I FUOCO, ARIA, ACQUA: I PONTI TRA UOMO E DIO Come i falò

FUOCO, ARIA, ACQUA: I PONTI TRA UOMO E DIO
Come i falò primaverili in Romagna, esistono al mondo molti altri riti per instaurare
il rapporto con Dio e la natura, e impetrare la fine dell’inverno e la buona fortuna.
Forse la più famosa e longeva tra quelle tradizioni popolari che si trovano diffuse
capillarmente in tutto il territorio della Romagna, i falò primaverili (definiti in dialetto
fugareni, fugarazi, lôm a mêrz, ecc…) continuano da anni a rappresentare quel legame tra città e
campagna, tra ambiente industriale e quello rurale, tra passato e presente, legame che tante
altre manifestazioni del mondo moderno sembrano invece contribuire a cancellare.
Non c’è dubbio che questa sua caratteristica di essere il testimone di un rito antico sia
ben presente nella gente: è normale trovare questa convinzione nelle parole dei partecipanti
ai balli che si svolgono attorno ai falò, nelle locandine esposte nell’occasione dalle tante
associazioni che si occupano del recupero delle tradizioni popolari, negli articoli dei giornali
locali che ne danno l’annuncio. Meno diffusa è invece la concezione esatta del valore che si
deve dare al termine “antico”, in quanto generalmente la festa è pensata come una tradizione
ascrivibile ai propri nonni o, al massimo, ai bisnonni contadini.
Così come meno diffusa è anche la conoscenza che questo fenomeno sia praticamente
universale, ritrovandosi in tutta l’area continentale euro-asiatica e in buona parte di quella
nord-americana e nord-africana, e quanto complessi siano i significati reconditi del rito, che
va ben al di là del fatto benaugurale, significati che cercheremo di esaminare in questo lavoro.
Senza voler elencare una lunga lista di questi riti in Europa1 si può solo ricordare che i
fenomeni che assomigliano di più a quello romagnolo, sia negli atti che nei concetti, sono le
feste legate alle antiche divinità celtiche Belenos e Lug, che si tengono in Inghilterra, Irlanda,
Danimarca e Germania del Nord.
In queste feste sono presenti, come in Romagna, i balli e i canti attorno al fuoco
(soprattutto i “balli in fila”, che già da soli nascondono un significato antropologico ben
definito), il salto del fuoco, l’uso di raccogliere braci e cenere calda (quella che in dialetto
1
Per chi volesse approfondire l’analisi dei riti antichi relativi al fuoco si suggeriscono: - La terra e il fuoco. Riti funebri tra
conservazione e distruzione -, a cura di EMANUELA TARTARI, Roma, Meltemi, 1966; IGNAZIO BUTITTA – Il fuoco:
simbolismo e pratiche rituali – Palermo, Sellerio, 2002; A. DE GUBERNATIS – Storia comparata degli usi funebri in
Italia e presso gli altri popoli indoeuropei, Arnaldo Forni, 1985, ed infine, per l’interessante analisi dei fenomeni legati al
fuoco dal punto di vista psicologico e poetico: GASTON BACHELARD – L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del
fuoco – Bari, Dedalo, 1973.
I
romagnolo si chiama burnisa) dai resti del falò da portare a casa, nel proprio camino, come
simbolo di appartenenza a quella comunità che il falò comune rappresentava.
Altra caratteristica comune dei falò romagnoli e quelli dell’Europa del Nord è
rappresentata dalla presenza dalle “perorazioni” alla divinità.
Di falò tenuti attorno al 1950 in Romagna qualcuno ricorda le frasi: “San Jusèf, fam cres e
pét!” (San Giuseppe, fammi crescere il seno!)2, frase che veniva recitata dalle adolescenti per
inviare una richiesta alla divinità; inoltre “Bona sorta, che la Maria l’è morta!” (Buona fortuna,
ch’è morta Maria!)3.
