francesco bozza, l`antistoria nell`area del medio biferno

FRANCESCO BOZZA
L’ANTISTORIA
NELL’AREA DEL MEDIO BIFERNO
(Ricostruzioni di cornici per le inquadrature di storia molisana)
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FRANCESCO BOZZA
L’ANTISTORIA
NELL’AREA DEL MEDIO BIFERNO
(Ricostruzioni di cornici per le inquadrature di storia molisana)
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Ai miei fratelli,
alle cognate
ed ai nipoti tutti,
segno, piccolo piccolo, di affetto e di riconoscenza
per quanto, immenso, mi hanno concesso
AVVERTENZA INTRODUTTIVA
Dopo “Limosano nella storia” e gli approfondimenti di “Limosano: questioni di
storia”, ecco, pronta da oggi, “L’antistoria nel medio Biferno”.
Ho voluto raccogliere nel sottotitolo, “ricostruzioni di cornici per le inquadrature
di storia molisana”, tutte le motivazioni che mi hanno ispirato a por mano e, soprattutto,
a portare a termine quest’altro lavoro, che, tra l’incostanza degli alti dell’entusiasmo ed i
bassi degli scoraggiamenti, ha tenuto impegnato la mia attenzione per diverso tempo.
Fatto di anni di ricerca e di verifiche.
Oltre alle ‘ricostruzioni’ delle situazioni geografiche, insediamentali e fisiche, mi
hanno interessato, con particolare riferimento alle vicende riferibili all’ambito territoriale del medio Biferno, gli ambienti generali, le ‘cornici’ appunto, all’interno dei quali
nei cambiamenti dettati dal continuo divenire umano sono andate a collocarsi sia quelle
situazioni e sia le inquadrature della storia molisana, che man mano sono emerse ed alle
quali nel futuro si farà riferimento anche dagli altri ricercatori.
Quadri relativamente nuovi, se si considerano i temi venuti fuori: le influenze di
lunghissimo periodo delle persistenze della grecità bizantina; il tipo del ‘monachesimo’,
eremitico e cenobitico, di matrice ‘basiliana’ rispetto alla tradizione monastica di quello
‘benedettino’; gli adattamenti alle convivenze con la presenza delle altre culture (come
quelle degli arabi e degli ebrei); i condizionamenti degli ‘ordini’ crociato-cavallereschi;
gli sviluppi in ambito locale delle contrapposizioni politiche; le presenze della
‘contestazione’ eretica ai margini delle situazioni umane; l’argomento concernente la
presenza delle ‘riforme’ prima della riaffermazione della ‘contro-riforma’.
Ed, a tutti sottesi, gli effetti delle ‘cancellazioni’, da sempre operate dalla brutalità
della forza del vincitore, di tutte le situazioni, umane e non, prodotte da chi, più debole o
solo meno fortunato, era risultato sconfitto. Tra le tante, che ebbero a perpetrarsi con
eccitazione feroce, un esempio, tanto piccolo quanto significativo, l’ho trovato annotato
nel “Registro de’ pubblici parlamenti” (ASCL, B. 3, f. 3, “Pubblico Parlamento del 2
Febraro 1800”), il quale, relativamente ai fatti riferibili alla rivoluzione partenopea del
1799 che accaddero a Limosano, riporta “che per astringere vari debitori dell’Unità
mancano le scritture necessarie, essendosi disperse le copie ne’ passati disordini; <ed>
occorre di nuovamente estrarle, …”.
Anche se quel comportamento rientrò nelle abitudini e fu normale metodo storico,
sembra che allora, almeno in parte, si riuscì a salvare i diritti dell’Unità; ed anche quelli
della restaurazione. Ma – ci si domandi – che fine fecero i sogni rivoluzionari rimasti
‘dispersi’ o a bruciare nel fuoco? Pare che, in quel frangente, bastò solo un incendio per
fare cenere degli obblighi del passato. Con la conseguenza che la ‘storia’, pur senza
mostrare la normale continuità, può essere ricostruita, nel bene e nel male, solo a metà.
Per quanto mi sia stato possibile, ho cercato di interessarmi all’altra metà (o, forse,
parecchio in più?), quella ‘cancellata’ e ‘dispersa’; praticamente all’antistoria.
Lacune e difetti? Tante e tanti. Senza voler accampare giustificazione, qualcuno
me lo riconosco già da me stesso (prima che siano altri a farmene rimprovero): le non
infrequenti ripetizioni (imputabili non poco agli alti e bassi del mio impegno), che, però,
furono spesso il frutto di ‘ragionamenti’ finalizzati alle spiegazioni di tesi diverse; una
certa inorganicità delle argomentazioni proposte, che d’altro canto, mi servì a toccare
tante ‘questioni di storia’ e di ogni singola ‘questione’ da trattare gli aspetti più diversi e
differenti; lo stile prolisso (me ne fanno gran colpa gli amici più ‘critici’ e criticoni, che,
però e nonostante tutto, mi hanno incoraggiato sempre ad andare avanti nel mio studio,
quasi tenendomi compagnia) che, derivatemi dalla mia specifica connotazione culturale
‘classica’, mi tornò utile a dare carattere di scientificità tanto alla ricerca stessa che alle
continue verifiche in progress, cui andavo continuamente a sottoporre le ipotesi per
‘verificarne’, appunto, tutte le compatibilità e specialmente quelle cronologiche, perché,
come mi insegnò il Bognetti, “la storia è prima di tutto cronologia con dati e date da
coordinare; fatto questo, le situazioni appaiono subito chiare, trasparenti e vere”.
Ma è la natura stessa dell’antistoria a creare quelle difficoltà dalle quali possono
derivare le lacune ed i difetti.
Di quelli menzionati, come dei tanti altri che per pudore preferisco tacere, sin da
ora – e senza volermi trincerare nel generico “chi non ne ha?” –, ne voglio chiedere
perdono al paziente e buon lettore.
Al quale, sempre da ora, voglio dire il mio ‘grazie’ sincero, se, armato di pazienza
e di benevola comprensione, riuscirà a seguirmi sino in fondo.
Campobasso, 8 settembre 2007
Francesco Bozza
L’ANTISTORIA
NELL’AREA DEL MEDIO BIFERNO
CAPITOLO I: I Sanniti, la romanizzazione, il Cristianesimo
1.1 – I Sanniti
Dopo la preistoria dell’età del bronzo (II millennio a.C.) e, maggiormente, dopo la
protostoria dell’età del ferro (prima metà del I millennio a.C.), l’irrompere della Storia,
che può farsi iniziare con l’affermarsi della presa di coscienza della ‘organizzabilità’
politico-sociale e gestionale della disponibilità delle risorse e degli spazi in maniera e
con metodi, che per questa fase sono etichettabili come ‘naturali’ (i ‘Ver sacrum’, che
non furono che semplici ‘spostamenti’ di massa e mai contrapposizioni, presuppongono
quasi esclusivamente motivazioni o di carattere demografico oppure di rafforzamento
della specie), mostra il contemporaneo consolidarsi nell’Italia peninsulare di tre ‘civiltà’
diverse l’una dall’altra, ma tutte con un proprio specifico ed autonomo significato: gli
Etruschi, la Magna Grecia e le popolazioni Sabello-Sannitiche.
Tali civiltà (la visibilità di Roma, che, inizialmente, è costola delle popolazioni
Sabelliche e, con il “ratto delle Sabine”, se il mito ha un significato storico, da queste
quasi prende esclusivamente l’elemento riproduttivo e di perpetuazione e, in quanto pure
di loro emanazione, con i Tarquini viene addirittura amministrata dalle aristocrazie
etrusche) sono tutte costituite, e la circostanza non può non rivestire che un significato
particolare, da organizzazioni politico-militari fondate sulla ‘foederatio’ di più strutture
insediative. Vale a dire, cioè, che, se per tutte quelle ‘civiltà’ si raggiunse un risultato
pressoché analogo, quando non proprio identico1, il processo evolutivo ‘naturale’ verso
1
Il concetto di ‘democrazia’, intesa come forma di governo, apparirà più tardi nel tempo e solo come
astrazione filosofica. Ad esso si arriverà imponendolo e con cancellazione di ‘sistemi’ esistenti, ai quali si
era pervenuti in maniera ‘naturale’.
Sui problemi posti da tale forma di governo, riporto, integralmente, il mio articolo La Democrazia: più
problemi che soluzioni? (in Vita Diocesana, Quindicinale della Diocesi di Campobasso-Bojano, n. 13 del
30 Agosto 1998, pag. 4).
“Una tradizione culturale, tanto radicata quanto ingiusta, porta, se non proprio a demonizzare, quantomeno
a colpevolizzare le responsabilità di Ponzio Pilato, il quale, perché nato nell’area tiferno-fagifulana dove la
‘gens Pontia’, così come i Neratii nel Sepinate ed i Cluentii nel Larinese, aveva larga diffusione, era
molisano.
Eppure egli, che era (e nonostante fosse) espressione di un potere centralista e verticale, di fronte alla
decisione ‘democratica’ del popolo, che, chiamato ad esprimersi sulla sorte dell’Uomo-dio Cristo, gli ha
preferito il ladro, malfattore e delinquente, Barabba, altro non fa (in precedenza, però, aveva compiuto
tutti i tentativi per salvare l’innocente) che lavarsene le mani per dare libero corso agli effetti di quell’atto
della ‘democrazia’.
Un tale atteggiamento illuminato e, per così dire, con risvolti assai innovativi e moderni, evitandogli
perlomeno le accuse di ‘totalitarismo’, gli consente di mettere un consistente punto a suo favore.
tale categoria di ‘forma’ della gestione fu – dovette essere – assai lineare ed omogeneo.
Quei tre straordinari fenomeni di cambiamento culturale, che, a cavallo della metà
del primo millennio a.C. più o meno contemporaneamente, stanno emergendo, sono: la
‘civiltà’ degli Etruschi, i quali pervengono alla pratica concretizzazione di ‘città-stato’
confederate tra di loro, nelle quali si costituiscono “società molto stratificate controllate
da aristocrazie regionali”; l’altra della Magna Grecia, dove, parallelamente a quanto
avviene in Etruria, si affermano le diverse ‘polis’; e, posta a cavaliere tra queste due e
quasi ne rappresentasse il collegamento (forse anche commerciale), la terza, e non certo
Analizzare le conseguenze (e le negative sono di gran lunga maggiori e di più delle positive) di quella
espressione di sovranità ‘democratica’ porta, tuttavia, ad una riflessione sui grossi e seri interrogativi che
pone quella categoria di gestione del potere rappresentata dalla ‘democrazia’, che già la cultura e la ‘sofia’
greca avevano classificata come una delle peggiori forme di governo.
Un primo elemento di caratterizzazione negativa è rappresentato dalla ‘scelta’ del candidato, che,
‘proposto’ e messo nella propria lista da un partito secondo le ‘sue’ (= del partito) esigenze, interessi e
logiche di accaparramento dei voti, viene ‘eletto’ non tanto (e non certo) per le capacità amministrative,
quanto per il suo peso di clientele e da un elettorato che risulta sempre influenzato o da ‘ordini’ interni
dello stesso partito o da umori momentanei che si danno all’opinione pubblica da una informazione
certamente pilotata ed asservita. Barabba era bene il (o un) rappresentante di simili logiche devianti,
deviatrici e che fanno una ‘democrazia’ più pericolosa di un regime ‘totalitario’. Per tanti versi
ricollegabili a tale elemento e di esso non meno negative sono sia l’incapacità della collettività (in essa
ogni individuo ricopre funzione, presenza e propositività diverse da quelle degli altri) a determinare il
bene comune e sia la predominanza dell’interesse momentaneo e particolare, che, risultando nella
psicologia più forte di quello generale, ‘condiziona’ una tornata elettorale. Il reo Barabba viene ‘eletto’
non certo perché offriva più e migliori vantaggi rispetto al Cristo, ma solamente perché in quel momento
la psicologia della folla, condizionata da fattori esterni, vuole condannato quest’ultimo.
Pericolosa è anche la connivenza, facile ad aversi in ‘democrazia’ assai più di quanto si possa pensare, tra
la funzione politica e quella di controllo (spesso incapace o, per varie ragioni, impedita ad esercitarlo), che
frequentemente porta alla commistione dei poteri, la cui autonomia, la cui indipendenza e, soprattutto, la
cui capacità di assolvere alla specificità del proprio ruolo, che sono essenziali al buon funzionamento di
tale forma di governo, mai si riscontrano attualizzati concretamente. Il controllore (ma chi, ed in virtù di
che cosa, lo ha nominato tale?) dell’eventuale azione amministrativa del Barabba di turno risulta, cioè,
sempre colluso col controllato. Un discorso a parte meriterebbe la ‘voracità’ della burocrazia, che ben
‘sfrutta’ a proprio favore la omissione del controllo e partecipa di nascosto e, ancor più grave,
impunemente alle spartizioni che ne derivano. Basti, al riguardo, pensare alle farse dei concorsi, che mai
servono ad indicare il meritevole e il più capace professionalmente, ma solo e sempre il più ‘prono’ e chi,
una volta inserito nell’organigramma, sa rimanere ‘fedele’ a determinate esigenze dei ‘gestori’ del potere.
Serie perplessità sorgono, poi, quando si fa l’analisi della composizione qualitativa dei rappresentanti, che,
rispetto ai rappresentati, costituiscono una classe (quando non una casta) a se stante. Ad esempio, i
disoccupati, così come in generale i poveri, che sono di più dei ricchi e che nelle società postindustriali
tenderanno inevitabilmente sempre a crescere nel numero, mai esprimeranno eletti in misura
proporzionale alla loro consistenza quantitativa e sociale. La forza economica, vero elemento
discriminante, da, anzi, a chi ha il potere ‘democratico’ di rappresentare non solo se stesso, ma anche chi
non ha. Chi rappresenta e quali pressioni stanno veramente dietro a quel Barabba che viene scarcerato?
Un problema grosso viene alla ‘democrazia’ anche dal mancato rispetto della ‘volontà’ della minoranza,
quando non possiede mezzi e capacità (perché non può o non vuole raggiungere compromessi) per
diventare maggioranza. Il suo destino, alla faccia del ‘potere di tutti’, è che per essa le decisioni vengono
irrimediabilmente sempre e comunque prese da altri. Tornando all’episodio di Pilato, si ignora se i
discepoli ed i seguaci del Cristo, che, dispersi tra la folla, sappiamo essere stati numerosi, abbiano
partecipato alla consultazione; ciò nonostante, è facilmente pensabile che la loro ‘volontà’ mai ed in
nessun caso sarebbe stata presa in considerazione. Vale a dire, cioè, che il metodo della sopraffazione, di
per importanza, quella dei Samnites, che convergevano nelle ‘touto’, tenute pur’esse
insieme, per il soddisfacimento dei bisogni comuni, da patti federativi.
Pur se “gli autori classici romanocentrici ritraggono i Sanniti come un coraggioso
popolo di montanari, povero ed arretrato, che aveva un’arcaica organizzazione politica
ed una struttura insediativa basata sul villaggio e completata da numerosi siti fortificati” 2
e “benché tradizionalmente sia stata considerata una popolazione primitiva e rude,
l’archeologia mostra che la cultura sannitica negli ultimi secoli del I millennio a.C. era
molto più complessa di quanto potesse immaginarsi alcuni anni fa, con strutture più o
meno urbane sviluppatesi prima della romanizzazione”3.
Con l’emergere di tale ‘cultura’ “la valle <del Biferno> entra nel pieno della storia
come il cuore dell’antico Samnium”4. Di essa la parte più bassa vedeva la presenza dei
Frentani (popolazioni solo assimilabili agli altri Sanniti, tanto che, si veda la politica
delle alleanze con Roma, risultarono spesso in contrasto con essi), mentre cuore dei
Pentri, “la più forte delle quattro tribù-stato sannitiche”, erano l’alta e la media valle.
Relativamente ad un possibile tentativo di ricostruzione della geografia dei
riferimenti abitativi organizzati, occorre tener conto che: a) “durante il primo secolo e
mezzo della fase sannitica (nota: dal 500 al 350 a.C.) è probabile che la struttura
insediativa della tarda età del ferro si sia conservata senza ulteriori modifiche”; b)
“l’esistenza di questi villaggi (nota: tuttavia, motivazioni collegabili alla consistenza
demografica portano a non escludere del tutto forme insediative più propriamente
‘urbane’) si sia protratta nel tempo, anche se qualcuno è probabilmente nuovo” 5 ma,
comunque, da datare a dopo la fine del III secolo a.C., e solo l’esito sfavorevole dello
scontro con Roma (343-290), con una conseguente fase di calo demografico della durata
approssimativa di un trentennio, ed, in minor misura, il passaggio di Annibale (217)
abbiano potuto provocare delle variazioni sensibili ed apprezzabili; c) il numero dei
centri di maggior significato ed associabili ai termini urbes ed oppida degli storici
tanto vile di quanto permette ai più di nascondersi dietro alla forza della cosiddetta maggioranza,
rappresenta una condizione assai diffusa e coinvolge le minoranze sino ad un ‘democratico’ loro
annullamento.
Da ultimo, ma non per importanza, per la democrazia si pone il problema della verifica continua.
Ipotizziamo che, appena qualche momento dopo la liberazione di Barabba, le coscienze dei componenti la
folla, resesi conto dell’errore di valutazione commesso, ci avessero ripensato. Come potrebbe essere
espressa la volontà, in democrazia sempre in divenire, delle ipotetiche infinite maggioranze, ognuna e
momento per momento diversa da quella precedente? A chi e come, ma gli interessi degli eletti si
oppongono all’essere continuamente messi in discussione, il compito di una verifica permanente? Ed è,
poi, corretto fissare tempi e modi di un mandato?
Non resta, a questo punto, che constatare come sarebbe culturalmente più giusto e corretto (ed, in fondo,
lo pensiamo tutti) colpevolizzare Pilato per essere stato ‘democratico’. Se fosse stato ‘totalitario e
decisionista, forse…”.
2
BARKER G., A Mediterranean Valley Landscape Archeology and Annale History in the Biferno Valley,
London (Londra) 1995; traduzione italiana a cura di DE BENEDITTIS G. col titolo “La Valle del
Biferno”, Campobasso 2001, pag. 197. Se è possibile individuarne una lacuna, il lavoro di BARKER,
essenziale per rigorosità di metodo e per compiutezza critica e scientifica, mostra qualche carenza nella
limitata prospezione dei siti alla sinistra del fiume.
3
BARKER G., op. cit., pag. 173.
4
BARKER G., op. cit., pag. 173.
5
BARKER G., op. cit., pag. 202.
classici dovette, di certo, essere di gran lunga maggiore rispetto a quelli affermati dalla
municipalizzazione romana dopo Silla, quando l’andamento demografico, che subì una
brusca caduta, ne fa registrare una forte riduzione, valutata dalle rigorose ricognizioni
archeologiche di Barker a circa 1/3 degli insediamenti precedentemente esistenti.
Problematici risultano, allo stato e per la quasi totalità di esse, l’identificazione ed
il collegamento di tali strutture abitative ai nomi tramandati dagli autori classici. Fatta
eccezione per i ‘municipia’ romani, che tutti mantennero continuità con insediamenti
sanniti, per la localizzazione degli altri ‘centri’ è necessario, per proporre le ipotesi,
affidarsi non all’amor di campanile, bensì a metodi scientifici e ad argomentazioni
rigorose da verificare sempre con le compatibilità, di ogni tipo, delle fonti e con il
rispetto delle categorie che determinarono i tipi di organizzazioni socio-territoriali del
periodo storico sottoposto ad analisi. E, prima di tutto, alle prospezioni archeologiche.
Nonostante le (poco) naturali limitazioni da parametri di giudizio legati alla
sovrapposizione di successive stratificazioni culturali condizionanti che portano a
sopravvalutare esigenze e bisogni che magari come tali non erano percepiti, le gerarchie
delle strutture socio-insediamentali dei Samnites, più che (o non solo) l’aggregazione
abitativa, sicuramente privilegiarono la ‘copertura’ del territorio con riferimento al
momento comunitario di natura quasi esclusivamente difensiva oppure ludico-rituale e
religiosa. Così, circa le forme dei loro sistemi insediativi, occorre partire dalle funzioni
della touto, del pagus e del vicus, da cui il particolare modo di essere “vicatim (=
distribuiti e sparsi)” per il controllo interattivo del (e sul) territorio. La civiltà dei Sanniti
era, cioè, retta con sistemi più ‘centrifughi’ che ‘centripeti’.
Opportune ed oggettive (e, perciò stesso, nient’affatto trascurabili) ragioni di
continuità (i ‘municipia’ romani di certo dovettero riprendere funzioni di preesistenti
strutture sannitiche), che riescono, peraltro, a ben spiegare anche i successivi passaggi
(le ‘diocesi’ cristiane, i ‘gastaldati’ longobardi, ecc.) nella organizzazione socio-civile di
controllo delle diverse unità territoriali omogenee, consentono di logicamente ritenere
l’area dell’attuale media valle del Biferno (che verrà assegnata dalla municipalizzazione
romana a Fagifulae) costituire l’ambito della touto di riferimento dei pagi e, più giù
nella scala dell’importanza, dei vici dei ti-phern-atium.
Almeno tre, e tutti con compiti strategici, i pagi (cui, dominati da un luogo di culto
e di riunione politica gestito da élites aristocratico-sacerdotali, convergevano le diverse
sottostrutture dei vici sparsi sul territorio in maniera diffusa) quelli della touto sannitica
da posizionare nell’ambito della media valle del fiume Biferno. Il primo (vi è stato
associato più di un toponimo tramandato dalla storiografia classica), da localizzare con
probabilità a Roccaspromonte di Castropignano, dove sono stati rinvenuti reperti
archeologici molto significativi6, situava, potendosi, delimitato com’era ad ogni lato da
6
A parte gli autori locali che se ne sono occupati, la sintesi (v. a pag. 202 e seg.) del citato Barker indica:
“una statua di Atena in terracotta, quasi a grandezza naturale e databile probabilmente al V sec. a.C.,…, ed
una testa greca di marmo, probabilmente di una dea e datata alla metà del V sec. a.C., <che> è stata
trovata nelle pareti di una chiesa vicina. Inoltre con l’Atena è stato trovato un altare di pietra con
un’iscrizione osca datata probabilmente al III sec. a.C. Se le statue non sono frutto di scambio, di bottino
od altro concretizzatosi molto tempo dopo la loro realizzazione, suggeriscono la costruzione nel V sec.
a.C. di un antico santuario rurale, un genere di struttura che stava per divenire un importante elemento del
territorio pentro,…”.
torrenti e da corsi d’acqua (a riprova del valore che alla risorsa idrica si annetteva per il
soddisfacimento dei bisogni legati alla pastorizia ed all’agricoltura), farlo confinare con
analoghe strutture similari, in posizione interna e doveva comprendere orientativamente
i territori degli attuali Comuni di Castropignano, Torella del Sannio, Pietracupa,
Fossalto, Casalciprano, Molise e S. Elena Sannita. Più a valle del corso del Biferno ed al
confine con i Frentani vanno localizzati gli altri due: alla destra del fiume il pagus dei
‘fagifulani’ (con Fagifulae ‘locus’ preminente), che copriva il territorio, delimitato pure
da torrenti, degli attuali Comuni di Montagano, Petrella Tifernina, Campolieto,
Castellino del Biferno, Ripalimosani (con Covatta e S. Stefano) e, forse, Oratino; alla
sinistra del fiume il pagus dei ‘tiphernatium’, che, dal Vallone Traspadino (o di
Fossalto) sino al Vallone Ferrara, prendeva il territorio dei Comuni di Limosano, di S.
Angelo e, con le Contrade di Cascapera e di Ferrara, parte di quello di Lucito7.
Il fatto che quest’ultimo ‘pagus’, dominato dalla struttura insediativa (ma a tale
termine va associato, più che un centro ‘abitato’, il compito, assai particolare e
caratteristico per i Sanniti, di interazione e di raccordo del territorio con le funzioni
politico-sociali e religioso-ludiche) di Tiphernum, prestasse il nome alla intera touto
(oltre che all’attuale fiume Biferno) permette di pensarlo dai Samnites assai considerato.
Del resto, vi era possibile esercitare il controllo e la sorveglianza sulla linea di confine
con le popolazioni frentane8; poteva consentire la gestione delle arterie viarie, che, per
diverse direzioni e quasi a raggiera, si dipartivano da esso9; ed era compatibile con
7
Una siffatta ricostruzione è possibile combinando i riscontri di diverse prospezioni archeologiche. Tanto
che la ricerca più recente (v. DE BENEDITTIS G., Fagifulae, in AA.VV., Samnium – Archeologia del
Molise, Roma 1991, pag. 259) suggerisce di prendere in considerazione “se l’abitato (di Fagifulae) non
avesse strutture analoghe a quelle di ‘Ferrara’, un centro fortificato poco noto posto presso Lucito di cui si
conosce un solo circuito murario disposto a mezza costa, ma di cui sono segnalati altri terrazzamenti più a
valle; i dati raccolti fanno infatti ritenere che il municipio romano sia stato sovrapposto ad un centro
italico le cui strutture avranno condizionato non poco ogni eventuale adattamento agli schemi urbani
romani,…”.
Anche BARKER (v. op. cit., pag. 176) scrive: “così come la documentazione sull’occupazione dell’età del
ferro a Monte Vairano (nota: possibile pagus sannitico), è certo significativo anche il raggrupparsi di
insediamenti dell’età del ferro intorno ai successivi centri urbani di Fagifulae (vicino Montagano) e
Larinum (Larino moderno)”.
8
Sembra possibile far passare il confine tra Pentri e Frentani, per quanto concerne la destra del fiume,
lungo il vallone “Riomaio”, nelle vicinanze di Castellino del Biferno (v. SALMON E.T., Il Sannio e i
Sanniti, Torino <rist.> 1985, pag. 26); ed, alla sua sinistra, lungo il vallone di “Ferrara”.
Tale delimitazione significativamente coinciderà con il confine della diocesi di Limosano e (v. BOZZA F.,
Limosano nella Storia, Ripalimosani 1999, pag. 67 e segg.) anche del ‘Gastaldatus Biffernensis’.
9
Già in altro lavoro (v. BOZZA F., Limosano: questioni di Storia, in stampa) è stato indicato lo snodo
viario che è possibile posizionare nella contrada “Cascapera” dell’agro limosanese. Va aggiunto che una
implicita motivazione a posizionare alla sinistra del Biferno l’arteria stradale, che la Tavola Peutingeriana
indica raccordare Bovianum a Larinum, passando per le ‘stationes’ di “ad Canales”, di “ad PYRum [da
dove si snodava un collegamento (in seguito vi troviamo una ‘Strada dei Langianesi’) con gli Abruzzi]” e
di “Geronum”, viene dalle numerose ‘rocche’ che, in periodo medioevale, per controllarne la transitabilità
furono costruite alla destra del fiume. Senza considerare le minori, se ne segnalano, per il territorio che
interessa alla presente indagine, le più significative: la “Rocca Racini (sotto Oratino)” e quella situata alla
“Morgia la Rocca (sotto Montagano, in direzione di Limosano)”.
Recentemente anche DE VITO G. (Annibale nel Molise: cenni storici, archeologici e topografici, in
COLAVITA M. <a cura di>, Morrone nel Sannio… un salto nella storia, Ripalimosani 2000) accenna al
l’esercizio della difesa, dell’amministrazione e dell’accumulo per le esigenze comuni
delle risorse agricole (aree particolarmente fertili), pastorali (a breve distanza corre il
tratturo), boschive ed idriche (basti pensare, oltre alle numerose ‘sorgenti’ e ‘fonti’ nella
zona, allo scomparso ‘Lago di Cascapera’).
Ma, di Tiphernum, quale il luogo dove collocarne il sito di quel complesso di
strutture associabile al riferimento insediamentale? Quali, di siffatto posizionamento, le
motivazioni ‘storiche’? E, perché la semplice ipotesi abbia supporti concreti per una
credibilità la più ampia possibile, quali le ‘evidenze’ archeologiche?
Deve ipotizzarsi una localizzazione di “Ti-phern-um” in quella parte, ampia e
sufficientemente estesa, del territorio, che, al confine dell’agro di Limosano con quelli di
Lucito e di S. Angelo, risale dalla Contrada (già ‘corpo’ feudale) di Ferrara10 e,
passando per Colle Ginestra e Monte Marconi, arriva fino alla Contrada (e relativo
‘corpo’ feudale ad essa associabile) di Cascapera, di cui è documentata per il passato
una estensione, allora ricadente per intero nell’agro limosanese, di parecchio maggiore
dell’attuale.
Tale collocazione e solo essa riesce a spiegare, prima di tutto, la ‘condizione’ (cui,
affatto casualmente, viene collegata anche l’altra di “antico vescovado”), percepita dai
sedimenti culturali più antichi, di “destrutta città dell’homini sani, alias Musane”11,
della quale l’insediamento di Musane12, di successiva formazione e che verrà a
posizionarsi (si spiega così anche la variazione nell’etimo) là dove attualmente ancora
situa, riprende, nel corso, al più tardi, dell’VIII secolo, ruolo e funzioni13.
“raccordo alla Via Latina e alla Via Traiana-Frentana che lungo la valle del Biferno collegava Geronio al
tratturo Celano-Foggia, a Fagifulae <Municipio romano> e a Bovianum”. Nella logica di tale ricostruzione
assume carattere di correttezza il posizionamento a Ferrara della ‘statio Ad Pyr’, che è compatibile con le
distanze in essa riportate sia da Geronum che dalla ‘statio ad Canales’, della ‘Tabula Peutingeriana’.
10
DE BENEDITTIS G., Fagifulae … cit., pag. 259. Già da qualche tempo le accurate (ma, purtroppo,
assai isolate) prospezioni del De Benedittis, benemerito della ricerca ‘archeologica’ in Molise, gli
portavano ad indicare essere stato “Ferrara un centro fortificato poco noto posto presso Lucito di cui si
conosce un solo circuito murario disposto a mezza costa, ma di cui sono segnalati altri terrazzamenti più a
valle”.
11
IASENZANIRO M. e BORRACCINO R. (Trascriz. e Introduz. a cura di), Chronichetta de Frati Minori
Cappuccini della Provincia di S. Angelo di Puglia… compilata dal P. f. Girolamo da Napoli in Lucera di
Puglia l’anno del Signore 1615 (Manoscritto, il cui originale si trova alla Biblioteca Sainte-Geneviève,
Ms. 33.85), Foggia 1990. Il brano (v. pag. 100) che si riferisce a tale ‘condizione’ è il seguente: “… In
molti luochi fundati li centinaia d’anni prima che questa santa Religione (nota: = l’Ordine dei Frati
Cappuccini, sorto tra il 1527 ed il 1528) havesse origine, si vedeno in esse dipinte le figure del nostro
Padre san Francesco,… Del che chiaro testimonio ne dà primo una figura di esso Padre nostro
depinta nell’antico vescovado della destrutta città dell’homini sani, alias Musane,…, la quale chiesa
hoggi è posseduta da padri Conventuali, apparendo nel choro di essa una simile immagine di un san
Francesco, con cappuccio e corda come di sopra”.
12
In altro lavoro (v. Limosano: Questioni … cit.) è stata considerata l’analisi ‘etimologica’ del toponimo
“Musane”, che dovrebbe indicare sito in mezzo ad altre evidenze.
13
La indicazione della composizione dell’etimo con ‘mu’ (contrazione di ‘homini’) e con ‘sane’ (derivato
da ‘sani’), dove ‘sane’, più che l’aggettivo ‘sani’ può rappresentare la forma conclusiva di un processo
linguistico cui fu sottoposto la parola “Samnie”, e ‘mu’, più che dalla contrazione di ‘homini’, deriva da
‘neos (= nuovo, recente)’, porta a concludere che “Musane” starebbe ad indicare “del nuovo Sannio (o
‘Sannia’, città antica e sede di diocesi)”.
Pur se scarne e solo essenziali le indicazioni ‘geografiche’ tramandate da Livio14
relativamente ai luoghi delle due battaglie di Tifernum (304 e 297 a.C.), esse, ed è una
seconda motivazione ‘storica’, riescono a ben soddisfare tutti i parametri (distanze,
morfologia orografica e consistenze logistiche) relativi alla ipotesi di localizzazione di
Tifernum nella fascia di territorio da Cascapera a Ferrara.
Per essa un ulteriore oggettivo elemento di prova, il terzo di natura ‘storica’, viene
dalla eziologia e dalle comparazioni tra etimi della toponomastica della zona. Se per
l’etimo di ‘Ferrara’, in cui è più che evidente la radice “PHER (o ‘FER’)”, di certo la
derivazione, con successivi fenomeni di corruzione ed alterazione linguistica, è da
“(ti)PHERna-ra”, anche per quello di ‘Cascapera’, composto da “casca (plurale di
‘cascum’, = antico, vecchio)”15 e da “P(h)ERa”, dove la radice ‘PYR’ (-os, fuoco)
farebbe pensare ad una località in cui si svolgessero antichi riturali con il fuoco oppure,
se la si riferisce a ‘PYROS’ (-ou, grano), ad una zona, come in effetti ancora è,
particolarmente fertile, è possibile indicarne la derivazione da “(ti)P(h)ERnum”. In ogni
caso risulta evidente l’affinità etimologica tra i toponimi di ‘Cascapera’ e di ‘Ferrara’
con quello della ‘statio (= stazione)’ viaria di “ad PYRum” sull’antica arteria stradale
che collegava Bovianum a Larinum riportata dalla ‘Tabula Peutingeriana’. Essa, detto
per inciso, rappresenta elemento notevole per provare l’esistenza di tale ‘via’ lungo il
PATTERSON J. [v. Una città chiamata “Sannio”, in A.M. (= Almanacco del Molise) 1990, pag. 17 e
segg.], che ha riproposto la questione, propende a collocare ‘Sannio (o Sannia)’ “ad fontem Volturni”.
LANZONI F. [v. Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del sec. VII (604), Faenza 1927 pag. 263],
citando: UGHELLI, X, 163; DUCHESNE, Les évequés d’Italie…, I, 104 e II, 397, a proposito di ‘Sannio’
scive: “… Nel VII o nell’VIII secolo forse questa diocesi scomparve, perché il Catalogus provinciarum
Italiae (Script. Rer. Longobar., p. 189), compilato in quel tempo, pone nella duodecima provincia d’Italia
‘antiquitate consumpta Sampnium’”.
E’ il caso di riportare da DI MEO A. (v. Annali del Regno di Napoli, Napoli 1795, I, pag. 70) quanto,
relativamente all’anno di Cristo 575, scrive: “… i Greci,…, per aver seguaci dé loro errori innalzarono
delle nuove sedi (vescovili)…; e che poi i Romani Pontefici istituissero qualche nuova Sede, e molte ne
ristabilissero. Pur tuttavolta in numero assai maggiore erano i Vescovadi nel nostro Regno di quello, che
sono al presente, primaché le tante, e sì doviziose Città di esso venissero barbaramente sterminate dà
Longobardi. (…), Mevania,…, Samnia…”. Lasciando ad ognuno le considerazioni che vuole, non può non
essere sottolineata, a parte ‘Samnia’ (che porta acqua al mulino dell’ipotesi qui proposta), la sorprendente
somiglianza tra l’etimo di “Musane (e/o ‘Mesane’)” e quello di ‘Mevania’.
14
LIVIO T., Ab Urbe condita libri…, IX, 44 e X, 14. Dal primo di essi (libro IX) sappiamo che nel 304
“entrambi i consoli furono mandati nel Sannio, in direzione di zone diverse: Postumio a Tifernum e
Minucio a Bovianum”; tali zone non dovevano essere molto distanti se Postumio “di notte e per la via più
breve condusse le sue legioni equipaggiate in modo leggero dal collega”.
La descrizione (libro X) dei luoghi della battaglia del 297, che riprenderemo anche in seguito, è
relativamente più dettagliata: “… i nemici si erano concentrati presso Tifernum (nota: la zona di confine
ha valore strategico), in una valle nascosta, intenzionati ad attaccare dall’alto i Romani quando vi fossero
entrati. Fabio,…, si avvicinò in formazione quadrata al nascondiglio dei nemici. I Sanniti,… dal momento
che prima o poi ci si doveva scontrare in campo aperto, preferirono avanzare schierati per la battaglia.
Scesero perciò nel piano [nota: dove situa la ‘Morgia della Battaglia” o, anticamente, anche (v. atto 8
Luglio 1596 del Notaio Santoro F.A. della piazza di Fossaceca, ma nativo di Limosano, in ASC <=
Archivio di Stato di Campobasso>) “Peschio della Battaglia”] e si affidarono alla sorte con coraggio
maggiore della speranza”.
15
Va notata la contrapposizione, possibile e non trascurabile come elemento di prova, con il ‘neos, -ou’ di
(v. nota 13) “Musane”.
