratteristici degli elementi». A loro avviso, inoltre, dopo aver tentato diverse ipotesi alternative, Bohr «adottò alla fine la stessa ipotesi che Planck aveva fatto per i suoi
oscillatori». A partire dal classico lavoro di J. L. Heilbron e Th.S. Kuhn (The genesis of
the Bohr atom, «Historical studies in the physical sciences», 1, 1969, pp. 211-90), che
per primo ha tentato una ricostruzione della teoria di Bohr sulla base di un ricco materiale documentario, ha cominciato ad essere più problematico il ruolo cruciale svolto
in questo quadro dal paradigma planckiano.
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te a tentativi più approfonditi di verificare se quelle scelte non fossero conseguenza dei problemi concreti con i quali essi dovettero
misurarsi. Nel nostro caso, può essere utile in questa prospettiva
tentare di indebolire le affermazioni precedenti sulle mosse che avrebbero guidato Bohr nella costruzione della teoria atomica, e
cercare di rispondere ai seguenti interrogativi: l’originalità del lavoro di Bohr è riassumibile nell’applicazione dell’ipotesi di Planck al
problema della costituzione dell’atomo? La sua teoria può essere
vista perciò come una semplice ripresa in un diverso contesto fenomenico delle idee affermatesi in seno alla “old quantum theory”? In quale misura ciò fu effettivamente possibile? Bohr e gli
altri fisici atomici che utilizzavano concetti quantistici si muovevano davvero in un contesto teorico in cui era ammessa una crisi globale e irreversibile della fisica classica?
2. «A quanto pare, ciò è proprio quanto dovevamo aspettarci, poiché sembra rigorosamente provato che la meccanica non è in grado
di spiegare i fatti sperimentali quando si affrontano problemi riguardanti i singoli atomi. Tuttavia, in analogia con quello che abbiamo appreso in altri casi, sembra legittimo usare la meccanica
nello studio del comportamento di un sistema, purché si tralascino
le questioni di stabilità». Cosi Bohr motivava il ricorso all’ipotesi,
irriducibile alle leggi della meccanica classica, che il rapporto tra
l’energia cinetica e la frequenza di un elettrone atomico avesse
sempre un valore definito. Si trattava del suo primo tentativo di
quantizzazione del modello d’atomo e l’ipotesi è contenuta in un
memorandum, consegnato a Ernest Rutherford nell’estate del 1912
al termine del soggiorno di studi in Inghilterra, dove veniva tracciato il piano di un successivo lavoro sulla struttura e la stabilità
delle molecole. A suo avviso, questa era la soluzione che sembrava
«offrire la possibilità di una spiegazione di un intero gruppo di risultati sperimentali» e che riprendeva in qualche modo le concezioni di Planck e di Einstein sul meccanismo della radiazione5.
Come vedremo, il procedimento di quantizzazione, sottoposto
a Rutherford quale soluzione delle difficoltà teoriche sollevate dal
modello nucleare, era ancora molto distante da quell’originale ap5
Il memorandum presentato a Rutherford tra giugno e luglio del 1912 è pubblicato in CW2, pp. 136-58; la citazione è ripresa dalla nota di p. A2 del ms.
MODELLO D’ATOMO E IPOTESI QUANTISTICHE
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plicazione delle idee di Planck che di lì a pochi mesi gli avrebbe
permesso di formulare la teoria quantistica dell’atomo di idrogeno.
Inoltre, non c’era nulla di veramente nuovo nella convinzione che
la risposta ai molti problemi incontrati nello studio delle proprietà
della materia, e che comportano un riferimento diretto alla costituzione interna dell’atomo, andasse trovata in qualche ipotesi non
meccanica. Altri fisici avevano avanzato soluzioni del genere6, e lo
stesso Bohr aveva raccolto indizi significativi in questo senso fin
dalla sua tesi di dottorato, dedicata all’esame dei possibili sviluppi
e del grado di generalità della teoria elettronica dei metalli formulata da Lorentz nel 19057.
La tesi di Bohr era giunta a conclusioni di grandissimo interesse quando, nella prospettiva ambiziosa dell’originario programma
di Lorentz, aveva tentato di estendere la teoria anche a problemi
che quest’ultimo non aveva preso in considerazione, come la radiazione termica e il magnetismo. Qui si dimostrava, da una parte,
quanto fosse problematico considerare la teoria elettronica dei meUno dei principali tentativi di quantizzazione del modello d’atomo fu quello
compiuto da Arthur Erich Haas nel 1910; egli partiva dal modello di Thomson (cfr.
infra) e applicava un’ipotesi quantistica di tipo planckiano all’energia di un elettrone
che si muove su una circonferenza di raggio r, concentrica con una sfera nella quale è
distribuita in modo uniforme una carica positiva. La teoria di Haas, quando fu presentata a una riunione della Società viennese di chimica fisica, venne ridicolizzata dai fisici
presenti e definita uno scherzo. Cfr., anche per la bibliografia dei lavori di Haas, M.