La testimone di questa seconda frase faceva notare come ci fosse una gara (che la stessa
testimone definiva “sfida”) a proporre frasi sulla stessa trama (….che ….l’è mort/morta…)
inventando parole che potessero completarla purché facessero riferimento al nome di una
persona effettivamente deceduta in quell’anno e che fosse in rima.
Così si è rilevato, per esempio, “No fè e quaion, ch’lè mort Mingon!” (Non fare lo stupido,
che è morto Domenico!), oppure “Dam un basin, ch’lè mort Fafin!” (Dammi un bacino, che è
morto Giuseppe!).
Ritorneremo sul significato antropologico di queste frasi, qui riportate, per il momento,
solo perché le ritroviamo, parallelamente, in analoghe frasi nei paesi nordici4.
Il più importante concetto del falò è indubbiamente quello benaugurante, legato al
concetto antropologico noto come “magia simpatico-imitativa”. E’ un concetto fondamentale
legato alla mentalità arcaica dell’uomo primitivo, secondo il quale un’ “azione ne provoca
un’altra identica”, per cui l’accensione di un grande fuoco doveva “suggerire” alla natura
l’accensione di un fuoco ben più grande, quello del sole, che doveva portare calore, e quindi
benessere, ad un mondo che stava uscendo dalla fredda stagione invernale.
Anche se oggi questo può sembrare strano, la paura che l’inverno rappresentasse la
morte del mondo e l’impossibilità della rinascita del sole, era una realtà nel mondo antico,
così spaventato dal freddo e dal buio da identificarlo con la morte stessa.
Nei canti che accompagnano il falò non è difficile individuare preghiere, eventualmente
sotto forma di canto, che accompagnavano gli antichi riti primaverili.
Un po’ più complessa è invece l’interpretazione del “ballo in fila”. E’ noto che tale tipo di
ballo (l’esempio più famoso del quale è quello della “danza macabra”, raffigurata in
innumerevoli illustrazioni e dipinti) realizzato generalmente da un gruppo di persone che si
tengono per mano, guidate da un capofila (la morte) che ne decide il percorso ora circolare,
ora serpeggiante (e che in questo caso si svolgeva prevalentemente attornio al falò), ha
sempre rappresentato l’immagine dei defunti che vengono condotti verso il mondo dei morti.
In questo tipo di ballo il percorso circolare veniva realizzato a volte avendo il viso rivolto
al centro, a volte le spalle, a rappresentare come i defunti si trovavano ancora in un’area
liminare5 tra vita e morte, e quindi come il loro viaggio per giungere all’ al di là fosse un atto
non immediato, un percorso lungo e difficile.
2
Riportata da Giuseppina Casadei, di Montaletto di Cervia (RA).
Riportata da Maria Zattoni, di Cervia (RA).
4
ALWYN REES – Antiche tradizioni d’Irlanda e Galles – Roma. Ed. Mediterranee, 2000: NICHOLAS ROGERS –
Halloween. From pagan ritual to Party night – New York, Oxford University Press, 1996.
5
Il termine “liminare”, per identificare uno stato di “limite” tra due mondi, è stato usato per la prima volta in antropologia
culturale probabilmente da Arnold Van Gennep.
3
II
Nel caso dei falò il ballo attorno al fuoco riassumeva ancora di più il significato liminare
in quanto l’atto si frappone tra il fuoco (la vita) e il resto buio del mondo (la morte), dato che
il falò avviene di notte.
Sarebbe interessante rilevare se ci siano stati casi di ballo alternativamente con il viso e
con la schiena rivolti verso il fuoco anche nel caso dei balli attorno ai falò (attualmente,
perlomeno da parte di chi scrive, non ne è stata rilevata traccia).