Biferno, ed alla sinistra del fiume16.
Si rende, a questo punto, necessaria una ipotesi di ricostruzione della possibile
organizzazione ‘geografica’ dell’ambiente territoriale, riferibile all’epoca dei Sanniti, e
degli elementi di maggior significato per la ‘vita’ del ‘pagus’ dei ti-phern-atium.
Un’attenta ed obiettiva combinazione delle risultanze delle ricerche scientifiche17
con le categorie della motivazione propriamente storica porta ad immaginare almeno due
esserne le principali direttrici viarie (non superate, peraltro, neppure dai successivi
spostamenti dei centri abitati nei ‘siti’ attuali): una, di fondovalle (ma non strettamente
collegata al fiume), che andava, per la direzione a monte, verso Bovianum ed a valle,
attraversando Ferrara, permetteva di raggiungere Larinum e la fascia costiera; la
seconda, che, dopo aver attraversato il Biferno (all’altezza del ‘Ponte’) in direzione di
Fagifulae, risaliva, per ‘le Macchie’, per ‘li Patrisi’ e per le falde del ‘Fiorano’, sino a
Cascapera, proseguiva poi fino agli Abruzzi. Altre arterie ‘minori’, come quella che
toccava ‘Castelluccio di Limosano’ (agro di Fossalto), risaliva per ‘le Serre’ e, dopo
aver attraversato l’attuale S. Angelo, arrivava a Cascapera, consentivano spostamenti
razionali sull’intero territorio del ‘pagus’.
Il paesaggio fisico, assai discontinuo, accanto ad isole, più o meno estese ed
ognuna dipendente da un ‘vicus’, riservate alla produzione agricola (in prevalenza
cereali e leguminose, ma anche la vite), mostrava una maggiore estensione del bosco
(bisogno di legna per le costruzioni), della macchia e del pascolo (per bovini, per ovini
e, forte lo stato selvatico e brado, per suini; relativamente scarso, invece, era il pollame).
Se è del tutto impossibile o quasi, allo stato, la identificazione della localizzazione
di quelle strutture, i ‘vici’, per ricovero più o meno provvisorio e, forse, occupate solo
saltuariamente, che rappresentavano la forma insediativa sannitica più diffusa, ancor più
lo è per le ‘fattorie’, che, pur non menzionate dalle fonti, rappresentavano, funzionali
allo sfruttamento della terra, ma concentrate nelle vicinanze dei centri maggiori, un
ulteriore importante elemento dell’organizzazione insediamentale18 “vicatim”.
I centri di maggior significato erano quei recinti fortificati costruiti, spesso, con
rozza muratura poligonale, che, con probabile funzione difensiva e di rifugio in tempo di
crisi per le popolazioni circostanti e dei siti minori riferibili al ‘pagus’, erano asserviti ad
una struttura santuariale, nella quale veniva concentrato il surplus delle attività
economiche ed agro-pastorali (praedia, negotia, res pecuariae), di cui “l’archeologia
offre prove di una varia e considerevole capacità produttiva”, gestito dalle aristocrazie
locali19, che, oltre ad esprimere la carica politica (meddix) più rappresentativa e quelle
‘amministrative’ (kensur, aidil,…) a livello comunitario, esercitavano un ruolo
16
Diverse le ipotesi (v. BOZZA F., Limosano: Questioni …cit.) di collocare sul territorio tale percorso
stradale. Si veda, una per tutte, la ricostruzione di DE BENEDITTIS G., Appunti sulle fonti classiche
relative alla viabilità romana nel Sannio, in AM 1988, II, pag. 13-15).
17
Fondamentale è la sintesi operata dal più volte citato BARKER, il cui lavoro rappresenta una ‘summa’
essenziale per ogni ricerca degna di essere tale.
18
BARKER G., op. cit., pag. 207 e segg.
19
BARKER G., op. cit., pag. 224. Per un quadro sintetico, ma esauriente, della “Società Sannitica” e di
quanto, relativamente alla civiltà espressa, assai evoluto da essa prodotto sempre in anticipo su Roma,
l’archeologia inizia a mostrare, si veda il più volte citato lavoro di BARKER, specialmente da pag. 227 a
pag. 233.
importante nella gestione, in un contesto, quello del Samnium, che, come viene ad
emergere20 con sempre maggior forza, fungeva da cerniera e da ponte di collegamento,
nonché di mediazione, tra la cultura greca (della magna Grecia e della madrepatria) e la
civiltà campano-etrusca, degli scambi e dei traffici commerciali.
Di tali emergenze di maggior significato, che, per quanto concerne la funzione
puramente abitativa, “tendono a disporsi prevalentemente in posizioni che paiono
rispondere a esigenze difensive e/o di controllo del territorio e delle principali vie di
comunicazioni”21, e, per l’altra strettamente religiosa, hanno “mantenuto nel tempo il
loro carattere di luoghi di culto all’aperto, connessi alla presenza di acque sorgive e
consacrati a divinità collegate al mondo agricolo e pastorale e ai valori della sanatio e
della fertilità”22; di esse, relativamente al ‘pagus’ dei ti-phern-atium, con la abbondante
documentazione archeologica esistente, che, purtroppo ed in assenza di una ricognizione
sistematica e di una catalogazione degna, si rivela essere ancora sporadica, è possibile
proporre una ricostruzione geografica che, accanto alle strutture ‘minori’ di difficile
identificazione, prevederebbe: una aggregazione sulla collina dove ritroveremo il sito di
Castelluccio di Limosano (agro di Fossalto); una concentrazione abitativa nelle grotte
ricavate nella massa tufacea sulla quale, in epoca alto medioevale, verrà a confluire
l’insediamento di Musane; un recinto fortificato a Ferrara; ed, infine, un riferimento
santuariale, con un insediamento e con, a qualche centinaio di metri e nelle immediate
vicinanze del luogo dove era l’omonimo ‘lago’, le officine per la produzione di ceramica
e di terracotta, a Cascapera23.
20
A parte quanto evidenziato da BARKER, si veda anche TAGLIAMONTE G., I Sanniti, Milano 1997,
dal quale prendiamo la seguente considerazione (pag. 245 e seg.): “Non si possono non ricordare al
riguardo le tradizioni sull’^oro dei Sanniti^ e sullo splendore e la straordinaria ricchezza delle ^armi dei
Sanniti^, affermatesi specialmente in rapporto ai Pentri”. A parte la capacità di finanziamento di una tale
‘potenza’ bellica, bisogna spiegarne come, da chi e dove era ‘prodotta’ la relativa attrezzatura.
“... Sappiamo con certezza che i Sanniti svilupparono commerci vivaci nell’ambito del Mediterraneo:
alcune famiglie eminenti del Sannio incrementarono la propria ricchezza grazie a traffici e commerci
esercitati a livello internazionale. Nell’isola greca di Delos, notissimo centro commerciale dell’antichità,
sono numerose le iscrizioni relative a mercatores appartenenti a gentes, a famiglie italiche, che sono
documentate ampiamente nel Sannio e che hanno molti rappresentanti anche tra i magistrati supremi dello
stato, i meddices tutici (meddìss tùvtìks): famiglie che avevano in mano la ricchezza e insieme erano
interessate alla gestione politica dello stato. Queste famiglie ci interessano moltissimo dal punto di vista
storico ma anche da quello strettamente archeologico, in quanto spesso sono proprio loro che finanziano le
costruzioni di santuari territoriali” (CAPINI S., Safinim: il primo Molise, in Antico Futuro, I, 1995, pag.
12”.
21
TAGLIAMONTE G., op. cit., pag. 170.
22
TAGLIAMONTE G., op. cit., pag. 181.
23
Da una testimonianza, riportata da PIETRAVALLE N. (v. Fossalto: la memoria del Medioevo, in Il
Tempo-Molise del 28 Giugno 1987), di Don Antonio Pizzi risulta: “… è stato trovato a Pietravalle,…, un
cippo commemorativo della morte di un esponente dell’esercito romano, cippo che par sia stato destinato
dalla Sovrintendenza al Museo di Saepinum; a me sembra che invece dovrebbe restare in loco anche
perché altrimenti potrebbe contribuire ad un’errata interpretazione della storia. A tempo perso scavo a
Castelluccio, agro attuale di Fossalto, un paese sepolto, abbandonato del tutto dopo il terremoto del 1805,
un paese che apparteneva alla diocesi di Limosano prima che fosse soppressa; vi ho trovato punte di lancia
sannite”.
Archeologi e professori universitari di Roma (Prof. Ciotti) hanno confermato che in alcune grotte ‘sotto le
Ripe’ di “Musane” (che da qualche fonte viene riportata anche come la ‘Rocca Sannita’) sono stati
Se è vero, nonostante il limite derivante dalla ‘deformazione’ dell’archeologo, che
“i siti documentati dalla presenza di ceramica a vernice nera sono i più numerosi di
qualsiasi periodo di analoga durata nella storia premoderna della valle” e se sempre vero
è che “i principali ritrovamenti datanti per i siti di questo periodo in generale sono offerti
dalla ceramica campana a vernice nera di fine IV-I sec. a.C.”24, l’abbondante
campionatura, ai margini dell’insediamento, di tale prodotto già da sola proverebbe
l’esistenza di un giacimento notevole e consistente. Ma la cosa, se possibile e se ve ne
fosse ancora bisogno, riceve ulteriore conferma sia dalla diversificata documentazione
archeologica (iscrizioni, reperti diversi, monete, tombe e quant’altro), riepilogata, per
esigenza del lavoro necessariamente in modo affatto esaustivo alla nota 23 (ma una
analisi, pur sommaria, se ne farà quando si affronterà il discorso delle romanizzazioni),
che dalla qualità, assai raffinata, della ceramica stessa.
All’interno di una tale situazione geografico-fisica essenziale l’organizzazione
della struttura socio-politica si evolve, nell’arco di tempo dei circa quattro secoli (dal V
al II a.C.) che si debbono assegnare alla civiltà ‘sannita’ e seguendo il percorso naturale,
da una società agro-tribale, in cui con gerarchie di potere poco evidenti le occupazioni
rinvenuti, accanto a stratificazioni ossee più recenti, reperti (ceramica ed altro) sicuramente di origine
sannitica.
Per Ferrara, località che dovrebbe essere sottoposta ad approfondita indagine archeologica, si veda la
precedente nota 7. Riportiamo da PIEDIMONTE G. (Notizie civili e religiose di Lucito, Campobasso
1899): relativamente a “quell’amena distesa di colli,…, i ruderi di vetuste mure, e l’esservi ivi rinvenuti
molti utensili antichi, idoli di bronzo, specie Ercole e Giove, e molte monete di rame ed argento, consolari
ed imperiali, fanno testimonianza che ivi sorgesse una città sannitica, forse l’antica Tifernum…”.
Molto più complesso ed ampio il discorso su Cascapera. Per quanto riguarda, innanzi tutto, le iscrizioni si
veda: DE BENEDITTIS G., Repertorio delle Iscrizioni Latine, III Fagifulae, Campobasso (?) 1997, con
particolare riferimento alla n. 6 (CIL, IX, 2595) rinvenuta in “contrada Monte Mercurio (anche Monte
Marcone)”, alla n. 16 (CIL, IX, 2621) rinvenuta anch’essa in “località Monte Marcone (o Mercurio”, alla
n. 17 (CIL, IX, 2623) “rinvenuta in agro di Limosano, località Colle Ginestra”, che, per dimensione (h. 57
x l. 93; sp. 17 cm.), per grandezza delle lettere (h. 18 cm.) e per il colore di esse (rosso), potrebbe
rappresentare un ‘pezzo’ del frontone di un santuario. Quanto alla n. 2 (CIL, IX, 2553), contrariamente a
quel che sostiene FORTE M.L., (Fagifulae, testimonianze epigrafiche, in AM 1991, pag. 45 e segg.), che
la dice, dimostrando scarsa conoscenza dei luoghi e dei fatti legati alla ‘lapide tiferniana’, “Rinvenuta su
un ponte sul Biferno tra Trivento e Campobasso”, e contrariamente alla tesi di chi la vorrebbe trovata in
agro di Montagano, essa venne rinvenuta, se non prima, al più tardi nel 1724 in agro di Limosano presso il
fiume Biferno e, d’ordine del Cardinal Orsini, murata sul ponte di Limosano, che quell’anno era in fase di
rifacimento. Tanto da indurre il Mommsen ad attribuirla a Trivento e, prima di lui, Matteo Egizio a
posizionare la stessa Tifernum tra il Biferno e Limosano.
Altre emergenze archeologiche, poi, sono: “una tomba antica abbandonata sul terreno” composta da un
unico blocco in pietra (v. Il Tempo-Molise, 24 Ottobre 1998), il cui coperchio, a detta di alcuni che
l’avrebbero visto ‘ben lavorato’, risulta essere stato nuovamente interrato per paura di espropri. Statuette
in bronzo, come quella, di “Ercole in assalto” (v. DI NIRO A., Piccoli Bronzi figurati nel Museo di
Campobasso, Campobasso 1978, tav. VII). Pezzo di colonna, che confermerebbe l’esistenza di un
santuario, rinvenuto da un contadino. E’ notizia di rinvenimenti di consistenti quantitativi di monete
sannite e romane, di un mosaico pavimentale policromo e di numerosi altri reperti.
A tutto ciò deve aggiungersi il continuo affioramento di frammenti di ceramica (vernice nera) e di tegoli in
cotto. Di alcuni frammenti abbiamo sollecitato una datazione da DE BENEDITTIS G., il quale, oltre ad
avervi personalmente ‘visto’ resti di una ‘villa’ romana, ha confermato che i reperti sottopostigli sono
sicuramente del III e II secolo a.C.
24
BARKER G., op. cit., pag. 203 e pag. 200.
principali, per essere quelle della fase, per così dire, giovanile e dello sviluppo, erano, in
maniera pacifica e condivisa, di tipo agricolo e pastorale, attraverso una società militareelitaria della fase ‘adulta’, nella quale la suddivisione tra le diverse stratificazioni si
presenta più accentuata e il concetto di sopraffazione prende piede e si manifesta
nell’affermazione del desiderio di scontro-incontro con altre realtà, per concludersi, e le
influenze esterne, se proprio non imposte, sono state mutuate, fino ad una società
religioso-castale, della fase di senescenza, le cui espressioni di maggiore evidenza sono
la concentrazione della ricchezza nelle mani di poche famiglie gentilizie e il culto.
1.2 – Le romanizzazioni
Al fine di una esposizione, se possibile ancor più completa, degli elementi utili alla
individuazione, la più probabile, del sito dell’insediamento abitativo di maggior
significato della touto (e del pagus) dei ti-phern-atium, seguendo la particolare
indicazione metodologica della “impostazione tipica del’analisi di Loevith, che segue un
ordine regressivo”25 nella lettura interpretativa delle evidenze della Storia e di ciò che ad
esse è riferibile, occorre tener nel dovuto conto alcuni elementi, i quali di tanto
sembrano labili ed appena percettibili di quanto sono assai esaustivi.
L’esistenza, ancora nella memoria del secolo XVIII, del nodo viario, nell’ambito
territoriale del feudo di Cascapera26, composto dalla “Strada Publica chiamata del
Procaccio, che entra al Termine della Crocella, passa per Fonte Murato ed escie alla
Strada Langianese”, sulla quale, che conduceva al Vasto, insistevano alcuni degli
“antichi termini lapidei, che di consenso delle parti con publico istrumento del 1547 e
1744 (nota: risulta assai evidente l’antica immodificabilità, anche nei tempi lunghi, della
geografia degli elementi fisici del territorio) si erano posti per designare i confini de’
territori in questione tra i due limitrofi” di Limosano e di S. Angelo, e dalla “Strada
detta Langianese”, che collegava a Lanciano, per Canneto e Torrebruna, Limosano, di
cui sia l’abitato che il territorio ne erano completamente interessati, tanto che, oltre a
Cascapera, nel 1739 anche alla ‘Pera Corcorilli’ “la strada publica <era> detta delli
Langianesi”27 ed attraversava il Biferno, per giungere poi sino a Benevento, al ‘passo di
Campobasso’ o, anche, ‘della Covatta’.
Non può non annotarsi e non considerarsi quella particolare condizione, se ne dava
cenno già in precedenza (v. nota 11) e che nel prossimo capitolo dovrà essere fatta
oggetto di più dettagliato approfondimento, che lo stratificarsi delle sedimentazioni
culturali portava ancora ad avvertire nel 1615, di “antico vescovado della destrutta città
25
ROSSI P., prefaz. a LOEVITH K., Significato e fine della Storia, Milano 1965 (ediz. italiana), pag. 11.
BOZZA F., Limosano nella … cit., pag. 246.
27
Tale risulta in atti notarili del XVI e negli inventari del XVII secolo. Con la ‘Strada Langianese (o anche
‘delli Langianesi’)’ si potrebbe identificare quel segmento della Tabula Peutingeriana, “che sembrerebbe
raffigurare (fatta salva la possibilità di un errore del copista medioevale) una ulteriore arteria che
collegherebbe Aufidena (nota: e perché non altre parti dell’Abruzzo?) con la località Ad pyrum” (v. DE
BENEDITTIS G., Appunti … cit., pag. 13 e segg.). Evidente la possibilità dei collegamenti etimologici
con la toponomastica di Cascapera e/o di Ferrara, che mi supporta nelle ipotesi proposte sia in questo che
negli altri lavori citati.
26
dell’homini sani, alias Musane, così registrata nella porta enea dell’arcivescovado di
Benevento”. Di essa sembra ancora restarne traccia nella tradizione che, ora in via di
scomparire e solo nella memoria di pochi anziani, vuole proprio a Cascapera il sito di
una città scomparsa, chiamata “Napuleucc’ (= piccola Napoli)”. La necessità di dover
associare a Cascapera e non ad altre località limosanesi la condizione di ‘destrutta città’
(e l’evento, poiché la Limosano attuale non venne nell’occasione ‘destrutta’, va
sicuramente collocato ad epoca di parecchio anteriore al ‘terremotus magnus’ del 1456)
nasce dalla semplice constatazione che “Musane” (o ‘Mesane’ oppure ‘Mosano’), pur se
è diventata Limosano, ancora esiste ed esisteva nel 1615.
Il toponimo di Cascapera, che, dopo il XIII secolo, sopravvive (amministrato dalla
‘Universitas civium’ della “Terra, olim civitas, li=Musanorum”) associato al corpo
feudale inteso esclusivamente come espressione territoriale (tuttora è riferito alla
contrada omonima), veniva in precedenza usato per indicare indifferentemente sia una
unità amministrativa riferita al territorio che, ed è di grande significato, un agglomerato
di abitazioni. E’ ciò assai evidente da documenti dell’Archivio Vaticano28. Il riferimento
all’insediamento (in questa sede interessa relativamente poco quello al territorio, che, ad
ogni buon conto, è dimostrato dal fatto che una congiuntura economico-demografica
particolarmente esplosiva costringeva gli “homines de limosano” a recarsi a lavorare
“terras in castro sancti Angeli, ferrarii, Cascapere,… et castellucij” e ad andare “per
lignas ad silvas montisagani, ad silvas Triventi, ad silvas petrelle”, dove “ducebant
animalia” per il pascolo), nonostante la inesatta (ma tanto universalmente quanto
acriticamente seguita) lettura del Kehr (che, al f. 183, legge: “… in quo continebantur
castra et ecclesie dicte diocesis, uidelicet terra Limosani,…, … Ferraria, castra petra I,
castrum Iohannis Fulconis…”)29, è dato proprio dalla più corretta interpretazione del
testo, il quale (si noti il collegamento, dovuto alla vicinanza, tra Ferrara e Cascapera)
obiettivamente e senza alcuna ombra di dubbio recita “… ferraria cascapera I<deo>
castrum Johannis Fulconis…”. La circostanza, poi, che in questo momento storico la
“Terra limosani” è non solo una “bona terra”, ma (e confronti specifici dai documenti
vengono fatti anche con Guardialfiera, Larino, Trivento, Termoli e Dragonara, tutte
‘civitas’ sedi di diocesi) quanto “la migliore, eccettuata bojano, di tutta la provincia (f.
154r: est bona terra et melior totae provinciae excepto boyano)” beneventana, sta a
dimostrare sia che la condizione di “destrutta città” è da attribuire a Cascapera, sia che è
da datare a periodo precedente ed, infine, sia che la fase di decadenza è pervenuta ad uno
stadio assai avanzato.
Ma a quando, pur approssimativamente, è possibile datare la ‘cancellazione’,
quella definitiva, della città di Ti-phern-um, che deve essere localizzata a Cascapera?
Di certo ad epoca alto medioevale e, con ogni probabilità, a motivo dei saccheggi e delle
28
ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Fondo Avignonese, Collect. t. 61: Benevent. civitatis et ducatus
Varia 1132-1312. Ms. ch. s. XIV.
29
KEHR P.F., Papsturkunden in Italien, Reiserkerichte zur Italia Pontificia.Acta Romanorum Pontificum,
Città del Vaticano 1977 (rist. in 5 volumi + 1 di indici dell’opera ‘Nachtrage zu den Romischen Berichten’
in Nachrichten der K. Geselleschaft der Wissenschaften zu Gottingen, Phil. Hist. Klasse, 1903), IV vol.,
pag. 177 (e, nell’edizione originaria, 519).
L’errata interpretazione del Kehr, seguita purtroppo assai acriticamente, ha trovato gran seguito nei
ricercatori di storia locale, con notevole danno per la verità.
devastazioni degli “Agarreni (o Saraceni)”; ma una analisi puntuale, perché sia più
completa, deve rimandarsi ad altro luogo.
Rappresaglie, saccheggi, distruzioni e, in generale, tutto quanto dalla reazione
scomposta, orgiastica e di vendetta, dell’esercito romano vincitore era finalizzabile, per
farne bottino, alla cancellazione dei fattori di crescita a disposizione dei vinti Samnites
seguirono già alla prima battaglia di Tiphernum, il cui esito negativo segnò le sorti della
seconda guerra sannitica. Lo scontro, che deve con ogni probabilità localizzarsi alla
“Morgia della Battaglia”30, e l’intero andamento dei fatti, che lo seguirono, sono così
descritti da Livio: “Nello stesso anno [304 a.C.] incursioni di Sanniti si fecero verso la
pianura Stellate (nota: ad ovest del basso Volturno) dell’agro Campano. Così entrambi i
consoli vennero mandati nel Sannio, in direzione di zone diverse (nota: motivi di
strategia militare consigliavano posti non eccessivamente distanti tra loro e che
permettessero il facile ricongiungimento degli eserciti): Postumio a Tiferno e Minucio a
Boviano. Il primo a scontrarsi fu Postumio presso Tiferno. Alcuni raccontano i Sanniti
essere sconfitti senza dubbio e presi venti mila uomini; altri che si terminò con Marte
uguale e che Postumio, simulando paura, con una marcia notturna ritirò di nascosto le
truppe sui monti e che i nemici seguitolo si accamparono in posizione ben fortificata a
due miglia distante. Il console, perché si credesse aver scelto quella posizione come
sicura e ricca di provviste – e tale realmente era – dopo aver munito l’accampamento
con opere di difesa ed averlo fornito di ogni genere di materiali, lasciatovi un presidio
saldo dalla terza ora della notte per la via più breve condusse le legioni equipaggiate in
maniera leggera presso il collega, anche lui che fronteggiava contro altri nemici. Ivi
Minucio, per indicazione di Postumio, entra in contatto con i nemici, ed essendo lo
scontro durato incerto fino a tarda ora del giorno, allora Postumio improvvisamente
assale con le sue legioni più fresche i nemici ormai stanchi. E così poiché la stanchezza e
le ferite impedivano anche la fuga, furono uccisi con strage i nemici, prese ventuno
insegne, e quindi si tornò all’accampamento di Postumio. Qui i due eserciti vincitori
sbaragliano i nemici già demoralizzati dalle notizie e li mettono in fuga. Furono prese
ventisei insegne militari, il comandante dei Sanniti Stazio Gellio, molti altri soldati ed
entrambi gli accampamenti. Il giorno dopo si cominciò a stringere d’assedio Boviano,
che si prese in poco tempo; e della grande fama di tali imprese i consoli celebrarono il
trionfo. Vi sono alcuni autori che riportano il console Minucio morto dopo essere stato
portato con gravi ferite all’accampamento e nominato console al suo posto Marco
Fulvio, dal quale, appena mandato all’esercito di Minucio, sarebbe stata presa Boviano.
Quell’anno Sora, Arpino e Cesennia furono ritolte ai Sanniti; una grande statua di Ercole
venne posta e consacrata nel Campidoglio”31.
30
Il toponimo, nelle ‘carte’ più antiche (v. atto dell’8 Luglio 1596 del Notaio della piazza di Fossaceca,
ma nativo di Limosano, Santoro Francescantonio, in ASC), risulta essere “Peschio della Battaglia”.
31
TITO LIVIO, Ab Urbe condita libri…, IX, 44. “Eodem anno in campum Stellatem agri Campani
Samnitium incursiones factae. Itaque ambo consules in Samnium missi, cum diversas regiones, Tifernum
Postumius, Bovianum Minucius petisset, Postumi prius ductu ad Tifernum pugnatum. Alii haud dubie
Samnites victos ac vigenti milia hominum capta tradunt, alii Marte aequo discessum, et Postumium,
metum simulantem, nocturno itinere clam in montes copias abduxisse,hostes secutos duo milia inde locis
munitis et ipsos consedisse. Consul, ut stativa tuta copiosaque, et ita erant, petisse videretur, postquam et
munimentis castra firmavit et omni apparatu rerum utilium instruxit, relecto firmo presidio de vigilia
La pace, che, evidente frutto di trattati, aveva riportato all’influenza di Roma,
l’intero, o quasi, attuale basso Lazio, dura il breve volgere di soli pochi anni. E già nel
298 a.C., i Sanniti, riorganizzate le proprie forze e dopo aver tentato la globalizzazione
dello scontro mediante alleanze con i Sabini, gli Etruschi ed i Galli Senoni, muovono
ancora guerra, la terza sannitica, a Roma, la quale riparte quasi dagli stessi luoghi in cui
era terminata la seconda. Solo che quei luoghi mostravano le evidenti lacerazioni delle
ferite dovute alle spoliazioni, ai saccheggi ed alle prime ‘cancellazioni’. Difatti, nel 297
a.C., “i nuovi consoli, Quinto Fabio Massimo la quarta volta e Publio Decio Mure la
terza, discutendosi tra di loro chi prendere come nemici i Sanniti e chi gli Etruschi,
quante forze occorressero per l’uno o per l’altro teatro di guerra e chi di loro fosse più
idoneo all’una o all’altra delle campagne, essendo giunti ambasciatori da Sutri e Nepi e
dal Falerio ad annunciare riunioni di popolazioni dell’Etruria su richieste di pace,
rivolsero l’intero sforzo della guerra verso il Sannio. Partiti i consoli per vie diverse,
perché più agevole fosse il vettovagliamento e più incerto il nemico sulla direzione
dell’attacco, Fabio dirige verso il Sannio le sue legioni per la regione di Sora e Decio per
il territorio dei Sedicini. Da quando giungono al confine dei nemici, entrambi avanzano
in ordine sparso saccheggiando. Tuttavia esplorano un raggio più ampio di quanto
devastano; quindi non sfuggì che i nemici si erano concentrati in una valle nascosta
presso Tiferno, che curavano di attaccare dall’alto i Romani entrativi. Fabio, sistemati i
bagagli in luogo sicuro e postovi un piccolo presidio, preavvertito i soldati che era
prossimo il combattimento, si avvicinò in formazione quadrata ai predetti nascondigli
dei nemici. I Sanniti, vanificata la speranza dell’attacco di sorpresa e poiché prima o poi
si doveva arrivare allo scontro aperto, anche loro preferiscono schierarsi per la battaglia.
E così scendono verso il piano e si affidano alla sorte con coraggio maggiore della
speranza; del resto, sia perché avevano raggruppato quanto più della forza di tutte le
genti Sannite e sia perché l’importanza dell’avvenimento ne accresceva l’ardore, per un
po’ di tempo anche nello scontro aperto suscitarono terrore.
Fabio, vedendo il nemico non perdere da nessuna parte terreno, comanda il figlio
Massimo e Marco Valerio tribuni militari, con i quali si era spinto in prima fila, di
andare presso i cavalieri e di esortarli, se mai ricordassero che l’apporto della cavalleria
avesse altra volta giovato alla repubblica, a fare quel giorno gli sforzi tutti a mantenere
intatta la fama dell’arma: il nemico manteneva immobile la posizione della fanteria; ogni
restante speranza era nell’impeto dei cavalieri. E rivoltosi nominalmente agli stessi
giovani, con uguale benevolenza per entrambi, li riempie ora di lodi ed ora di promesse.
terzia, qua duci proxime potet, expeditas legiones ad collegam, et ipsum adversus alios sedentem, ducit.
Ibi autore Postumio Minucius cum hostibus signa confert; et cum anceps proelium in multum diei
processisset, tum Postumius integris legionibus defessam iam aciem hostium improviso invadit. Itaque
cum lassitudo ac vulnera fugam quoque praepedissent, occidione occisi hostes, signa unum et viginti
capta, atque inde ad castra Postumi perrectum. Ibi duo victores exercitus perculsum iam fama hostem
adorti fundunt fugantque; signa militaria sex et viginti capta et imperator Samnitium Statius Gellius
multique alii mortales et castra utraque capta. Et Bovianum urbs postero die coepta oppugnari brevi
capitur, magnaque gloria rerum gestarum consules tiumpharunt. Minucium consulem, cum vulnere gravi
relatum in castra, mortuum quidam auctores sunt, et M. Fulvium in locum eius consulem suffectum, et ab
eo, cum ad exercitum Minuci missus esset, Bovianum captum. Eo anno Sora, Arpinum, Cesennia recepta
ab Samnitibus; Herculis magnum simulacrum in Capitolio positum dedicatumque”.
Del resto, quand’anche quel tentativo di forza fosse vano, ritenendo di ricorrere
all’astuzia, se la forza non bastasse, comanda al legato Scipione di ritirare gli astati della
prima legione dal combattimento ed il più nascostamente possibile condurli presso i
monti prossimi; quindi, per un percorso non visibile dalla vista del nemico far salire il
drappello sulle cime montuose e mostrarsi repentinamente al nemico da tergo. Guidati
dai tribuni i cavalieri avanzati all’improvviso in prima fila provocarono confusione non
più ai nemici che ai suoi. Contro le squadre lanciate rimase saldo il fronte dei Sanniti ed
in nessun modo si poté farlo indietreggiare o sfondarlo; e dopo che la mossa risultò
inutile, uscirono dal combattimento ritiratisi dietro la fanteria. Da ciò crebbe l’ardore dei
nemici, e la prima linea del fronte non avrebbe potuto reggere uno scontro tanto lungo
né la pressione nemica intensificata dalla fiducia, se la seconda linea per ordine del
console non ne avesse preso il posto. Allora le forze fresche fermano il Sannita già in
fase di avanzare, e la vista improvvisa degli armati dai monti ed il clamore suscitato
spaventarono gli animi dei Sanniti non tanto che il solo timore; infatti anche Fabio
esclamò che si avvicinava il collega Decio, ed ogni soldato esultò e prese forza per la
gioia che veniva l’altro console e le legioni. E l’inganno utile ai Romani gettò alla fuga
ed allo sgomento i Sanniti timorosi fortemente di essere sopraffatti dall’altro esercito
fresco ed intatto. E poiché nella fuga si dispersero in più direzioni, la strage fu minore di
quanto fosse il favore di tanta vittoria: tremilaquattrocento uccisi, circa ottocentotrenta
prigionieri; e ventitre insegne militari furono prese.
Ai Sanniti prima del combattimento si sarebbero uniti gli Apuli, se il console
Publio Decio non avesse contrapposto ad essi l’accampamento presso Malevento, e
quindi attiratili al combattimento non li avesse sbaragliati. Anche qui la fuga fu
maggiore della strage: duemila di Apuli uccisi, e trascurato quel nemico Decio condusse
le legioni nel Sannio. Quivi due eserciti consolari percorrendo zone diverse in cinque
mesi devastarono tutto. Quarantacinque nel Sannio i luoghi in cui furono gli
accampamenti di Decio, ottantasei dell’altro console;…”32.
32
TITO LIVIO, X, 14 e seg. “Consules novi, Q. Fabius Maximus quartum et P. Decius Mus tertium, cum
inter se agitarent uti alter samnites hostes, alter Etruscos deligeret, quantaeque in hanc aut in illam
provinciam copiae satis et uter ad utrum bellum dux idoneus magis esset, ab Sutrio et Nepete et Faleriis
legati, auctores concilia Etruriae populorum de petenda pace haberi, totam belli molem in Samnium
averterunt. Profecti consules, quo expeditiores commeatus essent et incertior hostis qua venturum bellum
foret, Fabius per Soranum, Decius per Sedicinum agrum in Samnium legiones ducunt. Ubi in hostium
fines ventum est, uterque populabundus effuso agmine incedit. Explorant tamen latius quam populantur;
igitur non fefellere ad Tifernum hostes in occulta valle instructi, quam ingressos Romanos superiore ex
loco adoriri parabant. Fabius impedimentis in locum tutum remotis praesidioque modico imposito,
praemonitis militibus adesse certamen, quadrato agmine ad praedictas hostium latebras succedit.
Samnites desperato improviso tumultu, quando in apertum semel discrimen evasura esset res, et ipsi acie
iusta maluerunt concurrere. Itaque in aequum descendunt ac fortunae se maiore animo quam spe
committunt; ceterum, sive quia ex omnium Samnitium populis quodcumque roboris fuerat contraxerant,
seu quia discrimen summae rerum augebat animos, aliquantum quoque aperta pugna praebuerunt
terroris.
Fabius, ubi nulla ex parte hostem loco moveri vidit, Maximum filium et M. Valerium tribunos militum,
cum quibus ad primam aciem procurrerat, ire ad equites iubet et adhortari ut, si quando umquam equestri
ope adiutam rem publicam meminerint, illo die adnitantur ut ordinis eius gloriam invictam praestent:
peditum certamine immobilem hostem restare; omnem reliquam spem in impetu esse equitum. Et ipsos
nominatim iuvenes, pari comitate utrumque, nunc laudibus, nunc promissis onerat. Ceterum |quando, ne
I parametri e gli elementi della geografia fisica ed idro-orografica, la compatibilità
dei luoghi e delle distanze con le esigenze tattico-militari sviluppatesi nella dinamica dei
fatti così come riportata, pur non in maniera puntuale, da Livio ed, affatto trascurabile,
l’intera toponomastica dei luoghi [Ferrara, Cascapera, Morgia (e/o “Peschio”) della
Battaglia, li Monti, Monte ‘Marcuni’,…], ancora peraltro ben conservata nella geografia
della zona, tutto porta, e senza dubbio alcuno, a confermare le ipotesi di ricostruzione e
di localizzazione proposte.
Circa le cancellazioni, frutto di quell’istinto animalesco che si concretizza nelle
rappresaglie, nelle distruzioni e nei saccheggi orgiastici e sfrenati, che seguirono agli
esiti sfavorevoli delle due battaglie, non è dato conoscerne il dettaglio. Nondimeno, le
descrizioni di Livio, anche se caratterizzate dalla evidente, e riconosciuta, faziosità
elogiativa e celebrativa dell’intervento romano da parte del padovano, inducono a
qualche, seppur essenziale, considerazione. E ad interessanti conclusioni.
E sicuramente è da evidenziare come alla battaglia del 304 a.C., la prima delle due
a Tifernum, più che interventi sulle ‘cose’, che, compiuti in soli pochi giorni, dovettero
necessariamente essere di limitata entità e, comunque, furono ben assorbiti, seguirono
sia, ‘in loco’, uno sterminio immane della forza umana e militare dei Sanniti (che, viene
riferito dallo storico, alcune ‘fonti’ quantificano in ca. 20.000 morti mentre altre, pur non
precisate, ne fanno intuire, in ogni caso, assai elevato il numero) e sia, nei trattati di
pace, solo cessioni di territori dell’attuale basso Lazio e, quindi ed a riprova del mancato
annientamento ‘totale’ del popolo sconfitto, lontani dal Sannio vero e proprio.