Jammer, The conceptual development of quantum mechanics, McGraw-Hill, New York
1966, pp. 39-41; inoltre, J.L. Heilbron, Bohr’s first theories of the atom, in A.P. French,
P.J. Kennedy (eds.), Niels Bohr. A centenary volume, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1985, pp. 33-49:38. Tuttavia, i diversi procedimenti di quantizzazione
furono oggetto di discussione al primo Consiglio Solvay del 1911, nel corso del quale
Sommerfeld, richiamandosi esplicitamente all’ipotesi di Haas, aveva sottolineato
l’importanza generale, al di là del modello, dell’esistenza di un qualche legame tra la
costante h e le dimensioni degli atomi (La théorie du rayonnement et les quanta. Rapports et discussions de la réunion tenue à Bruxelles, du 30 Octobre au 3 Novembre 1911,
publiés par P. Langevin et M. de Broglie, Gauthier-Villars, Paris 1912, p. 124). A questo proposito sono di grande interesse le considerazioni contenute nella relazione di
Planck (La loi du rayonnement noir et l’hypothèse des quantités élémentaires d’action,
ivi, pp. 93-114) e gli interventi di Lorentz nella discussione (ivi, pp. 115-32). Cfr. anche
J. Mehra, The Solvay conferences, cit., cap. I n. 6, cap. II.
7
N. Bohr, Studier Over Metallernes Elektrontheori, København 1911; CW1, pp.
167-290; tr. ingl., CW1, pp. 294-392. Bohr presentò ufficialmente la tesi di dottorato il
13 maggio 1911 e sostenne la discussione con il matematico P. Heegaard e il fisico C.
Christiansen; cfr. J. Rud Nielsen, Introduction to Part II, CW1, pp. 93-123, § 2.
6
58
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talli una base sufficientemente solida per ricavare dalle concezioni
della fisica classica la spiegazione di proprietà fondamentali della
materia, e dall’altra che il fallimento di quel programma forniva
indicazioni ancora più interessanti per il loro carattere di generalità. Si traevano, infatti, ulteriori e in un certo senso conclusive conferme del già fondato sospetto che molte delle difficoltà incontrate
in tale prospettiva fossero imputabili a una più generale incapacità
dell’elettromagnetismo a cogliere la reale natura fisica degli oggetti
microscopici. Il lavoro per la tesi di dottorato era stato dunque un
utilissimo terreno di ricerca, in quanto aveva permesso a Bohr di
verificare i limiti delle teorie classiche nello studio di nuovi settori
fenomenici; ma fu soprattutto decisivo, in vista dei suoi successivi
lavori teorici in fisica atomica, poiché consentiva di precisare dove
quelle teorie perdevano la loro efficacia interpretativa. Infatti, a un
esame attento, era la stessa teoria di Lorentz a dimostrare che le
idee classiche non incontrano ostacoli finché si affrontano problemi che non comportino alcun riferimento esplicito alla struttura
degli atomi, e inoltre che quando ciò accade si deve integrare il nostro riferimento concettuale con ipotesi ad esso irriducibili8.
Nell’autunno del 1911, Bohr era giunto a Cambridge per perfezionare la sua formazione scientifica presso il laboratorio di J.J.
Thomson, nel quale peraltro egli sperava di trovare un interlocutore interessato alle sue idee. A distanza di alcuni mesi, Bohr lasciava
l’Inghilterra senza che nessuna rivista fosse stata disposta a pubblicare la traduzione della sua tesi di dottorato ed essendo riuscito a
scambiare con Thomson soltanto qualche parola9. Aveva comun8
Cfr. L. Rosenfeld, Introduction, in N. Bohr, On the constitution of atoms and
molecules, Munksgaard, Copenhagen 1963, pp. XI-LIII; Biographical sketch, CW1, pp.
XVII-XLVIII: XIX; e, anche per un esame dei principali temi trattati da Bohr nella tesi,
cfr. J.L. Heilbron, Th.S. Kuhn, The genesis, cit. n. 4, pp. 213-23; J.L. Heilbron, Bohr’s,
cit. n. 6, pp. 34 sgg.
9
In una lunga lettera del 23 ottobre 1911 al fratello Harald, Bohr parlava delle
difficoltà incontrate nell’interessare Thomson ai suoi lavori: «In realtà avere a che fare
con Thomson si è rivelato di gran lunga più difficile di quanto credessi il primo giorno.
È un uomo eccellente, intelligentissimo e pieno di immaginazione (dovresti assistere a
una delle sue lezioni generali) e molto cordiale; ma ha talmente tanto da fare ed è così
assorbito dal suo lavoro che è davvero difficile riuscire a parlargli. Non ha ancora avuto il tempo di leggere il mio lavoro e non so se accetterà le mie critiche». Ciononostante, da brevissimi colloqui avuti con lui, Bohr aveva ricavato l’impressione che Thomson non condividesse le conclusioni della sua ricerca: «… egli pensa che si possa trova-
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59
que vissuto un’esperienza che si sarebbe rivelata in seguito estremamente feconda, soprattutto per i legami che aveva stabilito in
uno dei più vivaci e prestigiosi ambienti di ricerca sperimentale.
