Diritto Scienze e Tecnologie

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ISSN: 2038-7296
POLIS Working Papers
[Online]
Istituto di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS
Institute of Public Policy and Public Choice – POLIS
POLIS Working Papers n. 237
August 2016
Diritto Scienze e Tecnologie
Atti del convegno svoltosi il 4/03/2016 ad Alessandria
Piera Maria Vipiana, Matteo Timo e Davide Bisio
UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro” ALESSANDRIA
Periodico mensile on-line "POLIS Working Papers" - Iscrizione n.591 del 12/05/2006 - Tribunale di Alessandria
DIRITTO SCIENZE E TECNOLOGIE
Atti del Convegno svoltosi il 4 marzo 2016 ad Alessandria, presso il
Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e
Sociali
dell’Università del Piemonte Orientale
A cura di Piera Maria Vipiana
Con il coordinamento di Matteo Timo e Davide Bisio
Versione preliminare, da completarsi con altre relazioni e comunicazioni
SOMMARIO
PARTE PRIMA
RELAZIONI
SESSIONE MATTUTINA
DIRITTO, SCIENZE E TECNOLOGIA
(Giovanna Visintini)
...............................................................................................................................
3
CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
(Piera Maria Vipiana)
1.
2.
3.
4.
5.
Precisazioni terminologiche ..................................................................................
Sfaccettature del tema............................................................................................
Impostazioni generali sui rapporti fra scienza (e tecnologia) e diritto ..................
Scienze e tecnologie nell’ordinamento giuridico italiano .....................................
Le questioni principali in tema di rapporto fra diritto e scienze o tecnologie .......
7
8
9
11
12
LA DISCIPLINA DELL’ATTIVITÀ EDILIZIA
TRA NORME REGOLAMENTARI E NORME TECNICHE
(Alessandro Crosetti)
1.
2.
3.
4.
5.
Premessa. Il Testo unico n. 380/2001: disciplina edilizia e normativa tecnica ...............
La nozione di edilizia e la relativa evoluzione storico-giuridica ...................................
Genesi e sviluppi della regolamentazione edilizia con valenze tecniche .......................
La regolazione edilizia tra legislazione statale e regionale ...........................................
Il progressivo depotenziamento delle norme regolamentari e la sovrapposizione
delle norme tecniche.................................................................................................
15
21
25
32
35
II
6.
7.
8.
9.
Rilevanza e contenuti della normativa tecnica nella disciplina edilizia .........................
La normativa tecnica relativa alla stabilità e sicurezza degli edifici ..............................
Rapporti tra la normativa tecnica e il potere amministrativo ........................................
Considerazioni su rilevanza pubblicistica delle norme tecniche e sulle esigenze
di coordinamento interpretativo .................................................................................
37
44
50
58
SCIENZA E TECNICA TRA DIRITTO EUROPEO
E DIRITTO COMPARATO
(Giuseppe Franco Ferrari)
...............................................................................................................................
65
SESSIONE POMERIDIANA
LE NUOVE FRONTIERE DI SCIENZA E TECNOLOGIA:
DIALOGO A CONFRONTO CON IL DIRITTO
(Vincenzo Dovì)
...............................................................................................................................
79
GIUDICI ORDINARI, SCIENZE E TECNICHE:
LA CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO
(Maria Teresa Bonavia)
1.
2.a.
2.b.
3.
4.
Le concrete, effettive implicazioni del principio, secondo cui iudex peritus
peritorum est ..........................................................................................................
Natura della consulenza tecnica d’ufficio .............................................................
Summa divisio: consulenza deducente e consulenza percipiente ..........................
Valore probatorio della consulenza tecnica di parte..............................................
Unicità del consulente tecnico di parte ..................................................................
85
87
89
93
93
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
(Giorgio Pastori)
...............................................................................................................................
95
III
PARTE SECONDA
COMUNICAZIONI
SCIA: I PROFILI DI RESPONSABILITÀ DEL PROGETTISTA ABILITATO E LE
RIFLESSIONI SULLA DISCIPLINA, A SEGUITO DELLA RECENTE PRONUNCIA
DELLA CORTE COSTITUZIONALE
(Davide Bisio)
1.
2.
3.
Premessa ................................................................................................................
La responsabilità del progettista ............................................................................
Brevi riflessioni sulla recente pronuncia della Corte costituzionale in materia
di scia .....................................................................................................................
103
104
107
SEVESO: QUARANTA ANNI DOPO
(Maria Pia Giracca)
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Introduzione ...........................................................................................................
Attività pericolose tradizionali e attività a rischio di incidente rilevante ..............
Direttiva Seveso e Seveso bis ................................................................................
Direttiva Seveso ter e il relativo recepimento .......................................................
Responsabilità........................................................................................................
Conclusioni ............................................................................................................
111
113
114
116
118
121
DIRITTO E TECNICA. IL CASO DELLA GIURISIDIZIONE SULLE ACQUE A CENTO
ANNI DALL’ENTRATA IN VIGORE DEL DECRETO LEGILSATIVO
LUOGOTENENZIALE 20 NOVEMBRE 1916, N. 1664, ISTITUTIVO DEL TRIBUNALE
DELLE ACQUE PUBBLICHE. UN «MODELLO» (FORSE) DA RISCOPRIRE?
(Alessandro Paire)
1.
2.
3.
Premessa ................................................................................................................
La giurisdizione sulle acque a cento anni dall’entrata in vigore del decreto
Legislativo Luogotenenziale 20 novembre 1916, n. 1664, istitutivo del Tribunale
delle Acque Pubbliche ...........................................................................................
Spunti conclusivi ...................................................................................................
123
126
130
IV
OGM, TECNOSCIENZA E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
(Matteo Timo)
1.
2.
2.1.
2.2.
2.3.
3.
Premessa ................................................................................................................
Procedimento di autorizzazione dei prodotti GM e ruolo dell’expertise
scientifica ...............................................................................................................
Considerazioni generali sulla normativa europea di autorizzazione .....................
Procedimento e attività consultiva.........................................................................
(Segue) Brevi considerazioni sulla giurisprudenza ...............................................
Considerazioni conclusive .....................................................................................
135
137
138
143
148
154
PARTE PRIMA
RELAZIONI
DIRITTO, SCIENZE E TECNOLOGIA
Giovanna Visintini
(Università di Genova)
Mi felicito con gli organizzatori, in modo particolare con la collega Piera Vipiana, per
questa bella iniziativa perché ritengo che il tema dei rapporti tra diritto e scienza è
estremamente interessante. Soprattutto io vedo l’importanza di studi intorno ai rapporti tra
diritto applicato ovvero tra la giurisprudenza da un lato e la scienza dall’altro, perché spesso
le controversie vengono decise con l’aiuto di scienziati che devono esprimere pareri e dare
risposte ai giudici. E sono in tanti a dire che spesso la scienza non è in grado di dare le
risposte che i giudici si aspettano per poter decidere i casi sottoposti al loro giudizio con un
notevole grado di certezza.
Personalmente come studiosa della responsabilità civile mi sono imbattuta spesso in
problemi che evidenziavano la necessità di fare chiarezza sotto il profilo scientifico in ordina
ai presupposti applicativi della responsabilità civile. Esemplificando mi sono occupata del
nesso causale che deve intercorrere tra l’evento dannoso e la condotta del responsabile e
sovente si deve ammettere che cause quali l’esposizione ad agenti inquinanti, la malpractice
medica, l’omissione di diagnosi rispetto all’evento di una malattia o della morte della vittima
hanno un carattere probabilistico al contrario di quanto sostengono determinate teorie
elaborate intorno a gli articoli del codice penale sul tema della causalità. Ovvero qui bisogna
mettere in discussione la concezione tipica del mondo giuridico secondo cui il giudizio sul
nesso causale viene posto in termini di rigida alternativa, sussistenza o insussistenza (la c.d.
condicio sine qua non). Bisogna invece individuare una soglia di probabilità meno elevata di
quella stabilita dalla famosa sentenza sul caso Franzese ove venne affermata la responsabilità
professionale di un medico chirurgo per morte del paziente a causa di omissione di diagnosi e
4
terapia (il paziente era stata dimesso dopo l’intervento come in via di guarigione e non erano
stati valutati gli esami ematologici che evidenziavano una infezione in atto). In questo caso i
giudici penali hanno ritenuto che il nesso causale possa dirsi sussistente solo qualora sia
«certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria
dell'evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”»
(cfr. Cass. pen. S.U. 11.9.2002 n. 30328). La sentenza costituisce un precedente giudiziale
seguito dalla giurisprudenza penale successiva che continuò ad esigere una soglia elevata di
probabilità ai fini di un accertamento del nesso causale e della conseguente condanna.
Ora occorre tener conto che le scienze naturali ormai da quasi un secolo hanno preso
atto del tramonto del principio di causalità (ossia della (im)possibilità per l’uomo di
determinare esattamente le cause di un evento) e che si può parlare soltanto di una relazione
di tipo probabilistico o statistico tra l’evento dannoso e le circostanze che possono averlo
determinato ovvero di una relazione di tipo quantitativo/statistico tra l’antecedente e l’evento.
Impostata in questi termini la questione, la dottrina civilistica (v. spec. cfr. CAPECCHI,
Il nesso di causalità. Da elemento della fattispecie “fatto illecito” a criterio di limitazione del
danno risarcibile, Padova, II ed. 2012; PUCELLA, La causalità «incerta», Torino, 2007 ) ha
proposto di fissare la soglia al 51% (cioè quella che, come si vedrà tra breve la giurisprudenza
più recente indica come regola del “più probabile che non”) e ciò perché, avendo il legislatore
posto l’onere della prova interamente a carico del soggetto danneggiato, ha implicitamente
gravato quest’ultimo del rischio delle cause ignote. La dimostrazione da parte del danneggiato
dell’esistenza di una causa imputabile al convenuto che abbia una incidenza statistica di
almeno il 51% (quindi prevalente) comporta lo spostamento su quest’ultimo del rischio di
cause ignote.
La giurisprudenza civilistica ha accolto tale criterio, potendo dirsi ormai consolidato
l’orientamento secondo il quale, nell’ambito della responsabilità civile, il nesso di causalità
deve essere accertato secondo la “regola del più probabile che non”, come chiaramente
enunciato dalla sentenza delle Sezioni Unite civili n. 581 del 2008 secondo cui: «[…] ciò che
muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto
nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (caso Franzese cit.),
mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o “del più probabile che
non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e
l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato
5
da attenta dottrina che ha esaminato l'identità di tali standard delle prove in tutti gli
ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale ».
Il criterio del “più probabile che non” è stato poi adottato anche da alcune successive
pronunce che ne hanno fatto applicazione soprattutto nell’ambito della responsabilità medica
(su cui rinvio per dettagli a L. ROCCO, Nesso causale e responsabilità sanitaria, ivi, 2012; ID.
Il “sincretismo causale” e la politica del diritto: spunti dalla responsabilità sanitaria,
Torino) ma anche in alcuni casi di grande rilevanza mediatica (si pensi alla controversia tra
CIR e Fininvest e alla strage aerea di Ustica decise rispettivamente da Cass. 17 settembre
2013 n. 21255 e da Cass. 5 maggio 2009 n. 10285) e non risulta attualmente essere stato posto
in discussione.
Questo è un esempio di interazione tra diritto e scienza ma ve ne sono molti altri.
Per fare un altro esempio l’istituto dell’amministrazione di sostegno è stato introdotto
nel codice civile solo a seguito del movimento c.d. “dell’antipsichiatria” (promosso da
Basaglia) che era riuscito a dimostrare che il tradizionale istituto della interdizione aggravava
la situazione del malato di mente cronicizzando la sua malattia mentre occorreva
personalizzare l’assistenza del soggetto affetto da disturbi psichici in ragione delle sue
specifiche esigenze in modo da depistarlo da malattie più gravi e aiutarlo a reinserirsi
socialmente.
Purtroppo il processo di interazione tra scienza e diritto spesso è molto lento e tarda ad
imporsi. Oltre a questo anche di fronte a buone leggi vi è sempre il rischio che la relativa
interpretazione e applicazione non siano al passo coi tempi. Penso al Decreto Balduzzi il cui
artefice è presente in questa occasione.
E dunque ben vengano iniziative scientifiche come quella promossa oggi da Piera
Vipiana. Forse adesso siamo di fronte al tentativo di eliminare
le doppie carriere dei
magistrati con la conseguente possibilità di un reclutamento di studiosi esperti nella tecnica
legislativa.
CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
Piera Maria Vipiana
(Università del Piemonte Orientale)
SOMMARIO: 1. Precisazioni terminologiche. – 2. Sfaccettature del tema. – 3.
Impostazioni generali sui rapporti fra scienza (e tecnologia) e diritto.- 4. Scienze e tecnologie
nell’ordinamento giuridico italiano. - 5. Le questioni principali in tema di rapporto fra diritto e
scienze o tecnologie
1. Precisazioni terminologiche
Innanzi tutto sulla scelta del titolo di questo convegno è opportuno spendere alcune
parole.
In primo luogo, nell’ambito di esso le scienze non includono il diritto, quantunque, di
per sé il diritto, come scienza giuridica, rientri nelle scienze sociali.
Inoltre il termine “diritto” è usato al singolare, sebbene sussista una pluralità di rami
del diritto, così come esistono molti tipi di scienze e molti tipi di tecnologie. La scelta del
singolare, con riferimento al diritto, è data dalla necessità di intendere quest’ultimo come
ramo del sapere, e non come posizione giuridica soggettiva. Il plurale (diritti come diritti
soggettivi) sarebbe più consono a quest’ultima accezione, che potrebbe peraltro dar luogo a
importanti connessioni con scienze e tecnologie: si tratterebbe, tuttavia, di un tema differente,
sebbene correlato.
Quanto agli altri due termini, scienze e tecnologie, la differenza fra essi non è del tutto
chiara: a grandi linee e con estrema approssimazione, si potrebbe affermare che, mentre la
8
scienza si occupa, alla radice, di capire com’è fatto e come funziona il mondo intorno a noi, la
tecnologia è volta a trasformare tali conoscenze in oggetti e processi che siano utili in pratica.
2. Sfaccettature del tema
Il tema del presente convegno1 appare estremamente attuale e risulta affrontato a vari
livelli, essendo al centro di lezioni2, corsi di aggiornamento per magistrati3, scuole di
specializzazione e convegni.
In questa sede si prenderanno in considerazione alcuni ambiti concreti in cui
particolarmente rilevante appare il rapporto fra diritto, da un lato, e scienze e tecnologie,
dall’altro: in particolare, la salute; l’uso del territorio; l’ambiente. Specifica attenzione verrà
data ai modi in cui il tema si atteggia per i giudici, ordinari e amministrativi, con particolare
rilievo sia al tipo di istruzione probatoria svolta da essi4, sia al ruolo che, in sede processuale,
riveste il tecnico, nella sua qualità di perito o consulente tecnico, d’ufficio o di parte.
1
Su cui sussiste un’ampia letteratura generale, nell’ambito della quale cfr.: G. D’A MICO, Scienza e diritto nella
prospettiva del giudice delle leggi, Messina, 2008; S. JASANOFF, La scienza davanti ai giudici, Milano, 2001; F.
SALMONI, Le norme tecniche, Milano, 2001; G. COMANDÉ - G. PONZANELLI (a cura di), Scienza e diritto nel
prisma del diritto comparato, Torino, 2004; A. SANTOSUOSSO, Diritto, scienza, nuove tecnologie, Milano, 2011.
Inoltre non mancano varie letterature settoriali, fra le quali particolarmente rilevante è quella in materia di
bioetica: L. CHIEFFI, Ricerca scientifica e tutela della persona. Bioetica e garanzie costituzionali, Napoli, 1993;
C. M. MAZZONI, (a cura di), Una norma giuridica per la bioetica, Bologna, 1998; A. D’ALOIA (a cura di), Biotecnologie e valori costituzionali. Il contributo della giustizia costituzionale, Parma, 2004; S. RODOTÀ, La vita e
le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006; S. RODOTÀ - M. TALLACCHINI, Introduzione, in S. RODOTÀ M. TALLACCHINI (a cura di), Ambito e fonti del biodiritto (volume del Trattato di biodiritto diretto da S.
RODOTÀ e P. ZATTI), 2010, XLIII.
2
Ad esempio, ad aprile 2016 a Napoli sono state programmate varie lezioni magistrali in materia, presso
l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, con la partecipazione di Natalino Irti, su “Diritto e tecnica” (14
aprile), Marcello Clarich su “Tecnologie, amministrazioni e sviluppo economico” (20 aprile), Giuliano Amato,
“I diritti e le tecnologie” (26 aprile).
3
Ad esempio, nell’ambito della Scuola superiore della magistratura si è svolto il 19 febbraio, presso la Corte
d’Appello di Milano, un corso dal titolo “Quando il Diritto incontra la Tecnologia”.
4
Sul punto esistono differenze a seconda del giudice di cui si tratta. In particolare, si è rilevata la “tradizionale
ritrosia del giudice amministrativo a compiere un autonomo accertamento dei fatti, a nominare un consulente
tecnico d'ufficio, a invitare l'amministrazione ad esporre le eventuali non esplicitate ragioni ostative al rilascio
del provvedimento richiesto dal ricorrente, a riesaminare il comportamento dell'amministrazione sotto il profilo
dei motivi che hanno determinato il silenzio palesati dalla documentazione fornita dall'amministrazione stessa”
(M. RAMAJOLI, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Diritto
Processuale Amministrativo, 2014, fasc. 3, pag. 709). Al riguardo si osserva che “del resto, lo stesso legislatore
non si preoccupa affatto di precisare quali siano gli adempimenti istruttori riservati all'amministrazione e quali
siano invece le circostanze di fatto verificabili direttamente dal giudice. Mentre il testo del codice elaborato dalla
Commissione di tecnici disponeva espressamente che nel caso di richiesta di condanna dell'amministrazione
all'emanazione del provvedimento “le parti allegano in giudizio tutti gli elementi utili ai fini dell'accertamento
9
A livello di primo approccio, il diritto probabilmente è visto dallo scienziato, a
seconda dei casi e delle prospettazioni assunte: come ostacolo; come paradigma alla luce del
quale effettuare ricerche; come quadro in cui incanalare gli effetti delle scoperte scientifiche;
come struttura in cui lo scienziato o il tecnico operano, ad esempio, a titolo di perito o
consulente tecnico oppure a titolo di esperto nelle audizioni parlamentari.
A sua volta, il giurista vede le scienze e le tecnologie, essenzialmente, come fonti
indispensabili per comprendere la realtà su cui deve, a seconda dei casi, elaborare testi
normativi, provvedimenti amministrativi, sentenze ed altri atti giuridicamente rilevanti.
Si è acutamente osservato che “la scienza è diventata la fonte più autorevole di
conoscenza per il diritto, il diritto è un fattore determinante nello sviluppo della scienza, che
si muove socialmente attraverso una rete normativa (dai laboratori fino alla società)”5.
Pertanto le interazioni sono evidenti: occorre verificare in quali termini si presentano.
3. Impostazioni generali sui rapporti fra scienza (e tecnologia) e diritto
Sui rapporti tra scienza e diritto o – più precisamente – sui “(tormentati) confini che
congiungono (o separano) scienza e diritto” si è formata una riflessione “ancora giovane”, ma
interessante6. In effetti, si è efficacemente scritto che scienza e diritto sono “i due pilastri con
cui le nostre società danno senso al mondo e a se stesse”7.
Circa i rapporti fra scienze e diritto, le impostazioni sono molte. In particolare, sono
state elaborate due distinte posizioni teoriche: il separatismo e la co-produzione8.
A)
La prima posizione resta ancorata alle fondamentali differenze concettuali e di
sistema che separano scienza e diritto; all’alterità radicale tra discorsi scientifici e normativi; e
ad una (pretesa) visione liberal-democratica della comunità scientifica, secondo cui la libertà
della fondatezza della pretesa” (art. 42 della bozza originaria), il testo finale tace del tutto, non precisando quali
siano i poteri istruttori che competono al giudice al fine di decidere direttamente la questione” (ivi, nota 30). Cfr.
pure F. CINTIOLI, Giudice amministrativo, tecnica e mercato. Poteri tecnici e "giurisdizionalizzazione", Milano,
2005.
5
M. TALLACCHINI, Scienza e diritto. Prospettive di co-produzione, in Rivista di filosofia del diritto, 2012, n. 2,
314.
6
M. TALLACCHINI, op. ult. cit., 332.
7
A. SARAT, Introduction to the Symposium on Legal Doubt, Scientific Certainty:What Scientific Knowledge
Does For and To the Law, svoltosi a University of Alabama School of Law, 11 aprile 2008, in
http://www.law.ua.edu/resources/podcasts/symposia/science_intro.mp3> (25 agosto 2012)
8
M. TALLACCHINI, op. cit., 316.
10
della scienza esige la sua esenzione dalle regole della società. Quindi la scienza va pensata, in
base a tale impostazione, al di fuori di ogni controllo politico-giuridico.
B)
La seconda posizione teorica, la co-produzione, muove oltre la separazione tra
scienza e diritto, non necessariamente come negazione della distinzione concettuale tra
descrizioni e prescrizioni, ma per dare evidenza alla continuità delle interazioni quando i loro
linguaggi si incontrano (invece di fermarsi alle loro forme di validazione astratta). Inoltre tale
impostazione estende la democrazia e le sue garanzie anche alla scienza9: il profilo è
particolarmente interessante per i giuristi, ma anche complesso perché l’individuazione degli
istituti democratici non è per nulla univoca e scontata.
Il termine “co-produzione” (co-production) fu coniato negli anni ’90 del secolo
scorso10, è stato poi inteso come “strumento interpretativo del reciproco generarsi del
linguaggio della scienza e del diritto”11. In seguito si è efficacemente parlato di una necessaria
convergenza necessaria tra scienza e diritto in relazione ai problemi che essi devono risolvere
in via congiunta12.
Una presa di posizione argomentata in modo esaustivo in ordine alle due tesi sarebbe
fuor di luogo in questa sede. Pertanto ci si può qui limitare ad aderire all’opinione secondo cui
ciò che spesso la tesi separatista sembra non vedere è che scienza e tecnologia si muovono in
un ambiente densamente normativo, e che scienze e tecnologie emergenti sempre più esigono,
per potersi affermare, una rete di qualificazioni e regole (ancorché flessibile)13.
Se si approfondiscono meglio i rapporti fra diritto e scienza, qualificabili “molteplici,
multiformi e intricati”14, si ravvisa, anche ad un approccio storicistico, una duplice
prospettiva. La prima ha visto l’opposizione del diritto alla scienza, nel senso che il diritto ha
tentato di ostacolare il progresso delle scienze. La seconda, invece, comporta l’affermazione
9
Ibidem.
B. Latour, We Have Never Been Modern, translated by C. Porter Harvard University Press, Cambridge,
Massachusetts Cambridge, 1993 (Originally published as Nous n 'avons jamais ete modernes: Essais
d'anthropologie symmetrique), 134, scrisse: “this is precisely the amalgam I am looking for: to retain the
production of a nature and of a society that allow changes in size through the creation of an external truth and a
subject of law, but without neglecting the co-production of sciences and societies”.
11
M. TALLACCHINI, op. cit., 318.
12
J. PATERSON, Trans-science, Trans-law and Proceduralization, in Social and Legal Studies, 2003, vol. 12, n.
4, 525 ss. ha proposto con il termine “trans-law” una nozione molto vicina alla co-produzione, notando che
sussistono problemi che sono al tempo stesso “trans-scientifici” e “trans-giuridici”: la scienza non può risolvere,
ma ha un ruolo, nella risoluzione di problemi trans-scientifici, esattamente come il diritto ha un ruolo nel
risolvere problemi trans-giuridici.
13
M. TALLACCHINI, op. cit., 327.
14
C. CASONATO, La scienza come parametro interposto di costituzionalità, in Rivista AIC, 2016, n. 2, 15 maggio
2016.
10
11
in via unilaterale della scienza, la quale si dovrebbe imporre al diritto, che, invece, non
avrebbe alcun margine di intervento15.
4. Scienze e tecnologie nell’ordinamento giuridico italiano
Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, un’analisi, seppure sommaria, dei rapporti
fra diritto e sfera scientifico/tecnologica dovrebbe partire dal diritto internazionale e
dell’Unione europea. Comuque non si può prescindere dalle scelte della Carta costituzionale.
Qui, per un verso, si precisa che l’arte e la scienza «sono libere» (art. 33) e, per un altro verso,
si sancisce che la Repubblica «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e
tecnica» (art. 9). Pertanto, accanto ad un approccio liberista, si opta per un approccio
promozionale, che non contraddice all’altro: la ricerca nell’ambito della scienza e della
tecnica deve restare libera, anche se ai poteri pubblici compete una funzione di promozione.
Di conseguenza, la prospettiva dell’opposizione del diritto alle scienze sicuramente
non regge al confronto con le disposizioni costituzionali. Parimenti, l’altra prospettiva –
quella fondata sull’affermazione unilaterale delle scienze e tecnologie – non è accettabile,
perché appare consolidato l’assunto secondo cui non tutto ciò che è tecnicamente possibile è
pure lecito dal punto di vista giuridico16. Pertanto è stata delineata una terza prospettiva, una
“terza via”: l’instaurazione di “un modello virtuoso di rapporti fra ambito giuridico e ambito
scientifico” comporterebbe che “la scienza si interpone fra Costituzione italiana e legge,
riempiendo di significato il bene salute contenuto nella prima (art. 32) e condizionando così la
legittimità della seconda”17. La tesi, che configura una sorta di “riserva di scienza” ed
inquadra la scienza come parametro interposto di costituzionalità, prende le sue mossa
dall’assunto, sostenuto dalla Corte costituzionale, secondo cui una disciplina legislativa
sull’appropriatezza delle scelte terapeutiche dovrebbe fondarsi sullo “stato delle conoscenze
scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma
nazionali o sovranazionali – a ciò deputati”18.
15
In proposito cfr. C. CASONATO, op. cit., §§ 2.1. e 2.2, intitolati, rispettivamente, “Un diritto opposto alla
scienza” e “Una scienza opposta al diritto”.
16
C. CASONATO, op. cit., 4 dell’estratto.
17
C. CASONATO, op. cit.,§ 3.
18
C. Cost., 26 giugno 2002, n. 282.
12
La tesi in esame è interessante e suggestiva, anche se presenta dei limiti, d’altronde
puntualmente enucleati dal suo autore. Per un verso, qualora vi sia una forte coesione, nella
“comunità epistemica di riferimento” in merito alla “utilità terapeutica” o, al contrario, al
“potenziale danno di un determinato trattamento”, “la legge che rispettivamente ne vieti o
prescriva l’utilizzo sarà pacificamente da considerare incostituzionale”, ma non sempre vi è
certezza scientifica. Per un altro verso, occorre contemperare i dati scientifici “con gli altri
diritti, interessi e principi rilevanti”. Per un altro verso ancora, la tesi sul “parametro
scientifico interposto” è utilizzabile, a parere del suo proponente, soltanto al fine di verificare
la costituzionalità delle leggi incidenti sul diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.19.
Su quest’ultimo punto, peraltro, si può avanzare un dubbio: la tesi della riserva di
scienza e della scienza come parametro interposto di legittimità costituzionale non potrebbe
valere anche al dei là dei confini di azione – peraltro ampi – del diritto alla salute (e quindi
anche all’ambiente salubre)? Per validare la tesi oltre al domaine dell’art. 32 Cost. non ci si
potrebbe appigliare al combinato disposto degli artt. 33 e 9 Cost.? La disposizione di una
legge statale o regionale o di un atto avente forza di legge che contrasti con gli assunti cui la
ricerca scientifica e tecnologica è pervenuta non si porrebbe pure in violazione dell’art. 9
Cost.?
5. Le questioni principali in tema di rapporto fra diritto e scienze o tecnologie
Le scelte sull’approccio generale in merito alle relazioni tra diritto e scienze o
tecnologie non esauriscono i nodi problematici nascenti, anche dal punto di vista concreto, da
tali relazioni. A questo riguardo, sorgono dei dubbi: mi limito ad enuclearne tre.
In primo luogo, come devono essere queste regole nell’ambito delle quali si
muoverebbero scienze e tecnologie?
Al fine di disciplinare fenomeni tecnico-scientifici di nuova emersione si riscontra la
tendenza a creare un soft law, ossia una rete di regole non giuridiche (quali quelle di cui ai
codici di condotta e dell’etica). In proposito non sono mancate voci critiche. In particolare, il
Parlamento europeo ha criticato la proliferante creazione di strumenti normativi informali –
19
Invece la “ragionevolezza scientifica” “può trovare una applicazione tendenzialmente più estesa” (C. Casonato, op.
cit.,§ 4).
13
inclusa l’etica – da parte della Commissione europea, osservando che “l’ordinamento
giuridico europeo si fonda sulla democrazia e sui principi dello Stato di diritto”, (e) “ciò
significa che le istituzioni comunitarie possono agire soltanto in accordo con il principio di
legalità”20.
Un altro dubbio è il seguente: quando il diritto dovrebbe intervenire a disciplinare
fenomeni rilevanti per scienze o tecnologie? Di per sé, la formulazione chiara, certa e definita
della legge scientifica o della formula tecnicamente valida dovrebbe anticipare l’eventuale
previsione di regole giuridiche. Tuttavia, a livello del diritto internazionale, del diritto
dell’Unione europea e di quello italiano si è prevista una sequenzialità differente, anche se
non una vera e propria inversione temporale.
Invero, il principio di precauzione, come noto, fa obbligo alle Autorità competenti di
adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità
pubblica, per la sicurezza e per l'ambiente, ponendo una tutela anticipata rispetto alla fase
dell'applicazione delle migliori tecniche proprie del principio di prevenzione.
L'applicazione del principio di precauzione comporta dunque che, ogni qual volta non
siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un'attività potenzialmente pericolosa, l'azione
dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento
delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo
potenziali21.
Un ulteriore dubbio, fra i tanti prospettabili, attiene all’utilizzabilità di concetti
scientifici in campo giuridico ed al modo in cui essi possano trasporsi ed operare in tale
campo. Si pensi alle difficoltà che incontrano i tentativi di applicarvi il concetto di probabilità
e quindi i metodi probabilistici canonici22.
Oppure al ruolo, nel diritto, della calcolabilità23. O, ancora, al rilievo nei vari settori
giuridici del nesso di causalità24.
20
Parlamento europeo, Risoluzione sulle implicazioni istituzionali e giuridiche dell’impiego di strumenti
normativi non vincolanti, 4 settembre 2007 (2007/2028[INI]).
21
Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 11 novembre 2014, n. 5525, e Cons. Stato, Sez. V, 18 maggio 2015, n.
2495.
22
Cfr. M. BENZI, Il ragionamento incerto, Angeli, 1997. Oppure si pensi alle incertezze sussistenti nei settori
giuridici all’operatività della nozione di certezza.
23
Significativamente, al tema “Calcolabilità giuridica” è stato dedicato recentemente il convegno svoltosi a
Roma il 23 giugno 2016.
24
M. BENZI, Cause e contesti, in C. PENCO (a cura di), La svolta contestuale, McGraw-Hill, 2002.
LA DISCIPLINA DELL’ATTIVITÀ EDILIZIA
TRA NORME REGOLAMENTARI E NORME TECNICHE
Alessandro Crosetti
(Università di Torino)
SOMMARIO: 1. Premessa. Il Testo unico n. 380/2001: disciplina edilizia e normativa
tecnica. – 2. La nozione di edilizia e la relativa evoluzione storico-giuridica. – 3. Genesi e
sviluppi della regolamentazione edilizia con valenze tecniche. – 4. La regolazione edilizia tra
legislazione statale e regionale. – 5. Il progressivo depotenziamento delle norme
regolamentari e la sovrapposizione delle norme tecniche. – 6. Rilevanza e contenuti della
normativa tecnica nella disciplina edilizia. – 7. La normativa tecnica relativa alla stabilità e
sicurezza degli edifici. – 8. Rapporti tra la normativa tecnica e il potere amministrativo. – 9.
Considerazioni su rilevanza pubblicistica delle norme tecniche e sulle esigenze di
coordinamento interpretativo.
1. Premessa. Il Testo unico n. 380/2001: disciplina edilizia e normativa tecnica
Dottrina e giurisprudenza hanno, da tempo, chiarito che nella dizione costituzionale
“governo del territorio” coesistano diverse e convergenti funzioni pubbliche comprendenti sia
l’urbanistica propriamente detta, intesa quale attività pianificatoria dello sviluppo del
territorio, sia l’edilizia, intesa quale attività di controllo degli interventi antropici sul territorio;
entrambe le funzioni si pongono in un rapporto di complementarietà reciproca e di profonda
interconnessione25.
25
È stato esattamente evidenziato che l’espressione “governo del territorio” racchiude un ambito di competenze
che certamente non può essere ricondotto ad una “materia” in senso tradizionale e limitarsi alla disciplina e
regolazione degli usi del suolo. Si tratta di un contenitore che ricomprendere l’insieme delle attività coordinate
16
La disciplina dell’attività edilizia, come noto, è stata compiutamente ridisegnata con
l’entrata in vigore del T.U. di cui al D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 (d’ora in poi T.U.E.), in
funzione dell’esigenza di ricondurre ad una visione unitaria ed organica il precedente assetto
normativo della materia caratterizzato da un’accentuata dispersione e frammentazione.
L’archetipa disciplina, tracciata dalla legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150, aveva, infatti,
già avuto interventi riformatori tramite la legge c.d. ponte 6 agosto 1967 n. 765 e la legge 28
gennaio 1977 n. 10 (c.d. legge sui suoli) a cui erano seguite altre disposizioni normative,
spesso settoriali e disorganiche, collocate in testi di diversa natura, quali quelle sulla agibilità
(già nel T.U. sulle leggi sanitarie), quelle tecniche sui sistemi costruttivi (legge n. 10 del
1991), quelle per le zone sismiche e quelle più recenti sui consumi energetici (v. infra).
Attraverso il T.U.E. il legislatore si è quindi proposto l’obiettivo di sistematizzare le
varie disposizioni legislative e regolamentari esistenti, procedendo altresì alla delegificazione
dei profili concernenti gli aspetti organizzativi e procedimentali afferenti l’attività edilizia in
generale.
Il D.P.R. n. 380/2001, come noto, contiene sia norme primarie, sia norme primarie
delegificate, sia norme secondarie. Le prime sono contrassegnate dalla lettera L e sono il
prodotto del coordinamento formale e della razionalizzazione delle disposizioni legislative
precedentemente esistenti, le seconde e le terze, contraddistinte dalla lettera R derivano
aventi incidenza sullo stato e sugli equilibri del territorio, volte al sostegno del sistema sociale e che si estende,
oltre all’urbanistica , alla pianificazione, all’edilizia, al paesaggio, alla difesa del suolo, allo sviluppo tecnologico
e produttivo, alla mobilità e ai trasporti, all’infrastrutturazione del territorio, alla protezione degli ecosistemi, alla
valorizzazione dei beni culturali e ambientali. Per ulteriori profili v. in dottrina su tale valenza riformista P.
MANTINI, L’urbanistica tra riforma costituzionale incrementante e autonomismo regionale, in Riv. giur. ed.,
2001, (5), 191 ss; S. COGNETTI, Il ruolo delle regioni nel “governo del territorio”, in Atti Convegno AIDU La
disciplina pubblica dell’attività edilizia e la sua codificazione, a cura di E. FERRARI, Milano, 2002, 145 ss; A.
CROSETTI, Edilizia, urbanistica, governo del territorio: appunti, ivi, 205 ss; P. L. PORTALURI, Riflessioni sul
“governo del territorio” dopo la riforma del Titolo V, in Riv. giur. ed., 2002,(6), 337 ss; V. CERULLI IRELLI, Il
“governo del territorio” nel nuovo assetto costituzionale, in Atti Convegno AIDU su Il governo del territorio,
Milano, 2003, 499 ss; G. SORICELLI, Lineamenti per una teoria giuridica sul governo del territorio, in Riv. giur.
urb., 2004, 506 ss; G. F. PERULLI, La governance del territorio, ivi, 2004, 612 ss; B. GIULIANI, La nozione
costituzionale di “governo del territorio”: un’analisi comparata, in Riv. giur. ed., 2005, II, 285 ss; M. MILO, Il
potere di governo del territorio, Milano, 2005; L. CASINI, L’equilibrio degli interessi nel governo del territorio,
Milano, 2005; B. GIULIANI, New public governance e diritto amministrativo nel governo del territorio, Bari,
2006; R. CHIEPPA, “Governo del territorio”, in AA. VV., Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali,
a cura di G. CORSO e V. LOPILATO, Milano, 2006, vol. I; M. A. QUAGLIA, il governo del territorio, Milano, 2006;
da ultimi G. MARTINI, Il potere di governo del territorio, in La Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza
costituzionale, a cura di A. PIOGGIA e L. VANDELLI, Bologna, 2007; G. L. CONTI, Le dimensioni costituzionali del
governo del territorio, Milano, 2007; S. AMOROSINO, Il governo dei sistemi territoriali. Il nuovo diritto
urbanistico, Padova, 2008, 3 ss; P. LOMBARDI, Il governo del territorio tra politica e amministrazione, Milano,
2012; A. CABIDDU, Il governo del territorio, Bari, 2014, 7 ss. La giurisprudenza costituzionale (sent. 1 ottobre n.
303, in Corr. giur., 2003, 1644 nonché 7 ottobre 2003 n. 307 e n. 196 del 2004) ha, infatti, evidenziato che tale
nozione ampia attiene all’uso del territorio e alla localizzazione degli impianti e attività costruttive.
17
rispettivamente da norme regolamentari preesistenti al T.U.E. e da norme risultanti dall’opera
di delegificazione di disposizioni di rango legislativo26.
L’impianto normativo del T.U.E. è suddiviso in tre parti. Nella prima parte sono
collocati i principi generali che regolano la materia e le disposizioni che disciplinano l’attività
edilizia, con specifico riferimento ai titoli abilitativi e all’agibilità dei manufatti. La seconda
parte è dedicata alla normativa tecnica dell’attività edilizia, “limitatamente all’ambito di
applicazione della Parte Prima”: tipologie costruttive, eliminazione delle barriere
architettoniche, normativa antisismica, sicurezza degli impianti, disposizioni sul contenuto
energetico. Nella terza parte, infine, vi sono le disposizioni finali che elencano espressamente
le precedenti norme abrogate e rimaste in vigore.
L’avvento di tale riassetto normativo ha, peraltro, sollevato problemi interpretativi non
indifferenti sulla portata del potere regolamentare dei Comuni nella materia edilizia 27. Il
regolamento edilizio è tradizionalmente ritenuto lo strumento normativo, generale ed astratto,
per eccellenza finalizzato a disciplinare le concrete modalità dell’attività edilizia (v.infra).
Ora, mentre, l’abrogato art. 33 della legge urbanistica 1150/1942, attribuiva ai
Comuni, con un’elencazione dettagliata delle specifiche materie oggetto della sua disciplina,
la piena competenza a regolare la materia stessa, con il T.U.E. tale potere ha trovato un
diverso regime di potestà regolamentare con due diverse previsioni di non facile
coniugazione. Con l’art. 2, comma 4, il nuovo testo ha statuito che i Comuni, nel quadro della
propria autonomia statutaria e normativa, fissata dall’art. 3 del d. lgs 18 agosto 2000 n. 267
(T.U. degli enti locali), disciplinano l’attività edilizia. Per contro, l’art. 4 (Regolamenti edilizi
comunali) ha statuito in ordine ai contenuti della regolamentazione edilizia, in particolare,
26
Per ulteriori riferimenti in relazione ai contenuti e all’impianto normativo del T.U.E.: V. MAZZARELLI, Il testo
unico in materia edilizia: quel che resta dell’urbanistica, in Giorn. dir. amm., 2001, 775 ss; E. FERRARI (a cura
di), La disciplina pubblica dell’edilizia e la sua codificazione, Atti del V Convegno AIDU, cit., 2 ss; M.
LUCIANI, Il sistema delle fonti nel testo unico dell’edilizia, in Riv. giur. ed., 2002, II, 4 ss; S. CIVITARESE
MATTEUCCI, Il Testo unico sull’edilizia alla luce del nuovo Titolo V parte II della Costituzione, in Riv. giur.
urb., 2003, 123 s; M. A. SANDULLI (a cura di), Testo Unico dell’edilizia, Milano, 2009, spec. pp. 3 ss di M.
BONINI e A. RUSSO; T. BONETTI, La disciplina dell’attività edilizia,in M. A. CABIDDU (a cura di), Diritto del
governo del territorio, Torino, 2010, 351 ss; nonché A. TARZIA, in R. Ferrara e G. F. FERRARI (a cura di),
Commentario breve alle leggi in materia di urbanistica ed edilizia, 2015, pp.187 ss; con più diretto riferimento
alla normativa edilizia M. CARLIN, Il nuovo regolamento edilizio. Dopo il titolo quinto della Costituzione e le
modifiche al testo unico dell’edilizia. Contenuto, efficacia, impugnazione, disapplicazione, Milano, 2008.
27
Sul punto: F. LORENZOTTI, Il testo unico e la potestà regolamentare comunale, in Atti Convegno AIDU su La
disciplina pubblica dell’attività edilizia, cit., 175 ss; quindi M. CARLIN, Il nuovo regolamento edilizio, cit., 66 ss;
R. GRACILI e L. MELE, L’autonomia del Comune in materia di assetto ed utilizzazione del territorio in relazione
ai principi generali della legislazione statale e regionale, in Riv. giur. ed., 2003, II, 109 ss; R. MONACO, Tsto
unico e regolamenti edilizi, Napoli, 2002, 30 ss; V. ITALIA, Appunti sul regolamento edilizio comunale, in Giust.
amm., 2005, 960 ss.; F. CINTIOLI, Commento art. 4, in Testo Unico dell’edilizia, cit., 93 ss.
18
articolandoli in due tipologie: “obbligatori”, comprendendo tra questi la disciplina delle
modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto – nell’ordine – delle normative
tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze
degli stessi (comma 1); “facoltativi”, quali gli interventi sottoponibili a parere della
commissione edilizia là dove prevista (comma 2).
Da tale assetto normativo, è stata registrata la sussistenza di un contrasto o quanto
meno una forte incoerenza normativa tra le enunciazioni di principio (di ampia autonomia
statutaria e normativa) e la disciplina concreta, molto più restrittiva, in relazione al principio
di gerarchia delle fonti28. Va, peraltro, avvertito che la potestà regolamentare (quindi anche
edilizia) dei Comuni, sotto il profilo costituzionale, trova la propria fonte di legittimazione
principalmente nel novellato art. 114 Cost., laddove viene sancita l’autonomia amministrativa
e normativa comunale, in uno con il combinato disposto con l’art. 118, comma 2 Cost.
relativo al principio di sussidiarietà verticale29.
Il quadro interpretativo appare destinato, infatti, a rendersi più complesso se si
considera che il regolamento edilizio è venuto progressivamente a contenere, integrandole,
anche le c.d. norme di attuazione dello strumento urbanistico (N.T.A. di cui all’art. 6 delle L.
1150/1942), ove sono contenuti sia parametri edilizi che parametri urbanistici attraverso
molteplici c.d. “norme tecniche” (v. infra).
La rilevanza di nozioni tecniche nella produzione normativa è una constatazione da
tempo rilevata30. Il concetto di “normativa tecnica” non è, tuttavia, univoco. Dottrina e
28
La giurisprudenza ha, infatti, rilevato che “Il regolamento edilizio, esprimendo l’autonomia normativa
riconosciuta ai Comuni dall’ordinamento, ha natura giuridica di fonte normativa secondaria e come tale è
subordinato al criterio ermeneutico della coerenza con le fonti primarie e del principio gerarchico per cui lex
superior derogat inferiori”: Cons. Stato, sez. IV, 17 dicembre 2003 n. 8289, in Foro amm. CDS, 2003, 3639; Id.,
Sez. V, 13 maggio 1997 n. 497, in Urb. e app., 1998, 312. Sul potere regolamentare degli enti locali in generale
v. già I. FENUCCI, I regolamenti di autonomia locale, Milano, 1994; V. ITALIA, I regolamenti dell’ente locale,
Milano, 2000; L. VERRIENTI, Regolamenti amministrativi, in Dig. (Disc. pubbl.), Torino, 1997, XIII, 47 ss; con
più diretto riferimento alla regolamentazione edilizia: F. SALVIA, Il Comune e il governo del territorio, in Nuove
autonomie, 1994, n. 2, 1935 ss; nonché M. LUCIANI, Il sistema delle fonti nel Testo Unico dell’edilizia, in Atti
Convegno AIDU La disciplina dell’attività edilizia, cit., 111 ss; da ultimo V. ITALIA, La gerarchia dei principi e
delle leggi e le conseguenze sulle norme statutarie e regolamentari degli enti locali, in Studi in onore di F.
Bassi, Napoli, 2015, I, 81 ss.
29
Nel sistema delle fonti, il rapporto tra fonte legislativa primaria e potestà regolamentare locale è ritenuto
equiparabile a quello che vi è tra fonti concorrenti: sul punto S. MANGIAMELI, Riassetto dell’amministrazione
locale, regionale e statale tra nuove competenze legislative, autonomie normative ed esigenze di concentrazione,
in AA. VV., Il sistema amministrativo dopo la riforma del titolo V della Costituzione, Milano, 2002; su tale tesi
v. già F. MODUGNO, Fonti del diritto (gerarchia delle), in Enc. dir. Aggiorn., Milano, I, 1997, 561 ss; F.
SORRENTINO, Le fonti del diritto italiano, Padova, 2009. 45.
30
La nozione di attività tecnica nella formazione giuridica e nell’attività amministrativa è studiata sin dai primi
decenni del novecento da O. RANELLETTI nei suoi Principi di diritto amministrativo, Milano, 1912, I, 350 ss e
nel saggio del 1911 Attività amministrativa e attività tecnica e successivamente ripresa da V. BACHELET,
19
giurisprudenza hanno tentato di offrire elementi di una definizione che potesse cogliere
l’eterogenea massa di regole caratterizzate da tale locuzione. Tra le varie interpretazioni
offerte in dottrina31, va richiamata quella che ricollega l’espressione “norme tecniche” al
concetto generale di tecnica, intesa come quell’area “caratterizzata da cognizioni e giudizi
emessi sulla base di una scienza specialistica, cioè di tutte le scienze ad eccezione di quelle
giuridiche e dell’amministrazione”, ovvero “di una tecnica di produzione di un bene o di un
servizio non necessariamente collegata alla scienza”. Secondo questa lettura sarebbero,
dunque, norme tecniche sia quelle prodotte da organismi tecnici estranei all’amministrazione
e recepiti in atti formali, sia quelle “prodotte da organi statali o da enti pubblici statali o
regionali o locali, abilitati alla normativa in procedimenti con elaborazione tecnica”32.
Una definizione di carattere generale riconosce nelle suddette norme quelle
“disposizioni normative caratterizzate da un contenuto peculiare frutto della diretta
elaborazione delle cosiddette scienze esatte”33. In conformità all’insegnamento che ha rilevato
come l’aggettivo “tecnica” intenda indicare l’origine delle norme da discipline aliene rispetto
al diritto, mentre la loro natura assume valore pienamente giuridico”34.
Sulla scorta di tali rilievi, in dottrina è stata avanzata una definizione, adatta alla
materia edilizia, quale complesso di “norme desunte da discipline specialistiche finalizzate a
stabilire criteri di sicurezza, di qualità o di prestazione nelle attività edilizie, inclusi i requisiti
costruttivi e merceologici dei prodotti impiegati o dei manufatti realizzati”35.
Nella giurisprudenza ritroviamo concetti analoghi. Un importante riferimento, volto ad
individuare una nozione comune di “normativa tecnica”, è certamente la sentenza 14 marzo
1997 n. 61 della Corte Costituzionale36. con la quale la Corte ha individuato ciò che le norme
tecniche devono essere e ciò che non devono essere. In tale decisione, la Corte ha considerato
norme tecniche solamente quelle prescrizioni estranee alla scienza giuridica, elaborate sulla
base di altre scienze, nella specie le c.d. scienze esatte, delle quali l’ordinamento si
L’attività tecnica della pubblica amministrazione, Milano, 1967; Id., Evoluzione del ruolo e delle strutture della
pubblica amministrazione, in Studi in onore di C. Mortati, Milano, 1977, II, 1 ss; nella dottrina francese F.
AUBRY-CAILLAUD, La norme tecnique et la notion d’acte administratif, in Revue administrative, 1997, 456 ss,
con riserva di ulteriori indicazioni.
31
Per una panoramica sulle diverse posizioni: F. SALMONI, Le norme tecniche, Milano, 2001, 25 ss;
32
In tal senso A. PREDIERI, Le norme tecniche nello Stato pluralista e prefederativo, in Dir. econ., 1996, 251 ss.
33
Così M. CECCHETTI, Note introduttive alo studio delle normative tecniche nel sistema delle fonti a tutela
dell’ambiente, in U. De Siervo (a cura di), Osservatorio sulle fonti, Torino, 1996, 142.
34
A. M. SANDULLI, Le norme tecniche nell’edilizia, in Riv. giur. ed., 1974, 189 ss.
35
Così P. DELL’ANNO, Normativa tecnica dell’edilizia, in La disciplina pubblica dell’attività edilizia e la sua
codificazione, cit., 396.
36
Corte cost., 14 marzo 1997 n. 61, in Giur. cost., 1997, 634; con nota di M. GIGANTE, Alcune osservazioni
sull’evoluzione dell’uso del concetto di tecnica nella giurisprudenza della Corte Costituzionale.
20
avverrebbe solo occasionalmente, nel momento in cui si trovi a dover disciplinare quelle
materie che per specialità del loro oggetto necessitano di cognizioni specialistiche delle quali
risulti sfornito37. Tali orientamenti interpretativi hanno trovato un puntuale riscontro anche
nella disciplina dell’attività edilizia (v. infra) che, come altri settori del vivere civile, è stato
sempre più intensamente interessato dal fenomeno della presenza della tecnica nel mondo
giuridico o com’è stato denominato “giuritecnica”38.
L’obiettivo del regolamento edilizio, al quale si è venuto nel tempo ad affiancare la
normativa, anche tecnica, contenuta negli strumenti urbanistici generali, è quello di
disciplinare l’attività edilizia, con norme tendenzialmente omogenee per l’intero territorio
comunale, lasciando al P.R.G. la disciplina differenziata del territorio.
Le sempre più giustificate esigenze di assicurare stabilità e sicurezza nella costruzione
degli edifici hanno, inoltre, indotto il legislatore ad attribuire un peculiare valore alla
“Normativa tecnica per l’edilizia”, in un’apposita Parte (II) del T.U.E. (artt. 52 ss), con
conseguente assegnazione alle norme tecniche una rilevanza assoluta anche in relazione alle
disposizioni degli strumenti urbanistici (v. infra).
Le frequenti e quasi scontate interconnessioni tra norme regolamentari e norme c.d.
tecniche, presenti nella normativa statale e regionale, ulteriormente implementate dalle
prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici locali, hanno spesso creato all’interprete e
all’operatore delicati problemi di carattere interpretativo e applicativo riconducibili al
binomio, mai sopito, tra “tecnica” e “diritto” oggi sempre più diffuso39 (v. infra).
37
Secondo tale decisione non sarebbero, invece, tecniche quelle norme che, volte all’organizzazione
dell’apparato amministrativo, implicano una valutazione di interessi pubblici, e ciò in quanto la tecnica, essendo
applicazione di scienza esatta, è di per sé stessa oggettiva e neutrale. Va precisato che con il termine “oggettiva”
la Corte non ha inteso riferirsi alla “certezza” dei risultati scientifici, ma esclusivamente alla “non soggettività”,
alla non opinabilità della tecnica: la certezza in campo scientifico è sempre relativa, essendo possibile, anzi
auspicabile, un continuo progresso delle conoscenze scientifiche e tecniche. Sotto il profilo delle fonti, la
giurisprudenza costituzionale aveva avuto occasione di collocare la normativa tecnica nell’ambito della funzione
statale di indirizzo e coordinamento (Corte cost. sent. n. 20 del 1975, n. 74 del 1987, n. 329 del 1988), in quanto
dettata in funzione di esigenze di certezza giuridica e di uniformità non suscettibili di frazionamenti territoriali.
38
Così descritto da V. FROSINI, L’aspetto tecnologico del lavoro del giurista nella recente esperienza, in Riv.
dir. civ., 1980, 40 ss; ID., Il diritto nella società tecnologica, Milano, 1981, 256.
39
Su cui per un primo approccio, oltre agli autori già citati: ancorché datato A. RAVA’, Il diritto come norma
tecnica, Cagliari, 1911; quindi M. GIGANTE, Effetti giuridici del rapporto tra tecnica e diritto: il caso delle
norme europee armonizzate, in Riv. it. dir. pubbl. comp., 1997, 313 ss; G. M. AZZONI, Cognitivo e normativo: il
paradosso delle regole tecniche, Milano, 2001, 64 ss; S. JASANOFF, La scienza davanti ai giudici, Milano, 2001;
E. CHITI, La normalizzazione, in Trattato di diritto amministrativo speciale (a cura di S. Cassese), Milano, 2003,
vol. IV, 4003 ss; M. GIGANTE, Norma tecnica, in Dizionario di dir. pubbl., (diretto da S. Cassese), Milano, 2006,
vol. IV, 3806 ss; A. ZEI, Tecnica e diritto tra pubblico e privato, Milano, 2007; ID., Norme tecniche, in Il Diritto
Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, Milano, 2007, X, 68 ss; A. SANTOSUOSSO, Diritto, scienza, nuove
tecnologie, Milano, 2011; nonché sul fronte della pubblica amministrazione: C. VIDETTA, L’amministrazione
della tecnica, Napoli, 2008.
21
Onde offrire un contributo ad una più organica e proficua intelleggibilità e
conciliabilità di queste diverse “anime” presenti nella vigente normativa di settore e onde
comprenderne la genesi e la funzione, non pare inutile effettuare una breve ricognizione
dell’evoluzione che la nozione di edilizia ha avuto nel susseguirsi dei processi normativi
anche in relazione alla stessa esigenza di “tecnicità”.
2. La nozione di edilizia e la relativa evoluzione storico-giuridica
Nelle più autorevoli trattazioni enciclopediche40 è stato esattamente rilevato che anche
in base alla radice etimologica (dal latino aediles “edili”), sotto la denominazione generica di
edilizia si può ricomprendere tutto ciò che riguarda la esecuzione e la manutenzione degli
edifici pubblici e privati. È stato tuttavia evidenziato che essa è più particolarmente usata in
due sensi più limitati e distinti. “Secondo l’uno di essi per edilizia si intende quel complesso
di studi, regole, cognizioni prevalentemente tecniche, che hanno per oggetto la scienza e l’arte
del costruire e che oggi si preferisce di raggruppare sotto la denominazione più esatta di
architettura tecnica. Tali sono la distribuzione degli edifici in vista delle loro necessità
statiche e funzionali, l’uso dei diversi materiali secondo le loro possibilità estetiche e
costruttive, gl’impianti tecnici di vario genere e quanto contribuisce a rendere gli edifici
rispondenti al loro scopo. L’altra accezione di edilizia esprime, invece, quel vasto campo di
attività, specialmente nell’architettura, nell’ingegneria e nell’industria, che riguarda lo
sviluppo dei centri abitati. In questo senso l’edilizia è una manifestazione architettonica e
sociale antichissima, che è venuta assumendo specialissima importanza in vista della rapida
evoluzione delle città e quindi di disciplinarne la crescente espansione”.
Tale sviluppo, motivato da varie esigenze igieniche, sociali, artistiche nonché
giuridiche ha successivamente originato la nozione archetipa dell’urbanistica, concepita come
“la scienza che si preoccupa della sistemazione e dello sviluppo delle città, nell’intento di
assicurare, con il sussidio di tutte le risorse tecniche, la migliore posizione delle vie, degli
40
V. ad esempio la voce Edilizia nell’Enciclopedia italiana Treccani, Milano, 1932, vol. XIII, 460; come pure
Enciclopedia Universale Garzanti, Milano, 1970, I, 460.
22
edifici e degli impianti pubblici, nonchè delle abitazioni private, in modo che la popolazione
vi possa avere una dimora sana, comoda e gradevole”41.