Le conseguenze, invece, della seconda battaglia di Tifernum, del 297 a.C., sono di
gran lunga diverse e, per tanti aspetti, più radicali sulle ‘cose’ (e meno sulle persone, se
il numero delle vittime risulta essere ‘solo’ di 3.400 uccisi, cui vanno aggiunti 830
prigionieri) e si concretizzano con modalità assai differenti rispetto a quelle seguite al
primo scontro. Essa, già lo si accennava in precedenza, è il momento, e per giunta
iniziale (l’altra era stata conclusiva), di una guerra, a monte della quale si colloca il
tentativo strategico, dettato dalla consapevolezza, che è frutto di una non comune
ea quoque temptata vis proficeret|, consilio grassandum, si nihil vires iuvarent, ratus. Scipionem legatum
hastatos primae legionis subtrahere ex acie et ad montes proximos quam posset occultissime
circumducere iubet; inde ascensu abdito a conspectu erigere in montes agmen aversoque hosti ab tergo
repente se ostendere. Equites ducibus tribunis haud multo plus hostibus quam suis, ex improviso ante
signa evecti, praebuerunt tumultus. Adversus incitatas turmas stetit immota Samnitium acies nec parte
ulla pelli aut perrumpi potuit; et postquam inritum inceptum erat, recepti post signa prolio excesserunt.
Crevit ex eo hostium animus, nec sustinere frons prima tam longum certamen increscentemque fiducia sui
vim potuisset, ni secunda acies iussu consulis in primum successisset. Ibi integrae vires sistunt invehentem
se iam Samnitem; et tempore |improvisa| ex montibus signa clamorque sublatus non vero tantum metu
terruere Samnitium animos; nam et Fabius Decium collegam appropinquare exclamavit, et pro se quisque
miles adesse alterum consulem, adesse legiones gaudio alacres fremunt; errorque utilis Romanis oblatus
fugae formidinisque Samnites implevit, maxime territos ne ab altero exercitu integro intactoque fessi
opprimerentur. Et quia passim in fugam dissipati sunt, minor caedes quam pro tanta victoria fuit: tria
milia et quadringenti caesi, capti octingenti ferme et triginta; signa militaria capta tria et viginti.
Samnitibus Apuli se ante proelium coniunxissent, ni P. Decius consul iis ad Maleventum castra obiecisset,
extractos deinde ad certamen fudisset. Ibi quoque plus fugae fuit quam caedis ; duo milia Apulorum
caesa ; spretoque eo hoste Decius in Samnium legiones duxit. Ibi duo consulares exercitus diversis vagati
partibus omnia spatio quinque mensum evastarunt. Quinque et quadraginta loca in Samnio fuere, in
quibus Deci castra fuerunt, alterius consulis sex et octoginta;…”.
avvedutezza politica, tra i Sanniti del punto di decisività raggiunto dalla lotta con Roma,
di ‘globalizzarla’ con allearsi ai Sabini, agli Etruschi ed ai Galli Senoni, i quali, peraltro,
con i loro concili (era assai diffusa la costumanza, per cui le decisioni comunitarie
venivano prese da locali assemblee pubbliche) e le loro ambascerie di non aggressione
affatto rispettosi degli accordi precedenti, si dimostrano per nulla (verranno sottomessi
di lì a pochi anni) lungimiranti nei giochi politici. La campagna militare romana “in
Samnitibus”, che, a motivo del mancato effetto delle cercate, ma disattese, alleanze,
trova la possibilità di una distruzione radicale e sistematica, in effetti dura per alcuni
mesi; tanto che “due eserciti consolari percorrendo zone diverse in cinque mesi
devastarono tutto” e, complessivamente, i due eserciti si fermano in ben centotrentuno
(ai quarantacinque “luoghi in cui furono gli accampamenti di Decio” vengono aggiunti
gli “ottantasei dell’altro console”) località.
Del tutto naturale che la devastazione subita su larga scala fosse completa e, con
essa, la privazione dei punti di riferimento importanti comporteranno per i Sanniti il
dover subire la imposizione di un atteggiamento di sudditanza verso Roma.
La romanizzazione del Sannio, la prima, che seguì alla terza sfavorevole guerra,
consiste (il ridimensionamento della forza militare e, più in generale, di quella ‘umana’
lo abbiamo visto già portato a termine) in una ‘cancellazione’, se non definitiva, assai
profonda delle cose prodotte sino a quel momento dalle popolazioni sannitiche. Pur
tuttavia e nonostante tutto, dei ‘Samnites’ si salvò in questa fase la cultura; e, con essa
(lingua, religione, costumi,…), la identità di popolo. Ma quasi esclusivamente queste,
che sono cose astratte e poco concrete.
Sia i saccheggi, le devastazioni e le spoliazioni, immediatamente seguite alle due
battaglie (Fagifulae, dall’altra parte del fiume, ne subisce meno anche rispetto al pagus
di Roccaspromonte, il quale si trova sull’arteria stradale, percorsa dall’esercito romano,
che, lungo l’attuale Biferno, da Larinum, e – motivo in più per posizionare “ad Pyrum” a
Cascapera – per Tifernum, portava a Bovianum), e sia la più generale imposizione della
romanizzazione33 dovettero ridimensionare, e non di poco, il ruolo sul territorio di
Tifernum, che da questo momento inizia a perdere la sua funzione di punto di
riferimento strategico nell’ambito della relativa unità amministrativa (la touto sannita dei
‘tiphernatium’ e il municipium romano dei ‘fagifulani’) del medio Biferno a vantaggio
proprio della dirimpettaia Fagifulae. E, se “la prima notizia che noi abbiamo di
Fagifulae, la si deve a Livio, <quando>, narrando della seconda guerra punica, lo storico
latino dice ‘Fabius in Samnites <ad populandos agros recipiendasque armis, quae
defecerant urbes,> processit… <Caudinus Samnis gravius devastatus, perusti late agri;
praedae pecudum hominumque actae;> oppida vi capta Compulteria, Telesia, Compsa,
inde Fagifulae et Orbitanium’ (Liv. XXIV, 20,5)”34, se, si diceva, tale notizia ha (e,
trovandosi Fagifulae, così come dimostra quell’ “inde”, lontana rispetto a tutti gli altri
‘loci’ indicati, lo deve pure avere) un senso, tutto ciò è ancor più vero.
33
Su questa prima romanizzazione del territorio limosanese si veda BOZZA F., Limosano nella … cit.,
pag. 39 e seg.
34
DE BENEDITTIS G., Fagifulae… cit., pag. 259. “Del periodo sannitico di Fagifulae ben pochi sono i
materiali archeologici; abbiamo solo qualche rinvenimento sporadico come alcuni frammenti di ceramica
a vernice nera ed alcuni bronzetti raffiguranti Ercole, tuttavia utili, dato il luogo di reperimento, a
confermare la preesistenza di un insediamento alle strutture romane…”.
L’intervento “con la forza” di Fabio, oltre a far pensare ad una strada che tenesse
collegata Fagifulae (l’unico ‘oppidum’, che Livio menziona con parola plurale, quasi ad
indicare un insieme di popolazioni diverse), che è, appunto, ancora un semplice
‘oppidum’, ad altri insediamenti, presuppone necessariamente suoi atteggiamenti ostili
verso Roma negli anni precedenti a quel 214 a.C. (quello della resa dei conti), che sono
quelli del passaggio del cartaginese Annibale anche nel Sannio Pentro35.
Ma, pur sommariamente, come andarono i fatti? Nei primi giorni del mese di
ottobre del 217 a.C. (non è trascorso che, ed è circostanza da tenere nella dovuta
considerazione, poco più di un settantennio dalla fine delle guerre sannitiche) Annibale
attraversa il territorio dell’attuale Molise da ovest verso est, lungo un percorso che dal
Falerno (zona di Capua), risalendo il Volturno, seguendo il Biferno e “costeggiando a
quanto pare le montagne del Matese, <diretto> per la regione dei Frentani, per dove
scorre il Tifernus (oggi Biferno), si ricondusse a Geronium”36, che è, oltre al ‘locus’
dove svernerà l’anno prima della grande battaglia di Canne (che gli studi più recenti
vogliono posizionata lungo il Fortore), una ‘statio’ di quella strada che la Tabula
Peutingeriana riporta come collegamento da Bojano a Larino 37. Naturale che sul progetto
del Cartaginese e sulla sua riuscita, che avrebbe potuto rappresentare la liberazione da
Roma, si sviluppasse tra le popolazioni della Pentria una disputa tra i ‘filo-romani’ ed i
‘filo-punici’. Così, se la Pentria centro-occidentale si schiera con Roma, subendo
nell’immediato e da Annibale feroci rappresaglie e saccheggi, quella orientale si schiera
e parteggia per il condottiero cartaginese. La popolazione della media valle del Biferno
(la Pentria orientale, quella cioè di Fagifulae e di Tifernum), sia perché, più marginale, è
ancora meno romanizzata rispetto alle altre e sia perché è più insofferente del giogo
romano, mette a disposizione di Annibale mezzi ed uomini. Tanto che Roma, appena nel
214 a.C., ne ordina le feroci rappresaglie. Il testo liviano, che, come si accennava,
evidenzia una fase di decadenza per Tifernum a favore della crescita di Fagifulae, fa ben
intuire come la media valle venga nuovamente sottoposta a saccheggi, a devastazioni ed
a ‘cancellazioni’ tali, che ne condizionano lo sviluppo socio-economico successivo.
Chi prima e chi dopo, insomma, tutti furono costretti a subire le conseguenze delle
proprie scelte. E, sempre, da fattori di moltiplicazione storica esterni.
A differenza di quanto, episodico e del tutto superficiale, subito a motivo dei
diversi atteggiamenti assunti dalle popolazioni locali verso il Cartaginese, molto più
sistematico, per le modalità di attuazione, ed assai radicale, per metodo ed incisività,
risulta essere stato l’intervento, che, con effetti di sconvolgimento epocali, seguì al
35
Si veda, per una ricostruzione dettagliata, BOZZA F., Limosano nella … cit., pag. 40 e seg.
PAIS E., Storia di Roma durante le guerre puniche, Torino 1935, pag. 243.
37
“Questa strada viene riportata… secondo il seguente tracciato: Bobiano (Bojano) - XI [miglia] - Ad
Canales - VIII [miglia] - Ad PYR(um) - IX [miglia] - Geronum (Gerione, abitato scomparso presso
Casacalenda) - VIII [miglia] - Larino (Larino).
E’ forse da identificare con la òdòs Samniou ricordata da Procopio di Cesarea (B.G., VI, v, 2) a proposito
della guerra tra Goti e Bizantini, allorché Zeno, per recarsi a Roma, attraversò il Sannio per raggiungere la
via Latina”[DE BENEDITTIS G., Appunti… cit. (v. nota 27)], che da Roma menava a Cassino,
proseguiva sino alla statio AD FLEXUM (S. Pietro Infine), dove si biforcava e “con un ramo di 13 miglia
andava a Teano sulla via Appia, ed un ramo di 16 miglia menava a Venafro”(MASCIOTTA G.B., Il
Molise…, I, pag. 68).
36
‘bellum sociale’38, che “… per avere i diritti di cittadinanza, la civitas optimo iure, i
Sanniti combattono”39, tra il 91 e l’87 a.C., alla guida, ancora e per l’ultima volta, della
Confederazione dei popoli italici, i quali erano, appunto, ‘soci (= alleati)’ di Roma;
“cittadinanza che in effetti ottennero” con la lex Julia. “Il successivo coinvolgimento dei
Sanniti nelle guerre civili, nelle quali essi si trovarono schierati con la parte mariana,
contro l’esercito di Silla, li condusse alla battaglia di porta Collina, il 1° novembre
dell’82 a.C.; la disfatta dette modo a Silla di rivalersi sui vinti” 40: con un genocidio, di
tanto orgiastico di quanto sfrenato, che, dettato dall’odio più profondo (“fin quando
vivrà un solo sannita, Roma non avrà pace”, si racconta ripetesse Silla), comportò
l’annientamento brutale e lo sgozzamento feroce ed animalesco dell’elemento maschile,
rimpiazzato con deportazioni “in Samnitibus” di intere ‘gentes’ (nello specifico del
territorio del medio Biferno con la tribù Voltinia); con una pulizia etnica fatta del più
riprovevole e metodico ingravidamento per mezzo degli stupri e delle violenze razziali e
di massa sull’elemento femminile; e, non ultimi, con devastazioni e saccheggi finalizzati
alla totale spoliazione degli autoctoni sia della identità culturale come di quant’altro essi
erano riusciti a rendere disponibile all’avanzare della propria storia41.
Il grado di gravità delle cose messe in atto in questa fase dalla civiltà di Roma e di
quanto quell’intervento ebbe ad incidere sul tessuto socio-economico delle popolazioni
autoctone emerge, e certamente non nella sua interezza, se solo si considera il risultato
della indagine archeologica condotta nella valle del Biferno, la quale, relativamente al
periodo che la precedette, ha evidenziato come le condizioni favorevoli, per la raggiunta
pacificazione, dei “successivi <alle guerre sannitiche> due secoli videro una grande
crescita di siti rurali, che popolarono la valle a livelli mai raggiunti prima d’allora e mai
più fino al periodo moderno”42.
Con una tale indicazione assai favorevole al progresso (per i due secoli precedenti
al ‘bellum sociale’) contrasta fortemente il dato propriamente storico, se è vero che già
“Strabone, autore del tardo I sec. a.C. (nota: e, perciò, nel tempo assai prossimo ai fatti),
fu colpito dalla crisi del Samnium causata dalle devastazioni sillane: erano scomparse
tutte le tracce della cultura sannitica (VI.1.2), molte città erano state interamente rase al
suolo, mentre quasi tutte le altre, compresa Bovianum, erano ridotte a villaggi (V.4.11).
A lungo si è ritenuto che Strabone esagerasse nel descrivere il declino dei suoi
insediamenti, tuttavia è da riconoscere che dopo Silla ci sono state difficoltà
demografiche ed economiche anche pesanti. La tarda Repubblica e l’inizio dell’Impero
hanno visto nuovi arrivi nella regione; ai soldati che avevano finito il servizio militare
furono concessi appezzamenti di terra ed alcuni finanziamenti statali furono utilizzati per
lo sviluppo urbano, ma si è pensato che la ripresa sia stata non più che modesta durante
il Principato. L’elenco di Plinio il Vecchio, che mostra la situazione delle principali
38
Si veda BOZZA F., Limosano nella Storia, cit., pag. 44 e seg.
CAPINI S., Safinim … cit., pag. 13.
40
CAPINI S., Safinim … cit., pag. 13.
41
BOZZA F., Limosano: Questioni… cit.
42
BARKER G., Due Italie una valle una prospettiva, in AM 1991, II, pag. 88. Il Barker cita da LLOYD
J.A. e BARKER G., Rural settlement in Roman Molise: problems of archaeological survey, in G. Barker
and R. Hodges (ed.), Archaeology and Italian Society; 289-304, Oxford 1981, British Archeaological
Reports, International Series 102.
39
evidenze insediamentali della valle (Naturalis Historia, III, c. 12, 103-7, basato quasi
esclusivamente su fonte augustea), indica Larinum, Fagifulae e Saepinum come
municipia, Bovianum come colonia”43.
Il giudizio storico che viene fuori dalla lettura delle fonti è, poi, integralmente
confermato dal risultato della più volte richiamata indagine archeologica della valle, se è
vero che “la guerra sociale portò con sé grandi devastazioni e depresse di molto la
vitalità del Sannio. [...]. In ogni modo, il momento di più forte decremento della
popolazione rurale della valle, che la ricognizione pone nel periodo tardo repubblicano,
probabilmente riflette effettivamente l’événement costituito dalle conseguenze della
guerra sociale. In conseguenza di questa definitiva imposizione della romanizzazione, la
lingua del Latino rapidamente rimpiazzò l’Osco come linguaggio dominante, le élites
abbracciarono i modi romani di vestire e di comportarsi, ed il surplus da essi prodotto,
non più veniva condotto ai santuari o agli insediamenti fortificati, bensì fu convogliato
nella costruzione di monumenti di prestigio nei tre centri urbani che, sull’esempio
romano, furono realizzati nell’alta, media e bassa valle (Bovianum, Fagifulae e Larinum
rispettivamente) e, al di là dello spartiacque, ad est di Bovianum, a Saepinum”44.
Una realtà delle ‘cancellazioni’ effettivamente accadute, insomma, che ben
coincide con quel giudizio, tanto estremo quanto obiettivo e veritiero, che, con efficacia
uguale alla sintesi, ne dava lo storico Floro, quando di Silla scriveva che “così distrusse
le rovine stesse delle città, che oggi non avresti la possibilità di trovare niente di
sannitico nello stesso Sannio”45.
L’intervento romano, così spietato come sistematico e radicale, durato, seppur con
differente grado di intensità, per diversi decenni e che lo si può dire portato a termine
solo con la riorganizzazione augustea (che suddivideva l’Italia in undici regioni) del 14
d.C., risulterà profondamente modificatore dell’intera geografia sociale, antropica ed
economica dei ‘Samnites’ (che, si noti il dato ‘culturale’, sono ancora avvertiti come “le
genti più forti dell’Italia”) e, nel caso specifico, della parte mediana della valle del
Biferno, la quale, e il ‘nuovo’ confine ricalca fedelmente, a riprova che il conservare era
procedura ampiamente seguita, quello ‘antico’ tra Pentria e Frentania, viene inclusa nella
“Regio quarta”46.
43
BARKER G., La valle... cit., pag. 234 e seg. E’ assai esaustiva, non meno che famosa, la frase di
Strabone, che (Geografia, V.9.2) scriveva: “Itaque per vicos factae fuerunt civitates, aliquae vero radicitus
exstintae,..., et aliae quarum ne unam quidem pro dignitate censueris civitatem”.
Ad onor del vero, Plinio, più che delle città, indica un elenco di popolazioni, quando scrive: “Sequitur
Regio quarta gentium vel fortissimarum Italiane … Samnitium quos Sabellos et Greci Saunitos dixere;
Coloniae Bovianum Vetus et alterum Undecumanorum, Aufidenates, Aesernini, Fagifulani, Ficolenses,
Saepinates, Tereventinates”.
44
BARKER G., Due Italie... cit., pag. 90.
45
FLORO, Epitome, I, 16. “Ita ruinas ipsas urbium diruit, ut hodie Samnium in ipso Samnio non
requiratur”.
46
PLINIO C. Secondo, Lib. III, 12. “Sequitur Regio quarta gentium vel fortissimarum Italiae... Samnitium
quos Sabellos et Graeci Saunitos dixere: Coloniae Bovianum vetus et alterum cognomine
Undecumanorum, Aufidenates, Aesernini, Fagifulani, Ficolenses, Saepinates et Tereventinates”. Non è
possibile non annotare come l’elenco di Plinio: 1°) sembri ricalcare gli spazi geografici delle ‘touto’
sannitiche; 2°) stia ad indicare il riferimento antropico dei tanti ‘municipia’ romani, che, e siamo alla 3°
annotazione, diventeranno sedi delle ‘diocesi’ cristiane.
Una ipotesi di ricostruzione di tale geografia insediamentale vede una Tifernum,
ridimensionata (ma non del tutto scomparsa) ed in posizione decentrata, satellizzata e
periferica, alla sinistra del Biferno, rispetto a quella Fagifulae, che, in quanto più vicina
alla via di comunicazione, che correva lungo il fiume, ed allo stesso corso d’acqua (ma
alla sua destra), viene preferita a motivo della sua maggiore ‘romanizzabilità’ ed è fatta
‘municipium’47. L’antico “ponte a fabbrica che contava l’epoca della sua fondazione con
quella dell’Impero di Adriano”48 (ma sembra possibile pensare ad un collegamento
preesistente, che sarebbe, tuttavia, da posizionare più a valle e nelle immediate vicinanze
di dove il torrente Ferrara si immette nel fiume Biferno) teneva collegati gli ambiti
territoriali riferibili alle due emergenze insediative e ne permetteva il controllo.
Anche la lettura interpretativa delle iscrizioni, specialmente di quelle rinvenute in
agro di Limosano, sembra confermare siffata ipotesi di ricostruzione. Quella (CIL, IX,
2623) “lastra di calcare (h 57 x 93; sp. 17; h lettere 18), <che>, anche sulla base dei dati
paleografici, è da considerare della fine della Repubblica”49, per la forma, per la pulizia
ed il colore rosso delle lettere e, soprattutto, per la loro grandezza, sembra, con ogni
probabilità, essere porzione della parte frontale di una struttura santuariale, che, essendo
stata l’iscrizione rinvenuta in “località Colle Ginestra”, non può non essere posizionata
che sul territorio di Cascapera. Il riferimento particolare (tra le iscrizioni di Fagifulae si
trova solo in essa) alla ‘carica’ di un “duovir quinquennalis”, il quale è anche “curator
Templi Divi Augusti”, della iscrizione (CIL, IX, 2595) rinvenuta in “contrada Monte
Mercurio (anche Monte Marcone)”, assai prossima a Cascapera ed a Colle Ginestra, e
composta da “tre frammenti ricongiungibili e databile al I sec. d.C.”50, probabilmente
provenienti da un monumento funebre costruito, quindi, nelle immediate vicinanze di un
percorso stradale, porta ad ipotizzare l’esistenza di un insediamento alla sinistra del
fiume Biferno. Assai poco dice il frammento (CIL, IX, 2621), rinvenuto in “località
Monte Marcone (o Mercurio)”51, il cui valore, oltre che nella sua “datazione all’inizio
del I sec. d.C.” (ed è un fatto che le iscrizioni ‘tiferniane’, ossia provenienti da territori
alla sinistra del Biferno, sono più antiche di quelle ‘fagifulane’ e provenienti da aree alla
destra del fiume), è solo nella ‘coincidenza’ del posto di rinvenimento, rientrante
nell’area di Cascapera, che situa a monte, e ne faceva parte, “del tenimento di Ferrara”.
A motivo del luogo del ritrovamento della ‘lapide tiferniana’ (ma non solo per
questo) “Matteo Egizio asserisce che la città di Tifernum era tra il Biferno e Limosano.
Del medesimo parere furono G. Galanti, L. Giustiniani e Domenico Romanelli” 52. Pur
senza ricorrere ad una inutile ed antistorica moltiplicazione dei ‘siti’ insediamentali, la
47
BOZZA F., Limosano: Questioni…, cit.
Dalla ‘Relazione’ dell’Ing. Berardino Musenga (datata 14 ottobre) all’Intendente di Molise, nella quale
si descrivevano i danni provocati dall’alluvione del 21 settembre 1811. E’ possibile ipotizzare che il ponte,
per il cui rifacimento, quasi certamente in seguito all’alluvione del 1621, quando, “a detta di Galanti e
Perrella, nel Molise la pioggia cadde ininterrottamente per quattro mesi ed il Biferno impazzì” (v.
TASSINARI S., Biferno, il fiume che era Dio, in MOLISE n. 1, giugno 1992, pag. 36), è documentato un
intervento del Cardinale Orsini tra il 1715 ed il 1730, venne costruito (se non proprio ‘ricostruito’ sopra
una precedente struttura esistente nello stesso luogo o in località non di molto distante) per ‘unire’ il
territorio alla sinistra con quello alla destra del fiume.
49
DE BENEDITTIS G., Repertorio... cit. (v. nota 23); iscrizione al n. 17.
50
DE BENEDITTIS G., Repertorio... cit.; iscrizione al n. 6.
51
DE BENEDITTIS G., Repertorio... cit.; iscrizione al n. 16.
48
indubitabile attestazione di un momento di grande munificenza e, ad essa collegabile,
una più che probabile attività edilizia, il riferimento contemporaneo, ed assai raro, a
diverse cariche pubbliche (Decurio, Augustalis, Martialis) oltre che ad una ‘Plebs’, il
raggiungimento della onorificenza della ‘Quinquennalitas’ da parte di Quintus Parius
Severus filius Quinti, della tribù Voltinia, sembrerebbero tutti elementi utili, nonché
sufficienti, a dimostrare, una volta completata la romanizzazione, una discreta vitalità di
presenze (ed è facile pensare ai ‘latifundia’ ed alle ‘villae’) sull’intera area pertinente al
‘municipium’ di Fagifulae53.
1.3 – La diffusione del Cristianesimo
Contrariamente ai mutamenti, tanto sistematici quanto profondamente radicali e
dalle conseguenze epocali, imposti a tutte le ‘geografie’, dalla socio-culturale a quella
fisico-ambientale, dalla antropico-insediamentale a quella economico-amministrativa,
dei ‘Samnites’ con la brutalità della forza fisica e con la determinazione violenta delle
romanizzazioni, la ‘rivoluzione’ prodotta dalla penetrazione del Cristianesimo nella
società, così come sempre si ha per quelle che avanzano con le gambe delle idee che
52
PIEDIMONTE G., Notizie … cit., pag. 107. Di essa (CIL, IX, 2553) già si diceva (v. nota 23) che,
contrariamente a quanto sostiene FORTE M.L., (Fagifulae, testimonianze epigrafiche, in AM 1991, pag.
45 e segg.), che la dice, dimostrando scarsa conoscenza della geografia dei luoghi e dei fatti legati alla
‘lapide tiferniana’, “rinvenuta su un ponte sul Biferno tra Trivento e Campobasso”, e contrariamente alla
tesi di chi la vorrebbe trovata in agro di Montagano, venne rinvenuta, se non prima, al più tardi nel 1724 in
agro di Limosano, probabilmente al “colle le Casere”, che è località non lontana dal fiume Biferno, e,
d’ordine del Cardinal Orsini, murata sul ponte di Limosano, quell’anno “in rifatione”. Tanto da indurre il
Mommsen ad attribuirla a Trivento. Restano un mistero (o è sin troppo facile immaginare una
spiegazione?) le motivazioni che indussero l’Orsini a farla murare sul ‘ponte’ di Limosano. Andata
distrutta dall’alluvione del 1811, se ne riporta il testo, che mutua dalla recente proposta interpretativa del
più volte citato De Benedittis la ‘lettura’ vera e propria e la disposizione formale dalle ricostruzioni
classiche del Carabba, dell’Albino e del Masciotta:
IMP CAESARI DIVI HADRIANI FIL DIVI TRAIANI
PARTHICI NEP DIVI NERVAE PRON
T AELIO HADRIANO ANTONINO AUG PIO PONT MAX
TRIB POT III COS III
P P
Q PARIUS Q F VOL SEVER OB HONOR QUINQUEN
DE HS IIII M N EX D D CUIUS DEDICAT
EPULUM DEDIT
DECUR ET AUGUSTAL SING HS VIII MART HS III
PLEBI HS II N
Comunemente datata al “140 d.C.”, trattasi della “dedica di un monumento all’imperatore Antonino Pio
costato quattromila (nota: e non ottomila, come superficialmente ed erroneamente interpreta la Forte)
sesterzi a seguito dell’assunzione da parte di Q. Parius Severus della carica di magistrato quinquennale del
municipio di Fagifulae. In occasione della nomina il nostro personaggio offre un pranzo ed elargisce
somme ai decurioni, agli Augustali, ai Marziali ed al popolo” (DE BENEDITTIS G., Repertorio... cit.;
iscrizione al n. 2).
53
Si veda, per una individuazione dei confini, DE BENEDITTIS G., Repertorio... cit., specialmente da
pag. 15 e segg.
interessano la sfera dei bisogni sociali, si concretizza con modi complessivamente
appena percepiti e con ritmi, comunque ed in ogni caso, di tempo assai lenti e lunghi.
Il territorio della media valle del Biferno, attribuito al controllo amministrativo del
‘municipium’ di Fagifulae, che coincide fedelmente con la ‘touto’ sannitica dei
‘tifernatium’, rappresenta la parte del confine nord-orientale della “Quarta Regio”.
Nella bassa valle, poi, il fiume divideva la Frentania abruzzese dalla ‘Apulia’.
Le strutture funzionali del centro abitato, che assume il ruolo, nuovo, del controllo
amministrativo sul territorio, e l’organizzazione dei rapporti sia tra insediamenti diversi
che (l’ultima romanizzazione ha imposto questa ‘nuova’ categoria di strutturazione) tra
l’abitato vero e proprio e la campagna, a causa delle trasformazioni modificative in
continua evoluzione, sono caratterizzate da lunghe dinamiche di cambiamenti costanti.
Nella prima fase il percorso dello sviluppo urbano vede “un grosso recupero,
soprattutto là dove Silla era stato più cruento e la cultura sannitica più resistente”54. Per
riuscire ad individuarne le dinamiche tra le cause e gli effetti, occorre tener presente tutti
i fattori di condizionamento e, non ultimo, il fatto che da subito “la romanizzazione fece
rapidi passi avanti anche in altri settori: tra le trasformazioni culturali sono da includere
la rapida sostituzione dell’osco con il latino in tutti i mezzi di comunicazione di massa,
l’adozione molto diffusa del culto imperiale e la comparsa di una struttura sociale più
complessa guidata da famiglie senatoriali e basata sulla schiavitù”, senza dimenticare,
tuttavia, che “i personaggi di rilievo di origine autoctona sono più numerosi di quanto si
sia supposto in precedenza”55.
E, se è vero che “il processo di trasformazione augusteo incise molto sulle zone
montane e forse anche su Larinum, dove Ottaviano (più tardi Augustus) divenne patrono
della città all’inizio del 30 a.C.”56 e che, occorre tenerlo presente, è confinante con
Fagifulae, la presenza, come già si è visto, del “curator Templi Divi Augusti” nell’agro
limosanese di pertinenza di quest’ultimo ‘municipium’ permette di ipotizzarlo alle
dirette dipendenze imperiali. Sembra, cioè, non potersi escludere un ruolo attivo di un
insediamento, più piccolo e satellite del ‘municipium’, alla sinistra del fiume.
La totale integrazione e la lealtà agli ideali del giovane regime imperiale da parte
dell’aristocrazia locale, le permettono “di partecipare non solo all’amministrazione dei
municipi” ma anche all’imposizione di quel particolare, e nuovo, sistema economico
dello sfruttamento terriero dei ‘latifundia’. Isole di grandi proprietà (ma il concetto di
grandezza è assai relativo tanto che occorre considerare che “il sistema più sensato di
amministrare la terra rimase quello dei poderi di media grandezza”), dominate dalle
‘villae’, ai margini dell’insediamento, diffuse in una scacchiera discontinua composta di
campi, di prati, di selve, di macchie cespugliose e di territori. La permanente crisi
demografica farà che “dal II sec. d.C. molti piccoli siti sparsi furono abbandonati; questo
processo continuò anche nel III sec., quando nei santuari rurali compaiono gli ultimi
segni di attività. (...). Benché <tali strutture> entrino in crisi nel tardo II e III sec. d.C., la
presenza umana si è protratta ben oltre, anche in misura consistente. La spiegazione più
probabile è che, come i piccoli coltivatori abbandonarono le loro piccole case coloniche
54
BARKER G., La valle... cit., pag. 273.
BARKER G., La valle... cit., pag. 273.
56
BARKER G., La valle... cit., pag. 273.
55
isolate e probabilmente i poderi annessi, i più potenti ebbero la possibilità di ampliare le
loro proprietà utilizzando gli schiavi come forza lavoro per produrre il surplus
necessario al sostentamento dei loro alti tenori di vita, sia localmente che a Roma.
La qualità della vita nelle città della valle era migliorata dalla munificenza
dell’élite, ma i ricchi senatori... quasi certamente portarono fuori della regione più di
quanto restituirono, secondo un modello di sfruttamento che stava diventando del tutto
normale nella storia successiva della valle”57. Ed in una situazione complessiva, che non
registrerà nessun cenno di sviluppo demografico (quanto, piuttosto, un lento e continuo
regresso), “il divario tra ricco e povero nella valle si è probabilmente allargato, e quasi
certamente si è avuta una grossa riduzione della popolazione libera.
Si è tentati di interpretare quello che conosciamo della storia più tarda delle città
della valle come un parziale riflesso della conseguente instabilità sociale ed economica.
Lo scopo principale della colonizzazione vespasianea nel Samnium era probabilmente la
rivitalizzazione. (...). Questi interventi sono stati spiegati in vario modo; di recente è
stata ritenuta una misura per alleviare la povertà rurale con lo scopo di reclutare la classe
contadina (a), oppure elargizione imperiale piuttosto che una risposta alla crisi
economica e demografica (b). Comunque sia, non c’era stata nessuna ripresa della
piccola proprietà nella valle, almeno in termini di insediamento sparso individuabile
archeologicamente”58.
Sin qui, e si è arrivati al V-VI secolo, gli effetti dell’atteggiamento politico
‘romano’ sul divenire, più o meno rallentato nel tempo dalle conseguenze dei grandi
sconvolgimenti naturali (alluvioni, terremoti,…) che ebbero ad interessare il Sannio e,
nel particolare, anche la media valle del Biferno, della strutturazione organizzativa nella
geografia antropico-insediativa.
E così come è difficile individuare l’influenza della ‘rivoluzione’ dovuta alla lenta
penetrazione, comunque in condizioni di crisi, delle idee del Cristianesimo su tali effetti
risulta anche difficile negarla. Di certo esse si inseriscono, ed è un fatto di cui occorre
tener conto, in una generale situazione di regressi e di forti estremizzazioni. Dal punto di
vista dell’insediamento, ora ci si trova di fronte, a differenza del caratteristico modo, in
ogni caso omogeneo, di essere ‘vicatim (= sparsi)’ sul territorio dei Sanniti, al contrasto
tra i ‘municipia’ con centri abitati, abbelliti dalla munificenza doviziosa pubblica, e la
campagna privata, più o meno desolata. L’organizzazione della società è giunta alla
concentrazione massima di tutta la ricchezza (proprietà fondiaria e circolazione, al limite
del fermo, della massa monetaria) nelle disponibilità di soli pochi ricchissimi ed al
diffondersi di un elevato numero di poveri costretti ad emigrare, quando non alla
schiavitù. La scala sociale è fatta da una classe elitaria, che progetta (e realizza) per altri
l’insediamento, dispone dei ‘latifundia’ e risiede, gestendone l’intero surplus delle
produzioni, nelle ‘villae’, e da ‘liberi’ sottopagati e con pochi mezzi economici, i quali
abitano le ‘urbes’, o da ‘servi (= schiavi)’ diseredati alle dirette dipendenze, anche di
57
BARKER G., La valle... cit., pag. 274, passim.
BARKER G., La valle... cit., pag. 275. Il Barker cita: (a) Patterson J., Crisis, what crisis? Rural change
and urban development in imperial Apennine Italy, in Papers of the British School at Rome 55, pagg. 11546; e (b) Woolf G., Food, poverty and patronage: the significance of the epigrafy of the Roman
alimentary schemes in early imperial Italy, in Papers of the British School at Rome 58, pagg. 197-228.
58
residenza (anticipazione della ‘curtis’), di quella.
Fino a quando, almeno la metà del IV secolo, momento storico in cui “in Samnio”
sono documentati sconvolgimenti a causa di distruttivi fenomeni tellurici, la regione
viene sfruttata da una agricoltura “di rapina” il cui prodotto è destinato altrove, non può
non essere stata ancora attiva una fitta ragnatela di ‘vie’ per collegamenti commerciali
ed umani, delle quali le principali corrono a breve distanza dai corsi d’acqua.
Nel progredire, che ha portato a tali risultati nelle ‘geografie’, si sono inserite,
trovando fertilità nelle condizioni che hanno prodotto il passaggio dalle orizzontalità alle
verticalità59, le idee ‘sociali’ del Cristianesimo, le quali, per radicarsi, approfittano e, non
potrebbe non esserlo, anche favoriscono i fenomeni delle estremizzazioni nella nuova
società. Pure il comunitarismo fideistico, con il quale partono, nelle marginalità è, oltre
che un modo, un mezzo di affermazione.
Il tentativo di una ricostruzione del paesaggio antropico, che la totale mancanza di
documentazione rende, in ogni caso, necessariamente incompleto, non può prescindere
dall’indagine archeologica sui luoghi di rinvenimento dei pochi reperti (si veda il più
volte citato ‘Repertorio’ del De Benedittis) combinandone e rapportandone i risultati con
i siti cenobitico-monasteriali e, più in generale, di tutte le altre istituzioni, civili ed
ecclesiastiche, alto medioevali. Anche se, comunque, si è destinati ad incontrare enormi
difficoltà per il semplice fatto che latitante o, nel migliore dei casi, orientata verso
esigenze particolaristiche risulta essere la prima; e quanto ai secondi, completamente
dimenticati dalla ricerca, non se ne rilevano indagini degne.
Non sembra solo una circostanza rivelatrice di casualità quella che consente di
stabilire un nesso di collegamento dei probabili siti di insediamenti romani con i ‘loci’
delle prime strutture delle organizzazioni monastiche. E questo specialmente per l’area
‘tiferno-fagifulana’, relativamente alla quale lo storico deve, per il significato ad esse
attribuibile, fare i conti con almeno due anomalie: 1) la storiografia classica non ‘trova’,
ed è circostanza assai singolare, per il ‘municipium’ di Fagifulae, a differenza di tutti gli
altri ‘municipia’ molisani (Venafrum, Aesernia, Bovianum, Saepinum, Terventum e
<A>larinum), la relativa diocesi cristiana; 2) sempre a differenza degli altri ‘municipia’
molisani, i quali tutti hanno tenuto diretta continuità con centri abitati ancora esistenti,
per il ‘municipium’ di Fagifulae (e gli insediamenti soggetti al suo controllo) se ne deve
registrare, ed anche questa è circostanza singolare, la definitiva ‘cancellazione’ della
struttura (o, meglio, delle strutture) insediamentale.