Un dipinto medioevale rappresentante la Danza Macabra
Per quanto riguarda invece le perorazioni ricordate vanno inquadrate nel meccanismo
che tende a scongiurare un fenomeno secondo il concetto della derisione o della “finta”
mancanza di paura. Se si mostra ad un nemico che non si ha paura di lui si spera che questo
atto lo distolga dall’intenzione di farci del male; in altre parole la frase “Buona fortuna, ch’è
morta Maria!” vuole mandare alla morte il messaggio che non fa paura, che la morte di Maria
è un fenomeno che può addirittura portare fortuna, e quindi dovrebbe spingere la morte
stessa a non cercare altri candidati, perché questo fatto non crea panico alla gente.
Che le altre frasi riportate non facciano trasparire questo concetto è spiegabile con il fatto
che il significato arcaico si è probabilmente perso, mentre è rimasto semplicemente il ricordo
di frasi in rima.
Si è già spiegato il significato psicologico e antropologico della richiesta “San Giuseppe,
fammi crescere il seno!”, così come quello della raccolta della cenere ancora calda.
Ma perché è proprio il rito attorno ad un falò quello che, maggiormente di altri, è
universalmente utilizzato per inviare richieste alle divinità, perché questo non succede (o
succede in misura molto minore) con altri riti che pure hanno una forte valenza antropologica
e sociale, come il pasto in comune, o i riti della nascita e della morte, o i riti propiziatori della
caccia?
Faremo riferimento, nel tentativo di spiegare questo concetto, alla creazione
dell’immaginario delle divinità presso alcune etnie molto diverse da quelle europee, a
cominciare dagli studi dell’antropologo francese Jean Amselle, che ha analizzato a lungo due
popolazioni africane, i Dogon del Mali e i Bamilekè del Camerun.
III
Le due etnie indagate dallo studioso francese hanno in comune la vita in un ambiente
geografico e climatico molto simile, caratterizzato da un’estrema povertà di acqua e dalla
forte e costante presenza del vento.
Quando una popolazione crea un universo magico abitato da esseri non umani, dotati di
caratteristiche lontane da quelle animali e concrete nelle quali vede immersa, invece, la
propria vita, tende inevitabilmente a rappresentarli con le caratteristiche di quello che gli
sembra l’elemento più forte e potente dell’universo. In questo caso è stato inevitabile per i
Dogon e i Bamilekè, pur abitando in zone molto distanti tra loro, identificare nel vento,
costante e implacabile, che sferza i loro territori, l’essere creatore e dominatore del mondo.
Questo fatto viene evidenziato da una serie di frasi che esprimono il loro concetto della
vita, nella quale l’aria e il vento hanno un valore predominante.
Alcuni disegni delle etnie Dogon e Bamilekè
Ad esempio: “… la parola di dio e’ un mulinello d’aria….”, “…. la creazione dell’uomo: la
parola e’ venuta con il vento, e’ entrata nell’orecchio, e’ scesa nel fegato, dove si e’ seduta,
poi e’ uscita dalla bocca…”, “… l’insulto fa male, come il vento che trascina granelli di
sabbia…”, ”... l’adulazione e’ un vento che fa muovere appena le foglie….”, ”…le parole d’amore
sono come una brezza fresca e leggera…”6.
Rafforza questo concetto la loro produzione artistica, dove gli
elementi dominanti sono righe ondulate e zigzaganti, unico
modo per rappresentare visivamente i movimenti irregolari
delle correnti d’aria.
L’abitudine a pensare all’aria ed al vento come elementi
primordiali dominanti ha portato, presso queste etnie,
all’incapacità (o, per lo meno, alla disabitudine) a fare
riferimento ad elementi spaziali fissi, come possono essere
quelli rappresentati dalle montagne. Per questo motivo presso
queste tribù è nato un concetto dell’orientazione spaziale
molto diverso da quelli, sempre simili tra loro, che invece si
Il disegno di un
trovano presso il resto del mondo. Il disegno di un granaio,
granaio realizzato
eseguito dall’antropologo Marcel Griaule su indicazioni di un
sullo schema
abitante di un villaggio Dogon, mostra i quattro punti
dell’universo
cardinali in posizioni completamente diverse da quelle
concepito dai Dogon
6
P. ALGERGHETTI, I. BARGNA e alt. – Il vento, lo spirito, il fantasma – a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano, 2012,
da pag. 49 a 54.