Agli studi condotti durante il soggiorno inglese, soprattutto dopo il
suo trasferimento a Manchester nel gennaio del 1912, si deve la
pubblicazione di un lavoro sul rallentamento delle particelle cariche nel passaggio attraverso la materia, da cui ricavò ulteriori suggerimenti per il suo approccio al problema della struttura atomica10. Ma ad essi si deve il ben più importante memorandum per
Rutherford dove, al di là dell’elaborazione teorica ancora provvisoria e largamente insoddisfacente, era indicato con estrema chiarezre un modello meccanico in grado di spiegare la legge della radiazione termica sulla
base delle leggi ordinarie dell’elettromagnetismo, una cosa che è ovviamente impossibile, come ho dimostrato indirettamente …». Infine, a proposito degli ostacoli incontrati per la pubblicazione della tesi di dottorato, Bohr informava il fratello di aver avuto da Larmor notizie poco confortanti circa il buon esito della richiesta fatta alla Royal
Society: «… egli ritiene che sarà impossibile, non perché è stato già pubblicata in danese, bensì perché contiene critiche a lavori di altri, e la Royal Society considera una
regola inviolabile non accettare critiche che non siano provocate da proprie pubblicazioni» (CW2, pp. 527-32). Bohr era stato informato ufficialmente da Larmor, allora
Segretario della Royal Society, della possibilità di pubblicare sui «Proceedings» un
abstract di 5 o 6 pagine nel quale fosse tuttavia eliminato ogni aspetto espositivo e qualunque questione controversa (Larmor a Bohr, 16 ottobre 1911, CW2, p. 104). Esiti
analoghi ebbero i suoi tentativi di ottenere la pubblicazione della tesi nelle «Transactions of the Cambridge philosophical society». Cfr. anche su questo problema J. Rud
Nielsen, Introduction, cit. n. 7, § 4.
10
N. Bohr, On the theory of the decrease of velocity of moving electrified particles
on passing through matter, «Philosophical magazine», 25, 1913, pp. 10-31; CW2, pp.
18-39. La pubblicazione è datata Manchester agosto 1912, ma apparve solo all’inizio
dell’anno successivo perché Bohr attese i risultati di alcuni esperimenti di Rutherford.
Questa ricerca, come scriveva al fratello Harald (12 giugno 1912, CW2, pp. 4-5), aveva
preso spunto da un lavoro di C.G. Darwin (A theory of absorption and scattering of the
a-rays, «Philosophical magazine», 23, 1912, pp. 901-20). Questi, muovendo dalle ipotesi secondo le quali nelle collisioni con la materia le particelle a perderebbero energia
solo quando fossero riuscite a penetrare nell’atomo, e gli elettroni avrebbero potuto
essere considerati liberi, trovava valori delle dimensioni atomiche in contraddizione
con quelli noti. Bohr escludeva che lo studio di questo fenomeno potesse prescindere
da un esame dettagliato del legame degli elettroni; egli riteneva piuttosto che si dovesse
tener conto della natura delle collisioni tra le particelle in relazione al periodo del moto
degli elettroni sotto l’azione delle forze di legame, e quindi che le perdite di energia
delle particelle incidenti fossero correlate con i diversi periodi degli elettroni stessi.
Cfr. L. Rosenfeld, Introduction, cit. n. 8, pp. XIX-XX; J.L. Heilbron, Th.S. Kuhn, The
genesis, cit. n. 4, pp. 239-41; U. Hoyer, Introduction to Part I, CW2, pp. 3-10, in part.
§§ 3-4.
60
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za e sorprendente maturità quello che, a suo avviso, avrebbe dovuto essere il presupposto metodologico per una fondazione razionale della fisica dell’atomo: usare la meccanica classica per studiare il
comportamento di un sistema atomico, anche qualora si debba far
ricorso a ipotesi largamente in contrasto con essa. Se tale assunzione, epistemologicamente azzardata, potrebbe apparire il prolungamento del già espresso giudizio negativo sulla fondatezza della fisica classica in questo ambito, per Bohr essa era in un certo senso
imposta da alcune evidenze empiriche e dall’immagine più probabile dell’atomo che ne derivava.
Lo studio sistematico della configurazione degli atomi e le indagini su fenomeni connessi con la distribuzione delle loro cariche interne costituivano un settore relativamente recente della ricerca fisica. Solo con il nuovo secolo si era definitivamente affermata l’idea
che gli atomi sono oggetti fisici complessi dotati di struttura interna; e l’elettrone, inteso come unità di carica elementare, non era più
una semplice congettura sulla natura dei raggi catodici, ma un oggetto di cui si conoscevano con precisione le principali proprietà e
caratteristiche fisiche: nel 1897, al Cavendish Laboratory di Cambridge, Thomson aveva misurato il rapporto tra la massa e la carica
dell’elettrone trovando conferma di precedenti previsioni teoriche.