Analoghe considerazioni sono state fatte per evidenziare il significato e lo sviluppo
che ha avuto la nozione dell’edilizia sotto il profilo giuridico 42. Vi è stato, infatti, chi ha
ritenuto che “non esiste un’accezione giuridica di “edilizia”, in quanto nella legislazione
positiva il vocabolo ricorre in tutte le varie accezioni che possiede nel linguaggio corrente:
attività del costruire, tecnica del costruire, tipologia di costruzioni, organizzazione di attività
rivolte al costruire”. È stato altresì esattamente osservato che l’aspetto preminente, sotto il
quale la normativa si è occupata dell’edilizia, è stato quello che riguarda l’attività del
costruire, più come risultato dell’attività che come attività in sé. In effetti, sotto questo profilo,
l’attività del costruire o attività edilizia, è stata storicamente sempre disciplinata da norme di
diritto civile in relazione ai rapporti tra proprietà private confinanti o finitime43. Solo con il
Medio Evo si iniziano ad avere, principalmente negli statuti, norme comunali di tipo edilizio,
quale disciplina di rilevanza pubblicistica, soprattutto con finalità igienico-sanitarie, di
“decoro” del suolo e dell’abitato44.
41
Il passo è di DANGER, Cours d’urbanisme, Paris, 1933 e riportato da V. TESTA nelle sue Lezioni di legislazione
urbanistica, Roma, 1933-34, 3-4 e citato emblematicamente già da F. SALVIA - F. TERESI, Lineamenti di diritto
urbanistico, Padova, 1973, 1 ss, v. altresì V. PICCINATO, voce Urbanistica, in Enc. it., vol. XXXIV, 768 ss e
sulla successiva evoluzione V. G. ASTENGO, voce Urbanistica, in Enciclopedia Universale dell’arte, vol. XIV,
ad vocem; DETTI-SICA, voce Urbanistica, in Enc. del Novecento, vol. VII, 985 ss; tra i giuristi, con riserva di
ulteriori richiami, L. MAZZAROLLI, I piani regolatori nella teoria giuridica della pianificazione, Padova, 1965,
20 ss; A. PREDIERI - M.A. BARTOLI, Piano regolatore, in Enc. dir., vol. XXXIII, 1983, 654 ss; V. CERULLI
IRELLI, Urbanistica, in Dizionario di diritto amministrativo diretto da G. Guarino, Milano, 1983, 617 ss; G.
MORBIDELLI, Pianificazione territoriale e urbanistica, in Enc. dir., Milano, 1990, XXIII, ad vocem; V.
MAZZARELLI, L’urbanistica e la pianificazione territoriale, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S.
Cassese, II. Ediz., Milano, 2003, 3335 ss. Per i profili storici V. L. BENEVOLO, Le origini dell’urbanistica
moderna, Bari, 1971; G. AYMONINO, Origini e sviluppo della città moderna, Padova, 1965; ARDIGÒ, La
diffusione urbana, Roma, 1967; V. SICA, Storia dell’urbanistica, Bari-Roma, 1991.
42
Vanno qui richiamati i contributi specifici di V. TESTA, Edilizia, in Novissimo Dig. It., Torino, 1960, vol. VI,
381 ss; di G. ROEHRSSEN, Edilizia, in Enc. dir., Milano, 1965, XIV, 312 ss; di M. PALLOTTINO, Edilizia, in
Novissimo Dig. It. Appendice, Torino, 1982, 245 ss; e più recentemente di M. BREGANZE, Edilizia, in Digesto IV
(Disc. Pubbl.), Torino, V, 192 ss; N. ASSINI, Edilizia (disciplina delle costruzioni), in Enc. giur. Treccani, Roma,
1988, vol. XI nonché PICOZZA - CAMPAGNOLA, Edilizia privata. Profili giuridici, Milano, 1999.
43
Per questi profili storici L. MUMFORD, Le città nella storia, Milano, 1963; L. BENEVOLO, Le origini e
l’avvenire della città, Bari, 1972; G. SAMONÀ, L’urbanistica e l’avvenire della città, Roma-Bari, 1978; SICA,
Storia della città, Bari, 1980; V. ZOCCA, Sommario di storia urbanistica delle città italiane dalle origini al 1860,
Napoli, 1961.
44
Sul ruolo e gli interventi del Comune per la cura della sanità e dell’igiene locale della relativa potestà
regolamentare v. già ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1958, III, 160 ss. Per i profili storici
dell’evoluzione della legislazione sanitaria in relazione alle esigenze edilizie v. utilmente nel Trattato diretto da
V.E. ORLANDO, che all’argomento dedica gran parte del vol. IV, parte 2, con le due monografie di F. CAMMEO,
Sanità pubblica: principi generali, fonti ed organizzazione, 216 ss e di C. VITTA, Sanità pubblica: i singoli
obiettivi dell’amministrazione sanitaria.
23
Sotto il profilo storico, va sottolineato che la disciplina edilizia dei centri urbani è
principalmente rinvenibile nella potestà regolamentare dei Comuni fin dagli ordinamenti
preunitari. La prima legge comunale del Piemonte, emanata poco dopo la concessione dello
Statuto albertino (r.d. 7 ottobre 1848 n. 807), attribuiva, infatti, ai Comuni il potere di formare
regolamenti di “polizia urbana e rurale”: tale attribuzione è stata pacificamente intesa come
comprensiva della normazione in materia edilizia, essendo ritenuta, allora, un settore della
“polizia urbana”.
Tale attribuzione appare confermata nelle successive leggi comunali e provinciali del
Regno. Nel r.d. 23 ottobre 1859 n. 3702 (nuovo ordinamento comunale e provinciale
sostitutivo della legge del 1848), si parla di regolamento di “ornato” (locuzione usata come
sinonimo, nei testi ottocenteschi di regolamento edilizio). Con l’All. A) della legge 20 marzo
1865 n. 224845, sostitutivo della legge del 1859, compare l’espressione “regolamento
d’edilità”, conservata con qualche variante, come “regolamento d’edilizia”, nei testi
successivi (1889, 1898 e 1908) fino a quello emanato con r.d. 4 febbraio 1915 n. 148 ed a
quello emanato con r.d. 3 marzo 1934 n. 38346. Anzi, il regolamento per l’esecuzione della
legge n. 2248 del 1865, determinava le materie che dovevano formare oggetto dei regolamenti
edilizi, che riguardavano la nomina e la composizione della commissione edilizia, la polizia
della viabilità interna del centro abitato, l’intonaco e la tinta delle facciate e dei muri, l’altezza
massima dei fabbricati, la posizione e la conservazione dei marciapiedi, e il controllo dei
lavori da effettuarsi dai delegati del municipio al fine di constatare l’osservanza delle
disposizioni legislative e regolamentari47.
Va tuttavia evidenziato che nell’esame delle fonti giuridiche dell’edilizia risultano
importanti e significativi sia gli elementi derivanti da norme pubblicistiche che da norme
privatistiche quale in particolare il codice civile. Si può anzi dire che l’evoluzione della
disciplina edilizia prende le mosse da un nucleo fondamentale di norme contenute nel codice
45
Va poi ricordato che la legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. A, demandava ai consigli comunali il potere di
deliberazione dei regolamenti edilizi; mentre il relativo regolamento di esecuzione, approvato con r.d. 8 giugno
1865 n. 2321, indicava quale contenuto essenziale dei regolamenti edilizi “i piani regolatori e di livellazione o di
nuovi allineamenti delle vie, piazze o passeggiate pubbliche”.
46
Per una ricostruzione e successione storica di questi dati normativi v. già N. ASSINI - P. MANTINI, Il
regolamento edilizio comunale, in Manuale di diritto urbanistico, Milano, 1991, 457 ss; nonché F. BARTOLOMEI,
La commissione edilizia nella normazione dell’ordinamento comunale, Milano, 1981, 50 ss. V. inoltre Cento
anni di edilizia 1862-1962 a cura di A. PICA e E. PIFFERI, Roma, 1963 con saggi di diversi autori
47
Queste disposizioni sono poi state sostanzialmente mantenute nelle leggi successive, fino al regolamento 12
febbraio 1911 n. 297 (art. 111) ed alla legge comunale e provinciale 4 febbraio 1915 n. 148, che stabiliva che i
regolamenti dovevano essere deliberati dal Consiglio Comunale (art. 131, n. 106) ed approvati dalla Giunta
provinciale amministrativa (art. 217, n. 9). Tale normativa è stata conservata nel successivo T.U. della legge
comunale e provinciale approvato con legge 3 marzo 1934 n. 383.
24
civile e che solo successivamente ed in tempi più recenti la normazione pubblicistica è
intervenuta in modo pregnante a conformare la materia.
Come noto, il codice civile è coevo alla legge urbanistica fondamentale del 1942,
sicché, sia pure nell’ottica tradizionale della disciplina delle proprietà finitime e delle
costruzioni confinanti, sono tuttavia rinvenibili soluzioni omogenee sul piano normativo48.
Particolarmente significativo appare il disposto dell’art. 871 c.c. (Norme di edilizia e
di ornato pubblico) ove si stabilisce che “le regole da osservarsi nelle costruzioni sono
stabilite dalla legge speciale e dai regolamenti edilizi”49. L’art. 871 è stato, in genere,
interpretato insieme all’art. 872: su tali disposizioni si fonda la distinzione tra norme edilizie
che riguardano le distanze tra fabbricati (integrando il limite posto dall’art. 873) e norme che,
seppure dirette incidentalmente ad assicurare la migliore utilizzazione della proprietà privata,
tendono a principalmente a soddisfare interessi di indole generale (igiene, viabilità ed
estetica)50. In coerenza con questa linea interpretativa si è ritenuto che rientrino nella
48
Come già rilevato da N. ASSINI - P. MANTINI in Manuale di diritto urbanistico, cit., 555 ss; v. comunque sulla
genesi e sull’evoluzione della disciplina edilizia in chiave urbanistica G. D’ANGELO, Cento anni di legislazione
urbanistica, in Atti del Congresso celebrativo delle leggi amministrative di unificazione. Le opere pubbliche. I
lavori pubblici (a cura di A.M. Sandulli), Vicenza, 1967, 433 ss; S. AMOROSINO, Profili di storia istituzionale del
governo del territorio in Italia, in Riv. giur. ed., 1981, II, 227 ss; P.G. MASSARETTI, Dalla “regolamentazione”
alla “regola”. Sondaggio storico-giuridico sull’origine della legge generale urbanistica 17.8.1942 n. 1150, in
Riv. giur. urb., 1995, 437 ss.
49
Per più specifici riferimenti sulla portata e gli effetti di questa normativa codicistica v. F. DE MARTINO,
Proprietà (Commentario del Codice civile, Libro III, a cura di A. Scialoia e G. Branca, 4 ediz., Bologna, 1976,
257 ss; e per la giurisprudenza in materia A. ALIBRANDI, Rassegna di giurisprudenza in materia di norme
integrative delle disposizioni del codice civile sui rapporti di vicinato, in Riv. giur. ed., 1960, II, 72 e 141; A. DI
FILIPPO e G. PESCATORE, Rassegna di giurisprudenza sul codice civile, diretta da R. Nicolò e M. Stella Richter,
Tomo II, libro III, Appendice di aggiornamento, Milano, 1980, 824 ss.
50
I problemi interpretativi in relazione all’art. 872, come noto, hanno toccato essenzialmente i riflessi di tutela
giurisdizionale. Ai fini di stabilire se compete la riduzione in pristino, indipendentemente dalla prova del danno,
ovvero il risarcimento del danno, secondo i principi comuni, il criterio seguito dalla giurisprudenza e dalla
dottrina è stato quello della distinzione tra norme di regolamenti, integrative del codice civile sui rapporti di
vicinato e norme che invece si propongono una più ampia finalità di interesse pubblico, quale è quello di
provvedere alle necessità igieniche della popolazione e di tutelare l’estetica edilizia. Su questo indirizzo
interpretativo v. già Cass. 9 luglio 1951 n. 1837; Id., n. 429 del 1968 e più recentemente Cass. 23 giugno 1995 n.
7154; per la dottrina risalente, ex multis, CAPALDO, Sull’art. 872 c.c., in Foro it., 1957, I, 494 ss; M. CARABBA,
Regolamenti comunali edilizi e limitazioni alle posizioni giuridiche soggettive dei privati, in Foro amm., 1962, I,
1184 ss; F. CIPRIANI, Effetti privatistici delle violazioni ai regolamenti comunali di edilizia, in Giur. it., 1956, I,
917 ss; DE BIASI, In tema di regolamenti edilizi comunali, in Giust. Civ., 1956, I, 194 ss; FORNI, I regolamenti
edilizi comunali e la loro efficacia nei rapporti tra i privati, Firenze, 1957, 30 ss; GRECO, Violazione delle
norme regolamentari integrative del codice civile in materia edilizia, in Il nuovo diritto, 1954, 203 ss; LORENZI,
I regolamenti edilizi e la tutela dei diritti soggettivi privati, in Foro padano, 1950, I, 257 ss; PIFFERI, Le
disposizioni che integrano il c.c. in materia edilizia, in Corr. amm., 1961, 184 ss; ID, Terzo danneggiato in
materia di edilizia e sua tutela giurisdizionale, in Riv. amm., 1967, 544 ss; ID., Regolamenti edilizi e diritti di
terzi, in Nuova rass., 1965, 1593 ss; A. M. SANDULLI, Giurisdizione e amministrazione in materia di edilizia
urbanistica, in Dir. econ., 1958, 1425 ss; G. VIGNOCCHI, Violazione di norme regolamentari edilizie e diritti dei
25
categoria dei regolamenti edilizi anche gli ottocenteschi regolamenti di igiene per la parte
riguardante le disposizioni da osservare nelle costruzioni, proprio a tutela dell’igiene del suolo
e degli abitati51.
Analoga rilevanza sono venute assumendo altre norme regolamentari edilizie con
previsioni c.d. “integrative” del codice civile (art. 872, comma 2 e 873) sul vicinato e sulle
distanze tra i fabbricati52, nonché norme che relative all’altezza massima degli edifici in
relazione alla larghezza delle strade, l’estetica, l’aspetto e l’ornato delle costruzioni, i rapporti
tra area fabbricabile ed area da coprire, l’ampiezza dei cortili, l’igiene e così via.
In conseguenza delle esigenze indotte dal mutamento dei processi di produzione e dei
contesti urbani derivanti da una più consistente e diffusa industrializzazione (anche se più
tardivamente intervenuta in Italia) ha iniziato a rendersi più pressante l’esigenza di
provvedere a disciplinare, in via preventiva e più organica, le diverse attività di
trasformazione edilizia tramite apposite norme regolamentari, a cui conviene dedicare ancora
qualche ulteriore attenzione.
3. Genesi e sviluppi della regolamentazione edilizia con valenze tecniche
Nel diritto positivo, in tutto il periodo della civiltà preindustriale, i contenuti dei c.d.
regolamenti edilizi53, hanno prevalentemente riguardato la volumetria degli edifici, le
privati, in Riv. dir. comm., 1955, II, 291 ss; ID., Sui regolamenti edilizi e sulle conseguenze giuridiche della loro
violazione, ivi. 1948, 320 ss.
51
La giurisprudenza ha già ritenuto in passato che con i regolamenti comunali edilizi e con quelli di igiene, già
previsti dall’art. 83 del r.d. 10 giugno 1889 n. 6107, possono essere perseguiti interessi sostanzialmente
coincidenti, poiché gli interessi tutelati con le norme sull’igiene degli abitati e con le norme sulle costruzioni
spesso interferiscono, come nell’ipotesi delle disposizioni sulle distanze tra le costruzioni che sono dirette ad
evitare la formazione di intercapedini insalubri, cfr. Cass, Sez. Un., 12 marzo 1973 n. 665, in Giust. Civ., 1973, I,
1774 con nota di ALVINO, Effetti conseguenti alla violazione delle norme attinenti all’edilizia contenute nei
regolamenti comunali di igiene e sanità.
52
In ordine alla distinzione tra norme integrative e non integrative del codice civile, la giurisprudenza ha chiarito
come abbiano carattere “integrativo quelle dirette a completare, rafforzare ed armonizzare con il pubblico
interesse di un ordinato assetto urbanistico la disciplina dei rapporti intersoggettivi”; non rivestono, invece, tale
carattere quelle che hanno come “scopo principale la tutela di interessi generali urbanistici quali la limitazione
del volume, dell’altezza e della densità degli edifici, le esigenze dell’igiene, la viabilità, la conservazione
dell’ambiente ed altre”: Cass. Civ., Sez. II, 30 dicembre 1999 n. 14714, in Giust. Civ. Mass., 1999, 2654).
53
La genesi di questi regolamenti è vista dalla prevalente dottrina del tempo come una forma di limitazione alla
proprietà privata, come emerge dalla dottrina dell’epoca: U. FRAGOLA, Teoria delle limitazioni alla proprietà
privata con speciale riferimento ai regolamenti edilizi comunali, Milano, 1940, 341 ss; L. RAGGI, Regolamenti
comunali di edilizia e d’igiene e il diritto dei privati, in Corte di Cassazione, 1927, IV, 1231 ss; DE BARBIERI, Le
norme dei regolamenti edilizi e il diritto dei privati, in Riv. dir. pubbl., 1930, XXXIII, 82 ss; PANICOTTI, I
regolamenti edilizi dei Comuni e i diritti dei privati, in Giur. it., 1930, 167 ss; ROVELLI, Efficacia dei
26
tipologie, gli allineamenti, le distanze, le altezze con diretto riferimento alla disciplina delle
limitazioni della proprietà privata54 anche connesse ai procedimenti di espropriazione per
pubblica utilità55.
Una propria e del tutto particolare autonomia ha continuato ad avere l’edilizia nel
senso di tecnica del costruire, che è stata presa in considerazione dalla legislazione nella vasta
accezione di “normativa tecnica”56. In effetti, a seguito dell’innovazione delle tecniche
esecutive e della conseguente perdita di specifica professionalità delle maestranze, è sorta la
necessità, sempre più avvertita, allo scopo di tutelare l’utenza e la committenza del bene
edilizio, di elaborare norme tecniche scritte con valenza omogenea. Il quadro complessivo
della normativa tecnica, che si è venuto formando, è ormai un corpus estesissimo e tocca
profili svariati dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche a quella per la prevenzione
incendi, dalle norme sui requisiti dei vani, delle rampe, degli ascensori, delle autorimesse, dei
locali del gruppo termico, a quelle sui “materiali” (ad es. i conglomerati cementizi), a quelle
regolamenti comunali edilizi nei rapporti tra i privati, in Riv. dir.priv., 1934, 111 ss; G. AZZARITI, Norme dei
regolamenti comunali edilizi sulle altezze e sulle distanze fra edifici e i diritti dei privati, in Riv. dir. civ., 1940, I,
310 ss; ID., I regolamenti edilizi e il diritto di vicinato, in Riv. dir. pubbl., 1940, I, 633 ss; v. inoltre L. GENCO,
La potestà regolamentare dei Comuni in materia edilizia, Padova, 1935.
54
Sui contenuti dei regolamenti edilizi anche in relazione al diritto di proprietà v. già BUFALINI, Dei regolamenti
edilizi, Torino, 1886; dopo il 1942 D’AVANZO, Regolamento comunale di edilizia, Empoli, 1951; V. TESTA,
Regolamenti edilizi, Roma, 1955; G. PIFFERI, I regolamenti edilizi comunali, in Corr. Amm., 1963, 610 ss; T.
ZAGO, Regolamento edilizio, Empoli, 1964; G. DE CESARE, Note storiche sui regolamenti edilizi, in Riv. giur.
ed., 1967, II, 129 ss; L. MAZZAROLLI, Regolamento edilizio, in Novissimo Dig. It., Torino, 1968, vol. XV, 261
ss; v. inoltre N. ASSINI - P. MANTINI, Il regolamento edilizio comunale. Profili giuridici ed amministrativi,
Rimini, 1991; CAPONI - GRACILI, Il regolamento edilizio comunale: problemi e prospettive, in Riv. giur. ed.,
1986, II, 147 ss; P.G. MAZZARETTI, Dalla “regolamentazione” alla “regola”. Sondaggio storico-giuridico
sull’origine della legge generale urbanistica del 17.VIII.1942 n. 1150, cit., 1995, 437 ss.
55
In ordine ai rapporti tra la regolamentazione edilizia e le esigenze espropriative va solo ricordato che la legge
25 giugno 1865 n. 2359 concepiva il piano regolatore edilizio come “strumento diretto principalmente ad
agevolare più ampie e complesse espropriazioni, per il miglioramento viario ed igienico dei maggiori centri
abitati”. Per questi contenuti in funzione espropriativa dei regolamenti edilizi v. VISCO, Efficacia normativa dei
regolamenti edilizi e dei piani regolatori, Palermo, 1959; T. BRUNO, Espropriazione per causa di pubblica
utilità, in Digesto it., Vol. X, Torino, 1895-1898, 905 ss; G. SABBATINI - L. BIAMONTI, Commento alle leggi
sulle espropriazioni per pubblica utilità, Milano, 1938, cap. I; G. MOTZO - S. PIRAS, Espropriazione e “pubblica
utilità”, in Giur. cost., 1959, 218 ss; G. D’ANGELO, Urbanistica e diritto, Napoli, 1969, 12 ss; F. SPANTIGATI,
L’espropriazione nella disciplina urbanistica, in L’espropriazione per pubblica utilità, a cura di U. Pototschnig,
Vicenza, 1967, 177 ss; più recentemente D. SORACE, Espropriazione per pubblica utilità, in Digesto IV (disc.
pubbl.), Torino, VI, 178 ss.
56
Sulla normativa tecnica edilizia, con riserva di più specifiche indicazioni, v. già G. ROEHRSSEN, Edilizia IV.
Materiali edilizi, in Enc. dir., XIV, 1965, 359 ss; A. M. SANDULLI, Le norme tecniche dell’edilizia, in Riv. giur.
ed., 1974, cit., 189 ss; F. GARRI - U. CAZZUOLA, Codice sulle norme tecniche dell’edilizia, 2 voll., Milano, 1976;
F. GARRI, La normazione tecnica in Italia, in Foro amm., 1977, II, 1012 ss; AA. VV., Normativa tecnica e
industrializzazione dell’edilizia, Bologna, 1979.
27
sui parametri tecnici, quali le nozioni di prescrizione planivolumetrica o di superficie
(territoriale, fondiaria, lorda v. infra)57.
Una regolamentazione legislativa dell’attività edilizia ha trovato poi oggetto in leggi
speciali, quali ad esempio il T.U. leggi sanitarie 27 luglio 1934 n. 1265, con relativo
regolamento 3 novembre 1901 n. 54 nonché nella citata legge 20 marzo 1865 n. 2359
sull’espropriazione per pubblica utilità anche nelle successive modificazioni, con notevoli
dispersione di contenuti e valenze funzionali.
Come già anticipato, solo con l’approvazione della legge urbanistica fondamentale 17
agosto 1942 n. 1150 (art. 33 e segg.), si è giunti ad una più definita disciplina dei contenuti
della materia edilizia sotto il profilo regolamentare sia nei contenuti che nelle procedure di
approvazione
58
. Invero, il richiamato art. 33, in armonia con le disposizioni del T.U. delle
leggi sanitarie del 1934, nell’indicare i contenuti della materia “edilizia” oggetto di
regolamento comunale, aveva distinto tra norme regolamentari, attinenti ai procedimenti per
l’edificazione (licenze e autorizzazioni edilizie) ed alla composizione e funzionamento della
commissione edilizia, e norme tecniche riguardanti i parametri e le definizioni per lo
svolgimento dell’attività costruttiva. In altri termini, in questo articolo erano state individuate
sia norme concernenti la regolazione dell’attività costruttiva (distanze, altezze, sporgenze,
allineamenti, tipologie, indici edilizi, volumi, superfici, ecc. ), che norme contenenti
57
Per ulteriore specificazione dei contenuti della normativa tecnica nell’edilizia v. utilmente N. ASSINI - M. DI
Edilizia residenziale. Legge e “norme tecniche”, Firenze, 1988, X; ed inoltre N. ASSINI - P. MANTINI,
Lezioni di normativa e legislazione edilizia, Bergamo, 1990; nonché degli stessi autori Manuale di diritto
urbanistico, cit., 562 ss, da ultimo, con ampia ricostruzione critica, F. SALMONI, Le norme tecniche, Milano,
2001 nonché P. DELL’ANNO, Normativa tecnica dell’edilizia, in Atti Convegno AIDU, cit., 395.
58
La novella legislativa aveva subito posto una serie non indifferente di problemi sia in relazione alla precedente
regolazione edilizia sia in rapporto alle norme (anche tecniche) dei piani regolatori e dei piani particolareggiati,
per segnalazioni di queste problematiche nella dottrina dell’epoca: v. D. RODELLA, Coordinamento fra piani
regolatori e regolamento edilizio, in Nuova rass., 1961, 405 ss; BORBOTTONI - MANNITO, Regolamento di
edilizia per i Comuni sprovvisti di piano regolatore, Firenze, 1957; DE TARANTO, Piano regolatore
particolareggiato e regolamento edilizio, in Corr. amm., 1965, 1872 ss; MAGNANI, A proposito di regolamenti
edilizi comunali, ivi, 1956, 1645 ss; D. RODELLA, Caratteri della nuova regolamentazione edilizia, in Nuova
Rassegna, 1962, 2942 ss; G. ROEHRSSEN, Piani urbanistici e regolamenti edilizi. Nozioni generali, in Rass. lav.
pubbl., 1969, n. 2 e 3; RUSSO, Piani regolatori, regolamenti edilizi comunali e tecnica legislativa, in Giur. it.,
1961, I, 2, 377 ss; VISCO, Efficacia normativa dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori, cit.. Per una
disciplina edilizia unificata a livello nazionale cfr. CASALIN, Per un regolamento edilizio nazionale, in Riv. giur.
ed., 1958, III, 30 ss; BERTOLANI, Questioni in tema di regolamenti edilizi ante legge urbanistica, in Giur. it.,
1971, I, 1, 1315 ss. Per un tentativo di analisi comparativa dei singoli regolamenti edilizi v. CORIGLIONI, Esame
analitico comparativo dei regolamenti edilizi attualmente in vigore in Italia, in Nuova Rass., 1961, 908 ss.
SIVO,
28
prescrizioni tecniche a fini igienico sanitari, di pubblica incolumità, di decoro, di estetica dei
fabbricati59.
Storicamente, la legge urbanistica del 1942, pur avendo inglobato nel piano regolatore
gli aspetti più propriamente urbanistici dei regolamenti edilizi, non solo non li aveva
soppressi, al contrario, provvedendo a specificare scopo, contenuto e modalità di formazione
(art. 33) ma aveva imposto, ai Comuni sprovvisti di piano regolatore di adottare un
programma di fabbricazione con proprio regolamento edilizio. In tal senso, la dottrina aveva
messo in evidenza l’importante funzione di supplenza dei regolamenti edilizi in relazione alla
carenza dei piani regolatori.
Il secondo comma del citato art. 33, tuttavia, aveva già previsto che nei Comuni
provvisti di piano regolatore il regolamento edilizio dovesse altresì disciplinare la
lottizzazione delle aree fabbricabili e le caratteristiche dei vari tipi di costruzione previsti dal
piano regolatore, nonché l’osservanza di determinati caratteri architettonici e la formazione
dei complessi edilizi di carattere unitario, nei casi in cui ciò fosse necessario per dare
conveniente attuazione del piano regolatore, la costruzione e la manutenzione di strade private
non previste nel piano regolatore. Questi ulteriori contenuti dei regolamenti hanno
progressivamente fatto evolvere la disciplina edilizia verso la disciplina urbanistica, facendo
anzi assumere all’edilizia il ruolo di strumento attuativo e servente della pianificazione
urbanistica60.
In effetti, in relazione ai contenuti tipici dei regolamenti edilizi, è già stata da tempo
evidenziata in dottrina la distinzione tra le norme che storicamente e più direttamente possono
dirsi riconducibili e corrispondenti alle disposizioni tipiche già contenute nel regolamento
comunale e provinciale del 1911 (n. 1, 6, 7, 8, 12, 13, 14 dell’art. 33) ed un secondo gruppo di
59
Per questa bipartizione dei contenuti dei regolamenti edilizi v. ancora recentemente P. URBANI - S. CIVITARESE
MATTEUCCI, Diritto urbanistico, Torino, 2000, 187 ss; come pure MENGOLI, Manuale di diritto urbanistico, cit.,
289 ss
60
Sottolinea come, già prima della legge n. 1150 del 1942, i regolamenti edilizi abbiano costituito la fonte
principale della disciplina urbanistica sia di carattere sostanziale che organizzatorio: SALVIA - TERESI, Diritto
urbanistico, cit., 203 ss. Comunque, per una ricostruzione delle posizioni della dottrina giuridica v. anche per
ulteriori riferimenti V. ITALIA, Problemi sulle fonti del diritto e sulla potestà normativa dei Comuni in materia di
urbanistica e di edilizia, cit. Giurisprudenza, ormai datata, aveva messo in rilievo che “la tutela urbanistica
risponde ad un interesse pubblico generale, ma il legislatore ha affidato al Comune il compito di curarne la
regolamentazione, riservando all’ente locale la facoltà di interpretare ed esprimere le esigenze peculiari
dell’aggregato urbano. Da ciò può desumersi come non si abbia un contrasto, bensì convergenza nella stessa
situazione di interessi pubblici diversi che debbono essere distintamente tutelati”: Cass. Pen., Sez. II, 3 novembre
1965, in Giust. Pen., 1966, II, 473 ss, cfr. anche Cons. Stato, Sez. V, 12 maggio 1962 n. 394, in Corr. amm.,
1964, 638. È stato poi chiaramente ribadito che “le norme dei regolamenti edilizi sono poste in primo luogo a
tutela di interessi pubblici, quali quelli del decoro architettonico e del soddisfacimento di esigenze urbanistiche”:
Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 19 ottobre 1967 n. 43, in Foro amm., 1967, I, 2, 1391.
29
norme che è stato definito “una parte nuova – espressione di quella considerazione unitaria
dell’attività urbanistica… – nella quale più stretto ed organico appare il collegamento con
altre norme della legge urbanistica, in particolare con quelle che disciplinano il contenuto
degli strumenti di pianificazione urbanistica a livello comunale”61.
L’accorpamento strumentale dell’edilizia alla pianificazione urbanistica ha subito
certamente una significativa svolta con le disposizioni introdotte con la legge 6 agosto 1967 n.
765 (in specie gli artt. 17, 18 e 20 di tale legge recepiti negli artt. 41 quinquies, sexies e octies
della legge urbanistica del 1942). In particolare, l’art. 41 quinquies ha stabilito che debbono
osservarsi, nella formazione dei nuovi regolamenti edilizi e nella revisione di quelli esistenti,
limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra fabbricati, nonché rapporti
massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, e a verde pubblico o a parcheggi (8° comma). Dette
prescrizioni sono invero di due specie: edilizie (limiti di altezza, distanze, allineamenti, ecc.)
ed urbanistiche (destinazione delle costruzioni, rapporti massimi, spazi di uso pubblico ecc.).
Questi sono stati, infatti, denominati dalla dottrina standard urbanistici generali o speciali,
diretti comunque a “guidare” le opzioni della pianificazione urbanistica attraverso la
definizione di limiti di rapporti tra spazi ed insediamenti, densità edilizie, altezze degli edifici
e distanze tra i fabbricati, con riferimento alle zone territoriali omogenee che, a sensi del D.M.
2 aprile 1968 n. 1444, dovevano essere definite con la pianificazione urbanistica62.
In effetti, com’è già stato esattamente osservato, nel sistema introdotto dalla legge
urbanistica del 1942 e soprattutto con la legge ponte del 1967, la disciplina edilizia contenuta
nei previsti regolamenti comprende, da un lato, delle norme organizzative e procedurali,
riguardanti “la formazione, le attribuzioni e il funzionamento della commissione edilizia
61
L’acuta osservazione è di L. MAZZAROLLI, Regolamento edilizio, in Noviss. Dig., cit., spec. 263 ss e seguita
anche da ASSINI - MANTINI, Il regolamento edilizio comunale, cit., 461 ss.
62
Come noto per ciascuna delle c.d. zone territoriali omogenee, sono stati stabiliti differenti limiti di cubatura e
di altezze, di densità fondiaria e territoriale, nonché spazi minimi di aree verdi e di servizio da riservare nelle
medesime. Si tratta di valori minimi che i Comuni, nella formazione dei piani, sono tenuti a rispettare ma che
possono anche elevare in funzione di una pianificazione più rispondente ad interessi pubblici. Sul ruolo avuto
dagli standard edilizi nella pianificazione urbanistica, anche per ulteriori riferimenti bibliografici e gli
approfondimenti della nozione sotto il profilo storico, v. già D. RODELLA, La legge urbanistica ponte e il
contenuto dei programmi di fabbricazione e dei regolamenti edilizi, in Comuni d’Italia, 1968, n. 4; amplius L.
FALCO, Gli standard urbanistici, Roma, 1978, 27 ss; MENGOLI, Manuale dir. urb., cit., spec. 76 ss e 317 ss;
nonché F. PAGANO, Gli standard urbanistici e strumenti di politica dei servizi, in Riv. giur. ed., 1996, II, 185 ss;
F. SALVIA, Standard e parametri tra regole di pianificazione e disciplina dell’edificabilità, Atti del Convegno
AIDU su L’uso delle aree urbane e la qualità dell’abitato (a cura di E. Ferrari), Milano, 1999, 111 ss; in
giurisprudenza Cons. Stato, Sez. V, 20 novembre 1987 n. 703, in Foro amm., 1987, 2942; Id., Sez. V, 6 marzo
1990 n. 242, ivi, 1990, 642.
30
comunale”, nonché relative alla “compilazione dei progetti di opere edilizie”, alla
“presentazione delle domande di licenza”, alla “vigilanza sull’esecuzione dei lavori per
assicurare l’osservanza delle disposizioni delle leggi e dei regolamenti”, inoltre delle norme
dirette ad assicurare l’igiene, l’estetica e il decoro degli edifici, quali ad es. “l’ampiezza e
formazione dei cortili e degli spazi interni”, le “sporgenze sulle vie e piazze”, “l’aspetto dei
fabbricati e il decoro dei servizi e impianti che interessano l’estetica dell’edilizia urbana”, la
“recinzione o la manutenzione di aree scoperte”63. Attesa l’obbligatorietà del Regolamento
edilizio (prevista dal già citato art. 33 della legge del 1942), è da ritenersi che tali norme si
debbano tendenzialmente applicare in ogni parte del territorio comunale, mentre quelle che
vengono ad essere diverse per le varie “zone”, nella c.d. zonizzazione funzionale, debbano
essere contenute nel piano regolatore generale64.
Si è così venuta diffondendo, nell’esperienza pianificatoria già dello scorso secolo, la
tendenza a determinare le norme di attuazione e integrative del piano regolatore, baipassando
l’originaria regolamentazione edilizia. Si tratta, infatti, delle prescrizioni relative alla “altezza
minima e massima dei fabbricati secondo le zone” individuate dal P.R.G.; i “distacchi dai
fabbricati vicini e dal filo della strada”, nonché attinenti “alle caratteristiche dei vari tipi di
costruzione previsti dal piano regolatore”, alla disciplina della “lottizzazione delle aree
fabbricabili”, “ai caratteri architettonici” e alla ”formazione dei complessi edilizi di carattere
unitario, nei casi in cui ciò sia necessario per dare conveniente attuazione al piano
regolatore”65(v. infra).
63
Così nei criteri distintivi individuati da SALVIA - TERESI, Diritto urbanistico, cit., 205 ss e recepiti da ASSINI MANTINI, Regolamento edilizio comunale, cit., 461 ss; nonché M. BREGANZE, Edilizia, in Dig. (Disc. pubbl.),
cit., 192 ss; ASSINI, Edilizia (disciplina delle costruzioni), in Enc. Giur. Treccani, cit., XI.
64
Sulla nozione di “zonizzazione funzionale” in correlazione alla “zonizzazione architettonica o gestionale”,
anche per rilievi critici: M. MIGLIORANZA, La funzioni delle zone e degli edifici: individuazione e conseguenze,
in Riv. giur. ed., 2005, 6, 245 ss.
65
In relazione a tali parametri valutativi, si può dire, che la scienza delle costruzioni abbia elaborato ormai criteri
sufficientemente omogenei che qui sinteticamente possono essere riportati. A) Altezza delle fronti. È l’altezza di
ogni parte di prospetto in cui può essere scomposto l’edificio, misurata dalla linea di terra alla linea di copertura
computando i corpi arretrati qualora non compresi. La linea di copertura è definita, nel caso di copertura piana,
dall’intersezione del prospetto con il piano corrispondente all’estradosso del solaio di copertura; B) Altezza
massima degli edifici. È la massima tra le altezze delle diverse parti di prospetto in cui può essere scomposto
l’edificio, misurata come in precedenza; D) Distacco tra gli edifici. È la distanza (minima) tra le pareti antistanti
gli edifici o corpi di fabbrica degli stessi; E) Distacco dai confini. È la distanza tra la proiezione verticale della
parete dell’edificio e la linea di confine, misurata dal punto di massima sporgenza; E) Distanza dalle strade. È la
distanza tra la proiezione verticale della parete dell’edificio ed il ciglio della sede stradale, comprensiva di
marciapiede e delle aree pubbliche di parcheggio. Le norme tecniche elaborate negli strumenti urbanistici
mutuano poi dalle discipline ingegneristiche ed architettoniche tutta una serie di altri indici, di carattere
essenzialmente immobiliare, quali il numero dei piani, il piano sottotetto, il piano interrato e/o seminterrato, la
superficie utile abitabile o utilizzabile, la superficie complessiva; gli spazi interni degli edifici con indicazioni
non sempre univoche che danno spesso luogo a difficili interpretazioni applicative.
31
Tutta questa normativa ha, in fatto ed in diritto, sempre più svilito i contenuti della
disciplina edilizia, sbilanciandola e ponendola progressivamente in una posizione strumentale
ed ancillare alla disciplina urbanistica66. La riprova di questo processo evolutivo è data dal
fatto che sempre più spesso, nella prassi, molte delle richiamate disposizioni sono state
inserite nelle norme di attuazione del piano regolatore, venendo a svuotare in questo modo la
portata dell’art. 33 della legge n. 1150 del 194267 e, così, svilendo la funzione del
regolamento edilizio in funzione urbanistica68.
Ad un più attento esame della normativa emergono, tuttavia, altri profili di
problematicità rispetto alla nozione tradizionale di “edilizia”. Il primo inerisce a quelle attività
che sono assoggettate alla disciplina urbanistica generale, ma non si traducono in interventi
edificatori veri e propri, è questo il caso dei controversi mutamenti di destinazione d’uso 69, in
quanto queste attività sono direttamente inerenti all’”uso del territorio”. Il secondo profilo
inerisce a quei poteri dell’Amministrazione destinati ad incidere sui singoli interventi
edificatori, che traggono, tuttavia, fonte genetica da leggi speciali di settore, quali i poteri
disciplinati dalla normativa sanitaria nazionale o locale in tema di igiene nell’attività
66
Esattamente già ROHERSEN, Edilizia, cit., 312 diceva nel 1965 che “oggi la disciplina del costruire fa parte
integrale della disciplina urbanistica; presenta qualche tratto particolare l’edilizia nelle zone paesistiche e in
quelle sismiche…ma la materia viene trattata sotto le voci Piano regolatore e Urbanistica e Sanità pubblica”.
67
La stessa giurisprudenza mentre in un primo momento aveva sostenuto la natura giuridica differenziata delle
norme di attuazione del P.R.G. da quella dei regolamenti edilizi (cfr. Cass. 8 luglio 1974 n. 2150, in Giust. Civ.
Mass., 1974, 982) successivamente la giurisprudenza amministrativa ne ha riconosciuto la sostanziale
assimilabilità (cfr. già TAR Sardegna 11 febbraio 1976 n. 43, in TAR, 1976, I, 1646 con riserva di dati più
recenti). In dottrina era rimasta isolata l’opinione di chi (A. F AVETTO, Piano regolatore particolareggiato, in
Novissimo Dig.it., Torino, 1966, vol. XIII, 34 ss) aveva contestato che le norme di attuazione potessero, in base
alla loro affinità di natura e di contenuto, essere assimilabili a quelle dei regolamenti edilizi. Per l’affermativa v.
già A. PREDIERI, Profili costituzionali, natura ed effetti dei piani urbanistici nelle opinioni della dottrina e
nelle decisioni giurisprudenziali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1961, 260 ss ; da ultimo URBANI - CIVITARESE
MATTEUCCI, Diritto urbanistico, cit., 187 ss.
68
Per la tesi secondo cui i regolamenti edilizi comunali costituiscono strumenti urbanistici, concorrendo ad
adeguare la normativa statale alle caratteristiche specifiche del territorio ed i suoi valori culturali ed ambientali
fino ad imporre vincoli di inedificabilità non derogabili per meglio tutelare i predetti valori v. Cass. 22 giugno
1987, in Riv. pen., 1988, 1012 ss.
69
Sulla delicata questione dei mutamenti di destinazione d’uso, con o senza opere edilizie, e sui relativi contrasti
giurisprudenziali tra Cassazione penale e Consiglio di Stato non può che rinviarsi ad una fitta letteratura, tra i
molti, già M. CICALA, Il mutamento della destinazione d’uso di un vano di fronte alla legge urbanistica, in Giur.
it., 1977, II, 477 ss; F. PAGANO, Obbligo della concessione per i mutamenti di destinazione d’uso degli edifici, in
Riv. giur. ed., 1979, 221 ss; A. CUTRERA, Concessione edilizia e pianificazione urbanistica, cit., 95 ss; A.
GAMBARO - P. SCHLESINGER, Mutamento di destinazione ed obbligo della concessione edilizia, in Riv. giur. ed.,
1977, II, 223 ss; G: T ORREGROSSA, Sanzioni urbanistiche e mutamenti della destinazione d’uso nella recente
legislazione, in Riv. giur. ed., 1982, II, 66 ss; S. AMOROSINO, Spunti in tema di disciplina giuridico-urbanistica
delle modificazioni di destinazione d’uso degli immobili, in Riv. amm., 1983, 118 ss per indicazioni dei contrasti
giurisprudenziali v. A. PREDIERI (a cura di), Abusivismo edilizio: condono e nuove sanzioni, Roma, 1985, 339 ss;
per un’ampia rassegna di dottrina e giurisprudenza G. MORBIDELLI, Sulla disciplina urbanistico-edilizia della
destinazione ‘uso degli immobili, in Riv. giur. ed., 1982, II, 1 ss; più recentemente G. G RECO, Uso e destinazione
d’uso, tra precetti conformativi della proprietà e jus utendi, in Riv. giur. urb., 1999, 115 nonché RAGO, Il
mutamento di destinazione di uso degli immobili, Milano, 2000.
32
edificatoria, nonché in tema di abitabilità o agibilità di locali e di edifici e di insediamento di
lavorazioni insalubri, ovvero sulla prevenzione di calamità o di infortuni (quali ad esempio il
nulla-osta per la prevenzione degli incendi) in relazione alle condizioni di utilizzo di edifici e
locali70. Anche queste situazioni ineriscono indirettamente agli aspetti dell’uso del territorio
ed hanno contribuito al depotenziamento del regolamento edilizio (v. infra).
4. La regolazione edilizia tra legislazione statale e regionale
Come già si è visto, la disciplina edilizia è stata tradizionalmente considerata quale
espressione della più generale potestà di autonomia normativa comunale (ribadita anche dal
T.U. n. 367/2000)71. La dottrina ha poi già avuto occasione di evidenziare che l’indicazione
contenutistica del citato art. 33 della legge n. 1150 del 1942 non sia da intendere in termini
tassativi, ben potendo i Comuni inserire nei rispettivi regolamenti disposizioni diverse,
sempre che le stesse non contrastino con altre fonti della disciplina urbanistica ed edilizia
vigente e siano pur sempre destinate ad operare nel settore edilizio72.
Gli spazi di autonomia determinativa nella disciplina edilizia si sono tuttavia venuti
sempre più assottigliando per effetto di pesanti interferenze normative a livello statale che
hanno finito per condizionare la potestà regolamentare dei Comuni. Un primo significativo
condizionamento è certamente stata la già ricordata introduzione degli standard c.d. speciali
introdotti dall’art. 17 della legge ponte 765 del 1967 diretti ai comuni per “guidare”,
attraverso la disciplina edilizia, le operazioni di pianificazione urbanistica e codificati nel già
citato D.M. n 1444 del 1968. Ulteriori condizionamenti sono poi intervenuti con il D.M. 5
luglio 1975 con il quale sono state stabilite le norme igieniche di particolare interesse edilizio.
In questo processo di progressiva erosione, momenti particolarmente significativi a
dimostrazione del fatto che larga parte della disciplina edilizia è definita da norme statali sono
70
Per le varie fattispecie v. puntualmente A. P UBUSA, Suolo ed abitato (igiene del), in Enc. dir., Milano, 1990,
vol. XLIII, 1444 ss; nonché F. FONDERICO, L’igiene pubblica, in Trattato di Diritto Amministrativo a cura di S.
CASSESE, Diritto amministrativo speciale, Tomo. I, Milano, 2000, 471 ss.
71
Sul punto v. DE CESARE, Note storiche sui regolamenti edilizi, cit., 129 ss; MAZZAROLLI, Regolamento
edilizio, cit., 261 ss; CAPONI - GRACILLI, Il regolamento edilizio comunale: problemi e prospettive, cit., 147 ss;
ASSINI - MANTINI, Il regolamento edilizio comunale, cit.; nonché ASSINI, Pianificazione urbanistica e governo
del territorio, Padova, 2000, 135.
72
In tal senso v. già V. POGGI, Legge urbanistica e legge ponte, Firenze, 1971, 198 quindi ASSINI - MANTINI,
Manuale di diritto urbanistico, 463 ss; MAZZAROLLI, Regolamento edilizio, op. cit.; in giurisprudenza, ancorchè
datata e superata dall’art. 10 della legge-ponte, v. Cass, Sez. III, 28 novembre 1966, in Giust. pen., 1967, II, 643.
33
certamente rappresentati dalla legge 5 agosto 1978 n. 457 (Norme per l’edilizia residenziale)
e dalla successiva legge 25 marzo 1982 n. 94 (recante ulteriori Norme per l’edilizia
residenziale).
Queste due leggi, come noto, sono venute introducendo, da un lato, norme
direttamente disciplinanti gli aspetti sostanziali e procedurali relativi alle domande di
concessione ed autorizzazione edilizia, dall’altro, codificando definizioni di interventi edilizi
(quali quelli individuati dall’art. 31 della L. 457/1978 relativi alla manutenzione ordinaria e
straordinaria, il restauro ed il risanamento conservativo, la ristrutturazione edilizia e quella
urbanistica) con espressa prevalenza sulle disposizioni degli strumenti urbanistici
e dei
73
regolamenti edilizi . Di queste, solo alcune possono essere ritenute norme di principio in
senso proprio (quali quelle sui caratteri sostanziali delle concessioni e delle autorizzazioni
edilizie, nonché i profili “riservati” di natura tributaria contributiva), mentre, per altre, sono
stati sollevati dubbi sia sull’opportunità che sulla legittimità sul piano costituzionale delle loro
statuizioni, per contrasto con l’art. 128 Cost. (oggi nella formulazione del 5° comma del
novellato art. 117 Cost.), in tema di autonomia normativa dei Comunale74. Non meno rilevanti
le disposizioni dell’art. 43 della citata L. 457/1978, nell’attribuire alle Regioni il compito di
emanare, in base ai criteri e alle procedure indicate dal Comitato per l’edilizia residenziale, le
norme tecniche regionali per la progettazione, l’esecuzione e il collaudo delle costruzioni.
L’indirizzo legislativo non ha tuttavia subito alterazioni nei successivi interventi
normativi, ove il legislatore statale ha invitato le Regioni a svolgere un ruolo più incisivo e
penetrante nella disciplina edilizia comunale. Infatti, con l’art. 25 della legge 28 febbraio
1985 n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni,
recupero e sanatoria delle opere edilizie) si è stabilito che le regioni dovranno “definire
criteri ed indirizzi per garantire l’unificazione ed il coordinamento dei contenuti dei
regolamenti edilizi”.
Va peraltro segnalato che, già prima della legge n. 47/85, parecchie regioni avevano
provveduto autonomamente a disciplinare la materia edilizia, senza peraltro staccarsi
significativamente dalla normativa statale dianzi richiamata, mantenendo, in particolare, la
73
Su queste due normative v. l’ampia esegesi di A. PREDIERI - M.P. CHITI, Casa e urbanistica nella legge 25
marzo 1982 n. 94, Milano, 1982, 30 ss; L. ACQUARONE, L’edilizia residenziale: i rapporti tra la legge 5 agosto
1978 n. 457 e la legge 25 marzo 1982 n. 94, in AA. VV., Innovazioni urbanistiche nell’ultima legge Nicolazzi,
(Atti Convegno Perugia 21-22.V.1982), Roma, 1982, 65 ss.
74
Sul punto cfr. ASSINI - MANTINI, Diritto urbanistico, cit., 474; nonché V. I TALIA, Problemi delle fonti del
diritto e sulla potestà normativa dei comuni in materia di urbanistica e di edilizia, op. e loc. cit.
34
configurazione del regolamento edilizio come strumento di “disciplina dell’attività edilizia” e
come atto a “contenuto organizzatorio”, confermandone i contenuti tradizionali nel controllo
preventivo dell’attività edilizia (attraverso i provvedimenti abilitativi per i singoli interventi:
concessioni, autorizzazioni, dia ecc.), nella disciplina degli oneri e dei contributi di
concessione e di urbanizzazione, nella repressione amministrativa degli abusi edilizi; nonché
nei poteri previsti dalle legislazioni speciali per particolari tipologie di intervento (si pensi alla
legislazione in tema di edilizia antisismica75, alla disciplina sull’utilizzo dei cementi armati,
ecc.) tramite esplicite norme tecniche.
Attualmente la regolamentazione edilizia, in quanto fortemente indirizzata ad
occuparsi di settori specifici dell’attività costruttiva, quali le disposizioni in materia di
impianti tecnologici di riscaldamento e impianti energetici ed elettrici, di caratteristiche di
superficie e di aereazione delle unità abitative, si presenta sempre più intrisa di normativa
tecnica dettata da esigenze di standard di sicurezza e idoneità abitativa76. Tali esigenze hanno
pesantemente condizionato i contenuti della disciplina edilizia da parte dei Comuni onde
assicurare anche i c.d. livelli essenziali delle prestazioni con valenze omogenee su tutto il
territorio nazionale77.
In relazione agli intenti di “unificazione” sollecitati dal legislatore statale, la dottrina
più attenta ha peraltro giustamente, sollevato nuove perplessità, sia in riferimento alla
restrizione dell’autonomia normativa comunale, sia in relazione alla dubbia opportunità di
unificazione delle fonti regolamentari in materia78. Sulla base di tale disposizione, va detto
75
Sull’edilizia speciale nelle zone sismiche v. già G. ROEHRSEN, Zona sismica, in Novisimo Dig. It., Torino,
1975, vol. XX, 1141 ss; M. CICALA, Prime note sulla legge 2 febbraio 1974 n. 64, in Riv. giur. ed., 1975, II, 61
ss; M. SPASIANO, Alcune osservazioni in tema di attività edilizia nelle zone soggette a rischio sismico, in Cons.
Stato, 1985, II, 133 ss; S. M ILLOTTI, In tema di costruzioni in zone sismiche, in Giur. merito, 1987, 1022 ss.
76
Con conseguenti controlli di carattere tecnico edilizio sull’agibilità dei locali. Sulla rilevanza di tali valutazioni
tecniche ai fini di sicurezza abitativa: già S. ARMANNO, La licenza di abitabilità tra controlli sanitari e controlli
urbanistici, in Il privato e l’espropriazione, a cura di ALPA - BESSONE, Milano, 1981 III, 324 ss; ASSINI MARINARI, La licenza di abitabilità e l’ispezione tecnica della costruzione, in Foro amm., 1980, I, 1166: S.
CAMPANA - E. CASTELLANI, Abitabilità e agibilità delle costruzioni nell’ordinamento vigente, Rimini, 1988;
dopo il D.P.R. 22.IV.1994 n. 425: F. GUALANDI, La disciplina del certificato di agibilità: nuove problematiche
alla luce del D.P.R. 22 aprile 1994 n. 425, in Riv. giur. ed., 1995, II, 53 ss; da ultimo A. M ASSONE, Agibilità
(certificato di), in Dig. (Disc. pubbl.) Aggiorn., Torino, 2008, I, 7 ss.
77
In tal senso C. BELLOLI, Il regolamento edilizio comunale, Milano, 1998, 19 ss; nonché AMISANO, Commento
art. 4, cit., 208; sui livelli minimi o essenziali su una data prestazione v. M. B ELLETTI, I livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali alla prova della giurisprudenza costituzionale. Alla ricerca del
parametro plausibile, in Istituz del fed., 2003, 613 ss; C. PINELLI, Sui livelli essenziali delle prestazioni
concernenti diritti civili e sociali (art. 117, co. 2 lett. m)Cost., in Dir. pubbl., 2002, 881; V. MOLASCHI, “Livelli
essenziali delle prestazioni” e Corte costituzionale: prime osservazioni,(nota a Corte cost. 26 giugno 2002 n.
282), in Foro it., 2003, I, 398.
78
ASSINI, Pianificazione urbanistica e governo del territorio, cit., 137; nonché ASSINI - MANTINI, Diritto
urbanistico, cit., 474..
35
che alcune regioni hanno già da tempo provveduto all’emanazione di regolamenti edilizi tipo,
cercando di dare contenuti uniformi alla materia edilizia79. In questo contesto, che vede
l’edilizia sempre più accorpata ed asservita all’urbanistica e con sempre minori spazi di
autoregolamentazione, stretta tra leggi statali e norme regionali, si è venuto a collocare il
successivo e più recente T.U. in materia “edilizia” dei cui contenuto già si fatto riferimento.
Tale indirizzo, anche in coerenza con il principio di leale collaborazione tra livelli di
governo, è stato ripreso con l’introduzione dell’art. 1 sexies del T.U.E. che ha auspicato la
conclusione di accordi, a sensi dell’art. 9 del d. lgs 28 agosto 1997 n. 281, o di intese, a sensi
dell’art. 8 della L. 5 giugno 2003 n. 131, per l’adozione di un Regolamento edilizio-tipo con
finalità di semplificazione ed omogeneità. L’orientamento è stato recentemente ribadito dal d.
l. n. 133 del 2014 (c.d. Sblocca Italia convertito in L. n. 164 del 2014) con l’introduzione di
un Regolamento edilizio unico orientato ad assicurare esigenze di sicurezza e di risparmio
energetico degli edifici (di cui il Regolamento quadro deve indicare i requisiti prestazionali
delle infrastrutture sia pubbliche che private).
5. Il progressivo depotenziamento delle norme regolamentari e la sovrapposizione
delle norme tecniche
Dall’analisi dianzi effettuata emerge che il modello originario, concepito dal
legislatore del 1942, aveva previsto che il regolamento edilizio provvedesse alla disciplina dei
profili tecnico-edilizi, in un’ottica principalmente giuridico-amministrativa, mentre le norme
del piano regolatore, di natura prettamente tecnica, avrebbero dovuto svolgere una funzione
strumentale e servente ai metodi ed agli obiettivi della pianificazione urbanistica.
Va, tuttavia, evidenziato come la crescente rilevanza della normativa statale (e
regionale) hanno comportato un’indubbia regressione dell’ambito oggettivo di valenza dei
regolamenti edilizi in diretta conseguenza degli ultimi interventi normativi con conseguente
depotenziamento del ruolo e dei contenuti dei regolamenti stessi. L’espansione e la
sovrapposizione di normativa di origine statale e regionale ha, nuovamente, generato
79
V. ad es. il d.p.g.r della Regione Marche 14 settembre 1989 n. 23; la L.R. Emilia Romagna 26 aprile 1990 n.
33; Delibera Cons. reg. Piemonte n. 548 del 29 luglio 1999 e più recentemente il Regolamento tipo previsto dalla
L.R. Emilia Romagna 14 marzo 2000 n. 20 e s.m.i e quello previsto dalla L.R. Calabria 16 aprile 2002 n. 19.
36
problemi di gerarchia delle fonti80. La giurisprudenza ha, infatti, avuto occasione di
evidenziare che “…le norme di conformità prevalgono sul regolamento edilizio comunale”, in
quanto “alle norme urbanistiche generali del P.R.G. deve attribuirsi valenza di norme
regionali sostanzialmente partecipi della stessa natura del regolamento edilizio”81, ribadendo,
in tal modo, una sorta di valenza recessiva dei regolamenti edilizi.