IV
universalmente accettate, e su tre piani diversi.
Altrettanto non è successo invece presso le tribù dei nativi americani, nonostante che
anche presso questi popoli sia fondamentale, nella costruzione dell’immaginario divino, il
ruolo dell’aria e del vento.
Anche in questo caso siamo supportati da uno schema riprodotto da un antropologo in
uno studio sul campo presso una tribù Dakota7.
E’ evidente da questo disegno che l’etica di questo popolo è strettamente legato ai
concetti di aria e vento, dato che i quattro punti cardinali indicati dall’antropologo americano
secondo i classici nomi definiti dalla nostra cultura (nord, sud, est ed ovest) in realtà erano
definiti, dal suo testimone, con il nome dei quattro venti fondamentali per il popolo
pellerossa (rispettivamente yata, okaga, yanpa, eya ); questi quattro venti risultano però
esattamente allineati con i nostri punti cardinali.
Esaminando paesi nei quali lo scenario geografico fondamentale è rappresentato da
mare, come quello dell’arcipelago polinesiano, possiamo rilevare come sia proprio questo
elemento a creare i modelli per l’immaginario divino.
Lo schema dei pellerossa Dakota
Il dio polinesiano Apu Ko Hai
Senza dilungarci in quello che è, a questo punto, uno scenario facilmente immaginabile,
ci limitiamo semplicemente ad elencare un limitato numero di divinità che proprio al mare
fanno riferimento, sia come morfismo che ambiente.
Apu Hau, il dio maligno del mare, che produce tempeste e uragani, nei disegni dei
polinesiani viene rappresentato con una forma assimilabile a volte al polipo, a volte al
calamaro; Apu Ko Hai, il dio pesce dell'isola di Mangaia è rappresentata in forma di tartaruga,
mentre assume le forme del pescecane Tumuitearetoka. L’unica figura che sembrerebbe non
seguire questa regola potrebbe essere Kamapua, del quale colpisce immediatamente il muso
suino, salvo poi accorgersi che tutto il resto del corpo ha caratteristiche di pese (pinne, coda e
spina dorsale che esce dal corpo).
7
In questo caso il disegno è stato modificato dall’autore sostituendo i termini inglesi con gli analoghi italiani.
V
Da quanto fin qui esposto appare evidente come ogni cultura crei una propria mitologia
ed un proprio mondo magico-religioso legato alle caratteristiche fisiche del proprio territorio.
Per quanto riguarda la maggioranza delle culture europee il territorio ha finito per
identificare nel fuoco l’elemento caratteristico e dominante del proprio immaginario.
A differenza degli ambienti esaminati come esempio, dove il vento ed il mare sono
eternamente presenti e dominanti, fu probabilmente la varietà del paesaggio europeo, ricco di
fiumi, boschi, mari e montagne, a far ricadere la scelta su questo elemento; forse la visione
della forza del fuoco durante incendi boschivi indusse questo concetto.
In realtà non va dimenticato che il processo psicologico che porta una cultura ad
assegnare un particolare valore ad un simbolo è un meccanismo molto complesso; qui ci
limitiamo a prendere atto di questa scelta dei popoli europei in quanto l’analisi di questi
meccanismi non è strettamente necessario alla finalità di questo lavoro8.
Qui ci preme solo rimarcare come l’elemento dominante scelto da ogni cultura diventa
inevitabilmente il “ponte” tra l’uomo e la divinità. E’ a questo elemento che l’uomo affida i
suoi messaggi e le sue offerte agli dei: non è difficile immaginare che gli uomini ritenessero
estremamente facile che una preghiera, o un messaggio orale, potesse raggiungere le divinità
se affidato a questo elemento. Ma anche un’offerta, pur nella sua fisicità e quindi nella
differenza sostanziale da una preghiera, poteva essere affidata a questo elemento.