Inoltre, appariva teoricamente fondata e giustificata su basi empiriche l’ipotesi che gli elettroni fossero presenti all’interno degli atomi
e che si trovassero in uno stato di legame elastico, formando un sistema di cariche oscillanti oppure di cariche rotanti su orbite particolari11. Nel dicembre 1903, lo stesso Thomson aveva proposto il
modello secondo il quale «gli atomi degli elementi sono formati da
un numero di corpuscoli elettrificati di carica negativa racchiusi in
una sfera dove l’elettricità positiva è distribuita in modo uniforme»12. Per motivi di stabilità meccanica, egli trovava che, se il numero di elettroni di un elemento è minore di cinque, essi occupano
11
Per una visione di insieme di queste tematiche e per i riferimenti alla bibliografia primaria e secondaria, si rinvia a J. Mehra, H. Rechenberg, The historical development of quantum theory, 5 voll., Springer-Verlag, New York 1982-87, vol. 1, Part 1,
pp. 168-81.
12
J.J. Thomson, On the structure of the atom – An investigation of the stability and
periods of oscillation of a number of corpuscles arranged at equal intervals around the
circumference of a circle; with application of the results to the theory of atomic structure,
«Philosophical magazine», 7, 1904, pp. 237-65: 237.
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61
posizioni regolari e hanno la stessa distanza dal centro della sfera; e,
inoltre, che in tutti gli altri casi gli elettroni tendono a distribuirsi su
anelli complanari, in un numero corrispondente alla posizione
dell’elemento nella tavola periodica di Mendeleev. In entrambi i casi, però, il modello di Thomson garantiva la stabilità degli elettroni,
i quali una volta spostati dalla loro posizione di equilibrio tendevano a ritornarvi. La teoria di Thomson rendeva conto, inoltre, di importanti fenomeni nei gas, come la dispersione della luce, la diffusione dei raggi X e l’assorbimento dei raggi b. Ma, come noto, ben
presto nuovi risultati sperimentali misero in evidenza serie difficoltà
interpretative di questo modello. Nel 1909 Hans Geiger e Ernest
Marsden, studiando la diffusione di fasci di particelle cariche, i raggi a, da parte della materia, avevano osservato un comportamento
anomalo – cioè incompatibile con le idee correnti sulla configurazione atomica – nella direzione di alcune particelle dopo l’urto con
atomi pesanti. Circa due anni dopo Rutherford, allora direttore dei
laboratori di Manchester, giungeva alla seguente conclusione: «Al
fine di spiegare questi e altri risultati, si deve supporre che le particelle cariche attraversino un intenso campo elettrico all’interno
dell’atomo. La diffusione delle particelle cariche si spiega con un
tipo di atomo formato da una carica elettrica positiva concentrata in
un punto e circondata da una distribuzione sferica uniforme di elettricità negativa di uguale intensità»13. Sulla base del modello illustrato, egli ricavava la formula che descrive lo scattering delle particelle a, e in particolare la dipendenza angolare della distribuzione
osservata, in modo particolarmente brillante e in perfetto accordo
con i dati sperimentali disponibili.
È utile osservare che all’epoca l’adesione alla nuova ipotesi di
Rutherford era molto meno scontata di quanto si possa pensare, sia
per motivi teorici, visto che l’atomo dotato di nucleo si scontrava
con il ben noto problema della stabilità delle orbite, sia per ragioni
sperimentali. Infatti, il modello di Thomson da alcuni anni aveva da13
E. Rutherford, The scattering of a and b particles by matter and the structure of
the atom, «Proceedings of the Manchester literary and philosophical society», 55,
1911, pp. 18-20; The scattering of a and b particles by matter and the structure of the
atom, «Philosophical magazine», 21, 1911, pp. 669-88; gli articoli sono anche in The
collected papers of Lord Rutherford of Nelson, 3 voll., Interscience, New York 1962,
vol. II, pp. 212-13 e 238-54, rispettivamente.
62
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to luogo a un gran numero di ricerche, tendenti per es. a determinare il rapporto tra numero degli elettroni e il peso atomico degli elementi e a fornire una spiegazione delle loro proprietà fisiche e chimiche in relazione alla loro distribuzione nella tavola periodica, e
spesso si erano ottenuti risultati a sostegno del modello di partenza.
Quando Bohr giunse a Manchester, dopo la deludente permanenza al Cavendish Laboratory, trovò un ambiente pienamente disposto ad accogliere contributi che fossero in grado di arricchire le
prospettive di ricerca aperte dal nuovo modello. Per questo Rutherford e i suoi collaboratori, sebbene impegnati principalmente
nella ricerca di nuovi esperimenti che confermassero la realtà del
nucleo, manifestarono subito un grandissimo interesse per le idee
del giovane fisico danese14. D’altra parte, la questione dell’instabilità delle orbite non doveva turbare gran che i pensieri di Bohr,
per il quale sicuramente non si era in presenza di un difetto imputabile alle caratteristiche del modello, ma di una conferma ulteriore
della già nota impossibilità di affrontare con strumenti classici
l’indagine sulla struttura degli atomi. Ciò spiegherebbe perché il
procedimento di quantizzazione, l’«ipotesi speciale» contenuta nel
memorandum, non fosse finalizzata, come sarebbe spontaneo attendersi, alla soluzione coerente di questo problema; o meglio perché fin da allora egli avesse rinunciato a ricomporre la contraddizione più che evidente tra la possibilità del moto orbitale di particelle cariche e le leggi dell’elettrodinamica di Maxwell-Lorentz.