In secondo luogo, si è verificata, sempre più spesso, la concorrenza o meglio la
sovrapposizione ai regolamenti edilizi delle norme tecniche di attuazione inserite nei piani.
Nel corso del tempo, infatti, l’importanza e la valenza del regolamento edilizio è stato
fortemente ridimensionata ed i suoi contenuti progressivamente erosi ed assorbiti all’interno
delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore, nonostante le esperienze regionali dei
regolamenti edilizi tipo a cui si è accennato.
Queste ultime, pur contenendo, come si è detto, obiettivi di valenza urbanistica hanno
introdotto parametri “tecnici” connessi alle previsioni del piano, ed hanno, di fatto, svuotato il
regolamento edilizio di gran parte del suo contenuto archetipo. Sebbene la giurisprudenza
tenda ad equiparare regolamento edilizio e norme tecniche di attuazione (N.T.A.),
considerandole entrambe norme regolamentari di pari grado82, va precisato che, mentre il
regolamento conserva l’originario taglio giuridico-amministrativo, le seconde sono chiamate a
svolgere una funzione più schiettamente strumentale esecutiva rispetto ai contenuti del piano,
avendo appunto una vocazione prevalentemente tecnica83 (v. infra).
Com’è stato esattamente avvertito la differenza teorica tra regolamento edilizio e
norme tecniche di attuazione ha perso di significato e si è assistito, con intensità crescente, al
fenomeno dell’espansione delle seconde a discapito del primo84. Attualmente, in concreto,
sono proprio le norme di attuazione del piano che regolano e dettano direttamente le
80
Tale sovrapposizione era già stata acutamente percepita da attenta dottrina (M AZZAROLLI, Regolamento
edilizio, cit., 266), che alludeva alla necessità di una integrazione tra le norme di piano da una parte e le
indicazioni di piano o di programma relative alla zonizzazione dall’altra parte.
81
Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 1333 del 2012; in dottrina v. C. B ELLOLI, Il regolamento edilizio comunale, cit.,
20 ss; MENGOLI, Manuale di dir. urb., cit., 686.
82
Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 febbraio 1994 n. 104, in Foro amm., 1994, 433; Id., Sez. IV, 12 luglio 2002 n.
3929, in Riv. giur. ed., 2002, 503. Va tuttavia avvertito che tale pretesa equipollenza è, invece, smentita dal fatto
che mentre le norme di attuazione del piano regolatore sono soggette alle osservazioni da parte dei soggetti
privati, quelle del Regolamento edilizio non lo sono.
83
V. in tal senso esattamente P. AMISANO, Commento art. 4, in R. FERRARA - G. F. FERRARI, Commentario
breve alle leggi in materia di urbanistica ed edilizia, Padova, 2015, 208.
84
Così esattamente T. BONETTI, Dal regolamento edilizio al regolamento urbanistico ed edilizio, in Riv. giur.
urb., 2006, 75 ss; ID., La disciplina dell’attività edilizia, in Diritto del governo del territorio, a cura di M. A.
CABIDDU, Torino, 2010, 359 ss.
37
prescrizioni concernenti sia i parametri urbanistici che le definizioni edilizie, quali le distanze,
le altezze, gli indici volumetrici (v. infra).
Tale integrazione ha, peraltro, ricevuto un sostanziale avallo da parte della
giurisprudenza, la quale tende ormai a qualificare negli stessi termini norme di attuazione del
piano e disposizioni del regolamento edilizio e, dunque, a considerarle unitariamente: le
norme tecniche di attuazione, infatti, sono considerate vere e proprie norme regolamentari e,
pertanto, vengono assoggettate al medesimo regime giuridico85.
Tale processo evolutivo sui contenuti recessivi della disciplina edilizia è stata anche
recentemente avvertito dalla giurisprudenza amministrativa che non ha potuto non prendere
atto di un proporzionale ampliamento della potestà pianificatoria generale, valorizzata
soprattutto tramite le norme tecniche di attuazione dei piani regolatori, a scapito dei
regolamenti edilizi86.
Del resto questa linea di tendenza sembra emergere nelle intenzioni dello stesso
legislatore del T.U.E. tramite la differenziazione contenutistica. Il Regolamento edilizio è
chiamato ad occuparsi, in senso stretto, degli aspetti tecnico edilizi e non dei parametri
costruttivi oggetto delle norme di attuazione del piano regolatore volte a dettare le prescrizioni
concernenti direttamente i parametri e le definizioni edilizie (quali distanze, altezze, indici
ecc. su cui v. infra). In altri termini, il Regolamento edilizio sarebbe finalizzato a dettare mere
prescrizioni a fini igienico-sanitari, di pubblica utilità, di decoro ed estetica dei fabbricati.
6. Rilevanza e contenuti della normativa tecnica nella disciplina edilizia
Se si considera che nel linguaggio comune il termine “norma”, anche nel suo
significato etimologico (dal latino norma ), è riconducibile ad uno strumento adoperato per
tracciare misure o rapporti di linee e di angoli, è facile comprendere come, in senso traslato, la
85
Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 febbraio 1994 n. 104 citata. Nella quale si afferma che “ i regolamenti edilizi,
sono subordinati, al pari delle prescrizioni generali ed astratte dei piani regolatori generali e delle relative norme
tecniche, solamente alle norme di rango primario in esecuzione delle quali sono stati emanati”.
86
Tra le molte Cons. Stato, Sez. IV, n. 2427 del 2013 e n. 3606 del 2013; in dottrina ci si è spinta ad affermare
che il regolamento edilizio appare sempre più uno strumento sostanzialmente “tollerato” nell’attuale panorama
degli istituti del diritto del governo del territorio (così emblematicamente B ONETTI, La disciplina dell’attività
edilizia, cit., 358).
38
norma giuridica comporti una regola di condotta che ha funzione di disciplinare l’attività
pratica dell’uomo imponendo doveri di comportamento con varietà di significati87.
Costituisce conseguentemente un dato acquisito che norma o regola di condotta è pure
la c.d. “norma tecnica”, traduzione della corrispondente legge naturale in termini prescrittivi.
Il progresso delle scienze e delle tecnologie e l’estensione del campo di azione del diritto
pubblico e, segnatamente del diritto amministrativo, hanno, da tempo, riconosciuto che il
legislatore non possa essere “competente su tutto e onnisciente”. L’affermarsi di un pubblico
interesse, sotto vari profili sia di carattere igienico-sanitario, sia di carattere ambientale, sia di
carattere fisico-biologico-naturalistico-geologico, hanno progressivamente sempre più reso
indispensabili scelte e valutazioni di natura tecnico-scientifica e comunque specialistica, onde
poter assumere idonee norme prescrittive di natura e valenza giuridica. Tale circostanza
deriva direttamente dalla natura stessa della normativa tecnica, la quale non può che
discendere direttamente dalle cognizioni proprie di una scienza specialistica, diversa e distinta
da quella propriamente giuridica, come anche riconosciuto dalla citata dottrina e
giurisprudenza (v. supra sub. 1).
La materia, o meglio il settore dell’edilizia, costituisce un esempio assai significativo
dell’evidenziata esigenza di fare ricorso a specifici saperi derivanti da corpi o organismi
tecnici per meglio definire regole e norme di comportamento adeguate. E’ stato
opportunamente rilevato che “il costruire a regola d’arte”, per secoli, nel settore delle
costruzioni, ha rappresentato l’insieme delle norme tecniche non scritte che disciplinano il
modo di edificare88.
A seguito delle innovazioni delle tecniche esecutive e della conseguente perdita di
specificità professionale delle maestranze, è sorta la necessità, allo scopo di tutelare l’utenza e
la committenza della produzione e della sicurezza del bene edilizio, di elaborare norme
87
Sulla genesi della norma giuridica da fatti in funzione di disciplina dei comportamenti la dottrina è, da tempo,
assolutamente pacifica. Tra i molti: già C. ESPOSITO, Norma giuridica, in Nuovo Dig. It., 1937, VII; A. DE
VALLES, La norma giuridica, in Scritti per la CEDAM, Padova, 1952, II; N. BOBBIO, Teoria della norma
giuridica, Torino, 1958, 20 ss; V. CRISAFULLI, Atto normativo, in Enc. dir., Milano, 1960, IV, 251 ss; ID.,
Disposizioni e norme, ivi, 1964; F. MODUGNO, Norma giuridica( Teoria generale),in Enc. dir., Milano, 1978,
XVIII, 328 ss; A. CATAGNA, Decisione e norma, Napoli, 1979, 30 s; da ultimo G. U. RESCIGNO, Norma
giuridica (Dir. cost.), in Il Diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, Milano, 2007, X, 19 ss.
88
Fin dall’ottocento sono state pubblicati studi, di contenuto normativo, per disciplinare gli interventi edilizi e
costruttivi, sarà sufficiente citare la prima edizione italiana della nota opera del francese F REMY LIGNEVILLE,
Codice degli architetti e dei costruttori, Napoli, 1838 che già conteneva numerose statuizioni di carattere
tecnico. Anche recentemente la Commissione edilizia dell’UNI (Ente Nazionale Italiano di Unificazione) in una
propria disposizione (UNI 7867) ha definito il processo edilizio come “sequenza di fasi operative che portano dal
rilevamento di esigenze al soddisfacimento in termini di produzione edilizia tramite regole tecniche”.
39
tecniche scritte89. Tali norme trovano la loro genesi in diverse fonti: a) fonti di rango primario
in legge e decreti ministeriali (come già dianzi evidenziato); b) fonti di rango secondario
contenute nei vari strumenti urbanistici che hanno diffusamente individuato sia parametri
urbanistici che edilizi.
Circa il valore giuridico delle norme tecniche, nel sistema delle fonti giuridiche, il
Consiglio di Stato fin dal 1975 ha avuto modo di precisare che le norme stabilite con decreti
ministeriali prevalgono comunque sulle norme prodotte dai corpi tecnici ove vi sia contrasto.
Del resto, proprio la diversità di natura e di origine della normativa tecnica configurano tali
norme come strumentali ed accessorie, ad integrazione della disciplina generale per soddisfare
esigenze e situazioni specifiche (v. infra).
Il quadro complessivo della normativa a valenza tecnica nel “governo del territorio”,
presente, in termini oggi consolidati, negli strumenti urbanistici comunali, è assai vasta e
comprende sia parametri urbanistici che parametri edilizi.
Parametri urbanistici di utilizzazione del suolo.
Lo scopo principale di una normativa edilizia ed urbanistica è quello di regolare
densità di edificazione in una determinata zona, essenzialmente per due ordini di motivi:
quello architettonico, a cui corrisponde la necessità di controllare l’omogeneità delle
dimensioni delle singole costruzioni per una determinata zona, stabilendo parametri di vario
genere, e quello urbanistico al fine di controllare il c.d. “carico urbanistico”, onde offrire
all’insediamento che si intende creare attraverso le nuove costruzioni, un’adeguata risposta in
termini di aree e servizi pubblici. Si definiscono comunemente “parametri urbanistici” tutti
quelle norme (appunto tecniche) finalizzate a misurare il c.d. “carico urbanistico” sulle
diverse aree di piano, ossia gli abitanti e le attività terziarie, insediate e/o insediabili, che
determinano i relativi fabbisogni di opere di urbanizzazione e di servizi pubblici90.
89
In tal senso già N. ASSINI - M. DI SIVO, Edilizia residenziale. Leggi e “norme tecniche”, Firenze, 1988, X.
Sulla normativa tecnica in materia edilizia prima del nuovo T.U.E. v. utilmente P. D ELL’ANNO, Normativa
tecnica, in P. FALCONE - E. MELE, Urbanistica e appalti nella giurisprudenza,Torino, 2000, 635 ss. Onde
assicurare tale complesso di discipline si è venuta, da tempo, affermando la c.d. scienza delle costruzioni al cui
interno sono diffusamente presenti regole di esperienza tecnica, su cui per alcuni riferimenti datati: C. G UIDI,
Lezioni sulla scienza delle costruzioni, Torino, 1919; N. GRECO, Lezioni di scienza delle costruzioni, Palermo,
1921; MULLER - BRESLAU, La scienza delle costruzioni, Milano, 1927; più recentemente L. G AMBAROTTA - L.
NUNZIANTE, Scienza delle costruzioni, Milano, 2011; A. CARPINTERI, Scienza delle costruzioni, Torino, 2012.
90
Come noto il concetto di “carico urbanistico” è l’effetto che viene prodotto dall’insediamento primario come
domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero degli abitanti insediati su un determinato
territorio. Cfr. per tutti: MENGOLI, Manuale di diritto urbanistico, cit., 51. La giurisprudenza ha evidenziato che
“…la nozione di “carico urbanistico” deriva dall’osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un
elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario (opere pubbliche in genere, uffici
pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve
40
L’indice di utilizzazione edilizia è stato, originariamente determinato con sostanziale
riferimento all’edilizia residenziale e pertanto al volume edificato91. Questo criterio è stato
affinato con il prevalere dell’elemento del carico urbanistico e di ciò che lo produce, ossia la
superficie netta di calpestio, da cui discende, il numero degli abitanti insediabili,
indipendentemente dall’altezza interna o esterna degli edifici92. Le densità d’uso del suolo
debbono essere regolate con valori massimi da non superare (c.d. valori standard); tuttavia, al
fine di un più razionale utilizzo delle previsioni insediative i piani sono chiamati a stabilire
anche delle soglie minime.
I parametri urbanistici sono essenzialmente quelli che consentono di stabilire
l’edificabilità di ciascuna area di piano, espressa in termini di superficie lorda di pavimento
e/o di volume, nonché di superficie coperta93.
essere proporzionato all’insediamento primario, ossia al numero di abitanti insediati ed alle caratteristiche
dell’attività da costoro svolte. Quindi, il carico urbanistico è l’effetto che viene prodotto dall’insediamento
primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero di persone insediate su un
determinato territorio”: Cass. Pen. Sez. III, 12 marzo 2013 n. 11544, in www.dirittoambiente.net.
91
Poiché l’altezza dei piani, al lordo dello spessore dei solai, è normalmente di tre metri, ne risultava, oltre che la
definizione delle dimensioni esterne, anche la definizione del numero dei piani e della superficie utile dei
fabbricati e quindi la definizione del numero di abitanti insediabili. Sul punto M ENGOLI, Manuale di dir. urb.,
cit., 174.
92
Il riferimento è tanto più vero nel caso di insediamenti produttivi e commerciali, nei quali i volumi interni od
esterni sono variabili in dipendenza delle altezze interne richieste dalle esigenze di lavorazione, comunque
sempre maggiori di quelle usualmente risultanti negli edifici residenziali, atteso che gli edifici produttivi o
commerciali vengono realizzati usualmente con un solo piano di calpestio, anche di altezza interna talora
consistente.
93
Gli indici e i parametri urbanistici, quali norme tecniche, sono stati introdotti per la determinazione del
contributo di concessione (per il parametro della superficie dagli artt. 2 e segg. Del D.M. dei lavori pubblici del
10 maggio 1977 seppure ai soli fini della determinazione del costo di costruzione di nuovi edifici) ma hanno
avuto diffusa applicazione in tutti gli strumenti urbanistici. In forza di tale diffusione sono ormai comunemente
condivisi: A) Superficie territoriale (ST) è data dalla somma delle superfici fondiarie e delle superfici delle aree
destinate dallo strumento urbanistico alla viabilità, pedonale e veicolare ed ad impianti e servizi pubblici. B)
Superficie fondiaria (SF). E’ la superficie di pertinenza delle costruzioni, misurata al netto, delle aree destinate
dallo strumento urbanistico alla viabilità, pedonale e veicolare e di quelle destinate a impianti e servizi pubblici;
C) Superficie utile lorda (SUL). E’ la somma delle superfici lorde di ciascun piano dell’edificio, compreso entro
il perimetro esterno delle murature, includendo bow window, scale e ballatoi di accesso, vani ascensori, cavedi
per impianti tecnici, nonché il sottotetto qualora abitabile; D) Indice di utilizzazione fondiaria (UF). Esprime la
superficie utile lorda edificabile per ogni mq di superficie fondiaria (mc/mq). E’ il rapporto tra la superficie utile
lorda (SUL) e la superficie fondiaria (SF); E) Indice di densità territoriale (IT). Esprime il volume edificabile
per ogni mq. di superficie territoriale (mc/mq); F) Indice di densità edilizia fondiaria (IF). Esprime il volume
edificabile per ogni mq. di superficie fondiaria (mc/mq). E’ il rapporto tra il volume (V) e la superficie fondiaria
(SF). Il volume complessivamente edificabile sulle superfici fondiarie non può comunque essere superiore a
quello che si ottiene applicando l’indice IT alla ST; G) Indice o rapporto di copertura (RC). E’ dato dal rapporto
tra la superficie coperta (SC) e la superficie fondiaria (SF) (mq/mq); I) Superficie coperta (SC). E’ la proiezione
orizzontale delle superfici lorde fuori terra; H) Superficie complessiva (SC) è costituita dalla somma della
superficie utile calpestabile (SC) e dal totale delle superfici non residenziali (SU) destinate a servizi e accessori
(SNR), misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, vani, porte; I) Superficie non residenziale (SNR),
riguarda cantine, soffitte, locali ascensore, cabine idriche, lavatoi comuni, centrali termiche ed altri locali a
stretto servizio delle residenze, nonché autorimesse singole e collettive, androni di ingresso e porticati liberi,
logge e balconi (sono i c.d. volumi tecnici non computabili ai fini della volumetria consentita).
41
Parametri edilizi.
L’importanza dei parametri edilizi, strettamente connessa con l’individuazione dei
parametri urbanistici, è data dalla diffusa e capillare presenza in tutti gli strumenti urbanistici
nei quali l’insediamento delle varie attività antropiche negli spazi di pertinenza deve
rispondere a due fondamentali verifiche: a quale destinazione d’uso siano riservati gli spazi e
quale densità venga consentita degli usi ammessi. Verificata e statuita la compatibilità con le
destinazioni d’uso ammesse, l’insediamento di un’attività deve quindi rispondere agli indici
ed ai parametri che regolano la densità d’uso. E’ appena il caso di evidenziare che occorre
conoscere, in modo adeguato, la natura e le definizioni degli indici e dei parametri, onde
poterne controllare l’applicazione e la valenza giuridica contenuta nelle norme di attuazione
degli strumenti urbanistici.
La densità d’uso può essere regolata con diversi tipi di indici, spesso tra loro
concorrenti, che possono individuare valori massimi da non superare ovvero soglie minime da
superare; negli strumenti urbanistici è, infatti, possibile individuare una grande varietà di tali
indici con diverse possibili combinazioni.
La disciplina dei parametri edilizi (già prevista come si è visto nell’abrogato art. 33
della L. 1150/1942), oggi comunque legittimata nell’ampia previsione del citato art. 4 del
T.U.E., deve prevedere la fissazione degli indici attraverso i quali viene regolata la densità
d’uso delle aree e comprende l’altezza minima e quella massima dei fabbricati secondo le
zone; gli eventuali distacchi dai fabbricati vicini e dal filo stradale; l’ampiezza e la
formazione dei cortili e degli spazi interni, nonché le caratteristiche tipologiche dei vari tipi di
edifici previsti dal piano.
Evidentemente l’altezza e le distanze (i distacchi) risultano essere indici primari e il
volume massimo, proprio in quanto non indicato, viene, in genere, determinato dalla
combinazione dell’altezza e delle distanze, unitamente alle norme delle dimensioni dei cortili.
94
L’importanza di tali indici, come noto, aveva già trovato una disciplina apposita nell’art. 41
quinquies della L. n. 1150/1942 (relativa ai limiti inderogabili di distanza tra fabbricati) e
94
Tali indicizzazioni hanno avuto una precisa origine e funzione nell’ambito della concezione del tessuto
urbano, proprio della città italiana di fine ottocento e primi novecento, con i lotti completamente edificabili, con
la quasi completa prevalenza della corte chiusa, con la sostanziale coincidenza tra superficie coperta e sagoma
massima di ingombro. Su tale situazione v. ampiamente: M. ROMANO, L’urbanistica in Italia nel periodo dello
sviluppo, 1942-1980, Padova, 1980; G. SAMONÀ, L’urbanistica e l’avvenire delle città negli stati europei, Bari,
1967; V. CAMPOS VENUTI, Amministrare l’urbanistica, Torino, 1967; nonché tra gli urbanisti G IEDION, Spazio,
tempo, architettura, Milano, 1967.
42
successivamente fissata quali standard dagli artt. 8 e 9 del citato D.M. 2 aprile 1968 n.
144495.
Nei modelli di pianificazione territoriale più recente, con la rinnovata crescente
influenza delle scuole anglosassone e scandinava, in relazione alla concezione di un lotto
fabbricabile nel quale la superficie coperta massima è minore della sagoma dell’ingombro,
sempre maggiore rilevanza è venuto assumendo l’indice di fabbricabilità strettamente
collegato con il concetto di volume massimo edificabile96. Si sono venuti così definendo, per
la necessità di regolare le densità edilizie sotto vari aspetti, alcuni parametri fondamentali,
ripresi dalle varie normative in materia, dalle leggi regionali e ancor più dagli strumenti
urbanistici comunali. Si tratta, come noto, dell’indice di fabbricabilità territoriale e
dell’indice di fabbricabilità fondiaria (già introdotti dal citato D.M. n. 1444 del 1968).
L’indice di fabbricabilità territoriale (IT) esprime la densità della zona, espressa in
metri cubi per metro quadro di superficie del terreno, o eventualmente in metri quadrati di
superficie edificabile o edificata per metro quadrato di terreno, al lordo degli spazi non
edificabili in quanto destinati ad usi pubblici, al fine di controllare la densità complessiva
degli abitanti insediati o insediabili, entro un determinato perimetro e quindi di poter
prevedere le infrastrutture e gli spazi pubblici necessari. In altri termini, tale indice è il
rapporto tra il volume (V) massimo realizzabile in una determinata zona e la superficie
territoriale (ST) della zona stessa. Tale indice non va confuso con l’indice di utilizzazione
territoriale (UT) che è il rapporto tra la superficie lorda (SUL) massima realizzabile in una
determinata zona e la superficie territoriale (ST) della zona stessa.
L’indice di fabbricabilità fondiaria (IF) è, invece, concetto che riflette finalità più
specificamente di tipo architettonico, in quanto mira a disciplinare la densità di edificazione,
quindi le dimensioni esterne dei fabbricati, nelle sole aree edificabili, senza tenere conto delle
aree destinate a servizi e fini pubblici. In sostanza, è il rapporto tra il volume (V) e la
95
Sulla rilevanza di tali indici: già M. ANNUNZIATA, Sui limiti di rilevanza del d.m. sugli standard
urbanistici.(nota a Cass. Sez. Un. 1 luglio 1997 n. 5889), in Giust. Civ., 1997, I, 2077; M. CERESOLA, Brevi
osservazioni in materia di distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, in Riv. giur. ed., 2002, I,
907; E. BATTELLI, Distanze legali: il regolamento edilizio prevale sulla prevenzione (nota a Cass. Sez. II, 30
dicembre 2004 n. 24178) in Immobili e dir., 2006, 5, 99; C. CALVI, La disciplina delle distanze nelle costruzioni,
tra l’art. 873 c.c. e i regolamenti locali, in Arch. civ., 2004, 755.
96
Anche per la giurisprudenza per indice di fabbricabilità si intende il rapporto (mc/mq) tra il volume
realizzabile e l’area da edificare (indicando quindi il volume massimo consentito in relazione all’effettiva
superficie suscettibile di edificazione), mentre per indice di copertura si intende il rapporto tra la superficie
copribile e la superficie del lotto e cioè la proiezione sul terreno della superficie lorda del piano di maggiore
estensione. TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 9 febbraio 2005 n. 189, in Foro amm. TAR, 2005, 2, 546.
43
superficie fondiaria (SF) da non confondere con l’indice di utilizzazione fondiaria (UF) che è,
invece, il rapporto tra la superficie utile lorda (SUL) e la superficie fondiaria (SF).
E’ appena il caso di evidenziare come tali indici siano venuti assumendo particolare
rilevanza, quali parametri planovolumetrici, da computarsi per il rilascio dei c.d. titoli edilizi
(segnatamente il permesso di costruire)97, infatti, i valori degli indici territoriali e fondiari,
volumetrici e planimetrici, espressi in mc/mq, sono di norma, contenuti negli strumenti
urbanistici generali e, segnatamente, come si è detto, nelle norme tecniche d’attuazione,
ovvero nelle norme urbanistico-edilizie, ove previste dalla legislazione regionale, oltre che
nelle norme esecutive dei piani attuativi particolareggiati ove previsti dalla normativa locale.
I valori parametrici unitari per ciascuna zona e/o sottozona di piano da rispettare, come
si è visto, vanno combinati con quelli relativi alle altezze, ai distacchi fra fabbricati e alle
distanze da osservare dai confini privati e dagli spazi pubblici, con conseguenti vincoli per
l’organizzazione della struttura planovolumetrica con conseguenze progettuali ed attuative
oltremodo diverse.
La valutazione e verifica degli indici di natura territoriale è rimessa alla valutazione
discrezionale del Comune, in sede di pianificazione generale ed attuativa, con computo per le
diverse zone interessate, e comunque tramite l’aggiornamento permanente e progressivo dei
valori di utilizzazione complessiva consentita in relazione alle varie motivate esigenze
territoriali.
Deroghe al computo delle volumetrie sono consentite solo per i c.d. volumi tecnici in
quanto ritenuti non generatori di “carico urbanistico” e la loro realizzazione è generalmente
favorita a fine di migliorare la funzionalità e salubrità delle costruzioni, essendo essi relativi
alla realizzazione di nuovi volumi o superfici dedicati ad impianti di vario genere come quelli
di riscaldamento ed ascensore98.
97
Per la verifica dei presupposti plani volumetrici in sede di rilascio del permesso di costruire: da ultimi R. DE
NICTOLIS - V. POLI, I titoli edilizi nel T.U. e nella legge obiettivo, Milano, 2003, 40 ss; P. STELLA RICHTER, I
titoli abilitativi in edilizia- Collana: Il diritto attuale, Torino, 2003, 180; sui relativi computi: M. ARNOBALDI,
Gli adempimenti del progetto edilizio, in B. Nigro (a cura di), Formulario dell’edilizia, Milano, Il Sole 24 Ore,
2001.
98
In realtà la nozione di volume tecnico non è univoca in quanto le indicazioni presenti nelle norme dei
regolamenti edilizi non risultano precise e univocamente interpretabili nella definizione degli stessi. Secondo
parte della giurisprudenza s’intende per volume tecnico, come introdotto dall’art. 9 lett. e) della L. n. 10/1977
(non abrogato dall’art. 136 del T.U.E.) quello destinato ad ospitare impianti aventi un rapporto di strumentalità
per l’utilizzazione dell’immobile (impianti idrici, termici, per ascensori) e non anche quello destinato o adattabile
ad uso abitativo, svolgente funzioni complementari all’abitazione (quali locali di sgombero, soffitti, stenditoi,
ecc.) (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 31 gennaio 2006 n. 354, in Foro amm. CDS, 2006, I, 189; TAR Campania,
Napoli, Sez. II, 3 febbraio 2006 n. 1506, in Foro amm. TAR., 2006, 2, 674; Id., Napoli, Sez. IV, 22 gennaio 2007
n. 570 con espresso riferimento al carico urbanistico).
44
Com’è dato di constatare il quadro complessivo della normativa tecnica relativa ai
parametri, sia urbanistici che edilizi, si è venuto progressivamente arricchendo e
puntualizzando con diffusa applicazione all’interno degli strumenti urbanistici in relazione
alle diverse esigenze territoriali locali quale espressione del potere discrezionale nelle scelte
pianificatorie anche in relazione ai modelli economico-matematici99.
7. La normativa tecnica relativa alla stabilità e sicurezza degli edifici
Il T.U.E ha inteso affidare ad una specifica parte II la disciplina della “Normativa
tecnica per l’edilizia” al fine di assicurare la stabilità e la sicurezza degli edifici. L’art. 52,
recante “Disposizioni di carattere generale” svolge un ruolo di primo piano nella complessa
organizzazione della regolazione dell’attività edilizia, in quanto pone precetti di carattere
generale, ma rappresenta anche la base giuridica per un’ulteriore attività regolatoria di
dettaglio ed individua nel regolamento ministeriale lo strumento idoneo a porla in essere.
Com’è stato esattamente avvertito, tale disposizione si pone quale punto fondamentale di
snodo della formazione tecnica, sia in quanto dettata dal T.U.E., sia in quanto legata
all’evolversi delle conoscenze dell’ingegneria edile e, di conseguenza, allo sviluppo delle
soluzioni pratiche più idonee in materia di costruzioni
100
. La formazione e la dizione
“Normativa tecnica” non si sostanzia, infatti, nella creazione di regole in grado di assicurare
la perfezione dei manufatti architettonici, quanto piuttosto nella scelta dello standard
tecnologico considerato più adeguato alle costruzioni edilizie in un determinato contesto.
Qui sta proprio il nesso ed il delicato equilibrio connessivo tra norme regolamentari e
norme tecniche. L’opera di regolazione introdotta dal T.U.E. si caratterizza per un duplice
concorso: quello di decisore tecnico che, sulla base dei dettami di una certa scienza
99
Per questi profili delle scelte pianificatorie v. già S ILVA, Elementi di economia urbanistica, Milano, 1964;
ROTHEMBERG, Valutazione economica del rinnovo urbano, Milano, 1975; F. FORTE (a cura di), Progettazione
urbanistica attraverso l’analisi di soglia, Milano, 1980; EVANS, Economia urbana, Bologna, 1988; nonché B.
SECCHI (a cura di), Analisi delle strutture territoriali, Milano, 1965; C. LEER, I modelli di pianificazione,
Padova, 1967. La giurisprudenza ha, da tempo, evidenziato le ragioni dell’autonomia comunale che presiedono
all’emanazione del regolamento, con autonomo potere discrezionale in materia di scelte urbanistiche, con
valutazione, secondo parametri e criteri propri, della realtà sociale del territorio, al fine di un migliore assetto
sotto il profilo della utilizzazione edilizia nonché al fine di migliorare la qualità della vita delle future
generazioni: già Cons. Stato, Sez. IV, 10 febbraio 1998 n. 223, in Urb. e app., 1998, 667; sul potere
discrezionale della pianificazione non limitata ai soli contenuti essenziali ma alla considerazione di differenti
valori tra le molte Cons. Stato, Sez. V, 19 aprile 2005 n. 1782, in Foro amm. CDS, 2005, 4, 1137.
100
Puntualmente E. MOSTACCI, Commento art. 52, in FERRARA - FERRARI, Commentario breve alle leggi in
materia di urbanistica ed edilizia, cit., spec. 414.
45
specialistica, pone in via generale le regole di comportamento relative all’arte edilizia,
necessarie a garantire stabilità e sicurezza. In queste disposizioni, non sussistono spazi di
apprezzamento discrezionale, dovendosi utilizzare criteri oggettivi e congrui derivanti dalle
scienze ingegneristiche (v. peraltro infra). Accanto a tali norme, vi è il concorso del
legislatore, chiamato a stabilire, alla luce dell’interesse pubblico perseguito, quali siano, tra le
possibilità delineate in sede scientifico-tecnologica, gli standard minimi ed uniformi cui i
costruttori debbono uniformarsi nel loro agire.
All’interno del Capo I sono, peraltro, riprese e riunite due diverse normative
precedenti: la legge 5 novembre 1971 n. 1086, recante “Norme per la disciplina delle opere in
conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica” e la legge
2 febbraio 1974 n. 64 in tema di “provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni
per le zone sismiche”101.
Per la formazione di questa particolare tipologia di norme tecniche, volte a tutelare la
sicurezza degli edifici da eventi sismici, è richiesto il procedimento di concerto del Ministero
dell’interno, del parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici e del CNR, nonché quello
della Conferenza unificata (art. 83) per gli effetti territoriali che tali norme rivestono
nell’individuazione delle zone sismiche102.
L’indicazione precettiva dell’applicabilità delle norme, sia nel caso di opere pubbliche,
sia nel caso di costruzioni private, a prescindere dalla posizione giuridica del soggetto
pubblico o privato del committente, è da ricondursi all’esigenza di assicurare un’idonea tutela
101
Va solo evidenziato che la L. n. 64/1974, pur relativa alla costruzione in zone sismiche, ha assunto in pratica
portata generale, stabilendo l’obbligo di realizzare tutte le costruzioni, pubbliche o private, con l’osservanza
delle regole tecniche concernenti i diversi elementi costruttivi. Su tale normativa oltre agli autori già citati: S.
CAMPANA, L’edilizia nelle zone sismiche, Rimini, 1989, 23 ss; N. CERANA, Terremoto, in Enc. dir., Milano,
1992, XLIV, 21 ss; G. CRESPELLANI, Difesa dai terremoti e normative tecniche: un’eredità difficile, in Dem e
dir., 2005, 115 ss; da ultimo A. CROSETTI, La normativa antisismica quale strumento preventivo dell’incolumità
pubblica, in Riv. giur. ed., 2011, 6, 261 ss
102
Le norme tecniche per questa particolare tipologia di costruzioni, variano in relazione al grado di sismicità,
riguardano molteplici aspetti delle costruzioni: l’altezza massima degli edifici in relazione al sistema costruttivo,
al tasso di sismicità della zona, e alla larghezza delle strade, le distanze minime consentite tra edifici; le azioni
sismiche orizzontali e verticali da tenere in conto nel dimensionamento degli edifici; il dimensionamento e la
verifica delle diverse parti delle costruzioni; e infine le tipologie costruttive per le fondazioni e le parti in
elevazione. Sulle norme tecniche in materia di distanze e altezze nelle zone sismiche v. già D. G ENTILE, Distanze
e altezze delle costruzioni nelle località sismiche, in Foro it., 1959, IV, 177 s; G. MANFREDI, Distanze da
osservarsi nelle zone sismiche per le nuove costruzioni nei centri urbani, in Nuova rass., 1969, 446 ss.
46
a tutta una serie di interessi collettivi, quali incolumità, sicurezza, ambiente, salute, con un
elevato livello di protezione103.
L’art. 52 del T.U.E., come accennato, non provvede direttamente a porre il quadro
regolatorio in materia edilizia ma affida tale potere normativo al Ministro per le Infrastrutture
e i Trasporti da esercitare con proprio decreto. La ratio della scelta, com’è stato
evidenziato104, è duplice e trova giustificazione proprio nei rapporti tra normativa
regolamentare e normativa tecnica. Anzitutto l’esigenza di garantire, tramite l’utilizzo di uno
strumento di marcata flessibilità, il continuo adeguamento delle norme concretamente dettate
alle risultanze del progresso delle scienze in materia edilizia105. In secondo luogo, la scelta
adottata dal T.U.E. permette di avere un processo decisionale volto a meglio coniugare il
rapporto tra decisione politica e valutazione tecnica106.
Diversi sono i soggetti istituzionali, previsti dall’art. 52, per l’elaborazione e la stesura
delle norme tecniche. Innanzitutto, il Ministero per le Infrastrutture e i trasporti, al quale
compete legittimazione ad emanare i decreti che fissano le norme tecniche107.
Nell’elaborazione del decreto deve obbligatoriamente essere sentito il Consiglio superiore dei
lavori pubblici108, il quale è chiamato a definire le norme concernenti i vari elementi
costruttivi, anche se non è chiaro se si tratti di consulenza tecnica o di un parere, né la norma
103
P. ANDREINI, La normativa tecnica tra sfera pubblica e sfera privata, in AA. VV.,La normativa tecnica
industriale, Bologna, 1995, 55; sulle finalità di incolumità e sicurezza CROSETTI, La normativa antisismica, cit.,
269.
104
MOSTACCI, Commento art. 52, cit., 415; nonché S. GRASSI, Commento art. 52, in Commentario al Testo
unico dell’edilizia, (a cura di R. FERRARA - G. F. FERRARI), Padova, 2005, 576.
105
In tal senso anche GARRI - CAZZUOLA, Norme tecniche per l’edilizia, cit., 521 ss
106
In relazione ai frequenti rapporti tra scelte politiche e scelte tecniche nei processi decisionali delle pubbliche
amministrazioni, tra i molti: già E. CANNADA BARTOLI, Decisione amministrativa, in Noviss. Dig. It., Torino,
1960, V, 268 ss; M. NIGRO, Decisione amministrativa, in Enc. dir., Milano, 1962, XI, 810 ss; nonché G.
GUARINO, Atti e poteri amministrativi, in Dizionario amministrativo (a cura di G. Guarino), Milano, 1968; M.
BOMBARDELLI, Decisione e pubblica amministrazione. La determinazione procedimentale dell’interesse
pubblico,Torino, 1996; segnatamente E. CASETTA, Attività amministrativa, in Dig. (Disc. pubbl.), Torino, I, 521
ss; F. G. SCOCA, Attività amministrativa, in Enc. dir. Aggiorn., Milano, 2002, VI, 90 ss; P. FORTE, Il principio di
distinzione tra politica e amministrazione, Torino, 2005; B. G. MATTARELLA, Attività amministrativa e
Provvedimento amministrativo, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. CASSESE, Milano, 2006, vol. I,
713 ss; nonché R. VILLATA - M. RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2006, 20 ss.
107
Come noto il Ministero delle infrastrutture ha assorbito le competenze dell’originario Ministero dei lavori
pubblici. In relazione a tale evoluzione sia consentito il rinvio a A. CROSETTI, Dalle opere pubbliche alle
infrastrutture: profili evolutivi, in La disciplina delle opere pubbliche, (a cura di A. Crosetti), Rimini, 2007, 17
ss; nonché F. PIZZETTI, Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in La riforma del Governo, a cura di A.
PAJNO - L. TORCHIA, Bologna, 2000.
108
Il Consiglio superiore dei lavori pubblici, come noto, è un soggetto istituzionale, strutturato all’interno dello
stesso Ministero per le infrastrutture e trasporti, con compiti di elaborazione di norme e consultazione; in
particolare si occupa di predisporre norme tecniche relative alla parte strutturale delle costruzioni. Su tale
organismo: F.S. SEVERI, Ministero dei lavori pubblici, in Dig. (Disc. pubbl.),Torino, 1994, IX, 481.
47
precisa se tale consulenza sia o meno vincolante109. Ai progetti delle norme tecniche in
materia edilizia collabora inoltre il C.N.R., come consulente tecnico del Consiglio superiore
dei lavori pubblici. Il C.N.R. non copre un ruolo di mera redazione di norme, ma svolge una
rilevante attività di sperimentazione attraverso i suoi laboratori; nel suo ambito operano,
inoltre, diverse commissioni di studio relative alle diverse normative tecniche, che si
avvalgono anche di soggetti esterni110.
Anche nel T.U.E. resta, dunque, confermata l’attribuzione della competenza generale
di normazione tecnica nel settore edilizio in capo ad un organismo centrale quale il Ministero:
lo scopo, evidente, è quello di prevedere standard uniformi di sicurezza per tutto il territorio
nazionale111.
Il contenuto della regolazione ministeriale, da adottarsi con la procedura individuata
nello stesso art. 52 citato, è mirato a disciplinare l’attività edilizia con particolare riferimento
a quattro tematiche principali, puntualmente individuate. In primo luogo, è chiamato a
definire i criteri generali tecnico-costruttivi per la progettazione, esecuzione e collaudo degli
edifici in muratura e per il loro consolidamento, vale a dire le norme generali atte a
sovrintendere alle tre fasi principali dell’attività edilizia. In secondo luogo, il decreto è
chiamato a disciplinare due settori di particolare rilievo: la protezione dagli incendi e la
solidità statica degli edifici, da perseguirsi tramite la prudente distribuzione dei carichi e
sovraccarichi e delle loro combinazioni. Il Ministero, a tal fine, deve diversificare le regole,
ove ciò sia consigliabile dal punto di vista tecnico, in funzione del tipo edilizio, delle modalità
costruttive e della destinazione d’uso dell’opera. Le norme ministeriali devono poi essere
corredate dai criteri necessari per verificare la solidità e, quindi, che lo standard di sicurezza
del costruito sia conforme a quello previsto.
Oltremodo rilevanti sono, infine, le prescrizioni ministeriali volte ad assicurare una
preventiva verifica del rapporto tra il processo costruttivo e la conformazione del terreno sul
109
Si è spesso discusso sui rapporti tra atto consultivo e atto di amministrazione attiva nell’ìpotesi di parere
vincolante. Secondo una lettura risalente di parte della dottrina si avrebbe la formazione di un vero e proprio atto
complesso (già BORSI, BRACCI), secondo altri il parere vincolante funzionerebbe quale atto presupposto (V ITTA).
Va comunque rilevato che anche il parere vincolante costituisce sempre esercizio di amministrazione consultiva,
come dimostra il fatto che l’organo di amministrazione attiva, qualora non condivida il parere vincolante, può
astenersi dall’emettere il provvedimento. Su tali problematiche v. già G. C ORREALE, Parere (Dir. amm.), in Enc.
dir., Milano, 1981, XXXI, 676 ss; nonché A. T RAVI, Parere (Dir. amm.), in Dig. (Disc. pubbl.), Torino, X, 601
ss; e da ultima C. BARBATI, L’attività consultiva nelle trasformazioni amministrative, Bologna, 2002.
110
L. FIORENTINO, La normativa tecnica edilizia: i soggetti normatori, in AA. VV., La normativa tecnica
industriale, Bologna, 1995, 353 ss.
111
GARRI - CAZZUOLA, Norme tecniche per l’edilizia, cit., 522. Sull’applicabilità di standard uniformi validi su
tutto il territorio nazionale in materia di urbanistica ed edilizia in seguito alla riforma costituzionale del 2001, v.
Corte cost. 1 ottobre 2003 n. 303 cit.
48
quale si intende intervenire. Il decreto, infatti, stabilisce quali indagini debbano essere
effettuate dal costruttore sul territorio, onde verificare la stabilità dei pendii naturali e delle
scarpate e la capacità di reggere i carichi dell’opera civile; quali accorgimenti specifici si
rendano necessari, in sede di progettazione ed esecuzione, in relazione alle risultanze delle
indagini effettuate; e quali criteri tecnici vadano seguiti per la realizzazione di speciali
manufatti (ponti, dighe, acquedotti, fognature, ecc.).
Oltre ad essere inserite all’interno della decretazione ministeriale, numerose previsioni
di tipo tecnico sono contenute anche in circolari ministeriali; in questi casi le circolari
assumono valenza interna, vincolando in primo luogo le attività degli uffici tecnici o
amministrativi dipendenti dall’amministrazione; tuttavia, ove inserite quali previsioni
integrative negli atti che disciplinano i rapporti tra pubblici uffici e privati, rivestono efficacia
vincolante anche per l’operatore privato che preti il suo consenso al contratto stipulato112.
Le prescrizioni contenute nella decretazione ministeriale, pur non avendo natura
legislativa113, determinano il sorgere di un obbligo, pieno e sanzionabile, di conformarsi alle
previsioni in essa contenute, a prescindere dalla natura del soggetto che intende realizzare
l’opera.
Le norme generali in materia edilizia dettate dal decreto ministeriale si impongono alla
generalità delle costruzioni, vale a dire ad ogni manufatto avente carattere di stabilità e
consistenza che emerga in modo sensibile dal suolo114.
Riveste, infine, notevole importanza la norma di chiusura della regolazione in materia
edilizia sancita dal secondo comma del citato art. 52. Infatti, nell’ipotesi in cui il decreto
ministeriale non abbia provveduto a normare una specifica modalità costruttiva, il costruttore
non è privo di vincoli. In tali casi, appare applicabile, in via analogica, quanto prescritto con
riferimento ai sistemi costruttivi diversi da quelli in muratura. In tali ipotesi, la garanzia di
standard minimi di sicurezza delle costruzioni è affidata ad una dichiarazione rilasciata dal
presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici su parere conforme del Consiglio stesso.
112
GARRI - CAZZUOLA, Norme tecniche per l’edilizia, cit., IV; in ordine all’efficacia interna ed esterna delle
circolari: già M.S. GIANNINI, Circolare, in Enc. dir., Milano, 1960, VII, 1 ss; quindi F. BASSI, Circolare
amministrativa, in Dig. (Disc. pubbl.), Torino, 1989, III, 54 ss; M.P. CHITI, Circolare, in Enc. Giur. Treccani,
Roma, 1980, VI; A. CATELANI, Aspetti ed attualità nelle circolari, in Riv. trim. dir. pubbl., 1993, 999 ss.
113
La natura regolamentare e non legislativa dei decreti ministeriali recanti norme tecniche è stata ribadita dalla
Corte costituzionale, v. Corte Cost. 20 maggio 176 n. 125, in Cons. Stato, 1976, I, 523.
114
La giurisprudenza della Cassazione ha, infatti, definito la nozione di costruzione come comprensiva non
soltanto delle opere edilizie destinate ad abitazione, deposito, luogo di ricetto di persone e di cose, ovvero di
opifici, ma anche ogni manufatto avente carattere di consistenza e stabilità, che emerga in modo sensibile al di
sopra del livello del suolo. Cass. Sez. II, 23 febbraio 1978 n. 908.
49
In difetto di tale dichiarazione la costruzione edile si considera edificata al di fuori delle
regole previste con conseguenti sanzioni anche di carattere penale.
In attuazione delle previsioni contenute nel T.U.E., il Governo ha provveduto ad
emanare le Nuove norme tecniche per le costruzioni di cui al D.M. 14 gennaio 2008, con il
quale ha inteso costituire un sistema coordinato e organico di norme tecniche, non più
strutturate in autonomi decreti differenziati per materie e tempi della loro emanazione, come
per il passato, ma correlate in modo tale da formare un contesto normativo volto a perseguire,
in modo, significativo, coerente ed affidabile, la valutazione della sicurezza e stabilità delle
costruzioni, secondo criteri da intendersi come principi fondamentali. Tra i criteri generali
rileva, in modo assoluto, il concetto di sicurezza, intesa come garanzia prestazionale di tenuta
strutturale delle costruzioni, da rapportare alle condizioni dei c.d. stati limite che possono
generarsi nel corso dell’esistenza delle costruzioni, in quanto il superamento di tali stati limite
è destinato a produrre labilità costruttive tali da far cessare i requisiti di sicurezza115.
Tra i principi generali, espressi nel nuovo D.M., da osservare nella progettazione ed
esecuzione delle costruzioni, oltre a quello accennato della sicurezza strutturale durante “tutta
la vita utile di progetto dell’opera”, sono individuati altri principi fondamentali, di rilevanza
tecnica, tra cui la durabilità delle strutture costruite, intesa come “conservazione delle
caratteristiche meccaniche dei materiali e delle strutture”, rispetto al logorio ed al degrado
derivanti dalle condizioni ambientali e dalla ricorrenza dei cicli di carico interessante il
manufatto strutturale, per la cui tutela è necessario o l’uso di materiali costruttivi più resistenti
o meno vulnerabili, ovvero mezzi di manutenzione ordinarie e straordinarie programmate, di
tipo conservativo.
Dai contenuti di tale decreto emerge, in termini univoci, che la normativa edilizia e
quella sulle tecniche costruttive116 hanno una correlazione, di natura essenziale, nel senso che
115
Principio generale introdotto dal nuovo D.M. 14.I.2008 è, infatti, quello che prescrive che tutte le tipologie
strutturali devono rispettare le norme specifiche sui requisiti di sicurezza in particolare: A) Sicurezza nei
confronti degli stati limite ultimi (SLU), corrispondenti alle condizioni per cui le labilità strutturali sono tali da
generare il collasso strutturale con “crolli, perdite di equilibrio e dissesti gravi, totali o parziali, che possono
compromettere l’incolumità delle persone o la perdita del bene, mettendo fuori esercizio le opere e provocando
“gravi danni ambientali e sociali”; B) Sicurezza nei confronti di stati limite d’esercizio (SLE), relativo ai
requisiti prestazionali prefigurati in sede progettuale, corrispondenti alle condizioni per cui sussistano “tutti i
requisiti atti a garantire le previste prestazioni, per assicurare l’ordinario esercizio delle opere”; una volta
superato tale limite genera la “perdita della funzionalità” dell’opera; C) Robustezza nei confronti di azioni
accidentali atti ad evitare “danni sproporzionati rispetto all’entità delle cause generatrici”.
116
Per il nuovo D.M. 14.I.2008 è stata emanata la Circolare 2 febbraio 2009 n. 617 recante “Istruzioni per
l’applicazione delle nuove norme tecniche per le costruzioni”, con la quale si è ritenuto opportuno privilegiare,
con una trattazione maggiormente diffusa, gli aspetti più innovativi e per certi versi più complessi trattati dalle
nuove tecniche, fornendo solo informazioni, chiarimenti ed istruzioni applicative, con integrazioni per una più
50
le relative discipline sono da intendersi riferite all’universalità delle norme applicative
riguardanti le costruzioni edilizie sotto tutti gli aspetti, dalla legittimità attuativa, alla
sicurezza ed alla tecnica attuativa. Ciò comporta la piena coerenza tra le previsioni delle
norme generali del T.U.E., quale fonte primaria ed i contenuti delle norme tecniche attuative,
secondo le quali le operazioni preordinate alla realizzazione delle costruzioni edilizie
(progettazione, esecuzione, collaudo) devono garantire prefissati livelli di sicurezza delle
opere, tali da consentire ai soggetti utenti, la loro fruizione, per un lungo periodo senza
l’insorgenza di pericoli per la pubblica e privata incolumità117.
8. Rapporti tra la normativa tecnica e il potere amministrativo
Una particolare rilevanza, proprio in relazione al settore qui considerato, è destinata ad
assumere l’analisi dei rapporti tra la normativa tecnica e il potere amministrativo118.
agevole ed univoca applicazione di tali norme tecniche (NTC) volte a disciplinare, in forma unitaria, la
progettazione, l’esecuzione ed il collaudo delle costruzioni al fine di garantire, per stabili livelli di sicurezza, la
pubblica incolumità, con una serie di indicazioni inerenti la procedura di calcolo e di verifica delle strutture,
nonché regole di progettazione ed esecuzione delle opere in linea con i criteri guida individuati dal D.M. Tali
indirizzi prevedono, anzitutto, il mantenimento del c.d. criterio prestazionale, il rispetto delle indicazioni
normative a livello europeo,in coerenza con gli Eurocodici (tra cui l’EC8 antisismico) e le norme europee EN
ormai ampiamente diffuse, nonché puntuali attenzioni nei confronti dei problemi geotecnici dei suoli.
117
Cfr. A. MONACO – R. MONACO, Norme tecniche per le costruzioni, Napoli, 2005; nonché A. MONACO,
Urbanistica, ambiente e territorio, Napoli, 2006, 774. Va rilevato che l’approvazione del nuovo D.M., con le
norme tecniche per le costruzioni, è stata resa opportuna e necessaria a seguito dei gravi crolli e danni, prodotti
dall’elevato (anche se non estremo) sisma del 6 aprile 2009 su una vasta parte del territorio abruzzese, dal quale
è emerso, a livello tecnico e scientifico, che la mancata e/o insufficiente sussistenza della sicurezza strutturale al
rischio sismico sia derivata dall’impropria qualità dei materiali utilizzati (cemento e acciaio per il c.a.), dal non
corretto dimensionamento delle strutture fondali e in elevazione, dal mancato rilievo sul carattere geologico dei
terreni di sottofondazione e dall’ inefficacie applicazione delle norme tecniche del relativo periodo applicativo e
dai mancati controlli sullo stato degli edifici nel tempo.
118
Il potere amministrativo è qui inteso nell’accezione più diffusa quale capacità giuridica speciale che consente
(e allo stesso tempo impone) di adottare gli atti previsti dalla norma (come atti di esercizio di quel potere), al fine
della miglior cura degli interessi (a loro volta stabiliti dalla legge) dando ad essi contenuto dispositivo e perciò
determinandone gli effetti, secondo la relativa disciplina normativa Così V. CERULLI IRELLI, Lineamenti di
diritto amministrativo, Torino, 2001, 276. La prospettazione di questo modello e l’individuazione della nozione
giuridica di potere è stata al centro del dibattito già nella dottrina tedesca di O. M AYER e di F. FLEYNER. Sul
tema sono irrinunciabili i contributi di S. ROMANO, Poteri e potestà, in Frammenti di un dizionario giuridico,
Milano, 1947, 192 ss; e di G. GUARINO, Potere giuridico e diritto soggettivo, in Rass. dir. pubbl., 1949, 240 ss;
G. MIELE, Potere, diritto soggettivo e interesse, in Riv. dir. comm., 1944, I, 114 ss; successivamente v. V.
FROSINI, Potere, in Noviss. Dig. It., Torino, 1966, XIII, 436 ss; A. ROMANO TASSONE, Note sul concetto di
potere giuridico, in Annali della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Messina, 1981, 405; P.
STELLA RICHTER, Atti e poteri amministrativi (tipologia), in AA. VV., Dizionario di diritto amministrativo, a
cura di G. GUARINO, Milano, 1983, 357 ss; G. SALA, Potere amministrativo e principi dell’ordinamento, Milano,
1983 e soprattutto M. S. G IANNINI, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Bologna, 1990, 30 ss;
A. CERRI, Potere e potestà, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990; in ultimo G. GASPARE, Il potere nel diritto
pubblico, Padova, 1992.
51
E’ un dato di fatto che assai spesso, anche per effetto della complessità dei fenomeni
sociali119, la Pubblica Amministrazione, per conoscere la realtà sulla quale operare e decidere,
non può limitarsi ad una mera percezione, semplice ed immediata, dai dati empirici, ma,
sempre più, ha bisogno dell’apporto e dell’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche,
onde potere conseguentemente assumere opzioni e scelte tra criteri alternativi e spesso
opinabili. La funzione della normazione tecnica è, infatti, quella di offrire canoni di maggiore
“certezza” alla scienza giuridica e ad processo decisionale delle amministrazioni pubbliche120.
Va rilevato che, segnatamente in questo tipo di dinamica giuridica, l’intervento della
Pubblica amministrazione è da ascriversi allo schema, ampiamente acquisito, norma-potereeffetto121. In questi casi, l’intervento dell’Amministrazione è chiamato (dalla legge) a porre in
essere atti espressione di autonoma valutazione, quale attività amministrativa vera e
propria122. Tali atti producono effetti giuridici in relazione ad un particolare rapporto
giuridico, a seguito dell’esercizio del potere (amministrativo) conferito in via generale o
specifica dalla legge. Ciò significa che l’ordinamento rimette alla scelta del soggetto pubblico
la produzione e la regolazione dell’effetto mediante provvedimenti amministrativi tipici
nell’ambio di quello che viene comunemente denominato potere discrezionale123.
119
La problematica della complessità della società e degli ordinamenti giuridici moderni anche in relazione al
crescere delle nuove tecnologie scientifiche è messa in luce dalla dottrina contemporanea. A titolo meramente
indicativo v.i contributi comparsi nel volume a cura di G. BOCCHI, La sfida della complessità, Milano, 1986; E.
MORIN, Le vie della complessità, in AA. VV., La sfida della complessità, a cura di G. BOCCHI e M. CERUTI,
Milano, 1988, 49 ss; U. CERRONI, Democrazia e tecnica, in Nuova civiltà delle macchine, 1998, n. 3-4, 168 ss.
120
Quale esigenza connaturata alla struttura stessa e alla ragion d’essere dell’ordinamento giuridico e,
conseguentemente del potere amministrativo, affinché questa certezza non diventi un mito come
provocatoriamente già evocato da N. BOBBIO, La certezza del diritto è un mito, in Riv. int. fil. dir., 1951, 20 ss;
ma anche da G. GERIN, Riflessioni sulla crisi delle istituzioni: l’incertezza del diritto, Milano, 1979; nonché M.
S. GIANNINI, Certezza pubblica, in Enc. Dir., Milano,1960, VI, 769 ss; nonché F. ANCORA, Normazione tecnica,
certificazioni di qualità e ordinamento giuridico, Torino, 2000; da ultimi: A. FIORITTO, La funzione di certezza
pubblica, Padova, 2003,154; A. ROMANO TASSONE, Amministrazione pubblica e produzione di “certezza”:
problemi attuali e spunti ricostruttivi, in F. FRACCHIA - M. OCCHIENA (a cura di), I sistemi di certificazione tra
qualità e certezza, Milano, 2006, 23 ss; nonché A. BENEDETTI, Certezza pubblica e “certezze private”, Milano,
2010.
121
Il rinvio va per tutti a E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2015, 320.
122
Intesa quale espressione di poteri pubblicistici ed accolta dalla prevalente dottrina: sul punto v. già E.