Era facile pensare che la cenere, risultato di un’offerta bruciata su un altare, potesse
giungere a dio se affidata al vento, alle onde del mare e, nel caso europeo, al fuoco che,
proprio per una caratteristica chimico-fisica del fumo e dell’aria calda, ha la tendenza a salire
verso l’alto e quindi verso la dimora degli dei.
Il sacerdote diventa l’attore del rito; non per niente il sacerdote latino assume il titolo di
Pontifex (colui che riesce a realizzare, tramite questo ponte, l’unione dell’uomo con dio).
Il sottotitolo di questo lavoro ricorda, tra le altre parole, come questo ponte sia un
elemento per “… impetrare la fine dell’inverno e la buona fortuna…”, e siamo partiti proprio
parlando del fenomeno di richiesta di un beneficio eseguiti durante i falò primaverili.
In realtà non dobbiamo dimenticare che il ponte non fa solo richieste di eventi fortunati,
ma è anche diventato un canale preferenziale per colloquiare con dio, anche nel caso di
fenomeni negativi. Basti pensare ai roghi di tipo “penitenziale”, quelli con i quali si puniva
un criminale, immolandolo alla divinità: in questo caso con il fuoco che bruciava il reo si
comunicava al dio che il colpevole aveva pagato la sua colpa.
Questo concetto è fortemente radicato nell’animo umano, ed è diventato un simbolo
della punizione di chi non rispetta un contratto sociale: ricordiamo i roghi degli eretici o
quelli, tristemente famosi, dei libri da parte dei sistemi dittatoriali.
La doppia valenza del messaggio inviato alla divinità (richiesta di un beneficio o
trasmissione di un concetto negativo) non fa che rafforzare maggiormente il suo carattere di
elemento di comunicazione con l’immaginario.
La valenza del fuoco come ponte tra uomo e dio è diventato così forte che, un po’ alla
volta, si è trasmesso alle are sacrificali e, infine, ai camini delle case.
Questo luogo dell’abitazione è diventato il punto più sacro della casa: attorno al fuoco si
sono svolti, dalla preistoria in poi, i più importanti riti sociali.
8
Per ci fosse interessato ad indagare i meccanismi a cui si è fatto riferimento si rimanda al lavoro I significati simbolici
riportato alla pagina Argomenti di questo stesso sito.
VI
Le statue dei Lares latini, simbolo degli antenati, erano poste vicino al fuoco, e il fuoco era
sempre presente nei matrimoni, nelle nascite e nelle morti, e nei giuramenti importanti, sia
pubblici che privati.
Il concetto del fuoco come “ponte” tra uomo
e divinità ritorna nei riti sacrificali, negli
altari e, alla fine, nella sacralità dei camini
delle case.
In Romagna sono presenti innumerevoli riti, oltre ai ricordati falò primaverili, che hanno
il fuoco e, in particolare, il camino della casa come protagonista sacro, sia direttamente sia
attraverso elementi a questo collegati (come la pinza per le braci, la paletta per la cenere, la
catena per reggere il paiolo, ecc..). L’analisi di questi oggetti è stata presentata più volte in
lavori etnografici specifici che non vale la pena di ripeterli ora; si rimanda agli stessi.
Vale solo la pena ricordare come la sacralità del fuoco passi, in questi riti, agli oggetti
esaminati secondo il concetto, già ricordato, della magia simpatico-imitativa; il passaggio non
ne diminuisce la valenza, ma crea un sistema complesso “atti-luogo-oggetti” che è uno dei
più importanti dell’intera antropologia culturale che si occupa dei fenomeni legati alla
socialità famigliare.
VII