Bohr parlava di stabilità dell’atomo, ma il problema che aveva in
mente non riguardava le perdite di energia radiante che tali leggi
associano al moto accelerato degli elettroni.
È vero, come è stato osservato, che in quegli anni la questione
dell’instabilità radiativa, a differenza di quella meccanica, non era
un criterio discriminante tra l’una o l’altra immagine dell’atomo,
visto che da quel genere di instabilità era affetto qualunque modelIl laboratorio di Rutherford raccoglieva alcuni tra i migliori fisici sperimentali
del momento, tra i quali H. Geiger, W. McKower, E. Marsden, E.J. Evans, A.S. Russell, K. Fajans, H.G.J. Mosely, G. Hevesy e J. Chadwick. Cfr. L. Rosenfeld, E.
Rüdinger, The decisive years 1911-1918, in S. Rozental (ed.), Niels Bohr. His life and
work as seen by his friends and colleagues, North-Holland, Amsterdam 1967, pp. 38-73;
e per le ricerche condotte da Bohr durante la sua permanenza a Manchester, L.
Rosenfeld, Biographical sketch, cit. n. 8, pp. XXI-XXV.
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lo contenesse cariche in moto; e probabilmente è anche vero che
un simile ostacolo sembrava suscitare uno scarso interesse nei fisici
impegnati in questo settore15. Ma osservazioni sul clima dominante
negli ambienti scientifici del tempo non sono certo sufficienti a
spiegare le ragioni che spinsero Bohr a operare fin dall’inizio una
drastica riduzione degli obiettivi della teoria che intendeva costruire. Molto più convincente, ai fini di una giustificazione di quella
scelta, è sicuramente l’ipotesi che già in quei mesi egli avesse maturato il giudizio sulla portata delle nuove concezioni quantistiche,
reso esplicito nei lavori successivi; ovvero, che con il concetto di
quanto di azione di Planck la fisica si fosse collocata definitivamente fuori del campo di validità delle teorie classiche e che per questo
sarebbe stato necessario sviluppare un nuovo sistema di riferimento concettuale16. Come vedremo, nel contributo dato da Bohr alla
fondazione della fisica atomica tale idea svolse un ruolo decisamente più importante e più fertile di possibili, ma non sempre semplici
generalizzazioni delle tecniche di quantizzazione. Forse questo era
il debito intellettuale maggiore che egli aveva contratto con Planck
e Einstein.
La stabilità che egli intendeva restituire al modello d’atomo di
Rutherford, per dimostrarne la definitiva superiorità sul modello di
Thomson, è strettamente connessa con una difficoltà che si incontra nell’applicazione di considerazioni meccaniche allo studio della
configurazione elettronica: la conoscenza dell’intensità della carica
centrale e del numero di elettroni contenuti in un anello non ci
fornisce alcuna informazione utile sulle frequenze di moto degli
elettroni stessi. Tutto ciò che si può ricavare da queste considerazioni è, infatti, la relazione (e2/a2)X5ma(2pn)2 tra la frequenza n di
In proposito, Heilbron e Kuhn (The genesis, cit. n. 4, p. 241 n. 81) hanno sottolineato l’errore spesso presente in letteratura e nei manuali che nasce dall’assegnare
all’instabilità radiativa un ruolo cruciale nello sviluppo della prima teoria dell’atomo. A
posizioni del genere (per es., L. Rosenfeld, Introduction, cit. n. 8) obiettano che
«l’instabilità radiativa, a differenza di quella meccanica, non distingueva il modello di
Rutherford da quello di Thomson» e che «il problema dell’instabilità radiativa era ben
noto e sembrava aver sollevato scarso interesse». Motivi di ordine teorico, ma anche
relativi al contesto del dibattito del tempo sarebbero, a loro avviso, sufficienti per rimuovere il luogo comune circa le difficoltà iniziali incontrate dal modello nucleare e i
problemi che stimolarono le prime ricerche di Bohr in fisica atomica.
16
È questo il giudizio espresso dello stesso Bohr, alla fine del 1913; cfr. infra.
15
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rivoluzione e il raggio a dell’anello, che nulla dice sui possibili stati
di oscillazione delle particelle atomiche, visto che al variare di a si
può ottenere un numero infinitamente grande di frequenze. È allora del tutto evidente, secondo Bohr, che soltanto un’ulteriore ipotesi non meccanica sarebbe riuscita a render conto di quella stabilità caratteristica degli atomi esistenti in natura, suggerendo, in particolare, un criterio rigoroso per discriminare tra tutti gli stati meccanicamente possibili quelli fisicamente ammessi. Come si è visto,
l’idea avanzata nel memorandum è che questi ultimi soddisfino la
proprietà per cui il rapporto tra l’energia cinetica e la frequenza di
un elettrone assume un valore definito, che egli poneva uguale a
una costante K. Per giustificare tale condizione, Bohr si richiamava
a precedenti illustri, che avevano ottenuto significative conferme
sperimentali del loro modo di trattare il meccanismo della radiazione; ma in essa ben poco era rimasto delle ipotesi quantistiche di
Planck e di Einstein, al di là di un’assai vaga analogia. Infatti, in
questo caso, non soltanto era scomparso qualsiasi procedimento di
quantizzazione dell’energia totale dell’oscillatore, sostituito da una
semplice dipendenza della frequenza dall’energia cinetica, ma la
costante di proporzionalità che compariva in quest’ultima relazione non era affatto riducibile a qualche multiplo o sottomultiplo significativo del quanto di azione h di Planck.