CASETTA, Attività e atto amministrativo, cit., 293 ss; M. S. GIANNINI, Attività amministrativa, in Enc. dir.,
Milano, 1958, III, 988 ss; D. FOLIGNO, L’attività amministrativa, Milano, 1966, 20 ss; più recentemente F.
LEDDA, L’attività amministrativa, in AA.VV., Il diritto amministrativo degli anni ’80, Atti del XXX Convegno
di studi di scienze dell’amministrazione, Milano, 1987, 83 ss; G. CORSO, L’attività amministrativa, Torino,
1999, 10 ss; F.G. SCOCA, Attività amministrativa, in Enc. dir., Aggiornamento, VI, Milano, 2002, 75 ss; B. G.
MATTARELLA, L’attività, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, II ediz., Diritto
amministrativo generale, Milano, 2003, t. I, 699 ss.
123
La discrezionalità, quale espressione dell’esercizio del potere amministrativo, come ben noto, costituisce il
nodo centrale del rapporto norma-potere-effetto. Nei limiti in cui la legge residua “spazi di scelta”
all’Amministrazione si ha azione discrezionale, il concetto fondamentale è quello della “funzionalizzazione” del
potere amministrativo. Secondo la teoria ancor oggi più seguita (v. in particolare i contributi di M.S. GIANNINI, Il
52
Tuttavia, al fine di operare una qualificazione di un fatto o di una circostanza, in
quanto prevista e dettata da regole tecniche, non è sufficiente una semplice attività di
apprendimento e di constatazione, ma è richiesta dalla legge stessa, un’attività di valutazione
specie quando si tratta di apprezzare fatti complessi che richiedono una puntuale attività
istruttoria124. In questi casi, si tratta della possibilità di valutazione che spetta
all’Amministrazione, allorché sia chiamata a qualificare fatti e situazioni suscettibili di
potenziale vario apprezzamento che non può che trovare soluzione in dati di carattere tecnico
e scientifico.
In presenza di norme, quali quelle dianzi esaminate, fortemente caratterizzate da
parametri matematici e fisici e variamente quantistici, si dovrebbe ritenere che il potere della
pubblica amministrazione nell’applicare tali norme sia a “discrezionalità zero”. Come ben
potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939, 72 ss, poi ripresa in Diritto amministrativo,
Milano, 1970, 483 ss), la discrezionalità è un potere di apprezzamento consistente “in una comparazione
qualitativa e quantitativa degli interessi pubblici e privati che concorrono in una situazione sociale oggettiva”; in
una lettura quasi contrapposta vi è stata la posizione di C. MORTATI, La volontà e la causa nell’atto
amministrativo e nella legge, Roma, 1935, 90 ss; Id., Potere discrezionale, in Nuovo Dig. It., Torino, 1939, X,
76 ss; Id., Discrezionalità, in Noviss. Dig. It., Torino, 1964, 1098 ss) secondo il quale la discrezionalità è un
potere di scelta condizionato dall’applicazione di regole non giuridiche di buona amministrazione, regole
comunque idonee ad individuare la scelta migliore rispetto ad una data situazione. Viene conseguentemente
esclusa la sindacabilità ad opera del giudice dell’esercizio del potere discrezionale. Il dibattito è poi continuato
tra altri autorevoli studiosi v. in particolare A. TESAURO, La discrezionalità degli atti amministrativi: natura e
limiti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1957, 298 ss; V. SIMI, Il potere discrezionale come carattere essenziale della
pubblica amministrazione, ivi, 1960, 879 ss; A. P IRAS, Discrezionalità amministrativa, in Enc. dir., Milano,
1964, XIII, 65 ss. La ponderazione degli interessi quale tratto distintivo della discrezionalità amministrativa è
messo il evidenza da gran parte della dottrina più recente: tra i molti v. AZZARITI L. BENVENUTI, La
discrezionalità amministrativa, Padova, 1986, 250 ss (che la assimila all’attività interpretativa); A. PUBUSA,
Discrezionalità amministrativa, in Dig. (disc. pubbl.), Torino, 1988, IX, 401 ss; G. AZZARITI, Dalla
discrezionalità al potere, Padova, 1989, 239 ss; G. BARONE, Discrezionalità (dir. amm..), in Enc. giur.
Treccani, Roma, 1989; F. BASSI, Note sulla discrezionalità amministrativa, in AA. VV., Le trasformazioni del
diritto amministrativo (Scritti in onore di M. S. Giannini), Milano, 1995, 49 ss; F. LEDDA, Determinazione
discrezionale, in Scritti in onore di F. Benvenuti, Milano, III, 95 ss; A. AZZENA, Potere amministrativo e
discrezionalità, in AA. VV., Diritto amministrativo, Bologna, 1998, II, 1195 ss; F. G. SCOCA, La discrezionalità
amministrativa nel pensiero di Giannini e nella dottrina successiva, in Riv. trim. dir. pubbl, 2000, 1045 ss; da
ultimi G. BOTTINO, Equità e discrezionalità amministrativa, Milano, 2004; F. CANGELLI, Potere discrezionale e
fattispecie consensuali, Milano, 2004; F. GOGGIAMANI, La doverosità della pubblica amministrazione, Torino,
2005.
124
Sulla rilevanza dell’attività istruttoria e conoscitiva nei processi decisionali amministrativi: v. soprattutto i
contributi di LEVI, L’attività conoscitiva della pubblica amministrazione, cit., 60 ss; e di R. PEREZ, L’istruzione
nel procedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pub., 1966, 623 ss; Id., L’acquisizione di notizie da parte
della pubblica amministrazione, ivi, 1968, 1371 ss; D. BERTOLOTTI, Attività preparatoria e funzione
amministrativa, Milano, 1984, 30 ss; F. BRIGNOLA, Istruttoria e discrezionalità, in Foro amm., 1979, I, 2634; M.
T. SERRA, Contributo ad uno studio sulla funzione istruttoria del procedimento amministrativo, Milano, 1991,
50 ss; nonché dopo la L. 241/90: M. GUERRA, Funzione conoscitiva e pubblici poteri, Milano, 1996; più
recentemente L. DE LUCIA, Profili strutturali del procedimento,in La disciplina generale dell’azione
amministrativa, a cura di V. CERULLI IRELLI, Napoli, 2006.
53
noto, tuttavia, in questi casi, dottrina e giurisprudenza, da tempo, hanno introdotto la nozione,
anche se impropria ormai diffusa, della discrezionalità tecnica125.
L’espressione, in tali circostanze, è giustificata dal fatto che l’Amministrazione non
esercita alcun potere discrezionale, non valuta (e non può valutare) alcun assetto di interessi
pubblici, ma si limita a conoscere (utilizzando le regole tecniche) una realtà e a versarne il
risultato in un atto (positivo o negativo), cui la legge collega la produzione di determinati
effetti126. In questi casi, ciò che viene attribuito all’autorità amministrativa è un potere (un
125
Come noto, la configurazione della c.d. discrezionalità tecnica, intesa come un’attività di valutazione a
contenuto scientifico, è stata fortemente criticata in dottrina, in tema, v. già E. P RESUTTI, Discrezionalità pura e
discrezionalità tecnica, in Giur. it., 1910, IV, 47; quindi F. PIGA, Sulla discrezionalità tecnica della pubblica
amministrazione, in Giust. civ., 1956, I, 52 ss; P. V IRGA, Appunti sulla c.d. discrezionalità tecnica, in Jus, 1957,
XXVIII, 96 ss; G. DANIELE, Discrezionalità tecnica della p.a. e giudice amministrativo, in Scritti in memoria di
A. Giuffrè, Milano, 1967, III, 295 ss; e soprattutto V. BACHELET, L’attività tecnica della pubblica
amministrazione, cit., 30 (secondo il quale “la discrezionalità tecnica non esiste, ma esistono solo accertamenti,
apprezzamenti, giudizi tecnici, che possono essere riferiti tanto ad atti discrezionali che ad atti vincolati); ma è
nozione che è entrata nell’uso corrente e ampiamente utilizzata dalla giurisprudenza in relazione ai limiti del
sindacato del giudice amministrativo: v. più recentemente i contributi di C. MARZUOLI, Potere amministrativo e
valutazioni tecniche, Milano, 1985, 79 ss; L. BENVENUTI, La discrezionalità amministrativa, Milano, 1986, 20
ss; L. VIOLINI, Le questioni scientifiche controverse nel procedimento amministrativo, Milano, 1986; S.
PIRAINO, La funzione amministrativa fra discrezionalità e merito, Milano, 1990, 50 ss; D. DE PRETIS, Attività
amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995, 170 ss; ulteriori contributi in F. SALVIA, Attività
amministrativa e discrezionalità tecnica, in Dir. proc. amm., 1992, 685 ss; S. PIRAINO, Tecnica e discrezionalità
amministrativa, in Nuova Rass., 1992, 1053 ss; A. PREDIERI, Le norme tecniche nello Stato pluralista e
prefederativo, cit., 251 ss; A. CARIOLA, Discrezionalità tecnica ed imparzialità, in Dir. amm., 1997, 469 ss; F.
SALVIA, Considerazioni su tecnica e interessi, in Dir. pubbl., 2002, 603 ss; da ultimi A. G IUSTI, Contributo allo
studio di un concetto ancora indeterminato. La discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione, Napoli,
2007 nonché C. VIDETTA, L’amministrazione della tecnica, cit., 2008, passim.
126
Come ben noto la figura della discrezionalità tecnica era stata introdotta per escludere il sindacato del giudice
amministrativo su tale tipo di attività decisionale, se non per manifesti vizi di illogicità ed irrazionalità (tra le
molte Cons. Stato, Sez. IV, 18 marzo 1980 n. 270; Id., Sez. IV, 15 aprile 1986 n. 271; Id., Sez. IV, 30 novembre
1992 n. 986; Id., Sez. II, 3 maggio 1995 n. 2868; Id., Sez. VI, 20 gennaio 1998 n. 106; Id., Sez. V, 5 settembre
2006 n. 5106). Attualmente, a seguito dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo che ha
previsto la consulenza tecnica tra i mezzi di prova ammessi nel giudizio amministrativo (art. 67 c.p.a.), si tende a
riconoscere un sindacato intrinseco di compatibilità tra scelta tecnica dell’Amministrazione e corrispondente
regola tecnica: Cons. Stato, Sez. V., 5 marzo 2001 n. 1247 (su tale decisione: C. VIDETTA, in Foro. It., 2003, III)
ha, infatti, affermato in maniera esplicita che la “c.d. discrezionalità amministrativa esprime un concetto diverso
dal merito amministrativo e pertanto non può essere aprioristicamente sottratta al sindacato da parte del giudice
amministrativo”, atteso che l’apprezzamento degli elementi di fatto del provvedimento, siano essi semplici o
complessi, attiene comunque alla legittimità di quest’ultimo. Per richiami su tali implicazioni processuali: F.
LEDDA, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sulla pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 1983, 423
ss; V. CERULLI IRELLI, Note in tema di discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Dir. proc.
amm., , 1984, 463 ss; V. OTTAVIANO, Giudice ordinario e giudice amministrativo di fronte ad apprezzamenti
tecnici dell’amministrazione, in Studi in memoria di V, Bachelet, Milano, 1987, II, 405 ss; A. AZZENA, Spunti
per una riflessione su regole tecniche e merito amministrativo in relazione alla possibilità di sindacato sulla
discrezionalità, in Studi in ricordo di E. Capaccioli, Milano, 1988, 599 ss; G. PELEGATTI, Valutazioni tecniche
dell’amministrazione pubblica e sindacato giurisdizionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1992, 158 ss; F. G. SCOCA,
Sul trattamento giurisprudenziale della discrezionalità, in Potere discrezionale e controllo giudiziario, Milano,
1998, 107 ss; quindi S. BACCARINI, Giudice amministrativo e discrezionalità tecnica, in Dir. proc. amm., 2001,
80 ss; M. PROTTO, La discrezionalità tecnica sotto la lente del G. A., in Urb. e app., 2001, 875; F. MERUSI,
Variazioni su tecnica e processo, in Dir. proc. amm., 2004, 973 ss; A. T RAVI, Il giudice amministrativo e le
questioni tecnico-scientifiche: formule nuove e vecchie soluzioni, in Dir. pubbl., 2004, 439 ss; C. VIDETTA, Il
54
compito) di acclaramento di fatti e circostanze della realtà prefissati tramite appunto le norme
tecniche. L’accertamento di fatti complessi, con la connessa necessità di utilizzo di discipline
specialistiche è, sempre più spesso, necessario in molteplici manifestazioni dell’azione
amministrativa discrezionale127.
Non va disconosciuto che la conoscenza della realtà, nella sua pienezza, rende
assolutamente necessario, soprattutto ove la realtà è fortemente complessa, l’utilizzazione di
discipline tecniche, in tali casi, tale utilizzazione è imposta al di là e oltre le stesse prescrizioni
di legge, dai principi più generali di ragionevolezza dell’agire amministrativo 128. Questo è il
motivo per cui spesso è la stessa legge che impone l’applicazione, anche in via strumentale, di
discipline e regole tecniche al fine dell’esercizio di determinati poteri come nei casi di specie
dianzi esaminati.
La normativa tecnica dell’edilizia, come si è visto, è l’esempio classico in cui il previo
acclaramento di fatti complessi è rimesso dal legislatore a parametri e calcoli derivanti da
discipline specialistiche. La normativa tecnica su gran parte degli interventi territoriali, trae la
sua fonte genetica da discipline ingegneristiche e di calcolo, da discipline geognostiche,
idrauliche, architettoniche che si pongono in posizione strumentale e servente alle scelte
dell’Amministrazione.
Va peraltro avvertito che in tale funzione accertativa (variamente configurata dal
legislatore anche in termini lessicali: “computo”, “verifica”, “riscontro”, “analisi”, “rapporto”,
“valutazione” ed altre ancora), non è sempre ed esclusivamente riconducibile a criteri
oggettivi (matematici o fisici), incentrato sulla coppia “sussistenza-insussistenza”, tipica dei
fatti c.d. semplici o di mera constatazione, ma, segnatamente nell’ambito del settore edilizio,
sindacato sulla discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione nella giurisprudenza successiva alla
decisione 9 aprile 1999 n. 601 della IV Sezione del Consiglio di Stato, in Foro amm. TAR, 2003, 4, 1185; F.
VOLPE, Discrezionalità tecnica e presupposto dell’atto amministrativo, in Dir. amm., 2008, 791 ss; da ultimi, F.
CINTIOLI, Giudice amministrativo, tecnica e mercato, Milano, 2005, 40 ss; M. DELLA SCALA, L’evoluzione del
sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche, in L’invalidità amministrativa, a cura di V.
CERULLI IRELLI e L. DE LUCIA, Torino, 2009, 263 ss. L’orientamento dà ancora luogo ad oscillazioni in
giurisprudenza (cfr. ad esempio TAR Lazio, Sez. II, 11 luglio 2002 n. 6264 afferma ancora che “il giudice può
effettuare solo un controllo esterno di razionalità sulle scelte effettuate e non anche un controllo intrinseco” v.
pure TAR Emilia Romagna, Sez. I, 12 luglio 2002 n. 928).
127
Lo dimostra il fatto che anche l’art. 17 della L. 241/1990 parla di “Valutazioni tecniche” che debbano essere
preventivamente acquisite per l’adozione di un provvedimento. E’ appena il caso di evidenziare che, in questi
casi, le valutazioni tecniche sono richieste ad un’Amministrazione per determinare l’esistenza dei presupposti
per l’assunzione di certi provvedimenti. Sulla valenza di tale disposizione, così come novellata dalla L. 14
maggio 2005 m. 80 v, G. GRIFFINI-R. MACCAPANI, ART. 17, in AA. VV., L’azione amministrativa, Milano,
2005, 600; nonché VIDETTA, L’amministrazione della tecnica, cit., 190.
128
Quale principio ormai consolidato anche nell’agire della pubblica amministrazione: in tal senso puntualmente
P. M. VIPIANA, Introduzione al principio di ragionevolezza nel diritto pubblico, Padova, 1993; e già L.
PALADIN, Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir. Aggiorn., Milano, 1997, I, 898 ss.
55
richiede, talora, un più puntuale procedimento di valutazione e di giudizio in relazione agli
interessi pubblici individuati dalla legge129.
La c.d. discrezionalità tecnica, come dianzi evidenziato, comporta che l’Autorità, una
volta valutata alla stregua dei criteri tecnici una data situazione, è inderogabilmente tenuta ad
agire e a decidere in un certo modo. In questi casi, significa che la valutazione sussiste
soltanto in un momento anteriore rispetto a quello della determinazione attinente all’atto da
adottare, mentre in ordine a questo è rigidamente vincolata130. Non mancano tuttavia casi,
assai frequenti nel settore edilizio-urbanistico, in cui la discrezionalità tecnica e quella
amministrativa siano tra loro collegate e interconnesse, qualora la prima costituisca
presupposto della seconda. Nelle ipotesi di questo tipo, “nelle quali si suole parlare di
“discrezionalità mista”, la discrezionalità tecnica e quella amministrativa rimangono, come è
naturale, su due piani assolutamente distinti: la prima attiene alla constatazione dell’effettiva
presenza della fattispecie prevista dal legislatore perché l’Autorità possa legittimamente
adottare certi provvedimenti in ordine alla soddisfazione dell’interesse pubblico affidato alle
sue cure (giudizio preliminare); la seconda attiene al miglior modo di realizzare l’interesse
129
Gli atti accertamento, variamente configurati, sono stati ricondotti in un primo momento agli atti di
“conoscenza” (su cui v. già M. S. GIANNINI, Certezza pubblica, cit., 769 ss e sugli strumenti di tale attività
ricognitiva ed acquisitiva v. soprattutto F. LEVI, L’attività conoscitiva, cit., 30 ss; G. CATALDI, Le informazioni
come oggetto dell’attività amministrativa, in Scritti per G. Zanobini, Milano, 1968, I, 281 ss; più recentemente
F. MERLONI, Attività conoscitive delle pubbliche amministrazioni, in Riv. trim. dir. pubbl., 1994, 209 ss). In
dottrina, non è pacifica la distinzione degli atti di giudizio dagli accertamenti e dagli atti di conoscenza. Mentre,
in passato, infatti, soprattutto nella dottrina tedesca, alcuni autori tendevano a ricondurre anche gli atti di giudizio
fra gli accertamenti (KORMAN, Sistem der rechtsgeschaftilichen Staatsakte, Berlino, 1910, 68; W. JELLINEK,
Verwaltungsrecht, Berlino, 1948, 310; FORSTHOFF, Lehrbuch des Verwaltungsrecht, Munchen, 1966, 197 e nella
risalente dottrina italiana F. FORTI, Diritto amministrativo, Napoli, 1945, II, 123 ss; R. ALESSI, Principi di
diritto amministrativo, Milano, 1971, I, 365 ss) altri autori facevano rientrare gli atti di giudizio fra gli atti di
certezza (v. ad es. S. ROMANO, Diritto amministrativo, Padova, 1937, (3 ediz.), I, 331 ss; C. VITTA, Diritto
amministrativo, (5 ediz.), Torino, 1965, I, 356 ss; A. F ALZEA, Accertamento (teoria gen.), in Enc. dir., Milano,
1962, I, 205 ss). In effetti, oggi, si è più propensi a ritenere che gli atti di giudizio e di valutazione siano, a
differenza degli atti di conoscenza, provvedimenti discrezionali (talora misti e tecnici) destinati a comportare
apprezzamenti su fatti, circostanze e qualità, (in tal senso v. già M. S. G IANNINI, Accertamenti amministrativi e
decisioni amministrative, in Foro it., 1952, IV, 181 ss; Id., Accertamento, in Enc. dir., Milano, 1958, I, 219 ss;
pur con prospettazione diversa M.NIGRO, Decisione amministrativa, in Enc. dir., Milano, 1962, XI, 816 ss;
nonché I. BUCCISANO, Accertamento, in Dig. (Disc. pubbl.), Torino, 1988, II, 536 ss) proprio come avviene
nell’ambito della disciplina edilizia a mezzo di valutazioni tecniche (su tale strumenti v. T. T ESSARO, Valutazioni
tecniche, in Amm. it., 1993, 1161 ss); da ultimo, con puntuale ricostruzione, B. TONOLETTI, L’accertamento
amministrativo, Padova, 2001.
130
La rilevanza che la discrezionalità tecnica ha sul potere amministrativo è condizionata dal grado di
vincolatezza tra legge e l’attività amministrativa che porta a declinare in modi diversi le diverse ipotesi: 1) leggefatto da accertare-atto amministrativo vincolato; 2) legge-fatto da accertare-atto amministrativo discrezionale; 3)
legge-fatto da valutare-atto amministrativo vincolato come esattamente posto in evidenza da D. S ORACE, Diritto
delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2007, 275; sulle tipologie dell’attività vincolata A. ORSI BATTAGLINI,
Attività vincolata e situazioni giuridiche soggettive, in Riv. trim. dir. pubbl., 1988, 1 ss.
56
pubblico nella situazione di fatto valutata alla stregua dei criteri tecnici (attiene cioè alla scelta
del provvedimento)”131.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, peraltro, ha operato, in proposito, una
distinzione tra valutazioni tecniche a basso grado ovvero ad elevato grado di opinabilità, per
riconoscere alle prime il requisito della certezza (regole tecniche verificabili alla stregua di
scienze esatte) ed assegnando a loro esercizio la natura di un accertamento tecnico. Nelle
seconde, invece, l’applicazione della norma tecnica non sarebbe assistito da tale requisito e
nemmeno quello di un’elevata probabilità, onde le scelte dell’Amministrazione fornirebbero
un contenuto concreto a concetti giuridici indeterminati132 (v. anche infra).
La normativa tecnica sull’edilizia, come può facilmente dedursi dalle indicazioni
dianzi sviluppate, può essere ascritta ad entrambe le categorie ipotizzate dalla citata
giurisprudenza.
Alla prima categoria possono essere ascritte tutte quelle norme che, in funzione della
sicurezza, dell’incolumità pubblica o della qualità dei materiali, vengono a fissare i requisiti
costruttivi degli edifici e dei materiali, le caratteristiche antisismiche o energetiche, in quanto
traggono la loro giustificazione e fonte genetica da discipline tecniche e scientifiche
sperimentate.
Nella seconda categoria, viceversa, possono essere fatte rientrare tutte le norme
tecniche relative ai parametri edilizi ed urbanistici in quanto non ancorate a indici di certezza
scientifica ma di opportunità e di convenienza pubblica in relazione alle esigenze zonali
territoriali.
Non può, peraltro, non essere evidenziato come, nell’attuale momento storico
caratterizzato da una crescente evoluzione conoscitiva dei fenomeni territoriali, emerga, in
131
Così puntualmente già A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 404; nonché S.
LARICCIA, Diritto amministrativo, Padova, 2006, 227; da ultimo M. CLARICH, Manuale di diritto
amministrativo, Bologna, 2013, 126; sull’improprietà di tale dizione v. già C. MORTATI, Istituzioni di diritto
pubblico, Padova, 1970, I, 240 ss.
132
Il richiamato orientamento distintivo del Consiglio di Stato, in realtà, trae fonte genetica dal diverso ruolo del
sindacato giurisdizionale sulle norme tecniche. Il G.A. ritiene, infatti, che, quando la norma tecnica contiene
“concetti indeterminati”, in quali inducono ad “apprezzamenti opinabili”, la loro valutazione rientra
nell’accertamento dei presupposti di fatto del provvedimento amministrativo, e quindi attiene al tipico sindacato
sulla legittimità, che resta ben distinto dal giudizio di opportunità, e cioè della diretta valutazione dell’interesse
pubblico perseguito in concreto dall’Amministrazione. In questa diversa ottica, che distingue le valutazioni
tecniche da quelle di merito, si ammette la sindacabilità giurisdizionale delle prime, non in base “al mero
controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’Autorità amministrativa, bensì, invece, alla loro
verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto al criterio
tecnico e al provvedimento applicativo” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 9 aprile 1999 n. 610; Id., Sez. IV, 10 febbraio
2000 n. 715; Id., Sez. VI, 22 maggio 2008 n. 2449; TAR Puglia, Lecce, Sez. I. 28 settembre 2001 n. 5607; TAR
Lazio, Sez. I, 5 dicembre 2000 n. 11068).
57
termini diffusi, la sensazione della relatività delle soluzioni e dei modelli offerti dalla
normazione tecnica, in quanto frutto dello stato delle conoscenze scientifiche e tecniche e del
grado di approfondimento dei nuovi problemi posti dalle esigenze della società civile (caso
emblematico è certamente quello che ha riguardato l’utilizzazione dell’amianto nelle
costruzioni133). Anche le norme tecniche, al pari delle altre, non sono norme assolutamente
oggettive, univoche e perfette, ma frutto di scelte perfettibili, talora indotte e condizionate da
tesi ed ideologie dei tecnici (e anche dei politici committenti) con conseguente grado di
modificabilità e di aggiornabilità.
Non di rado, inoltre, si può assistere ad una distorsione dei ruoli, in quanto le norme
tecniche, segnatamente quando assumono il ruolo di norme di attuazione, vengono ad imporre
soluzioni, vincoli, obblighi, non previsti dalla legge che ne ha legittimato la produzione e
talora si pongono addirittura in contrasto con la fonte primaria con conseguenti problemi
interpretativi134 (v. infra). Tali vicende richiamano l’attenzione sulle carenze di garanzia
istituzionale nel processo decisionale, relativo alle norme tecniche, riproponendo la necessaria
correlazione tra scelta politica e disposizione tecnica.
Ciò nonostante, il ruolo determinante assunto dalle norme tecniche nel processo
decisionale delle Amministrazioni pubbliche non ne può certo comportare l’assorbimento
nella categoria della discrezionalità amministrativa e delle scelte di merito, caratterizzate
dall’apprezzamento dell’interesse pubblico e della relativa comparazione con altri interessi
pubblici e privati coinvolti135.
133
Come noto, l’amianto per le sue caratteristiche (potere di resistenza al calore e di isolamento) è stato
diffusamente e massicciamente utilizzato (come isolante termico e barriera antifiamma) sia nell’edilizia abitativa
privata che pubblica e industriale per pareti divisorie, coperture, soffittature, canne fumarie, pavimentazioni
(segnatamente con eternit) tra il 1965 fino agli anni 1990. E’ stato poi vietato per i riscontrati effetti cancerogeni
(asbestosi) solo con l’entrata in vigore della L. 257 del marzo 1992 (Norme relative alla cessazione dell’impiego
dell’amianto) e relative modifiche di cui alla L. 24 aprile 1998 n. 128. Sulla vicenda amianto v. i contributi
raccolti nel volume Inquinamento da amianto, a cura Di M. P. VIPIANA, Utet, 2014.
134
Sulle discrasie e contraddizione, specie in sede attuativa, tra norme primarie e secondarie, v. già segnatamente
G. AMATO, Rapporti tra norme primarie e secondarie, Milano, 1962; ID., Disposizioni di attuazione, in Enc. dir,
Milano, XIII, 1964; N. SAITTA, Premesse per uno studio delle norme di organizzazione, Milano, 1965; quindi
con nuove riflessioni G. U. RESCIGNO, L’atto normativo, Bologna-Roma, 1999, 30 ss; A. P IZZORUSSO,
Delegificazione, in Enc. dir.Aggiorn., Milano, 1999, III, 492 ss; e soprattutto A. R OMANO TASSONE, La
normazione secondaria, in AA. VV., Diritto amministrativo, Bologna, 2005, 47 ss.
135
Come esattamente rilevato da DELL’ANNO, Normativa tecnica, cit., 398. Tale valutazione costituisce, come
ben noto, espressione tipica del potere discrezionale amministrativo su cui, oltre agli autori già citati, v. per
profili generali R. TOMEI, L’approvazione amministrativa, Torino, 1990, 40 ss; M. BOMBARDELLI, Decisione e
pubblica amministrazione. La determinazione procedimentale dell’interesse pubblico, Torino, 1997, 30 ss; A.
POLICE, La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell’esercizio del potere
discrezionale, Napoli, 1998, 50 ss.
58
In questo contesto, l’emanazione di norme tecniche, in qualsiasi fonte siano concepite,
costituisce un prezioso strumento di autolimitazione della discrezionalità esercitabile da parte
delle pubbliche amministrazioni.
9. Considerazioni su rilevanza pubblicistica delle norme tecniche e sulle esigenze di
coordinamento interpretativo
Dal quadro espositivo dianzi delineato emerge, in modo inequivoco, come, nel settore
dell’edilizia e della scienza delle costruzioni, le norme tecniche abbiano assunto un ruolo
oltremodo rilevante e tendenzialmente ormai insostituibile.
Occorre registrare che tale ruolo è venuto assumendo valenza espansiva non solo
nell’ambito dell’edilizia come dianzi evidenziato, ma anche nei procedimenti delle scelte di
pianificazione urbanistica. Già una datata sentenza della Corte costituzionale (n. 38 del 1966)
aveva rilevato che il potere di pianificazione, in quanto condizionato da elementi di
valutazione tecnica, “si deve svolgere entro determinati confini di carattere obiettivo”. La
tecnicità e l’obbiettività di certe valutazioni territoriali (invero acclaramenti più che
accertamenti), le caratteristiche delle aree e dei suoli, in sostanza la “natura dei fatti”,
costituisce il limite naturale al potere di pianificazione che da recente giurisprudenza è stato
denominato “ragionevolezza tecnica”
136
. Del resto, è un dato acquisito che le singole
previsioni urbanistiche devono fare costante riferimento alle caratteristiche del territorio
globalmente considerato, con il criterio che gli urbanisti chiamano “qualità urbana” e con le
sue regole137.
Nell’ambito del “uso e governo del territorio”, come del resto in altri settori, le
normative tecniche sono venute assumendo un duplice rilievo, anche sotto il profilo
funzionale. Da un lato, esse traggono il loro fondamento dal mondo e dalle “scienze tecniche
e specialistiche” e, in questo senso, sono considerate “tecniche” con riguardo al loro
contenuto e alla loro valenza. Sotto il diverso profilo della teoria generale, emerge che tali
136
Cons. Stato, Sez. VI, 12 maggio 2012 n. 2521, in Giuridiz. Amm., 2012, I, 876 con riferimento all’esigenza
dell’istruttoria adeguata e della motivazione congrua..
137
Cfr. F. INDOVINA, Governare la città con l’urbanistica, Rimini, 2012, 163. Che tali regole costituiscano un
limite al potere di scelta discrezionale è stato messo in evidenza anche dai giuristi: G. M ENGOLI, Sui limiti del
potere di pianificazione urbanistica, in Riv. giur. ed., 1983, II, 316 ss; nonché G. SCIULLO, Discrezionalità di
piano e selezione degli interessi, in Riv. giur. urb., 1987, 53 ss; da ultimo P. PORTALUPI, Poteri urbanistici e
principio di pianificazione, cit., passim.
59
norme sono “tecniche” in quanto svolgono un ruolo strumentale e servente ad un fine
determinato e sotteso e prefissato dal disegno normativo in funzione dell’esito decisionale
dell’Amministrazione (v. infra).
Come si è visto, diverse sono le modalità di produzione delle norme tecniche come
parimenti diverso il loro inserimento nell’ordinamento generale138. Nel settore qui preso in
esame può essere individuata un’empirica summa divisio.
Anzitutto vi sono delle “norme aperte o indeterminate”, assunte dal legislatore, nella
fattispecie dal T.U.E., come criteri regolamentari affidati al regolatore locale (il Comune)
tramite la legittimazione delle norme di piano o di regolamento. Il contenuto concreto della
norma giuridica, vale a dire gli obblighi sostanziali e le regole di apprezzamento, sono rimessi
nel e dal piano a valutazioni tecniche puntuali, da adottare caso per caso (per ambito e per
zona), sulla base di criteri applicativi desunti dalle discipline tecniche e scientifiche e
connesse alla progettualità dei piani stessi. Tale sistema assicura flessibilità ed adattabilità
nella singola fattispecie ma tende anche ad evitare il formarsi di valutazioni disomogenee.
In questo gruppo di normative tecniche, si è visto, assumono specifica rilevanza i c.d.
“parametri”. Tale termine, anche nel linguaggio comune nel suo significato etimologico
(para-metro), sta ad indicare un “criterio di valutazione e/o di giudizio”, un”punto di
riferimento”139. Tali parametri, come si è potuto constare, sono, tuttavia, destinati, ad
assumere valenze diverse. Mentre i parametri edilizi traggono la loro fonte genetica da valori
fisici, numerici e matematici (si pensi alle altezze, alle distanze, al numero dei piani, alle
diverse tipologie di superficie) in quanto finalizzati a stabilire la “consistenza edilizia” dei
fabbricati; diversa è la finalità dei parametri urbanistici che, come si visto, individuano,
invece, dei rapporti, tutti funzionali a disciplinare le utilizzazioni dei suoli nelle diverse aree
138
La dottrina ha già tentato di offrire una lettura sistematica della normativa tecnica, con particolare riferimento
alla materia ambientale: v. V. ONIDA, Il sistema delle fonti in materia ambientale, con particolare riferimento
alla normativa tecnica, AA. VV., Razionalizzazione della normativa in materia ambientale, Atti Convegno di
Castel Ivano, Milano, 1994, 66 ss; nonché M. CECCHETTI, Note introduttive allo studio delle normative tecniche
nel sistema delle fonti a tutela dell’ambiente, in U. DE SIERVO (a cura di), Osservatorio sulle fonti 1996, Torino,
1996, 142 ss; Id., Prospettive per una razionalizzazione della “normazione tecnica”a tutela dell’ambiente
nell’ordinamento italiano, in Governo dell’ambiente e formazione delle norme tecniche (a cura di S. GRASSI e
M. CECCHETTI), Milano, 2006, 41 ss; sul problema connesso e più generale dell’innesto della “tecnica” sulle
norme giuridiche v. da ultimo P. LAZZARA, La normativa tecnica. Integrazione tra pubblico e privato nella
prospettiva della pluralità degli ordinamenti, in Scritti in onore di A. Romano, Napoli, 2011, I, 395 ss.; del resto,
la stessa classificazione e distinzione tra fonti atto e fonti fatto ha, da sempre, alimentato fitte discussioni in
dottrina a cui si rinvia: tra cui segnatamente V. CRISAFULLI, Fonti del diritto, in Enc. dir., Milano, 1968, XVII;
A. M. SANDULLI, Fonti del diritto, in Noviss. Dig. It., Torino, 1961, VII,
139
Basti citare N. ZINGARELLI, Vocabolario della lingua italiana, Bologna, 1970, ad vocem; De Agostini,
Dizionario della lingua italiana, Milano, 1998, ad vocem.
60
dei piani e a stabilirne l’indice di utilizzazione e quindi di edificabilità. Il rapporto, in tal
senso, sta ad indicare una relazione, un legame tra fatti e potenzialità edificatoria, fino ad
escluderla per effetto del parametro stesso.
Un altro modello di normazione tecnica è, invece, rappresentato da quelle disposizioni
di natura tecnica direttamente inserite nel tessuto normativo ovvero, con norma di rinvio o di
collegamento, in atti amministrativi (regolamento o decreto), dotati, tuttavia, della medesima
natura ed efficacia giuridica dell’atto in cui sono incorporati. Nel sistema delle fonti, questa
tipologia di norme presenta una forma di collegamento assai diffusa. Il modello è quello di un
intervento normativo statale (il T.U.E. nel caso di specie) che incorpora la norma tecnica nella
norma giuridica. In una prima fase, vengono elaborate le norme tecniche (tramite l’ausilio e
l’apporto di esperti o di organi pubblici specializzati); in una seconda fase, le proposizioni
tecniche vengono recepite da fonti normative di rango secondario (decreto o circolare). La
previsione legislativa opera come norma sulla formazione tecnica, indicando la fonte prescelta
per incorporare la norma tecnica nell’ordinamento generale, le finalità da perseguire, i criteri
direttivi sui quali informare le scelte.
Esempio significativo di tale modello, si è potuto riscontrare nell’esaminata disciplina
introdotta dall’art. 52 del T.U.E., che ha affidato al Ministero delle infrastrutture (sentito il
Consiglio superiore dei Lavori pubblici e il CNR) la funzione della redazione ed
approvazione delle norme tecniche in materia di elementi costruttivi degli edifici
(progettazione, esecuzione e collaudo), di verifiche di carattere idrogeologico del terreno, di
fondazioni, ponti, dighe, acquedotti, fognature ed altre opere.
In questa tipologia normativa, l’enunciazione dei requisiti di sicurezza attraverso
clausole generali, o standard normativi, si accompagna ad un richiamo espresso alle norme
tecniche elaborate in sede ministeriale, attraverso un rinvio automatico e dinamico 140. Più
precisamente, il legislatore, nel rinviare all’utilizzazione delle tecnologie, introduce una
presunzione di conformità e funzionalità della normativa tecnica per assicurare le esigenze di
sicurezza.
In entrambe le tipologie di norme, emerge in termini chiari, la funzione di
“strumentalità” della tecnica, intesa come applicazione di una scienza per soddisfare una
qualche esigenza pratica assurta ad interesse pubblico dall’ordinamento. Tale funzione pone,
da sempre, un delicato problema di coordinamento e di connessione tra le diverse tipologie
140
In tal senso: A. ZEI, Norme tecniche, cit., 72.
61
normative. E’ un dato scontato che vi sia e vi debba essere un trait d’union fra tutte le regole
che hanno un qualche contenuto “tecnico”, da un lato, e le norme che dettano le condizioni
per il perseguimento di un determinato fine, dall’altro141. Trattandosi di nozioni che si
spiegano su piani distinti seppure convergenti, come esattamente già rilevato, “la collocazione
della linea di confine tra quelle che, per tradizione, si sogliono chiamare norme tecniche e le
rimanenti è estremamente difficile, per non dire impossibile”142.
In proposito, è’ stato acutamente osservato che “la scienza è diventata la fonte più
autorevole di conoscenza del diritto, il diritto è un fattore determinante nello sviluppo della
scienza, che si muove socialmente attraverso una rete normativa” 143 ed, a tal fine, è stata
auspicato il modello di “co-produzione”, inteso come “strumento interpretativo del reciproco
generarsi del linguaggio della scienza e del diritto”, in una prospettiva di convergenza
necessaria tra scienza e diritto in relazione ai problemi che essi devono risolvere in via
congiunta144.
Va, peraltro, sottolineato che la linea di confine tra sistema delle fonti e i fatti e
comportamenti
prescrittibili è sempre solo
rinvenibile nell’ambito
della singola
fenomenologia giuridica e non è mai a priori definibile. In ogni società ed in diversi momenti
storici, è dato di constatare come si rinvengano particolari atti e fatti prescrittivi (fonti)
destinati a produrre un sistema di prescrizioni (dette norme giuridiche), dotato di un ruolo
particolare volte al perseguimento di particolari fenomeni e specifiche esigenze di vita. E’ un
dato scontato che le prescrizioni giuridiche siano e vadano ricavate da entità concrete
percepibili, o quanto meno individuabili storicamente e attualmente. Un dato normativo
costituisce il modello classico di atti e fatti prescrittivi in cui si sostanzia la realtà giuridica e
la norma tecnica ne costituisce esempio sintomatico.
Lo svolgersi e l’intrecciarsi di tutti i molteplici atti e fatti prescrittivi (variamente
condizionanti e condizionati), contribuisce a formare quel particolare, ma essenziale, aspetto
141
Messa in evidenza già da A. DE VALLES, Norme giuridiche e norme tecniche, in Studi per A. C. Jemolo,
Milano, 1963, 177 ss.
142
Così già SANDULLI, Le norme tecniche dell’edilizia, cit., 565.
143
M. TALACCHINI, Scienza e diritto. Prospettive di co-produzione, in Riv. di filosofia del diritto, 2012, n. 2,
314.
144
Come giustamente evidenziato da P. M. VIPIANA, Considerazioni introduttive al Convegno Diritto, scienze e
tecnologie, Università degli Studi del Piemonte Orientale, Alessandria, 4 marzo 2016, che richiama le
indicazioni di TALACCHINI, cit., spec. 316-318.
62
della realtà sociale che è stato denominato esperienza o fenomenologia giuridica145 e di cui il
diritto rappresenta un momento essenziale e ben delimitabile.
Onde conseguire un obiettivo coerente di apprezzamenti valutativi, in relazione
dell’interesse pubblico e collettivo che le normazioni tecniche intendono perseguire, appare
sempre più indispensabile utilizzare il procedimento interpretativo ed applicativo nella sua
funzione più propria. Interpretare, infatti, nel suo significato più aderente, significa cercare di
chiarire il contenuto e il significato delle previsioni normative sia in sé e per sé, ma anche nel
loro molteplice combinarsi146.
Com’è stato giustamente, avvertito l’interpretazione, oggi più che mai soprattutto per
perseguire l’esigenza di una maggiore aderenza del diritto alle concrete e mutevoli esigenze
della società e del mercato, deve essere intesa, ormai, come un’operazione diretta, non già ad
“estrarre” le norme dai fatti ed atti normativi, bensì ad utilizzare il contenuto delle fonti per
perseguire un obiettivo di coerenza e di funzionalità con la realtà sociale sulla base
dell’esperienza e della fenomenologia giuridica intesa quale realtà sociale raffrontata ai vari
tipi di fatti e atti configurati dalle norme147. Ciò in quanto le prescrizioni giuridiche (siano e
meno fonti di diritto) si combinano sempre, nell’operare, con fatti e comportamenti per taluni
aspetti estranei ai loro contenuti.
In conclusione, e proprio con riferimento alla funzione ed al ruolo sempre più diffuso
della normazione tecnica, segnatamente nell’attuale momento storico, la combinazione tra
145
Sul concetto di esperienza e di fenomenologia giuridica v. già F. OPOCHER, Il valore dell’esperienza
giuridica, Treviso, 1947; V. FASSÒ, La storia come esperienza giuridica, Milano, 1953; B. GIULIANO, Ricerche
in tema di esperienza giuridica, Milano, 1957; BARATTA, Ricerche su “essere” e “dover essere” nell’esperienza
normativa e nella scienza del diritto, Milano, 1968; L.M. FRIEDMAN, Fenomenologia e scienza del diritto, in
Riv. int. fil. dir., 1971, 30 ss; V. ORESTANO, Della “esperienza” giuridica vista da un giurista, in Riv. trim. dir. e
proc. civ.,1980, 60 ss.
146
Impossibili citazioni con pretesa di completezza nella vastissima letteratura giuridica; sulle finalità della
funzione interpretativa tra i molti e con diversi approcci: già M.S. GIANNINI, L’interpretazione dell’atto
amministrativo e la teoria giuridica generale dell’interpretazione, Milano, 1939; R. SACCO, Il concetto di
interpretazione del diritto, Torino, 1947; M. GALLONI, L’interpretazione della legge, Milano, 195; quindi E.
BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano, 1955 2 voll.; Id., Interpretazione della legge e degli atti
giuridici, Milano, 1971; quindi G. TARELLO, L’interpretazione della legge, Milano, 1980; V. FROSINI, Lezioni di
teoria dell’interpretazione giuridica, Milano, 1992; R. GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi,
Milano, 2004; F. PETRILLO, Interpretazione giuridica, in il Diritto. Enciclopedia del Sole 24 Ore, Milano, 2007,
VIII, 156 ss. tra gli amministrativisti recentemente: L. B ENVENUTI, Interpretazione e dogmatica nel diritto
amministrativo, Milano, 2002; A. TRAVI, Il metodo nel diritto amministrativo e gli “altri saperi”, in Dir. pubbl.,
2003, 865 ss.
147
Si tratta di utilizzare gli strumenti tradizionali dell’attività interpretativa ricorrendo sia all’interpretazione
sistematica tramite l’utilizzazione di più norme per una stessa fattispecie, sia all’interpretazione combinatoria
tramite l’utilizzazione di altre proposizioni normative volte a combinarsi e ad integrarsi in un complesso
sistemico, quali appunto la connessione tra disposizioni regolamentari e normative tecniche. Su tali modelli
interpretativi v. oltre agli autori già citati: R. ZACCARIA, L’arte dell’interpretazione, Padova, 1990, 30 ss; L.
BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione, Milano, 1994, passim.
63
diritto (come sistema di contenuti ricavabili da determinati tipi di prescrizioni) e la
fenomenologia giuridica, come sopra latamente intesa, non può non restare sempre utile e
valida.
Appare di tutta evidenza che tale combinazione è destinata ad assumere una rilevanza
del tutto peculiare nella disciplina del “governo del territorio” intesa nel significato
pluridisciplinare già evidenziato148.
148
Come del resto ben evidenziato dalla più recente dottrina: tra cui L. C ASINI, L’equilibrio degli interessi nel
governo del territorio, Milano, 2005; P. URBANI, Territorio e poteri emergenti. Le politiche di sviluppo tra
urbanistica e mercato, Torino, 2007; E. BOSCOLO, Governo dl territorio, in Il Diritto. Enciclopedia giuridica del
Sole 24 Ore, Milano, 2007, VII, 183 ss; S. AMOROSINO, Il governo dei sistemi territoriali, Padova, 2008.
SCIENZA E TECNICA
TRA DIRITTO EUROPEO E DIRITTO COMPARATO
Giuseppe Franco Ferrari
(Università Bocconi)
La centralità della scienza, e in particolare delle scienze esatte149, ha sempre avuto un
significativo ruolo nella «formazione della consapevolezza del mondo politico e sociale»150, e
della sua razionalizzazione in senso weberiano, del suo disincantamento, viene
frequentemente ricondotta151 alla crisi dei modelli culturali ed interpretativi di matrice
teologica e filosofica, i quali perdono attendibilità nella spiegazione dei fenomeni
dell’esperienza umana, consentendo alle scoperte matematiche, fisiche, chimiche, biologiche,
mediche di occupare il terreno e di imporre la scienza moderna, ponendola al servizio della
volontà umana e del vivere civile. Si tratta di un processo che ha inizio nel periodo tra il
secolo XVI e il XVII, ovvero non a caso tra le riflessioni di Hobbes152 e Leibniz. Del resto, in
questo periodo le metafore meccanicistiche (dall’orologio di Cartesio a quelle, sempre
incentrate sugli orologi, di Leibniz e Boyle) vengono usate per spiegare il funzionamento
dell’universo a preferenza di quelle relative alle parti del corpo (usate nell’antichità, tra gli
altri, da Platone e Tito Livio).
149
Il classico sul rapporto tra scienze umane e scienze della natura è C.P. SNOW, The Two Cultures and a Second
Look: an expanded version of the two cultures and the scientific revolution, Cambridge, 1964, trad. it. Milano,
1970; ma cfr. anche A. FERNÁNDEZ-RAŇADA, Los muchos rostros de la ciencia, Madrid, 2002, trad. it. I mille
volti della scienza. Cultura scientifica e umanistica nella società contemporanea, Bari, 2003.
150
Cfr. R.C. LEWONTIN, Biology as Ideology, The Doctrine of DNA, New York, 1992, trad. it. Torino, 1993.
151
V. da ultimo E. CASTORINA, Scienza, tecnica e diritto costituzionale, in Riv. AIC, n.4/2015, 1.
152
D’altronde è proprio a Hobbes che si deve l’idea di scienza come sistema delle possibili imputazioni causali:
cfr. A.G. GARGANI, Hobbes e la scienza, Torino, 1971, rep. 1983, 253 ss.
66
La ricerca di regole oggettive sul funzionamento dei corpi politici e delle istituzioni
costituzionali transita a maggior ragione nel razionalismo settecentesco, dove pure Rousseau
definisce macchina la società politica, benché animata da entità spirituali impalpabili come la
volontà generale. Ancor di più Montesquieu ricerca leggi positive conformi all’ordine
generale delle cose, in cui l’esprit si traduce. Non a caso il linguaggio politico-giuridico
britannico attribuirà una connotazione deteriore a engine o machine applicati alle scienze
sociali e preferirà parlare di balance per dare conto della storia dei sistemi politici e della loro
evoluzione.
Il pensiero di Hume contribuisce a riposizionare il ruolo della scienza e della tecnica
rispetto al mondo del diritto. La distinzione tra essere e dover essere, che applicata al diritto
pubblico significa in fondo che le regole istituzionali non possono contraddire la natura delle
cose o almeno interferire con essa153. Qui la valenza storicistica del pensiero di Hume e degli
autori che ad esso direttamente o indirettamente si ispirano appare evidente rispetto al
razionalismo di marca francese o germanica, e soprattutto del primo, che dall’età
rivoluzionaria sposa chiaramente l’idea che l’ingegneria istituzionale possa prescindere dalla
storia e girare nettamente pagine o costruire ordinamenti politici ex novo, scrivendoli su
pagine bianche154.
La scienza cambia ruolo con il costituzionalismo contemporaneo, da Weimar alle
Carte del secondo dopoguerra ed oltre. Il costituzionalismo dei valori porta non solo al
superamento della separazione rigida tra istituzioni politiche e società civile, ma anche
all’assunzione della scienza stessa, dell’arte e della tecnica nel quadro assiologico dei valori
da bilanciare e caso per caso ed ordinare ad opera di Corti costituzionali, Parlamenti ed
opinione pubblica. Di qui il compito non solo di protezione ma anche di promozione dello
sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica inserito in carte come la nostra, ma
riecheggiante quelle tedesche del 1848, del 1919 (art. 142), del 1949, e ribadito dall’art. 13
della Carta di Nizza. E dove manca la previsione esplicita, le Corti hanno ricondotto la loro
protezione a forme sviluppate della manifestazione del pensiero o ricavate dalla loro
penombra.
153
Cfr. J.W. DARNFORD, David Hume and the Problem of Reason: Recovering of Human Sciences, New York,
1990 e A. SANTUCCI, Introduzione a Hume, Bari, 2005, 112 ss., nonché le pagine 145-158 del libro di D.
OLDROYD, The Arch of Knowledge. An Introductory Study of the History of the Philosophy and Methodology of
Science, London-New York, 1986, trad. it. Milano, 1989, 2002.
154
Rimane interessante e divertente, in proposito, H. GUILLEMIN, “Cette affaire infernale”, l’affaire J.-J.
Rousseau – D. Hume 1766, Paris, 1942.
67
La disciplina costituzionale presuppone che la scienza sia libera intrinsecamente, non
subisca coazione, non sia indirizzata autoritativamente o unilateralmente, non subisca
imposizioni. La libertà della scienza tutela sì la libertà dei singoli, ma soprattutto protegge il
valore delle attività scientifiche e tecnologiche in sé e per sé: non per nulla parte della dottrina
tedesca interpretò la libertà della scienza come garanzia istituzionale, tesi peraltro confutata
da Pototschnig nel fondamentale scritto del 1961. Lo stesso tipo di protezione e promozione
non può non essere riservata alle arti (specie a quelle useful, come asserito dall’art. I, sez.
VIII, n. 8 della Carta di Filadelfia, che avendo applicazioni pratiche meritavano copertura
come property intellettuale), e quindi anche alle tecnologie. Si noti come autori tanto diversi
come Heidegger e Marcuse spendano parole molto simili sull’identificazione di arte e tecnica.
Il che non significa, come è noto, assenza di limiti per la libertà, come la salute, la
sicurezza, il consenso informato dei soggetti passivi di eventuali sperimentazioni cliniche, più
recentemente anche i diritti degli animali.
Né implica che ogni ricerca scientifico-tecnologica debba essere finalizzata a scoperte
che producano effetti concreti nell’ordinamento. La ricerca deve sempre poter essere fine a se
stessa, dettata da semplice curiosità teoretica (theoretische Neuger: C.F. von Wieiszäcker) in
autonomia.
Nell’era in cui la natura non è più semplicemente oggetto di studio da parte della
scienza, che ne studia i segreti, mentre la tecnica, in una fase logicamente e cronologicamente
distinta, si sforza di imitarla senza alterarne gli equilibri, ma invece è l’uomo a conquistare la
supremazia sulla natura, mentre scienza e tecnica, unificate in tecnoscienza, la ricreano,
riunendo l’approccio osservativo-constatativo e quello operativo-manipolante, e viene meno
la distinzione aristotelica tra téchne, sapere relativo alla produzione, e phrónesis, sapere
relativo all’agire umano, la tecnica si pone heideggerianamente al centro della realtà effettiva
e come tale, così come presuppone fondamenti etici univoci ed universalmente vincolanti in
cui il dover essere non può prescindere dall’essere, analogamente abbisogna di regole
giuridiche globali e non più locali, che governino sul piano sincronico il suo impatto
universale e su quello diacronico i suoi effetti intergenerazionali, tenendo conto della sua
incidenza sulle dimensioni spazio-temporali.
Nell’età della biotecnologia, o se si preferisce il linguaggio di Jeremy Rifkin, del
passaggio dall’alchimia all’algenia, in cui il controllo creativo-manipolativo della biosfera è
totale, non vi è più fattispecie scientifico-tecnologica che sfugga alla capacità dell’uomo di
68
riforgiare la materia e di incidere sull’evoluzione. L’immissione nell’ambiente di organismi
animali o vegetali trattati geneticamente, il loro utilizzo in agricoltura, l’impiego a valle, nel
ciclo alimentare, di prodotti derivati da Ogm anche senza contenerli, la diminuzione della
biodiversità genetica o il suo aumento, la replicazione, la selezione eugenetica possono essere
fonte di straordinari miglioramenti della qualità della vita dell’uomo, per i fautori del
progresso tecnologico ad ogni costo, o fonte di danni irreparabili nello spazio di più
generazioni, per i fondamentalisti ambientali. Ciò che è certo, tuttavia, è che una volta che una
di tali iniziative biotecnologiche ha iniziato ad avere luogo in uno o più ordinamenti statali,
difficilmente si può prevenire l’espansione del fenomeno. La migrazione degli scienziati o la
facile superabilità delle frontiere nazionali da parte di merci sempre più rapidamente
circolabili determinano la globalizzazione delle applicazioni biotecnologiche.
Ne deriva che le regole pubblicistiche destinate a presiedere alla disciplina della
tecnoscienza devono, almeno in prospettiva, collocarsi a livello globale, come d’altronde le
stesse regole etiche, in un comune quadro assiologico, orientato che sia - come si è detto - in
senso sostanzialistico o proceduralistico. Ciò per evitare che singoli governi, gruppi di
interesse, lo stesso mercato finiscano con l’assumere determinazioni vincolanti in fatto per la
scienza e per l’umanità intera.
La separazione di scienza e poteri di imperio non significa che periodicamente, e in
anni recenti sempre più continuamente in ragione dell’accelerazione dello sviluppo
tecnologico, la società civile non possa richiedere l’inserimento in dati normativi di risultanze
(conquiste) di scienza e tecnologia, la cui rilevanza ordinamentale può derivare da esigenze
sociali, politiche o economiche.
In altre parole l’emersione di scoperte o invenzioni o comunque elaborazioni
tecnologiche dallo stato comunità allo Stato ordinamento attraverso il filtro democratico del
riconoscimento di utilità/opportunità/necessità è uno strumento comunicativo tra le due sfere.
Tra l’altro impedisce la prevalenza di un modello tecnocratico autopoietico o
autoriproduttivo, contestato ad esempio da Fisichella155 e Habermas156. E dà nerbo nuovo alla
democrazia in tempi di tecnologia e globalizzazione. Anche per tenere conto della fallibilità
della scienza, modo di progresso della ricerca scientifica stessa (Popper). Si pensi al diritto ad
internet (Costanzo), con cui taluni ordinamenti costituzionali si aprono al mondo, accettando
tecnologie deterritorializzate, la cui gestione, oltre che l’eventuale controllo del gestore prima
155
156
Si veda D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, Milano, 1983.
Si veda J. HABERMAS, Nella spirale tecnocratica. Un'arringa per la solidarietà europea, Roma-Bari, 2014.
69
che di soggetti pubblici, può apportare vincoli e violazioni della riservatezza impensabili in
presenza di forme tecnologiche più primitive o meno sviluppate.
Riassuntivamente, come scriveva Felix Frankfurter, la scienza ha avuto di regola
effetti dominanti sull’evoluzione del diritto, promuovendola e favorendola.
Per converso la tecnologia può anche portare a reazioni di segno opposto rispetto al
riconoscimento: tutela, divieti fino a nuovi sviluppi, nuovi diritti contrapposti come reazione a
novità tecnologica. Si ricorda ad esempio, in questo secondo senso, l’episodio della vendita di
un testicolo da un giovane napoletano negli anni ’30 (perché venisse innestato su un cittadino
americano che lamentava la perduta vigoria sessuale)157 e per reazione l’inserimento del
divieto di atti di disposizione del proprio corpo nel codice civile del 1942.
Nello stesso senso l’introduzione del pur meritevole diritto alla privacy158 come
reazione alla fotografia: “Instantaneous pictures have invaded the sacred precinct of private
and domestic life”159.