Agli immediati margini dell’insediamento di Fagifulae60, per il quale i risultati
59
Un esempio solo: la orizzontalità (ci si è pervenuti dalla ‘foederatio’) della democratica antica ‘res
publica’ viene abbattuta dalla verticalità centralista del nuovo e moderno ‘imperium’.
60
V. nota n. 34. “Allo stato attuale non trova documentazione alcuna la proposta di collocare presso il
sovrastante paese di Montagano un recinto in opera poligonale. Andrà invece esaminato se l’abitato non
avesse strutture analoghe a quelle di “Ferrara”, un centro fortificato poco conosciuto... di cui si conosce un
solo circuito murario disposto a mezza costa, ma di cui sono segnalati altri terrazzamenti più a valle; i dati
raccolti fanno ritenere che il municipio romano sia stato sovrapposto ad un centro italico le cui strutture
avranno condizionato non poco ogni eventuale adattamento agli schemi urbani romani, sempre che ciò
fosse possibile.
Scarna documentazione questa che allo stato attuale delle ricerche appare appena più promettente per il
periodo successivo; oggi siamo tuttavia in grado di ribadire con ulteriori elementi la proposta formulata
dal Carabba nel secolo scorso di collocare presso S. Maria di Faifoli l’antico municipio romano di
dell’indagine archeologica portano a “confermare la preesistenza di un insediamento alle
strutture romane presenti presso S. Maria di Faifoli”, emergerà, ed è la sola, per l’area
‘fagifulana’ (che coincide con l’antico ‘pagus’ sannitico), alla destra del Biferno,
l’organizzazione monastica di “S. Maria di Faifoli”. Di contro, relativamente all’area
‘tiferno-fagifulana’ posta alla sinistra del fiume, troveranno sviluppo (e la circostanza, in
quanto sarebbe a documentarvi il ‘continuum’ di una discreta presenza antropica,
sembra significativa) una serie considerevole di strutture monastiche61.
“Il Monistero di S. Maria di Castagneto, vicino Piniano” ancora nel 89762 e, come
riferimento geografico successivo, “sito, et costrutto prope terram, et pertinentias Casalii
Ciprani”, coevo, per fondazione, di S. Vincenzo al Volturno. Come ‘Beneficio’
ecclesiastico era detto “sub tit.o di S. Maria delle Castagneta, seù dell’Annunciata”.
La “Abbatia, seu Ecclesia S.ti Alexandri”, che deve essere localizzata “nell’agro
di Pietracupa e, più precisamente, nella località Colle Sant’Alessandro, posta al confine
con l’agro di Torella” del Sannio63.
“Come molte altre badie benedettine... sorte sugli avanzi di città, templi o ville, su
quanto restava delle ‘villae’ della ‘Maccla bona’,..., sorsero non più tardi del VII secolo
la ‘Ecclesia Sanctae Mariae in Lumesano loco Maccla bona’, la ‘Ecclesia Sancti
Benedicti de Lemisano ibidem’ e la ‘Ecclesia Sancti Petri de Lumesano ibidem’. La
‘Maccla bona’ era località, assai ampia, nel corpo feudale “in Sala” (o della ‘Sala’),
che, in agro limosanese, confinava con Castelluccio di Limosano. Si noti il toponimo
(‘sala’) che, come ben si vedrà nel successivo capitolo, è di chiara origine longobarda.
La “Ecclesia Sancti Martini Episcopi in Biferno”, o anche “Ecclesia Sancti
Martiani in Castello Mosano”, posizionava su quel “pesclo minore”, che “ben potrebbe
essere identificato con l’attuale ‘Pesco Martino’”64 oppure con la ‘Morgia delle Cese’,
entrambe nell’attuale agro di Limosano.
Il Monastero con la “Ecclesia sanctae Illuminatae infra fines praedicti castri
Limessani, loco ubi dicitur Petra majore, cum omnibus ecclesiis et pertinentiis suis”, che
situava “nelle pertinenze de Limusani poco distante da d.a Terra verso la parte
occidentale, qual distanza importera da 500 passi”.
La “Chiesa di S. Silvestro”, che “era nelle pertinenze della Terra de Limusani
quasi un miglio distante da essa, situata nella parte settentrione sopra una Morgia”.
La “Ecclesia S. Angeli in altissimo super fluvium Bifernum, in campo Morani
cum eadem Ecclesia haereditatem quae est in longitudine milliaria duo, et in latitudine
milliarum unum”.
Fagifulae”.
61
Si veda BOZZA F., Limosano: Questioni... cit., specialmente il Capitolo III.
62
DI MEO, Annali … cit., ad hoc annum.
63
BOZZA F., Anche nell’agro di Pietracupa un complesso badiale?, in Vita Diocesana, quindicinale della
Diocesi di Campobasso, 15 Ottobre 1998, pag. 7; SARDELLA B., Una fibula altomedievale a protomi
animali da San Alessando, in Conoscenze 1-2/2005, Campobasso 2007, pag. 113 e segg. Nell’articolo del
Sardella è ben documentato il ‘continuum’ mantenuto nel tempo dal sito; importante, per gli assunti circa
la presenza bizantina in ambito molisano, la natura della ‘fibula’, “databile tra VI ed VIII secolo”, e della
“placca bronzea rettangolare”, che, databile “allo stesso arco cronologico”, “presenta una ricca
decorazione costituita da una croce greca incisa e riempita di pasta vitrea di colore bianco”.
64
BOZZA F., Limosano: Questioni... cit.
E’ un fatto che, più o meno equidistanti dal fiume, tutti questi punti di riferimento
alto medioevali (non solo ‘monastico-sociali’, ma, anche e soprattutto, economici, se è
vero che, nella ‘Maccla Bona’, intorno al 1153 si ha ancora la “curtem Sancte Marie in
Sala”65), ai quali è pure possibile associare la “Ecclesia Sanctissime Trinitatis iuxta
fluvium Bifernum” e la “Ecclesia Sancti Petri in Balneo in Valle luparia”, entrambe da
localizzare più a valle, emergono (ma la possibilità di riferirli al monachesimo
‘equiziano’, ‘basiliano’ e, comunque, di matrice ‘greco-bizantina’, consente di dirli
emersi già da qualche secolo) in quella istituzione amministrativa, di lunga durata, del
“Biffernensis gastaldatus”, documentato già nel novembre del 77466 (ma di certo – si
veda la annotazione (e) alla nota 67 – esistente sin da prima di quel 718, in cui si ha la
data del documento “acto in gualdo ad Biferno”)), la quale mantiene la continuità, nel
riferimento ad un preciso territorio in cui sembra essere già venuto meno il ruolo di
Fagifulae, dell’etimo di “ti-phern-um”, che si è venuto evolvendo in “bi-fern-um”.
Tutto ciò sarebbe confermato dal fatto che “un distretto longobardo che forse
corrisponde territorialmente a quello del municipio di Fagifulae è probabilmente il
Gastaldatus Bifernensis, citato in un documento, forse falso (nota: ma quello del 718
risulta autentico), del novembre 774 firmato dal principe Arichi di Benevento (in
gastaldato Bifernensi) (a) e ricordato anche in un altro del maggio 878 sottoscritto dal
principe Adelchi di Benevento a Trivento (b) in cui viene ricordato Campobasso (ex
finibus Campibassi et ex finibus Biffernensibus) (c). La denominazione (Bifernensis) ci
permette di ipotizzare che esso si riferisce ad un territorio diverso dal Gastaldatus
Bovianensis (d) e che sia da collocare a cavallo del fiume Biferno, tra quello di Boiano e
quello di Larino (e) e confinante a nord con Trivento,...” 67. Praticamente lo stesso della
“ti-phern-um” posizionata in quella Cascapera che non è molto distante da S. Angelo in
Altissimo, per indicare il quale viene sempre usato – e la circostanza non può non avere
significato – il parametro geografico di “super fluvium Bifernum”.
La trasformazione dell’etimo (da “ti-phern-um” a “bi-fern-um”) è, nel tempo, da
inquadrare, molto probabilmente, in quella fase storica (secoli V-VII) di trasformazioni
65
KEHR P.F., Papsturkunden in Italien, Reiserberichte zur Italia Pontificia, Acta Romanorum
Pontificum, Vol. 5, Città del Vaticano 1977, IV, pag. 69, doc. XXII di Montecassino.
66
UGHELLI, Italia Sacra, X, col. 425.
67
DE BENEDITTIS G., Repertorio... cit., pag. 26. Il De Benedittis, documentatissimo, cita: (a) Ughelli,
X, col. 25; Voigt K., Beitraege zur Diplomatik der langobardischen Fursten von Benevent, Capua und
Salerno, Inaug. Diss., Gottingen 1902, nnr. 1-22; Poupardin R., Les institutions politiques et
administratives des Principatés Lombardes de l’Italie méeridionale, Paris, Champion 1907, nr. 3 ; Borgia
S., Memorie istoriche della pontificia città di Benevento dal sec. VIII al sec. XVIII, Roma 1763, I, pp. 269305; (b) Smidt W., Das Chronicon Beneventani monasterii S. Sophiae: Eine quellenkritische
Untersuchung, Berlino 1910, p. 118; Bertolini O., I documenti trascritti nel ‘Liber praeceptorum S.
Sophiae’, Studi di storia napoletana in onore di M. Schipa, Napoli 1926, p. 34; (c) Ughelli, X, col. 438;
Voigt, nr. 70; Poupardin, nr. 55, il quale è stato il primo a prendere in considerazione dell’esistenza del
gastaldato bifernense (p. 36); (d) Erchemperti, Historia Langobardorum Beneventanorum, ed. G. Waitz,
in M.G.H., 29; Chronica Monasterii Casinensis, ed. H. Hoffman, M.G.H., Hannover 1980, I, 35. E ad (e)
annota: <In una donazione risalente all’anno 840 di un Gualdum in finibus Larinensibus si ricorda un
actus larinensis: “... et cuncta que ibidem in actu larinense ex ipso quintodecimo gastaldato pertinent”
(Ughelli, X, col. 470; Voigt, 58; Poupardin, 42), zona forse ricordata anche in un documento del 718
(Leccisotti D.T., Le colonie cassinesi in Capitanata, Montecassino 1937, I, p. 29; acto in Gualdo ad
Biferno).
culturali (e, propriamente, linguistiche) radicali imposte “in loco” dalle occupazioni
barbariche e, più di tutti, dallo stanziarsi della “Langobardorum gens”. Ne sarebbe
prova, oltre allo specifico di alcune caratteristiche impostazioni idiomatico-fonetiche (è
ben noto che le lingue slavo-nordiche ‘prediligono’ le gutturali e le labiali assai più delle
dentali), proprio quella particolare espressione (“acto in Gualdo ad Biferno”) del
documento del 718 (v. nota 67-e), che testimonia la già avvenuta assimilazione da parte
del tardo latino di parole, come ‘gualdo’ appunto, tipiche dei Longobardi nella istituita
unità amministrativa “ad Bifernum”. Dove le crisi ripetute del periodo dei secoli dal V
al VII trovano una discreta presenza insediamentale, alla quale, e solamente ad essa, è
possibile attribuire quel rigoglioso e, lo si vedrà, singolare diffondersi del cenobitismo
(di diversa matrice) prima e, poi, del monachesimo.
Trova così, nella logica di collegare territori con presenze antropiche organizzate,
motivazione quell’antico “ponte a fabbrica che contava l’epoca della sua fondazione con
quella dell’Impero di Adriano”, di cui (v. nota 48) già si diceva.
Ed in una condizione più generale, in cui “la documentazione sui primi secoli del
Cristianesimo per le diocesi molisane cessa verso il VI sec. d.C. per riprendere poi nel X
sec. e più precisamente verso la seconda metà del secolo citato (a)” e che vede “le
diocesi molisane documentate negli albori del Cristianesimo essere quelle di Venafro,
Isernia, Trivento, Bojano, Sepino e Larino” (e perché non una nell’ambito territoriale del
‘municipium’ di Fagifulae?), trova sufficienti spiegazioni storiche l’ipotesi che,
relativamente alla diocesi di Limosano o, meglio e più propriamente, ad una diocesi, che
non può non essere che “ab antiquo” di Tiphernum, della quale quella di Limosano
riprenderà, in epoca medioevale, ruolo e funzioni, “la prima consacrazione ricordata dal
testo (nota: riportato dal Kehr, come indicato alla nota 29) potrebbe essere riferita ai
primi secoli del Cristianesimo”68. Del resto, una pura e genuina intuizione faceva
scrivere già al Gasdia che “il Lanzoni,..., identifica Tifernum con Città di Castello; ma
se questa città è la nostra sannita, dirò che essa ebbe due vescovi...”69.
Era stata la disponibilità e la percorribilità dell'arteria stradale, che correva lungo il
fiume, e di quell’altra che ( detta “dei Langianesi”) menava ad Anxanum (Lanciano) a
favorire l’arrivo dei presbiteri-predicatori delle innovative dottrine cristiane a Tifernum,
prima che in altre località della media valle, se non già dalla fine del I secolo, almeno sin
dagli inizi del successivo. Vi si allungavano da Saepinum e da Bovianum, dove, per la
strada lungo il fiume Tammaro, arrivavano provenienti da Benevento, qui giunti nel loro
risalire la Via Appia da Brindisi a Roma70.
68
DE BENEDITTIS G., Repertorio... cit., pag. 30, passim. Il De Benedittis cita: (a) Vitolo G., Vescovi e
diocesi, storia del Mezzogiorno, III, Napoli 1990, pp. 75-151.
69
GASDIA V.E., Storia di Campobasso, Verona 1960, pag. 192. L'opera, cui si riferisce il Gasdia è:
LANZONI F., Le diocesi d'Italia dalle origini al principio del sec. VII (604), Faenza 1927.
Per gli approfondimenti sulla diocesi di Tifernum e ‘Musanensem’ si possono vedere, di BOZZA F., i più
volte citati: Limosano nella Storia e Limosano: Questioni di Storia.
70
La ricerca storica, pur caratterizzata da episodicità e frammentarietà oltre che da una visione della verità
deformata dall'esclusivo amore per il proprio campanile o dal solo interesse di parte, già da tempo
indicava come “un discepolo - come è tradizione - del Principe degli Apostoli portò la fede evangelica ai
Boianesi” (DI FONZO L., Memorie cristiane e francescane di Bojano..., in L'Avvenire, Roma, del 6
febbraio 1941, pag. 3) e, più generalmente nel Sannio Pentro, proveniente da Benevento, che,
probabilmente con Fotino, già “nel primo secolo ebbe il suo vescovo” (TIRABASSO A., Campobasso
Erano in ciò agevolati, oltre che dalla strada, dalla posizione stessa di Tifernum,
avendo questo insediamento, nel disegno della geografia della valle in cui operano le
complesse dinamiche di processi storici attivi in una realtà alla quale è stato dato (e, si
vedrà, sta per iniziare a subirne diversi tra il V ed il VII secolo) un modello di sviluppo,
che, nonostante i vari interventi pubblici (si veda il più volte citato Barker), mai porterà
ad una ripresa demografica tale da farne invertire l’andamento, una collocazione più
decentrata rispetto a Fagifulae, “municipium” e centro amministrativo ‘ufficiale’. La
circostanza per cui fosse anche meno accessibile e, perciò stesso, poco controllabile
dalle autorità (anche a Roma i centri di culto, i punti di riferimento e le stesse catacombe
del primo Cristianesimo erano situate lontane dalla ufficialità del ‘centro’, alla periferia
e lungo le principali arterie stradali) vi favorì l’organizzazione di una comunità e delle
prime strutture, più o meno clandestine, della nuova fede.
La penetrazione della nuova religione e delle sue idee rivoluzionarie, specie nel
sociale, accolte come elemento coagulante di attenzioni per rifiutare la non gradita
romanizzazione, venne senza dubbio facilitata dalle difficoltà incontrate da quest'ultima
e, per Tifernum, dal suo probabile sentimento di ostilità verso Fagifulae, in quanto
preferita dalle autorità.
Tutte queste condizioni favorevoli portarono alla formazione di una vera e propria
comunità cristiana, guidata dal suo ‘presbitero (= anziano)’ e da alcuni ‘diaconi (=
servitori)’. Quella ‘ecclesia (= riunione)’, in quanto riferibile ad un ‘municipium’ (anche
se per le autorità lo era Fagifulae) e ad un suo ben preciso ambito territoriale, venne
affidata alla amministrazione di un ‘episcopus (= amministratore)’, che nel tempo
diventa il capo del relativo distretto o “diocesi”.
Ed essa, la diocesi di Tifernum, retta e governata dall’episcopus ‘tiphernatium’
(= dei ‘tifernati’; e ciò, si noti, nella duplice accezione di abitanti di una ben precisa e
ben determinata area e di entità amministrativo-insediamentale contrapposta all'altra dei
‘fagifulani’), nata, al più tardi, durante il II secolo come “tifernate”, maggiormente
diventa ed è tale da quando, a partire dal IV secolo, il Cristianesimo diventa la religione
‘ufficiale’ dell'Impero e la Chiesa con la sua gerarchizzazione verticistica viene
appropriandosi del territorio e si fa struttura organizzata, iniziandosi lo spostamento
verso di essa della titolarità patrimoniale, alla quale nel tempo seguirà anche quella
demaniale, dalla istituzione ‘stato’ sempre più burocratizzato e sempre meno presente71.
Risalendo il corso del fiume Biferno, più a monte ed alla sua sinistra (nei territori
di Castelluccio di Limosano e di Castropignano) è più che probabile che continuassero a
sopravvivere, sempre controllati dal ‘municipium’ di Fagifulae, altri insediamenti più
modesti, ai margini dei quali i ‘latifundia’ e le ‘villae’ vedevano discreta diffusione. E’ il
caso di aggiungere che “la Tavola Peutingeriana tardo romana riporta una strada che
collegava Larinum con Bovianum… E, come attesta la distribuzione degli insediamenti
minori, ha continuato ad essere in uso anche una rete di piste e di strade minori”72.
sacra, Campobasso 1929, pag. 7).
71
BOZZA F., Limosano: Questioni… cit.
72
BARKER G., La valle… cit., pag. 236. Il Barker, che fa il punto della ricerca edita dotta (citando Miller
K., Itineraria Romana, Stuttgart 1916, str. 63b) tende, contrariamente alle risultanze delle indagini più
localistiche (se ne è già accennato), a collocare la strada principale “lungo lo spartiacque del lato orientale
della valle”.
Ma quali le cancellazioni e, forse con maggiore proprietà, i mutamenti nelle
geografie socio-economico-antropiche favoriti, se non determinati, dal Cristianesimo?
Va detto subito che la mancanza di conoscenza dei fattori (fisico-naturali, economici e
sociali), che muovono l’avanzare del carro della storia, rende di estrema difficoltà una
ricostruzione che, prima, determini le influenze e, poi, giunga a fissarne, seppur con una
certa approssimazione, il risultato terminale cui si perviene tra la seconda metà del IV e
la prima del V secolo. Risulta possibile solo indicare pochi elementi.
Pare non potersi dubitare del fatto che mentre “l’attenzione dell’élite sembra
essere ancora rivolta agli ambienti religiosi municipali… tutti i santuari minori,…,
sembrano essere stati abbandonati dalla metà del III sec. d.C.”73. A tale mutamento di
espressione religiosa e comportamentale, che da effetto diventa, poi, la causa di altri
cambiamenti, con anche le relative cancellazioni, fu proprio estraneo il Cristianesimo?
A partire del IV secolo, sono entrate definitivamente in crisi la ricchezza e
l’urbanizzazione, espressione, lo si è visto, della munificenza tanto pubblica quanto
delle aristocrazie locali e che si esprimeva negli eleganti edifici, nella sontuosità del
marmo e delle statue in bronzo, nei mosaici e nei ricchi monumenti funerari, che,
documentati sia a Fagifulae, sede del ‘municipium’, come nelle altre zone assoggettate
al suo controllo e rientranti in un modello di sviluppo imposto e non radicato, quasi non
accettato, sul territorio, “fanno supporre che la prosperità delle élite urbane continui
anche nel III sec. d.C.”74 e dopo si interrompe. Tanto che il ‘municipium’ di Fagifulae,
come dimostra il fatto che “tombe del tardo VI – inizio VII sec. sono state trovate a
Fagifulae e vicino a Castropignano”75, inizia ad uscire dalla scena della storia.
Della cancellazione di Fagifulae le cause saranno state certamente altre e di natura
assai diversa (altrove76 si accennava a probabili sbarramenti franosi del Biferno, ma non
possono escludersi alluvioni e sconvolgimenti tellurici), pur tuttavia e mentre gli altri
‘municipia’ resistono e ‘restano’, non può non registrarsi come il ‘municipium’ di
Fagifulae, l’unico tra quelli molisani mai sede di ‘diocesi’ e, in certo senso, il solo ad
essere stato quasi marginalizzato dal Cristianesimo, scompare. Definitivamente.
Al territorio di quest’altro lato della valle il radicarsi del Cristianesimo, con la
istituzione della ‘diocesi’ di Tifernum, darà una prospettiva assai diversa (si accennava
alla differente presenza, limitata alla destra del Biferno e molto diffusa alla sua sinistra,
del cenobitismo e del monachesimo).
E stava profondamente cambiando lo scenario; anche della macro Storia. “Nel
313, l’imperatore Costantino realizzò una ‘nuova Roma’ a Costantinopoli… e Ravenna
73
BARKER G., La valle… cit., pag. 245. “I dati ricavabili dalla ceramica fine e dalla ceramica comune
suggeriscono comunque che due terzi di tutti i siti rurali del primo impero non sopravvivono oltre il III
sec. d.C., e diversi sembrano essere stati abbandonati molto prima. La ricerca può offrire solo un quadro
approssimativo di queste forme d’insediamento, ma gli scavi archeologici… fanno ipotizzare che dal 250
d.C. il territorio dell’alta valle sia stato poco popolato rispetto al primo Impero. (…). L’aggregazione degli
insediamenti potrebbe aiutare a spiegare gli abbandoni, ma dove possiamo verificare questa ipotesi i segni
sono soprattutto di decadenza piuttosto che di ascesa”(pag. 248).
74
BARKER G., La valle… cit., pag. 249.
75
BARKER G., La valle… cit., pag. 261.
76
BOZZA F., Limosano: Questioni… cit.
divenne la capitale dell’Occidente nel 402 d.C.”77, mentre la ‘vecchia Roma’ rimaneva
ad essere la capitale, la “caput mundi”, del solo Cristianesimo.
Una coincidenza il fatto che da qualche anno appena il Cristianesimo appunto sia
diventata la religione ‘ufficiale’ dell’Impero, abbandonato e ripudiato dalla ‘romanitas’?
Ed è sempre, e solo, una semplice coincidenza che questa e, meglio, quanto di essa
restava sia portata via da Roma e trasferita nella lontana Costantinopoli?
Difficile dire se sia stato a causa del Cristianesimo, ma è certo che gli antichi
santuari avevano smesso, spazzati via e rimpiazzati da chiese rurali, di essere punti di
riferimento e di aggregare ricchezze ed uomini; è certo che Fagifulae, che mai è stata
una sede di ‘diocesi’, scompare, spazzata via, nel fiume che avanza impetuoso e tutto
rimescola; ed è certo pure che Roma, l’ “alma et invicta Roma”, non è più la capitale del
‘Romano Impero’.
Ed è, da ultimo, certo che il ‘civile’ ed il ‘religioso’, di fatto, non coesisteranno più
nelle rispettive autonomie. E per un tempo assai lungo. Fatto di secoli.
77
BARKER G., La valle… cit., pag. 276.
Probabile localizzazione del sito di ‘Tiphernum’ e delle battaglie descritte da Tito
Livio con il posizionamento delle stazioni intermedie di “Ad Canales” e “Ad Pyrum”
della Tabula Peutingeriana sul tratto dell’antico percorso viario.
Reperto di antica colonna (tra i tanti rinvenuti in zona: iscrizioni, monete, ceramica a
vernice nera, tegoli, …) trovata nell’area di Cascapera, dove è possibile localizzare il
sito dell’insediamento di “Tiphernum”.
CAPITOLO II: L’alto Medioevo e le affermazioni dei ‘barbari’
2.1 – I Greco-bizantini e il rito greco
Nel contesto delle geografie, antropiche e fisiche, caratterizzato dal regredire delle
centralità e dal contemporaneo avanzare delle marginalità, il Cristianesimo ha, se ancora
non definitivamente cancellato, in ogni caso favorito la crisi delle ‘ufficialità’. Sta così
affermandosi il monadismo delle chiese rurali (l’eremitismo prima e, poi, il cenobitismo
ed il monachesimo ne saranno una conseguenza) in un modello di sviluppo orientato,
sempre di più, verso l’autosufficienza in una condizione di stasi demografica e, fattore
da non sottovalutare, di generale raffreddamento del clima.
Ma è ancora il modo di essere ‘vicatim’? Assolutamente no! Se è vero che ora a
condizionare le relazioni, più che (ancora non è entrato, come categoria, nel patrimonio
culturale) il concetto di ‘proprietà’ (che, nella attuale accezione, deve ancora venire ad
affermarsi nel tempo, mentre i periodi precedenti andrebbero letti con la categoria della
‘disponibilità’), è sempre con maggiore frequenza quello del ‘possesso’ materiale ed, a
questo collegati, gli altri della ‘gerarchia’ e dello ‘sfruttamento’ (che, però, deve essere
visto sgombro della sua parte negativa e di ‘classe’), tutti facilmente identificabili nel
‘rapporto’ tra il ‘dominus’ ed il ‘servus’.
Questo in una situazione di geografia fisica, in cui, entrati in crisi sia il sistema
economico-produttivo (dei latifundia e delle villae) che la centralità stessa del potere, al
degrado dell’ambiente umano, riferibile a periodo di tempo assai lungo, ne corrisponde
uno fisico che (saranno sufficienti solo pochi decenni) vede, sempre di più, il contrarsi
del seminatorio a vantaggio della macchia e del bosco. Con, al suo interno e dove
occorre registrare, favorito da una assai ridotta mobilità, un aumentato avvertire del
senso della distanza fisica, solamente poche (e quasi minime) isole abitate, collegate tra
loro da una rete viaria per forza di cose fatiscente; ed il commercio a distanza - media e
breve - si è pressoché azzerato.
L’Impero, dopo aver assimilato, pur tra adesioni e contrasti spesso assai forti, il
Cristianesimo e nel preciso momento in cui quest’ultimo ne diventa la religione
‘ufficiale’, non trova migliore comportamento, quasi ne fosse stato scacciato, che
allontanarsene e fuggire dalla “vecchia Roma”, dove, e, più generalmente, nella Italia
tutta, viene lasciata per la gestione delle cose politiche una classe senatoriale, peraltro
già tradizionalmente assai forte. Così, Costantinopoli, la “nuova Roma”, fu fatta capitale
della ‘pars Orientis’ (con, cosa assai curiosa, quasi un ritorno nei luoghi stessi dove il
Cristianesimo aveva mosso i primi passi) e, abbandonata la vecchia Roma ad un destino
fatto di marginalità e di disgregazione, dopo Milano “Ravenna divenne la capitale
dell’Occidente nel 402 d.C.”78.
Pur se “è probabile che il peso dell’aumento del carico fiscale dopo l’eliminazione
dell’esenzione dell’Italia dalla tassa sulla terra abbia incentivato in questo periodo il
commercio e che le vie mercantili dell’Adriatico siano divenute più importanti” a causa
della nuova situazione politico-amministrativa generale, la media valle del Biferno
78
BARKER G., La valle… cit., pag. 276.
sembra non averne beneficiato e, se ne risentì qualche effetto, dovette essere cosa di
scarsa rilevanza. Così come “non sembra abbiano inciso molto sull’insediamento rurale”
e sul modello ambientale e produttivo di tale area né “i consistenti investimenti che si
ebbero intorno alla metà del IV secolo” ed, ancor meno, il fatto che “nel 413 d.C. Onorio
concesse al Samnium, all’Apulia ed a altre regioni dell’Italia centro-meridionale il
condono di quattro quinti di tutte le tasse per cinque anni, con effetto dal 411-12”79. Il
motivo vero dei mancati effetti di tali interventi va individuato nel fatto che li si
applicavano ad una realtà deteriorata e con evidenti segni di squilibrio; pertanto non
potevano servire che a solo tamponare, a magari ritardare e, di certo, non ad invertire il
generale andamento delle cose. E tutto questo, perché non proponevano, così come stava
per realizzare il Cristianesimo con la ‘curtis’, nessun modello di sviluppo.
Lo spostamento, dalla ‘vecchia’ alla “nuova Roma”, della ‘sede’ dell’Impero
comporta sia l’abbandono del Cristianesimo ‘occidentale’ (o ‘romano’), che era venuto
a radicarsi sul territorio assimilando, almeno in parte, la ‘cultura’ e, con essa, i modi di
essere della ‘romanitas’ e, ne è testimonianza il fatto che ancora “nel 459 Papa Leone I
dirige una sua lettera pastorale”80 alle diocesi dei vescovi “per Samnium”81, con la quale
denunciava devianze e modi di vivere pagani, questi ultimi appunto nelle pratiche di
fede, e sia l’accettazione, con la conseguente assimilazione ed integrazione, di quel
Cristianesimo ‘orientale’ (o ‘greco-bizantino’), il quale, per parte sua, era riuscito a
mantenere, pur con qualche compromesso (ma pochi) con le innovazioni, lo spirito
originario e più autentico, quasi più genuino, di tale religione.
Svincolato dal potere e da questo, nella sua fase di crisi più significativa, quasi
abbandonato (o, quantomeno, ignorato) a se stesso, il Cristianesimo occidentale viene a
trovarsi nella condizione di diventare, a sua volta, esso stesso ‘potere’. E ciò in una
realtà curiosamente caratterizzata, per l’Italia (che sta subendo visibilmente la
concorrenza economica e l’esplosione demografica della periferia), dal regredire, in un
contesto generale di significativi peggioramenti climatici in una fase (dal III-IV all’VIII
secolo) di piccola glaciazione, delle geografie fisico-produttive ed antropiche, che le
rendeva indistinte, e fatta di situazioni indefinite: due imperi con, ognuno, la sua sede
decisionale (Costantinopoli-Bisanzio e Ravenna), due ‘cristianesimi’ (quello orientale,
assai ‘originario’, e l’altro occidentale, più romanizzato o, meglio, più colluso con la
‘romanitas’), cristianesimo e paganesimo. Gli spazi intermedi lasciati liberi ed i vuoti di
potere di quelle situazioni vengono ad essere occupati, si riesce così a comprendere la
ripetitività del fenomeno, dai ‘barbari’.
Le incursioni barbariche, nonostante la storiografia, romanocentrica e costruita
prevalentemente dalla (e sulla) tradizione cristiana, ne tenti di contrarre nel tempo il
divenire, rappresentano un fenomeno di lunga durata, coevo e che, per tanti versi, si
79
BARKER G., La valle… cit., pag. 276, passim. Il Barker parla di “nuovo impulso al commercio, che in
qualche misura deve aver inciso sulla bassa valle, viste le consistenti importazioni di ceramica africana e
di anfore dal 400 d.C. circa”.
80
FERRARA V., La diocesi di Trivento…, in AM 1987.
81
Tra i quali BOZZA F. (v. Limosano: Questioni… cit.) ricomprende anche l’ “episcopus tiphernatium”,
quale titolare di una di quelle “molte diocesi nel Molise esistite sin nei primi tempi del Cristianesimo (IV e
V secolo)” (v. nota precedente).
manifesta insieme o, meglio, parallelamente al Cristianesimo82. E, se quest’ultimo della
‘romanitas’ mette in discussione e, con la sollecitazione di un nuovo ordine sociale ed
economico, ne rompe le identità socio-religiose, le invasioni e, con il relativo stanziarsi,
le conquiste dei barbari ne contaminano e ne mettono in discussione le identità culturali.
E’ ciò tanto vero che gli effetti se ne potranno avvertire maggiormente nella pars
occidentale, dove la crisi delle centralità e delle rappresentatività del potere è assai più
evidente, che in quella orientale dell’Impero. Senza sottovalutare tanto il decadimento
morale, documentabile con il forte incremento del numero degli infanticidi, quanto gli
effetti dello spostamento dei soldati e, con essi, delle forze destinate alla riproduzione,
per difenderle, verso le periferie del confine, dove, contrariamente che in Italia, si ha
quella esplosione demografica che è causa delle migrazioni di interi popoli.
Prima delle gentes Langobardorum, tra le diverse popolazioni barbariche che si
misero in marcia e, con fenomeni assai complessi fatti di migrazioni di massa e per
conquiste, presero la direzione della penisola italica, potendosi assegnare ruoli ed effetti
marginali e quasi ininfluenti a tutte le altre (Vandali, Unni, Eruli), quella, che lasciò
maggiormente il segno sul territorio, che è ancora il “Samnium”, fu certamente la stirpe
dei “Goti”, pur nella distinzione tra Visigoti ed Ostrogoti. E, se già accadeva, quando, e
perché, la gestione politica del potere era ancora a Roma, che nel “CCLV. III [nota: 258
(e non 253, come ricostruisce il Bertolini)] <mentre sono imperatori> Valeriano e
Gallieno, i Goti, dopo aver attraversato le Alpi, devastarono la Grecia, la Macedonia, il
Ponto, l’Asia e anche l’Illirico per 15 anni” e solo nel “CCLXX. III (nota: 273, data che
coincide con quella di quindici anni dopo del 258), <l’imperatore> Claudio con grande
valore supera i Goti”83, è agli inizi del V secolo, ossia nel momento in cui Roma subisce
la privazione di ogni potere decisionale e di ogni autorità politica, che “il 24 agosto del
410, …, malgrado un tributo versatogli dal senato perché desistesse dai suoi propositi, il
capo goto Alarico entrò coi i suoi a Roma e per tre giorni sottopose la città a un pesante
saccheggio”84, che “suscitò ovunque scoramento, terrore e scandalo, e inferse una ferita
insanabile alla psicologia dei sudditi dell’impero, che vedevano allora messa a ferro e
fuoco per mano dei barbari la culla dell’impero romano e cristiano”85.
Alarico con le orde dei suoi Visigoti non si ferma a Roma e, disseminatala di
spoliazioni, di rovine e di ‘cancellazioni’, diretto in Africa “si spinge a devastare anche
82
Basti pensare, perché ce se ne possa fare una idea, all’interesse di Tacito per le popolazioni germaniche
ed al suo De origine et situ Germanorum liber, opera meglio nota come Germania.
83
Annales Beneventani monasterii Sanctae Sophiae, in Bullettino dell’Istituto Storico Italiano e Archivio
Muratoriano, n. 42 (a cura di Bertolini O.), pag. 104. “CCLV. III, Valerianus et Gallienus, Gothi descensis
Alpibus Greciam, Macedoniam, Pontum, Asiam atque Illiricum vastaverunt an. XV” e “CCLXX. III,
Claudius Gothos mirabili virtute superat”.
84
AZZARA C., L’Italia dei barbari, Bologna 2002, pag. 11. “La minaccia alariciana, che nel 401 si era
abbattuta sull’importante centro di Aquileia, era stata solo momentaneamente contrastata da un generale
romano, ma anch’egli barbaro di origine, il potentissimo Silicone, che aveva riportato successi sui goti –
evidentemente non risolutivi, anche se salutati con enfasi – sull’Adda, a Pollenza e a Verona, tra il 402 e il
403. Qualche anno più tardi, continuando a gravare sulla penisola il pericolo rappresentato da Alarico,
Silicone aveva ricercato un accordo con il nemico, promettendogli anche il versamento di una somma di
quattromila libbre d’oro”.
85
AZZARA C., op. cit., pag. 12.
la Campania, il Sannio, la Lucania, il Bruzio”86, che corrisponde all’attuale Calabria,
dove sul fiume Busento, nelle vicinanze di Cosenza, trova la morte.
Per una idea, seppur pallida, degli “effetti del debilitante passaggio dei Visigoti di
Alarico del 410-412 d.C.”87, è sufficiente ricordare quanto già si diceva (v. nota 2) e,
cioè, che “nel 413 d.C. Onorio concesse al Samnium, all’Apulia ed a molte altre regioni
dell’Italia centro-meridionale il condono di quattro quinti di tutte le tasse per cinque
anni, con effetto dal 411-12 (Cod. Theod. 11.28.7)”88. Con tutta evidenza è la prova
dell’aggravarsi, seppur ci si trova solo agli inizi, di quella situazione, in cui “è difficile
non supporre un notevole ulteriore decremento di popolazione sia nelle campagne che
nelle città, dove i monumenti pubblici in rovina”, romano-pagani e romano-cristiani, per
quanto e per come questi ultimi potevano essere già emersi, “erano ormai solo un
ricordo dei giorni più prosperi”89.