L’esempio della molecola di idrogeno, con cui Bohr intendeva
verificare la validità della sua impostazione teorica, permetteva di
ricavare un’espressione attendibile dell’energia del sistema, ovvero
del lavoro richiesto per rimuovere un elettrone dalla molecola. Utilizzando questa espressione dell’energia per determinare il calore
prodotto nella formazione di una molecola di idrogeno egli trovava, infatti, un valore dello stesso ordine di grandezza di quello ricavato sperimentalmente. È stato tuttavia dimostrato che con i dati
a disposizione di Bohr la stima migliore di K era approssimativamente uguale a 0.6h17. Ma, nonostante questi non trascurabili osta17
A questa conclusione giunge Rosenfeld (Introduction, cit. n. 8, pp. XXIX sgg.)
sulla base delle relazioni contenute nel memorandum. Rosenfeld avanza, inoltre,
l’ipotesi che una pagina sia andata perduta; ciò spiegherebbe perché nel testo non vi
sia traccia del giudizio di Bohr circa la relazione che dovrebbe esistere tra la costante
di Planck e il coefficiente K. Cfr. anche, J.L. Heilbron, Th.S. Kuhn, The genesis, cit. n.
4, pp. 248-51.
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coli concettuali e formali, Bohr si dichiarava a questo punto convinto, come scrisse al fratello Harald poco prima di far ritorno a
Copenhagen, di aver trovato qualcosa sulla struttura degli atomi e
di essere riuscito ad afferrare un frammento di realtà18.
Il 6 marzo 1913, Bohr inviava a Rutherford il primo capitolo
dell’articolo sulla costituzione degli atomi, al quale aveva cominciato a lavorare nelle ultime settimane di permanenza a Manchester, e
nella lettera allegata esprimeva la speranza che egli trovasse ragionevole il punto di vista assunto in merito «alla delicata questione
dell’uso simultaneo della vecchia meccanica e delle nuove ipotesi
introdotte dalla teoria della radiazione di Planck», e aspettava con
ansia di sapere cosa Rutherford ne pensasse19. Il periodo di tempo
trascorso era stato relativamente breve, se si tiene conto sia della
complessità oggettiva del progetto iniziale di Bohr, sia del fatto
che, dopo il suo ritorno a Copenhagen, egli era stato a lungo assorbito dai nuovi impegni accademici20. Tuttavia, il suo punto di
vista sull’intera questione era profondamente cambiato rispetto alle
soluzioni abbozzate nel memorandum; diverso era il procedimento
di quantizzazione (del tutto nuovo, come dice nella lettera a Rutherford), e soprattutto compariva un problema che era stato ignorato nel precedente scritto e obbligava a ridefinire ed estendere gli
stessi obiettivi della teoria: «ho cercato di mostrare che dalla prospettiva [qui assunta] sembra possibile fornire un’interpretazione
semplice della legge dello spettro dell’idrogeno e che il calcolo
permette di trovare risultati in pieno accordo quantitativo con gli
esperimenti»21.
Come mostreremo brevemente più avanti, tale cambiamento fu
in qualche misura condizionato dal confronto con la teoria di Nicholson, la quale suggeriva soluzioni alternative per la quantizzazione di un modello d’atomo à la Rutherford, e dalla «scoperta» delle
leggi empiriche della spettroscopia atomica, o più probabilmente da
Niels a Harald Bohr, 19 giugno 1912, CW2, p. 103
Bohr a Rutherford, 6 marzo 1913, CW2, pp. 581-83.
20
Bohr a Rutherford, 4 novembre 1912, CW2, pp. 577-78. Al suo rientro a Copenhagen Bohr era diventato assistente di Martin Knudsen, e in quel semestre aveva
tenuto lezioni sui fondamenti meccanici della termodinamica; cfr. U. Hoyer, Introduction to Part II, CW2, pp 103-34, § 2.
21
Bohr a Rutherford, cit. n. 19.
18
19
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una maggiore attenzione prestata ad esse. Tuttavia, ben poco si capirebbe sia dell’effettivo progresso che egli riteneva di aver compiuto
in quel momento, sia più ancora degli sviluppi apparentemente
sconcertanti che segnarono le sue concezioni teoriche nel corso del
1913, se non si tenesse nel debito conto il suo riferimento a quella
«delicata questione», sulla quale ancora una volta a distanza di pochi
mesi richiamava l’attenzione di Rutherford. In quel momento, il
problema del modello d’atomo e, più in generale, della teoria atomica era per Bohr la ricerca di soluzioni che giustificassero l’uso simultaneo degli strumenti di analisi e descrizione della meccanica classica
e di ipotesi di natura quantistica. Ogni tappa nella costruzione della
teoria sarebbe stata scandita da soluzioni ritenute via via più soddisfacenti per tale problema.