In altri casi ancora, si dà l’ipotesi di tentativi di occultamento di scoperte aventi
impatto giuridico sfavorevole e conseguenze economiche pregiudizievoli: si pensi, ad
esempio, alla pericolosità dell’amianto, o alla dannosità per la salute di sostanze alimentari o
principi attivi.
Ma più spesso la scienza e la tecnica comportano adeguamenti legislativi,
giurisprudenziali, amministrativi da parte dell’ordinamento, migliorandolo o almeno
adeguandolo al progresso.
Seguendo Guido Calabresi, si possono citare come esempi l’introduzione
dell’aeronautica e i suoi effetti sia sulla proprietà fondiaria in diritto civile e che nello spazio
aereo sovrastante il territorio in diritto pubblico; la gittata delle armi ed i suoi
condizionamenti sull’estensione del mare territoriale160; l’invenzione del filo spinato o
157
Su cui: Corte di Cassazione del Regno, II sez. pen., 31 gennaio 1934, in Foro it., 1934, II, c. 146 ss., con nota
di G. ARANGIO-RUIZ, Contro l’innesto Woronoff da uomo ad uomo.
158
Come è noto, del concetto si è debitori a S.D. WARREN, L.D. BRANDEIS, The Right to Privacy, in Harvard
Law Review, Vol. 4, No. 5 (Dec. 15, 1890), 193-220.
159
I casi principali della Corte Suprema in materia di privacy sono: Pierce v. Society of Sisters,268 U.S. 510
(1925), con cui i giudici invalidano l’iniziativa legislativa dell’Oregon volta a introdurre la scuola pubblica
obbligatoria; Griswold v. Connecticut, 381 UY.S. 479 (1965), in cui il diritto fu sancito per la prima volta in
maniera esplicita; i noti Roe v. Wade, 410 U.S.113 (1973) (aborto) e Lawrence v. Texas, 539 U.S. 558 (2003)
(reato di sodomia).
160
Articolo 3 della Convenzione di Montego Bay, secondo il quale ogni Stato è libero di stabilire l'ampiezza
delle proprie acque territoriali, fino ad un massimo di 12 miglia marine, misurate a partire dalla linea di base
(linea di bassa marea indicata nelle carte nautiche).
70
uncinato (barbwire)161 suscettibile di produrre il passaggio da legislazione pro ranger a
legislazione pro farmer, e comunque anche un mutamento di interpretazione a legislazione
immutata; l’evoluzione della psichiatria e ricadute sulla capacità giuridica ai fini civili e
penali; il mutamento delle categorie economiche circa i meccanismi antitrust (scuola di
Chicago, anni ’60) e le ricadute sui parametri giuridici della disciplina antitrust e le sue
applicazioni; il mutamento di definizione del concetto scientifico di morte e le sue
implicazioni su trapianti, morte assistita e simili162.
Va poi ricordata, nello stesso senso, la scoperta del DNA con le applicazioni
informatiche su di esso163, con conseguente mutamento della medicina legale e della
disciplina probatoria nel processo164. Inoltre, rilevano le neuroscienze e la loro incidenza sullo
sviluppo delle capacità intellettuali dell’adolescente165: possibili sviluppi si attendono anche
dalla Neuroetica166.
Lo sviluppo della scienza può avere ed ha in fatto ricadute sulla tutela dei diritti umani
(cfr. ad es. le azioni intentate negli USA avverso aziende farmaceutiche per violazione dei
diritti umani, sulla base dell’Alien Tort Statute, per sperimentazioni umane di nuovi farmaci:
caso Pfizer, giunto alla Corte Suprema che rigetta l’appello per la cessazione della lite. La
161
Abolizione delle open range law; primi casi di trespass e risarcimento a favore dei privati: Lazarus v. Phelps,
156 U.S. 202 (1894), interpreta restrittivamente la legge del Texas nel senso di consentire solo l’accidental
trespass.
162
La morte coincide in Italia ex art. 1 L. 578/1993 con la «cessazione irreversibile di tutte le funzioni
dell’encefalo». In Usa è stata accettata la definizione fornita nel Uniform Determination Act proposto dalla
National Conference of Commissioners on Uniform State Laws, la quale faceva riferimento alla morte cerebrale,
definizione che peraltro pare aver convinto la maggior parte degli ordinamenti appartenenti alla western legal
tradition. Tuttavia, il New Jersey Declaration of Death Act del 1991 dispone che la morte sia eccezionalmente
fondata su basi cardiorespiratorie quando il medico abbia ragionevoli motivi di credere che il criterio cerebrale
violi le credenze religiose dell’interessato. In Giappone, la maggior parte dei cittadini non accettava di
considerare i propri cari morti pur in presenza di segni tangibili vitali quali il permanere sia pur meccanicamente
assistito del battito e del respiro. Nel 1997 il Parlamento approvò la Organ Transplantation Law che lega alla
volontà dell’individuo il criterio di riferimento per individuare la morte (e in assenza di indicazioni espresse il
criterio rimane quello dell’arresto del battito cardiaco).
163
Ai sensi dell’art. 3 della Carta di Nizza «2. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in
particolare rispettati: - il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla
legge, - il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle
persone, - il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro, - il divieto della
clonazione riproduttiva degli esseri umani».
164
Primi casi di uso della prova del DNA nel processo: United States v. Jakobetz, 955 F.2d 786 [2d Cir. 1992].
L’ammissibilità della prova scientifica del DNA è soggetta al superamento di un duplice test: Frye o general
acceptance standard e Daubert o relevancy-reliability standard. In base al primo, l’ammissibilità dipende
dall’impiego di una tecnica per l’acquisizione «sufficiently established to have gained general acceptance in the
particular field in which it belongs». Daubert è stato recepito dalle Federal Rules of Evidence e stabilisce
l’ammissibilità della prova che dimostri «any tendency to make the existence of any fact that is of consequence
to the determination of the action more probable or less probable than it would be without the evidence» (Fed. R.
Evid. 401).
165
Si veda la nota Roper v. Simmons, della Corte Suprema, 2005.
166
Cfr. S.J. MARCUS (ed.), Neuroethics: Mapping the Field, San Francisco, 2002.
71
controversia si conclude poi nel settembre 2009, con il raggiungimento di un accordo tra
l’azienda farmaceutica e il governo nigeriano).
Ancora, lo sviluppo delle biotecnologie ha implicazioni sulla proprietà intellettuale del
materiale umano e genetico167. Molte possibilità sono aperte dall’operazione di mutamento
del sesso, come ad esempio la creazione della fattispecie del divorzio imposto a seguito di
rettificazione anagrafica del sesso di uno dei coniugi168.
Molte delle innovazioni recenti sul piano scientifico e tecnologico esaltano la
dimensione transnazionale del diritto sulla base della stessa transnazionalità propria. La
possibilità per i sistemi giuridici di proclamarsi o ritenersi autosufficienti o autarchici viene
ormai progressivamente meno e di solito la chiusura verso le novità scientifiche o il tentativo
di negarle di solito è nel medio periodo destinata a naufragare e produce effetti di boomerang
a carico del sistema negazionista. Da questo punto di vista il ritardo dei singoli sistemi
giuridici va rilevato dal comparatista. Il recepimento varia tra sistemi di common law,
fortemente decentrati e improntati al diritto privato, e sistemi tendenzialmente accentrati a
marca pubblicistica, i quali ultimi però possono essere molto celeri nei recepimenti o lenti ed
ostacolanti l’introduzione di istituti di adeguamento alle novità scientifiche. I sistemi
accentrati sono esposti a maggior rischio, sia in caso di recepimento della novità scientifica
che di rigetto ed occultamento o tentativo di blocco, mentre quelli decentrati, lasciando
167
Non brevettabilità di materiale umano sancita dalla Biotechnology Directive 98/44. Evoluzione del concetto
di embrione umano (non brevettabile) dalla decisione Brustle alla decisione International Stem Cell Corporation
della Corte di giustizia dell’Unione europea. In Brustle si definisce embrione umano «any human ovum after
fertilization … and any non-fertilised human ovum whose division and further developments have been
stimulated by parthenogenesis constitute a ‘human embryo’» [para 38]. In Int’l Stem Cell Corporation la Corte
riconosce che l’ovocita stimolato per partenogenesi (con tecniche chimiche ed elettriche), per considerarsi non
brevettabile non deve semplicemente essere in grado di cominciare il processo di sviluppo in embrione, ma deve
avere un’intrinseca capacità di diventare embrione umano (assente nel caso di specie, essendo l’ovulo attivato
capace di giungere alla fase della blastocisti ma non oltre, mancando del DNA necessario alla formazione della
placenta). «The determination of whether a parthenote has such a capacity is left for the national courts to
determine» [para 36-38]. La pronuncia apre quindi alla brevettabilità del partenote, totalmente esclusa da
Brustle. Nell’ordinamento americano, la Corte Suprema esclude invece la brevettabilità dell’operazione di
isolamento di sequenze di DNA, con particolare riferimento ai geni BRCA1 e BRCA2. I due geni sono, infatti,
ottenuti recidendo i legami chimici che li saldano al DNA, ma l’informazione genetica rilevante ai fini della
brevettabilità dipende dalla sequenza naturale e non dalla composizione chimica della molecola isolata
(Association for Molecular Pathology v. Myriad Genetics, 133 S. Ct. 2107 (2013).
168
La Corte costituzionale italiana (sent. 170/2014) ha sancito l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della
l. n. 164 del 1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), nella parte in cui «non prevedono
che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del
consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente
regolato con altra forma di convivenza registrata. Simile orientamento hanno mostrato la corte costituzionale
austriaca (VerfG 8 giugno 2006, n. 17849) e quella tedesca (BVerfG, 1, Senato, ord. 27 maggio 2008, BvL
10/05) nel assegnare prevalenza nel bilanciamento degli interessi all’interesse pubblico alla preservazione del
paradigma eterosessuale del matrimonio.
72
operare il mercato, dividono il rischio, lo esternalizzano e forse si prestano meno a distorsioni
recettive, ma non per questo sono immuni da errori, che nella globalizzazione sempre più
spesso hanno fonte esterna. Si assume anche (Stalteri) che i sistemi a trazione pubblicistica
affrontino e subiscano maggiori costi indennizzatori a causa dei sistemi di welfare, mentre
quelli a trazione privatistica li assorbirebbero meglio attraverso le assicurazioni e prima
ancora attraverso la dialettica del processo civile. Ma anche questi ultimi hanno pur sempre
bisogno di significativi correttivi pubblicistici.
Quali discipline scientifiche incidono sulla evoluzione del diritto? Principalmente
quelle dure, ma anche quelle umane o sociali (o dello spirito, secondo la formula di Dilthey,
come contrapposte a quelle della natura). Basti pensare allo sviluppo di storia, filosofia,
economia, scienza delle finanze e contabilità, statistica (con i limiti di cui infra), scienza
politica (Sartori), antropologia (Sacco) ed al loro uso sia per il diritto positivo, specie
pubblico, che per il diritto pubblico comparato. E ciò nonostante l’omogeneizzazione dei
principi costituzionali ed, almeno in Europa, delle normative che impongono uniformazione o
almeno convergenza. E nonostante, altresì, la debolezza predittiva delle scienze sociali, che
non si fondano strettamente sul principio di causalità. E nonostante, infine, le dottrine
filosofiche postmoderne che, accostandosi a fenomeni di ampiezza ed intensità sconosciuti in
passato, ne negano l’oggettività, risolvono tutta l’ontologia nello spirito individuale e in
ultima analisi sfociano nel nichilismo o quanto meno nel relativismo assoluto sia
metodologico che fenomenologico (Lyotard, Rorty, Gadamer, Foucault). Proprio per questo le
ricadute sul diritto, specie in termini comparatistici, sono valutabili e magari misurabili solo
se l’ontologia come insieme di fatti complessi assume un carattere formale, e quindi ha un
valore descrittivo, correttivo e neutrale169, non meramente sociale e quindi soggettivo e
condizionato a visioni valoriali individuali o di parte.
La diversa applicazione o applicabilità del principio di causalità nelle diverse
discipline scientifiche non incide sulle ricadute effettuali delle idee scientifiche sul diritto.
Non importa che esse siano intese alla Stuart Mill come somma delle condizioni necessarie
alla produzione dell’evento o con Galileo come condizione eliminata la quale l’evento non
può verificarsi, o ancora alla Von Buri (1873) come equivalenza delle condizioni, o infine che
si tenga conto di come la fisica quantistica, e le altre scoperte scientifiche del ‘900, hanno
dissolto le concezioni classiche della causalità e delle leggi universali lasciandone
169
Cfr. K. MULLIGAN, M taph sique et Ontologie, in P. Engel (dir.), Pr cis de Philosophie anal tique, Paris,
2000.
73
sopravvivere i concetti come acquisizioni etologiche ataviche (concezione fisicalistica di
Heisenberg: Einbildungskraft); ovvero ancora che l’approccio sia frequenzialistico, cioè
fondato sulla presa d’atto della crisi della divisione tra scienza e metafisica (dopo Popper) e
quindi sulla rilevanza statistica dei fenomeni, che peraltro non aiuta, avendo già Hume e poi
Popper dimostrato che l’esistenza di successioni regolari di fenomeni non è che un indizio di
correlazione e non prova empirica (se non psicologica): si ricordi l’esempio del gallo che
canta al sorger del sole, o del barometro che varia con il tempo. La logica scientifica è
irrilevante ai fini effettuali, non sussistendo relazione tra le metodologie utilizzate sul versante
scientifico e le ricadute delle acquisizioni scientifiche stesse.
Di seguito, alcuni esempi di recepimento di fattori tecnologici:
1.
La libertà informatica. Nasce in Italia nella formulazione di V. Frosini nel
1981170 per la protezione delle banche dati promossa dalla rivoluzione tecnologica, prima di
internet, come estensione della libertà personale in versione negativa, per non rendere di
dominio pubblico certe informazioni di carattere personale, e positiva, nel senso di controllo
su dati usciti dalla cerchia della privacy per essere entrati in un programma elettronico. Indi si
diffonde internet e poi entra in vigore la l. 675/1996, che vale per qualunque trattamento,
elettronico o no. Così il diritto diventa anche un diritto di partecipazione alla società virtuale,
partendo dalla comunicazione e forse dalla manifestazione per diventare qualcosa di non
contenibile nella penombra suddetta, a seguito della tecnologizzazione. La libertà informatica
senza specificazioni entra poi nella Carta portoghese (art.35) e in quella spagnola (art. 18.4),
integrata poi dalla LORTAD e dalla Ley orgánica 15/1999. Indi, con versioni varie, essa entra
nelle Costituzioni del Sudafrica del 1993 (artt.13, 15 e 23), della Russia della stessa data e in
numerose Carte sudamericane per lo più con la garanzia dell’habeas data e spesso
dell’amparo costituzionale171. Infine, l’art.8 della Carta di Nizza potrebbe avere un effetto
omogeneizzante sulle giurisprudenze costituzionali europee. Non è qui il caso di ricordare la
strabordante produzione della Corte suprema statunitense, che ha anticipato molti temi in
materia e ha aperto la strada a soluzioni poi circolate largamente in Europa.
Merita comunque di essere menzionata Riley v. California, 2014 in cui la Corte
annovera tra le forme di intrusione nella reasonable expectation of privacy le indagini sui
170
Il riferimento è a V. FROSINI, La protezione della riservatezza nella società informatica, in N. Matteucci
(cur.), Privacy e banche dei dati, Bologna, 1981, 37 ss.
171
Si veda T.E. FROSINI, Tecnologie e libertà costituzionali, in Dir. Informatica, 2003, 487 ss. Sia lecito rinviare
anche a G.F. FERRARI, Le libertà. Profili comparatistici, Torino, 2011, soprattutto 333 ss. e, ID., I diritti
fondamentali dopo la Carta di Nizza. Il costituzionalismo dei diritti, Milano, 2001.
74
metadati contenuti in un dispositivo cellulare. La questione torna di moda in questi giorni con
la richiesta dell’FBI di accedere ai codici interni di apparecchi telefonici di tipo Android ed il
diniego di Google di fornirli, con conseguente ricorso agli hackers per decrittarli.
2.
Nasce dal tema precedente ma se ne emancipa presto collocandosi in una
dimensione pubblicistica ben più ampia e nuova, quella della democrazia elettronica di massa,
virtuale e continua, su cui i giudizi si sprecano in tutti i possibili sensi: da strumento di
partecipazione tecnologico a preludio di una dittatura di massa, da tecnologia migliorativa o
integrativa della rappresentanza a incentivo al populismo attraverso l’automazione.
3.
Diritto alla riservatezza e all’integrità dei sistemi di IT, elaborato dal
Bundesverfassungsgericht (BVerfG, urt. 27.2.2008, BVerfGE 120, 274) sul presupposto che i
recenti sviluppi di internet determino nuove minacce alla libertà delle comunicazioni. In
questo mutato contesto, il diritto alla riservatezza può essere efficacemente tutelato soltanto
ove sia garantita l’integrità e il corretto funzionamento dell’intero sistema delle
telecomunicazioni digitali.
4.
Fine vita. Le risposte degli ordinamenti sono state diversissime. Quasi tutti
peraltro hanno lasciato alla decisione giurisprudenziale di hard cases la risposta. In Italia il
caso Englaro. Negli Stati Uniti la Corte suprema ha risposto sin dal 1990 (Cruzan v. Director,
Missouri Department of Health, 497 U.S. 261), usando sia il procedural due process che le
advance health care directives172.
5.
Privacy e sicurezza nei luoghi di lavoro. In Italia dopo decenni di applicazione
dello statuto dei lavoratori nel senso di proteggere la riservatezza del lavoratore sul luogo di
lavoro e quindi indirettamente la sua dignità, specie allorquando gli strumenti di controllo,
anziché personali, erano meccanici, la riforma del settembre 2015 ha spostato la tutela verso il
merito e le retribuzioni gradate sulla base dei risultati e eliminato la necessità di accordo
172
Il divieto di eutanasia e suicidio assistito tende ad essere in tempi più recenti superato soprattutto per via
giurisprudenziale: Corte costituzionale colombiana, sent. n. 329 del 1997 apre alla non punibilità dell’eutanasia
attiva sostenendo che «La persona quedaría reducida a un instrumento para la preservación de la vida como valor
abstracto». Contra: Corte Suprema degli Stati Uniti, Vacco v. Quill, 521 U.S.793 (1996) e Washington v.
Gluksberg, 521 U.S. 792 (1997), secondo cui il divieto penale dell’assistenza al suicidio anche di malati
terminali non viola la Equal protection clause e la due process clause del XIV emendamento.
75
sindacale, valorizzando le esigenze organizzative, della produzione e della sicurezza. Ora però
il garante e i giudici dubitano dell’innovazione e potrebbero sterilizzarla in via interpretativa,
salvi correttivi nella legislazione delegata. Negli USA soluzioni alquanto diverse: nella
pronuncia City of Ontario v. Quon, 2010, in materia di tutela delle comunicazioni elettroniche
sul luogo di lavoro, Justice Kennedy scrive che la Corte «must proceed with care» quando
l’esame del caso concreto implica il confronto con le “nuove tecnologie” e preferisce risolvere
il caso concentrandosi sul nesso di proporzionalità tra la l’indagine avviata dal datore di
lavoro sui dati di traffico di un cercapersone affidato al dipendente e la finalità dell’indagine
stessa, ovvero la verifica dell’utilità del servizio di messaggeria messo a disposizione dei
dipendenti. In particolare, non costituisce sicuramente una violazione della privacy il recupero
delle conversazioni intrattenute se finalizzato a verificare la necessità di sostenere il costo
collegato al particolare contratto concluso con la compagnia che gestisce il servizio.
6.
Maternità surrogata. In Italia, in base all’art. 6 della l. 40, il commercio di
gameti o embrioni e la surrogazione di maternità sono puniti con reclusione e pena pecuniaria.
Analogo divieto, variamente penalizzato, vige nei Paesi scandinavi, in Francia, Germania e
Spagna. Sono ammessi invece negli Stati Uniti, in Canada ed in Australia, in Sudafrica, come
in molti ordinamenti asiatici, a cui spesso fanno capo richieste dall’Occidente. In Europa
ammettono la gravidanza su commissione Gran Bretagna e Cipro. Gran Bretagna e Canada
vietano peraltro la retribuzione della madre, come alcuni Stati USA. Il Regno Unito consente
tale procedura ai singles, la Grecia la vieta ai gays e richiede la residenza nel Paese agli
aspiranti genitori ed alla madre naturale.
7.
Prelievi ematici e di DNA. In Italia la giurisprudenza fino almeno al 2000
negava la possibilità di sottoporvi l’indagato coattivamente: C. Cost. 238/1996 per mancanza
di norma processuale penale espressa: si trattava del sanguinamento della statuetta di
Civitavecchia. Da un estremo all’altro con il caso Bossetti: 30.000 persone sottoposte a
prelievo coattivo del DNA in totale assenza di sospetti individualizzati alla ricerca di Ignoto
1. Il prelievo coattivo è per esempio previsto da una legge del 2009 in Argentina, ma solo per
il caso dell’identificazione dei figli, illegalmente sottratti, ai desaparecidos, vittime delle
dittatura di Videla.
76
Negli Stati Uniti, il prelievo coattivo del DNA, peraltro in assenza di autorizzazione
giurisdizionale, non viola il IV Emendamento se finalizzato alla mera identificazione del
sospettato e se l’estrazione avviene secondo una procedura che non richiede operazioni di tipo
chirurgico o comunque invasivo (Maryland v. King, 596 U.S. _ (2013)).
SESSIONE POMERIDANA
LE NUOVE FRONTIERE DI SCIENZA E TECNOLOGIA:
DIALOGO E CONFRONTO CON IL DIRITTO
Vincenzo Dovì
(Università di Genova)
E’ talvolta difficile, sia per lo scienziato, sia per il filosofo della scienza, tracciare oggi
un confine netto fra ciò che può essere considerato progresso scientifico e quanto invece
ricade nel campo dell’innovazione tecnologica. Alcune antinomie non risolte, a proposito
delle quali Einstein parlava di fenomeni spettrali, hanno addirittura indotto alcuni scienziati a
mettere in dubbio il principio di realtà, o, quantomeno, ad ipotizzare limiti invalicabili
(«[Nature] …sometimes condescends … to let us know a little about what she is not» [1]).
Altri, in maniera più radicale, semplicemente risolvono i principi scientifici in criteri di
convenienza utilitaristica e attribuiscono al periodo compreso tra la rivoluzione galileiana e i
nostri giorni il valore di un secondo “Achsenzeit”, da considerare sostanzialmente concluso
[2].
Più utile, per il ricercatore che si interroga sui rapporti tra ricerca e diritto e sui limiti
che quest’ultimo può o deve imporre al proprio lavoro, appare la distinzione tra le attività per
le quali i tradizionali paradigmi giuridici non sembrano offrire un sufficiente fondamento e le
80
innovazioni che, pur potendo essere considerate estensioni di tecniche già diffuse, non
appaiono esplicitamente menzionate nelle norme giuridiche e per le quali non sono noti (o
appaiono incerti) gli orientamenti giurisprudenziali.
Nel primo caso viene a essere posta in forse la liceità della propria ricerca, nel secondo
caso se ne rallenta lo sviluppo. In entrambi i casi appare comunque determinante la
straordinaria accelerazione nello sviluppo di nuove idee, nuovi prodotti, nuovi processi. Le
norme giuridiche che ne devono regolare l’applicazione, sono invece spesso il frutto di
confronti e dibattiti sociali e di compromessi politici, spesso laboriosi, quasi inevitabilmente
protratti nel tempo. È proprio nell’ottica di conciliare le diverse dinamiche che molti
ricercatori, scienziati e tecnici, cercano e sollecitano il dialogo e il confronto con il Diritto.
Tra le innovazioni che rientrano nella prima classe hanno un ruolo preponderante, per
la loro evidente rilevanza etica e per la giusta attenzione dell’opinione pubblica, le attività
svolte alle frontiere della biologia molecolare e dell’ingegneria genetica. Un esempio delle
diverse dinamiche in tale ambito è fornito dalla cosiddetta maternità surrogata. Nella
legislatura di vari paesi si è raggiunto, dopo un lungo e travagliato dibattito sociale che ha
portato a soluzioni diverse in società con diverse sensibilità, un consenso di massima tra il
ruolo (e quindi i diritti e i doveri) di madre genetica (che ha donato l’ovocita) e madre uterina
(che ha portato a compimento la gestazione). E tuttavia, questo consenso appare, proprio nel
momento della sua realizzazione, già superato dalla possibilità che le madri siano tre: madre
genetica primaria (ovocita originario), madre genetica secondaria (mitocondri), madre uterina.
Sono questi i cosiddetti “three-mother-babies”, autorizzati dalla Camera dei Lord, senza che,
in accordo peraltro con la tradizione britannica, venisse contestualmente promulgata una
legge quadro sul tema. D’altronde anche questa innovazione appare superata dagli ulteriori
progressi dell’ingegneria genetica: il cosiddetto “gene-editing” di embrioni umani
(autorizzato anch’esso in via sperimentale dalla Camera dei Lord) può aprire la strada ai
“multiparent-babies”.
Ancora più drammatica e gravida di conseguenze appare la possibilità di
manipolazioni genetiche per la creazione di chimere umano-animali (già poste in atto per il
possibile sviluppo di organi da trapianto). Si pone quindi sin d’ora con urgenza, data la
dinamica inarrestabile della ricerca in tali settori, la necessità di identificare queste creature
come soggetti di diritto, riconoscerne i diritti universali ed evitare la creazione di “uomini a
punteggio”, versione moderna di una classe di schiavi, la cui premessa nasce proprio, come
81
nel passato, dalla negazione della loro natura umana.
ζωή e la possibile riduzione del primo alla seconda da parte del potere costituito è già da
tempo oggetto di analisi e di studio [3], relativamente recente è invece la possibilità che lo
stato di eccezione che costituisce la premessa di tale biopolitica trovi la propria origine al di
fuori sia del potere costituito, sia del potere costituente, ma venga piuttosto a questi imposto
da un numero ristretto di esperti, in grado di esercitare una sorta di stato di eccezione
permanente grazie alla dinamica del progresso conoscitivo e tecnico da loro controllato.
L’ingegneria genetica costituisce il tema dominante nel dialogo tra ricerca e diritto, ma
altre discipline pongono alla società sfide non meno importanti.
Si possono citare a tale proposito i progressi della robotica antropomorfa e
dell’intelligenza artificiale. Anche escludendo, per lo meno nel prossimo futuro, la possibilità
che sistemi costruiti dall’uomo acquistino coscienza “forte” di sé stessi [4] e divenga quindi
imperativo riconoscere loro diritti inalienabili, è tuttavia diffusa la convinzione che gli stessi
saranno in breve in grado di assumere decisioni autonome (cioè non previste dallo schema
costruttivo) in ambito amministrativo, finanziario, produttivo, militare. Questa eventualità
imporrebbe una problematica revisione dei termini di responsabilità civile e penale, essendo
la stessa attribuibile a un sistema depersonalizzato e distribuito.
Un ulteriore esempio è fornito dai progressi della neuropsicologia. Negli Stati Uniti la
capacità di intendere e di volere è stata spesso valutata dai tribunali sulla base di teorie
compatibilistiche di natura filosofica [5]. I recenti progressi della neuropsicologia sembrano
porre il Diritto di fronte a un dilemma doloroso [6]: ignorare i risultati della ricerca e
considerare la pena il giusto castigo per chi ha, in piena libertà, commesso un crimine oppure
dispensare consapevolmente la pena come strumento di un ordine sociale da proteggere a chi,
per i condizionamenti inerenti alla sua struttura genetica, non poteva agire diversamente.
Altri esempi potrebbero infine essere citati.
Anche le innovazioni di natura tecnica che non sono esplicitamente menzionate nelle
norme giuridiche e per le quali, in caso di contenzioso, è usuale il ricorso allo strumento
dell’analogia, costituiscono un tema cruciale a causa dell’accelerazione impetuosa del
processo innovativo in settori vitali dell’industria e dei servizi e per la ricaduta che
l’incertezza sugli orientamenti giurisprudenziali può avere sugli investimenti e quindi sulla
competitività dell’intero tessuto produttivo. E’ diffusa, tra gli investitori, la convinzione che la
82
rimozione di lacune normative per la realizzazione di innovazioni tecniche non previste (o
non protette) incoraggerebbe la diffusione e l’ulteriore sviluppo tecnologico.
Alcuni esempi, soprattutto se collegati a tecnologie informatiche, sono oggetto di
cronaca quotidiana (dai servizi di trasporto automobilistico privato organizzati da Uber alla
responsabilità dei gestori di reti libere WiFi per eventuali attività illecite dei propri clienti).
In realtà si tratta di un problema presente in tutti i campi. Nel settore energetico, ad
esempio, l’introduzione di cicli a fluido organico ha reso economicamente vantaggioso il
recupero di calore da sorgenti a basse temperature (fino a 70-80 °C) per la realizzazione di
sistemi di teleriscaldamento. Anche impianti di medie dimensioni (non necessariamente “too
big to fail”) prevedono flussi di correnti in quest’intervallo termico in grado di rifornire un
numero limitato di utenti. Le garanzie per questi ultimi in caso di fallimento della società
fornitrice (e quindi di sospensione del servizio) rientrerebbero nell’ambito del diritto
fallimentare, ma la priorità delle loro richieste non appare a molti potenziali utenti
sufficientemente definita e protetta.
Specularmente, la pretesa del Diritto di “stimolare” l’innovazione sulla base di
estrapolazioni non razionali può condurre a risultati controproducenti. Il caso delle emissioni
dei motori Diesel della Volkswagen (e presumibilmente di altre imprese) mascherate, in fase
di collaudo, da un sistema fraudolento è la conseguenza di un insanabile contrasto tra una
specificazione di limiti all’emissione di sostanze nocive e l’adozione di un BAT in contrasto
con tali limiti.
Infine, e si tratta probabilmente del problema di più difficile soluzione, la crescente
complessità strutturale dei sistemi tecnologici, ambientali e sociali oggetto di indagini
giudiziarie pone serie difficoltà interpretative all’analisi peritale e alla comprensione degli
organi giudicanti. E’ la cosiddetta “curse of complexity” [7].
A tale “maledizione” è talvolta possibile sfuggire se l’inferenza statistica assicura la
verifica di ipotesi con un margine di fiducia sostanzialmente prossimo alla certezza. Così, ad
esempio, l’inquinamento provocato dall’acciaieria di Taranto o la responsabilità per
l’epidemia di mesonteliomi a Casale non lasciano sostanziali margini di incertezza.
In altri casi può risultare difficile stabilire una relazione causa-effetto. I modelli a cui
quindi si deve ricorrere contengono un numero elevato di variabili e gli schemi interpretativi
debbono essere necessariamente semplificati. E’ così possibile arrivare a risultati divergenti.
Il Petrolchimico di Marghera e l’inquinamento della laguna di Venezia ne sono forse
83
l’esempio più noto in Italia a causa del forte impatto mediatico della vicenda giudiziaria e
dell’elevato livello scientifico dei periti coinvolti.
Di fronte a questa complessità, il giudice, nella sua veste di “peritus peritorum”, è in
grado di accertare i margini di incertezza statistica e il grado di semplificazione alla base di
molte perizie di sistemi complessi?
A conclusione di queste righe, è forse opportuno menzionare le difficoltà che scienza e
tecnologia da una parte e diritto dall’altra probabilmente incontreranno nel loro confronto. In
particolare, è possibile che il concetto di stato di eccezione permanente, imposto da un
progresso continuo e accelerato, costituisca una contraddizione nei termini. Può infatti uno
stato di eccezione essere permanente e garantire la rifondazione di paradigmi giuridici con la
necessaria frequenza o sarà necessario ricorrere a un principio metagiuridico?
La Camera dei Lord sembra aver trovato una risposta a questo dilemma in una forma
di pragmatismo tipicamente anglosassone, dichiarando sostanzialmente lecite le applicazioni
tecnicamente possibili, salvo sanzionare (forse nello spirito del Common Law) eventuali abusi
caso per caso.
Il Principio di Precauzione viene spesso invocato come criterio fondante, ma la sua
applicazione sistematica comporterebbe la sua automatica perdita di efficacia. D’altronde
l’utilizzo di criteri per deciderne, caso per caso, l’applicabilità, rischierebbe di generare una
catena infinita di metacategorie che difficilmente potrebbe condurre a un diritto positivo.
E’ comunque necessario e urgente che il confronto abbia luogo. L’alternativa, cioè
l’accettazione passiva e incontrollata dell’innovazione tecnologica non sarebbe positiva per la
nostra convivenza civile. E non sarebbe positiva per l’avanzamento della conoscenza.
Riferimenti bibliografici
[1] D’ESPAGNAT, BERNARD, (2006), On Physics and Philosophy, Princeton University Press,
Princeton (USA).
[2] HORGAN, JOHN (1996), The End of Science: Facing the Limits of Science in the Twilight of
the Scientific Age, Broadway Books, New York (USA).
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84
[5] FRANKFURT, HARRY, (1971), Freedom of the Will and the Concept of a Person, Journal of
Philosophy 68, 5-20.
[6] JONES, MATTHEW, (2003), Overcoming the Myth of Free Will in Criminal Law: the true
impact of the genetic revolution, Duke Law Journal, 52(5), 1031-1053.
[7] BELL, SUZANNE, (2008), Crime and Circumstance: Investigating the History of Forensic
Science, Praeger Publishers, Westport (USA).
GIUDICI ORDINARI, SCIENZE E TECNICHE:
LA CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO
Maria Teresa Bonavia
(Primo Presidente della Corte di Appello di Genova)
SOMMARIO: 1. Le concrete, effettive implicazioni del principio, secondo cui iudex
peritus peritorum est. – 2. a) Natura della consulenza tecnica d’ufficio; b) summa divisio:
consulenza deducente e consulenza percipiente. – 3. Valore probatorio della consulenza
tecnica di parte. – 4. Unicità del consulente tecnico di parte.
1. Le concrete, effettive implicazioni del principio, secondo cui iudex peritus
peritorum est
Premesso che l’espressione lessicale “consulenza tecnica” vale a individuare l’ambito
tematico processuale di riferimento nel settore civile, posto che gli artt. 220 e ss. c.p.p.
designano il corrispondente istituto come “perizia”, appare opportuno muovere dal rilievo
che, allorquando si tratta di consulenza tecnica d’ufficio, è pressoché automatico l’immediato
correre del pensiero al noto brocardo iudex peritus peritorum, la cui portata, per così dire,
evocativa, potrebbe indurre a concepire in maniera riduttiva l’apporto di cognizioni tecniche
nel processo ad opera dell’ausiliario del giudice.
Invero, a tale brocardo, richiamato ancora dalla più recente giurisprudenza di
legittimità, formatasi, in materie estremamente variegate e disparate, segnatamente, in
relazione al vizio di motivazione (cfr. Cass. n. 18860 del 2015; Cass. n. 12703 del 2015; Cass.
n. 4967 del 2015; Cass. n. 871 del 2015; Cass. n. 17757 del 2014; Cass. n. 9222 del 2014;
86
Cass. n. 6085 del 2014; Cass. n. 19577 del 2013; Cass. n. 17376 del 2012; Cass. n. 9854 del
2012) non è dato riconnettere alcuna connotazione intesa a configurare come marginali e di
secondaria importanza le conclusioni raggiunte in sede di elaborato di consulenza tecnica
d’ufficio.
In particolare, estremamente significativo si appalesa il caso, in cui era stata proposta
dalla società, titolare fin dal 1983 dei diritti di sfruttamento dell’opera musicale “On va
s’aimer”, domanda di accertamento che detta opera non costituiva plagio del brano “Une fille
de France” composto negli anni ‘70 dai convenuti, i cui diritti di sfruttamento erano stati
trasferiti dall’originaria titolare ad altra società, anch’essa convenuta in giudizio, avendo i
convenuti richiesto la reiezione della domanda attorea e, in via riconvenzionale, pronuncia di
condanna degli attori, tra loro in solido, al risarcimento di tutti i danni conseguenti alla
violazione dei diritti di utilizzazione economica e/o all’illecito sfruttamento dell’opera, con
inibizione di tale ulteriore condotta (v. Cass. n. 9854 del 2012, cit., sentenza molto
interessante anche sotto il profilo del richiamo ai principi che chiariscono il concetto giuridico
di creatività, cui fa riferimento la norma dell’art. 1 della L. n. 633 del 1941).
L’insegnamento al riguardo espresso dalla Suprema Corte, ai fini del tema che ne
occupa, risulta compiutamente formulato nei seguenti termini: «I primi due motivi del ricorso
principale possono essere esaminati congiuntamente al primo motivo del ricorso incidentale
della Universal Music Italia in quanto convergono tutti nel censurare la sentenza impugnata
laddove ha riconosciuto il carattere di originalità all’opera musicale Une fille de France che si
assume plagiata.
La Corte d’appello ha accolto e fatto proprie le valutazioni delle due CTU ed ha con la
sentenza ampiamente motivato sulla scorta delle argomentazioni della CTU in ordine alla
originalità dell’opera Un fille de France.
A tale proposito è appena il caso di ricordare che quando il giudice di merito accoglie
le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, facendole proprie, l’obbligo della motivazione
è assolto con l’indicazione della fonte dell’apprezzamento espresso, senza la necessità di
confutare dettagliatamente le contrarie argomentazioni della parte, che devono considerarsi
implicitamente disattese. (Cass. 3519/01; Cass. 6882/02; Cass. 3191/06; Cass. 7806/98; Cass.
12630/95).
Tuttavia, qualora le parti muovano alla consulenza argomentati rilievi e
contrappongano specifici elementi di comparazione non presi in esame dal consulente, detto
87
giudice non può limitarsi a disattenderli con generiche e non controllabili affermazioni di
adesione agli accertamenti dell’ausiliario, ma è tenuto ad una più puntuale e dettagliata
motivazione che ne dimostri le ragioni dell’infondatezza, o comunque quelle per le quali
devono comunque essere preferiti questi ultimi (Cass. 9178/06; Cass. 4140/2003; Cass.
11711/1997; Cass. 7150/1995).
Da ciò consegue peraltro che la parte, la quale deduca il vizio di motivazione della
sentenza impugnata, ha l’onere di indicare in modo specifico le deduzioni formulate nel
giudizio di merito, delle quali il giudice non si sia dato carico, non essendo sufficiente un
generico richiamo agli atti del giudizio di merito (Cass. 19475/05) e ciò al fine di consentire a
questa Corte, cui è inibito l’accesso agli atti della fase di merito di valutare l’omissione o
l’incongruenza della motivazione in relazione a specifiche censure avanzate.
Nel caso di specie, nei due motivi del ricorso principale nulla è stato dedotto in ordine
alle critiche avanzate alla CTU nella fase di merito. Le doglianze appaiono pertanto
inammissibili perché tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente
tecnico risolvendosi in mere allegazioni difensive, che non possono configurare il vizio di
motivazione previsto dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (Cass. 8355/07; Cass. 17606/07; Cass.
12080/00)».
2. a) Natura della consulenza tecnica d’ufficio
Il diritto civile, inteso quale modalità di potenziale regolamentazione di tutte le
relazioni intersoggettive tra privati, consiste nelle fonti codicistiche, di cui al codice civile e,
quanto a tale profilo, al codice della navigazione nonché alle leggi speciali. Alla varietà
dell’ambito oggettuale, al quale attengono le situazioni giuridiche sostanziali, nelle quali si
articolano le fattispecie concrete, corrisponde, dal punto di vista della dinamica processuale,
la cognizione dei più disparati rami della conoscenza scientifica e lo strumento per l’ingresso
nel processo di siffatte nozioni è la consulenza tecnica.
La tradizionale concezione della consulenza tecnica d’ufficio, secondo cui non si tratta
di un mezzo di prova, ma di un mezzo di valutazione delle prove acquisite nel giudizio,
continua a essere costantemente affermata dalla più recente giurisprudenza di legittimità, in
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perdurante correlazione con il divieto di disporre consulenze tecniche d’ufficio meramente
esplorative.
In tale prospettiva, esemplificativamente, si collocano: Cass. n. 7639 del 2015 («La
consulenza tecnica d’ufficio non è un mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la mera
funzione di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti, ed è quindi
legittimamente negata qualora la parte che la richiede intenda supplire in tal modo alla
deficienza delle proprie allegazioni ovvero a far compiere un’indagine esplorativa alla ricerca
di fatti e circostanze da essa non dimostrati, pretendendo in tal modo di essere esonerata
dall’onere probatorio»); Cass.n. 1299 del 2014 («La consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo
istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di
elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne
consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la
parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte
tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di
compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati»);
Cass. n. 26151 del 2011 («La consulenza non rientra nella disponibilità delle parti ma è
rimessa al potere discrezionale del giudice, il quale esattamente decide di escluderla ogni qual
volta si avveda che la richiesta della parte tende a supplire con la consulenza la deficienza
della prova o a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze
non provate»); Cass. n. 2663 del 2013 («La consulenza tecnica d’ufficio anche se non
costituisce un mezzo di prova in linea di massima rappresenta una fonte oggettiva di prova
quando si risolve nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di specifiche
cognizioni o strumentazioni tecniche. L’accertamento della verità processuale attraverso
l’indagine esplorativa del consulente supportata dall’estensione del mandato da parte del
giudice e autonomi quesiti rispetto a quelli posti dalle parti è ammissibile se rappresenta
l’extrema ratio»); Cass. n. 1266 del 2013 («La consulenza tecnica d’ufficio costituisce un
mezzo di ausilio per il giudice, volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati
dalle parti, la cui interpretazione richiede nozioni tecnico-scientifiche, e non un mezzo di
soccorso volto a sopperire all’inerzia delle parti. La stessa, tuttavia, può eccezionalmente
costituire fonte oggettiva di prova per accertare quei fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di
un perito. Ne consegue che, qualora la consulenza d’ufficio sia richiesta per acquisire
documentazione che la parte avrebbe potuto produrre, l’ammissione da parte del giudice
89
comporterebbe lo snaturamento della funzione assegnata dal codice a tale istituto e la
violazione del giusto processo presidiato dall’art. 111 Cost. sotto il profilo della posizione
paritaria della parti e della ragionevole durata»).
In controtendenza rispetto a tale consolidato indirizzo si pone Cass. n. 2663 del 2013
(«La consulenza tecnica d’ufficio anche se non costituisce un mezzo di prova in linea di
massima rappresenta una fonte oggettiva di prova quando si risolve nell’accertamento di fatti
rilevabili unicamente con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche.
L’accertamento della verità processuale attraverso l’indagine esplorativa del consulente
supportata dall’estensione del mandato da parte del giudice e autonomi quesiti rispetto a
quelli posti dalle parti è ammissibile se rappresenta l’extrema ratio»). Invece, in piena
sintonia con il consolidato indirizzo giurisprudenziale, sopra richiamato, si colloca Cass. n.
17399 del 2015 («La decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d’ufficio
costituisce un potere discrezionale del giudice, che, tuttavia, è tenuto a motivare
adeguatamente il rigetto dell’istanza di ammissione proveniente da una delle parti,
dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla
valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere
l’istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto
accertare. Pertanto, nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedono si proceda ad un
accertamento tecnico, il mancato espletamento di una consulenza medico-legale, specie a
fronte di una domanda di parte in tal senso (nella specie, documentata attraverso l’allegazione
di un certificato medico indicativo del nesso di causalità tra la sindrome depressiva lamentata
e la condotta illecita del convenuto), costituisce una grave carenza nell’accertamento dei fatti
da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza»).
2. b) summa divisio: consulenza deducente e consulenza percipiente
Siffatta distinzione appartiene a un ormai consolidato indirizzo ermeneutico della
giurisprudenza di legittimità, al riguardo espressasi nel senso che: «Il giudice del merito può
affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti
(consulente deducente) ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente). In
tale ultimo caso la consulenza costituisce essa stessa fonte oggettiva di prova. Perché il
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giudice possa disporre una siffatta consulenza è necessario e sufficiente, da un lato, che la
parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto, dall’altro, che il giudice ritenga
che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche» (ex plurimis v. Cass. n. 4792 del
2013 in caso di accertamento della responsabilità medica; Cass. n. 18993 del 2010 in materia
estimativa nell’ambito dell’espropriazione; Cass. n. 6155 del 2009, Cass. n. 3990 del 2006 in
tema di responsabilità da realizzazione di opere e interventi di ristrutturazione).
Nel novero delle più recenti enunciazioni di tali principi, si collocano, senza voci
dissonanti, in particolare, Cass. n. 1190 del 2015 («In tema di risarcimento del danno, è
possibile assegnare alla consulenza tecnica d’ufficio ed alle correlate indagini peritali
funzione percipiente, quando essa verta su elementi già allegati dalla parte, ma che soltanto
un tecnico sia in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui
dispone». In applicazione del principio, la S.C. ha riformato la sentenza impugnata, che aveva
ritenuto esplorativa la consulenza d’ufficio, richiesta in ordine alla quantificazione del danno
per il mancato utile conseguente alla bloccata commercializzazione di un immobile, senza
dare alcuna spiegazione sulle ragioni per le quali i dati già acquisiti non consentissero di
verificare l’esistenza di detto danno); Cass. n. 22225 del 2014 («In tema di responsabilità
medico-chirurgica, allorché la consulenza tecnica d’ufficio - che pure di norma presenta in
tale ambito natura percipiente - formuli una valutazione, sull’efficienza eziologica della
condotta della struttura sanitaria rispetto all’evento di danno come meno probabile che non,
tale esito è correttamente ignorato dal giudice, atteso che, in applicazione del criterio della
regolarità causale e della certezza probabilistica, l’affermazione della riferibilità causale del
danno all’ipotetico responsabile presuppone, all’opposto, una valutazione nei termini di più
probabile che non»); Cass. n. 1181 del 2014 («Il giudice può affidare al consulente tecnico
non solo l’incarico di valutare i fatti da lui stesso accertati o dati per esistenti - consulente
deducente -, ma anche quello di accertare i fatti stessi - consulente percipiente -. Ciò, peraltro,
non significa che le parti possano sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei
propri diritti all’attività del consulente. È necessario, invece, che la parte deduca quanto meno
il fatto che pone a fondamento del proprio diritto, che il giudice ritenga che il fatto sia
possibile, rilevante e tale da lasciare tracce accertabili, comunque, da poter essere ricostruito
dal consulente, che l’accertamento richieda cognizioni tecniche che il giudice non possiede e
che, infine, il consulente indaghi sui fatti prospettati dalle parti e non su fatti diversi». Nella
specie, ha precisato la Suprema Corte, il giudice ha affidato al C.T.U. l’incarico di accertare:
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a) le caratteristiche della finestra; b) la distanza del suo lato inferiore dal pavimento della
stanza illuminata; c) le dimensioni e funzioni della canna fumaria; d) l’epoca di installazione
dell’impianto di riscaldamento e dell’ampliamento della finestra e sua qualificazione. La
consulenza - dunque - ha concluso la Suprema corte, ha avuto per oggetto l’accertamento di
fatti che presuppongono particolari competenze tecnico-costruttive che il giudice
normalmente non ha e conseguentemente l’accertamento deve ritenersi ammissibile e
regolarmente espletato); Cass. n. 14 del 2014 («La consulenza tecnica d’ufficio, non essendo
qualificabile come mezzo di prova in senso proprio – perché volta ad aiutare il giudice nella
valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questi necessitanti specifiche
conoscenze – è sottratta alla disponibilità delle parti e affidata al prudente apprezzamento del
giudice di merito. Quando i fatti da accertare necessitano di specifiche conoscenze tecniche il
giudice può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o i dati per
esistenti – consulente deducente – ma anche quello di accertare i fatti stessi – consulente
percipiente –. In tale ultimo caso la consulenza costituisce essa stessa fonte oggettiva di
prova, essendo necessario e sufficiente che le parti alleghi il fatto che pone a fondamento del
suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche.
Deriva da quanto precede, pertanto, che nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale
di paternità la prova della discendenza biologica bene può trarsi unicamente dall’esito
positivo delle indagine tecniche officiose, di indole ematologica e genetica»); Cass. n. 20695
del 2013 («Benché le parti non possano sottrarsi all’onere probatorio a loro carico invocando,
per l’accertamento dei propri diritti, una consulenza tecnica di ufficio, non essendo la stessa
un mezzo di prova in senso stretto, è tuttavia consentito al giudice fare ricorso a quest’ultima
per acquisire dati la cui valutazione sia poi rimessa allo stesso ausiliario, c.d. consulenza
percipiente, purché la parte, entro i termini di decadenza propri dell’istruzione probatoria,
abbia allegato i corrispondenti fatti, ponendoli a fondamento della sua domanda, ed il loro
accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche». Così statuendo, la Suprema Corte ha
cassato la sentenza impugnata che aveva respinto, ritenendola carente di prova, una domanda
risarcitoria per danni cagionati da abuso di posizione dominante, benché l’attore avesse ab
initio allegato l’insieme delle ripercussioni negative derivategli dall’applicazione di una
normativa nazionale contrastante con l’ordinamento comunitario, al cui accertamento aveva
altresì tempestivamente chiesto darsi seguito con un’istanza, non accolta, di C.T.U. finalizzata
alla quantificazione di tali danni); Cass. n. 4792 del 2013 («In caso di accertamento della
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responsabilità medico-chirurgica, attesa l’innegabilità delle conoscenze tecniche specialistiche
necessarie non solo alla comprensione dei fatti, ma alla loro stessa rilevabilità, la consulenza
tecnica presenta carattere percipiente, sicché il giudice può affidare al consulente non solo
l’incarico di valutare i fatti accertati, ma anche quello di accertare i fatti medesimi, ponendosi
pertanto la consulenza, in relazione a tale aspetto, come fonte oggettiva di prova»); Cass. n.
15157 del 2012 («Anche se, in linea generale, la consulenza tecnica di ufficio non può essere
disposta al fine di esonerare la parte dal relativo onere probatorio, quando non vi sia altro
mezzo per giungere all’accertamento richiesto che quello di demandarlo a chi sia dotato di
speciali competenze tecniche, il giudice può incaricare il consulente non solo di valutare i fatti
accertati o dati per esistenti, consulenza deducente, ma anche di accertare i fatti stessi,
consulenza percipiente. In tal caso, in cui la consulenza costituisce essa stessa fonte oggettiva
di prova, è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento dei suo
diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche».
Nella specie, la Corte ha ritenuto che, nel procedimento di riconoscimento della paternità, la
compatibilità immunogenetica costituisce possibile elemento di prova che può essere
acquisito con l’espletamento di una C.T.U., che il giudice può richiedere d’ufficio);
Cass. n. 7364 del 2012 («In tema di motivazione della sentenza, il principio secondo il
quale non è carente di motivazione la sentenza che recepisce per relationem le conclusioni ed
i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui dichiari di condividere il
merito, può trovare applicazione anche con riferimento a consulenze disposte ed esperite in
altro giudizio, anche aventi funzione non solo deducente ma anche percipiente, sebbene in tale
caso la valutazione del giudice deve essere più rigorosa, e devono essere rese chiaramente
ostensibili in motivazione le ragioni per le quali, nonostante la oggettiva diversità dei fatti
storici esaminati dalla c.t.u. e quelli esaminati nel giudizio pendente, i rilevamenti di fatto
compiuti dall’ausiliario e le conclusioni da questo raggiunte possano essere in tutto od in parte
trasposti anche nel nuovo giudizio». Nella specie, la C.T.U. di altro giudizio, su cui si era
fondata per relationem la decisione impugnata, aveva avuto ad oggetto la rilevazione
dell’ubicazione di fondi soggetti a opere di bonifica, l’individuazione di tali opere e la verifica
della funzionalità ad arrecare beneficio ai fondi, sebbene i giudizi si riferissero a periodi e a
fatti storici diversi.).
Non mancano, d’altronde, risalenti enunciazioni del principio in argomento (cfr. Cass.
n. 6155 del 2009; Cass. n. 24620 del 2007; Cass. n. 4743 del 2007; Cass. n. 3990 del 2006;
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Cass. n. 1020 del 2006; Cass. n. 27002 del 2005; Cass. n. 13401 del 2005; Cass. n. 10871 del
1999; Cass. Sez. Un. n. 9522 del 1996.)
3. Valore probatorio della consulenza tecnica di parte
Il dato univocamente fornito in proposito dalla giurisprudenza di legittimità é nel
senso che la consulenza tecnica di parte costituisce una semplice allegazione difensiva, priva
di autonomo valore probatorio, sicché la sua produzione, in quanto sottratta al divieto di cui
all’art. 345 c.p.c., è ammissibile anche in appello, con l’ulteriore conseguenza che il giudice
di merito, ove di contrario avviso, non è tenuto ad analizzarne e a confutarne il contenuto,
quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni con esso incompatibili e
conformi al parere del consulente tecnico d’ufficio.(cfr. Cass. Sez. Un. n. 13902 del 2013;
Cass. n. 16552 del 2015; Cass. n. 259 del 2013;
Cass. n. 2063 del 2010; Cass. n. 5687 del 2001; Cass. n. 15572 del 2000; Cass. n.
11190 del 1998; Cass. n. 3405 del 1988).
4. Unicità del consulente tecnico di parte
Appare opportuno un breve cenno alla giurisprudenza della Corte di Appello di
Genova, maturata presso la Prima Sezione Civile, segnatamente in tema di consulenza tecnica
d’ufficio, alla stregua della quale, è consentita la designazione di un solo consulente tecnico
per ciascuna parte.
A tale esito ermeneutico ha indotto la formulazione testuale dell’art. 201 c.p.c.
(«Consulente tecnico di parte. I. Il giudice istruttore, con l’ordinanza di nomina del
consulente, assegna alle parti un termine entro il quale possono nominare, con dichiarazione
ricevuta dal cancelliere, un loro consulente tecnico. II. Il consulente della parte, oltre ad
assistere a norma dell’articolo 194 alle operazioni del consulente del giudice, partecipa
all’udienza e alla camera di consiglio ogni volta che vi interviene il consulente del giudice,
per chiarire e svolgere, con l’autorizzazione del presidente, le sue osservazioni sui risultati
delle indagini tecniche») e dell’art. 87 c.p.c. («Assistenza degli avvocati e del consulente
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tecnico. I. La parte può farsi assistere da uno o più avvocati, e anche da un consulente tecnico
nei casi e con i modi stabiliti nel presente codice»), disposizioni normative che individuano
rigorosamente al singolare siffatto ruolo processuale, l’ultima delle quali specificatamente in
contrapposizione alla pluralità dei difensori.
Inoltre, in tal senso ha avuto occasione di pronunciarsi la giurisprudenza
costituzionale, allorquando, investita della questione di illegittimità costituzionale dell’art.
323 comma ultimo del codice di procedura penale previgente -nella parte in cui nei
procedimenti instaurati nei confronti di più imputati attribuiva al giudice istruttore il potere di
valutare, discrezionalmente e senza la previsione di alcun mezzo di gravame, la sussistenza di
conflitto di interessi tra gli imputati e, in caso negativo, il potere di ridurre a due il numero dei
consulenti tecnici - in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., ha affermato che: «Dalla norma
impugnata non discende alcuna interferenza con la libertà della linea difensiva, essendo priva
di consistenza la considerazione che il consulente comune, determinato per effetto del
provvedimento del giudice, si limiti a svolgere argomentazioni valevoli per tutti senza tener
conto degli aspetti particolari relativi a ciascun imputato. Così operando, infatti, i consulenti
mancherebbero al loro dovere ed è compito del difensore di vigilare (anche facendosi assistere
stragiudizialmente da altro specialista di fiducia) sul loro operato fino a segnalarne al giudice
l’incompatibilità per insanabile e pregiudizievole contrasto con le esigenze della difesa» (cfr.
Corte cost. n. 345 del 1987).
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Giorgio Pastori
(Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)
La seconda sessione ha offerto l’occasione di una duplice riflessione sul tema del
Convegno: “Diritto, scienze e tecnologie” lungo la traccia delineata nelle considerazioni
introduttive di Piera Vipiana.
Dapprima, riprendendo le problematiche già affrontate nella sessione del mattino, si è
posta l’attenzione sulla questione apicale che il grande progresso scientifico e tecnologico da
tempo ha fatto sorgere nei rapporti con il diritto, circa lo stesso modo di concepire il diritto.
Si è detto più volte ed autorevolmente che il diritto ha perso le sue coordinate e i suoi
riferimenti valoriali tradizionali per essere come “fagocitato” dalla tecnica, quasi a
identificarsi con la tecnica per la capacità che questa avrebbe ormai di trasformare la realtà del
mondo e dettare le nuove regole dei comportamenti umani.