Pur se per l’ipotesi di una probabile datazione della loro ‘destrutione’ definitiva,
nel tempo, occorre aspettare ancora qualche secolo, sembra, tuttavia, possibile collocare
già in questo preciso momento storico sconvolgimenti epocali nella geografia antropica
della media valle del Biferno e far da ora partire l’inizio della fine degli insediamenti di
Fagifulae e di Tiphernum. Vale a dire, cioè, che il segno delle ‘cancellazioni’ lasciato
dal passaggio delle orde di barbari assetati della conquista, in quanto e perché preda,
dovette risultare già molto evidente e, comunque, visibile.
E, se del primo di essi, che mai risulta essere stato sede di diocesi cristiana, può, a
buona ragione, fissarsene il sito alla destra del fiume e, più propriamente, alla contrada
Faifoli dell’agro di Montagano90 o, forse, di non molto più a valle di essa, alla piana del
Pagliaio del Monaco, quale, per completare tutte quelle motivazioni storiche già indicate
nel precedente capitolo e finalizzate alla più congrua ed alla più probabile ricostruzione
della geografia umana della intera area, il posizionamento di Tiphernum?
Ad avvalorare maggiormente l’ipotesi che vuole fissato il sito del secondo dei due
insediamenti in un’area ben precisa e definibile tra Cascapera, Colle Ginestra e Monte
Marcuni, oltre alle già riportate91 motivazioni archeologiche e storiche, che prendono
dalle considerazioni che vanno a proporsi completezza, vi è, affatto trascurabile, la
condizione della continuità del ruolo, che fu identico, e delle funzioni, che furono le
stesse, svolti sul territorio, in un primo tempo, dalla diocesi proto-cristiana di
Tiphernum e, dopo la ‘destrutione’ di tale insediamento e nelle successive epoche della
storia, da quella “Musanense Sanctae Mariae”.
86
RUOTOLO N., Il Castaldato di Boiano distrutto dai Saraceni, in Samnium 1967, pag. 106.
BARKER G., La valle…cit., pag. 276. Il Barker riprende l’analisi di CHRISTIE N. e RUSHWORTH
A., Urban fortification and difensive strategy in fifth and sixth century Italy, in Journal of Roman
Atchaeology, 1988-1, 73-88.
88
BARKER G., La valle…cit., pag. 276. Il Barker riprende la notizia da PHARR C., The Theodosian
Code. A translation with Commentary, Glossary and Bibliography, Princeton 1952, University Press.
89
BARKER G., La valle…cit., pag. 276.
90
DE BENEDITTIS G., Repertorio … cit. alla nota 23 del 1° capitolo.
91
Si vedano, oltre al precedente capitolo, di BOZZA F. le opere più volte citate. Della documentazione
archeologica ci si ripromette di preparare, corredandola, ove possibile, di foto, schede e testimonianze, una
catalogazione dei reperti rinvenuti nel sito, anche se di molti di essi, venduti o portati via dalla ignoranza e
da persone senza scrupoli, si è persa ogni traccia, con danno grave, quando non irreparabile, per ogni
tentativo serio di ricostruzione storica.
87
Premettendo che, per meglio inquadrarla nel suo divenire storico, si dovrà riferire
della fase, intermedia, in cui (VII secolo ed inizi del successivo) si attualizzerà il
passaggio alla unità amministrativa ‘civile’ del “Gastaldatus biffernensis (o, come si
riscontra nei documenti, anche “gualdo ad Bifernum”)”, che, da posizionare, in quanto
e per come ricollegabile alla relativa diocesi ‘religiosa’, nell’agro di ‘Musane’ e, in
precedenza, di Tiphernum, già riesce a provare, se non come avvenuta la definitiva
scomparsa, quantomeno lo stato comatoso e terminale, di Fagifulae (diversamente, e se
questo insediamento fosse stato ancora preminente nell’ambito territoriale della media
valle, avremmo avuto, appunto per una tale sua maggiore visibilità e per la
autorevolezza della sua storia, il “gastaldatus fagifulanus”), nel momento in cui si dirà
della ‘longobardizzazione’, un’analisi combinata, necessariamente assai sintetica, degli
elementi di identificazione di tali diocesi con l’attenta lettura delle fonti, porta, non solo
a superare i dubbi e le perplessità in essere92, quanto, e soprattutto, a stabilire la
continuità tra esse e, di notevole interesse, la identificazione geografica del sito di quella
“destrutta città dell’homini sani, alias Musane”, che, necessariamente diversa, quanto a
posizionamento, dalla ‘Musane’ attuale (Limosano), che pure, sostituendola nel tempo,
ne riprese il ruolo, fu sede di “antico vescovado”.
Il brano, del 1615, già riportato e, per le considerazioni che induce a fare, assai
importante in quanto contiene tutti gli elementi utili ad una valutazione compiuta, è: “…
In molti luochi fundati li centinaia d’anni prima che questa santa Religione (nota: il
testo si riferisce all’Ordine dei Cappuccini, sorto tra il 1527 ed il 1528) havesse origine,
si vedeno in esse dipinte le figure del nostro Padre san Francesco,… Del che chiaro
testimonio ne dà primo una figura di esso Padre nostro depinta nell’antico vescovado
della destrutta città dell’homini sani, alias Musane,…, la quale chiesa hoggi è
posseduta da padri Conventuali, apparendo nel choro di essa una simile immagine di
un san Francesco, con cappuccio e corda come di sopra”93.
Seguendo, con un percorso a ritroso, le residualità di sedimentazioni stratificatesi
nel tempo per meglio coglierne il modo del loro essere avvertito dalle specifiche
92
Li riportiamo tutti, trascrivendo, da pag. 30 del citato lavoro del DE BENEDITTIS (v. precedente nota
13), il quale non parla minimamente, ed inspiegabilmente (i ‘municipia’ romani, tutti, furono sede di
diocesi cristiana) di una diocesi nell’ambito territoriale e, comunque, riconducibile a Fagifulae o, meglio,
a Tiphernum. “Le diocesi molisane documentate negli albori del Cristianesimo sono quelle di Venafro,
Isernia, Trivento, Bojano, Sepino e Larino. La documentazione sui primi secoli del Cristianesimo per le
diocesi molisane cessa verso il VI sec. d.C. per riprendere poi nel X sec. e più precisamente verso la
seconda metà del secolo citato” (VITOLO, Vescovi e diocesi, in Storia del Mezzogiorno, III, Napoli 1990,
pp. 75-151).
La prima consacrazione ricordata dal testo (nota: del KEHR, citato nel precedente capitolo, v.) potrebbe
essere riferita ai primi secoli del Cristianesimo e ciò potrebbe essere giustificato dal fatto che Limosano
sorge entro i limiti giurisdizionali del municipio romano di Fagifulae (nei pressi dell’attuale Montagano),
ma è questa un’ipotesi poco probabile in quanto il documento avrebbe indicato Fagifuale e non Limosano
(senza per questo dimenticare che non ci risultano vescovi di Fagifulae); sarebbe invece possibile un
riferimento non tanto alla diocesi di Limosano, ma al territorio amministrativo retto dal gastaldato
longobardo ed il castrum Limosani (quae olim fuerat civitas, precisa il documento di Anacleto II)
potrebbe essere divenuto poco dopo la sua costituzione la sede del gastaldatus bifernensis in sostituzione
di Fagifulae, ormai città in completo degrado; ciò giustificherebbe il nome del gastaldato che non assume
il nome né di Limosano né di Fagifulae, ma quello del fiume Biferno”.
93
V. nota 11 del capitolo precedente.
sensibilità culturali, si riportano solo in nota94, per non appesantire il testo del lavoro ed
i ragionamenti, gli elementi utili ad una tanto sintetica, quanto esaustiva al fine della
ricostruzione delle vicende, cronotassi delle notizie, con l’indicazione, se e quando
possibile, della fonte, circa la diocesi “Musanense” e, in precedenza, di Tiphernum.
E, seppur già evidenziati nel riportarne il testo, che è, lo si badi, di periodo in cui
era possibile avvertire ancora la persistenza culturale delle situazioni geografiche più
antiche, si indicano gli elementi utili a qualche riflessione. Vale a dire che nel 1615 si
percepiva ancora la consapevolezza di una “Terra, olim civitas, li=Musanorum”, la
94
Sulla diocesi di Limosano, per qualche indicazione bibliografica, oltre ai citati lavori di BOZZA F. (e
specialmente Limosano: Questioni … cit.), si veda l’articolo, in AM 1981, di DE BENEDITTIS G., Note
storico-topografiche sulla Diocesi scomparsa di Limosano. Esso sembra importante assai più per la
riproposizione della questione e per la divulgazione del testo del KEHR che per la lettura critica di
quest’ultimo e, di conseguenza, per le conclusioni, le quali, peraltro, sono già superate da quelle della
Introduzione, dello stesso DE BENEDITTIS, al citato Repertorio (v. nota 13). Si diceva del KEHR
(Papsturkunden in Italien, Città del Vaticano 1977, IV, pag. 177 e 218 e seg.), il quale altro non fa che
trascrivere, talvolta (‘Cascapera’ viene letta con ‘Castra petra I”) con qualche difficoltà interpretativa, gli
atti, importanti ad esaminare l’operato ed il modus operandi di Papa Anacleto II (e, quindi, non della
storiografia ‘ufficiale’), del ‘Processus’ (v. il Doc. n. 3), dei primi anni del XIV secolo, contenuti dal f.
151 al f. 209 nella Collect. t. 61: Benevent. Civitatis et ducatus Varia 1132-1312. Ms. Ch. s. XIV, del
Fondo Avignonese dell’ARCHIVIO SEGRETO VATICANO.
DOCUMENTO n. 1 - Per la ricostruzione delle vicende riguardanti la diocesi di Limosano, un primo
documento, con il quale, collegando esso il ‘vescovado’ alla Chiesa del Convento limosanese dei frati
francescani Conventuali, occorre fare i conti, è la “fides publica”, del 19 Aprile 1755 per Notaio
AMOROSO Francescantonio (in ASC), con la quale “In publico Testimonio costituito il Mag.co
Domenico Amoroso… di sua età di anni novantatre in circa, come ha detto, e dal suo aspetto apparisce,
spontaneamente have asserito, come in tempo di sua figliolanza, e poteva allora essere da circa sedici
anni (e quindi, prima del 1680), che il Convento, ora di San Francesco… non veniva abitato da Monaci,
ma stava senza nessuno… ha conosciuto, e veduto in detta Chiesa, che vi erano quantità di altari per
tutte le mura, le quali poi li fece levare la buon Anima del Cardinale Orsini Arcivescovo di Benevento, e
soli tré ce ne fece restare, come si vedono oggi; ed in detta Chiesa, ci ha conosciuto, veduto, e toccato
con le sue mani la Catedra, ò sia la Sedia dell’antico Vescovo, con la sua Cupola, e Crocetta sopra,
tutta lavorata, scorniciata, intagliata, et indorata, fatta ad otto angoli, e stava sotto l’arco della
Sagristia sopra la Sepoltura delli Vescovi morti, avanti al quale arco, vi era un parapetto di pietra, alto
da circa tre palmi…; ma poi essendo venuti li Monaci in detto Convento, ed il primo Guardiano fù
Frà Francesco Mancinelli d’Agnone…, ed arrivati questi, posero in polito la Chiesa,… […]. Ed ha
soggionto che la porta, e facciata avanti della Chiesa di detto Convento, come presentemente si vede tutta
di pietre lavorate fine, con cornicioni, colonnette, e lioncini dimostra essere porta di Vescovado, anzi
sopra la finitora di detta porta, sopra il cornicione vi era un Angiolo grande di pietre benfatto, che
faceva cima, con un incensiero di pietra in mano, e lo detto primo Guardiano Mancinelli lo fece
levare,…”.
DOCUMENTO n. 2 - Una ricostruzione ‘storica’, molto dettagliata, è quella che viene fuori dalla “captio
possessionis”, dell’11 Ottobre 1753 per Notaio AMOROSO Francescantonio (in ASC), “della Chiesa
Arcipretale Matrice, già Cattedrale, sotto il titolo, e vocabolo di Santa Maria Maggiore in Cielo Assunta di
questa suddetta antica Città de li=Musani”. Essa, “come tale si verifica essere, così si stima, si tiene, e si
ha dalle antiche memorie de Vescovi, che sono stati in essa, e si conservano in atto, e presentemente,
nella medesima, conservandosi nella sua Sagristia Mitre antiche, pastorali, pianete, stole, Cappelle
vescovili antiche, ed altro, e vien registrata ancora nell’Archivio della Metropoli di Benevento, e si vede
nella Serie de Vescovi Suffraganei essere il secondo nella Porta di Bronzo della Metropoli Beneventana,
riportato ancora dall’Arciprete Ciarlanti d’Isernia, dall’Ughelli, e da Monsignor Sarnelli nella sua
Cronologia de Vescovi Beneventani “Musanensem Sanctae Mariae”, il quale numera fra trentatre
quale ha sostituito, in tutte le sue funzioni, ruoli ed attribuzioni ivi compresa la diocesi
religiosa (del ruolo ‘civile’ si riferirà), una precedente “distrutta città”, che è da
ritenersi diversa (‘alias’) per localizzazione e per temporalità, ma affine, ricollegabile e,
comunque, posizionata nello stesso ed identico territorio situato alla sinistra del Biferno,
da “Musane” ed alla quale, così come a questa, è da riferire un “antico vescovado”, la
cui “chiesa hoggi è posseduta da padri Conventuali”.
Detto, in precedenza, del sito della “distrutta città” da posizionarsi, anche per le
riferite motivazioni archeologiche, proprio tra Cascapera, Colle Ginestra e Monte
Vescovi Suffraganei, quello di li=Musani il secondo. Si ha ancora nella Cancelleria Apostolica nel
1549 “Sub Archiepiscopo Beneventano Musanensem Sanctae Mariae”. E nell’anno 1110 era Vescovo
di li=Musani Gregorio Monaco Cassinese, e si ha nel catalogo dell’Uomini Illustri di quel
Monastero. Nell’anno 1132 sedeva nel Solio Vescovile di li=Musani, Ugone Vescovo di essa. Si ha
pur anche chiarezza nella Geografia Sagra di Carlo a San Paolo, stampata in Pariggi l’anno 1641. Lo
stesso Monsignor Sarnelli descrive quando fu soppressa, ed unita alla Menza Arcivescovile, e più chiaro
si ha nell’antichissima lapide scolpita sopra l’arcotrave della Chiesa Arcipretale di San Stefano di
questa suddetta antica Città, da noi con atto publico riconosciuta, ed estrattane la sua antica iscrizione
intagliata con antichissimo intaglio in detta lapide alli undeci di Luglio mille settecentoquarantatre, …,
in cui chiaramente, tra l’altre cose si leggono queste parole “HVIVS ECC: EPISCOPALIS AEDIF.
URBIS” et in ultimo si legge “SUB ANN: D. XPI 156... T. IIII”. Per la qual lapide vi è nato assunto tra
l’una, e l’altra chiesa di pretendere per la maggioranza. […]. Il Vescovo di li=Musani, come
Suffraganeo della Metropoli di Benevento vien notato nella Sinodo Provinciale Beneventana
celebrata da Giacomo III Arcivescovo Sabelli, Cardinale LI, alli venticinque di aprile, mille
cinquecento settantuno, Cap. 39 “Episcopus Li=Musanensis”. L’Arcivescovo Frà Vincenzo Maria,
Cardinale Orsini, indi Papa Benedetto XIII, nell’Appendice della sua Sinodo Diocesana X Beneventana,
celebrata a ventiquattro Agosto, mille seicento novantacinque nell’Editto de Titoli ecclesiastici: Tit.
Arcipreti delle già Cattedrali, nota l’Arciprete di Lesina, di Santa Maria di li=Musani, e di Tocco; e si ha
pur anche nelle Regole del Sagro Seminario di Benevento, stampate d’ordine del medesimo Arcivescovo
Cardinale Orsini, fol: mihi 9. L’Arcidiacono Nicastro di Benevento, nella sua Pinacoteca al Cap. 14,
nota l’ampiezza della’Arcidiocesi di Benevento, e memora li=Musani Città. L’Abbate Fuliense al
lib: 3, Cap. 36 e 37 descrive il Vescovo de li=Musani, e sua Unione alla Mensa di Benevento.
L’Ughelli al tom: 8 pur anche descrive la sua soppressione, ed unione alla detta Mensa Arcivescovile di
Benevento. Anzi più recente, i Signori Deputati delle Nobili Piazze di Napoli, e de Capitoli del Regno,
nella lor supplica sorretta nel 1732 alla Maestà dell’Imperatore Carlo Sesto d’Austria, per le collazioni
de Beneficii, che sono in Regno, à Nazionali, fol: michi 1, num. 7 espongono essere l’Arcivescovo di
Benevento, anche Vescovo di tre altre Chiese, Tocco, li=Musani, e Lesina, e nel fol: 9 più volte lo
riportano. Nell’Inventario de beni dell’insigne Convento de Minori Conventuali di san Francesco di
questa sudetta antica Città de li=Musani, formato dalla Corte locale d’ordine Regio l’anno 1724, si
fa menzione, e si rapportano in quella Chiesa, la Sepoltura de Vescovi di li=Musani, ed i loro
Cappelli, al numero di tre, appesi nel cielo della Chiesa, come anche l’effigie del Vescovo scolpita di
rilievo in marmo sopra l’arco dell’altare maggiore, che oggigiorno si vede. E vi sono ancora cittadini
di lunga età, che l’attestano, tra quali il Regio Giudice à contratti Domenico Amoroso d’anni
novantacinque in circa, e freschi ancora, come è il Magnifico Raffaele Giancola d’anni cinquanta in
circa, ed altri Cittadini, che han veduto detti Cappelli appesi in detta Chiesa del suddetto Convento,
quali cappelli poi imprudentemente furono tolti da un certo reverendo Padre Mancinelli d’Agnone, che
fu Guardiano di detto Convento, il quale Mancinelli tolse ancora dalla bella prospettiva di fuori di detta
Chiesa tutta di pietre ben lavorate, e ben connesse all’antica, un grosso e magnifico angiolo di pietra di
rilievo, magnificamente scolpito all’antica, che faciva cima, e corona sopra al cornicione grande
ultimo, alla Magnifica, e mai veduta porta di detta Chiesa, tutta lavorata con colonne di pietre
angolate, e colonnette ritorto concavi di rilievo, cagnolini, e fogliami concavi mai veduti, e vi sono
Cittadini vecchi, che si ricordano la Cattedra del Vescovo in detta Chiesa del Convento e la Sepoltura
Marcuni, quale la sua denominazione? Sembra possibile, dovendosi non prescindere dal
fatto che essa, indubitabilmente preesistente a ‘Musane’ ed ‘alias’ da questa, sia stata
sede di “antico vescovado” (circostanza che porta, in ogni caso, ad escludere Fagifulae,
che mai ed in nessun documento viene data tale), proporre due ipotesi.
La prima di esse porta ad identificare la “distrutta città” con quella “antiquitate
consumpta Samnium (o anche ‘Samnia’), a qua tota provincia nominatur”95. Che essa
fu diocesi lo prova ampiamente quel “Marcus Samninus Episcopus”, che, insieme con
“Laurentius Boianensis Episcopus”, partecipa, e si sottoscrive, al concilio svoltosi a
ancora, come se la ricorda benissimo lo detto Magnifico Regio Giudice à contratti Amoroso ancora
vivente. L’Arciprete indi di detta Chiesa già Cattedrale intervenendo alla sinodo Beneventana occupano
il luogo della lor primitiva Chiesa, e questo sortisce ogn’anno continuamente, ritenendo sempre le
ragioni di già Cattedrale, anzi a tutti l’Arcipreti di detta Chiesa, per ragione della già Cattedra,
dall’arcivescovo se gli benedice l’anello, allora che sono promossi in essa”.
DOCUMENTO n. 3 - Occorre, a questo punto, riportare qualche elemento dai ‘verbali’ degli
interrogatori del menzionato ‘Processus’ dei primi anni del XIV secolo. Da un punto di vista formale va
detto che le tre annotazioni a margine dei manoscritti potrebbero far pensare ad un ‘Processus’ diviso in
tre diverse fasi, se non proprio a tre distinti ‘Processi’, collocabili in un arco di tempo abbastanza lungo
(probabilmente dal XII e sino al XIV secolo):
1)
dal f. 151a al f. 178r: Processus super Archiepiscopatu Beneventano;
2)
dal f. 180a al f. 201r: (Processus) tempore Monaldi Archiepiscopi Beneventani qui sedit ab
A. 1303 ad 1333;
3)
dal f. 202a al f. 209r: (Processus) Beneventan.
Le testimonianze del ‘Processus’ al n. 3 sono di esponenti di Trivento e di Petrella, da cui risulta evidente
la ferma opposizione ad una diocesi di Limosano, il cui insediamento viene definito semplice ‘castrum’ e
non ‘civitas’. Negli ultimi fogli, tuttavia, si ritrovano ancora testimonianze di altri limosanesi e del
“Presbiter Robertus Archipresbiter Collisalti”. Relativamente ai contenuti, consigliando la lunghezza del
testo di limitarsi agli essenziali, non può non aggiungersi a quanto edito, si diceva con qualche errore di
trascrizione, dal KEHR, e fedelmente trascritto dal DE BENEDITTIS, che:
1) al f. 184r il “Presbiter petrus de petro de limosano clericus sancti Stephani dicte terre … dixit quod
vidit quoddam privilegium papalem bullatum bulla plumbea in quo continebatur quod isdem papa
reintegrabat Episcopatum limosani ad petitionem domini Gregorii qui postea fuit Episcopus limosani”. Si
ha la pratica dimostrazione della contemporanea (sicuramente nel 1132) presenza di due Vescovi, di cui
Gregorio è per l’antiPapa Anacleto e Ugo per Papa Innocenzo (per la ricostruzione, si veda: BOZZA F.,
Limosano: Questioni… cit.). La contrapposizione tra le due chiese, che sembrerebbe confermata anche
dalla testimonianza, al f. 197r, in cui si precisa che l’episodio è appena avvenuto “iam sunt anni duo
elapsi”, si mostra evidente da quanto, al f. 191r, riferisce “Raymundus de Rogerio de limosano”, il quale
“vidit Archiepiscopum Beneventanum … venientem ad dictam terram limosani ad ecclesias visitandas | et
ipse Archiepiscopus fuit ductus ad Ecclesiam sancti stephani et ibi | inde Archiepiscopus dixit est ista
Ecclesia Episcopalis respondit sibi Judex Bartholomeus non et Archiepiscopus dixit ducatis me ad
Ecclesiam Episcopalem quod ductus fuit ad eam et ipse visitavit…”.
2) al f. 183a: “… dixit quod audivit ab antiquioribus suis quod fuit civitas et quod proprium habuit
Episcopum videlicet dominum Gregorium et quondam alium dominum Rahonem” et <interrogatus de
tempore in quo habuit proprium Episcopum> “dixit sunt anni elapsi centum et ultra (ma al f. 187a sono
“annos octoginta et ultra”)”. Sembra possibile collocare questo Raone, vescovo anacletiano, al più tardi ad
epoca di Federico II.
3) al f. 180r: “… dixit quod vidit privilegium domini anacleti in quo continebatur quod dictus papa
notabat illam Ecclesiam sancte marie de limosano maiorem Ecclesiam Episcopalem limosani”; al f. 184r:
“dixit quod vidit in dicta Ecclesia sancte marie de limosano insignia episcopalia videlicet sediam
episcopalem mitram Baculum et pastoralem et …”; al f. 187a: “… dixit quod dicta Ecclesia sancte marie
vocatur adhuc Ecclesia Episcopalis et episcopatus” et interrogatus “dixit se ridisse in dicta Ecclesia
Roma sotto Papa Simmaco il 6 novembre 502. Una tale identificazione, che pure riesce a
giustificare la derivazione, con le trasformazioni linguistiche successive, dell’etimo
stesso di “mu-sane” (v. nota 13 del capitolo 1°) da “samnia”, sembrerebbe lasciare, allo
stato ed in quanto le conclusioni sino ad oggi proposte (v. nota 18), che mancano ancora
della definitività e della certezza, propendono per il posizionamento in area volturnense,
almeno qualche dubbio.
La seconda ipotesi, che ha dalla sua il conforto di una tradizione storiografica tanto
lunga quanto sottovalutata dagli studiosi, è quella che consente di associare a quella
mitram unam cronas duas arochetas et duas sedes quorum una est de ligno et alia fuit lapidea”; al f.
190a: “dixit quod vidit clerum dicte terre limosani videlicet Clericos sancti Stephani sancti pauli et
aliarum Capellarum eiusdem terre euntes ad Ecclesiam sancte marie proprie …”. Sembra possibile
identificare la Chiesa di S. Paolo, non altrimenti nota nella geografia religiosa di Limosano, in quella che
preesisteva alla attuale Chiesa del Convento di S. Francesco. Di notevole interesse ed importanza è la
presenza, nella Cattedrale di Limosano, di quel ‘Baculus’, che, diverso dal ‘pastoralis’ del rito latino e
così definito nel SYNODICON Beneventanae Ecclesiae, edito per disposizione del Card. Orsini nel 1724,
(Pars I, p. 42) “Crossia itaque baculus est Pastoralis, a Pontificali diversus, Abbatibus nostrae Dioecesis,
et cum Graecanico ritu uterentur, et modo etiam communis, ut carissime omnium praecl. Unum
Predecessor noster Cardinalis Archiepiscopus Sabellius in Synodo Provinciali de anno 1567 ostendit”,
farebbe iniziare a pensare a prove del rito greco-bizantino.
4) al f. 180r: “… dixit quod vidit et legit in portas maioris Ecclesie Beneventane ymagines omnium
Episcoporum provincie beneventane scultas cum subscriptionibus civitatis Episcopi inter quas vidit
sculturam ymaginis Episcopi limosani prope Ymaginem seu sculpturam Episcopi Alesine et ymaginem seu
sculpturam Episcopi Alifi et subscripta tali erat Episcopus limosani”. Relativamente alla porta di bronzo
della Cattedrale di Benevento va detto che, siccome il teste “Angelus de Matheo de limosano” dischiara, al
f. 189, di averla veduta da “duodecim anni” appena, essa era sicuramente esistente alla fine del XIII
secolo.
5) al f. 202a: “… dixit verum est quod dictum castrum limosani est de Justitiariatus Terrelaboris et
Comitatus Molisii quia vidit Justitiarios dicti Justitiariatus exercentes Jurisditionem suam in dicto
castro”. Evidente l’avvenuto superamento del concetto di ‘civitas’ per la “Terra limosani”.
Della estensione della diocesi limosanese e delle geografie, tanto sorprendenti per la vitalità quanto
importanti per la corretta definizione e fissazione del ruolo, propriamente storico, della “Terra limosani”
nell’ambito territoriale dell’area del medio Biferno, demografico-sociali, economico-commerciali e dei
collegamenti, anche politici, ad essa riferibili, si è diffusamente detto in altro lavoro (v.: BOZZA F.,
Limosano: Questioni … cit.), cui si rimanda per gli approfondimenti.
DOCUMENTO n. 4 - Trattasi di una “antica pergamena”, probabilmente nell’Archivio Parrocchiale di
Lucito, citata da PIEDIMONTE G., La Provincia di Campobasso – cenni storici, Aversa (CE) 1905, che,
nonostante venga scarsamente considerata e sia del tutto dimenticata dalla storiografia, riporta il seguente
elenco di ‘Episcopi’ della diocesi di Limosano:
FOTINO
anno 1040
GIOVANNI
anno 1060
GISOLFO
anno 1063
BENEDETTO
anno 1085
CELIO
anno 1099
ROFFREDO
anno 1102
GREGORIO
anno 1110
Va annotato che quest’ultimo, il quale, già ‘Monachus’ di Montecassino, “come si ha nel Catalogo degli
uomini illustri di quel Monastero”, risulta tale sia dal Documento n. 2 (v.) e sia dal CIARLANTI G.V.,
Memorie historiche …, III, pag. 222), venne fatto ‘Episcopus’ di Limosano probabilmente perché l’anno
prima (1109) il cenobio di S. Illuminata, situato nelle immediate vicinanze di tale insediamento, era
passato (o, meglio, riceveva una seconda confermazione) nella giurisdizione cassinese. Una tale
“distrutta città”, che situava nell’agro limosanese, il nome di “Tiphernum”, il cui
etimo, tra la seconda metà del VII secolo e i primi anni dell’VIII ed a causa delle
influenze e delle commistioni della cultura longobarda con quella autoctona, subisce la
trasformazione in “Biffernum” con un passaggio di cui è avvertibile ancora la traccia in
quella espressione del Di Meo, che recita “… e di là a’ 10 del mese di Giugno era egli
(Papa Leone IX) a Sale, vicino al Biferno, forse, Tiferno”96. La rendono sicuramente
sede di “antico vescovado” le presenze, sulla relativa cattedra episcopale, di “Florido,
vescovo di Tifernum, ed Amanzio, <che> sono due ecclesiastici dell'antica Tifernum”, di
circostanza riesce a far ben superare tutte quelle lamentate difficoltà di chi (anche il DE BENEDITTIS
citato), per il fatto che all’atto di donazione fu presente il Vescovo di Trivento, è portato, ma la cosa è del
tutto improbabile in quanto mai risulta un riferimento limosanese a Trivento, ad assegnare Limosano alla
giurisdizione ecclesiastica di tale diocesi.
Oltre a ciò, occorre registrare sia il nome stesso di ‘Fotino’ di evidente origine greco-bizantina e sia che,
in netto contrasto con le risultanze della storiografia ‘ufficiale’ romano-papale (v. le sintesi delle diverse
bolle, che, motivate da pressanti esigenze di politica religiosa, dalla fine del X a tutto il secolo XI,
definiscono, mai indicando quella limosanese, le chiese ‘suffraganee’ di Benevento, negli Annali del DI
MEO e riepilogate nello studio, notevole per serietà critica, di PRATESI A., Note di diplomatica vescovile
beneventana. Parte II. Vescovi suffraganei (secoli X-XIII), in Bullettino dell’Archivio Paleografico
Italiano, n.s., I (1955), pp. 19-91, specialmente pag. 23 e seg.), viene ampiamente documentata l’esistenza
di una, se non della, diocesi di Limosano già prima e, comunque, nel particolare periodo dello scontro tra
il Papato ed i Normanni e, ancora più importante per le implicazioni motivazionali di quelle eventuali
‘cancellazioni’ che per lunghi periodi di tempo hanno rappresentato l’unico sistema per l’affermazione
della ‘verità’ storica, dello scisma d’Oriente (1054) del Patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario.
Un importante, in quanto coevo sia allo scisma e sia ad una presenza, esclusa però dalle fonti ‘ufficiali’, di
un ‘Episcopus’ (Giovanni, nel 1060) sulla cattedra vescovile di Limosano, riferimento è la Bolla, datata
“a’ 24 di Gennaio di quest’anno” 1058, di “conferma ad Udalrico Arcivescovo di Benevento”, che a tale
Arcivescovato “ne dice suffraganei S. Agata, Avellino, Monte Marano, Troja, Dragonara, Civitate,
Montecorvino, Tortiboli, Viccarino, Fiorentino, Termoli, Trivento, Volturara, Tocco, Quintodecimo,
Monte di Vico (Trivico), Atino, Larino, Ascoli, Lucera, Alifi, Telese, Bovino”. Il documento, di fonte
‘latina’, che pure elenca solo 23 (e non 24) vescovi, nonostante la bolla originale con tutta probabilità
doveva portare essere “in numero allora di XXV” (BORGIA, III, p. 60 in nota), sta a dimostrare che
Guardialfiera, diocesi dal 1068 ed istituita tale con evidente finalità politica di riaffermazione del culto
‘latino’, ancora non è ‘vescovado’ e, soprattutto, l’evidente intento della politica papale di assegnare a
Benevento il controllo, subito dopo lo scisma, su tutte le diocesi del confine ‘bizantino’ lungo il Fortore.
Un tale obiettivo sembra confermato anche dalla contemporanea, e sospetta, esclusione di Limosano e di
Morcone dall’elenco delle sedi suffraganee. Si diceva ‘sospetta’, in quanto, relativamente a Morcone (ed il
fatto che tale ‘civitas’ venga tenuta associata a Limosano farebbe ipotizzare un identico, almeno in certe
fasi storiche, destino) risulta (CIRELLI F., Il Regno delle due Sicilie descritto ed illustrato, Napoli 1857,
Vol. XIV, pag. 16) che “l’orientale Imperatore Leone il savio, che nel corso del IX secolo, senza l’assenso
della Romana Corte, seminò e stabilì Vescovi nel regno di Puglia; i quali, seguita la pace tra
Costantinopoli e Roma, rimasero confirmati, onorò anche Morcone di un Vescovado di rito greco. Lo
Schelstrate descrivendo un Codice della Biblioteca Vaticana, N. 1184. De Episcopatibus, qui proprii
sunt juris, et nullum in subditos exercent … tanto ne espone. Quindi aggiunge che un Vescovo di Morcone
ricevé il Pallio, ed assunse il titolo e gli onori di arcivescovo. Troylo, sostenendo che Morcone derivata
fosse dall’antica Murgantia, la qualifica città Vescovile del medio evo, allorché i Patriarchi di
Costantinopoli spiegarono la loro giurisdizione in Italia. Esisté tal Vescovado pel periodo non interrotto di
tre secoli: lo acclara bastantemente il Cardinal Borgia nelle sue Antich. Benevent; non che l’Ughellio nella
sua Italia sagra. […]. Fondato, favorito, sostenuto dal potere Orientale detto Vescovado, non trovandosi
sotto la Romana dipendenza, non poterono nei Romani Archivii essere registrati i nomi dei relativi
Vescovi. Le vicende dei tempi, e le politiche catastrofi; la espulsione dei Greci dal regno di Puglia, per
cui parla Gregorio Magno (Dialoghi, III, 35), di Eutodius o “Eubodius, ‘episcopus
tifernas’”, il quale, ne fa menzione il Lanzoni, partecipa al concilio di Roma del 465 e,
da ultimo, di quel “Marius, Episcopus tiphernatium” presente al concilio del 501,
pur’esso svoltosi a Roma.
Poiché, per la mancanza quasi totale di notizie, sfuggono o sono incerti molti
parametri (non ultimo quello demografico), risulta assai improbabile la ricostruzione del
dettaglio della geografia insediamentale ed antropica, riferibile in particolar modo ai
secoli V e VI, del territorio del medio Biferno. Tuttavia, il dato archeologico
opera dei valorosi Normanni, col far cessare la greca influenza nelle Chiese alla fine del XII secolo,
fecero sparire da Morcone il Vescovado, ed in tempi posteriori trovassi annesso alla Beneventana
diocesi; di cui sommo dové essere l’interesse nello sperderne ed annullarne i documenti. La Diocesi di
Morcone estendevasi dalla parte orientale, comprendendo gli attuali paesi di Circello, Colle, Castelpagano,
…; ed i distrutti Forcellata, S. Angelo in Rachidinosa, Rocchetella, Decorata e Monte Orsino, esistenti nel
perimetro dell’attuale suo tenimento, e di cui si osservano gli avanzi”.
DOCUMENTO n. 5 - Da BORGIA S., Memorie Istoriche della pontificia città di Benevento, Roma 1763,
viene fatto, a pag. 135 del II vol. in nota, riferimento al “… libro Provinciale de’ secoli XI e XII,
pubblicato dall’Abbate Gaetano Cenni tom. 2 Monum. Dominat. Pontif., nel quale …: IN SAMNIO:
Metrop. Beneventum hos habet Suffraganeos Episcopos: Telesinum. S. Hagathae. Alifen. Montis
Maran. Montis Corvin. Avellin. Vicanum. Frequentin. Arianen. Bibinen. Asculen. Licerinum.
Tortibulen. Draconar, Wlturar. Alarin. Civitaten. Termulen. Toccien. Trivinen. Bivinen. Guardien.
Morcon. et Musanen.”.