La reazione di Rutherford era stata di ammirazione e nello stesso tempo di perplessità: «Le sue idee […] sono davvero ingegnose
e sembra che funzionino bene; ma il miscuglio delle idee di Planck
con la vecchia meccanica rende molto difficile la formazione di
un’idea fisica di ciò che vi è alla base. Vedo nella sua ipotesi una
grave difficoltà, della quale sono certo si renderà conto; ovvero,
come fa un elettrone a decidere a quale frequenza dovrà vibrare
quando passa da uno stato stazionario a un altro? Mi sembra che
Lei sia costretto a supporre che un elettrone sappia in anticipo dove andrà a fermarsi»22. Negli anni successivi, obiezioni del genere
sarebbero divenute comuni e avrebbero condizionato la piena adesione di molti fisici a una teoria che pure aveva mostrato fin dall’inizio di possedere una notevole efficacia interpretativa. Da abilissimo fisico sperimentale, abituato a considerare la possibilità di
una rappresentazione immediata e intuitiva di un sistema o di un
processo fisico uno strumento di indagine altrettanto fondamentale
degli ordinari apparati di misura, Rutherford coglieva immediatamente quale fosse la debolezza della proposta teorica di Bohr.
Quella teoria, pur muovendosi nel contesto di un approccio modellistico di tipo classico, ne stravolgeva il contenuto raffigurativo,
suggerendo ipotesi (gli elettroni che “decidono” e che “conoscono” in anticipo l’evoluzione del processo) che violano il senso comune e pongono un limite alla formazione di idee fisiche, il che e22
Rutherford a Bohr, 20 marzo 1913, CW2, pp. 583-84.
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videntemente per Rutherford era la stessa cosa. Così Rutherford,
pur rifiutandola, sembrava già cogliere una conclusione che per
Bohr sarebbe divenuta chiara e inevitabile soltanto molti anni più
tardi: si può ristabilire la compatibilità tra concetti classici e ipotesi
quantistiche solo a condizione di rinunciare alle nostre tradizionali
forme di intuizione e di descrizione della realtà. Nonostante ciò, la
proposta teorica del giovane fisico appariva degna della più attenta
considerazione, in quanto raggiungeva risultati davvero brillanti
nella spiegazione di un’importante classe di fenomeni rimasta per
alcuni decenni priva di una qualsiasi base interpretativa.
La scoperta dell’esistenza degli spettri di righe degli elementi
risale agli inizi dell’Ottocento con alcune osservazioni fatte da William Wollaston sullo spettro solare; ma soltanto più di mezzo secolo dopo fu possibile riprodurre tali osservazioni in laboratorio. Il
chimico Robert Bunsen e il fisico Gustav Kirchhoff, che lavoravano nei laboratori dell’Università di Heidelberg, misero a punto un
dispositivo sperimentale che permetteva di svolgere un’analisi sistematica sugli spettri degli elementi. I sali di alcune sostanze erano
portati all’incandescenza e la luce prodotta, fatta passare attraverso
una fenditura, era dispersa da un prisma; le righe dello spettro così
prodotte erano osservate attraverso un cannocchiale. Il dispositivo,
ulteriormente perfezionato, permetteva di misurare con altissima
precisione i valori delle frequenze di ciascuna riga. Nei decenni
successivi al lavoro di Bunsen e Kirchhoff, la tecnica sperimentale
permise di osservare gli spettri di molti elementi e di raccogliere
una quantità notevole di materiale sperimentale. Non mancarono,
ovviamente, tentativi di trovare una spiegazione fisica dell’esistenza
di questo fenomeno, apparentemente indecifrabile alla luce delle
conoscenze dell’epoca. Per es., George Johnston Stonej, nel 1871,
tentò di ricondurre l’origine degli spettri discreti al movimento interno alle molecole; egli sviluppò una dettagliata teoria matematica
fondata sull’ipotesi che il movimento periodico delle molecole del
gas incandescente, associato alle proprietà fisiche dell’etere, potesse essere la causa delle serie di righe dello spettro del gas. Se questi
tentativi risultarono totalmente sterili, essendo la fisica del tempo
priva di una qualunque idea circa la costituzione degli atomi e delle molecole, fu tuttavia possibile riconoscere l’esistenza di significative regolarità nella disposizione delle righe che compaiono nello
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spettro di uno stesso elemento e anche in spettri di elementi diversi. Nel 1884, Johann Balmer trovò la legge empirica delle righe
spettrali dell’idrogeno, che era espressa da una formula estremamente semplice, nella quale la lunghezza d’onda l di ogni riga è
funzione di due numeri interi
[2.1]
1/l 5 R [(1/4) 2 (1/n2)]
dove R è una costante; al variare di n per valori maggiori di 2 si ottengono tutte le frequenze dello spettro nella serie di Balmer. Negli
stessi anni, furono coronati da successo altri tentativi di ricavare le
formule per gli spettri di altri elementi; i lavori più importanti in
questa direzione furono senza dubbio quelli del fisico svedese Johannes Rydberg, nel 1890, e dello svizzero Walter Ritz, nel 1909. Il
loro merito principale fu di riuscire a trovare un’espressione generale per tutti gli spettri, risultato che oggi conosciamo come principio di combinazione di Rydberg-Ritz. Questo principio afferma
che la lunghezza d’onda, o la frequenza di ogni riga dello spettro di
un elemento può essere espressa come differenza di due termini, i
cosiddetti «termini spettrali», ciascuno dei quali dipende da un
numero intero:
[2.2]
1/l 5 Fr (n1) 2 Fs (n2);
n1 e n2, sono interi e le F sono una successione di funzioni di n.