La relazione del prof. Dovì nell’illustrare quali sono stati e quali sono i progressi della
ricerca scientifica e delle nuove possibilità tecnologiche, specie nel campo delle bioscienze,
ha ampiamente mostrato come oggi il rapporto fra diritto e tecnica possa giungere a far
considerare la tecnica fonte del diritto, in particolare quando ha ricordato la pronuncia della
inglese Camera dei Lords secondo cui ciò che è tecnicamente fattibile è anche giuridicamente
lecito.
Ma ad affermazioni come questa, che paiono ammettere una sorta di non più
contrastabile primato della tecnica sul diritto come regola dei comportamenti umani, non si
può non opporre il diverso primato che forse non attiene al diritto in quanto tale, al diritto in
quanto tecnica di regolazione della vita sociale, ma più propriamente ai fini e ai valori a cui il
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diritto non può non essere ordinato. Sono i fini e i valori fondativi dell’esistenza del diritto
stesso e alla cui promozione e realizzazione esso è ordinato, quali sono richiamati anche dalla
nostra Costituzione quando all’art.2 pone alla base dell’ordinamento da essa instaurato
l’affermazione dei diritti inviolabili dell’uomo e, contestualmente, dei doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale.
In tal senso, è indubbio che scienza e tecnica certamente possono concorrere e
concorrono a creare nuove possibilità e strumenti per la migliore e più ampia realizzazione dei
principi di libertà, eguaglianza e solidarietà che devono presiedere ad ogni organizzazione
politica e sociale, ma non possono esse stesse stabilire i fini e i limiti del loro impiego.
Quando si dice che il diritto è scienza umana, è tecnica e arte per l’uomo, non si fa
altro che ribadire la necessità che innanzitutto il diritto si faccia strumento di attuazione e di
protezione di quei diritti e doveri. Ma si ribadisce anche che le possibilità offerte dalla scienza
e dal suo impiego tecnico siano sottoposte al vaglio di un parallelo giudizio di valore che
scienza e tecnica non possono dare a se stesse e che deve invece accompagnare sempre
l’incontro fra possibilità nuove di intervento nel mondo reale quali offerte dai progressi
scientifici e tecnologici e la loro regolazione.
Così il rapporto fra diritto e tecnica è inevitabilmente un rapporto di incontro e dialogo
reciproco tale per cui il diritto non può non ampliare incessantemente il suo oggetto e
aggiornare i suoi schemi normativi alla luce dei risultati e delle evenienze emergenti dal
mondo scientifico e tecnico. La norma giuridica diventa sempre più norma tecnica e questa
diventa a pieno titolo norma giuridica. Ma nel medesimo tempo il diritto, in quanto portatore
dei valori, che esso incorpora rappresenta la misura, il parametro secondo cui l’incontro e
l’integrazione fra i due mondi devo avvenire.
Di qui il secondo ordine di riflessioni a cui specialmente le altre relazioni del prof.
Munari, della Presidente Bonavia ,del Consigliere Caputo e gli interventi del pomeriggio sono
stati dedicati: circa il modo in cui l’integrazione fra diritto e normazione tecnico-scientifica
sta avvenendo in sede di applicazione giurisprudenziale e possa meglio effettuarsi.
Le relazioni, come gli interventi, hanno guardato all’esperienza di diverse
giurisdizioni: dalla Corte di giustizia europea, alla nostra giustizia costituzionale, alla
giurisdizione ordinaria civile, alla giurisdizione amministrativa. Ma il nucleo problematico,
con cui si sono confrontate le diverse giurisprudenze, sembra essere stato il medesimo.
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La norma tecnica richiede, per le nozioni e i concetti a cui fa riferimento, di essere
interpretata e applicata con l’apporto di esperti e specialisti delle singole scienze e discipline.
Ma le valutazioni e i giudizi tecnico scientifici, per l’intrinseca natura delle conoscenze e delle
discipline applicate, appaiono il più delle volte paradossalmente caratterizzati da soggettività,
incertezza, provvisorietà o dall’ essere l’esito di un’analisi di tipo probabilistico o meramente
statistico (con riguardo, come spesso si segnala, all’accertamento del rapporto causa ed effetto
nei giudizi di danno e responsabilità). Ma ciò non può andare a detrimento della pienezza e
dell’effettività della tutela che la giurisdizione e il processo devono sapere offrire ai diritti e ai
doveri , alle posizioni giuridiche soggettive in gioco. In tale prospettiva, come già notava
Bachelet, l’interpretazione e l’applicazione della norma tecnica deve essere sottoposta ad uno
scrutinio anche più rigoroso di quello operato in sede di giudizio di diritto.
Sempre più oggi, come peraltro già in passato, il nodo problematico centrale e comune
è dato quindi dal modo in cui possa essere acquisito e integrato nel giudizio di diritto, nel
processo e nella decisione , la valutazione o il giudizio di carattere tecnico- scientifico.
Ad una stagione del passato in cui era parso doversi riconoscere il più ampio spazio
riservato al giudice nella valutazione di tutti gli elementi, anche di carattere tecnicoscientifico, che concorrevano a formare la decisione di diritto ( quale espresso dal notissimo
brocardo judex peritus peritorum ), è via via subentrata in maniera sempre più rilevante la
tendenza a dare spazio alla componente tecnico-scientifica in ragione della crescente
complessità degli accertamenti e delle valutazioni da esperire. Nel medesimo tempo si è
tuttavia affermata la parallela esigenza di assicurare, nella dinamica del processo decisionale,
la più compiuta protezione delle posizioni giuridiche soggettive di fronte alla soggettività e
l’incertezza degli esiti che gli accertamenti e le valutazioni tecnico-scientifiche possono avere
o produrre.
Perciò, da un lato, si è avuto un indubbio ampliamento del ruolo e dell’apporto degli
esperti e tecnici nell’esercizio della giurisdizione e del processo. Dall’altro, si è assistito
inevitabilmente però ad una più approfondita ricerca e affinamento dei criteri in base ai quali
il giudice possa sindacare l’apporto degli esperti, sempre nello spirito di assicurare alle
posizioni giuridiche in gioco la pienezza della necessaria tutela giurisdizionale.
Da un lato, si è potuto constatare come in tutte le giurisdizioni considerate si siano
sempre più estensivamente assicurati pur in varie forme la presenza e l’apporto degli esperti
nello svolgimento del processo. Si pensi, fra gli esempi offerti dalle relazioni, alla
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valorizzazione della consulenza tecnica d’ufficio nella giurisdizione ordinaria civile e
all’introduzione della CTU da ultimo nella giurisdizione amministrativa di legittimità. Questa,
come è noto, vedeva confinate all’ambito del merito sostanzialmente insindacabile le
valutazioni tecniche complesse dell’amministrazione ( la c.d. discrezionalità tecnica )
limitando quindi l’effettività della tutela offerta al ricorrente, mentre ora queste sono state
ricondotte al campo della sindacabilità anche attraverso l’ausilio della consulenza tecnica
d’ufficio come previsto ora dal codice del processo amministrativo (d.lgs.104 del 2010).
In generale le relazioni e gli interventi hanno in ogni caso convenuto sul fatto che non
vi possono esservi ragioni che giustifichino un self restraint del giudice e lo esimano dal
prendere in considerazione gli aspetti tecnico-scientifici rilevanti per la decisione delle
questioni sottoposte a giudizio.
D’altro lato, le relazioni hanno posto particolare attenzione su ciò che costituisce il più
delicato e problematico punto di snodo nell’acquisizione giurisprudenziale degli accertamenti
e delle valutazioni tecnico-scientifici, vale a dire i criteri che il giudice applica per sindacare
gli apporti degli esperti e gli esiti di questi.
Come si è potuto rilevare, i giudici delle varie giurisdizioni hanno elaborato una
gamma più avanzata di criteri di giudizio ( si veda in tal senso specialmente la giurisprudenza
europea ), così da essere pur sempre il giudice il peritus peritorum, ma in una forma più
analitica ed aggiornata.
Si pensi infatti ai criteri di giudizio interni alla stessa elaborazione del “parere”
tecnico-scientifico e che da tempo la giurisprudenza applica (anche nella giurisdizione
amministrativa) nell’intento di realizzare un sindacato forte delle valutazioni tecniche
complesse con riguardo non solo alla ragionevolezza e alla logicità delle valutazioni
formulate, ma anche all’attendibilità dei metodi applicati nell’effettuare tali valutazioni e alla
concordanza delle (e con le) indicazioni provenienti dalla comunità scientifica di riferimento
(oltre che mediante il necessario confronto dialettico fra gli esperti nel processo).
Si pensi inoltre ai principi e ai criteri di giudizio per così dire di carattere esterno che
da tempo la giurisprudenza applica specie nel campo della tutela dell’ambiente e della salute,
come in particolare il principio di precauzione, e che mirano a stabilire un bilanciamento fra
l’incertezza dei dati e delle valutazioni scientifiche e la esigenza di tutela delle posizioni
giuridiche soggettive individuali e collettive.
99
Non mancano talora, è vero, i giudici che si sovrappongono agli stessi periti e, come è
capitato anche al legislatore, si fanno loro stessi indebitamente scienziati e tecnici. Talaltra
non mancano per converso le voci favorevoli ad un sindacato debole dei giudizi tecnici o alla
devoluzione delle questioni tecniche ad organismi specializzati dotati di poteri decisori ad
hoc.
E’ invece sulla strada di un’integrazione critica e dialettica del giudizio tecnico nel
giudizio di diritto che pare avviarsi il corso prevalente della giurisprudenza ed è questa anche
l’indicazione su cui vi è stata una significativa convergenza delle relazioni e degli interventi
segnando il cammino da seguire.
PARTE SECONDA
COMUNICAZIONI
SCIA: I PROFILI DI RESPONSABILITÀ DEL PROGETTISTA ABILITATO E
ALCUNE RIFLESSIONI SULLA DISCIPLINA, A SEGUITO DI UNA RECENTE
PRONUNCIA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Davide Bisio
(Cultore della materia diritto amministrativo Università del Piemonte Orientale Alessandria)
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La responsabilità del progettista. – 3. Brevi riflessioni sulla
recente pronuncia della Corte costituzionale in materia di scia.
1. Premessa
Il rapporto esistente tra scienza, tecnica e diritto deve tener conto di un istituto particolarmente
significativo: quello della segnalazione certificata di inizio attività.
La scia si colloca nel processo di liberalizzazione e mira a facilitare le attività di impresa e dei
privati con l'inizio del suo esercizio tramite una segnalazione certificata. Si riduce lo spazio del potere
autoritativo della pubblica amministrazione e si amplia la libertà del privato. La scia si applica in una
vasta gamma di casi, ma vigono numerose esclusioni: laddove esistano vincoli di natura ambientale,
culturale, paesaggistica o inerenti la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l'immigrazione, la
cittadinanza e ulteriori ipotesi173. I casi saranno elencati in modo più dettagliato nel D.lgs. cui fa
riferimento il D.lgs. n. 126 del 2016.
Perché tali operazioni siano svolte correttamente è necessario allegare certificazioni,
attestazioni o asseverazioni di tecnici abilitati. Il tutto nel rispetto delle attività di verifica che la P.A.
deve svolgere.
173
Articolo 19, comma 1, legge 241/1990.
104
Questo dimostra la centralità del ruolo del tecnico e l’importanza dei relativi profili di
responsabilità di quest'ultimo, in particolare alla luce del parere del Consiglio di Stato sullo schema di
“decreto scia”. Tale parere ridimensiona i poteri della pubblica amministrazione, rendendo, di
conseguenza, più pregnante l'intervento del tecnico174.
I risvolti pratici della sua attività si riverberano in modo concreto sulla vita di tutti i giorni,
consentendo di capire il reale legame esistente tra questi precipui aspetti e il ruolo del diritto che si
intreccia e compenetra con la scienza e le tecnologie molte più volte di quanto si possa pensare.
2 .La responsabilità del progettista
Sul punto è centrale comprendere il ruolo del progettista, come figura professionale. Assume
rilevanza significativa nelle fasi di manutenzione del patrimonio edilizio e la normativa di riferimento
è senza dubbio l'articolo 19 della Legge 241 del 1990, il dettato del TUE 380/2001 e la Legge
122/2010.
Per quanto riguarda la legge 122/2010, bisogna prendere contatto con il comma 6 dell’articolo
19 della Legge 241 del 1990 che recita: “Ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle
dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o
attesta falsamente l'esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al comma 1 è punito con la
reclsione da uno a tre anni”.
Si delinea chiaramente una responsabilità di tipologia penale, posta in capo ai soggetti che
necessariamente devono rendere:
- dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell'atto di notorietà per quanto concerne gli stati,
le caratteristiche personali e i fatti riconducibili negli articoli 46, 47 del TU di cui al d.p.r. 28 dicembre
2000, n. 445;
- attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati175;
- dichiarazioni di conformità da parte dell'Agenzia delle imprese176;
Relativamente invece al TUE 380/2001, l'articolo 29, comma 3 prevede, per il progettista, la
qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità177.
Il richiamo alla pubblica necessità, pone il rinvio all'articolo 481 del codice penale, in cui
rientrano i “delitti contro la pubblica fede”.
Si tratta di un articolo rubricato “falsità ideologica in certificati commessa da persone
174
Consiglio di Stato, parere 30 marzo 2016, n. 839, articolo 2.
Corredate da elaborati tecnici indispensabili per permettere i controlli di spettanza dell'amministrazione.
176
Legge 133/2008, relativamente all'esistenza dei requisiti e dei presupposti di cui al primo periodo dell'articolo
19, comma 1, Legge 241/1990.
177
Articolo 359 e 481 codice penale.
175
105
esercenti un servizio di pubblica necessità”. Pertanto tra questi soggetti rientrano i privati che
svolgono professioni sanitarie, forensi o ulteriori professioni il cui esercizio sia concesso solo dopo
abilitazione prevista a livello statale.
Accade che se uno dei soggetti tenuto ad esercitare un servizio di pubblica utilità attesta il
falso, in un certificato, viene punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa da € 51 a € 516.
Queste pene si applicano in via congiunta se il fatto è commesso a scopo di lucro178.
Il tecnico asseverante la scia permane un soggetto da intendersi come esercente un servizio di
pubblica utilità e, sul punto, è utile elencare le tipologie di sanzioni previste dal codice penale. Sono
una pluralità di casi che sono riconducibili, in primis, alla falsità materiale, commessa dal pubblico
ufficiale in atti pubblici, dal pubblico ufficiale in certificazioni o autorizzazioni amministrative, dal
pubblico ufficiale in copie autentiche di atti pubblici o privati e in attestati del contenuto di atti 179. In
secondo luogo vi è la falsità ideologica, commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, dal pubblico
ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative, da persone che svolgono un servizio di pubblica
necessità o dal privato in atto pubblico180.
Il comma 6 dell’articolo 19 della 241 non distingue tra falsità materiale e ideologica al di là
dalle qualifiche che può assumere il soggetto e non specifica se le attestazioni richieste siano da
intendersi come certificati o atti.
La disciplina del codice penale viene conseguentemente in soccorso, colmando quella
genericità insita nel comma 6, certamente non d'aiuto per una corretta ed esauriente comprensione del
tema.
Con un occhio alla giurisprudenza appare però consolidato l'orientamento che riconosce il
valore certificativo dell'asseverazione del progettista, ciò in forza del richiamo espresso che l’articolo
29, comma 3, del TUE fa dell'articolo 481 del codice penale, relativamente alla falsità ideologica di
certificati181.
Altro aspetto da analizzare riguarda il termine dei lavori e le incombenze burocratiche relative.
Il T.U. D.p.r. 380/01 non prevede la dichiarazione di fine lavori per i casi di scia e permessi di
costruire, piuttosto richiede il deposito di un “certificato di collaudo finale”, inteso alla stregua di un
collaudo amministrativo182. Nei casi delle opere sottoposte alla CIL/CILA non è previsto, in modo
espresso, salvo quanto disposto, in via implicita, nella disposizione inerente l'accatastamento
178
Sono altresì applicabili le sanzioni sostitutive previste dagli articoli 53 e ss della legge 689/1981
Articoli 476, 477, 478 codice penale.
180
Articoli 479, 480, 481, 483 codice penale.
181
Cfr. Cass. Pen. Sez III, sentenza, 18 luglio 2010, n. 27699; Cass. Pen. Sez. III, sentenza 19 gennaio 2009, n.
1818
182
D.p.r. 380/01, art. 23, comma 7: ultimato l'intervento, il progettista o tecnico abilitato rilascia un certificato di
collaudo finale, che va presentato allo sportello unico, con il quale si attesta la conformità dell'opera al
progetto presentato con la denunci di inizio attività.
179
106
demandato ai comuni183.
L'espressione insita nell'articolo 23 del D.p.r. 380/01 “laddove integrata con la comunicazione
di fine lavori” conduce a ritenere che operi per tutti quegli interventi di edilizia libera di cui al comma
2 dell'articolo 23 o, necessariamente, facenti rinvio a:
1)
gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b),
ricomprendendo l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre non riguardanti
parti strutturali del fabbricato;
2)
le opere finalizzate a soddisfare esigenze temporanee;
3)
le opere di finitura di spazi esterni e pavimentazione;
4)
i pannelli solari, fotovoltaici fuori dalla zona A) del D.M. 1444/68
5)
le aree ludiche e le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei
fabbricati adibiti a esercizio di impresa.
Questa strutturazione, voluta dal legislatore, pare non ricomprendere l'esercizio della fine
lavori ai rimanenti interventi di edilizia libera:
1)
interventi di manutenzione ordinaria;
2)
eliminazione barriere architettoniche;
3)
attività di ricerca;
4)
i movimenti di terra pertinenti l'esercizio dell'attività agricola;
5)
le serre stagionali mobili.
Si tratta quindi di attività in cui il ruolo del progettista abilitato riveste rilevante centralità così
come nell'ipotesi in cui si voglia beneficiare della detrazione fiscale. Si tratta del caso della detrazione
fiscale del 65 % in cui, oltre ad una serie di altri adempimenti, è necessario presentare una relazione
tecnica asseverata da un professionista abilitato (geometra, architetto, ingegnere, perito industriale,
agronomo e perito agrario). Il tecnico deve certificare che gli interventi realizzati rispondono ai
requisiti di legge indicati agli artt. 6-9 del decreto del ministero dell'economia e delle finanze 19
febbraio 2007184.
Tema poi molto importante è quello della presentazione del documento unico di regolarità
contributiva (DURC) in cui può collocarsi l'intervento del progettista abilitato. Questo documento
integra l’attestazione dell’assolvimento, da parte dell'impresa, degli obblighi legislativi e contrattuali
nei confronti dell'INPS, INAIL e Cassa edile. Le procedure telematiche oggi semplificano l’iter e le
imprese possono chiedere il documento attraverso il portale INAIL e INPS.
183
D.p.r. 380/01, art. 23, comma 5: riguardo agli interventi di cui al comma 2, la comunicazione di inizio lavori è
valida anche ai fini di cui all'articolo 17, primo comma, lettera b), del regio decreto-legge 13 aprile 1939, n.
652, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 1939, n. 1249, ed è tempestivamente inoltrata da
parte dell'amministrazione comunale ai competenti uffici dell'Agenzia delle entrate.
184
D.M. 19 febbraio 2007. Disposizioni in materia di detrazioni per le spese di riqualificazione energetica del
patrimonio edilizio esistente, ai sensi dell'articolo 1, comma 349, della L. 27 dicembre 2006, n. 296.
107
Il DURC contiene il risultato delle verifiche effettuate sulla posizione contributiva
dell'impresa e il termine massimo per l’emissione del documento è oggi fissato in trenta giorni185
Ulteriore argomento degno di particolare importanza riguarda il profilo della responsabilità del
tecnico abilitato esercente il ruolo di direttore dei lavori. Indiscusso che questi sia penalmente
responsabile per i reati edilizi, salvo l’ipotesi d'esonero insita nell'articolo 29 del d.P.R. 6 giugno 2001,
n. 380. Si tratta di un caso peculiare in cui l'attività di edificazione non è conforme alle direttive del
permesso di edificazione, nell’ipotesi di non regolare vigilanza sull'esecuzione delle opere. Sempre da
tenere a mente che il direttore dei lavori deve vigilare con continuità sulle opere della cui esecuzione
ha assunto la responsabilità tecnica186.
Di conseguenza si comprende che la responsabilità penale del direttore dei lavori di un
intervento seguente al regime del permesso di costruire è quella insita nell'articolo 29 del TUE187. La
responsabilità del direttore deve sempre ritenersi sussistente tranne che nella limitata ipotesi in cui
abbia contestato agli altri soggetti la violazione del permesso, fornendo all'autorità amministrativa
motivata e contestuale comunicazione dell'avvenuta violazione e rinunciando al suo incarico.
Ampliando il discorso può essere interessante prendere contatto con la giurisprudenza che si è
più recentemente occupata dell'aspetto della responsabilità del direttore dei lavori in merito alla
sicurezza sul lavoro. Le risposte all’articolato tema giungono da una pronuncia della Corte di
Cassazione che ritiene non sussistente sempre questa responsabilità, ma solo limitatamente alle ipotesi
in cui al direttore “venga affidata una diversa e più ampia estensione dei compiti anche attraverso
comportamenti (…) che possano testimoniare in modo inequivoco l’ingerenza nell'organizzazione del
cantiere o l'esercizio di tali funzioni”188.
3. Brevi riflessioni sulla recente pronuncia della Corte costituzionale in materia di scia
Altro argomento è quello inerente l'attuale disciplina della scia alla luce della pronuncia della
Corte costituzionale di quest’anno, statuizione fondamentale che determina una stabilità per l’istituto,
almeno in materia edilizia189.
Di certo è molto importante anche rendere nota la relativamente recente tendenza a ridurre
l'operatività della scia, in virtù della comunicazione di inizio lavori e della comunicazione inizio lavori
185
Convenzione per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva tra INPS e INAIL,15 aprile 2004,
articolo 4.
186
Cfr. Cassazione n. 38924 del 2006.
187
Cfr. Cass. Pen. Sez III, sentenza 14 luglio 2010, n. 27258.
188
Cass. Pen. Sez IV, sentenza 17 giugno 2015, n. 29792.
189
Corte costituzionale, n. 49/2016.
108
asseverata190. Riduzione che però non ha escluso gli interventi volti a garantire la stabilità della scia e
in cui ha avuto grande peso la riforma Madia191. Si sono limitati i casi in cui si ha un apporto
successivo al termine dei 60 e 30 giorni, rendendolo accettabile fino ai 18 mesi, nelle ipotesi di
riscontrabile e motivato interesse pubblico; oltre i 18 mesi se la scia è stata conseguita con
dichiarazioni e documenti falsi e il fatto risulti da una sentenza192. La stabilità che la scia ottiene, in
questo modo, rischia di essere lesa nel momento in cui entra in gioco la tutela del terzo: in
quest'ipotesi la P.A. potrebbe adottare i provvedimenti interdittivi senza limitazioni temporali193.
Le esistenti perplessità possono essere superate con i decreti legislativi attuativi previsti
dall'articolo 5 della legge Madia, in cui il governo è delegato a identificare i procedimenti
amministrativi da portare a termine con autorizzazione tacita e quelli da predisporre in modalità
espressa. L’obiettivo è rinviare a decreti successivi che meglio chiariscano l’articolato tema. Decreto
legislativo da citare è senz'altro quello del 30 giugno 2016, n. 126. L’articolo 3 del decreto apporta
alcune modifiche alla legge n. 241 del 1990, introducendo, in particolare, l’articolo 18-bis, in merito
alla presentazione di istanze, segnalazioni o comunicazioni.
La scia è stata oggetto di un recente parere del Consiglio di Stato da cui comprendiamo come
essa implichi delle attività caratterizzate non “da una libertà incondizionata di iniziativa economica,
ma da una subordinazione alla legge rispetto al possesso di requisiti e presupposti, la cui sussistenza
garantisce, di per sé ,la tutela dell'interesse pubblico e l’armonizzazione della situazione soggettiva
del denunciante con gli interessi potenzialmente confliggenti”. Sempre il medesimo parere qualifica e
riconduce la scia “nell’ambito delle attività libere, anche se conformate dalle leggi amministrative,
sottoposte alla successiva verifica della sussistenza dei requisiti di tale conformazione da parte delle
autorità pubbliche”194
Superata questa nota di carattere introduttivo, focalizziamo l'attenzione sulla pronuncia della
Corte costituzionale che appare significativa per l’argomento trattato.
La Corte ha esaminato, a seguito di rinvio del Tar Toscana, l'articolo 84 bis della legge
regionale n. 1 del 2005 che prevede un potere di controllo su alcuni interventi edilizi maggiormente
impattanti. Si tratta di un caso in cui il vaglio si può effettuare anche oltre il termine dei trenta giorni
dalla presentazione della scia195.
L'articolo 84 bis viene impugnato per quanto concerne il secondo comma dove, per gli
190
v.d.l. 17, dl. 133/14 conv dalla Legge 164/14 “Sblocca Italia”.
Legge 124/2015.
192
Cfr. articolo 19, comma 4, Legge 241/1990, che pone il rinvio alla disciplina dell'articolo 21 nonies.
193
Ex articolo 19, comma 6 bis, Legge 241/1990- cfr. Tar Veneto 21 12 2015, n. 1338, Tar Piemonte 1 7 2015, n.
1114.
194
Parere Consiglio di Stato, n. 839/2016.
195
Da ricordare che l'articolo in questione è stato applicato dal Consiglio di Stato senza che il Consiglio abbia
rilevato un'incoerenza tra la norma e il dettato dell'articolo 19 della Legge 241/1990; Cfr. Consiglio di Stato,
sentenza 6/03/2015, n. 1146.
191
109
interventi di minor portata, prevede l'adozione di provvedimenti inibitori e sanzionatori anche
successivamente al decorso del termine dei trenta giorni. Il tutto sempre che vi sia difformità
dell'operazione rispetto alle norme urbanistiche. Il Tar che propone il rinvio fa presente che vi è un
palese contrasto tra tale comma e il disposto dell'articolo 19 della 241, infatti la norma permetterebbe
all'amministrazione di esercitare poteri sanzionatori in una più ampia gamma di casi, esorbitando dal
dettato della legge sul procedimento amministrativo.
Sul punto, la Corte costituzionale ritiene fondato il ragionamento del Tar e accoglie il ricorso.
La Corte, parlando della scia, ritiene che essa sia connotata da “una struttura complessa e non si
esaurisca, rispettivamente, con la dichiarazione o la segnalazione, ma si sviluppa in fasi ulteriori: una
prima, di ordinaria attività di controllo dell'Amministrazione; una seconda, in cui può esercitarsi
l'autotutela amministrativa. Non vi è dubbio che anche le condizioni e le modalità di esercizio
dell'intervento della pubblica amministrazione, una volta che siano decorsi i termini in questione,
debbano considerarsi il necessario completamento della disciplina di tali titoli abilitativi, poiché la
individuazione della loro consistenza e della loro efficacia non può prescindere dalla capacità di
resistenza rispetto alle verifiche effettuate dall'Amministrazione successivamente alla maturazione
degli stessi. La disciplina di questa fase ulteriore, dunque, è parte integrante di quella del titolo
abilitativo e costituisce con essa un tutt'uno inscindibile”196.
La questione preminente è quella dell'autotutela: si pone nel rapporto tra potere amministrativo
e il suo possibile riesercizio. Il tutto sempre nella considerazione della tutela che, ad ogni modo, deve
essere garantita all'affidamento del privato.
Ulteriore punto saliente che la Corte rileva è quello secondo cui la normativa regionale, così
strutturata, si è posta nell'ottica di sostituire i principi fondamentali dettati dal legislatore, incidendo in
chiave peggiorativa sui cardini propri della 241. Si delinea quindi un'invasione della riserva di
competenza statale.
I rischi concreti sono, evidentemente, la lesione della certezza e dell’unitarietà della disciplina.
La Corte opta per un ragionamento ricostruttivo che tiene in considerazione il dettato dell’articolo 19 e
dell’articolo 21 della 241 per giungere ad un'affermazione: la scia non permette un intervento
repressivo, successivo alla scadenza del termine dei trenta giorni197.
Evidente dissonanza tra la norma regionale in questione e la norma statale risiede nella
previsione, a livello regionale, della possibilità di esercizio di un intervento di tipologia negativa, per
chi avvia la segnalazione, anche successivamente alla scadenza del termine breve.
In definitiva si comprende che l'illegittimità della norma regionale risiede proprio nel fatto che
le disposizioni statali, interpretate correttamente, non permettono mai l'esercizio della vigilanza dopo
196
Corte costituzionale, n. 49/2016.
Certamente se siamo nella materia edilizio-urbanistica.
197
110
la scadenza del termine di intervento dei trenta giorni.
Queste affermazioni confermano una netta soglia di stabilità che permea la scia così si
struttura una notevole incentivazione all’usufruire della stessa, dotata di omogeneità e tratti
particolarmente vantaggiosi per chi mira ad intraprendere attività in cui l'istituto sia passibile di
utilizzo.
SEVESO: QUARANTA ANNI DOPO
Maria Pia Giracca
(Dottore di ricerca in diritto amministrativo)
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Attività pericolose tradizionali e attività a rischio
di incidente rilevante. – 3. Direttiva Seveso e Seveso bis. – 4. Direttiva Seveso ter e il relativo
recepimento. – 5. Responsabilità. – 6. Conclusioni.
1. Introduzione
Un interessante spunto di riflessione per contribuire al complesso e stimolante tema
proposto dal Convegno “Diritto Scienza e Tecnologia” é offerto dal quarantesimo
anniversario della catastrofe di Seveso198.
Il 10 luglio 1976 si sprigionava dall'industria chimica della società Icmesa Givaudan,
sita nel Comune di Seveso, una nube tossica diffusa dal vento nel territorio circostante.
L'incidente si era verificato in un reparto ove si produceva triclorofenolo (composto chimico
di base per la realizzazione di cosmetici e disinfettanti ospedalieri). A seguito dello scoppio di
un reattore, la temperatura interna superava i 300 gradi cosicché il triclorofenolo si
trasformava in un composto altamente tossico, denominato TCDD (Tetraclorodipenzop198
Per alcuni giorni l'incidente veniva minimizzato, senza suggerire alcuna cautela alla popolazione. A seguito di
moria di animali da cortile alimentati con erba fresca e della comparsa dei sintomi della cloracne (malattia della
pelle) solo dopo nove giorni la società Givaudan ammetteva che tra le sostanze fuoriuscite poteva trovarsi
diossina. Le autorità disponevano l'allontanamento della popolazione dalle zone contigue all'azienda e
stipulavano una convenzione con la Clinica del Lavoro di Milano per il controllo sistematico e periodico della
popolazione per quindici anni. L’incidente procurò una grave contaminazione ambientale con morie di animali,
conseguenze sanitarie per i lavoratori dello stabilimento e ripercussioni psicologiche su tutti i soggetti che si
trovavano in una situazione di incertezza circa le proprie condizioni di salute presente e futura. Per una
ricostruzione dei fatti v. D. BIANCHESSI, La Fabbrica dei profumi, Milano 1995;.
112
diossina), o più semplicemente diossina. Il dibattito sulla necessità della regolamentazione
delle attività industriali che producono sostanze pericolose si sviluppa dopo l'incidente del
1976. L'evento ha innescato infatti una rivoluzione dal punto di vista politico e istituzionale,
economico e sociale, tecnologico e legislativo199. Le istituzioni comunitarie, avvertita la
lacuna rispetto alle problematiche di sicurezza e tutela della popolazione e dell'ambiente,
hanno quindi avviato l'iter di normazione dei rischi connessi ad attività pericolose.
La Direttiva 82/501/CEE sui “rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività
industriali”, a tutti nota come Direttiva Seveso I, rappresenta quindi nel panorama normativo la
risposta comunitaria ai gravi incidenti che, dagli anni '70, avevano messo in luce l'insufficienza dei
controlli e la necessità di delineare procedure comparabili in tutti gli Stati membri.
La vicenda di Seveso, primo incidente industriale noto e documentato avvenuto all'interno di
uno stabilimento con conseguenze rilevanti anche sul territorio circostante, ha costituito dunque anche
uno dei primi banchi di prova dell'innesto del diritto sull'albero della scienza e della tecnica, con lo
scopo precipuo di diminuire l'incidenza del rischio tecnologico e di introdurre un sistema di
prevenzione degli incidenti.
Rispetto alla prima versione si sono imposti nel tempo rilevanti aggiornamenti e importanti
modifiche, da ultimo concretizzate nell'emanazione della Direttiva 2012/18/UE (c.d. Seveso ter)
recepita con il d.lgs. 26 giugno 2015, n. 105, che sostituisce le Direttive 96/82/CE (c.d. Seveso bis) e
2003/105/CE (c.d. Seveso bis II).
Nella sua ultima versione, gli obiettivi della Direttiva europea sono molto chiari:
“stabilire norme volte a prevenire gli incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze
pericolose e limitare le loro conseguenze per la salute umana e per l'ambiente al fine di
assicurare in modo coerente ed efficace un elevato livello di protezione in tutta l'Unione” (art.
1).
Una breve riflessione sul passato pare dunque utile sia per fare il punto sulle politiche
attuate e sulle conseguenze pratiche che ne sono derivate a posteriori, sia per offrire un
monito alle generazioni presenti circa l'efficacia dei principi di prevenzione e precauzione.
199
Il caso Seveso é stato definito (B. POZZO, Seveso trent'anni dopo: percorsi giurisprudenziali, sociologici e di
ricerca, Giuffrè, 2008) l'emblema di tutte le problematiche che si sviluppano a seguito di grandi incidenti
industriali per la necessità di accertare la effettiva pericolosità delle sostanze, la scelta delle misure da adottare,
la bonifica dei siti, la paura della popolazione, l'accertamento delle responsabilità.
113
2. Attività pericolose tradizionali e attività a rischio di incidente rilevante
Ancora prima dell'avvento della normativa comunitaria, nell'ordinamento nazionale
era già noto il tema dell'impatto prodotto sull'ambiente da un certo tipo di lavorazioni
industriali.
Il r.d. 27 luglio 1934 n. 1265 (t.u. delle leggi sanitarie), tuttora in vigore, poneva il
problema della compatibilità tra talune tipologie di attività produttive, la salubrità
dell'ambiente, la salute dell'uomo, definendo “lavorazioni insalubri” le “manifatture o
fabbriche che producono vapori, gas, esalazioni insalubri o che possono riuscire in altro modo
pericolose per la salute degli abitanti”200.
L'evoluzione industriale e il progresso della tecnica, con il corrispondente
potenziamento dei processi produttivi, hanno creato nuovi pericoli e occasioni di incidenti
imprevisti e incontrollati, che hanno evidenziato la necessità di intervenire con una
regolamentazione specifica per prevenire il “rischio” di incidenti rilevanti.
L'introduzione del concetto di “rischio” in un testo legislativo costituisce dunque una
novità assoluta della Direttiva Seveso, dal momento che le regole di prevenzione avevano
ruotato, sino a tale momento, solo intorno a concetti tradizionali di “pericolo” e di “danno”.
La presente riflessione potrebbe a questo punto scivolare sul terreno del rapporto tra
“rischio” e “pericolo”, sull'esame della responsabilità civile per attività rischiose, sulle
funzioni della responsabilità civile rispetto ai principi europei di prevenzione e precauzione.
Tale deviazione non pare tuttavia indicata e pertinente nel breve contesto di una
comunicazione, in cui sarà sufficiente accennare ad un dato di tipo definitorio.
Il concetto di pericolo201 ha origini civilistiche ed é misurabile, concretizzandosi nella
possibilità che si verifichi un evento dannoso. Il termine rischio che ha impegnato i più noti
civilisti202 può essere inteso in una pluralità di accezioni. Nel settore ambientale, tuttavia, esso
indica la probabilità di un incidente che dia luogo ad un pericolo per la salute umana e per
200
Gli art. 216 e 217 distinguono due categorie di stabilimenti industriali: industrie da cui può derivare “danno o
pericolo di danno” per la salute (da isolare nelle campagne e tenere lontano dalle abitazioni) e stabilimenti per il
cui esercizio si richiedono cautele per salvaguardare il vicinato.
201
Nell'ordinamento civilistico il termine compare in diverse disposizioni (tra cui gli artt. 890, 1171, 1172, 2045,
2046, 2050 c.c.) oltre che nell'art. 700 c.p.c. allorché può diventare determinante per la concessione di forme di
tutela cautelare ove il danno possa interessare diritti assoluti come la vita e la salute.
202
La teoria del rischio é stata studiata a P. TRIMARCHI (Rischio e responsabilità oggettiva, Milano 1961); nonché
G. ALPA e CALABRESI, che ritiene che “la disciplina della responsabilità civile debba essere organizzata in modo
che responsabilità e rischi ricadano sui soggetti che meglio di chiunque possano realizzare questo scopo e che
con varie tecniche possano incorporare nel prezzo tutti i costi del prodotto”.
114
l'ambiente all'interno o all'esterno dello stabilimento. Dunque nel campo ambientale il rischio
si riferisce sia all'agire interno dell'attività d'impresa, per l'obbligo di costruire un sistema
capace di prevenire gli incidenti, che all'agire esterno, per il possibile verificarsi di eventi
imprevedibili e pregiudizievoli idonei a fare scattare le regole di responsabilità.
3. Direttiva Seveso e Seveso bis
Con la Direttiva del 1982 sul rischio di incidenti rilevanti si avvia un percorso che
rappresenta una svolta nella cultura industriale in materia di sicurezza e prevenzione.
Invertendo l'impostazione tradizionale della normativa ambientale incentrata sul
regime autorizzatorio, si introduce l'obbligo in capo al “fabbricante” (responsabile dell'attività
industriale) della valutazione dei rischi e il dovere di comunicazione dei medesimi, per fornire
alle amministrazioni competenti gli elementi utili all'attività di vigilanza e prevenzione.
La ratio di una scelta legislativa, che si concentra sulla autonotifica del fabbricante, si
coglie nella considerazione secondo cui, nelle imprese ad elevata tecnologia e nelle industrie
chimiche altamente specializzate, l'imprenditore é il soggetto più qualificato al controllo
perché dotato della conoscenza dei processi industriali del proprio settore e del relativo
bagaglio tecnico.
Va tuttavia sottolineato che, nel provvedimento di recepimento della originaria
normativa europea (D.P.R. 175/1988), più severo della stesa direttiva, non sono mancati punti
deboli. La nuova disciplina presentava tanti fattori critici dovuti all'assenza di una visione
sistematica della materia ed al frazionamento di competenze tra amministrazioni statali, locali
e altri enti, il tutto aggravato dall'inadeguatezza, sotto il profilo tecnico, dell'apparato
amministrativo di controllo.
Si é sottolineato che la normativa dettata dal D.P.R. 175/1988 si basava su una
procedura tanto farraginosa e contraddittoria da essere definita dallo stesso Ministro
dell'Ambiente “un labirinto senza uscite”, mentre l'intreccio e la sovrapposizione di
competenze in sede centrale (ministri ambiente e salute) e locale (regione e prefetto) si
risolveva in “paralizzanti conflitti di competenze”203.
203
P. DELL'ANNO, La disciplina dei rischi industriali tra adeguamento comunitario e complicazioni nazionali, in
Ambiente, 2000, n. 9, 815.
115
Come rilevato in una delle rarissime pronunce giurisprudenziali sull'applicazione del
D.P.R. 175/1988, ai quesiti degli imprenditori, gli stessi enti rispondevano in maniera evasiva
o errata a causa delle metodologie di calcolo nuove per la redazione dei piani di sicurezza,
mai adottate in altre leggi italiane, che poche società di consulenza erano in grado di
redigere204.
Nel complesso si può ritenere che la svolta imposta a livello comunitario abbia
comportato l'abbandono di un approccio alla prevenzione trainato e “dominato” dalla
tecnologia a favore di una politica di sicurezza incentrata sul contributo attivo dell'attività
dell'industriale nella valutazione e gestione del rischio.
Sulla base dell'esperienza acquisita, quattordici anni dopo la Comunità europea
modifica la disciplina degli incidenti rilevanti con la Direttiva 1996/82/CE c.d. Seveso bis
(recepita con il d.lgs. 334/1999 per la “prevenzione degli incidenti rilevanti connessi all'uso di
determinate sostanze pericolose”), che innova profondamente rispetto al sistema precedente.
L'aspetto senza dubbio più importante della nuova disciplina, che emerge dalla stessa rubrica,
riguarda il nuovo approccio al rischio: non si considera più l'“attività industriale” (come nel
D.P.R. 175/88) bensì la presenza di specifiche “sostanze pericolose” nello stabilimento, quale
che sia l'attività industriale svolta. La Direttiva modifica sostanzialmente il precedente quadro
normativo anche per l'introduzione: - del sistema di gestione della sicurezza; - del controllo
dell'urbanizzazione205; - del c.d “effetto domino”206 su cui ha fornito un'autorevole
interpretazione la Corte di Giustizia207; - della partecipazione della popolazione al processo
decisionale, oltre che per la rimodulazione della definizione di fabbricante e l'inserimento di
nuove sostanze pericolose.
204
Pret. Genova, 19 aprile 1993, in Riv. giur. amb., 1993, 749; in Giur. merito, 1993, 1332, con nota di BUTTI; in
Foro it., 194, II, 58.
205
Il controllo dell'urbanizzazione é necessario per contenere la vulnerabilità del territorio circostante lo
stabilimento che viene diviso in aree in base a punti critici come ospedali, scuole, centri commerciali.
206
Espressione che allude alla previsione di aree ad alta concentrazione di stabilimenti in cui aumenta il rischio
di incidente a causa della connessione tra le attività industriali.
207
A proposito dell'art. 12 della Direttiva Seveso bis la Corte Giustizia Ce, sentenza 15.09.2011, causa C-53/10
evidenzia che gli Stati membri devono provvedere alle necessità di mantenere opportune distanze da considerarsi
nel lungo periodo tra gli impianti e le zone frequentate dal pubblico e tale necessità grava inevitabilmente
sull'autorità pubblica che rilascia le licenze edilizie, anche qualora essa eserciti tale prerogativa mediante
decisioni vincolate. Inoltre l'obbligo di cui all'art.12 non impone alle autorità nazionali di vietare tout court
l'insediamento di un edificio aperto al pubblico in prossimità di impianti sottoposti alla disciplina Seveso, ma
“osta a una normativa nazionale che preveda il dovere di autorizzare l'insediamento di un edificio senza che
siano stati adeguatamente valutati i rischi connessi all'insediamento all'interno del perimetro di dette distanze in
fase di pianificazione”.
116
La disciplina di cui al d.lgs. 334/1999 ha subito una modifica a seguito del d.lgs.
238/2005 di recepimento della Direttiva 2003/105/CE (da alcuni già definita Seveso ter o
Seveso bis II). La Direttiva del 2003 si limitava in realtà ad aggiornare la normativa vigente
con una novella, ampliando la categoria delle sostanze cancerogene, riducendo la quantità
limite di sostanze pericolose di cui era ammessa la detenzione, introducendo maggiore
severità circa gli obblighi a carico dei gestori con la valutazione non solo delle sostanze
presenti ma anche di quelle “previste”208.
4. Direttiva Seveso ter e il relativo recepimento
La recente Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2012/18/UE del 4 luglio
2012 “sul controllo del pericolo di incidenti rilevanti connessi con sostanze pericolose,
recante modifica e successiva abrogazione della Direttiva 1996/82/CE” si presenta,
ufficialmente, come la nuova Direttiva Seveso poiché sostituisce integralmente, a partire dal
1° giugno 2015, la Direttive 96/82/CE e 2003/05/CE.
La nuova Direttiva (c.d. Seveso ter) revisiona e riorganizza la precedente senza
modificarne radicalmente strumenti e campo di applicazione, in quanto l'esperienza europea
maturata ha dimostrato che l'impianto attuale ha saputo garantire un accettabile livello di
sicurezza della popolazione e dell'ambiente dal verificarsi di incidenti rilevanti.
Il passaggio dalla Seveso bis alla Seveso ter é dettato dall'esigenza primaria di
adeguarne la disciplina (allegato 1) al recente cambiamento del sistema di classificazione
delle sostanze chimiche. L'obiettivo di armonizzare il sistema di catalogazione dei prodotti
chimici all'interno dell'Unione europea con quello adottato a livello internazionale in ambito
ONU (GHS - Globally Harmonised Sistem of Classification and Labelling of Chemicals) ha
pertanto comportato, dapprima, l'emanazione del regolamento CE n. 1272/2008 (relativo alla
208
Tar Lombardia 16.03.2015, n. 726 chiarisce che il d.lgs. 334/1999 dà rilievo non solo alle sostanze “presenti”
nello stabilimento ma anche a quelle “previste”. Nel caso di specie la Provincia, vista la presenza di una quantità
di triossido di cromo superiore alla soglia minima stabilita per l'applicazione del d.lgs. 334/99 aveva imposto
l'applicazione della disciplina “Seveso” ad uno stabilimento di cromatura, conteggiando non solo il triossido
effettivamente presente (in quantità sotto soglia) durante il controllo, ma anche l'acido cromico depositato in
alcune vasche in quanto “soluzione formata da triossido di cromo disciolto in acqua al 20%”. Dunque secondo il
Tar Lombardia, nello stabilimento é stato presente, quantomeno temporaneamente, un quantitativo a secco di
triossido precedente al suo scioglimento nelle vasche ubicate all'interno dello stabilimento, ben superiore a
quello riscontrato al momento del sopralluogo e tale da giustificare la soggezione alla Direttiva Seveso.
117
classificazione etichettatura ed imballaggio di sostanze e miscele) e di conseguenza
l'aggiornamento della Direttiva Seveso alla luce di detto regolamento.
Nel testo della Direttiva é stata assicurata la coerenza anche con altri regolamenti e
direttive209 e con le risposte fornite dalla Commissione europea ai quesiti emersi
dall'applicazione della Direttiva 96/82/CE.
Oltre agli aggiornamenti tecnici, la pubblicazione della nuova Direttiva é anche
l'occasione per: - superare problemi interpretativi relativi agli “stabilimenti”210 che vengono
distinti, anche dal punto di vista terminologico, in due classi (di soglia superiore: S.S. e di
soglia inferiore: S.I.); - perfezionare la terminologia (non si parla più di danni all'“uomo” ma
alla “salute” né di “probabilità e possibilità” ma di “rischio e conseguenze di incidenti
rilevanti”); - semplificare le procedure e ridurre gli oneri amministrativi per il gestore; potenziare il sistema dei controlli introducendo l'obbligo di pianificare e programmare le
ispezioni negli stabilimenti211; - garantire un migliore accesso all'informazione sui rischi
dovuti alle attività di impianti industriali soggetti alla direttiva Seveso in ossequio alla
Convenzione di Aarhus del 1998; assicurare la partecipazione della popolazione alle decisioni
relative a nuovi insediamenti, con la previsione di azioni legali in caso di inosservanza.
Sul piano nazionale il recepimento della Seveso ter é affidato al d.lgs. 26.06.2015 n.
105 che conferma sostanzialmente l'impianto delle competenze212 assegnate dal d.lgs. 334/199
(come modificato dal d.lgs. 238/2005) al Ministero dell'Interno per le funzioni istruttorie e di
controllo sugli stabilimenti di soglia superiore (S.S. ex art. 8 d.lgs. 334/99) e alle regioni delle
funzioni di controllo sugli stabilimenti di soglia inferiore (S.I. ex art. 6 d.lgs. 334/99).
Il dato più interessante a livello nazionale contenuto nel d.lgs. 105/2015 é certamente
rappresentato dall'aggiornamento e completamento di tutte le norme di carattere tecnico
necessarie per la sua applicazione. Infatti da tempo si lamentava il mancato completamento
della decretazione tecnica attuativa già prevista dal d.lgs. 334/99 ma emanata solo in parte e
gestita in regime transitorio per quindici anni. La completezza del d.lgs. 105/2015 che
209
Regolamento CLP; Direttiva 75/2010/CE IPPC; Convenzione di Aarhus del 1998 relativa all'accesso alle
informazioni, alla partecipazione del pubblico ai processi decisionali e all'accesso alla giustizia e alle direttive di
recepimento della Convenzione (direttiva 2003/4/CE E 2003/35/CE).
210
Stabilimento: tutta l'area sottoposta al controllo di un gestore, nella quale sono presenti sostanze pericolose
all'interno di uno o più impianti.
211
Gli art. 19 e 20 della Direttiva relativi alle misure di controllo vengono notevolmente ampliati e integrati
rispetto alla Seveso bis anche mutuando definizioni e terminologie dalla Direttiva IPPC.
212
La materia dei rischi di incidenti rilevanti é stata oggetto di importanti pronunce dei giudici costituzionali, tra
cui Corte Cost., 26.07.2002, n. 407, in Foro it., 2003, I, 688-692; Corte Cost., 6.04.2005, n. 135, in Riv. giur.
amb., 2005, 802; Corte Cost., 248/2009, in lexambiente.it.
118
contiene nei suoi allegati (A-M) tutta la decretazione attuativa offre, per la prima volta, ai
gestori degli stabilimenti e alle amministrazioni interessate la semplicità di un “testo unico” in
materia di controllo del pericolo di incidenti industriali rilevanti (T.U. R.I.R.), così
accorpando in un unico contesto ogni aspetto tecnico e applicativo senza ulteriori
provvedimenti attuativi.
Sul piano tecnico una delle modifiche più significative riguarda la disciplina delle
ispezioni, che viene notevolmente integrata e ampliata rispetto alla Seveso bis anche
mutuando definizioni e terminologia dalla Direttiva 2010/75/CE IPPC. Sotto il profilo delle
misure di controllo si definisce: - l'obbligo di pianificazione e programmazione delle
ispezioni; - il tempo (4 mesi) entro cui comunicare al gestore gli esiti del rapporto di
ispezione, la cui grave inosservanza può comportare il divieto dell'attività213; - le ipotesi in
cui si può procedere ad ispezioni straordinarie (reclami gravi, incidenti gravi, quasi incidenti)
e supplementari. Si prospetta anche l'opportunità di coordinare le ispezioni Seveso con quelle
richieste da altre Direttive Ue (es. VIA, AIA, REACH) unificando le autorità coinvolte con il
conseguente coordinamento tra Ministeri, Regioni e Arpa. Il principio della cooperazione tra
autorità e del coordinamento delle ispezioni é stato esplicitamente introdotto con il
recepimento della Direttiva sulle emissioni industriali214.
5. Responsabilità
Chiaro é che la portata della disciplina introdotta dalle Direttive Seveso, in questa sede
appena sfiorata, é speciale perché subordinata all'eventualità che nel processo industriale vi
sia l'uso di determinate sostanze pericolose e che si produca un'emissione, un incendio o
un'esplosione.
213
L'esperienza nazionale sul piano delle ispezioni é quantitativamente inferiore a quella di altri paesi in quanto
la atavica mancanza di risorse a livello centrale e regionale, unitamente al mancato trasferimento di competenze
dallo Stato alle regioni, e l'inattività di alcune di esse hanno determinato un crollo verticale del numero di
ispezioni.
214
Per i controlli ambientali il principio del coordinamento delle ispezioni é stato esplicitamente introdotto con il
recepimento della Direttiva “IED” 2010/75/UE sulle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate
dell'inquinamento) avvenuta con il d.lgs. 46/2014 che all'art. 6 ter prevede che “le Regioni possono prevedere il
coordinamento delle attività ispettive in materia di autorizzazione integrata ambientale con quelle previste in
materia di valutazione di impatto ambientale e in materia di incidenti rilevanti nel rispetto delle relative
normative”.
119
La tutela del rischio industriale si presenta dunque come materia che si affianca a
quelle ambientali tradizionali, concentrandosi non sulle lesioni dell'ambiente bensì sul
controllo nell'uso di particolari sostanze pericolose, pertanto non ricomprende nel suo campo
di applicazione il fenomeno dei disastri ambientali tecnicamente intesi. Qualora la lesione,
nonostante l'impegno preventivo, si dovesse concretizzare, scatteranno pertanto le tradizionali
regole di responsabilità215.
Le vicende risarcitorie relative al caso Seveso, in assenza di una specifica disciplina
sul danno ambientale216, avevano interessato la Corte dei Conti. Il PM contabile all'epoca,
sulla base di un'interpretazione estensiva di danno ambientale inteso come arrecato al
patrimonio dello Stato (danno erariale), aveva iniziato a promuovere una serie di azioni in casi
di danneggiamento all'ambiente, tra cui appunto nel caso Seveso217.
Sul piano invece della risarcibilità delle situazioni soggettive dei privati per i danni
non patrimoniali derivanti da illecito ambientale218, il caso Seveso ha permesso di raggiungere
importanti traguardi giurisprudenziali.
Infatti, il contenzioso in sede penale aveva condotto alla condanna degli imputati per il
reato di disastro colposo (art. 449 c.p.), nonché al risarcimento dei danni a favore della parti
civili (poi tradottosi in numerosi atti di transazione). Nel tempo, alcuni privati hanno poi
esercitato autonome azioni civili per ottenere il ristoro di un profilo di danno, non
contemplato negli atti transattivi, rappresentato da quanto patito personalmente, in termini di
turbamento emotivo (danno morale), ancorché in assenza di danno biologico causalmente
accertabile219. La risarcibilità, in primo e secondo grado220, trovava fondamento nel
215
Le regole della responsabilità dopo l'incidente di Seveso hanno infatti generato numerosi processi sia in sede
penale che civile contribuendo specie questi ultimi all'evoluzione giurisprudenziale del concetto di “danno da
paura” poi invocato anche nelle sentenze del c.d. processo Eternit.
216
I profili che definiscono il modello di responsabilità per i pregiudizi cagionati all'ambiente sono infatti
elaborati a livello europeo tempo dopo e sono proposti dalla Direttiva 2004/35/CE sulla prevenzione e
riparazione dei danni all'ambiente poi applicati dal Codice dell'Ambiente (parte IV del d.lgs. 152/2006 art. 300
ss.).
217
C. Conti, sez. prima, 19.02.1979, in Foro it., 1979, III, 138.
218
Cass. Civ., Sez. III, 13 maggio 2009, n. 11059, in Giust. Civ., 2010, 1, 93 con nota di FIMIANI, La risarcibilità
del danno alla persona da illecito ambientale.
219
In primo grado (Trib. Milano, 11.07.1991, in RCP, 1995, 136) e in secondo grado (App. Milano 15.4.1994. in
Giur. It., 1994, I, sez. II, 975-976) secondo cui “il danno morale soggettivo inteso quale transeunte turbamento
psicologico è, al pari del danno patrimoniale in senso stretto, danno-conseguenza, risarcibile solo ove derivi
dalla menomazione dell’integrità fisica dell’offeso o da altro tipo di evento produttivo di danno patrimoniale”.
220
Rispettivamente Trib. Milano, 11.07.1991, in RCP, 1995, 136 e App. Milano, 15.04.1994, in Giur. It., 1994,
I, sez. II, 975-976.
120
combinato disposto degli art. 2059 c.c. e 185 c.p.221 trattandosi di danni non patrimoniali
derivanti da reato.
Con due pronunce di eguale tenore, nel 1997 la Corte di Cassazione, smentiva la
soluzione adottata dai giudici di merito, invocando i principi espressi dalla Consulta (Corte
Cost., 184/1986 e 37/1994)222.
La giurisprudenza di Cassazione sul caso Seveso evolve ulteriormente, come
testimoniato da successive pronunce particolarmente significative: dalle sentenze del 1997
(con cui si negava l'autonoma risarcibilità dei danni morali da reato, in assenza di danno
biologico), si è pervenuti alla sentenza, sezioni unite, del 2002223 (con cui si ammette
l’autonoma risarcibilità del danno morale da reato, pur in assenza di danno biologico), sino
alla sentenza del 2009 (che ha confermato la risarcibilità, incidendo sul profilo probatorio224).
Nel 2009 la Suprema Corte ribadisce i principi del 2002225, sancendo il risarcimento
autonomo del danno non patrimoniale, derivante da disastro ambientale, pur in assenza di
danno biologico, nei confronti di tutti coloro che, in virtù di un vincolo di vicinanza con i
luoghi dell'evento dannoso, abbiano, presuntivamente, subito le conseguenze di tale evento in
termini di “patema d'animo indotto dalla preoccupazione per il proprio stato di salute”226.
221
Secondo quanto dispone l’art. 185, 2° comma c.p., “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o
non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono
rispondere per il fatto di lui”.