A parte qualche possibile aggiustamento, se non a vera e propria ‘cancellazione’ con conseguente
sostituzione, dovuto a probabile esigenza di parte ‘latina’ (sospetti sorgono: a) per la presenza della
diocesi “Guardien.”, che, Guardialfiera, venne nominata tale nel 1068; b) per le differenze – l’elenco porta
Toccien. e Morcon. al posto di Fiorentini e Lesene, che figurano nella porta – con i 24 suffraganei della
porta di bronzo della Cattedrale di Benevento, per la cui conoscenza e relativa bibliografia si veda
MARRA G., Precisazione della data della Porta di bronzo del Duomo di Benevento, in Samnium 1959,
pag. 209 e segg.; c) per la ‘strana’ vicinanza di Morcone, che fu diocesi assai antica di osservanza grecobizantina, e Limosano), l’elenco, che è riferito a situazione ecclesiastica “de’ secoli XI e XII”, sembra
essere, più che una situazione ‘statica’ di tale epoca, una ricostruzione storica ‘dinamica’ da riferire a
periodi precedenti e di lunga durata. Tale assunto, ben combinabile, e combinato, con l’ipotesi della
diffusione, assai più larga di quanto comunemente è dato pensare, del rito greco-bizantino nella
‘provincia’ beneventana, emerge da quanto scrive il citato BORGIA S., I vol., pag. 316 e segg., che, nelle
parti essenziali, seppur lunghe e prolisse, si riporta. “Diciamo ora qualche cosa dei due Vescovi di
Avellino e di S. Agata rappresentati ne’ quadrati laterali allo stesso modo che figurati si veggono anche
gl’altri XXII Suffraganei ripartiti per altrettanti quadrati, che sono dalla parte destra (nota: da dove
mancano quelli molisani) nell’ingresso della porta dopo i suddetti due Vescovi quei di Montis Marani,
Wlturariensis, Frequenti, Ariani, Ausculi, Bivini, Lucerie, Fiorentini, Tortibuli, Vici; e dalla sinistra (nota:
dove sono tutti quelli dell’attuale Molise) i Vescovi Montis Orvini, Alarini, Limosani, Telesie, Lesene,
Alifii, Boiani, Treventi, Guardie, Draconarie, Civitatis, Termuli. Vuol qui osservarsi l’atto in cui questi
XXIV benedicono, e il pallio del quale tutti sono ornati. E quanto all’atto di benedire, questo è quello
che comunemente si dice benedizione alla greca, cioè tenendo ritti i diti ultimo, o sia dito mignolo, il
medio, e l’indice, e piegando l’anulare, ed il pollice unendogli, e sovrapponendogli insieme quasi in forma
di croce. In questo medesimo atteggiamento di benedire alla greca si vede dipinto l’Abbate di S. Sofia di
Benevento nella Cronica di questo Monistero, part. 4 et 5 compilata nel secolo XII (nota: questa analogia
farebbe pensare, contrariamente alle conclusioni del citato articolo della MARRA G., ad una fusione della
porta al più tardi durante tale secolo; circostanza questa, che, riavvicinandone la data a quella del 1066,
anno in cui – v. FABIANI L., La Terra di S. Benedetto – venne fusa l’altra analoga di Montecassino,
farebbe pensare a scopi ‘politici’ e mirati alla affermazione, subito dopo lo scisma, del rito ‘latino’ di tali
fusioni) … Il pallio poi è simile a quello, che porta il Metropolitano, se non che l’artefice non vi ha posto
(specialmente le tombe di guerrieri a cavallo complete di corredi funerari), databile
ancora al VII secolo, farebbe pensare a presenze umane organizzate sia, alla destra del
fiume, nell’area ‘fagifulana’97, che, alla sinistra, in quella ‘tiferniana’98. Anche se “sulla
base dei dati attuali, comunque, la natura e la dimensione della trasformazione
dell’insediamento nel V e VI sec. non dovrebbero essere sottovalutati. I villaggi e le
fattorie che per mille anni erano stati alla base di un considerevole livello di benessere
sembrano quasi completamente scomparsi, e le città appaiono ombre di quelle di un
passato ormai sepolto. Comunque venga spiegato, queste trasformazioni sono un chiaro
in veduta l’aco innanzi il petto dell’Arcivescovo; e quanto alle croci si veggono formate di una maniera
più sottile di quelle che sono nel Pallio dell’Arcivescovo, e non si osservano che ne’ Pallj de’ Vescovi di
Avellino, di S. Agata, di Wlturara, di Argento, e di Lucera, giacché i pallj degl’altri XIX Vescovi privi
sono di questo sacro ornamento. Dal pallio, e dalla maniera di benedire questi Vescovi Pompeo Sarnelli,
Memor. Cronolog. de’ Vesc. ed Arciv. di Benev. pag. 107 congetturò, che in que’ tempi nella Chiesa
Beneventana si osservasse il rito greco, riferendo l’uso del pallio ne’ Vescovi Suffraganei di questa
Chiesa a quella general concessione, che ne fecero i Patriarchi di Costantinopoli a tutti i Vescovi dopoché,
siccome scrive il Baronio, an. 934, $ I, Alberico Tiranno di Roma, …, costrinse Papa Giovanni XI (nota:
che era il figlio di Sergio III, Papa dal 904 al 911, e, a sua volta, era il padre di Giovanni XII, Papa dal 955
al 964, fu Papa dal 931 al 935), che esso teneva ristretto, a concedere a Teofilatto Eunuco Patriarca di
Costantinopoli, ed a’ suoi successori, che senz’altro permesso de’ Romani Pontefici potessero adoperare il
pallio. […]. Lodovico Tommasini, Vet. et Nov. Eccles. discipl. Part. I, lib. I, cap. 43, num. 12, anch’esso
ripete da’ Greci la frequenza de’ Vescovati, e degli Arcivescovati, che sono nel Reame di Napoli,
scrivendo: Obiter hic advertas inusitatam illam Metropoleon, et Episcopatuum multitudinem in Regno
nunc Neapolitano, magna ex parte profectam esse ab illa Graecorum aemulatione, qua certabant totidem
quasi vinculis opulentas has florentissimasque tum Civitates, tum Provincias Ecclesiae suae, imperioque
arelius astringere. Che i Patriarchi di Costantinopoli col favore de’ Greci Augusti tentassero alcuna volta
di occupare de’ Vescovati soggetti al Romano Pontefice …, veggasi nella storia della Legazione di
Liutprando di Cremona all’Imperatore Niceforo Foca, … […]. Abbiamo … osservato che sul cadere del
secolo XI i Greci impadronitisi del Principato Beneventano vi signoreggiarono per alcuni anni, e che
Pandolfo Capodiferro, e Landolfo III suo fratello professarono obbedienza al Greco Augusto finché
nell’anno 967 tornarono a riconoscere per loro Sovrano l’Imperatore Ottone I il Grande. Potrebbe dunque
dirsi che per queste occasioni i Vescovi delle XXIV Chiese notate nella porta di bronzo (nota: quindi
erano diocesi! da molti anni!) ottenessero dal Patriarca di Costantinopoli l’uso del pallio,… […]. E
sebbene a ciò si opponga che non tutte le XXIV Chiese notate nella porta di bronzo sussistevano in que’
tempi, perché alcune di esse furono erette dopo l’istituzione dell’Arcivescovato (nota: avvenne, anche se
già da tempo Benevento era sede preminente, in epoca coeva al principato del nominato Pandolfo
Capodiferro), e per conseguenza in tempo, in cui in queste contrade non avevano più alcun diritto i Greci;
ad ogni modo non sarebbe fuor di proposito il credere che il Papa per conto di queste Chiese concedesse ai
Vescovi delle medesime l’uso del pallio, affinché essi non fossero nella stessa prerogativa d’inferiore
condizione agl’altri Vescovi privilegiati dal Patriarcha di Costantinopoli. Fin qui abbiamo riferita e
convalidata ancora l’opinione del Sarnelli.”.
Molte sarebbero le considerazioni ed i commenti da fare, se non fosse che le esigenze del presente lavoro
non lo permettono.
95
PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum, II, 20. “Sannio, da cui tutta la provincia prende il
nome, consumata per antichità”. Al riguardo si vedano: PETROCCIA D., Il problema di Samnia città
eponima del Sannio, in Samnium 1980, pp. 160-185, con continuazione in Samnium 1981, pp. 29-61;
PATTERSON J., Una Città chiamata ‘Sannio’, in AM 1990, pp. 17-34.
Credibilità per una tale ipotesi sembra venire dall’analisi della ricostruzione, in quanto fa diversa, e
relativamente lontane l’una dall’altra, da quella di Volturnum la diocesi di Samnium e per la collocazione
di entrambe, di FRUTAZ A.P. (Le diocesi d’Italia nei secoli V e VI, in Storia della Chiesa, Torino 1972,
IV, pag. 777 e segg.), che si riporta nelle essenzialità e limitatamente alle diocesi del Samnium come
segno di cesura”99.
Da un lato una evidente arrendevolezza politica della classe senatoriale, che,
contrariamente a ciò che avviene a Bisanzio, dove, dopo la sollevazione popolare
dell’anno 400 (con conseguente massacro di circa settemila goti) contro l’esperimento
del comandante goto Gainas, “che con le truppe al suo comando teneva in iscacco la
città e lo stesso imperatore Arcadio”100, il potere rimase saldamente nelle mani
dell’imperatore, consegna la pars Occidentis, rinunziando di fatto a governarla e
favorendovi il crollo della amministrazione statale, ripetutamente nelle mani di generali
di origine barbara (Stilicone, Ezio, Ricimero, Odoacre) e, dall’altro, una tipologia della
incursione finalizzata esclusivamente al soddisfacimento del bisogno di predoneria e di
saccheggio più che alla invasione vera e propria sono i due elementi caratterizzanti
quella che, fino alla uccisione di Odoacre (493), può essere considerata come una prima
fase dell’intervento barbarico. Durante la quale, nettamente diversa dalla seconda, che
presenta la connotazione del vero stabilirsi sul territorio mediante l’appropriazione ed il
possesso, il Cristianesimo “nella metà orientale dell’impero poté mantenere anche
successivamente la precedente forma della chiesa imperiale, con gli obblighi e i diritti
imperiali in materia di fede e di organizzazione ecclesiastica”, mentre “la dissoluzione
(discessio gentium) non restò limitata alla sfera statale, ma si manifestò anche
indicate da FERRARA V., La Diocesi di Trivento tra quelle del Sannio molisano nel V secolo, in AM
1987, II, pp. 117-184, pag. 123 e segg.:
Nella I REGIO (Lazio e Campania):
…
VENAFRUM, fine secolo V
…
VOLTURNUM, fine secolo V
Nella II REGIO (Irpinia, Calabria et Apulia):
…
BENEVENTUM, inizio secolo IV
SAMNIUM,
inizio secolo VI
…
LARINUM,
fine secolo V
Nella IV REGIO (Piceno e Samnium)
…
AUFIDENA,
fine secolo V
ALIFAE,
fine secolo V
BOVIANUM, fine secolo V
SAEPINUM,
fine secolo VI
Nella VI REGIO vengono riportate TIFERNUM TIBERINUM e TIFERNUM METAURUM, entrambe
metà secolo V.
96
DI MEO, Annali…, ad annum 1053.
97
“Durante lo scavo effettuato nel 1988 sono state rinvenute varie tombe di cui una con il seguente
corredo in bronzo: orecchini a cestello ed un frammento a forma di uccello. Collocabili nel VI-VII sec.
d.C., questi oggetti documentano l’uso dell’area urbana di Fagifulae (seppur ridimensionata) anche
nell’alto medioevo” (DE BENEDITTIS G., Repertorio… cit., pag. 13).
98
Così come nell’area di Fagifulae, anche alla sinistra del fiume, nella zona di “Tiphernum”, sono state
rinvenute tombe, databili al periodo tra il V ed il VII secolo, con corredi funerari. Corre notizia del
ritrovamento, durante lavori di scavo, di una tomba contenente, oltre ad un tesoretto di preziosi e di
monete, i resti di un soldato avente una spada, in aggiunta a quanto, riferitomi personalmente da un
contadino della zona, relativo al ritrovamento, durante i lavori di aratura dei campi (autunno 2002), di
tombe in legno con resti umani.
99
BARKER G., La valle… cit., pag. 277.
100
AZZARA C. op. cit., pag. 31.
nell’organismo della Chiesa imperiale” nella parte occidentale, dove quei diritti
“ricomparvero nuovamente sotto l’impero di Giustiniano”101.
Dopo un secondo, questa volta proveniente dal Sud, sacco di Roma, “nel 455, ad
opera di Genserico, re dei Vandali, <che> passò quasi inosservato”102 nella pars Orientis
(ma che nei fatti non fu meno doloroso del primo), e dopo la deposizione, nel 476, di
Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore romano della pars Occidentis, Odoacre, di
origine scira, assunse il potere in Italia con il titolo di ‘rex’, che gli venne riconosciuto
solo dai soldati barbari, che pretendevano concessioni della ‘tertia’ del territorio, mentre
“non sembra che Zenone, l’imperatore d’Oriente, abbia mai riconosciuto, ufficialmente,
il suo governo in Italia”103. Cosicché “nessun accordo fu rotto, quando nel 489, temendo
una diretta aggressione gotica contro Costantinopoli, il basileus inviò contro Odoacre un
altro condottiero barbaro, Teodorico, re degli Ostrogoti”104, al quale bastò solo qualche
anno per sconfiggere definitivamente il generale sciro e, dopo avergli fatto credere di
poter governare insieme, per assassinarlo a tradimento e per eliminarne l’intera sua
famiglia. Disfattosi, nel 493, di Odoacre, il goto Teodorico, che da giovane si era
formato negli ambienti culturali ed imperiali bizantini, “venne proclamato rex a Ravenna
dall’exercitus barbaro che egli aveva guidato alla vittoria e chiese prontamente a
Costantinopoli la legittimazione quale signore dell’occidente, mediante la concessione
della vestis regia, che peraltro dovette attendere per cinque anni”105 e, cioè, sino al 498.
“La dinastia, di cui Teodorico fu il capostipite, governò l’Italia fino al 537. Benché
i re barbari avessero chiesto e, finalmente, ottenuto il riconoscimento da parte
dell’imperatore d’Oriente e rispettassero rigorosamente le istituzioni romane, le relazioni
fra la corte regia di Ravenna e quella imperiale di Costantinopoli rimanevano piuttosto
tese. Altrettanto tese erano le relazioni ecclesiastiche fra la vecchia e la nuova Roma a
causa dello scisma cosiddetto acaciano che ebbe inizio nel 484 e si protrasse fino al 519.
Gli argomenti più discussi di questa controversia fra il papa, l’imperatore e il patriarca di
Costantinopoli riguardavano l’interpretazione del primato romano e il non
riconoscimento da parte di Roma dell’Henotikon, un editto imperiale che – invano –
aveva proposto una formula di compromesso, accettabile tanto per gli ortodossi quanto
per i monofisiti. Sembra un paradosso, ma i re goti di religione ariana e i pontefici della
Chiesa Romana si sostenevano a vicenda nei confronti degli imperatori: infatti,
l’intransigenza dei papi, soprattutto di Gelasio I (492-496) e di Ormisda (514-523) nei
riguardi delle esigenze politico-religiose della Chiesa costantinopolitana contribuì ad un
raffreddamento generale dei rapporti fra i <Romani> in Occidente e in Oriente. D’altra
101
FINK K. A., Chiesa e papato nel Medioevo, ed. italiana Bologna 2000, pag. 14.
FALKENHAUSEN (Von) V., I Barbari in Italia nella storiografia bizantina, in Magistra Barbaritas,
Milano 1984, pag. 305. “A tale proposito, l’unica – o quasi unica – testimonianza che si suole citare è una
profezia aggiunta post factum al Liber Heraclidis, un trattato di apologia teologica che Nestorio, l’eretico
ex patriarca di Costantinopoli, scrisse nel 451… La pseudo-profezia prediceva come imminente la
conquista vandala di Roma e precisava che, per l’occasione, papa Leone I, lo stesso che non aveva
impedito la condanna di Nestorio, avrebbe dovuto consegnare ai barbari la suppellettile sacra e le
principesse imperiali”.
103
FALKENHAUSEN (Von) V., ivi, pag. 306. Si veda anche AZZARA C., op. cit., pag. 38 e seg.
104
FALKENHAUSEN (Von) V., ivi, pag. 306.
105
AZZARA C., op. cit., pag. 40.
102
parte, i pontefici vivevano e agivano più indipendentemente sotto il governo dei re, che
in genere non s’immischiavano negli affari della chiesa cattolica, che non sotto quello
degli imperatori romani che insediavano e deponevano con disinvoltura i patriarchi le
cui sedi appartenevano al loro dominio. […]. I papi, quindi, avevano modo di
confrontare l’autoritarismo in materia religiosa, praticato dall’imperatore bizantino, con
la relativa neutralità, manifestata dagli eretici re barbari.
Le relazioni fra i tre poli politici, Ravenna, Roma e Costantinopoli, venivano in
genere mantenute da membri del senato romano. Nel senato sedevano innanzi tutto i
membri delle vecchie famiglie senatoriali,…, appartenenti alla curia per nascita. La
maggior parte di queste famiglie era ancora ricchissima, nonostante la confisca e la
ridistribuzione di una parte delle loro terre ai soldati barbari, sotto Odoacre e all’inizio
del governo di Teodorico. […]. Ad eccezione del consolato, in genere non accettavano
cariche o funzioni ufficiali alla corte regia, o almeno non per un lungo periodo di
servizio, poiché la loro vita non s’incentrava a Ravenna, bensì nell’antica Roma. Un
secondo gruppo comprendeva gli esponenti di una specie di ‘noblesse de robe’; essi
erano spesso dei provinciali, che avevano fatto la loro carriera a Ravenna, all’interno
dell’amministrazione regia. Pochi, veramente una ‘quantité négligeable’, erano i membri
del senato di origine gota”106.
In una tale situazione generale, per la quale, tuttavia, va precisato, dovendosi tener
conto della circostanza per cui agli eletti all’incarico era necessario ricevere, per essere
consacrati e per esercitare, “l’Imperiale conferma” dalla corte di Costantinopoli (cosa
andata avanti per secoli), che, come assai opportunamente fa il Fink (v. nota 24), che
parla semplicemente di “vescovi romani”, non sembra ancora opportuno, per indicarli,
usare i termini di ‘papa’ e di ‘pontefice’, come si inserisce il Molise? “Il Molise, per la
parte che a quell’epoca era compresa nella provincia del Sannio, fu una delle regioni
meridionali maggiormente interessate alla occupazione gota, come è testimoniato da
certa onomastica e dai frequenti riferimenti che si incontrano nella epigrafia e nelle
Variae di Cassiodoro. Gli stanziamenti militari furono consistenti anche nel Sannio.
Cassiodoro ricorda il viaggio fatto a Ravenna dalle milizie gotiche del Sannio e del
Piceno per partecipare ad una manifestazione militare”107.
E, se è vero che “l’exercitus ostrogoto che Teodorico guidò in Italia doveva essere
composto da circa 20-25mila guerrieri, per un totale di 100-125mila individui (compresi,
cioè, coloro che non combattevano: le donne, i minori), in massima parte (ma non in via
esclusiva) di stirpe gota”108, e se è anche vero che “nell’insieme si trattava di una
106
FALKENHAUSEN (Von) V., I rapporti dei ceti dirigenti romani con Costantinopoli dalla fine del V
alla fine del VI secolo, in Il mondo del diritto nell’epoca giustinianea, Ravenna 1984 (a cura di ARCHI
G.G.), pag. 59 e segg.
107
MORRA G., L’Alto Medioevo nel Molise, in AM 1982, pag. 132. “I Goti,…, giungono anche nel
Sannio pentro. Qui si sistemano con le loro famiglie, con i servi e il bestiame. La cittadina di Ripabottoni
trae il suo etimo da ‘Ripa Ghotorum’; il monte Totila, nel territorio di Sessano, ricorda l’acquartieramento
di questi barbari che, mescolandosi col passar del tempo con gli indigeni, danno nome all’attuale comune
di Pescolanciano; il monte La Teglia, in agro di Tavenna, - nome che deriva da un antico villaggio non più
esistente, - ricorda, forse, l’ultimo dei re ostrogoti: Teia” (RUOTOLO N., Il castaldato di Boiano distrutto
dai Saraceni, in Samnium 1967, pag. 106 e seg.).
108
AZZARA C., op. cit., pag. 49. Sembra più realistica, e, come tale, da preferire, la stima, prudenziale, di
Azzara rispetto a quella del citato Morra, il quale (v. ivi) riferisce “dei 300 mila Goti che erano entrati in
quantità relativamente modesta e di certo largamente minoritaria rispetto alla copia dei
romani, con cui i goti si trovarono a convivere, anche se l’impatto dei nuovi immigrati
deve essere calcolato in proporzione non tanto alla massa degli abitanti della penisola,
quanto, piuttosto, al ceto dei possessores, cioè al ceto dirigente romano, al quale essi si
affiancarono per rango e funzioni”109, è possibile, con ogni ragionevolezza e probabilità,
pensare ad una ipotesi sulla presenza gota “in Samnio” composta, al più, solo da
qualche migliaio di individui, che andava ad inserirsi in un ambiente antropico in cui
risulta evidente sia la crisi demografica in atto che una proprietà di dimensioni medie.
Sembra, inoltre, possibile immaginare quella presenza, come conferma anche il dato
archeologico, nelle vicinanze degli insediamenti e dei percorsi viari.
Il fatto che “i goti, che si erano portati nella penisola non per iniziativa autonoma
ma su delega dell’imperatore, optarono per una convivenza tra l’elemento barbaro di
nuova immigrazione, che si proponeva come detentore esclusivo della forza militare, e i
quadri eminenti della società romano-italica, nelle cui mani erano concentrati il potere
politico-amministrativo e quello economico”110, impedì una apprezzabile assimilazione e
la fusione reciproca delle due etnie e delle relative culture (religione, diritto, ecc.); cosa
che porta ad immaginare “un quadro, per l’Italia rurale d’età gota, di sostanziale tenuta
rispetto agli ultimi tempi dell’impero d’occidente, facendo spostare semmai in avanti
eventuali cesure e lasciando intendere come i processi di trasformazione si siano
dipanati su tempi molto lunghi”111.
“Il nodo della mancata fusione tra goti e romani, con il mantenimento di una
società bipartita”112; la manifesta e palese non riconducibilità alla ‘cultura’ dei Goti, e
viceversa, delle concezioni politiche e, ad esse intrecciate, di quelle religiose, con il
conseguente riavvicinamento alle posizioni imperiali ed orientali sia delle élites romane
che degli esponenti del Cristianesimo occidentale; la risposta autonomistica del potere
religioso romano, che, diversamente da quanto avveniva nella pars Orientis dove la
discussione era prevalentemente teologica, preferiva argomenti di carattere economico e
giurisdizionale113 e, comunque, legati all’immediato controllo del papato, che sta sempre
di più diventando una entità economica di rilievo 114, alle pressioni teodoriciane; questi
sono, con le riduttive limitazioni imposte dalle schematizzazioni, i fattori di crisi, prima,
e, poi, del conseguente fallimento dell’esperienza del “Regnum Gothorum” in Italia.
Alla scelta delle aristocrazie gote, sotto la reggenza di Amalasunta (526-535) e contro le
Italia, si calcola che fossero 70 mila quelli che si stabilirono nel Sud della penisola e a costoro, secondo il
costume dell’hospitalitas già applicato nei confronti dei soldati di Odoacre, fu assegnato un terzo delle
terre appartenenti ai possessores”.
109
AZZARA C., op. cit., pag. 49.
110
AZZARA C., op. cit., pag. 62.
111
AZZARA C., op. cit., pag. 72.
112
AZZARA C., op. cit., pag. 76.
113
FALKENHAUSEN (Von) V., I rapporti ... cit., pag. 68. Sarebbe importante, e di grande interesse,
approfondire l’argomento della diffusione nell’ambito locale della discussione teologica e delle posizioni
assunte dalle varie chiese nelle occasioni dei diversi scismi. E’ qui il caso di annotare la presenza, per i
concili svoltisi a Roma durante lo scisma laurenziano, di “Marius, Episcopus tiphernatium”(501) e di
“Marcus Samninus Episcopus”(502), dei quali già abbiamo visto.
114
PIETRI C., Le sénat, le peuple chrétien et les partis du cinque à Rome sous le pape Symmaque (498514), in Mélanges d’arch. et d’hist. 78 (1966), pagg. 132-139.
intenzioni di quest’ultima, la quale, figlia di Teodorico, ne avrebbe voluto privilegiare
l’atteggiamento collaborazionistico, di una posizione rigida e non più conciliante
corrisponde la ricerca, da parte di Costantinopoli, dell’uniformità religiosa per tutte le
regioni dell’impero, iniziata da Giustino (518-527), che, assai vicino alle posizioni
‘romane’, perseguiva esclusivamente finalità religiose, e proseguita, con scopi politici e
di riconquista, da Giustiniano (527-565). E, conseguenza assai logica, quella guerra, che,
combattuta, dal 535 al 553, ferocemente sul suolo italico da due eserciti, il goto ed il
greco-bizantino, non italici, può essere considerata il più “significativo momento di
cesura tra gli assetti dell’Italia tardoromana e quelli che il paese doveva conoscere
nell’età medievale”115 e di reale definitiva cancellazione di ogni forma della ‘romanitas’.
Così, l’emanazione da parte del ‘basileus’ Giustiniano della Prammatica Sanzione del
13 agosto 554, se formalmente, sancendo il reintegro all’impero dell’Italia e rendendo
nulli ed inefficaci tutti i provvedimenti dei re goti contro la proprietà, mirava a
ripristinare lo status quo politico, amministrativo e socio-economico anteriore alla
esperienza teodoriciana, nei fatti rappresentò l’imposizione del potere, ivi comprese
religione e cultura, greco-bizantino all’indebolita italicità ed il totale annullamento di
ogni concreta autonomia amministrativa della penisola rispetto a Costantinopoli.
“L’aspetto complessivo del paese restava miserevole rispetto a un passato non
troppo remoto: la popolazione era drasticamente ridotta (anche se calcoli precisi
rimangono impossibili), esposta a carestie ed epidemie, e vaste regioni erano
interamente disabitate. I campi coltivati erano di conseguenza arretrati di fronte
all’incolto, con l’estendersi di boschi e acquitrini, che modificavano profondamente il
paesaggio modellato nei secoli dell’impero romano per opera dell’uomo, alterando le
condizioni generali di vita. Molte delle grandi strade romane caddero in disuso, per lo
svuotamento dei territori che attraversavano; nei centri urbani la scarsità dei residenti
comportò una ridefinizione degli spazi”116.
Pur se è necessario evitare quelle estremizzazioni, per le quali “l’Italia bizantina,
insegnataci dai migliori manuali classici, è divenuta un racconto dei controversi rapporti
religiosi tra l’Oriente e l’Occidente, oppure una provincia bizantina senza Greci”117, è
impossibile non registrare, a guerra conclusa, il totale allineamento, in materia religiosa
e dottrinale, della posizione occidentale a quella greco-bizantina. Così che nel 553, in
concomitanza della fine dello scontro, si ha la immediata firma di condanna, che “aveva
sigillato – almeno ufficialmente – la pace fra l’imperatore e la Chiesa romana”118, dei
‘Tre Capitoli’ da parte di papa Vigilio (537-555), il quale, seguito anche da un certo
numero di vescovi italiani, “con un gruppo di chierici romani, già prima della conquista
di Roma (nota: era ancora il 546) da parte di Totila, si era trasferito a Costantinopoli, più
o meno costretto da un ‘invito’ dell’imperatore, che aveva chiamato il pontefice per
fargli firmare il decreto imperiale contro i ‘Tre Capitoli’, che, prodotto dalla teologia
imperiale, e giudicato non accettabile dalla maggior parte dei vescovi italiani, costituiva
115
AZZARA C., op. cit., pag. 85.
AZZARA C., op. cit., pag. 86.
117
GUILLOU A., L’Italia bizantina, Bari (?) 1966, pag. 1. Vengono riportati ed analizzati dal Guillou
anche i rapporti di ‘sudditanza’ verso Costantinopoli da parte di vescovi italiani.
118
FALKENHAUSEN (Von) V., I rapporti ... cit., pag. 83.
116
un ennesimo tentativo di riconciliare ortodossi e monofisiti”119. Pur se la storiografia
tende a minimizzarne gli effetti, le conseguenze, nel lungo periodo, di tale allineamento
furono che “nei territori intorno a Ravenna, a Roma e nell’Italia peninsulare il dominio
greco era incontrastato e la supremazia dell’imperatore non era qui contestabile, anche
se non sempre e non continuamente si manifestava in tutta la sua forza; in ogni caso, i
vescovi romani necessitavano di conferma da parte dell’imperatore o dell’esarca. Di
fronte al duro attacco dei Longobardi, i vescovi romani e l’esarca di Ravenna erano
generalmente naturali alleati, come per esempio al tempo di Gregorio Magno (590-604).
Dalla prima metà del VII secolo fino all’inizio dell’VIII secolo, Roma può in larga
misura essere definita città greca. Il gran numero di profughi dall’Oriente dava
all’antica capitale dell’impero un aspetto greco: con l’adozione di titoli e
denominazioni greche per le funzioni pubbliche, il latino grecizzante e l’uso della
lingua greca nei sinodi. Dei tredici vescovi romani tra il 678 e il 752, solo due erano di
origine romana; tutti gli altri erano siriani, greci, siciliani. […]. Questa interferenza
greca imponeva ai vescovi romani la massima cautela nel loro atteggiamento e nelle loro
prese di posizione politiche. Ciò è mostrato dal destino di papa Martino I (649-655), al
quale, prevalentemente per motivi politici, fu intentato a Costantinopoli un processo per
alto tradimento, anche se la successiva versione locale dei fatti volle attribuire ciò
piuttosto alla difesa di questioni dogmatiche. In questo contesto si inserisce anche la
condanna lungamente discussa e mal confacentesi all’immagine storica primaziale, che
il VI Concilio ecumenico a Costantinopoli (680-681) e, più tardi, la chiesa Romana
pronunciarono contro papa Onorio I (625-638). […]. L’iconoclastia, che,…, sconvolse la
parte orientale dell’impero e solo alla metà dell’VIII secolo si concluse in modo
insignificante, ebbe per l’Occidente – quindi soprattutto per Roma e per l’Italia –
importanza minore; e non fu l’unica causa per cui i territori dell’Italia meridionale
ancora soggetti all’influenza greca si sottrassero alla giurisdizione dei patriarchi
occidentali (romani) e si sottomisero direttamente al patriarca di Costantinopoli. La
perdita dei patrimoni inflisse un grave danno alla chiesa romana, e causò secolari
conflitti di giurisdizione. Fino allo scisma dell’XI secolo, l’autorità dell’imperatore di
119
FALKENHAUSEN (Von) V., I rapporti ... cit., pag. 81. Dalle posizioni gote (che, quantomeno, non
intaccavano l’aspetto dottrinale), per cui Teodorico aveva potuto ‘usare’ Giovanni I per ambascerie
all’imperatore e, non avendo ottenuto quanto si prefiggeva, incarcerarlo ed assassinarlo (526) e Teodato,
marito di Amalasunta, aveva potuto imporre, ancora nel 536, come papa, Silverio, sgradito a
Costantinopoli, si era passati all’allineamento con la concezione imperiale.
Sul significato di tale firma occorre partire dal fatto che mentre “Giustiniano,…, si ostinava innanzi tutto
nel voler ottenere la firma pontificia sotto la condanna dei ‘Tre Capitoli’, che giudicava un passo
essenziale per la realizzazione della pace ecclesiastica dell’impero. Egli insisteva sulla necessità per la
chiesa romana di adeguarsi alla teologia imperiale, perché nel suo impero non v’era spazio per una politica
pontificia autoritaria e indipendente, come quella di Leone I e di Gelasio I. Papa Vigilio invece, da un lato
influenzato dai consiglieri teologici occidentali che rifiutarono la condanna dei ‘Tre Capitoli’, dall’altro
sollecitato – anche con violenza – dagli uomini dell’imperatore, proseguiva una politica oscillante e
dilatoria”.
La condizione di subalternità al potere civile del papato emerge dal fatto che, dopo un anno dalla elezione
imposta dal goto Teodato, viene deposto papa Silverio (che era figlio di papa Ormisda) e, nel 537, quando
la situazione della guerra è diventata favorevole ai greci, viene imposto papa Vigilio dal basileus greco. E,
da questo momento, si ha che la consacrazione di un papa, eletto come tutti gli altri vescovi dal popolo
della civitas, è subordinata alla approvazione da parte di Costantinopoli.
Bisanzio prevalse, anche in materia di fede, sull’autorità dei vescovi romani”120.
Pur se, quantitativamente e qualitativamente, poche e del tutto frammentarie le
testimonianze, che, lo abbiamo già potuto vedere, le cancellazioni posteriori ad opera
della, e finalizzate alla, riaffermazione della ‘latinitas’ rendono oscuri quei secoli, è,
tuttavia, possibile proporre una ipotesi di ricostruzione degli accadimenti che toccarono,
perfettamente in linea con i fatti italici, il ‘Samnium’. Sembra, come riferisce Procopio
di Cesarea, che già dalle prime fasi della guerra almeno “una parte del Molise passò
presto in dominio dei Bizantini in quanto Pitzas (nota: appare sin troppo evidente la sua
posizione favorevole alla linea politica, più morbida, possibilista ed accomodante, di
Amalasunta), il capitano goto che la presidiava, una volta a conoscenza della
occupazione di Roma, avvenuta nel dicembre del 536, ‘diede in mano a Belisario se
stesso e i Goti che colà con lui abitavano ed una metà del Sannio marittimo, fino al
fiume che corre in mezzo a quella regione. I Goti, però, che erano stabiliti al di là
(nota: è da intendersi alla destra) del fiume, non vollero né seguire Pitzas, né
assoggettarsi all’imperatore’. Il Grimaldi, nei suoi Annali, desumendo dai fatti che
seguirono, argomenta che si arresero ai Bizantini i territori a nord del Biferno, mentre
quelli meridionali ‘rimasero saldi nella loro fede’. Infatti, subito dopo, nel 537, sarà
proprio Pitzas che, con le truppe fornitegli da Belisario acquisterà all’Impero d’Oriente
la rimanente parte del Sannio fino a Benevento, mentre il generale greco resisteva
all’esercito di Vitige, che lo aveva assediato in Roma in attesa di rifornimenti e rinforzi.
In suo soccorso venne Zenone il quale, secondo la narrazione di Procopio, giunse a
Roma con 300 cavalieri dopo aver attraversato il Sannio e la via Latina”121.
Pressoché contemporaneamente, nel risalire dal sud con l’evidente scopo di fissare
il controllo diretto nella fascia adriatica della penisola, il comandante greco-bizantino
“Johannes, vero, … Samnitium regionem ingressus est, Aternoque oppido espugnato,
Tremonem Gothorum ducem cum suis prosternit. Ortonam similiter invadit, Picenum
depredans, Ariminum occupat (=Giovanni, dunque, … entrò nella regione dei Sanniti [si
noti l’uso del plurale, cui è possibile attribuire diversi significati] e, dopo aver espugnato
l’oppidum Aterno, sconfisse il capo dei Goti, Tremone. Similmente invade Ortona e,
avendo depredato il Piceno (nota: nei documenti di questo periodo storico, assai spesso
associato al Sannio), occupa Rimini)”122.
120
FINK K. A., Chiesa e… cit., pag. 15 e seg. Relativamente alla condanna di papa Onorio I, il Fink
aggiunge: “Nella fondamentale ricerca di G. Kreuzer sono stati trattati particolareggiatamente gli sforzi
della storiografia curiale di minimizzare l’episodio fino alle epoche più recenti”. L’opera del Kreuzer è:
Die Honoriusfrage im Mittelalter und in der Neuzeit, Stuttgart 1975.
121
MORRA G., L’Alto Medioevo… cit., pag. 133 e seg. Si noti come il passo riportato, oltre che la
presenza e le diverse posizioni ‘politiche’ anche tra i goti stabilitisi nel territorio molisano, conferma sia
l’importanza del fiume Biferno per ogni disegno delle geografie antiche del Molise e sia l’esistenza, alla
sinistra e nelle immediate vicinanze di quel fiume in quanto deve situarsi in zona discretamente sicura
(era, difatti, già sotto il controllo bizantino) per il passaggio di Zenone, della ‘odòs Sàmniou’, ricordata da
Procopio (B.G., VI, v, 2), che ben può farsi coincidere (v. DE BENEDITTIS G., Appunti sulle fonti
classiche relative alla viabilità romana nel Sannio, in AM 1988, II, pag: 13 e segg.) con la via, indicata
nella Tabula Peutingeriana, che collegava Larinum a Bovianum. E sembra essere confermata anche la
discreta presenza umana su quell’area.
122
Additamentum Marcellini Comitis, in MGH, XI, Berolini 1894, pag. 105.
Ai goti, i quali, di origine nordica, per statura, come mostra il dato archeologico 123,
erano sensibilmente più alti rispetto sia ai greci che agli autoctoni italici, mediterranei di
razza, costretti dalle sorti della guerra a ritirarsi verso la pianura padana, fu necessario
qualche anno per riorganizzare la riscossa militare e politica alla occupazione bizantina
e, nel 542, Totila, re dall’anno precedente, dopo essersi rapidamente impadronito delle
città poste lungo la strada, di notevole importanza strategica, che collegava Ravenna a
Roma, invade il Samnium e la Campania ed occupa Benevento, con l’evidente obiettivo
di spostare il fronte nel mezzogiorno.