Sotto la guida di questo principio furono scoperte alcune serie non
ancora osservate; in particolare, fu completato lo spettro dell’idrogeno con la serie nell’infrarosso trovata da Friedrich Paschen, nel
1908, e successivamente, con la serie nell’ultravioletto di Theodore
Lyman, nel 1914. Questo dunque era lo stato delle ricerche condotte per oltre mezzo secolo nel campo della spettroscopia, nel
momento in cui Bohr iniziava i suoi studi teorici: un vasto materiale raccolto da abilissimi fisici sperimentali che avevano portato le
misure a un notevole livello di precisione; un apparato di leggi empiriche in grado di correlare tabelle di numeri distribuiti in modo
apparentemente bizzarro e di fare previsioni attendibili sull’esistenza e la posizione di nuove righe; un vuoto totale di ipotesi
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sull’origine fisica di questi spettri e l’assenza di una qualunque
spiegazione su quelle leggi23.
Le tre parti dell’articolo di Bohr furono pubblicate sul numero
26 del «Philosophical magazine» e apparvero, in successione, nei
fascicoli di maggio, settembre e novembre del 1913. La procedura
seguita per la pubblicazione fu sempre la stessa: Bohr sottoponeva
il manoscritto preliminare a Rutherford e dopo uno scambio epistolare, che consentiva di chiarire alcuni punti e migliorare l’esposizione, lo stesso Rutherford provvedeva a segnalare il lavoro del
suo giovane allievo agli editors della rivista24. Dobbiamo esser grati
all’entusiasmo giovanile di Bohr, il quale non attese che la teoria
assumesse una forma definitiva per divulgare i risultati delle sue
ricerche, se oggi disponiamo di documenti di eccezionale valore
storico, in quanto testimoniano fedelmente l’evoluzione del suo
pensiero in quell’anno cruciale. Ma forse non si trattò unicamente
di entusiasmo giovanile; Bohr aveva, in realtà, ben altri stimoli per
assumere un atteggiamento apparentemente così spregiudicato e
per ultimare il suo lavoro in tutta fretta. Egli era pienamente consapevole, per un verso, della rilevanza scientifica dei problemi che
stava affrontando, per l’altro soprattutto che altri fisici stavano
suggerendo nuovi procedimenti di quantizzazione del modello
23
Per una visione storica generale delle ricerche di spettroscopia, cfr. J. Mehra, H.
Rechenberg, The historical development, cit. n. 11, vol. 1, Part. 1, pp. 156-68, e M.
Jammer, The conceptual development, cit. n. 6, pp. 62-69. Uno studio più esauriente e
approfondito sulla spettroscopia ottocentesca è quello di W. McGucken, NineteenthCentury spectroscopy: Development of the understanding of spectra 1802-1897, The
Johns Hopkins University Press, Baltimore 1969; mentre, a proposito dei tentativi di
interpretazione delle leggi spettroscopiche e il ruolo che esse ebbero nella costruzione
delle prime teorie atomiche all’inizio del Novecento si rinvia in particolare a N. Robotti, The hydrogen spectroscopy and the old quantum theory, «Rivista di storia della scienza», 3(1), 1986, pp. 45-102; H. Kragh, The fine structure of hydrogen and the gross
structure of the physics community, 1916-26, «Historical studies in the physical sciences», 15(2), 1985, pp. 67-125.
24
In realtà, Rutherford avrebbe voluto che Bohr riducesse drasticamente i suoi testi: «Credo che nel tentativo di essere chiaro Lei abbia la tendenza ad allungare troppo
i suoi lavori e a ripetere le sue affermazioni in più punti. Penso che il suo saggio dovrebbe proprio essere tagliato e che ciò sarebbe possibile senza sacrificare affatto la
chiarezza», come gli scriveva nella lettera del 20 marzo (CW2, cit. n. 22). Qualche
giorno dopo, il 25 marzo, scoraggiato dalle resistenze di Bohr: «Come sa, in Inghilterra
è abitudine presentare le cose in modo breve e conciso, al contrario del modo tedesco,
dove sembra una virtù essere il più verbosi possibile» (CW2, p. 585).