222
Cass. Civ., 24.5.1997, n. 4631, in Giur. It., 1998, 1370 e Cass. Civ., 20.06.1997, n. 5530, in Foro it., 1997, I,
2068.
223
Cass., Sez. Un., 21 febbraio 2002 n. 2515, in Giur it., 2002, 1270. Con tale pronuncia, sul versante
ambientale, la risarcibilità di sofferenze morali era stata estesa al pregiudizio sofferto da soggetti che, pur non
avendo subito danni alla salute, avessero provato in concreto un turbamento psichico. La Suprema Corte
ammette, per la prima volta nel 2002, la autonoma risarcibilità delle sofferenze morali in caso di reato, e dunque
a titolo di danno non patrimoniale, a favore di soggetti che avevano subito un turbamento psichico (non
trattandosi di danno biologico) a causa dell'esposizione a sostanze inquinanti ed alle conseguenti limitazioni del
normale svolgimento della loro vita.
224
Sotto il profilo probatorio, la novità del 2009 consiste nell'ammissibilità della prova per presunzioni.
225
Affermando che “il danno morale soggettivo, lamentato da soggetti che abitano e/o lavorano in un ambiente
compromesso a seguito di disastro colposo e che provino in concreto di avere subito un turbamento psichico di
natura transitoria a causa dell'esposizione a sostanze inquinanti e delle conseguenti limitazioni del normale
svolgimento della loro vita é risarcibile autonomamente, anche in mancanza di una lesione dell'integrità psicofisica o di altro evento produttivo di danno patrimoniale”, così Cass. Civ., Sez. III, 13 maggio 2009, n. 11059, in
Giust. Civ., 2010, 1, 93 con nota di FIMIANI, La risarcibilità del danno alla persona da illecito ambientale.
226
Sul piano della risarcibilità del danno non patrimoniale, non sembrerebbe trattarsi di una sentenza
rivoluzionaria, perché fa propri i traguardi già raggiunti nel 2002, l'aspetto evolutivo si manifesta, invece, sul
piano dell'alleggerimento dell'onere probatorio e dell'adozione di un approccio meno formalistico, mirante al
ristoro delle “ripercussioni negative sul valore uomo”, cagionate dal reato, “a prescindere dal nome attribuito al
danno, così BLASI, Il caso Seveso: ampliamento della risarcibilità del danno non patrimoniale e riflessi sulla
nozione di bene-ambiente in Riv. Quadr. Dir. Amb., 2010, n. 0
121
La disciplina Seveso, che non ha comportato la creazione di nuove fattispecie legali o
di regimi speciali di responsabilità, ma é rimasta nel solco tradizionale dei modelli codificati
(art. 2043 c.c. e art. 2050 c.c.), stimola ancora oggi la riflessione. Vi é chi ha ipotizzato un
modello di responsabilità che contrappone la responsabilità per “atto illecito” dalla
responsabilità per “rischio lecito”227; vi é chi cerca nuovi modelli che tengano conto dei
principi europei di prevenzione e precauzione228; vi é chi ritiene che l'attenzione per
prevenzione e precauzione lungi dal portare a cercare nuove regole per il settore della
responsabilità civile, inducano piuttosto ad accostarsi alla materia con lo scopo di rivalutare la
funzione preventiva delle regole di responsabilità civile (spesso pretermessa) rispetto all'altra
macrofunzione (spesso osannata) riparatoria e compensativa229.
6. Conclusioni
La peculiarità della normativa elaborata in materia di rischio industriale a partire dalla
catastrofe di Seveso si collega alla specificità dei suoi contenuti. Non si tratta infatti di una
tipologia particolare di inquinamento, bensì della regolamentazione del rischio di incidente
legato alla gestione di stabilimenti che producono o utilizzano sostanze pericolose, in un'ottica
preventiva e precauzionale230.
Come si é osservato231, la disciplina considera un evento patologico, straordinario ed
estremo, quale é un incidente, regolamentando la convivenza con il rischio connesso ad
attività produttive, “una sorta di gestione del rischio sostenibile”.
Il tema affidato bene si inserisce allora nel dibattito aperto dal convegno poiché
consente di riflettere sui rapporti tra scienza e tecnologia (intesi come strumento di
conoscenza e progresso) da un lato e diritto (inteso come complesso di regole volte a
227
P. TRIMARCHI, Causalità e danno, Milano, Giuffrè, 1967; sul punto in particolare la dottrina ha chiarito che
entrambi i regimi tendono alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato, ma la responsabilità per atto
illecito svolge una funzione di repressione di atti vietati; mentre la responsabilità oggettiva imputa al
responsabile il costo di un rischio consentito, pertinente più che a singoli atti ad un'attività di regola
imprenditoriale che il responsabile svolge.
228
F. DEGLI INNOCENTI, Rischio d'impresa e responsabilità civile: la tutela dell'ambiente tra prevenzione
riparazione dei danni, Firenze, University Press, 2013.
229
U. IZZO, La precauzione nella responsabilità civile: analisi di un concetto sul tema del danno da contagio per
via trasfusionale, Padova, 2004, 30 ss.
230
In questi termini A. CROSETTI, R. FERRARA, F. FRACCHIA, N. OLIVETTI RASON, Diritto dell'ambiente, Bari
2008, 385.
231
M. CAFAGNO, Inquinamento, in Digesto pubbl., Torino, 2005, 399.
122
prevenire e gestire i rischi a tutela degli interessi coinvolti) dall'altro. Dunque sulla funzione
stessa del diritto232.
In tale contesto il diritto si pone infatti come una necessità, ossia come strumento di
“controllo della scienza e della tecnica” in un'ottica di prevenzione e di precauzione. Perché si
é imparato dall'esperienza di quaranta anni che, nella società del rischio (come univocamente
si qualifica la società attuale, in cui il rischio é per lo più costruito dall'uomo), le risposte del
diritto non possono aspettare le certezze della scienza, ma devono pre-venire.
232
Per questi temi cfr. N. IRTI - E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Roma-Bari, 2001; per un diverso
approccio L. MENGONI, Diritto e tecnica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2001.
DIRITTO E TECNICA. IL CASO DELLA GIURISDIZIONE SULLE ACQUE A
CENTO ANNI DALL’ENTRATA IN VIGORE DEL DECRETO LEGISLATIVO
LUOGOTENENZIALE 20 NOVEMBRE 1916, N. 1664, ISTITUTIVO DEL TRIBUNALE
DELLE ACQUE PUBBLICHE. UN “MODELLO” (FORSE) DA RISCOPRIRE?
Alessandro Paire
(Dottore di ricerca in diritto pubblico)
Sommario: 1. Premessa. – 2. La giurisdizione sulle acque a cento anni dall’entrata in
vigore del decreto legislativo luogotenenziale 20 novembre 1916, n. 1664, istitutivo del
Tribunale delle Acque Pubbliche. – 3. Spunti conclusivi.
1. Premessa
Le presenti minime osservazioni, muovendo nel solco del complesso e travagliato
rapporto tra diritto e tecnica oggetto del Convegno odierno, si propongono di richiamare
fugacemente l’attenzione dell’uditorio su un particolare ambito del nostro ordinamento
giurisdizionale che vide proprio nella “elevata tecnicità della materia” rimessa al sindacato di
quel particolare Giudice, un suo importante fattore costitutivo se, non, addirittura, il suo vero
e proprio elemento genetico233.
Esattamente cento anni fa, con l’emanazione del Decreto Luogotenenziale 20
novembre 1916, n. 1664 istituiva il Tribunale delle Acque Pubbliche, il legislatore – chiamato
ad affrontare il tema del giudizio in settori particolarmente permeati dalla tecnica – risolveva
il problema innestando all’interno del collegio giudicante dei tecnici al fine di assicurare in
233
Gli Atti del Convegno sono pubblicati in questo Volume.
124
camera di consiglio un dialogo pronto ed immediato tra coloro chiamati a rendere la
decisione234.
Agli albori del XIX secolo, in piena Grande Guerra, la materia delle concessioni
idroelettriche e, più in generale, il contenzioso delle acque, rappresentava un tema che, più di
altri, per la sua forte caratterizzazione tecnica, risultava degno di un giudice particolarmente
qualificato e competente, e non solo sotto il profilo giuridico: «l’evolversi dell'economia e la
necessità di sfruttare sempre più le risorse idriche avevano portato alla creazione di un
complesso corpus normativo, la cui applicazione richiedeva la presenza di un sistema
giurisdizionale in grado di risolvere questioni spesso assai complicate sotto il profilo tecnico.
Si avvertiva, cioè, l'esigenza di un organo giurisdizionale ad hoc, ossia chiamato a risolvere
le sole questioni in materia di acque»235.
Da allora, la migliore dottrina si è interrogata circa le ragioni storiche (giuridiche e,
talvolta, politiche) che portarono alla creazione di una giurisdizione speciale e specializzata
delle acque pubbliche domandosi, ciclicamente, se sussistano ancora le condizioni per un suo
mantenimento o se gli sviluppi che si sono prodotti nella materia delle acque e nel nostro
sistema di giustizia più in generale ne suggeriscano la soppressione236.
Non è certo questa la sede per affrontare un tema così complesso e complicato, quello
che preme piuttosto rilevare e sottolineare è come all’origine stessa del contenzioso delle
acque pubbliche – o, meglio, dell’istituzione di un vero e proprio Giudice delle acque – vi
234
Come ricordato in dottrina, “la sua istituzione rispondeva all’esigenza, in una materia considerata ad elevato
grado di complessità tecnica, di assicurare un giudice che, grazie alla presenza nel proprio collegio di ingegneri
idraulici e funzionari esperti in acque pubbliche e opere idrauliche, fosse in grado di assicurare una giustizia
adeguata”. Il riferimento è a B. MARCHETTI, La giurisdizione sull'acqua. Una specialità da conservare?, in,
SANTUCCI – SIMONATI – CORTESE, (a cura di), L’acqua e il diritto, Trento, Università degli Studi di Trento,
2011, p. 211 ss. Sul tema, tra i classici, per tutti, G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, vol. II, La
giustizia amministrativa, VI ed., Milano, 1948, p. 289; F. GIANNATTASIO, Il Tribunale delle acque pubbliche ed
il moltiplicarsi delle giurisdizioni speciali, in Riv. dir. pubbl., 1917, I, p. 241; F. VASSALLI, In tema di decreti
legge: il Tribunale delle acque pubbliche, Roma, 1918; A.M. SANDULLI, Sulla sopravvivenza delle giurisdizioni
speciali al termine fissato per la loro revisione, in Giur. cost., 1956; R. CHIEPPA, Leggi nuove e giurisdizioni
speciali preesistenti, in Giur. cost., 1962, 1501 ss.; G. VACIRCA, Tribunali delle acque pubbliche, in Enc. giur.,
XXXI, Roma, 1991; C.E. GALLO, La giurisdizione del giudice amministrativo nei confronti del Tribunale
superiore acque pubbliche: una questione aperta non superata dal legislatore, in Foro amm. CDS, 2002, 12, p.
3173; G.B. CONTE, Tribunali delle acque pubbliche, in S. CASSESE, (a cura di), Dizionario di diritto pubblico,
vol. VI, Milano, 2006, p. 5997.
235
V. PARISIO, I Tribunali delle Acque: un modello giurisdizionale tutto italiano, in Foro amm., TAR, fascicolo
12, 2009, p. 3679 ss.
236
V. PARISIO, I Tribunali delle Acque: un modello giurisdizionale tutto italiano, in Foro amm., TAR, fascicolo
12, 2009, p. 3679 ss. cit.
125
fosse il problema di cui oggi stiamo discutendo ovverosia il ruolo del sapere tecnico e
scientifico nell’amministrazione della giustizia.
In allora il nodo venne sciolto con la creazione di un tribunale speciale competente a
decidere le controversie in materia introducendo in modo a dir poco “rivoluzionario”
un’eccezione all’ordinario regime di riparto fondato sulla situazione giuridica soggettiva al
fine di soddisfare l’esigenza, in una materia considerata ad elevato grado di complessità
tecnica, di assicurare un giudice che, grazie alla presenza nel proprio collegio di ingegneri
idraulici e funzionari esperti in acque pubbliche e opere idrauliche, fosse in grado di rendere
una giustizia adeguata.
Esso godeva originariamente di una competenza estesa sia ai diritti soggettivi che agli
interessi legittimi, poiché la rilevanza del profilo tecnico delle controversie era risultata
prevalente rispetto ad ogni altro profilo, compreso il principio dell’unità della giurisdizione.
Nondimeno, un siffatto assetto unitario della giurisdizione durò assai poco, sia a causa
del problema della unicità del grado di giudizio, valutata intollerabile soprattutto in ipotesi di
cognizione di diritti soggettivi, che per quello della unicità di sede giacché una sola sede
giurisdizionale in Roma, rendeva oggettivamente difficoltosa una reale giustiziabilità diffusa.
Il successivo Regio Decreto n. 2161 del 1919 statuiva la nascita di otto tribunali
regionali (denominati appunto tribunali regionali delle acque pubbliche, TRAP) istituiti
presso le Corti d’Appello di Torino, Venezia, Milano, Firenze, Roma, Napoli, Cagliari e
Palermo come sezioni specializzate della giurisdizione ordinaria competenti a decidere, in
primo grado, le controversie in materia di diritti soggettivi.
Il sistema della giurisdizione sulle acque assumeva un nuovo e definitivo assetto con
un Tribunale denominato Tribunale Superiore delle acque pubbliche deputato quale giudice
d’appello a conoscere le controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi, assegnate, in primo
grado, alle sezioni specializzate delle Corti d’appello; in materia di interessi legittimi, invece,
esso manteneva la sua natura di giudice di unico grado.
Tale nuovo assetto veniva successivamente recepito nel Regio Decreto 11 dicembre
1933, n. 1775 recante il Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici
che, nonostante i numerosissimi tentativi di riforma radicale, per la parte relativa al
contenzioso, è tuttora il testo normativo di riferimento, seppur parzialmente novellato a
seguito di due pronunce della Corte Costituzionale.
126
2. La giurisdizione sulle acque a cento anni dall’entrata in vigore del decreto
legislativo luogotenenziale 20 novembre 1916, n. 1664, istitutivo del Tribunale delle Acque
Pubbliche
Come detto poc’anzi, nel corso degli ultimi decenni, sono stati molteplici i tentativi di
riforma del Giudice delle Acque: dal progetto di riforma presentato dalla Commissione Ferrati
nel 1973 a quello presentato dalla Commissione Palazzolo nel 1990.
Più recentemente, occorre menzionare il Disegno di Legge recante “Abolizione dei
tribunali regionali e del Tribunale Superiore delle acque pubbliche” approvato dal Consiglio
dei Ministri del 6 settembre 2002237 nonché il Decreto Legge n. 251 dell’11 novembre 2002,
237
Particolarmente significative risultano le considerazioni di carattere “storico” sviluppate nelle premesse dei
lavori prepratori al Disegno di Legge in parola laddove si legge testualmente che “Il funzionamento di questi
ormai datati organi giurisdizionali, strutturati ed operanti con norme ancorate al codice processuale del 1865,
si presenta assai dispendioso, perché prevede delle strutture ormai non più congrue rispetto al numero di
controversie, da giudicarsi del tutto irrisorio rispetto al normale carico degli altri organi giurisdizionali (negli
ultimi cinque anni le cause iscritte sono state, rispettivamente, 169, 193, 191, 198, 207), sicché il "servizio
giustizia" si presenta nella materia assai dispendioso. La struttura giudiziaria, storicamente datata, si
comprende e giustifica solo in un contesto storico superato, tant'è che è stata più volte oggetto di tentativi di
revisione e di adeguamento rimasti senza esito, anche in funzione dell'obbligo costituzionale di riesaminare gli
organi speciali di giurisdizione di cui al comma 1 della VI disposizione transitoria e finale della Carta
costituzionale (progetto di riforma presentato al Ministero dei LL.PP. dalla commissione Ferrati, nominata nel
1966 che terminò i lavori nel 1973; progetto di riforma presentato al Ministero dei LL.PP. dalla commissione
Palazzolo, nominata nel 1989 che terminò i lavori con una relazione stralcio sul contenzioso nell'aprile del
1990); da ultimo, la necessità di un intervento è divenuto assolutamente indispensabile all'esito di alcune recenti
sentenze della Corte costituzionale. (…) Tali pronunce di incostituzionalità, unitamente alla considerazione di
scarsa compatibilità tra i principi che reggono il giudizio in materia di acque e quelli in materia processuale
sanciti dalla Costituzione (si pensi a mo' di esempio che l'impugnativa davanti al T.s.a.p. come giudice
amministrativo è limitata ad un unico grado e che l'impugnativa innanzi alla Sezioni unite della Cassazione
delle sentenze emesse dal T.s.a.p. quale giudice amministrativo è ammessa con ricorso straordinario, fuori dal
sistema vigente) suggeriscono il presente intervento normativo che si propone di sopprimere i citati organi
giurisdizionali e di attribuire al giudice ordinario (Tribunali e Corti d'appello) le cause relative a diritti ed al
giudice amministrativo (t.a.r. e Consiglio di Stato) dei ricorsi avverso i provvedimenti amministrativi in tema di
acque. Tenuto conto del numero molto basso di controversie (l'ultima rilevazione riferisce una pendenza di
appena 556 processi), nonché di una regolamentazione del testo unico superata ed in contrasto con l'intervenuta
normativa costituzionale, si presenta la avvertita esigenza di riportare l'attuale contenzioso davanti al giudice
naturalmente competente e cioè al giudice ordinario per le questioni relative a diritti e al giudice amministrativo
per quelle concernenti lesioni di interessi legittimi, fatto salvo, per quest'ultimo, la competenza, introdotta dalle
recenti modifiche legislative, a conoscere del risarcimento del danno nelle materie devolute alla sua
giurisdizione. La soluzione proposta distribuisce, dunque, le competenze dei tribunali delle acque pubbliche tra
giudice ordinario ed amministrativo, prevedendo un generale doppio grado di giudizio con possibilità di ricorso
per cassazione relativamente alla giurisdizione nei casi di decisione di secondo grado del Consiglio di Stato ed
ordinario (art. 360 e ss. C.p.c.) negli altri casi. Il posto di presidente del T.s.a.p. viene soppresso e questa
soppressione è utilizzata per istituire un nuovo posto di presidente aggiunto della Corte suprema di cassazione,
permettendo la razionalizzazione della distribuzione delle competenze degli aggiunti tra il ramo civile e quello
penale. L'organico amministrativo del T.s.a.p. viene aggregato a quello della Corte di cassazione, con salvezza
dei diritti del personale impiegato. La disciplina transitoria e di attuazione è concepita per un graduale
passaggio al nuovo sistema, che rispetti le aspettative ed i diritti delle parti nei procedimenti pendenti (art. 5
comma 4), garantendo l'appello e l'impugnazione dei provvedimenti, secondo un termine (90 giorni dall'entrata
in vigore della presente legge) che tiene conto delle novità introdotte. Il medesimo criterio di riparto della
127
recante “Misure urgenti in materia di amministrazione della giustizia” il cui Capo I prevedeva
agli artt. da 1 a 4 l’abolizione dei Tribunali regionali e del Tribunale superiore delle acque
pubbliche, Capo successivamente non convertito in Legge238.
Sotto il profilo normativo, solo con la L 26 febbraio 2004, n. 45, le disposizioni
originali di inizio Novecento del TU sulle Acque hanno subito una modifica con la riforma
degli art. 139 e 149 nel senso auspicato dalla Consulta con le celebri sentenze del 2002.
Con la decisione 20 giugno-3 luglio 2002, n. 305, la Corte si è pronunciata in merito
agli articoli 139 e 143, comma 3 del TU, giudicandoli incostituzionali nella parte in cui non
prevedono la nomina di uno o più supplenti, nell’ipotesi di astensione di uno dei componenti
titolari.
Con la decisione 10-17 luglio 2002, n. 353, la Corte ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale della composizione dei tribunali regionali relativamente alla partecipazione al
collegio giudicante di uno dei tre tecnici, già funzionari del genio civile239.
In particolare, convertendo il DL 24 dicembre 2003, n. 354, il legislatore ha previsto
l’integrazione del collegio da parte tre esperti, iscritti nell’albo degli ingegneri e nominati con
decreto del Ministro della Giustizia in conformità alla deliberazione del Consiglio Superiore
della Magistratura su proposta del presidente della Corte di appello o del Presidente del
Tribunale Superiore, a seconda del tribunale interessato; inoltre, è stata modificata la struttura
del collegio del Tribunale delle acque, che ora decide con l’intervento di tre votanti, tra i
quali uno degli esperti ingegneri240.
giurisdizione è esteso anche alle ipotesi di revocazione, opposizione di terzo e di correzione delle ordinanze e
delle sentenze, previste attualmente dal codice di procedura civile. (…)”.
238
G. VIRGA, Prime impressioni derivanti dalla lettura del decreto legge n. 251/2002; ID., Sul regime transitorio
previsto dal DL n. 251/2002 a seguito della soppressione dei Tribunali delle acque, consultabili in internet sul
sito: «http:www.lexitalia.it».
239
Le sentenze sono consultabili in internet sul sito istituzionale della Corte all’indirizzo
«http:www.cortecostituzionale.it».
240
Recita l’art. 1 del DL convertito rubricato “Riorganizzazione dei tribunali delle acque”: “1. Fino all'entrata
in vigore della complessiva riforma della disciplina concernente la giurisdizione in materia di acque pubbliche,
attualmente contenuta nel testo unico di cui al regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, si osservano le
disposizioni che seguono: a) all'articolo 138 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, sono apportate le
seguenti modificazioni: 1) il secondo comma è sostituito dal seguente: «Il Tribunale regionale è costituito da
una sezione ordinaria della Corte di appello designata dal presidente, integrata con tre esperti, iscritti nell'albo
degli ingegneri e nominati con decreto del Ministro della giustizia in conformità alla deliberazione del
Consiglio superiore della magistratura adottata su proposta del presidente della Corte di appello.»; 2) il quarto
comma è sostituito dal seguente: «Il Tribunale regionale decide con l'intervento di tre votanti, tra i quali uno
degli esperti di cui al secondo comma.»; b) all'articolo 139 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, sono
apportate le seguenti modificazioni: 1) al secondo comma, la lettera d) è sostituita dalla seguente: «d) tre
esperti, iscritti nell'albo degli ingegneri.»; 2) al quarto comma le parole: «i membri tecnici dal Presidente del
128
Da ultimo, occorre menzionare la Proposta di Legge AC 2658/2014 recante
“Soppressione dei tribunali regionali e del Tribunale superiore delle acque pubbliche”
presentata l’8 ottobre 2014 ed attualmente giacente presso gli Uffici legislativi della Camera
dei Deputati.
Anche tale tentativo di riforma prende le mosse da una ricostruzione ed una visione
del sistema TRAP – TSAP piuttosto tranchant in senso negativo, qualificandolo
espressamente come un modello superato e, soprattutto, “assolutamente antieconomico”.
In estrema sintesi, si propone – nuovamente – di “migliorare l’efficienza dell'apparato
giustizia sopprimendo i citati organi giurisdizionali e attribuendo al giudice ordinario
(tribunali e corti d'appello) le cause relative a diritti soggettivi ed al giudice amministrativo
(tribunali e Consiglio di Stato) le controversie che hanno quale proprio oggetto la lesione di
interessi legittimi”.
Inoltre, si prevede che le “controversie in materia di risarcimento del danno sono
attribuite al giudice amministrativo nei casi devoluti alla sua giurisdizione” e che, al fine di
una generale razionalizzazione, “il posto di presidente del Tribunale superiore della acque
pubbliche viene soppresso a favore dell’istituzione di un nuovo posto di presidente aggiunto
della Corte di cassazione” con l’aggregazione dell’organico amministrativo del tribunale a
quello della Corte di cassazione, fatti salvi i diritti del personale impiegato241.
Consiglio superiore dei lavori pubblici» sono sostituite dalle seguenti: «gli esperti sono nominati con decreto
del Ministro della giustizia in conformità alla deliberazione del Consiglio superiore della magistratura adottata
su proposta del presidente del Tribunale superiore.»; c) all'articolo 1 della legge 1° agosto 1959, n. 704, sono
apportate le seguenti modificazioni: 1) il primo comma è sostituito dal seguente: «L'indennità fissa mensile
spettante, indipendentemente da ogni altra indennità o compenso, ai componenti dei tribunali delle acque
pubbliche è fissata in euro 15,50 per i magistrati del Tribunale superiore, in euro 11,36 per i presidenti effettivi
dei tribunali regionali e in euro 9,3 per i consiglieri effettivi degli stessi tribunali.»; 2) dopo il primo comma è
inserito il seguente: «Agli esperti componenti del Tribunale superiore delle acque in qualità di titolari o
supplenti, ed agli esperti componenti dei tribunali regionali delle acque, spetta un'indennità di euro 100 per
ciascuna udienza cui prendano parte.»; d) dopo l'articolo 139 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, è
inserito il seguente: «139-bis. Nelle stesse forme previste per i titolari sono nominati in pari numero componenti
supplenti del Tribunale superiore, i quali sono retribuiti, per il servizio effettivamente prestato, nella misura
prevista dall'articolo 1, primo e secondo comma, della legge 1° agosto 1959, n. 704.». 1-bis. Fino alla nomina.
degli esperti secondo le modalità di cui al presente articolo, restano in servizio gli esperti in carica alla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, secondo le modalità dei rispettivi incarichi (1).
2. Per l'attuazione delle disposizioni di cui al comma 1, lettera c), è autorizzata la spesa di 35.957 euro a
decorrere dall'anno 2004 (2) . 2-bis. Per l'attuazione delle disposizioni di cui al comma 1, lettera d), è
autorizzata la spesa di 9.387 euro a decorrere dall'anno 2004 (1). (1) Comma inserito dalla legge di
conversione 26 febbraio 2004, n. 45. (2) Comma sostituito dalla legge di conversione 26 febbraio 2004, n. 45”.
241
Cfr. la Proposta di Legge consultabile in internet sul sito della Camera dei Deputati «www.http:camera.it»
“PROPOSTA DI LEGGE. Art. 1. 1. Ai fini della presente legge per tribunali regionali si intendono i tribunali
129
regionali delle acque pubbliche e per Tribunale superiore si intende il Tribunale superiore delle acque
pubbliche, previsti e disciplinati dal titolo IV del testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti
elettrici, di cui al regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, e successive modificazioni. Art. 2. 1. Decorsi
sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge il titolo IV del testo unico di cui al regio
decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, e successive modificazioni, e l'articolo 64 dell'ordinamento giudiziario, di
cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, sono abrogati. Dalla stessa data sono soppressi i tribunali regionali
delle acque pubbliche e il Tribunale superiore delle acque pubbliche. Art. 3. 1. Dalla data di entrata in vigore
della presente legge, le controversie concernenti le materie previste dall'articolo 140 del testo unico di cui al
regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, già di competenza dei tribunali regionali delle acque pubbliche, sono
instaurate davanti al tribunale ordinario che ha sede nel capoluogo del distretto territorialmente competente, il
quale giudica in composizione collegiale. Le controversie nelle materie previste dall'articolo 143 del medesimo
testo unico di cui al regio decreto n. 1775 del 1993 sono attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Il ricorso per cassazione avverso la pronuncia resa in grado di appello dal Consiglio di Stato è limitato ai
motivi di cui all'articolo 362 del codice di procedura civile ed è deciso ai sensi dell'articolo 374, primo comma,
dello stesso codice. 2. Le controversie di cui al comma 1 in materia di risarcimento del danno sono attribuite al
giudice amministrativo nei casi devoluti alla sua giurisdizione. Art. 4. 1. La pianta organica della magistratura
è, contemporaneamente alla soppressione del posto di presidente del Tribunale superiore delle acque pubbliche,
aumentata di un posto di primo presidente aggiunto della Corte di cassazione. La tabella B allegata alla legge 5
marzo 1991, n. 71, e successive modificazioni, è sostituita dalla tabella B di cui all'allegato A annesso alla
presente legge. 2. L'organico del personale amministrativo già attribuito al Tribunale superiore delle acque
pubbliche è assegnato alla Corte di cassazione. Il relativo personale in servizio all'atto della cessazione
dell'attività dell'ufficio mantiene l'inquadramento precedentemente goduto. 3. L'organico del personale
amministrativo già attribuito ai tribunali regionali delle acque pubbliche è assegnato alle corti d'appello
competenti per territorio. Il relativo personale in servizio all'atto della cessazione dell'attività dell'ufficio
mantiene l'inquadramento precedentemente goduto. Art. 5. 1. Dalla data di entrata in vigore della presente
legge sono sospesi di diritto i procedimenti pendenti davanti ai tribunali regionali e al Tribunale superiore delle
acque pubbliche. Resta fermo l'obbligo di depositare i provvedimenti per le cause assegnate in decisione
anteriormente alla medesima data. Il deposito di provvedimenti, successivamente alla scadenza del termine di
cui all'articolo 2, è effettuato presso la cancelleria della corte d'appello relativamente ai provvedimenti del
tribunale regionale delle acque pubbliche e presso la cancelleria della prima sezione civile della Corte di
cassazione per i provvedimenti del Tribunale superiore delle acque pubbliche. Le cancellerie provvedono agli
adempimenti di competenza conseguenti al deposito delle sentenze e delle ordinanze in materia civile previsti
dal codice di procedura civile. 2. Entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge gli
interessati riassumono le cause pendenti presso i tribunali regionali delle acque pubbliche e il Tribunale
superiore delle acque pubbliche, davanti al giudice individuato secondo i criteri stabiliti dall'articolo 3. La
mancata riassunzione nel termine determina l'estinzione del procedimento. Le controversie pendenti in secondo
grado avanti al Tribunale superiore delle acque pubbliche sono riassunte avanti alla corte d'appello competente
per territorio; quelle pendenti davanti al Tribunale superiore delle acque pubbliche in unico grado sono
riassunte dinanzi al tribunale amministrativo regionale competente che decide con sentenza appellabile al
Consiglio di Stato. 3. Gli atti processuali compiuti davanti ai tribunali regionali delle acque pubbliche e al
Tribunale superiore delle acque pubbliche conservano la loro validità e la loro efficacia anche dopo la
riassunzione. 4. Contro i provvedimenti per i quali non sia decorso il termine di impugnazione, pronunciati dal
tribunale regionale delle acque pubbliche nelle materie di cui all'articolo 3, comma 1, è ammesso l'appello alla
corte d'appello competente per territorio; contro i provvedimenti pronunciati dal Tribunale superiore delle
acque pubbliche in unico grado nelle materie di cui all'articolo 3, comma 2, e, in grado d'appello, al medesimo
articolo 3, comma 1, è ammesso il ricorso per cassazione nei casi e nelle forme previsti dagli articoli 360 e
seguenti del codice di procedura civile. 5. Nei soli casi di cui al comma 4 l'impugnazione è proposta, a pena di
inammissibilità, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, ovvero dalla data di
deposito della sentenza, fatta salva la sospensione dei termini processuali di cui all'articolo 1 della legge 7
ottobre 1969, n. 742, e successive modificazioni. 6. Per i giudizi di revocazione, nei casi previsti dagli articoli
130
Sorprendentemente, l’attuale stagione di riforme messe in cantiere dall’Esecutivo in
carica, pur toccando trasversalmente, oltre che, convulsamente, l’intero ordinamento – ivi
compreso quello costituzionale – non ha generato in materia di contenzioso delle acque nuovi
propositi di riforma.
3. Spunti conclusivi
Dalla fugace rassegna che precede, emerge chiaramente come tutti i tentativi di
riforma avviati, sia a livello legislativo che governativo, a far tempo dalla seconda metà del
secolo scorso, siano orientati nella medesima direzione ovverosia verso una radicale
abolizione del Giudice speciale in favore del giudice ritenuto “naturalmente competente” e
cioè, il giudice ordinario, per le questioni relative a diritti, e il giudice amministrativo, per
quelle concernenti lesioni di interessi legittimi.
Dai lavori preparatori e dagli atti parlamentari risulta palpabile la volontà del
Legislatore di sopprimere il plesso TRAP – TSAP, visto come un vero e proprio retaggio del
passato oramai anacronostico, anche e soprattutto in chiave eurounitaria, nonché foriero di
inefficienze non più tollerabili.
Invero, dati alla mano, tale visione sembra più porsi nel solco di quei movimenti ed
impulsi riformatori presenti a livello comunitario che, sulla spinta di una ovvia e
comprensibile esigenza di omogeneizzazione, auspicano “sempre e comunque” drastici
interventi di semplificazione, più che su oggettive e lucide ragioni di ordine tecnico di politica
legislativa.
Ogniqualvolta è stata fatta questione di compatibilità del plesso TRAP – TSAP con
l’assetto normativo vigente, il Giudice delle Acque è stato sostanzialmente sempre e
comunque promosso, soprattutto all’indomani degli interventi correttivi imposti dalla
Consulta.
395 e seguenti del codice di procedura civile, di opposizione di terzo, nei casi previsti dagli articoli 404 e
seguenti del codice di procedura civile, nonché di correzione delle ordinanze e delle sentenze, nei casi previsti
dagli articoli 287 e seguenti del codice di procedura civile è competente, nelle materie di cui all'articolo 3,
comma 1, della presente legge, il tribunale ordinario e, nelle materie di cui al medesimo articolo 3, comma 2, il
tribunale amministrativo regionale”.
242
B. MARCHETTI, La giurisdizione sull'acqua. Una specialità da conservare?, in, SANTUCCI – SIMONATI –
CORTESE, (a cura di), L’acqua e il diritto, cit., p. 229.
131
Emblematica, in proposito, la compatibilità di tale sistema con le “garanzie” di cui
all’art. 6 della CEDU, oggi ritenuta pressoché unanimemente pacifica.
In disparte qualsivoglia considerazione in ordine alla estrema difficoltà di distinguere
tra le varie posizioni giuridiche soggettive di volta in volta sottese alle singole fattispecie che
un siffatto modello alimenterebbe ed acuirebbe assai significativamente rispetto alla
situazione attuale – difficoltà ben note agli operatori del settore continuamente impegnati a
superare le molteplici eccezioni reciprocamente sollevate dalle parti – quello che francamente
risulta assai poco condivisibile con un tale orientamento e tendenza è la volontà di riformare
purchessia, frutto di un’equazione non sempre corretta ovvero che un modello “antico” sia un
modello “superato” e, in quanto tale, “superabile”.
Come noto, una riforma giurisdizionale è da valutare non solo in termini quantitativi
(numero di pronunce rese, risparmi sui costi degli uffici giudiziari, etc.) ma anche e,
soprattutto, qualitativi.
Orbene, che le sentenze emesse dal Giudice delle Acque siano mediamente
soddisfacenti risulta tra gli operatori del settore un dato sostanzialmente unanime e condiviso.
In una materia caratterizzata da un elevato grado di complessità, la scelta di eliminare
tutto e rimettere all’ordinario criterio AGO – GA, francamente sembra un po’ troppo semplice
e semplicistica.
Certo il sistema potrebbe essere migliorato e semplificato – ad esempio attraverso uno
snellimento del rito ovvero una significativa razionalizzazione organizzativa del personale
addetto (giudicante ed amministrativo) – ma di qui a eliminare con un semplice tratto di
penna del legislatore (o, peggio ancora, del Governo!), una Magistratura che vanta oltre cento
anni di storia precorritrice nell’amministrare la giustizia in materie spiccatamente tecniche, il
passo è lungo.
Oramai, affermare che il contenzioso delle acque rappresenti una materia talmente
complessa e specialistica da meritare un giudice ad hoc allorquando materie altrettanto
tecniche quali, ad esempio, le energie rinnovabili o la contrattualistica pubblica o, ancora, gli
atti delle Autorità amministrative indipendenti, sono rimesse ad un sindacato giurisdizionale
“ordinario”, sembra una tesi assai difficile da sostenere.
Inoltre, in dottrina, tra i fautori della soppressione, non è mancato chi ha acutamente
osservato come «la presenza di un componente tecnico all’interno del collegio giudicante
poteva considerarsi una risorsa preziosa al tempo della istituzioni dei tribunali, in cui il
132
processo amministrativo ordinario soffriva di ingenti limitazioni sotto il profilo dei mezzi di
prova, ma la riforma del 2000 che ha visto l’introduzione della consulenza tecnica d’ufficio e
la civilizzazione dello strumentario probatorio ad opera del Codice del processo rendono ora
adeguata la tenuta del processo rispetto all’accertamento di fatti anche complessi»242.
Nondimeno, se è vero che – oggigiorno – la presenza di un esperto non togato nel
collegio non è il solo modo di garantire la tecnicità delle decisioni del giudice non sembra
parimenti vero che la sua presenza sia totalmente ininfluente.
Alla luce della stessa giurisprudenza resa dai Tribunali delle Acque, allorquando si
faccia questione di problemi di natura eminentemente tecnica, assai di frequente il giudice –
talvolta anche d’ufficio – demanda al consulente tecnico l’accertamento della vicenda rimessa
al proprio sindacato243.
242
B. MARCHETTI, La giurisdizione sull'acqua. Una specialità da conservare?, in, SANTUCCI – SIMONATI –
CORTESE, (a cura di), L’acqua e il diritto, cit., p. 229.
243
L’art. 167 del TU 1775/1933 prevede che “Occorrendo accertamenti tecnici, il giudice vi procederà insieme
con uno dei funzionari del Genio civile aggregati al Tribunale o, se si tratti del Tribunale superiore, insieme con
uno dei componenti del Tribunale stesso indicati nella lettera d) dell'art. 139. In occasione di tali accertamenti
tecnici, il giudice può sentire testimoni con giuramento, senza alcuna altra formalità di procedura, riassumendo
nel verbale le loro dichiarazioni. Se i testimoni non si trovino sul luogo, il giudice può ordinarne la citazione
anche immediata o a brevissimo termine. In casi eccezionali, il giudice può anche nominare un tecnico per i
rilievi necessari, la descrizione dei luoghi e la constatazione dello stato di fatto”. A fronte di siffatta
formulazione la giurisprudenza si è interrogata circa l’ammissibilità della CT nel c.d. rito delle acque: tra le altre,
circa il giudizio avanti allo TSAP (in sede d’appello), Tribunale Superiore delle Acque, 5 febbraio 2001, n. 12
(“Nel procedimento instaurato a norma del combinato disposto degli art. 105 e 106 (novellato, quest'ultimo,
dall'art. 10 d.lg. 12 agosto 1993 n. 273) t.u. 11 dicembre 1933 n. 1775, la corretta comunicazione di avvio del
procedimento nelle forme e per le finalità di cui all'art. 7 l. 7 agosto 1990 n. 241, unitamente alla possibilità
offerta concretamente alle parti interessate, ovvero a quelle - diverse dal diretto destinatario - alle quali possa
derivare pregiudizio dal provvedimento conclusivo, è intesa alla acquisizione, nel procedimento medesimo, di
tutti gli interessi coinvolti, in via di preventiva composizione, onde deve ritenersi, in linea di principio,
correttamente ed esaustivamente compiuta l'attività istruttoria nel caso in cui le parti che vi avrebbero avuto
interesse, non abbiano sollevato, direttamente o a mezzo dei loro tecnici di fiducia, le dovute osservazioni e
contestazioni avverso le metodologie adoperate ed alle conclusioni rassegnate dagli organi tecnici, incaricati
dell'attività istruttoria dall'Amministrazione e correttamente, altresì, recepiti i risultati di detta attività, nel caso
in cui nessuna osservazione in merito sia pervenuta dalle parti coinvolte (tempestivamente informate del
deposito delle conclusioni) ovvero sia stata data, in sede decisoria, congrua e ragionevole risposta a dette
osservazioni; pertanto, verificatisi tali condizioni, non è ammissibile la consulenza tecnica d'ufficio intesa a
contraddire le metodologie e le risultanze dell'attività accertativa posta in essere dalla competente autorità,
essendo tale mezzo istruttorio - astrattamente reso possibile dall'art. 167 t.u. n. 1775 del 1933 - è pur sempre,
qualificato eccezionale dalla stessa norma, davanti al tribunale superiore delle acque pubbliche, la cui
specializzazione specifica, anche per i profili tecnici, trova supporto nella appartenenza, al collegio giudicante,
di una componente non togata, tecnicamente qualificata”); ovvero (in primo grado avanti ai TRAP), Tribunale
Superiore delle Acque, 24 giugno 1985, n. 34 (“Poich l'art. 208 del t.u. 11 dicembre 1933 n. 1775 prevede
espressamente l'osservanza delle norme e, conseguentemente, degli istituti del codice di rito per quanto non
specificamente regolato dal titolo della legge, è legittimo l'esperimento di una consulenza tecnica disposta dal
tribunale regionale delle acque pubbliche nel corso del giudizio di primo grado”). Circa, infine, il TSAP in sede
di legittimità, tra le altre, Cassazione civile, Sez. Un., 26 maggio 2015, n. 10794, cassa con rinvio, Tribunale
Superiore delle Acque, 5 agosto 2013. In dottrina, tra gli altri. F.G. SCOCA, Giustizia Amministrativa, Torino,
2014.
133
Ma una cosa è la predisposizione dell’elaborato tecnico, tutt’altra cosa è garantire il
giusto raccordo tra il perito ed il giudice, raccordo che solo la presenza qualificata di un
esperto non togato in camera di consiglio sembra oggettivamente garantire.
In un sistema improntato e retto formalmente sul principio “iudex peritus
peritorum”244 troppo di frequente si assiste ad un giudice che, a causa dell’estrema tecnicità
della materia, finisce per “appoggiarsi” sulle conclusioni del proprio consulente abdicando –
quantomeno parzialmente – al primato del diritto sulla tecnica.
Gli esempi in questo senso potrebbero essere molteplici e trasversali, dalla
responsabilità medica al danno erariale, dalla contrattualistica commerciale agli illeciti
economici e finanziari.
Tale tema rappresenta notoriamente una questione di pressante attualità che vede
aumentare la propria importanza in funzione dell’aumentare dell’ingresso o, meglio, del
proliferare, della tecnica nel diritto245.
Ma allora, in questo contesto, ecco che forse l’esperienza del Giudice delle Acque non
sembra totalmente inutile e meritevole di una soppressione tout court.
L’idea di assicurare il giusto coordinamento tra Giudice e sapere tecnico siccome
pensata dal legislatore esattamente cento anni fa potrebbe (forse) trovare nuova applicazione
con sistemi giurisdizionali auspicabilmente “rivisti” in chiave moderna.
Del resto, dopo anni di dibattiti e discussioni, il modello plasmato dal legislatore del
Regno nel 1919 sembra ancora oggi obiettivamente conservare e garantire, nel difficile
rapporto tra diritto e tecnica e, quindi, in definitiva, tra giudici e tecnici, tratti di originalità
insuperati246.
244
Secondo il consolidato principio, nel nostro ordinamento vige il principio del “iudex peritus peritorum”, in
virtù del quale è consentito al Giudice di merito valutare la complessiva attendibilità delle conclusioni peritali e,
se del caso, disattenderne le sottese argomentazioni tecniche laddove queste risultino intimamente
contraddittorie. In giurisprudenza, tra le altre, Consiglio di Stato, Sez.VI, 9 febbraio 2015, n. 627; Corte di
Cassazione Civile, Sez. I, 22 novembre 2010, n. 23592; id., Sez. III, 11 giugno 2009, n. 13530; id., Sez. III, 18
novembre 1997, n. 11440.
245
Sul tema, per tutti, R. FERRARA, Introduzione al diritto amministrativo, Roma, Bari, 2014, passim. Più in
generale, per i richiami dottrinali sul tema, doveroso il rinvio agli Atti del Convegno pubblicati in Questa
Rivista.
246
In dottrina, chiaramente favorevole alla loro “conservazione”, tra gli altri, V. PARISIO, I Tribunali delle
Acque: un modello giurisdizionale tutto italiano, in Foro amm., TAR, fascicolo 12, 2009, p. 3679 ss. cit. secondo
la quale “La presenza nel collegio giudicante del non togato, dotato di specifiche competenze tecniche, appare
una scelta felice, in quanto permette di dare, nella dialettica della camera di consiglio, una risposta celere e di
qualità a questioni nelle quali profilo tecnico e giuridico sono spesso indissolubilmente legati. Ad oggi, il plesso
giurisdizionale dei TRAP e del TSAP ha dato vita ad una giurisprudenza altamente specialistica, emanata in
tempi e a costi contenuti. Pensare di far venir meno il plesso giurisdizionale TRAP e TSAP (che dopo tutto ha
134
dato buona prova di sé), in assenza di una ridefinizione dell'assetto generale della giustizia amministrativa, che
l'emanando codice del processo amministrativo in parte contribuirà a delineare, appare forse al momento
prematuro. È innegabile che, data l'importanza sempre crescente della risorsa idrica, il relativo contenzioso
debba venire deciso da organi giurisdizionali indipendenti e imparziali, ai sensi dell'art. 6 Cedu, e soprattutto «
ben equipaggiati » sotto il profilo delle competenze tecniche. A tal fine, a prescindere da quelli che potrebbero
essere gli sviluppi futuri, la presenza di tecnici esperti nei collegi giudicanti va certamente mantenuta, a
garanzia, come già si diceva, della celerità e qualità del giudicato sotto il profilo tecnico, così come si deve
cercare di non disperdere quel patrimonio di sapienza giurisprudenziale che si è stratificato in più di un
secolo”.
OGM, TECNOSCIENZA E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Matteo Timo
(Dottorando Università di Genova)
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Procedimento di autorizzazione dei prodotti GM e
ruolo dell’expertise scientifica. – 2.1. Considerazioni generali sulla normativa europea di
autorizzazione. – 2.2. Procedimento e attività consultiva. - 2.3. (Segue) Brevi considerazioni
sulla giurisprudenza – 3. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
La presente comunicazione si pone in ideale prolungamento della relazione tenuta dal
Prof. Vincenzo Dovì247 con riguardo ai rapporti che dividono, ovvero legano, le materie
giuridiche da quelle, in senso lato, scientifiche. Invero, le tematiche affrontate nella
richiamata relazione ben si prestano ad essere trasposte in un peculiare settore, costituito dagli
organismi geneticamente modificati (anche conosciuti con l’acronimo “OGM”).
La disciplina dei prodotti, e in particolare dei cibi e mangimi, geneticamente
modificati rappresenta uno dei settori nei quali il diritto dell’Unione europea è intervenuto
con maggior rigore e, per quanto interessa al fine della presente raccolta di Atti, con
significativo recepimento delle (rectius rinvio o delega alle) scienze dure. Non a caso, gli
OGM hanno costituito, e tuttora costituiscono, un problema di carattere multidimensionale248:
247
In questi Atti, V. DOVÌ, Le nuove frontiere di scienza e tecnologia: confronto e dialogo con il diritto.
In dottrina è stato evidenziato come gli OGM abbiano un impatto multidimensionale che non incide solo sul
diritto, ma anche sulle altre discipline c.d. “sociali”, nonché sulle conoscenze scientifiche: in proposito, D.
BEVILACQUA, La regolazione degli OGM: la multidimensionalità dei problemi e le soluzioni della democrazia
amministrativa, ne I frutti di Demetra, 2007, 15.
248
136
essi impongono l’elaborazione di una normativa ad elevato contenuto tecnico e, di
conseguenza, un’altrettanto tecnicamente capace applicazione della normativa medesima.
Siffatti requisiti, ovviamente, non sono di immediata portata del legislatore e della pubblica
amministrazione, ma richiedono che essi recepiscano un qualcosa – scienza e tecnica – che è a
loro esterno.
Si evince, dunque, con chiarezza il portato multidimensionale: gli OGM incidono sul
diritto, sulla scienza e sulla tecnica, sull’economia e sulla società. È del tutto evidente la
constatazione in forza della quale la stessa multidimensionalità discende da una complessità
scientifica di fondo con riguardo alle biotecnologie249: il rapido progredire di quest’ultime
dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso ad oggi ha richiesto uno sforzo giuridico ed
economico che, all’opposto, non pare essere stato metabolizzato dalla società civile250.
Restringendo l’esame
al
settore
giuridico
si
nota,
tuttavia,
una
marcata
interdisciplinarietà: i settori del diritto che sono in un qualche modo lambiti dalla c.d.
“biotech” sono tradizionalmente individuati in quello normativo (come il legislatore deve
assimilare il portato scientifico e tradurlo in disposizione normativa) e quello giudiziario 251 (a
quale approccio il giudice civile, penale e amministrativo deve improntare la risoluzione di
controversie ad elevata complessità tecnoscientifica).
Invero, anche il
momento
amministrativo procedimentale, benché forse non oggetto di ampi studi in merito, risente
sempre più di una stretta interazione con la tecnoscienza252.
È ormai palese che la Pubblica amministrazione rivesta un ruolo complesso
scientificamente, nonché politicamente: da un lato, è tenuta ad applicare al caso concreto la
normativa tecnica – spesso dovendo, nel provvedimento, rielaborare valutazioni non
giuridiche di esperti – e, dall’altro lato, si ritrova nella poco piacevole situazione di assumere
decisioni che non godono dell’approvazione dei consociati (esempio lampante è fornito
proprio dagli OGM nelle loro varie entità: colture, cibi e mangimi).
249
Attenta dottrina osserva che la complessità della disciplina naturalistica ha condotto ad una altrettanto
complessità delle problematiche “ecologiche”, intese quale corpus di questioni scientifiche, tecnologiche,
economiche, morali, giuridiche e politiche. In tal senso M. TALLACCHINI, Ambiente e diritto della scienza
incerta, in G.Rossi (a cura di), Ambiente e diritto, Torino, 1999, Volume I, pag. 61.
250
G. GRANIERI, Umanità accresciuta. Come la tecnologia ci sta cambiando, Bari 2009, pagg. 19 ss.
251
In proposito si richiamano M.T. BONAVIA, Giudici ordinari scienze e tecniche, in questi Atti; O.M. CAPUTO,
Giudici amministrativi, scienze, tecniche e discrezionalità tecnica e amministrativa, in questi Atti.
252
Con simile termine si vuole, con una parola, indicare tutto il portato dell’elaborazione scientifica e
tecnologica; in merito si veda M. BUCCHI, Scegliere il mondo che vogliamo. Cittadini, politica, tecnoscienza,
Bologna, 2006, pagg. 8 e 9; nonché M.C. TALLACCHINI, Stato di scienza? Tecnoscienza, policy e diritto, in
www.federalismi.it, 2005.
137
Quanto scritto esplicita un momento di complessità che investe tanto la legislatio
quanto la legisexecutio. L’aumentare della produzione di regole tecnico-giuridiche richiede
l’acquisizione di maggiori competenze tenico-amministrative e si traduce, in ultima analisi, in
una difficoltà non solo d’interpretazione, bensì anche di applicazione: difficoltà queste ultime
che hanno connotati del tutto peculiari nella regola tecnica e che non possono essere superate
facendo ricorso ai normali criteri di interpretazione del diritto. Situazione questa che pare
aggravata da un’ulteriore considerazione: le tematiche trattate incidono sovente su diritti di
rilievo costituzionale. Per limitare l’esame ai prodotti GM, il loro impiego su larga scala
determina, o potrebbe determinare, delle ricadute su interessi costituzionali, quali l’ambiente,
la salute umana e la libertà di iniziativa economica privata: con la conseguente esigenza di
modulare i diritti sulla scorta dei progressi biotecnologici253.
A conclusione di queste premesse, pare opportuno evidenziare come l’articolarsi del
rapporto tra diritto amministrativo e scienza sia di significativa attualità: infatti, in queste
considerazioni rientrano non solo gli OGM, ma anche energie nucleari e impatto delle energie
rinnovabili, nanotecnologie, biologia sintetica, procreazione medicalmente assistita e svariati
settori oggetto dell’innovazione tecnologica e della ricerca scientifica.
2. Procedimento di autorizzazione dei prodotti GM e ruolo dell’expertise scientifica
I punti di maggiore criticità, discendenti dalle brevi considerazioni che precedono,
possono manifestarsi nel procedimento amministrativo, ove l’organo decidente superi ogni
ulteriore considerazione recependo acriticamente una valutazione tecnoscientifica: un
processo decisionale connotato da siffatta modalità appare quello in materia di autorizzazione
all’immissione nel mercato comune di OGM.
Le numerose perplessità sulla bontà dell’impiego commerciale di OGM hanno fatto sì
che il legislatore comunitario prima, e quello nazionale successivamente, intervenissero
predisponendo un regime di valutazione preventiva del rischio di gran lunga più incisivo di
quello richiesto per ogni altro prodotto agricolo o alimentare. In linea di massima
approssimazione è possibile affermare che nessun prodotto ottenuto impiegando la moderna
253
M. TALLACCHINI, Scienza e diritto. Prospettive di co-produzione, in Rivista di filosofia del diritto, 2012, I, 2,
pag. 319: l’Autrice, nell’ambito dell’esame del rapporto di “co-produzione” che potrebbe legare scienza e diritto,
rinvia al «processo di riconfigurazione biocostituzionale dei diritti».
138
biotecnologia può essere commerciato o emesso in ambiente se non prima di essere stato
autorizzato all’esito un procedimento amministrativo, nel corso del quale il prodotto stesso è
sottoposto a pregnanti verifiche di carattere tecnico-scientifico.
2.1. Considerazioni generali sulla normativa europea di autorizzazione
In via preliminare all’esame della componente tecnoscientifica del procedimento di
autorizzazione degli OGM, si devono rimarcare tre peculiarità che risaltano il rapporto
scienza-diritto in questa materia.
In primo luogo, l’intero corpus normativo europeo sulle biotecnologie è intriso di
nozioni scientifiche e tecniche che lo rendono di scarsa immediatezza e di difficile
applicazione. Si pensi al concetto di “biodiversità”, oppure alla stessa locuzione “organismo
geneticamente modificato”: ebbene, in entrambi i casi non è possibile un’applicazione della
normativa di riferimento senza che il legislatore abbia fornito una definizione di
“biodiversità” o di “OGM”, in quanto con gli stessi termini è possibile riferirsi ad entità assai
diversificate.
In particolare, è risaputo254 che l’attuale concetto di organismo geneticamente
modificato è significativamente delimitato rispetto a quelli che in realtà sono i prodotti o gli
esseri viventi che hanno subito una modificazione del loro patrimonio genetico: infatti, la
totalità delle coltivazioni che oggi sono disponibili sul mercato discende da un millenario
processo di selezione spontanea o artificiale255. Nessuna delle attuali colture esisteva in
“natura”, bensì tutte sono il frutto di un processo di miglioramento genetico compiuto
dall’uomo attraverso essenzialmente tre metodologie: in primo luogo, tecniche convenzionali
(selezione, innesto e accoppiamento); in secondo luogo, per mutagenesi256 (trattamenti
chimici – impiego di sostanze mutagene – o fisici – radiazioni ionizzanti – dei semi); in terzo
luogo, sulla base della moderna biotecnologia.
254
In proposito, F. SALA, Gli ogm sono davvero pericolosi?, Bari, 2005, pagg. 12 ss.
Tale processo è stato cristallinamente evidenziato da F. PERDELLI nella relazione dal titolo “La sicurezza
alimentare sul tavolo dello scienziato” tenuta nel corso del Convegno “Aspetti e problemi della regolazione
giuridica degli OGM” svoltosi il 30 ottobre 2015 presso l’Università degli Studi di Genova e disponibile sul sito
www.radioradicale.it.
256
F. SALA, op. cit., pag. 14.
255
139
Tutti e tre i processi d’intervento conducono alla creazione di un essere vivente con
patrimonio genetico differente rispetto agli individui o organismi preesistenti: unica diversità
risiede nel fatto che, mentre dalle prime due metodologie scaturisce una ricombinazione
casuale dei geni, nella terza lo scienziato è in grado di far migrare uno specifico gene da un
individuo a un altro, ottenendo, pertanto, un individuo originale e munito delle caratteristiche
specificamente riconducibili al gene “trapiantato”. Solo quest’ultima tecnica rientra, in forza
della normativa di settore, nella nozione di organismo geneticamente modificato. Questo
breve esempio permette di comprendere come i concetti di natura prevalentemente scientifica
(nel nostro caso “OGM”) non siano di immediata comprensione, per quel che consta, per il
pubblico amministratore: occorre che il legislatore ci fornisca una definizione al fine di
evitare che la regola sia applicata anche a delle ipotesi che, pur rientrando nella sfera di
significati del concetto stesso, non sono ricompresi dalla disposizione normativa.