Che lo scontro si stava disputando, ora, nel meridione lo conferma la presenza, tra
il 545 ed il 546, del comandante ‘Johannes’, bizantino, nell’Apulia e nel Sannio.
Dopo la battaglia di Gualdo Tadino, in cui lo stesso Totila aveva trovato la morte,
il successore Teia, proveniente dal Piceno, nell’autunno del 552 attraversa il Sannio,
seguendo probabilmente quella strada adriatica, che, per Lanciano ed attraverso la zona
di Cascapera dell’agro di Limosano, la “Strada Langianese”124, arrivava a Benevento,
prima dello sfortunato scontro, decisivo per le sorti della guerra, ai Monti Lattari,
scontro quest’ultimo, che fu preceduto di pochi giorni da quello del 553 sul Fortore 125, il
quale sta proprio a dimostrare che il territorio molisano ed, in particolare, l’area del
medio Biferno furono molto interessati dalla fase finale dello scontro.
L’importanza strategica, che sta assumendo il Samnium come nodo centrale di
raccordo, sicuramente anche stradale, tra il nord, con particolare riferimento alla fascia
adriatica cui fa da riferimento Ravenna, e l’intero meridione (Apulia, Campania e,
destinata per più secoli a notevole emergenza storica, Benevento), è confermata anche
dal passaggio dei franco-alemanni (e goti) di Leutaris e Butulino, nel 553, proprio nel
Sannio, da dove, dopo essersi divisi, il primo si diresse verso l’Apulia ed il secondo
verso la Campania.
E’ il segno, evidente, di un significativo cambiamento in atto nei ‘nuovi’ rapporti
di forze e degli assetti delle geografie della penisola. Esso, che, quanto a collocazione
temporale, sicuramente è anteriore all’arrivo della gens Langobardorum e, perciò, non
riferibile a tale evento, riceve grande accelerazione dalla ‘bizantinizzazione’, che sta, con
l’affermarsi ed il diffondersi capillarmente, mettendo sul territorio radici assai più
profonde di quanto si è portati a pensare.
Con tale processo, che molto lo interessò, “il Molise rientra nella circoscrizione
provinciale sannitica che ebbe a capoluogo Benevento e di essa l’epigrafia ci ha
conservato alcuni nomi di presidi, quali Avonio Giustiniano e Mecio Felice”126. Inoltre,
dall’elenco “degli ufiziali greci,…, sott’i greci augusti”, sappiamo di un certo “Sisinnio
Giudice, e Governatore del Sannio, quando fu invaso da’ Longobardi, 569…”127.
Quanto agli aspetti del processo di ‘bizantinizzazione’ ed agli strumenti impiegati
123
Corre la notizia (impossibile, tuttavia, ad essere verificata direttamente) dell’avvenuto rinvenimento di
tombe, nell’agro di Limosano (zona di Cascapera), con scheletri di guerrieri, presumibilmente goti, alti tra
i 190 ed i 200 centimetri.
124
V. il precedente Capitolo 1° e BOZZA F., Limosano: Questioni … cit.
125
DIEHL C., I grandi problemi della storia bizantina, Bari 1957 e MOSCATI S.G., Collectanea
Bizantina, Bari 1970.
126
MORRA G., L’Alto Medioevo… cit., pag. 136.
127
DI MEO, Annali… cit., XI, pag. 423.
per realizzarla, nonostante quella lamentata manchevolezza, certamente frutto di un tipo
di storiografia avvezza alle cancellazioni, per cui “dell’Italia e dei suoi abitanti si parla
ben poco”128, va subito precisato che fu prima e grande premura del basileus il mandare
direttamente dalla pars Orientis la ‘nuova’ classe dirigente, e, così come mostrano i
nomi greci dei funzionari inviati “in Samnio”, i quadri amministrativi, di formazione e
di cultura greco-bizantina, per ottenerne una provata fedeltà e la più scarsa corruttibilità
possibile. Ed il fatto che già “all’inizio del VII secolo perdiamo le tracce della vecchia
aristocrazia senatoriale”129 ne può essere considerato la conseguenza più che logica ed
assai normale.
Ciò premesso, occorre registrare, relativamente alla condizione amministrativa
‘civile’, che, assai significativamente per le conseguenze che manifesterà, lo strumento
ed, allo stesso tempo, il fine del “funzionamento, dal VI all’XI secolo, delle istituzioni
bizantine in Italia” era quella “chiarezza dell’amministrazione fiscale”, che “veniva
esercitata con regolarità” spietata e con l’estrema puntualità di una macchina fiscale
perfettamente a punto130.
Circa, poi, la caratterizzazione di quel condizionamento religioso, che sfocia nella
vera e propria sudditanza della ‘vecchia’ Roma verso Bisanzio o, a seconda del punto di
vista, nella preminenza di quest’ultima verso la penisola (basti, per una idea anche sulla
durata temporale, solo considerare che gli otto ‘concili’ del primo millennio cristiano, di
cui ben quattro svolti proprio a Costantinopoli, furono tutti tenuti nella pars Orientis),
essa nasceva da quella convinzione, generalmente condivisa ed accettata da tutti, per cui
“l’autorità assoluta dello Stato, dato che questo è di origine divina e che l’Imperatore è
l’unico rappresentante di Dio in terra, congloba anche l’amministrazione dell’ortodossia
e del dogma”131.
Per formulare una ipotesi assai probabile sugli accadimenti di quel periodo anche
“in Samnio”, sembra opportuno, ora ed a questo punto, rileggere ciò che, relativamente
all’anno di Cristo 575, scrive (v. nota 13 del capitolo 1°) il Di Meo: “… i Greci,…, per
aver seguaci dé loro errori innalzarono delle nuove sedi (vescovili)…; e che poi i
Romani Pontefici istituissero qualche nuova Sede, e molte ne ristabilissero. Pur
tuttavolta in numero assai maggiore erano i Vescovadi nel nostro Regno di quello, che
sono al presente, primaché le tante, e sì doviziose Città di esso venissero barbaramente
sterminate dà Longobardi. (…), Mevania,…, Samnia…”132. Ne emerge, a ben guardare,
quella straordinaria capillarità di penetrazione nel fissarsi sul territorio del processo di
bizantinizzazione, che – la cultura e l’arte non mentono – sembra ben confermata dal
fatto che “notevole fu l’influenza culturale di Bisanzio, specialmente nell’arte, che sotto
Giustiniano ebbe un momento di grande sviluppo e che nel Molise si trova esemplata
128
GUILLOU A., L’Italia… cit., pag. 1.
FALKENHAUSEN (Von) V., I rapporti ... cit., pag. 88.
130
GUILLOU A., L’Italia… cit., pag. 2 passim. “L’espressione normale dell’amministrazione bizantina in
Italia è il reddito rimesso da questa provincia al tesoro dello Stato ogni anno”. Inoltre “lo Stato bizantino
non delegò mai i suoi diritti e riscosse sempre direttamente le sue tasse, …”.
131
GUILLOU A., L’Italia… cit., pag. 3. Si veda il caso di papa Martino, il quale, “considerato ribelle alla
volontà imperiale, è deportato e morirà nel Chersonese il 15 maggio 655, dopo essere stato condannato
regolarmente a morte dai giudici del Boukoléòn per crimine politico” (ivi, pag. 4 e seg.).
132
DI MEO, Annali… cit., I, pag. 70.
129
nella decorazione scultorea di alcune chiese”133 ed, a riprova che esso fu fenomeno di
assai lunga durata, generalizzato ed affatto marginale anche in tutta l’area dell’attuale
Molise, nei “Santi in costume bizantino della cappella <di> S. Lorenzo alle fonti del
Volturno”134.
Tutti questi elementi portano a ritenere che la via romano-latina del cristianesimo
della pars Occidentis, a partire dagli ultimi anni del V e per l’intero VI secolo, viene
arrestata e, per il tramite di cancellazioni di cui sfugge ogni entità (i goti erano ariani e
non mancarono contrasti con il tipo ‘autoctono’ di religione cristiana), se non sostituita,
quanto meno modificata, durante e per mezzo della ‘bizantinizzazione’, con una via
greco-bizantina, appunto, della religione. Tale via favorì la diffusione, oltre che del tipo
di amministrazione e di scelta nelle discussioni teologico-dommatiche e dottrinali, anche
della ritualità, che durerà, a partire dal VI secolo e sino a dopo lo scisma del 1054, per
ben cinque secoli ed oltre, nelle manifestazioni di culto.
Così, da una pur sommaria rilettura (possibilmente a ritroso e partendo, cioè, dal
documento n. 5) di quanto, documenti e considerazioni, si riportava nella nota 17, viene
fuori che, siccome dal pallio e dalla maniera di benedire di tutti i ventiquattro vescovi,
tra cui anche quello di Limosano-Tiphernum, della porta di bronzo della Chiesa
cattedrale di Benevento, intesa come ‘metropolitana’, Pompeo Sarnelli poteva ancora
congetturare che in que’ tempi nella Chiesa Beneventana si osservasse il rito greco, è
possibile ipotizzare che tutte, o quasi tutte, quelle diocesi, oltre che tutte assai antiche,
sono state di cultura, di osservanza e di rito greco-bizantino e sono state dipendenti da
Costantinopoli per più secoli. Il documento n. 4 aiuterebbe a provare che la Chiesa
romano-latina e la storiografia ad essa riconducibile tentino, nel migliore dei casi, a
dimenticare, a lasciare nella indifferenza o ad abbandonare alla dimenticanza, se non
proprio a cancellare, le diocesi collegate, come fu quella di Tiphernum-Musanense, che
sicuramente visse, e la si menziona a solo titolo di esempio, l’esperienza anacletiana, ad
imbarazzi per problematiche di qualsiasi tipo. Che questa diocesi sia stata di rito greco,
oltre alla presenza di ‘episcopi’ (molti, come quel Fotino del 1040, aventi proprio nome
greco), che non figurano nei documenti della Chiesa latina, lo dimostrerebbe (v. il
documento n. 3) la presenza del ‘baculus’, che è tipico del rito di quella osservanza.
Sul fatto che il territorio di Limosano, quella “Musane”, che, al dire del Vipera,
ripeteva (termine questo che, con buona evidenza, sta ad indicare la ripresa della
133
MORRA G., L’Alto Medioevo… cit., pag. 136.
GUILLOU A., L’Italia… cit., pag. 6. Nella nota, che si riporta fedelmente per le indicazioni
bibliografiche, il Guillou, il quale, da pag. 5 a pag. 9 del suo lavoro, tratta diffusamente delle
testimonianze rimaste delle espressioni artistiche bizantine in Italia, riporta: “Cf. E. BERTAUX, L’art
dans l’Italie méridionale, Parigi 1903, pp. 99-103; P. TOESCA, Reliquie d’arte della badia di S. Vincenzo
al Volturno, in Bullettino Ist. stor. ital., 25, 1904, pp. 1-56 e Storia dell’Arte italiana, I, Il Medioevo, I,
Roma 1927, pp. 408-409; A. GRABAR, Le Haut Moyen Age du quatrième au 12e siècle (Les Grands
siècles de la peinture), Skira, s.d. (1957), pp. 29, 53-54, hanno più o meno vigorosamente sottolineato le
influenze orientali; C. BRANDI, in Boll. Ist. centrale Restauro, 31-32, 1957, pp. 93-96, tratta del
problema della conservazione degli affreschi; Maria BAROSSO, L’abbazia di S. Vincenzo martire alle
fonti del Volturno, Palladio, 5, 1955, pp. 164-167, ha cercato di definire la pianta del monumento che si
trovava sopra la cappella di S. Lorenzo. Gli affreschi sono stati dipinti fra l’826 e l’843”. Cosa,
quest’ultima, che dimostra l’influenza in un arco di tempo assai lungo e fatto di secoli della cultura
bizantina.
134
funzione, con la conseguente sostituzione, di una emergenza già esistita e, poi, non più
attiva) i suoi natali dalla nobile famiglia de’ Pantasij (parola di origine, e la circostanza
è piena di significato, greca), ricadeva in zona sottoposta al controllo bizantino, va detto
che “nel 983 la lista <di vescovi soggetti> comprende quattro nuovi nomi: Sessula,
presso Acerra, che scompare tra il 1053 e il 1058,…, e Lucera, Termoli e Trivento,
conservatesi fino ad oggi. La menzione di queste tre città, un tempo comprese nei limiti
della diocesi beneventana e poi perdute, rappresenta il punto iniziale di un movimento di
penetrazione progressiva nel territorio posto sotto il controllo bizantino” e il loro
inserimento “nella lista delle possibili suffraganee è fatto con lo scopo evidente di
rendere più saldi i legami del clero latino di quelle regioni con la Chiesa di Roma, per
sottrarlo all’influenza della Chiesa di Costantinopoli” 135. La circostanza che ci si trova
subito dopo che, con chiara finalità politica, Benevento è stata ‘rinominata’ archidiocesi
e metropolitana e nel secolo che precede lo scisma (il quale scisma avviene mentre papa
Leone IX, sconfitto dai Normanni, viene trattenuto, probabilmente prigioniero, proprio a
Benevento, da dove – quante coincidenze! – parte, nel gennaio del 1054, la delegazione
per Costantinopoli), altro non fa che caricare gli eventi di maggiore significato politico.
Certo che, tornando alle cancellazioni (operate dai barbari, dai goti e dai bizantini)
del preesistente, prodotto dai vinti, esse non aiutano le ricostruzioni del ‘vero’ corso
della storia, ma il fatto che si siano praticate non sta a significare che la storia sia andata
così come ci viene dato da credere. Tutt’altro.
2.2 – La longobardizzazione
Se il racchiudere gli eventi in schemi, che è già di per se minimizzante ed assai
riduttivo, può sembrare sufficiente (e comodo) per le categorie logico-mentali a provare
a darne resoconti di sintesi e superficiali spiegazioni, nei fatti i processi storici, che
maturano in tempi di gran lunga più lunghi di quelli che normalmente riesce a percepire
la limitatezza della mente umana e necessitano sempre del concatenarsi di fattori
culturali e concause molteplici, molti dei quali talvolta risultano poco determinabili, per
mettersi in moto ed avanzare, sono di gran lunga più complessi di quanto normalmente
si possa ritenere. Così, se si è portati a pensare alla ‘longobardizzazione’ come ad
avvenimento iniziato e già concluso con il semplice arrivo della gens Langobardorum
135
PRATESI A., Note di diplomatica vescovile beneventana – Parte II: Vescovi suffraganei (Secoli XXIII), in Bullettino dell’Archivio Paleografico Italiano, n.s., I (1955), pp. 19-91; pag. 26 e pag. 23.
Le finalità ‘politiche’, così come le fluttuabilità della linea di confine (l’affermazione del Klewitz, relativa
all’analisi del documento di elevazione di Benevento ad archidiocesi, che indica solo i ‘loci’ di Bovino,
Ascoli Satriano, Larino, Siponto e il santuario di S. Michele Arcangelo sul Gargano, al dire di Pratesi, pag.
22, “va accolta con una riserva, in quanto Larino può indicare il confine sul Biferno, non quello sul
Trigno, che dovrebbe essere individuato con la menzione di Termoli e di Trivento, pure sottoposte alla
giurisdizione del vescovo beneventano; probabilmente il dettato dei privilegi ripeteva uno schema che era
stato formulato in un periodo in cui il confine settentrionale del principato, e quindi della diocesi, era
effettivamente rappresentato dal Biferno”) tra i territori soggetti all’influenza latina e quelli sotto il
controllo bizantino, sono state analizzate da KLEWITZ H.-W., Zur Geschichte der Bistumsorganisation
Campaniens und Apuliens im 10 und 11 Jahrhundert, in Quellen und Forschungen aus italienischen
Archiven und Bibliotheken, XXIV (1932-33), pp.1-61.
e circoscrivibile a periodo di tempo relativamente breve136 o, al più, durato appena
qualche decennio, essa nella realtà fu, al contrario, fenomeno storico di assai lunga
durata e con effetti, che si manifesteranno solo nell’VIII secolo ed in maniera diversa da
zona a zona, da luogo a luogo. Relativamente al Samnium, del quale, geograficamente
‘indefinito’, sembra necessario ancora dover ricorrere alla definizione dei confini suoi e
di quelli delle diverse sub-aree che lo componevano, a quando datarla?
Anche se mai i fenomeni storici sono uguali e ripetibili, una delle caratteristiche
del sessantennio dell’esperienza del Regnum Gothorum sembra essere stata il non aver
avuto, a motivo sia della ‘lontananza’ come della mancata integrazione, nonostante i
tentativi volontariamente o involontariamente fatti, tra la cultura nordico-gota con quella
latino-italica, il tempo necessario per lasciare segni marcati su quest’ultima.
Furono, diversamente da quella esperienza, le affinità tra la grecità e la romanità a
favorire il radicarsi, in maniera capillare e profonda, della cultura, nel senso il più lato
possibile, bizantina nella ‘nuova’ società italica, dove venivano ad agire ed a combinarsi
tra loro fattori diversi di cambiamento. A riprova di questo così come dell’ampiezza
dell’intervento greco-bizantino, sembra proponibile l’ipotesi di datare proprio a questo
periodo l’emergere, nell’area riconducibile al corso mediano del fiume Fortore, di quella
‘Pantasia’ insediamento bizantino e che, anche ‘contea’ (poco conosciuta e, ancor
meno, studiata), verrà soppiantata, nel ruolo e nelle funzioni, dalla normanna Loritello137.
136
A puro titolo di esempio di quanto le sintesi possano risultare devianti e di nessuna utilità, si riporta ciò
che, dell’arrivo dei Longobardi, scrive DE ANTONELLIS A. (Storia di Benevento, Benevento 1997, pag.
20): “Ma il suo (= di Longino, esarca greco-bizantino) potere era destinato a cessare dopo pochissimi anni,
<quando> nel 568 il longobardo Alboino, alla testa di un possente esercito, calò in Italia ed in breve tempo
condusse a termine la conquista della penisola. Soltanto nel Meridione d’Italia evitò di scontrarsi con i
porti della costa, ben presidiati dai Greci (ossia Bizantini), limitandosi alle meno guarnite città
dell’entroterra”.
137
Ad una Pantasia bizantina e che, come insediamento abitativo, emerge proprio in questa fase della
Storia fanno pensare l’etimo stesso, di evidente derivazione greca, e, soprattutto, il fatto che “[…].
Nondimeno il rinvenirsi rottami di fabbriche, fra i quali quelli di una fontana con accurata ruderazione e
monete bizantine, fa supporre che ivi (nota: ad oriente di S. Giuliano, a circa due chilometri di distanza),
forse edificati nei quindici anni che Narsete in nome dell’Imperatore di Costantinopoli, governò l’Italia,
cercando porvi qualche ordine e ripopolarla”(DI IORIO E., Avvenimenti della Badia di S. Elena in agro di
S. Giuliano di Puglia, in Arch. Storico Molisano, II 1978, pag. 45-62; p. 46-nota).
Come centro abitato è indicato in un documento pubblicato dal GATTOLA, Hist., I, pag. 132.
“Dopo la fase delle invasioni saracene del IX secolo queste strutture amministrative hanno una radicale
trasformazione forse anche a causa della scomparsa di alcuni degli antichi municipi romani distrutti dagli
stessi Saraceni. Nascono così nel X sec. nuove più ampie unità amministrative denominate contee
longobarde. Una di queste sarà quella di Larinum; dalla documentazione d’archivio risultano però essere
presenti sul territorio di Larinum strutture territoriali minori denominate anch’esse contee e dipendenti da
civitates; nel territorio che viene qui considerato ricadono, oltre quella di Larino, anche le contee
longobarde di Campomarino, di Morrone e quella di Pantasia. E’ proprio in quest’ultima contea dove
ricadrà il castello di Loritello.
La geografia ecclesiastica vede i territori delle contee longobarde di Campomarino, di Morrone e di
Pantasia ricadere nella diocesi di Larino del X sec.; sulla contea longobarda di Pantasia abbiamo
pochissimi dati; dal punto di vista topografico essa è ricordata nei nomi di due monasteri, quello di S.
Elena a Pantasia presso S. Giuliano di Puglia da cui proviene un interessante tesoretto di 125 follari datati
914-959 relativi agli imperatori Costantino VII e a suo figlio Romano II (in nota: Sulla presenza bizantina
in agro di Larino cfr. A. CAMPANELLI, Il ripostiglio di Colletorto, in AA.VV., San Vincenzo al
E’ possibile far provenire da tale insediamento quella omonima “nobile famiglia de’
Pantasij”, dalla quale ‘Musane’, la Limosano dell’insediamento attuale, ha, come già
detto, ‘ripetuto’ la sua origine (dopo la distruzione della “antica città delli homini sani”)
ed i cui esponenti vi tenevano ancora dimora sul finire del XIV secolo. L’intervento, in
profondità, della ‘bizantinizzazione’ anche nell’area riferibile all’ambito territoriale del
medio Biferno sembra essere confermato, potendolo riscontrare, dal fatto che “nel
dialetto di Montagano, …, si trovano mescolate a parole italiane, osche e latine, delle
parole di pura lingua greca. Anche la parola ‘aganos’ che forma il secondo elemento di
cui è composta la parola Montagano, è prettamente greca. Sarebbe adunque Montagano
sorta durante la dominazione bizantina, che a Benevento precedette la dominazione
longobarda”138. Cosa che consente di datare, pur sfuggendo se le reali motivazioni siano
da attribuire alle ‘cancellazioni’ successive, l’inizio della ‘scomparsa’ di Fagifulae a
questo momento storico.
Mentre si concretizzava un tale intervento di ‘bizantinizzazione’, che, assai diffuso
sul territorio e, se è vero che “i Greci,…, per aver seguaci dé loro errori innalzarono
delle nuove sedi (vescovili)…; e che poi i Romani Pontefici istituissero qualche nuova
Sede, e molte ne ristabilissero. Pur tuttavolta in numero assai maggiore erano i
Vescovadi nel nostro Regno di quello, che sono al presente, primaché le tante, e sì
doviziose Città di esso venissero barbaramente sterminate dà Longobardi”, molto più
radicale e profondo di quanto le successive cancellazioni portino a ritenere, non trova
ostacolo alcuno e non verrà bloccato, nel Sannio si ha la penetrazione, lenta e finalizzata
allo stabilirsi sul territorio, delle “gentes Langobardorum”, che, come è stato notato per
il “regnum Gothorum”, il quale durante un sessantennio ebbe assai scarso radicamento
nella realtà italica, necessariamente dovrà essersi concretizzata, per diventare realtà
culturale, in tempi assai lunghi.
Contrariamente a quanto gran parte della storiografia propone, “un’invasione,
come quella longobarda, non fece tabula rasa del passato né la storia longobarda si
svolse come qualcosa a sé, separata dalle vicende della Chiesa, di Bisanzio e degli altri
regni barbarici. L’Italia della fine del VI secolo, ma soprattutto dei secoli VII e VIII non
Volturno: dal Chronicon alla Storia, [a cura di G. DE BENEDITTIS], Istituto Regionale per gli studi
Storici del Molise “V. Cuoco”, Isernia 1995, pp. 165-178) e quello di S. Maria di Ficarola in agro di S.
Elia a Pianisi, ma anche in un casale Pantasia presso Rotello ricordato in una pianta topografica del Tria
(in nota: Cfr. G.M. TRIA, Memorie storiche, civile ed ecclesiastiche della città e diocesi di Larino, Roma
1774,…)” (DE BENEDITTIS G., Il territorio di Rotello dai Longobardi ai Normanni, in AA.VV., La
contea normanna di Loritello, Campobasso 2002, pag. 50).
E’ il caso di aggiungere che, oltre ai monasteri indicati, nell’ambito territoriale di Pantasia vi era anche
quello di S. Eustachio, che, così come S. Elena, è anch’esso nome greco-bizantino.
Come titolazione a Santi della tradizione greco-bizantina, la cui ‘venerazione’ sembra essersi diffusa
durante il VII secolo, avevano le “ecclesiae sancti Eleutherii et sancti Hilarii atique monasterium Sancti
Eustasii in castello Ribza (= Riccia)” ed il “monasterium sancti Eustasii infra castrum Viperae (in
territorio di Gambatesa)”, tutte istituzioni rientranti nell’ambito della contea di Pantasia e che (v.
Registrum Petri Diaconi, 498,499 e 500), intorno agli anni ’70 del XI secolo, vengono ‘oblatae’ a Monte
Cassino.
138
GALLUPPI M., Montagano Baronia-Contea-Marchesato del Molise, Campobasso 1979 (opera
postuma curata e completata da DI MEO L.), pag. 20. Si veda, su tale ipotesi di ricostruzione e di
derivazione etimologica, anche: CARABBA-TIRABASSO, Faifoli-Montagano, pag. 9 e segg.
è la storia di un’Italia bizantina e di un’Italia longobarda rigidamente separate, senza
osmosi”139, ma una realtà dinamicamente complessa e nella quale si trovano a interagire,
nel mentre che avviene il radicamento sul territorio e tra gli abitanti, moltiplicatori molto
diversi, che, però, si mischiano e si confondono tra loro.
Gli inizi dell’invasione longobarda, il cui affermarsi, nonostante e per gli effetti di
una strana sottovalutazione contemporanea, e non solo, che porta ad interpretarla come
una vera “cesura degli interessi, sia politici, sia storiografici, dei Bizantini nei confronti
dell’Occidente” seguita alla fine della guerra gotica, rimane quasi del tutto sconosciuto
alla storiografia bizantina (e occorrerebbe proporne una spiegazione, oltre che logica,
plausibile e condivisibile), “coincisero con il richiamo a Costantinopoli del patricius
Narsete che fino ad allora aveva coordinato la difesa militare e l’amministrazione
dell’Italia post-gotica”140.
Il fatto che l’invasione longobarda rimanesse quasi del tutto sconosciuta alla
storiografia bizantina, più che frutto di indifferenza, sembra avvalorare l’ipotesi del
Bognetti141, per il quale i longobardi dei ducati di Benevento e di Spoleto, più che di
emanazione e provenienza dal ‘regnum’ di Pavia, siano stati dei foederati, cui, dopo che
hanno combattuto nell’esercito imperiale, furono assegnate, come da consuetudine e da
prassi abituale, la terzia delle terre coltivabili. E tutto ciò risulta essere maggiormente
vero se “per tutto il resto dei Longobardi d’Italia (ad esclusione, vale a dire, dei ducati
settentrionali) vale piuttosto l’affermazione del cronista bizantino Menandro Protettore
che, in quel tempo la più parte dei duchi longobardi obbediva all’imperatore di Bisanzio,
avendone accettati i doni”142. Anche se, in attesa degli approfondimenti e delle conferme
(anche dalla archeologia), qui converrà adattarsi alle risultanze della storiografia
‘tradizionale’ (per inserirvi le ipotesi proposte), pur portando le residualità culturali a far
condividere le proposte e le indicazioni più recenti (che quelle ipotesi maggiormente
supporterebbero e proverebbero).
In una situazione di totale indifferenza politica e di inefficace contrasto militare,
quindi, “le diverse farae, guidate dai propri capi, si sparsero sul territorio della penisola
in modo spontaneo, con uno scarso coordinamento e, in considerazione anche del
numero complessivamente esiguo dei nuovi immigrati, si insediarono principalmente in
luoghi concentrati, di spiccato valore strategico, dai quali fosse agevole il controllo delle
regioni occupate; furono perciò predilette città già rilevanti in epoca anteriore, disposte
lungo le principali vie di traffico e dotate di strutture qualificate, oppure centri
sopraelevati, efficaci come punti di osservazione”143.
139
DE ROSA G., La conquista longobarda nella storiografia della Restaurazione, in Questioni e problemi
della dominazione longobarda in Italia, Napoli 1966, pp. 7-43.
140
FALKENHAUSEN (Von) V., I Barbari... cit., pag. 310
141
BOGNETTI G.P., Tradizione longobarda e politica bizantina nelle origini del Ducato di Spoleto, in
L’età longobarda, III, Milano 1967, pag. 439 e segg. Affatto pura casualità (che, nelle cose di storia, deve
portare ad essere sospettosi) sembra la strana coincidenza di una seconda generazione, nelle serie dei
duchi di entrambi i ducati di Spoleto e di Benevento, durata assai lungamente e circa un cinquantennio.
142
BOGNETTI G:P:, Appunti per una storia dei Longobardi, in L’età longobarda, IV, Milano 1968, pag.
648.
143
AZZARA C., op. cit., pag. 105 e seg. Quanto alla consistenza numerica della gens Langobardorum, in
altra parte del suo lavoro (pag. 93) Azzara scrive che “si trattava, presumibilmente, di un esercito di 100150 mila individui (comprese le donne, i bambini e gli altri soggetti non combattenti), in cui, come
Relativamente a quanto avvenne “in Samnio”, tali scelte strategiche e tali opzioni
nel comportamento, che pure fanno pensare ad un significativo controllo bizantino sui
territori della fascia collinare ed adriatica, sarebbero dimostrate dal fatto che “attraverso
le valli del Sangro e del Volturno la presenza longobarda giungeva fino al Sannio, dove
Benevento costituisce il centro di riferimento”144. Pur se “la resistenza bizantina si rivelò
debole e concentrata soltanto nelle città fortificate”145, la fase iniziale, all’incirca
determinabile nel trentennio conclusivo del VI secolo, dello stabilirsi delle “gentes
Langobardorum” sul territorio italico fu caratterizzata da crudeli devastazioni e
saccheggi, che erano il naturale frutto della atavica ferocità che le contraddistingueva e
che le rendeva particolarmente violenti e crudeli146.
Circa la data, almeno approssimativa, del loro arrivo “in Samnio”, contrariamente
a quanto , con assai sospetta meccanicità, venga proposto dalla storiografia tradizionale,
l’ipotesi e “la supposizione tuttora più probabile dovrebbe essere che Faroaldo (primo
‘duca’ di Spoleto) e Zottone (indicato come primo ‘duca’ di Benevento sin dal 570 o
571) abbiano intrapreso le loro conquiste al centro e al Sud della penisola durante
l’interregno (574-584) e che, ciascuno secondo le sue concrete necessità, si siano
accordati con i Bizantini, per ottenere sussidi in quanto federati”147. Che sia stato
accadeva di norma in simili fenomeni migratori, al nucleo originario di longobardi si erano aggregati
guerrieri di diverse stirpi presenti nel bacino danubiano”.
Tali stime, che, pur nella loro grandissima approssimazione, sono da ritenersi sufficientemente attendibili,
concordano con quelle di JARNUT J. (Storia dei Longobardi [trad. it. di Geschichte der Longobarden,
Stuttgart 1982], Torino 1995), il quale, a pag. 30, scrive: “I guerrieri erano accompagnati sia da mogli e
figli e da altri membri della spedizione non destinati a combattere, sia dalle loro sterminate mandrie. Non
si deve essere troppo lontani dal vero se si suppone che questa ondata migratoria ammontasse a ca.
100.000 – 150.000 individui”.
144
DELOGU P., Il regno longobardo, in Storia d’Italia (diretta da GALASSO G.) I, Torino 1995, pag. 26.
Sembrerebbe alquanto confusa la seguente ricostruzione di RUOTOLO N. (Il castaldato di Boiano
distrutto dai Saraceni, in SAMNIUM 1967), il quale, a pag. 108 ricostruisce che “superato il tratto di terra
che divide i Bizantini dal Ducato romano, i Longobardi discendono nell’Appennino e costituiscono il
Ducato di Spoleto. Ma, mirando sempre al Sud, una forte schiera, con a capo Zottone, attraverso il
territorio dei Marsi, s’immette nel tratturo che dal lago del Fucino conduce a Sulmona. A S. Pietro
Avellana, invece di andare verso Isernia, Zottone preferisce (nota: è il percorso del tratturo) giungere al
Biferno attraverso i territori di Vastogirardi, Carovilli, Agnone, Pietrabbondante; prima di attraversare il
fiume pare che si sia fermato a Salectu, la odierna Salcito, e che poi per Morrone del Sannio e S. Elia,
volgendo al Sud, sia giunto al passo di Vinchiaturo (nota: se non ci sono interessi di campanile, questo
ritorno indietro sembra strano), indi, per la piana di Sepino, a Benevento.
145
JARNUT J., op. cit., pag. 30.
146
“Longobardi, gens etiam Germana ferocitate ferocior (= I longobardi, anche gente germanica più feroce
della stessa ferocità)” (VELLEIO PATERCOLO, Historiae Romanae, II, c. 106). E, in precedenza,
TACITO (Germania, c. 40) già aveva scritto che “Longobardos ipsa paucitas nobilitat (lo stesso piccolo
quantitativo rende forti i Longobardi)”.
147
JARNUT J., op. cit., pag. 34. L’avanzata longobarda verso il mezzogiorno, oltre che la ricostruzione
delle posizioni contrastanti, che non poterono essere solo di qualche anno, nello scacchiere storico di
quella fase, viene cosi riassunta e descritta da HIRSCH F. (Il Ducato di Benevento, Torino 1890 [trad.
SCHIPA M.], ma si cita da HIRSCH F. – SCHIPA M., La Longobardia meridionale, Roma 1968 [a cura
di Acocella N.]) : “Più ostinata resistenza trovarono i conquistatori sul fianco orientale dell’Appennino,
dove s’oppose ad essi Ravenna, come anche le città della Pentapoli, sbarrando la via verso la costa; mentre
Perugia, prima conquistata anch’essa da’ Longobardi, ma subito dopo nuovamente perduta, forniva a’
Greci, nell’interno del paese, la comunicazione ad occidente col territorio romano, il quale mantennesi del
necessario un periodo di tempo lungo alcuni decenni a che le gentes Langobardorum
diventassero soggetto politico e fossero espressione di un reale potere sul territorio (a
parte le iniziali scorrerie, razzie e predonerie), lo dimostra il fatto che “non è dubbio che
in principio avesse poca estensione il suo (= di Benevento) ducato, composto solamente
della città di Benevento e delle terre più prossime”148. Tanto è vero che “Capua cadde,
probabilmente nel 597” e solamente “nell’anno 595, anche Venafro era stata presa dai
Longobardi”149; circostanza, questa della scelta di espandersi verso ovest, che potrebbe
far pensare a consistenti difficoltà incontrate nella espansione verso i territori abruzzesi,
molisani e pugliesi della fascia adriatica derivanti dalla resistenza bizantina. Ad essa si è
accennato, così che se ne trova ulteriore motivo di giustificazione, anche nel momento di
riferirne i percorsi scelti per avanzare sul territorio.
Furono la lunga durata, appunto, ed i tempi necessariamente non brevi della
invasione (se fu veramente tale per i territori centro-meridionali) che “determinarono un
accentuarsi della crisi della zona non solo dal punto di vista economico, ma anche
demografico; sintomatica è in proposito una lettera di papa Gregorio Magno alla fine del
VI sec.: in essa il pontefice chiede ad un suddiacono che vengano dati a Sisinnio, un
importante personaggio dell’amministrazione statale della provincia Samnii, venti
decime di vino e quattro soldi l’anno per sopperire alle sue condizioni di estrema povertà
(a). Fanno eco a questa situazione le parole di Gregorio Magno: Eversae urbes, castra
eruta, ecclesiae destructae, nullus terram nostram inhabitat (b). La regione, che nel
primo impero aveva conosciuto un notevole sviluppo economico e demografico, appare
dunque all’inizio del VII sec. in una fase di crisi. Sebbene diverse fonti si levino ad
attestarne lo spopolamento, la situazione del Sannio non appare tuttavia molto dissimile
da quella che si riscontra in tutto il meridione (c)”150.
pari indipendente. Tuttavia, ciò non impedì l’ulteriore avanzarsi de’ Longobardi. Singole schiere di essi
s’inoltrarono, incuranti delle città nemiche, cui lasciavansi a’ fianchi e alle spalle, nell’interno delle terre
montuose dell’Appennino, verso il mezzogiorno della penisola, e vi posero pié saldo, e, fin dal tempo di re
Alboino, vi fondarono i due ducati di Spoleto e di Benevento, l’ultimo probabilmente nell’anno 571”(pag.
7 e seg.). Ma, come viene indicato all’inizio della lunga nota (la si veda per le indicazioni bibliografiche),
siccome “le indicazioni dirette delle fonti sul principio del Ducato beneventano son tutte evidentemente
false”, anche la precisa indicazione della data del 571 andrebbe presa con tutte le riserve e le cautele del
caso.
Ed, a questo punto, l’ipotesi del Bagnetti, riportata più sopra e che, specialmente per quanto concerne il
rapporto assai stretto tra la cultura bizantina e quella longobarda, lo giustifica maggiormente, trova
ulteriori elementi di conferma.