Tuttavia il legislatore per raggiungere tale risultato deve ricorrere ad altre nozioni
scientifiche: la direttiva 2001/18/CE, nel limitare la definizione di OGM a quelli risultanti
dall’applicazione delle moderne biotecnologie257, ovviamente deve introdurre la nozione
stessa di “moderna biotecnologia”, ma anche quella di “organismo”258. Queste ultime nozioni
hanno un portato che è giuridico esclusivamente per il fatto di essere stato riprodotto in un
documento normativo, ma il loro significato è totalmente non giuridico, con la conseguenza
che la Pubblica amministrazione, per darvi applicazione, dovrà ricorrere al parere
dell’esperto.
In secondo luogo, è opportuno mettere in risalto che l’obiettivo stesso della normativa
procedimentale è ricondotto alla verifica dell’eventuale pericolosità del prodotto GM e,
conseguentemente, persegue una finalità scientifica, attraverso l’impiego degli opportuni
257
La direttiva 2001/18/CE, art. 2, par. 1, 2), punto a) parla di modificazione genetica e rinvia all’apposito
Allegato IA –parte 1, dove sono elencate le specifiche tecniche che conducono ad una ricombinazione genetica
in modo diverso rispetto l’accoppiamento o la selezione naturale.
Il Regolamento n. 1829/2003/CE, all’art. 2, richiama le definizioni fornite dalla Direttiva 2001/18/CE.
Una specifica definizione di moderna biotecnologia è, tuttavia, espressamente riportata nel testo del Protocollo di
Cartagena sulla Biosicurezza, dove all’art. 3, lett. i), si legge «"biotecnologia moderna", l'applicazione di: tecniche in vitro dell'acido nucleico, compresa la ricombinazione dell'acido deossiribonucleico (DNA) e
l'inoculazione diretta dell'acido nucleico in cellule o organuli o - fusione di cellule al di fuori della famiglia
tassonomica, che superano le naturali barriere fisiologiche della riproduzione o della ricombinazione e che
sono diverse dalle tecniche tradizionali utilizzate nell'allevamento e nella selezione». In merito: E. RIGHINI, Il
protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza e gli accordi sul commercio internazionale, in Riv. dir. internaz.,
2001, 3, pagg. 654 ss.; L. MARINI, Principio di precauzione, sicurezza alimentare e organismi geneticamente
modificati nel diritto comunitario, in Dir. un. eur., 2004, 1, pagg. 7 ss.
258
La Direttiva 2001/18/CE del 12 marzo 2001, all’art. 1, par. 1, punto 2): «“organismo”, qualsiasi entità
biologica capace di riprodursi o di trasferire materiale genetico»
140
strumenti tecnologici a disposizione dell’amministrazione. È la stessa Direttiva del 2001 che,
al considerando numero 5, dispone che «la tutela della salute umana e dell’ambiente richiede
che venga prestata la debita attenzione al controllo di rischi derivanti dall’immissione
deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati (OGM)»259, nel rispetto, tra
l’altro, del Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza260.
Il procedimento di autorizzazione, allora, designa una “amministrazione del
rischio”261, ove il procedimento amministrativo si configura come attività preventiva
all’impiego del prodotto geneticamente modificato in tutti i suoi possibili usi. Attività
preventiva che è volta ad assodare, almeno nel caso della normativa in esame, che non si
registrino ricadute negative sull’ambiente e sulla salute umana (art. 4 della Direttiva n. 18 del
2001): le competenti autorità devono, pertanto, attivare specifici procedimenti, il cui scopo è
accertare, case by case, l’assenza di rischio. Siffatta normativa, che pare recepire i diffusi
timori su una – asserita – “incertezza scientifica”262, ovviamente non deve trarre in inganno.
L’amministrazione, nonché la regolazione, del rischio non deve intendersi come entità
assoluta: da un lato, il rischio “zero” non esiste e ogni sistema tecno-scientifico, anche il più
sofisticato, può essere posto nella condizione di cedere di fronte a situazioni impreviste263.
Dall’altro lato, l’idea stessa di regolare o amministrare conduce a una prospettiva di
mediazione che è tipica dell’attività amministrativa, quella di bilanciare e sintetizzare interessi
diversi e, sovente, contrapposti: non solo meramente scientifici, ma anche economici e sociali
in senso lato.
In terzo luogo, se le considerazioni che precedono hanno indotto l’Unione europea ad
introdurre un regime autorizzatorio in merito ai beni GM, si deve precisare che simile
orientamento non rappresenta l’unico approccio esperibile in ordine alla regolazione degli
OGM. Non a caso, il sistema preventivo non è stato recepito in quegli Stati che, attualmente,
259
In tal senso anche art. 4 della stessa Direttiva, nonché l’art. 1 del Regolamento CE n. 1829 del 22 settembre
2003.
260
Direttiva 2001/18/CE, considerando n. 13.
261
Si ribadisce che, come ha evidenziato attenta dottrina (P. SAVONA, Dal pericolo al rischio: l’anticipazione
dell’intervento pubblico, in Dir. amm., 2010, 2, pagg. 355 ss.), il concetto di rischio deve essere tenuto separato
da quello di pericolo. Il primo è relativo al danno come conseguenza di una decisione, mentre il secondo
riguarda un danno derivante dalla natura o dalla decisioni prese da altri.
Nel caso degli organismi geneticamente modificati, pare dunque potersi parlare sia di pericolo, in quanto il
danno può ricondursi alle conseguenze biologiche del prodotto, sia di rischio, poiché è presente una normativa di
riferimento, il cui mancato rispetto può generare ricadute negative.
262
D. BEVILACQUA, op. cit., pag. 2.
263
F. STELLA, Il rischio da ignoto tecnologico e il mito delle discipline, in Aa. Vv., Il rischio da ignoto
tecnologico, Milano, 2002, pagg. 4 ss.
141
sono i maggiori produttori di derrate geneticamente modificate, Stati Uniti d’America in
prima fila.
Negli USA, come in altri Stati favorevoli all'utilizzo degli OGM, la regolamentazione
è basata sul principio di “sostanziale equivalenza”264. Le varietà GM sono considerate, salvo
prova contraria, come sostanzialmente equivalenti alle specie convenzionali. Si adotta,
conseguentemente, l'assunto secondo il quale varietà, geneticamente modificate e non,
presentano gli stessi fattori di rischio per la salute umana e per l'ambiente e quindi non
trovano giustificazione trattamenti discriminanti; entrambe le tipologie esigono il rispetto di
medesimi requisiti di sicurezza. L'effettiva equivalenza tra prodotti GM e prodotti “OGM
free” deve, tuttavia, essere accertata sulla base dei dati tecnicoscientifici e, solo in questo
caso, l'approccio normativo potrà essere il medesimo. La posizione degli Stati Uniti
d'America non riconosce che vi possa essere una correlazione tra processo produttivo e
caratteristiche prodotto finale: si attua, pertanto, il principio regulation of product, not
process.
Orientamento completamente diverso e di matrice preventiva è stato quello assunto dal
legislatore europeo, il quale ha incentrato l’autorizzazione all’impiego degli OGM
all’esperimento di una penetrante valutazione del rischio, al fine di assicurare la sicurezza
alimentare265 e ambientale. Alla luce di un primo punto di vista, si registra dunque una
limitazione dell’autoregolazione del mercato: i prodotti OGM non godono di alcuna
liberalizzazione, bensì sono assoggettati al preventivo controllo amministrativo.
In secondo luogo, il regime autorizzatorio e la mancanza di un’uniforme opinione
degli Stati membri hanno fatto sì che il metodo precauzionale sia stato assai spesso distorto,
inducendo il titolare del potere esecutivo a introdurre una vera e propria moratoria delle
derrate GM anche quando le autorità amministrative, in concreto, avevano accertato l’assenza
di qualsivoglia rischio significativo266. Un atteggiamento di tale sorta – oltre a non recepire
l’avvenuta transizione, anche a livello nazionale, da un sistema in cui gli OGM erano
264
F. ROSSI DAL POZZO, Profili recenti in tema di organismi geneticamente modificati nel settore
agroalimentare fra procedure di comitato e tutela giurisdizionale, in Dir. comm. int., 2014, 2, pagg. 339 ss.
265
L. RUSSO, La sicurezza delle produzioni «tecnologiche», in www.rivistadirittoalimentare.it, 2010, 2.
266
In tal senso è nota la vicenda del Mais 810 che ha visto contrapporsi da un lato, il Governo Italiano e il TAR
Lazio, dall’altro lato le Autorità europee e alcuni produttori nazionali favorevoli all’impiego del mais
transgenico.
Fra i moltissimi contributi apparsi su questa annosa controversia si citano: A. IEVOLELLA, Campi coltivati con
“Mais MON 810”: agricoltore sconfitto, legittimo il sequestro, in www.dirittoegiustizia.it; V. RANALDI, Il
confronto tra stati membri ed Unione europea in materia di OGM nella giurisprudenza nazionale e comunitaria,
in Dir. comm. int., 2014, 4, pagg. 1011 ss.
142
segregati ad una concezione di coesistenza con le culture tradizionali 267 – si presenta come il
frutto del cambiamento del rapporto fra scienza e diritto: la valutazione scientifica non è più
in grado di informare a sé la decisione politica. Inoltre, il medesimo atteggiamento pare
travolgere anche la nozione stessa di principio di precauzione, che viene strumentalizzato al
fine di impedire qualsiasi impiego di prodotti e culture transgeniche anche dove, pur
nell’impossibilità dell’assoluta certezza, le competenze tecniche dell’amministrazione hanno
assodato l’assenza del rischio. Si palesa, in conseguenza, una tensione fra principio
precauzionale268 e il principio di ragionevolezza269, che deve assistere ogni attività
dell’esecutivo in sede amministrativa: il principio di precauzione dovrebbe essere
“ragionevolmente” applicato solo ove si siano riscontrati dubbi scientificamente attendibili
circa la nocività per l’ambiente e non dove, all’opposto, la pubblica amministrazione abbia
riscontrato l’assenza di pericolosità.
Questa interpretazione, pare a chi scrive, confortata dalla direttiva 2001/18/CE, dal
momento che la medesima richiama esplicitamente il principio di precauzione (considerando
n. 8), ma assegna alle autorità competenti (ovvero alla pubblica amministrazione) la verifica
delle condizioni per la sua applicazione, vale a dirsi il riscontro della nocività per la salute
umana e per l’ambiente. Invero, anche il diritto internazionale dell’ambiente si pone in ottica
simile: il menzionato Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza – pur rinviando
esplicitamente al principio di precauzione270 – legittima una “difesa attenuata” della
biodiversità: il Protocollo richiede che siano adottati adeguati livelli di protezione allorché si
impieghino organismi modificati271, ma non mette al bando l’utilizzo degli stessi. Questi
possono essere usati, purché nel rispetto della sostenibilità (l’ambiente non è qui un valore
assoluto e immodificabile a scapito della libertà d’impresa) e della salute umana. Tale
impostazione non solo è conforme a ragionevolezza, ma in un certo qual senso anche ovvia,
atteso che solo l’ente amministrativo può dare concretezza alla disposizione normativa.
267
M. MOTRONI, La disciplina degli OGM a metà tra «tutela dell’ambiente» e «agricoltura», ovvero della
problematica coesistenza di competenze legislative statali e regionali, in www.federalismi.it, 2006, 18; L.
MARINI, OGM, precauzione e coesistenza: verso un approccio (bio)politicamente corretto?, in Riv. giur. amb.,
2007, 1, pagg. 1 ss.
268
M. RENNA, I principi in materia di tutela dell’ambiente, in Riv. quadr. dir. amb., 2012, 1-2, pagg. 62 ss.; F.
FONTE, Organismi geneticamente modificati: monopolio e diritti, Milano, 2004, pagg. 23 ss.
269
Un riferimento alla ragionevolezza nell’applicazione delle misure preventive è presente in V. BUONOCORE,
Problemi di diritto commerciale europeo, in Giur. comm., 2008, 1, pagg. 3 ss.
270
L’art. 1 del Protocollo richiama l’art. 15 della Dichiarazione di Rio sull’ambiente e sullo sviluppo.
271
Artt. 1 e 2 del Protocollo di Cartagena.
143
2.2. Procedimento e attività consultiva
Il settore dei prodotti geneticamente modificati costituisce un ambito del mercato
comune nel quale vi è stata una precoce disciplina di settore: il primo intervento comunitario
in materia si registra con la direttiva 1990/220/CE, la quale preveda un sistema di assenso
preventivo alla immissione in commercio dell’OGM, gestito, essenzialmente, dalle autorità
degli Stati membri.
A seguito di un processo di riforma – ispirato al superamento delle lacunosità della
previgente normativa – il legislatore comunitario ha provveduto all’abrogazione della
direttiva del 1990, sostituendola con l’attuale direttiva 2001/18/CE272 alla quale è stato
affiancato il successivo regolamento CE 1829/2003273. Pur non ritenendo questa la sede per
un esame complessivo della disciplina procedimentale europea in materia di OGM274, pare
doveroso ricordare che la direttiva n. 18 costituisce ancora la normativa quadro sui prodotti
transgenici, tuttavia il suo portato risulta ridimensionato dalla comparsa del regolamento del
2003 e dalle modifiche apportate alla stessa direttiva da parte della direttiva n.
412/2015/UE275.
È possibile affermare che la direttiva n. 18 reca una disciplina esaustiva in materia di
emissione nell’ambiente di OGM, mentre mantiene un ruolo secondario circa i prodotti GM,
atteso che questi ultimi rientrano nella regolamentazione della direttiva solo allorché non ne
sia previsto un impiego come mangime o alimento. All’opposto, il regolamento n. 1829
introduce la vigente normativa in merito a quei prodotti transgenici destinati a essere immessi
nel mercato quali alimenti o mangimi, e per i quali la legislazione europea richiede un
procedimento unico di accertamento del rischio.
In estrema sintesi, si può giungere alle considerazioni di seguito riportate. In primo
luogo, chiunque voglia impiegare un OGM nell’ambito del mercato (tanto per l’emissione in
ambiente, quanto per l’immissione in commercio) deve darne notifica alle competenti
272
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 marzo 2001, sull'emissione deliberata nell'ambiente
di organismi geneticamente modificati, in G.U.U.E. del 17/04/2001, n. 106.
273
Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativo agli alimenti e ai
mangimi geneticamente modificati, in G.U.U.E. del 18/10/2003, n. 268.
274
Si rinvia all’attenta dottrina che, recentemente, ha studiato il procedimento di cui ai citati regolamento e
direttiva: F. ROSSI DAL POZZO, op. cit.; nonché A. ODDENINO, La disciplina degli organismi geneticamente
modificati. Il quadro di diritto comunitario, in R. Ferrara – I.M. Marino (a cura di), Gli organismi geneticamente
modificati. Sicurezza alimentare e tutela dell’ambiente, Padova, 2003, pagg. 81 ss.; F.R. FRAGALE, Organismi
geneticamente modificati, Napoli, 2005.
275
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 412 del 11 marzo 2015.
144
autorità. In secondo luogo, qualora si tratti di emissione deliberata in ambiente la competenza
all’autorizzazione permane in capo alle amministrazioni degli Stati membri276; qualora sia
un’istanza relativa all’immissione in commercio di OGM non destinati all’alimentazione277 il
procedimento resta in carico alle competenti autorità nazionali, a meno che altri Stati membri
non presentino osservazioni e sulle medesime non sopraggiunga un accordo degli Stati stessi;
infine, qualora l’istanza di autorizzazione sia inerente a OGM ad uso alimentare o per la
nutrizione di animali, è previsto un unico procedimento europeo278.
Il tratto unificante dei diversi procedimenti risiede, come ribadito dalla stessa
Commissione europea279, nella garanzia che «l’immissione sul mercato dei prodotti in
questione non presenti rischi per la salute umana o animale o per l’ambiente»: elemento
centrale è dunque la valutazione scientifica del rischio, che costituisce, sempre nelle parole
delle Commissione, «fondamento principale» della giustificazione sottesa all’autorizzazione.
Se si escludono le fasi di spettanza dei singoli Stati membri – ognuno dei quali provvede alla
costituzione di opportune autorità nazionali – siffatta valutazione è, oggi, esperita sulla base
delle competenze tecnico-scientifiche possedute da uno specifico organo europeo, istituito ai
sensi del regolamento CE n. 178/2002280 e rappresentato dall’Autorità europea per la
sicurezza alimentare (meglio conosciuta con l’acronimo “EFSA”, corrispondente a European
Food Safety Authority).
L’EFSA svolge un ruolo di primo piano nella decisione assunta dalla Commissione a
conclusione del procedimento di autorizzazione. Ai sensi della normativa vigente281 simile
Autorità282 dispone dei requisiti di indipendenza e di eccellenza che le permettono, da un lato,
di addivenire ad una effettiva analisi del rischio insito nell’impiego degli OGM e, dall’altro
lato, di svolgere una funzione legittimante dell’attività di decision-making che spetta
276
Artt. 6 e seguenti della Direttiva n. 18 del 2001.
Artt. 13 e seguenti della Direttiva n. 18 del 2001.
278
Art. 4 e seguenti del regolamento n. 1829 del 2003.
279
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale
europeo e al Comitato delle Regioni – Revisione del processo decisionale in tema di organismi geneticamente
modificati (OGM) del 22 aprile 2015.
280
Regolamento CE del 28 gennaio 2002 n. 178 del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce i principi
e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa
procedure nell’ambito della sicurezza alimentare.
281
Art. 22, par. 7, e artt. 37 ss. del regolamento CE n. 178/2002.
282
Sulla natura giuridica dell’Autorità quale amministrazione indipendente o agenzia nell’ambito del diritto
europeo si rinvia a R. MANFRELLOTTI, L’amministrazione comunitaria nel settore delle biotecnologie, in Riv.
giur. amb., 2004, 6, pagg. 825 ss.
277
145
all’organo politico-amministrativo283. I requisiti di terzietà e “tecnicità” permettono all’EFSA
di adempiere il suo ruolo di organo consultivo e di inserirsi pienamente nella già menzionata
“amministrazione del rischio”. L’Autorità per la sicurezza alimentare, infatti, compie
autonomamente l’attività di valutazione del rischio (cd. risk assessment), sulla base della
quale la Commissione e i comitati competenti284 perseguono, invece, la gestione del rischio
(cd. risk management)285: le due funzioni appaiono, dunque, ontologicamente diverse, la
prima è, o dovrebbe essere, attività consultiva da compiersi, esclusivamente, sulla base delle
nozioni tecniche e scientifiche; la seconda, invece, deve – o comunque dovrebbe –
manifestare un sindacato di opportunità, costituito dal contemperamento di interessi differenti
(e di matrice non solo scientifica).
La dicotomia fra risk assessment e risk management pare palesarsi nel settore degli
OGM sulla scorta della lettura delle norme che regolano l’autorizzazione all’immissione.
Come è stato evidenziato poco sopra, dalle disposizioni europee si parrebbe legittimati a
ritenere che l’EFSA sia organo non dell’amministrazione attiva, bensì di quella consultiva:
l’art. 6 del regolamento del 2003 afferma che l’Autorità emette un parere successivamente
vagliato dalla Commissione (nonché dai comitati)286. Tuttavia, a un più attento sindacato287
della prassi autorizzatoria della Commissione si evince che il ruolo dell’EFSA non si inquadra
perfettamente nel concetto di “amministrazione consultiva” tipico del diritto amministrativo
italiano.
La legge generale sul procedimento amministrativo italiano288 definisce attività
consultiva quella che si estrinseca nel rilascio di pareri, ossia di atti amministrativi
283
In tal senso L. SALVI, L’immissione in commercio di OGM: il ruolo dell’Autorità europea per la sicurezza
alimentare, in L. Costato – P. Borghi – L. Russo – S. Manservisi (a cura di), Dalla riforma del 2003 alla PAC
dopo Lisbona, I riflessi sul diritto agrario alimentare e ambientale, Napoli, 2011, pagg. 405 ss.
284
Si ricorda che la Commissione non è titolare esclusiva del potere di autorizzazione: essa è affiancata dai
rappresentanti degli Stati membri in forza del procedimento c.d. di “comitologia” (in proposito, M.L. TUFANO,
La comitologia e le misure di esecuzione degli atti e delle politiche comunitarie, in Dir. un. eur., 2008, 1, pagg.
149 ss.; D. BIANCHI, La comitologia dopo Lisbona, in L. Costato – P. Borghi – L. Russo – S. Manservisi (a cura
di), Dalla riforma del 2003 alla PAC dopo Lisbona, I riflessi sul diritto agrario alimentare e ambientale, op. cit.,
pagg. 51 ss.).
285
M. SAVINO, Autorità e libertà nell’Unione europea: la sicurezza alimentare, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 2,
pagg. 413 ss.
286
In senso analogo anche la disposizione generale – e dunque non dettata in materia di OGM – di cui all’art. 23
del regolamento CE n. 178/2002: «L'Autorità ha i seguenti compiti: a) fornire alle istituzioni comunitarie e agli
Stati membri i migliori pareri scientifici in tutti i casi previsti dalla legislazione comunitaria e su qualsiasi
questione di sua competenza; […]; c) fornire alla Commissione assistenza scientifica e tecnica nelle materie di
sua competenza e, quando richiesto, nell'interpretazione e nell'esame dei pareri relativi alla valutazione dei
rischi; […]»
287
L. SALVI, op. cit., pagg. 409 ss.
288
Legge 7 agosto 1990 n. 241.
146
infraprocedimentali finalizzati ad illuminare l’organo decidente (vale a dirsi la c.d.
“amministrazione attiva”) in ordine al contenuto dell’atto da adottare 289: ovviamente l’atto
consultivo può avere ad oggetto i più disparati campi del sapere umano (diritto, ingegneria,
contabilità, e via dicendo).
Invero, la menzionata legge 241/1990 specifica la nozione di amministrazione
consultiva distinguendo fra pareri e valutazioni tecniche290. I primi291 illuminano l’organo
decidente in merito, appunto, alla decisione a cui il medesimo deve pervenire, ossia operano
sul contenuto del provvedimento; nelle seconde292, invece, la valutazione è operata alla
stregua di conoscenze e, quindi, di regole tecniche: con la conseguenza che le valutazioni
tecniche forniscono un sindacato sui fatti oggetto del procedimento, mentre i pareri
forniscono un’interpretazione dei fatti già assodati e acquisiti in sede di istruttoria
procedimentale293.
La collocazione del ruolo dell’EFSA nell’ambito delle categorie di diritto interno non
appare intuitiva: chi scrive ritiene necessario un superamento del mero nomen iuris di
“parere”294 – attribuito dalle fonti europee – atteso il ruolo penetrante assunto dall’EFSA, che
risulta trascendere la sola fase di analisi di rischio per improntare a sé anche l’attività di
decision making finale: si nota che l’autorizzazione all’immissione trova la sua legittimazione
in un procedimento marcatamente science-based295. Invero, si ritiene che la qualificazione
come “parere” sia confortata dalla lettura della direttiva 2001/18/CE e del regolamento CE
1829/2001, ma possa essere contraddetta dalla loro concreta attuazione.
In primo luogo, se entrambe le normative incentrano il provvedimento di
autorizzazione sulla scorta della valutazione del rischio (in generale compiuta dall’EFSA), le
medesime ammettono che le autorità europee possano assumere a fondamento della loro
decisone anche ulteriori parametri di natura di non scientifica. Ci si riferisce, in particolare,
289
Sull’attività consultiva si ricordano in dottrina gli studi di P.M. VIPIANA PERPETUA, I procedimenti
amministrativi. La disciplina attuale e i suoi aspetti problematici, Padova,2012, pagg. 84 ss., V. PARISIO,
L’attività consultiva, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano,2011, pagg. 696
ss.; inoltre E. CASETTA (a cura di F. Fracchia), Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2015, pagg.459 ss.
290
N. AICARDI, Le valutazioni tecniche, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, op. cit.,
pagg. 716 ss.
291
Art. 16 della legge n. 241/1990.
292
Art. 17 della legge n. 241/1990.
293
Si desume, pertanto, che il parere si esplicita nella fase procedimentale decisoria, mentre la valutazione
tecnica nella fase procedimentale istruttoria: in tal senso P.M. VIPIANA PERPETUA, op. cit., pagg. 89 ss.
294
In particolare artt. 22, par. 7; 23, par. 1, e 29 del regolamento CE n. 178/2002, nonché art. 6 del regolamento
CE n. 1829/2003.
295
L. SALVI, Processi decisionali e partecipazione pubblica tra innovazione e “controversie” tecnologiche. La
regolazione delle biotecnologie agro-alimentari nell’U.E., in Riv. dir. agr., 2015, 2, pagg. 227 ss.
147
all’art. 7 del regolamento del 2003 in forza del quale la Commissione, nel valutare il parere
dell’EFSA, può tenere conto di altri fattori legittimi pertinenti alla questione in esame. Alla
luce delle considerazioni esposte, allora, si può giungere alla conclusione che l’atto rilasciato
dall’EFSA, almeno formalmente, potrebbe ricondursi alla nozione interna di parere
obbligatorio (poiché sempre richiesto dalla normativa), ma non vincolante, in quanto la
Commissione potrebbe impiegare a fondamento del provvedimento ulteriori elementi296.
Quanto scritto fa propendere per un’interpretazione che ritenga il parere dell’EFSA non
riconducibile alla nozione di valutazione tecnica presente nel diritto italiano. Infatti, l’art. 17
della legge 241 impedisce che l’amministrazione procedente adotti il procedimento
prescindendo dalla valutazione medesima. A maggior ragione, l’intervento dell’EFSA non
sembra riferirsi al mero accertamento della consistenza di situazioni di fatto, quanto,
piuttosto, al fornire dei chiarimenti che la Commissione potrà autonomamente ponderare in
bilanciamento con altri interessi.
Se il tenore letterale delle norme sul procedimento europeo permette di qualificare
l’attività consultiva dell’EFSA quale parere obbligatorio non vincolante – ovviamente a meno
che l’Autorità non abbia individuato la presenza di rischi per la salute o l’ambiente297 –
diverse considerazioni devono desumersi alla luce della prassi procedimentale. Il rilascio delle
autorizzazioni sull’immissione di OGM da parte della Commissione appaiono incentrate
esclusivamente sulla valutazione scientifica del rischio, senza che sia data un’effettiva
rilevanza ad ulteriori considerazioni o alla componente partecipativa dei cittadini europei. In
questo ambito procedimentale si registra, pertanto, una prevalenza del momento scientificoconsultivo su quello amministrativo-decisionale. L’attività di gestione del rischio – che, come
riportato in precedenza, dovrebbe recare una ponderazione di diversificati interessi al fine di
giungere all’immissione di un prodotto connotato da un rischio “accettabile” – è stata ridotta
al mero recepimento di un parere sull’assenza del rischio: vale a dirsi che l’apprezzamento di
opportunità si è tradotto in un esempio di “tecnocrazia”.
296
A considerazioni analoghe è giunta anche la dottrina che ha studiato l’EFSA nella sua disciplina generale: S.
GABBI, L’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Genesi, aspetti problematici e prospettive di riforma,
Milano, 2009, pagg. 136 e 139 ss.
297
Si ritiene, infatti, che la Commissione possa valutare ulteriori interessi solo qualora l’EFSA abbia assodato
l’assenza del rischio: in caso contrario, infatti, non sarebbe possibile autorizzare il prodotto nemmeno sulla
valutazione degli ulteriori fattori legittimi, atteso che i principi ispiratori della direttiva del 2001 e del
regolamento del 2003 sono, per l’appunto, la tutela dell’ambiente e della salute.
148
2.3. (Segue) Brevi considerazioni sulla giurisprudenza
Della tendenza a dare rilevo al momento tecnico-scientifico si ha sentore nella
giurisprudenza della Corte di giustizia. L’analisi delle più conosciute pronunce della Corte
consente di verificare come il Giudice europeo abbia, in generale, improntato il proprio
giudizio sulla verifica della corrispondenza tra l’operato della Commissione e il parere
dell’EFSA o di altri organi consultivi. Ovviamente, si deve evidenziare come la Corte sia
sovente intervenuta sull’applicazione delle procedure di “emergenza”298 consentite agli Stati
membri al fine di adottare misure cautelative per la tutela dell’ambiente e della salute umana:
ciò giustifica il fatto che la Corte abbia prevalentemente esaminato la rilevanza della prova
scientifica del rischio, piuttosto che il procedimento di autorizzazione di per sé. Tuttavia, ciò è
espressivo del fatto che tanto l’Unione quanto gli Stati membri improntano – nel bene o nel
male – l’autorizzazione degli OGM essenzialmente sul dato scientifico.
Ciò è avvenuto già nel noto caso del “Land dell’Austria superiore”299, ove la Corte – e
precedentemente il Tribunale di primo grado – ha convalidato l’operato della Commissione
evidenziando come la Repubblica d’Austria e il Land non avessero fornito alcun elemento
idoneo al superamento dell’analisi svolta dall’EFSA. Simile giurisprudenza è stata ribadita
anche in sede di definizione degli “spazi di manovra” riconosciuti agli Stati membri nei
confronti degli OGM autorizzati: il riferimento è qui al corpus giurisprudenziale costituito
dalle sentenze “Monsanto”del 2011300 e “Pioneer” del 2012301. Con la sentenza del 2011, la
Corte di giustizia dell’Unione ha precisato che, allorquando, la Commissione abbia
provveduto all’autorizzazione di un prodotto GM, gli Stati membri possono ricorrere, in via
cautelare, alle misure di cui all’art. 34 del regolamento n. 1829/2003302: tuttavia, l’autorità
nazionale può accedere a tali misure di emergenza solo ove abbia riscontrato un rischio
298
In particolare, art. 34 regolamento n. 1829/2001 e artt. 23 e 26 direttiva 2001/18/CE.
Sentenza del 13 settembre 2007, cause riunite C-439/05 P e C-454/05 P, Land Oberosterreich e Austria c.
Commissione: commentata in V. RANALDI, op. cit. Ma, in senso analogo, si possono leggere simili
considerazioni nella precedente sentenza del 9 settembre 2003, causa C-236/01, “Monsanto Agricoltura Italia
S.p.A. et al. C. Presidenza del Consiglio dei Ministri et al”.
300
Sentenza dell’8 settembre 2011, “Monsanto SAS et al. C. Ministre de l’Agriculture et de la Pêche, cause
riunite da C-58/10 a C-68/10.
301
Sentenza del 6 settembre 2012, “Pioneer Hi Bred Italia Srl c. Ministero delle Politiche agricole alimentari e
forestali, causa C-36/11: L. SALVI (a cura di), AlimentarEuropeo, 2012, 4, in www.rivistadirittoalimentare.it; J.
BEQIRAJ ,Verso una disciplina uniforme europea in materia di OGM? Alcune precisazioni sul margine di
discrezionalità degli stati membri nel limitare la coltivazione di OGM sul loro territorio, in Dir. pubbl. comp.
eur., 2013, I, pagg. 291 ss.
302
Articolo che richiama la procedura di cui agli artt. 53 e 54 del regolamento CE n. 178/2002: P. BORGHI – L.
SALVI (a cura di), AlimentarEuropeo, 2012, 1, in www.rivistadirittoalimentare.it.
299
149
“grave e manifesto”, ossia scientificamente dimostrato e non puramente ipotetico303. Queste
conclusioni sono ribadite nella sentenza del 2012, ove la Corte (su rinvio pregiudiziale del
Consiglio di Stato italiano) ha nuovamente chiarito che lo Stato membro, a seguito
dell’intervenuta autorizzazione del prodotto transgenico, può avviare – sussistendone i
presupposti – l’iter di emergenza normato dall’art. 34 del regolamento 1829/2003; lo Stato
non può, all’opposto, approntare ulteriori autorizzazioni a livello nazionale o ricorrere all’art.
26-bis della direttiva 2001/18/CE (dettato in materia di misure volte ad evitare la presenza
involontaria di OGM in altri prodotti).
Il quadro interpretativo elaborato dalla Corte di giustizia si sofferma, allora, sulla
necessità di accertare che la Commissione abbia diligentemente recepito il parere dell’EFSA e
che gli Stati membri abbiano, eventualmente, sollevato congrui ed effettivi dubbi scientifici.
Se, sotto un primo punto di vista, la breve analisi della giurisprudenza europea ci permette di
avvalorare la tesi secondo cui il momento tecnocratico è del tutto prevalente nell’ambito del
procedimento di autorizzazione degli OGM, da altro punto di vista, si deve ricordare che non
spetta alla Corte sopperire alla mancanza di risk management in capo alla Commissione. Non
a caso, quest’ultima attività, come sopra sottolineato, è sostanzialmente rappresentata da una
valutazione di opportunità e, dunque, connotata da un margine di discrezionalità: il giudice,
anche al livello europeo, non può farsi carico delle scelte discrezionali che spettano all’organo
esecutivo-amministrativo. In tal senso, si ritiene significativo il seguente principio di diritto
cui è giunto il Tribunale di primo grado304, ancorché in materia differente rispetto agli OGM:
«le istituzioni dispongono, in materia di politica agricola comune, di un ampio potere
discrezionale per quanto riguarda la definizione degli scopi perseguiti e la scelta degli
opportuni strumenti d'azione. Inoltre, nell'ambito della loro valutazione dei rischi, esse
devono procedere a stime complesse per valutare, in base alle informazioni di natura tecnica
e scientifica che vengono loro fornite da esperti nel quadro della valutazione scientifica dei
rischi, se i rischi per la salute pubblica, la sicurezza e l'ambiente oltrepassino il livello
giudicato accettabile per la società. Tale ampio potere discrezionale e tali stime complesse
implicano un controllo limitato da parte degli organi giudicanti dell'Unione europea. Essi
portano infatti alla conseguenza che il sindacato di merito dell’organo giudicante si limiti ad
esaminare se l’esercizio da parte delle istituzioni delle loro competenze non sia viziato da un
303
P. ACCONCI, Tutela della salute e diritto internazionale, 2011, pag. 232.
Tribunale di primo grado dell’Unione europea, Sez. III, sentenza del 9 settembre 2011, causa T-257/2007,
“Francia c. Commissione”: L. SALVI, AlimentarEuropeo, in www.rivistadirittoalimentare, 2013, 3.
304
150
errore manifesto o da uno sviamento di potere o ancora se tali autorità non abbiano
manifestamente oltrepassato i limiti del loro potere discrezionale». Il Tribunale, con
decisione confermata dalla Corte di Giustizia305, evidenzia i limiti del sindacato
giurisdizionale, ma altresì sottolinea come il provvedimento di autorizzazione debba essere il
frutto di una valutazione complessa che tenga conto anche del rischio “accettabile” da parte
della società: si perviene, dunque, ad una applicazione ragionevole e proporzionata del
principio di precauzione.
Indipendentemente dal menzionato intervento del Tribunale di primo grado, si registra,
invece, un recepimento imperfetto nella giurisprudenza nazionale del portato della Corte di
giustizia in materia di OGM. Nello specifico, ci si riferisce alla pronuncia n. 605/2015306, con
la quale il Consiglio di Stato – nel respingere l’impugnazione proposta da un noto
imprenditore agricolo italiano307 avverso la sentenza di primo grado emessa dal TAR del
Lazio – ha assodato la legittimità del Decreto interministeriale del 12 luglio 2013308, che
provvisoriamente vietava sul territorio italiano la coltivazione della varietà di mais
transgenico “Mon 810” (autorizzato in forza della direttiva 1990/220/CE; autorizzazione mai
definitivamente rinnovata nonostante la richiesta presentata alla Commissione da parte della
società Monsanto sin dal 2007). Il Consiglio di Stato, così come il TAR, richiama le sentenze
della Corte di giustizia del 2011 e del 2012: da un lato, il Giudice di secondo grado ricorda
come il provvedimento ministeriale non rientri nel contesto degli artt. 23 e 26-bis della
direttiva 2001/18/CE, bensì nell’art. 34 del regolamento CE 1829/2001 e, dunque, come le
autorità italiane siano pienamente legittimate ad operare in tal senso. Dall’altro lato – e qui si
registrano le maggiori criticità309 – il Consiglio di Stato deve procedere alla giustificazione
necessaria per il ricorso alle misure di cui all’art. 34. Il riferimento è alla sentenza Monsanto
del 2011310: prova del nuovo rischio grave e manifesto; eventuale questione pregiudiziale. Il
Giudice amministrativo, supera l’ipotesi di una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia,
affermando che il caso sotteso al suo esame è sufficientemente chiaro da poter essere deciso a
305
Sentenza del 11 luglio 2013, “Repubblica francese c. Commissione europea”, causa C-609/11.
Consiglio di Stato, Sez. III, n. 605 del 6 febbraio 2015, disponibile in Riv. dir. agr., 2015, pagg. 214, con nota
di E. SIRSI, OGM: au bout de la nuit? Il Consiglio di Stato scrive forse l’ultimo atto della storia della
coltivazione commerciale di varietà OGM in Italia.
307
Si tratta del già citato coltivatore Fidenato, che aveva più volte tentato la semina del Mais “Monsanto 810”
incorrendo nell’ostilità delle autorità italiane. La sentenza in parola del Consiglio di Stato dovrebbe costituire il
punto di approdo della controversia sulla coltivazione di tale varietà di mais in Italia.
308
Decreto interministeriale 12 luglio 2013, inerente al divieto provvisorio di coltivazione del Mais Mon 810, ai
sensi dell’art. 34 del regolamento CE 1829/2003.
309
E. SIRSI, op. cit., pag. 229.
310
Consiglio di Stato, sentenza n. 605/2015, punti 6.2. e ss.
306
151
livello nazionale: in proposito, pare che la soluzione approntata dal Consiglio di Stato sia
conforme alla giurisprudenza citata dal medesimo giudice. Non a caso, la menzionata
sentenza Monsanto del 2011 prevede solo due possibili strade percorribili dal giudice
nazionale in caso di giudizio sulle misure di emergenza di cui all’art. 34: in primo luogo,
qualora la Commissione si sia pronunciata sulla richiesta, da parte dello Stato membro, di
attivare la misura di emergenza, siffatta decisione vincola lo Stato 311; in secondo luogo, nel
caso in cui la Commissione non abbia adottato alcuna decisione in ordine all’art. 34, il giudice
nazionale chiamato a vagliare le misure di emergenza può sollevare una questione
pregiudiziale ex art. 267 TFUE312, qualora nutra dei dubbi sull’interpretazione del diritto
europeo. Il Consiglio di Stato opta per la seconda possibilità e, contemporaneamente, esclude
la pregiudiziale, ritenendo di poter procedere autonomamente alla corretta applicazione
dell’art. 34.
In merito al danno grave e manifesto, che rappresenta l’oggetto tecno-scientifico della
decisione e che – come visto – è di rilevante importanza nel diritto europeo vivente, il
Consiglio di Stato non sembra concretamente recepire la necessità di elementi fondati su dati
scientifici attendibili e sopraggiunti alla valutazione originaria dell’EFSA. Il paragrafo
secondo, punto 6.3., della sentenza in parola si qualifica, sostanzialmente, come il sunto del
ragionamento che il Consiglio di Stato propone in merito alla giustificazione delle misure di
urgenza: dimostrazione dell’urgenza e del rischio grave e manifesto; presenza di analogo
provvedimento di divieto in Francia313.
È però a proposito della dimostrazione del rischio che la sentenza n. 605/2015
contrasta in modo significativo con la consolidata giurisprudenza europea, la quale riconosce
un ruolo indispensabile al parere dell’EFSA ed ammette le misure di emergenza solo qualora
lo Stato provi la sussistenza di un rischio per la salute o l’ambiente non esaminato
311
Punto 80 della sentenza Monsanto: interpretazione, peraltro, sostenuta dal appellante, atteso che la
Commissione aveva recepito un parere dell’EFSA nel quale non si riscontravano rischi derivanti dalla varietà
Mon 810.
312
Punto 79 della sentenza Monsanto.
313
Nello specifico il Consiglio di Stato afferma: «va poi ricordato come la citata sentenza in data 8 settembre
2011, abbia sì negato la possibilità di utilizzare le misure di sospensione o divieto provvisorio dell’utilizzo o
dell’immissione in commercio in applicazione dell’art. 23 della direttiva 2001/18/CE, ma abbia indicato come
strumento praticabile l’art. 34 del regolamento, previa dimostrazione dell’urgenza e del rischio grave e
manifesto; del resto, la Francia ha poi seguito l’indicazione della Corte, adottando in data 18 marzo 2012
misure cautelari provvisorie ex art. 54, comma 3, reg. n. 178/2002, impedendo la coltivazione del mais
transgenico; e non risulta dagli atti che al riguardo siano intervenuti nuovi arresti giurisprudenziali»
152
dall’Autorità europea, vale a dirsi sopravvenuto314 al risk assessment compiuto in sede di
autorizzazione. Il Consiglio di Stato, al punto 6.5., prende atto che l’EFSA si è sempre
espressa sostenendo l’assenza del rischio nell’impiego del Mon 810315; tuttavia il Giudice
amministrativo sembra adottare un’interpretazione letterale dell’art. 34: tale articolo, infatti,
non menziona solo il parere dell’Autorità, ma anche tutti i casi in cui si sono manifestati i
“presupposti sostanziali” del rischio indipendentemente dall’intervento dell’EFSA. È proprio
sui presupposti esaminati dai ministeri italiani, e individuati in un dossier del CRA316
(Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in agricoltura) e da uno studio analogo
condotto dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), che la
pronuncia del 2015 individua la legittimità del decreto interministeriale del 2013.
Tuttavia, quello che sembra singolare – nonché contrastante con la giurisprudenza
europea – è che il Consiglio di Stato abbia omesso di ricordare che l’EFSA, nel mese di
settembre 2013317, si era espressa sui rilievi formulati dalle Autorità italiane, giungendo alla
conclusione che essi non fornivano alcuna nuova evenienza scientifica318 e che dunque non
erano sussistenti i presupposti per avviare il procedimento ex art. 34 regolamento 1829/2003;
si legge già nell’abstract del parere: «therefore, the EFSA GMO Panel concludes that, based
on the documentation submitted by Italy, there is no specific scientific evidence, in terms of
risk to human and animal health or the environment, that would support the notification of an
314
E. BLASI, I nuovi margini del potere decisionale degli Stati europei in materia di organismi geneticamente
modificati, in Riv. quad. dir. amb., 2015, 1, pagg. 164 ss.
315
Sentenza n. 605/2015, punto 6.5.: «la seconda questione da esaminare, riguarda gli elementi sui quali può
essere basata l’adozione delle misure nazionali provvisorie, della cui astratta adottabilità si è detto.
L’appellante incentra le sue censure sul significato dei pareri dell’EFSA.
Nel caso in esame, va fin d’ora riconosciuto che l’EFSA non ha suggerito di intervenire sull’autorizzazione del
mais MON 810, in relazione ai rischi connessi alla coltivazione. Nessuna presa di posizione esplicitamente
negativa sulla perdurante efficacia dell’autorizzazione è rinvenibile in detti pareri, e le conclusioni formali cui è
pervenuta EFSA, nonostante l’evidenziazione di nuovi parametri rilevanti e di nuovi criteri di valutazione del
rischio, e dell’opportunità di porre in essere forme di cautela, appaiono in linea di sostanziale continuità con il
parere favorevole del 2009. Tanto sembra emergere anche dalla “scientific opinion” pubblicata sul bollettino
dell’EFSA del 2013- n. 3371 (a quanto sembra, sopravvenuta all’adozione del decreto impugnato).
Il Collegio osserva, tuttavia, che l’art. 34, cit., non stabilisce un percorso conoscitivo e valutativo obbligato, in
quanto, prima ancora di menzionare, come strumento qualificato di evidenziazione dei presupposti per la
sospensione o la modifica di un’autorizzazione, i pareri dell’EFSA, indica i presupposti sostanziali per
intervenire sulle autorizzazioni, ed anche testualmente (“… ovvero qualora, alla luce di un parere
dell’Autorità…”) non esclude che la sussistenza di detti presupposti venga desunta in altro modo».
316
Nel quale si afferma che il Mon 810 potrebbe impattare sugli imenotteri parassitoidi specialisti di O.Nubilalis,
potrebbe modificare le popolazioni di lepidotteri non bersaglio e potrebbe favorire la sviluppo di parassiti
secondari potenzialmente dannosi per le altre colture. Così punto 6.7. della sentenza n. 605/2015.
317
In EFSA Journal 2013;11(9):3371 [7 pp.], pubblicato il 24 settembre 2013.
318
E. SIRSI, op. cit., pag. 224.
153
emergency measure under Article 34 of Regulation (EC) No 1829/2003 and that would
invalidate its previous risk assessments of maize MON 810».
Anche ove possa essere ammesso – seguendo il Consiglio di Stato – che gli Stati
membri intervengano nelle more del procedimento europeo, assai più difficile – se non
impossibile – è giustificare una misura di emergenza adottata in aperto contrasto con diversi
pareri, sostanzialmente unanimi, dell’EFSA.
Infine, il Consiglio di Stato non sembra aver approfonditamente vagliato la pur
citata319 esperienza francese: il menzionato provvedimento francese d’interdizione alla
coltivazione del mais Mon 810, adottato in data 16 marzo 2012 (analogo al decreto
interministeriale italiano del 2013), era stato annullato dal Conseil d’Etat già il 1° agosto
2013320 e proprio sulla base delle valutazioni emesse dall’EFSA. Il giudice amministrativo
francese, al pari del Consiglio di Stato, richiama la sentenza Monsanto del 2011321 e ribadisce
che le misure dell’art. 34 devono essere sorrette tanto dall’urgenza quanto da un pericolo
scientificamente dimostrato. Inoltre, il Conseil, preso atto dei pareri scientifici dell’EFSA
(nonché di altri organi tecnici) circa l’assenza di indici di pericolosità nell’impiego del mais
Mon 810322, perviene all’annullamento del provvedimento di interdizione.
Invero, le Autorità francesi, in data 14 marzo 2014323, hanno nuovamente adottato un
decreto che interdice la commercializzazione, l’utilizzazione e la messa in coltura del mais
Mon 810, riaprendo così una controversia che sembrava conclusa dopo l’intervento del
Conseil d’Etat del 2013. All’arrêté amministrativo – volto a precedere l’intervento della
Commissione ai sensi dell’art. 34 regolamento 1829/2003 – ha fatto, tuttavia, seguito un
parere dell’EFSA, le cui conclusioni si pongono nella prosecuzione di quanto già affermato
nei pareri rilasciati nei precedenti casi italiano e francese. L’EFSA, nel menzionato atto
319
Consiglio di Stato, sentenza n. 605/2015, punto 6.3.
Conseil d’Etat, sentenza n. 358103 del 1° agosto 2013, disponibile in www.conseil-etat.fr.
321
Conseil d’Etat, sentenza n. 358103 del 1° agosto 2013, punto 11: «Consid rant, en second lieu, qu’il r sulte
de l’arrêt Monsanto SAS et autresde la Cour de justice de l’Union europ enne du 8 septembre 2011, C-58/10 à
C-68/10, que la première h pothèse mentionn e par l’article 34 du règlement (CE) n° 1829/2003 impose aux
Etats membres de d montrer, outre l’urgence, l’existence d’une situation susceptible de pr senter un risque
important mettant en péril de façon manifeste la santé humaine, la sant animale ou l’environnement; qu’un tel
risque doit être constat sur la base d’ l ments nouveaux reposant sur des donn es scientifiques fiables».
322
Conseil d’Etat, sentenza n. 358103 del 1° agosto 2013, punto 12: «Consid rant qu’il ressort des pièces du
dossier que tant l’avis de l’AESA du 30 juin 2009 relatif à la demande de renouvellement de l’autorisation de
mise sur le marché du maïs g n tiquement modifi MON 810 que l’avis du 22 d cembre 2009 du comit
scientifique du Haut conseil des biotechnologies sur les r ponses de l’AESA aux questions pos es par les Etats
membres au sujet du maïs MON 810 et l’avis de ce comit du 21 octobre 2011 sur le rapport de surveillance de
culture du MON 810 en 2010 ont conclu à l’absence de risque important pour l’environnement».
323
Arrêté du 14 mars 2014 interdisant la commercialisation, l'utilisation et la culture des variétés de semences
de maïs génétiquement modifié (Zea mays L. lignée MON 810), disponibile in www.legifrance.gouv.fr.
320
154
consultivo324, giunge alle seguenti conclusioni: «neither the scientific publications cited in the
French Authorities’ report with relevance to maize MON 810 nor the arguments put forward
by France reveal any new information that would invalidate the previous risk assessment
conclusions and risk management recommendations made by the EFSA GMO Panel.
Therefore, EFSA considers that the previous GMO Panel risk assessment conclusions and
risk management recommendations on maize MON 810 remain valid and applicable». Dal
tenore delle riportate conclusioni – benché non sia ancora disponibile una pronuncia definitiva
del giudice amministrativo francese in ordine al nuovo provvedimento – si desume che anche
questa moratoria sia destinata all’annullamento.
I casi giurisprudenziali che sono stati sinteticamente esaminati ci permettono di
giungere alla conclusione che l’expertise scientifica svolge un ruolo di primo piano non solo
nell’individuazione della base scientifica sulla quale assumere il provvedimento di
autorizzazione, bensì anche nella legittimazione dello stesso e nel sindacato giurisdizionale
sull’operato della Commissione (e delle autorità nazionali) nel settore degli OGM.
3. Considerazioni conclusive.
Le considerazioni che precedono contribuiscono a fare un poco di chiarezza sul ruolo
che l’expertise scientifica riveste all’interno del procedimento
di autorizzazione
all’immissione in commercio di organismi geneticamente modificati. In merito, si reputa che
il ruolo dell’analisi tecnoscientifica in simile procedimento trascenda il semplice momento
consultivo per conformare a sé, all’opposto, l’intero portato del provvedimento. È
considerazione ovvia quella per cui il connubio scienza e diritto nel settore degli OGM non
può limitarsi allo studio dell’influenza del parere dell’organo tecnico, dovendosi, invece,
estendere ad altre tematiche di particolare interesse (quali disinformazione del pubblico e
partecipazione dei cittadini). Tuttavia, allo stato attuale, pare che non si possa prevedere un
mutamento di rotta: anche le modifiche apportate alla direttiva n. 18 dalla direttiva n. 412 del
2015 non sembrano mettere in dubbio il prestigio del parere scientifico. Non a caso,
324
Statement on a request from the European Commission related to an emergency measure notified by France
under Article 34 of Regulation (EC) 1829/2003 to prohibit the cultivation of genetically modified maize MON
810, pubblicato il 1° agosto 2014 e disponibile in EFSA Journal, 2014;12(8):3809 [18 pp.].
155
l’inserimento dell’art. 26-ter325 nel corpo della direttiva n. 18 non muta il ruolo dell’EFSA326:
infatti, pur prevedendo la possibilità per gli Stati membri di approntare divieti alla
coltivazione di OGM, siffatte moratorie dovranno trovare giustificazione in valutazioni
ulteriori rispetto a quella scientifica esperita al momento dell’autorizzazione327 (naturalmente,
permangono per le autorità nazionali i poteri di intervento di emergenza, ma solo alla luce
delle condizioni viste nei paragrafi precedenti), quali ad esempio la tutela del paesaggio.
Invero, l’innovazione normativa segue la ratio di garantire, da un lato, l’unicità del
procedimento di risk assessment/management, mentre preserva agli Stati la valutazione di
quelle esigenze imperative che sono proprie di ogni singolo territorio e che meglio possono
essere sondate dalle autorità nazionali piuttosto che dalla Commissione.
Quanto precede manifesta come i prodotti GM siano tuttora un “campo di prova” sul
quale vagliare i rapporti fra scienza e diritto, palesando due tendenze antitetiche: la
Commissione europea favorisce le nuove tecnologie ritenendo sufficiente la prova scientifica
dell’assenza del rischio o della tollerabilità del medesimo, gli Stati – o meglio alcuni di essi –
sono propensi alla considerazione di interessi differenti rispetto a quelli puramente scientifici.
325
Direttiva n. 2001/18/CE, art. 26-ter, par. 3: « Se non è stata presentata alcuna richiesta a norma del
paragrafo 1 del presente articolo o se il notificante/richiedente ha confermato l'ambito geografico della sua
notifica/domanda iniziale, uno Stato membro può adottare misure che limitano o vietano in tutto il suo territorio
o in parte di esso la coltivazione di un OGM o di un gruppo di OGM definiti in base alla coltura o al tratto, una
volta autorizzati a norma della parte C della presente direttiva o del regolamento (CE) n. 1829/2003, a
condizione che tali misure siano conformi al diritto dell'Unione, motivate e rispettose dei principi di
proporzionalità e di non discriminazione e, inoltre, che siano basate su fattori imperativi quali quelli connessi a:
a) obiettivi di politica ambientale; b) pianificazione urbana e territoriale; c) uso del suolo; d) impatti socioeconomici; e) esigenza di evitare la presenza di OGM in altri prodotti, fatto salvo l'articolo 26 bis; f) obiettivi di
politica agricola; g) ordine pubblico.»
326
In tal senso anche G.F. FERRARI, Scienza e tecnica fra diritto europeo e diritto comparato, in questi Atti.
327
È stato altresì osservato che un ulteriore limite al portato della riforme discende dal par. 8 dello stesso art. 26ter il quale ribadisce il principio di libera circolazione dei prodotti OGM: libertà di circolazione che non può
essere limitata dalle misure adottate dagli Stati membri. In proposito, S. VISANI, Modelli normativi a confronto:
regolamentazione degli Ogm tra UE e USA. Giurisprudenza in materia di brevettabilità degli organismi viventi,
in www.rivistadirittoalimentare.it, 2015.
Recent working papers
The complete list of working papers is can be found at http://polis.unipmn.it/index.php?cosa=ricerca,polis
*Economics Series
Q
**Political Theory and Law

Al.Ex Series
Quaderni CIVIS
2016 n.237** Piera Maria Vipiana, Matteo Timo and Davide Bisio: Diritto Scienze e
Tecnologie
2016 n.236** Matteo Porricolo et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali
N.8/2016
2016 n.235
Mario A. Cedrini and Marco Novarese: The challenge of Fear to Economics
2016 n.234*
Albert Breton and Angela Fraschini: Is Italy a Federal or even a Quasi-Federal
State?
2016 n.233** Maria Luisa Bianco, Flavio Ceravolo, Giovanna Garrone e Guido Ortona: Crisi
economica e disoccupazione giovanile: valutazione del consenso verso politiche
di intervento pubblico
2015 n.232*
Michele G. Giuranno and Manuela Mosca: Political realism and models of the
state – Antonio de Viti de Marco and the origins of Public Choice
2015 n.231** Guido Napolitano and Francesco Ingravalle: La liberalità. Versi sciolti
attribuibili a Vincenzo Gioberti
2015 n.230** Francesco Ingravalle and Giuseppe Scalici (eds): Filippo Giordano Bruno:
Cabala del Cavallo Pegaseo con l'Aggiunta dell'Asino Cillenico
2015 n.229** Matteo Cannonero et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie
locali N.7/2015
2015 n.228*
Michele G. Giuranno and Rongili Biswas: Internal migration and public policy
2015 n.227*
Giuseppe Di Liddo and Michele G. Giuranno: Strategic delegation under the
subsidiarity principle
2015 n.226*
Giampaolo Arachi, Giuseppe Di Liddo and Michele G. Giuranno: Cooperazione
locale in Italia: le Unioni di Comuni
2015 n.225*
Guido Ortona: A commonsense assessment of Arrow's theorem
2015 n.224*
Michele Giuranno and Antonella Nocco: Trade tariff, wage gap and public
spending
2015 n.223*
Giuseppe Di Liddo and Michele Giuranno: Asymmetric yardstick competition
and municipal cooperation
2015 n.222** Maria Bottiglieri: Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale,
costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”
2015 n.221** Piera Maria Vipiana and Matteo Timo: Le direttive UE del 2014 in tema di
appalti pubblici e concessioni
2015 n.220
Gianna Lotito, Matteo Migheli and Guido Ortona: Competition and its effects on
cooperation – An experimental test
2015 n.219
Marco Novarese and Viviana Di Giovinazzo: Not Through Fear But Through
Habit. Procrastination, cognitive capabilities and self-confidence
2014 n.218** Nicola Dessì et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali
N.6/2014
2014 n.217*
Roberto Ippoliti: Efficienza tecnica e geografia giudiziaria
2014 n.216** Elena Ponzo et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali
N.5/2014
2014 n.215
Gianna Lotito, Anna Maffioletti and Marco Novarese: Are better students really
less overconfident? - A preliminary test of different measures
2014 n.214*
Gloria Origgi, Giovanni B. Ramello and Francesco Silva: Publish or Perish.
Cause e conseguenze di un paradigma
2014 n.213** Andrea Patanè et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali
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2014 n.212** Francesco Ingravalle et al.: L’evento. Aspetti e problemi
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