148
HIRSCH F., op. cit., pag. 8. Sembra possibile che i Longobardi iniziano a presentarsi come soggetto
politico, per far fronte al movimentismo, finalizzato alla autonomia da Costantinopoli ed alla costituzione
di una propria area di interesse, di Papa Gregorio Magno, se è vero che “alla difesa, oltreché a’ bisogni
ecclesiastici, dell’infelice paese, cercò provvedere, come poté, il nuovo Papa, eletto nel settembre 590;
l’uomo, la cui energia contributi, principalmente, nonostante la fiacchezza del governo greco, a mantener
immuni dal longobardo dominio parte de’ possessi greci d’Italia,…”(pag. 11).
149
HIRSCH F., op. cit., pag. 14.
150
DE BENEDITTIS G., Il territorio di Rotello dai Longobardi ai Normanni, in AA.VV., La Contea
normanna di Loritello, Campobasso 2002, pag. 42. Il De Benedittis cita:
(a) Greg., Ep., II, 32, in MIGNE, PL LXXVII.
(b) Greg., Ep., III, 29, in MIGNE, PL LXXVII.
(c) Cfr. G. DE BENEDITTIS, “Considerazioni intorno alle valutazioni demografiche di Paolo
Diacono sul Samnium”, in AA.VV., Settlement and economy in Italy 1500BC to AD 1500,
“Comunque sia, nonostante il difetto di particolari notizie, vediamo che, durante il
governo di Arechi (591-641; si noti come esso, sia durato per un cinquantennio), la
conquista del mezzodì fu in sostanza portata a termine, e che allora il ducato di
Benevento ricevette l’estensione che, con lievi mutamenti, conservò nel tempo
successivo. Confinava, a nord-est, col ducato di Spoleto, che in simil guisa s’era, nel
frattempo, allargato anch’esso, sulle terre del medio Appennino; e propriamente, allora,
il territorio beneventano protendevasi a settentrione un po’ più in là che non più tardi,
perché gli apparteneva il territorio di Chieti.
Se, per tal modo, durante il lungo (nota: troppo lungo per non dare adito a sospetti
di interessata manipolazione successiva) governo di Arechi, il ducato di Benevento
ricevette all’esterno una forma fissa e determinati confini, deve ritenersi che, in quello
stesso periodo di tempo, e in connessione immediata con quel fatto, si stabilì altresì un
ordinamento interno. Ora che la guerra era finita e la conquista portata al suo termine,
doveva, soprattutto, stabilirsi il rapporto de’ Longobardi dominatori co’ Romani
sottomessi, e, d’altro canto, dovea, per lo meno, darsi principio a un’ordinata
amministrazione del paese. […].
La condotta de’ Longobardi verso gli abitanti delle terre soggiogate, massime
verso i cittadini liberi, fu nel principio assai violenta. In particolar modo allettò i
vincitori e i lor capi il possesso territoriale. Onde molti degli antichi possidenti furono
uccisi o scacciati, e i loro fondi – al modo stesso che i patrimoni appartenenti allo Stato,
ai comuni e alla chiesa – furon presi in proprio dominio parte dal Re e da’ duchi e parte
da’ singoli longobardi.”
Ed anche se “i possessori di fondi e gli abitanti delle città vennero eguagliati, in
quanto perdettero la lor piena libertà, e furono abbassati ad una condizione di
semilibertà: divennero aldi, secondo la parola longobarda”, a parte la sola parvenza
amministrativa e, per così dire, politica, le gentes Langobardorum non furono in grado,
allora e per un periodo di tempo lungo all’incirca un ottantennio, di far emergere
soluzioni di sviluppo sociale, economico e culturale, per le quali bisognerà aspettare un
avvicinamento alle posizioni greco-bizantine prima e, dopo, a quelle romane.
“Dentro i singoli distretti (civitates), nei quali tutto il paese fu poi come prima
diviso, una gran parte della proprietà territoriale, rustica e cittadina, apparteneva al
Duca, era amministrata da suoi ufficiali, abitata da aldi e da schiavi. Nel beneventano la
condotta de’ Longobardi era stata in principio,…, al massimo grado violenta e crudele.
Intere città erano state distrutte, e gli abitanti parte uccisi, parte ridotti a schiavi, sicché
Oxbown Monograph 41, Oxford 1995, pp. 331-337.
Si rende necessario aggiungere qualche precisazione: 1) Siccome Sisinnio, di cui parla papa Gregorio, con
ogni probabilità è lo stesso Sisinnio Giudice, e Governatore del Sannio, quando fu invaso da
Longobardi nel 569, che (v. nota 50) abbiamo trovato, funzionario bizantino, nell’elenco “degli ufiziali
greci,…, sott’i greci augusti”, è da ritenere che l’intervento del pontefice mirasse, più che a “sopperire alle
sue condizioni di estrema povertà”, alla estinzione di debiti fiscali e/o al versamento di somme dovute a
Costantinopoli. 2) Siccome l’unica fonte, oltre a Paolo Diacono, longobardo di Cividale nel Fiuli della fine
dell’VIII secolo ed a nessun altro, per le notizie di questo periodo è papa Gregorio e, perciò, con ogni
evidenza di matrice ecclesiastico-romana, esse andrebbero prese (se non fosse per il fatto che il discorso
sulle ‘cancellazioni’ diventa assai lungo e complicato) almeno con qualche riserva.
Diventa così assai più vera la circostanza per cui “la situazione del Sannio non appare molto dissimile da
quella che si riscontra in tutto il meridione”.
ancor più tardi giacean deserti vasti territori con le loro città. Solo a grado a grado
subentrò, anche qui, uno stato di cose pacifico ed ordinato. E che la condizione della
popolazione si formasse qui al modo stesso che nelle altre parti del Regno, lo prova
benissimo il fatto che qui appunto, anche in età più tarda, per la gente tributaria della
campagna si mantenne il significativo nome di ‘terziatori’ (debitori del terzo).
Senza confronto più dura fu la sorte della chiesa in Benevento. Gli esempi del
tempo di Gregorio Magno ci mostrano che appunto contro essa infuriarono i Longobardi
…; che nelle città soggiogate, vescovi, preti, monaci furono trucidati e che vi cessò ogni
attività ecclesiastica. Né tale furia contro la chiesa fu soltanto passeggera, ché ancora per
lungo tempo, più tardi, essa ebbe molto a soffrire. Prima della conquista longobarda, la
bassa Italia aveva un numero di vescovadi sproporzionatamente grande: anche le piccole
città quivi formavan quasi ciascuna una propria diocesi. Questi vescovadi, come i
Longobardi estesero la loro conquista, vennero quasi tutti distrutti: i più ne rimaser morti
per sempre, e gli altri non erano sicuramente risorti ancora nella prima metà del secolo
VII; né venner ristabiliti, se non verso la fine di questo secolo e nel seguente, e alcuni
anco più tardi.
Al tempo del duca Arechi ricadono anche i principi dell’interna organizzazione
politica di quell’ampio complesso di terre su cui s’era esteso il suo ducato. […]. V’eran,
in ciascuno de’ territori conquistati, ufficiali anche con funzioni civili. Lo sviluppo
posteriore fa credere che fin allora tali ufficiali fossero stati nominati dal Duca”151.
Circa eventuali ipotesi di ricostruzione delle geografie fisiche ed insediamentali,
va tenuto in debita considerazione la circostanza per cui, nonostante la unilateralità delle
fonti, “per un quadro d’insieme sufficientemente attendibile è necessario incrociare tutte
le diverse testimonianze, materiali, letterarie, documentarie, toponomastiche”. Oltre a
ciò, occorre tener sempre presente che “un’espressione di incisivo mutamento nell’Italia
longobarda rispetto agli equilibri anteriori fu rappresentata dal modo di organizzare
amministrativamente il territorio nelle sue strutture di base. Difatti, dopo la prima,
tumultuosa, fase della conquista, la necessità di ordinare le regioni di cui si era assunto il
controllo politico e militare in forme coerenti e funzionali a un’attività di governo
stimolò un’evoluzione in senso territoriale dell’istituto ducale: i duchi si andarono così
progressivamente trasformando da comandanti di distaccamenti militari a figure che
esercitavano un potere su di un ambito spaziale definito, indicato in genere dalle fonti
con i termini di civitas o di iudicaria. Ciascuna di tali distrettuazioni si svolgeva a
partire da un centro – chiamato a sua volta civitas – che era la sede del potere politico e,
sovente, anche di quello episcopale e che coincideva con una città di tradizione romana.
I nuovi distretti longobardi (nei quali i confini pubblici potevano tendenzialmente
sovrapporsi a quelli diocesani,…) non si identificavano, comunque, con i vecchi distretti
municipali dell’Italia tardoromana, anche perché spesso erano differenti i centri prescelti
dai barbari come loro sedi principali d’insediamento rispetto alle maggiori realtà urbane
romane. A molte città di primaria importanza in età imperiale i longobardi preferirono,
infatti, realtà un tempo minori, ma dotate ora di peculiare rilevanza strategica nei quadri
territoriali in parte mutati”152.
151
152
HIRSCH F., op. cit., pag. 17 e segg., passim.
AZZARA C., op. cit., pag. 109 e seg.
Pur se sembrerebbe assai difficile che i Longobardi, durante il primo ottantennio,
potessero esercitare influenza sulle relazioni, per così dire, di osservanza religiosa e sui
rapporti tra l’oriente bizantino e l’occidente latino, un ulteriore elemento da non
sottovalutare, ma fu cosa dettata da evidente motivazione ‘politica’, se il Di Meo già
registra, proprio all’anno 641, uno scontro (che si conclude con la vittoria degli
autoctoni, anche se gli sconfitti ripararono “in region de’ Sanniti, ove avvezzi alla preda,
viveano ne’ monti, e nelle selve, finché potessero passare altrove, o avessero l’aiuto dai
loro”) sul fiume Aufido tra “gli Sclavi, o sieno Schiavoni dell’Illirico”, i quali “erano
sbarcati con gran moltitudine di navi, per depredare la Puglia”, e i beneventani, è che
“negli ultimi suoi anni, pare che Arechi, il quale morì assai vecchio nel 641, vivesse in
piena pace co’ Greci”153.
Per una interpretazione, la più possibilmente corretta, sia di una tale scelta che di
tutta la geografia relazionale alla metà del secolo VII, occorre tenere presente che lo
scacchiere dei rapporti vedeva l’elezione a papa, appena l’anno seguente, di “Teodoro,
Greco di nazione, figliuol del Vescovo Teodoro di Gerusalemme”. Di maggiore
significato è il fatto per cui, a seguito di macchinazioni contro la persona di papa
Martino (che morrà, dopo essere stato carcerato, nel 655 in esilio), successore di
Teodoro, “l’Esarco, intimò in nome dell’Imperatore al Clero, ch’essendo Martino Papa
intruso, indegno, ed ordinato irregolarmente; era stato quindi deposto, e dovea esser
condotto a Costantinopoli, e che doveasi procedere a novella elezione”. La sudditanza,
in questa fase, della istituzione papale (basterebbe un raffronto con l’autorevolezza di
papa Gregorio Magno) rispetto a Costantinopoli è ulteriormente confermata dalla
circostanza per cui, nel 666, “… avendo Mauro, arcivescovo di Ravenna, non solo
negata la sommissione al Romano Pontefice, ma ancora insolentissimamente
scomunicato lo stesso Papa, l’iniquo Principe volle sostener quell’eccesso scandaloso
dell’Arcivescovo, cui diede un diploma, che la Chiesa Ravennate vada esente da ogni
Superiore ecclesiastico, e specialmente dall’autorità del Patriarca dell’antica Roma, gode
il privilegio di essa Roma, e quello altresì dell’Autocefalia”. E, infine, sta per scoppiare
quell’eresia (o, meglio, lo scisma) dell’Iconoclasmo, che porterà in occidente molta
religione e tanta cultura greco-bizantina.
“Una spinta determinante all’avvicinamento tra longobardi e romani, fino alla
reciproca fusione, fu costituita dalla conversione dei primi al cattolicesimo, processo
completatosi nel corso del secolo VII e ufficialmente sancito, al vertice, dal ripudio
dell’arianesimo nel 653 (nota: ma nella realtà e tra le popolazioni un tale processo, per
diventare concreto, aveva bisogno di tempi lunghi) e, quindi, dal riassorbimento del
cosiddetto scisma tricapitolino nel 698. La fusione è provata dalla commistione dei nomi
e dalla condivisione della medesima lingua (con l’VIII secolo il longobardo sembra
essere scomparso dall’uso)”154, che, un latino assai ‘barbarizzato’, per qualche verso “si
è evoluto spontaneamente obbedendo ancora alle sue leggi interne, ma che, per tanti
altri, accogliendo nel tempo volgarismi, grecismi e barbarismi, si piega, dal punto di
vista della fonetica, al betacismo e, per quanto attiene alla grammatica, a quel particolare
153
HIRSCH F., op. cit., pag. 17. Miniera inesauribile di notizie è il Di Meo, la cui citazione spesso si è
costretti ad omettere per non appesantire il lavoro.
154
AZZARA C., op. cit., pag. 104 e seg.
disordine e scompiglio dei casi, che lo corromperanno in maniera tale da dare inizio, da
questo momento storico, a tutte quelle trasformazioni che porteranno alla nascita delle
lingue nuove”155.
Un certo ritardo per il miglioramento, nella seconda metà del VII secolo, delle
condizioni socio-economiche e demografiche potrebbe essere imputato al fatto che nel
663 l’imperatore bizantino Costante II, nel suo tentativo di riconquistare l’Italia, dopo
essersi spinto sino ad Ortona (v. Di Meo) e dopo aver raso al suolo Luceria, evitando,
perché, forse, scarsamente abitato e poco adatto alla rapidità del suo intervento militare,
il territorio molisano, Beneventanorum fines invasit, omnesque pene, per quas venerat
civitates cepit (= invase i confini dei Beneventani e prese quasi tutte le ‘civitates’
attraverso le quali era venuto). Già nel 667, però, con l’evidente scopo di stabilirvi un
controllo amministrativo e militare e di ripopolarle, Romualdo, duca di Benevento,
assegna le civitates poste in un ampio territorio dell’attuale Molise centrale ai Bulgari di
Alzeco, “quos Romoaldus dux gratanter excipiens, eisdem spaziosa ad habitandum
loca, quae usque ad illud tempus deserta erant, contribuit, scilicet Sepinum,
Bovianum et Iserniam et alias cum suis territoriis civitates, ipsumque Alzeconem,
mutato dignitatis nomine, de duce gastaldium vocitare praecipit”156.
“E’ da credere che ognuna di queste civitates fosse assegnata da Alzeco a suoi
compagni nel rispetto dei criteri che regolano il ruolo di un gastaldo. Il riferimento, poi,
alle alias civitates (del Molise attuale) appare chiaramente estendere il territorio
assegnato ad Alzeco anche ad altri centri circostanti; …, ed è da notare che la carica
assunta dallo stesso Alzeco non giustifica l’interpretazione corrente che vuole questo
personaggio unico gestore affidatario di queste civitates.
Questo dato, insieme a nuovi elementi di carattere archeologico e topografico, ci
fanno ipotizzare che la gestione di questa Provincia Samnii resti sostanzialmente
invariata rispetto al periodo romano imperiale: i municipi (nota: sarebbe meglio dire di
insediamenti, che, nella continuità col passato, siano funzionali alle nuove esigenze di
controllo del territorio) sono, sia pure ridimensionati urbanisticamente, i centri referenti
di quella rete amministrativa che i Longobardi fanno propria anche se modificata
155
CILENTO N., Italia meridionale longobarda, Milano-Napoli 1971, pag. 55 e pag. 81.
Il fenomeno della ‘corruzione’ linguistica, il Borgia (I, nota a pag. 136 e seg.) lo dice “già incominciato
prima dell’arrivo de’ Goti e de’ Longobardi; ma dopo la venuta di questi accresciuta di molto”.
156
PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum, V, cap. 29. “Il duca Romualdo ricevendoli (= i Bulgari)
con un certo interesse, concesse loro per abitarvi delle ampie località, che fino a quel tempo furono
deserte, ovverosia Sepino, Boiano ed Isernia ed altre ‘civitates’ con i rispettivi territori ed iniziò a
chiamare lo stesso Alzeco, cambiandogli il titolo nobiliare, gastaldo anziché duca”.
Sui tempi lunghi necessari alle assimilazioni culturali, relativamente a questo stanziamento di Bulgari sui
territori molisani, GAY J. (L’Italie méridionale et l’empire byzantin …, Roma 1904, pag. 590) registrava,
riprendendo sempre dalla fonte di Paolo Diacono la notizia, che: “après le VII siecle, un chef bulgare, avec
toute l’armée de son duché etant venu demander des terres aux Lombards, le duc Romuald avait établi ces
emigrants dans les lieux deserts du pays des Samnites, à Sepino, Boiano, Isernia; et, plus de cent ans
après, ces Bulgares du Samnium, bien qu’ils eussent appris a parler latin, n’avaient pas encore perdu
l’usage de leur langue originelle”.
Va notata, proprio con la collocazione, nel tempo, a questo preciso momento e fase storica, l’introduzione
(con la trasformazione di un qualcosa di preesistente) dell’etimo “gastaldium (= gastaldo)” al posto di
‘duca’.
rispetto al periodo tardo imperiale con la creazione della figura del gastaldo (nota: che
non può essere la sola discriminante).
In quest’epoca queste città appaiono molto diverse rispetto al periodo romano: le
aree occupate si limitano probabilmente alla chiesa ed all’uso di zone centrali come
semplici abitazioni per l’élite. Le parti utilizzate delle antiche città romane sono molto
minori; diversi degli edifici più significativi dell’amministrazione romana sono in
rovina; le possenti mura di difesa costruite dai Romani sono solo un ammasso di
macerie, mentre restano ancora vitali gli anfiteatri e forse i teatri delle città romane che,
modificate le loro funzioni, divengono i veri punti di riferimento amministrativi e
militari degli antichi municipi romani. Se le città continuano a perdere i loro caratteri
urbanistici, non per questo perdono il loro ruolo sul territorio ad esse sottoposto; Paolo
Diacono parla al riguardo di civitates cum suis territoriis”157.
E pur se, nei secoli VII ed VIII, a qualcuno “le città appaiono semplici riferimenti
burocratici utilizzati per il controllo del territorio”, per le ricostruzioni, le più veritiere
possibili, delle geografie degli insediamenti occorre affatto prescindere da tutti quegli
“altri elementi che in ordine di tempo si collocano nel periodo storico successivo alla
caduta dell’impero romano e che con l’organizzazione romana del territorio appaiono
strettamente legati: i gastaldati e le diocesi”158. Il centro demico, cui successivamente
verrà associato l’etimo di ‘civitas’ e come tale sarà percepito, è quell’insediamento che,
assurto al ruolo di diocesi in periodo tardo imperiale o protocristiano, manterrà nel suo
ristretto della fase storica longobarda, nonostante la crisi demografica, il ‘palatium’ del
potere sia civile, amministrato dal ‘gastaldus’, che religioso, gestito e controllato da un
‘episcopus’, anche quando questi poteva avere difficoltà di residenza e, per periodi di
tempo più o meno lunghi, la sede della diocesi restava ‘vacante’. E’, questo, concetto
che, convergendovi l’interesse di tutti gli agenti attivi (il potere longobardo ha modo di
diventare potere effettivo e di esercitarlo, quello bizantino continua a percepire le sue
entrate fiscali e il religioso romano-latino può mantenere la sua presenza sul ‘locus’
come punto di riferimento per il territorio e come centro di ‘cura’ delle anime dei fedeli),
è di grande rilevanza per spiegare i passaggi storici e per proporre ipotesi di ricostruzioni
delle geografie antropiche.
Nel territorio del ‘Samnium’ molisano tali caratteristiche di ‘civitas’ vengono
certamente mantenute, nel lungo periodo e con continuità, da Venafro, Isernia, Larino,
Aufidena, Bojano e Sepino159 (ed, in questo modo, l’assegnazione di Sepino, Bojano ed
Isernia ad Alzecone troverebbe una motivazione ed una spiegazione ulteriore, così come
157
DE BENEDITTIS G., Il territorio di Rotello … cit., pag. 43 e segg.
DE BENEDITTIS G., Repertorio … cit., pag. 25 e seg. Il De Benedittis, relativamente al concetto dei
‘gastaldati’, cita: MOR C.G., I gastaldi con potere ducale nell’ordinamento pubblico longobardo, in Atti
del I Congresso internazionale di Studi Longobardi, Spoleto 1952, pp. 409-415; GASPARRI S., I duchi
longobardi, Ist. St. It. per il Medioevo (Studi storici 109, Roma 1978, pagg. 20-32; TABACCO G.,
Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Torino 1979, pag. 129; CILENTO N., Le
origini della Signoria capuana nella Longobardia minore, Ist. St. per il Medioevo (Studi Storici 69-70),
Roma 1966, pp. 67-70.
159
VITOLO G., Vescovi e diocesi, in Storia del Mezzogiorno, III, Napoli 1990, pp. 73-151. VITOLO G.,
San Vincenzo al Volturno e i vescovi, in AA.VV., San Vincenzo al Volturno dal Chronicon alla Storia,
Isernia 1995. Riportiamo le indicazioni del Vitolo, anche se la mancanza di documentazione non deve
essere ragione per escludere da una sede la presenza della cattedra vescovile.
158
l’ampiezza dello spazio da sottoporre a controllo porta a collocare almeno una delle altre
‘civitates’ lungo il Biferno, tra Boiano e Larino), centri tutti che erano già stati
espressione di sede di ‘municipium’ romano. E, sempre con la stessa ed identica
certezza, le caratteristiche di ‘civitas’, nel lungo periodo e con continuità, non può non
averle mantenute che proprio quella Tiphernum, di cui si è detto essere stata – ed essere
ancora? – diocesi ed il cui etimo, per la influenza della predominante cultura nordicolongobarda sugli abitanti autoctoni e per il riferito fenomeno del betacismo, si sta
foneticamente trasformando in ‘Biffernum’.
Una prima testimonianza, che, nella collocazione temporale, è la più antica che
riguardi una ‘civitas’ posizionata sul territorio dell’attuale Molise, del fatto che
Tiphernum sta modificando il suo etimo e, di rilevanza ancora maggiore, che essa è la
sede di un centro insediamentale ed amministrativo di buona importanza e con un suo
‘palatium’, dal quale ne vengono gestiti il potere e la giurisdizione, e, per usare la
La diocesi di “Venafro è menzionata per la prima volta in una lettera di Gelasio I del 496, ma quasi
certamente <era> più antica. […]. Ricompare poi di nuovo, a metà dell’XI secolo, unita a Isernia,
anch’essa probabilmente sede assai antica ma non documentata prima del 943”.
Della “diocesi di Larino, retta da propri vescovi negli anni 493-501 e 556-561, …, la presenza in essa di
un vescovo non è documentata <nuovamente> prima della metà dell’XI secolo”.
“Aufidena è menzionata come sede vescovile solo in una lettera di Gelasio I, attribuibile agli anni 494495. Il trasferimento dell’episcopio a Trivento è una semplice ipotesi, dato che in quest’ultima è
documentato solo a partire dal 946 ed è più probabile che si tratti di una nuova istituzione”, anche se
quest’ultima sembra ipotesi scarsamente condivisibile.
“Dell’episcopato di Bojano, attestato per gli anni 501-502 dagli atti del concilio di papa Simmaco, non si
ha notizia fino alla metà del XI secolo, né è dato di sapere se ed in quale misura abbia influito sulla sua
esistenza il terremoto che nell’853 distrusse la città”.
“Negli atti del concilio di papa Simmaco compare anche il vescovo di Sepino, di cui in seguito si perdono
le tracce”, probabilmente perché, così come Morcone, sarà di rito e di osservanza bizantina.
La diocesi di ‘Samnia’ o di ‘Samnium’ viene posta dal Vitolo “tra Sepino e Benevento”, ma senza che ne
vengano addotte le motivazioni di una simile localizzazione.
Sembra il caso di aggiungere che un accostamento della diocesi di Limosano a Sepino, diocesi, come si è
visto, antichissima e che non riemergerà nei secoli dal IX al XIII, è possibile trovarlo in BORGIA (III,
nota a pag. 58 e segg.), il quale, in contrasto con De Vita, scriveva: “[…]. L’epoca del Vescovato di
Morcone deve fissarsi dopo il giorno 24 di Gennaro del 1058 (nota: ma, contrariamente a ciò, l’abbiamo
visto di qualche secolo più antico e di rito greco-bizantino), nel quale Stefano X confermando con sua
carta all’Arcivescovo Oudalrico le Chiese Suffraganee, in numero di XXV, non parla certamente di questa
cattedra, la quale quando poi venisse a mancare, se Falcone non la indicasse con rappresentarci che
Morcone nel 1122 era un semplice castello, potrebbe dirsi che vi si fosse conservata per più lungo tempo,
non essendovi nella biblioteca Beneventana memorie de’ Suffraganei di questa Chiesa fino al 1153. In
questo anno Anastasio IV con sue lettere de’ 22 Settembre dirette a Pietro Arcivescovo gli conferma XXII
Chiese Suffraganee, ma non già Morcone. Il dottissimo de Vita seguendo l’autorità del Concilio
Provinciale di Ugone Guidardi, e con la scorta del Vescovo di Bisceglia Pompeo Sarnelli, conta XXXII
Chiese Suffraganee, quante una volta certamente vi avevano nella Provincia Beneventana, e dopo aver
parlato di XXVII di queste, così delle altre cinque ragiona: Qui vero reliqui hi sint Episcopatus quinque
qui cum XXVII illis superius comprobatis definitum XXXII numerum impleant, vetera produnt
monumenta; nam et Episcopatum Acquae putridae, Limusanensem sive Musanensem, Ordonensem,
Frequentinum, Sepinensem, (quos inter superiores XXVII praeteritos invenies) memoratos in
posterioribus indubiae fidei monumentis habemus, additos scilicet Archiepiscopo Beneventano
Suffraganeos. […].”.
Sembra possibile scorgere una ulteriore traccia della antichità della diocesi di Limosano e che la
situazione conosciuta nasconda differenze dottrinali e/o di rito liturgico.
terminologia corrente, di un ‘gastaldato’ (o anche ‘gualdo’) è il Preceptum Romualdi
ducis del 718, col quale, “acto in Gualdo ad Biferno, in palatio, mense octobrio,
indictione .ii.”, “Romualdo II duca di Benevento concede a Zaccaria, Paolo e Deusdedit
(nota: che è abate di Monte Cassino) dei beni nella località del fiume Lauro”160.
In prosieguo di tempo, ma sempre con notevole anticipo rispetto alle altre
evidenze insediative del territorio molisano, le fonti documentarie mostrano che “un
distretto longobardo che forse corrisponde territorialmente a quello del municipio di
Fagifulae è probabilmente il Gastaldatus Bifernensis, citato in un documento, forse
falso, del novembre 774 firmato dal principe Arichi di Benevento (in gastaldato
Bifernensi) (a) e ricordato anche in un altro del maggio 878 sottoscritto dal principe
Adelchi di Benevento a Trivento (b) in cui viene ricordato Campobasso (ex finibus
Campibassi et ex finibus Biffernensibus) (c) <1>.
La denominazione (Bifernensis) ci permette d’ipotizzare che esso si riferisce ad un
territorio diverso dal Gastaldatus Bovianensis (d) e che sia da collocare a cavallo del
fiume Biferno, tra quello di Boiano e quello di Larino <2> e confinante a nord con
Trivento, una civitas che nel 992 viene confermata quale centro di contea dopo essere
stata già diocesi dall’anno 946 (e) <3>”161. Ed una tale denominazione consente, inoltre,
di ipotizzare la scomparsa di Fagifulae, che diversamente avrebbe dato il nome al
gastaldato, essersi verificata, se non in epoca precedente, almeno sin dal VII secolo.
Quel “Gualdo ad Biferno” (o, che è lo stesso, “gastaldato Biffernensis”), il cui
160
LECCISOTTI D.T., Le colonie cassinesi in Capitanata, 1° Lesina, Montecassino 1937, pag. 29 e seg.
Oltre a riportarne la trascrizione del testo, il Leccisotti indica le fonti dell’importante donazione e
concorda con la datazione all’anno 718 proposta dal Troya, “seguito dal Bethmann e dal Chroust”.
161
DE BENEDITTIS G., Repertorio … cit., pag. 26. Il De Benedittis cita le seguenti fonti:
(a) UGHELLI – COLETI, Italia Sacra, Venezia 1722, X, col. 425;
VOIGT K., Beitraege zur Diplomatik …, Goettingen 1902, nnr. 1-22;
POUPARDIN R., Les institutions politiques et administratives des Principates Lombardes de L’Italie
méridionale, Paris 1907, n. 3;
BORGIA S., Memorie istoriche della pontificia città di Benevento …, Roma 1763, I, pp. 269-305.
(b) SMIDT W., Das Chronicon Beneventani monasterii S. Sophiae, …, Berlin 1910, pag. 118;
BERTOLINI O., I documenti trascritti nel ‘Liber praeceptorum S. Sophiae’, Napoli 1926, pag. 34.
(c) UGHELLI – COLETI, Italia Sacra, Venezia 1722, X, col. 438;
VOIGT K., Beitraege zur Diplomatik …, Goettingen 1902, nr. 70;
POUPARDIN R., Les institutions politiques et administratives des Principates Lombardes de L’Italie
méridionale, Paris 1907, nr. 55.
(d) ERCHEMPERTI, Historia Langobardorum Beneventanorum, ed. WAITZ, Hannoverae 1978, 29;
Chronica Monasterii Casinensis, M.G.H. SS., Hannover 1980, I, 35.
(e) KEHR P.F., Regesta Pontificum Romanorum, Italia Pontificia IX, Berlino 1962, pag. 195.
Nelle note al testo il De Benedittis aggiunge:
<1> Il primo a prenderne in considerazione la possibilità dell’esistenza del gastaldato bifernense è stato il
Poupardin (p. 36).
<2> In una donazione risalente all’anno 840 di un Gualdum in finibus Larinensibus si ricorda un actus
larinensis …, zona forse ricordata anche in un documento del 718 (Leccisotti, I, p. 29: acto in Gualdo ad
Biferno).
<3> Dal documento di conferma della costituzione della contea di Trivento sappiamo che essa si estende
inter fluvium Trinium et Sangrum … L’assenza di ogni riferimento al fiume Biferno lascia presumere
che esista un’unità amministrativa a sud della contea longobarda di Trivento che occupa la media
valle del fiume Biferno.
‘palatium’, così come l’analisi linguistica dell’espressione “ex finibus Biffernensibus”,
che nell’uso al plurale (ed, inoltre, solamente un distretto amministrativo dominato da un
insediamento dal quale prende la denominazione, e non già un corso d’acqua, può avere
dei ‘fines [= confini]’) coincide con l’analoga forma plurale di ‘Musane’, sta bene a
dimostrare essere un centro di gestione del potere politico-amministrativo civile, non
può non essere, anche e contemporaneamente, una diocesi religiosa, se è vero che “i
vescovi ereditarono i compiti delle autorità civili, organizzarono l’approvvigionamento
alimentare, la manutenzione degli acquedotti e delle vie di comunicazione, la stessa
difesa militare, trattarono con i conquistatori”162. Se è vero, cioè, che una ‘civitas’ è tale
in quanto e perché vi si amministrano tanto il potere civile che quello religioso.
Ma, a questo punto, quale diocesi assegnare al centro abitato, che è la sede, con il
‘palatium’, del “Gualdo ad Biferno”? Per forza di cose e se è vero, così come è vero,
che ‘Musane’ ancora non emerge come evidenza organizzata di insediamenti abitativi
umani, non può non essere che quella (e torna una espressione nella forma plurale) dei
“tiphernatium”, della quale, così come per tante altre, la mancanza di documentazione e
di notizie non sta di certo a significare che non abbia avuta continuità storica.
E, soprattutto, dove localizzare quel centro abitato, il cui etimo, provenendo da
‘Tiphernum’, a motivo delle integrazioni dovute a tutte quelle commistioni di influenze
e di scambi culturali, che portarono al fenomeno linguistico-fonetico del ‘betacismo’, si
è trasformato in ‘Bifernum’? Per avere una risposta a tale domanda, oltre che la
possibile giustificazione del fatto che fu l’insediamento, che, ed in quanto, ne dominava
la importante struttura amministrativa e di controllo sul corso mediano, a dare nome al
fiume e non, come è possibile pensare, viceversa, occorre riflettere su alcuni passaggi
del documento, del novembre 774, di costituzione, per mezzo di un vero atto politico da
parte di Arechi II, del patrimonio del Monastero di Santa Sofia, edificato appena da
qualche anno. “[…]. Necnon et ecclesiam S. Angeli, quam edificare precepimus in
galo nostro biferno loco qui dicitur Altissimus, et ex ipso Galo circa ipsam ecclesiam
largiti sumus in Monasterio S. Sophie territorium, longitudine milliaria duo, et
latitudine unum; et concessimus in nominato S. Sophie Monasterio condomas
quattuor ex ipso Gastaldato hi sunt Sicoaldus et Indarius. […]. Necnon et in
Gastaldato Bifernensi concessimus Cortisanos, hi sunt Johannem et Walterium cum
uxoribus et filiis suis, et omnibus sibi pertinentibus: seu et unam sororem Indari. Hos
autem cum integra portione eorum sancte Sophie Monasterio concessimus
possidendum. Item et in eodem Gastaldato concessimus Baccarios; hi sunt, Grauso cum
uxore et filiis; sed et noras et nepotes ejus, et omnia eis pertinentia: necnon et Sindonem
cum uxore et filiis suis. Seu et Baccas in integrum qui fuerunt servi Rimichis, et de
germano ejus carpentarii nostri”163. La distanza di appena qualche miglio del complesso
162
CANTARELLA G.M., Chiesa, chiese, movimenti religiosi, Bari 2001, pag. 7. Ancor più esplicito il
DUPRE'-THESEIDER G. (Problemi della città nell'alto medioevo, in La città nell'alto medioevo, Spoleto
1959), quando scrive che “il termine civitas, se scompare in parecchi dei centri urbani, in seguito allo
scadimento generale della vita cittadina si mantiene sempre e solo per le città vescovili”.
163
BORGIA S., Memorie Istoriche … cit., parte I, Roma 1763, pagg. 279 e 289. Dalla traduzione del Di
Meo (v. ad a. 774), eccessivamente concisa, riduttiva e che, per tanti versi, presenta possibilità di indurre
ad errori di valutazioni, riportiamo le parti che interessano: “La Chiesa di S. Angelo, che abbiamo fatto
edificare nel nostro Galo Biferno, ove dicesi Altissimo, con territorio di due miglia lungo, ed un miglio
monastico-abbaziale di S. Angelo in Altissimo, che (ed, in tal modo e per la coincidenza
delle distanze fisiche, viene abbondantemente ed ulteriormente confermata la ipotesi di
posizionare Tiphernum a Cascapera), di fondazione coeva a S. Vincenzo al Volturno ed
a S. Maria di Castagneto, pure rientrante, quest’ultima, significativamente nel territorio
di influenza della diocesi ‘Musanense’, era posta “presso il bosco di Trivento già in
territorio di Civitacampomarano ora Lucito”164, dalla sede del “galo nostro biferno”
soddisfa compiutamente, più che l’improbabile riferimento al fiume, la condizione e la
possibilità della continuità di quest’ultimo con l’antica Tiphernum.
E, siccome Arechi si è appena auto-nominato ‘princeps gentis Langobardorum’,
sembra potersi individuare nell’invio “in galo nostro biferno” delle quattro ‘condome’,
dei ‘cortisanos’ e dei ‘baccarios’, più che il tentativo di incrementare la presenza umana
nella zona, la sua volontà di stabilire, servendosi dello strumento del Monastero di Santa
Sofia, un controllo politico sul territorio, forse in quanto di confine con Spoleto, posto a
cavallo dei fiumi Trigno e Biferno. Va, comunque, detto che la ridotta presenza
largo. Quattro Condome in esso Gastaldato, i nomi de’ quali sono, Sicoaldo … […]. Cortisani, vacche, e
vaccai nel Gastaldato di Biferno”.
Sul “Gastaldato Biffernensis”, così come per l’analisi della presenza del monachesimo eremitico e/o
cenobitico nell’ambito territoriale del medio Biferno, si vedano le opere di BOZZA F., Limosano nella
Storia e Limosano: Questioni di Storia, più volte citate.
164
PIETRANTONIO U., Il Monachesimo benedettino nell’Abruzzo e nel Molise, Lanciano (CH) 1988,
pag. 409. Relativamente alla fondazione del monastero di ‘Castagneto’ che, poco conosciuto, pure fu
notevole, in un processo dell’896 fra il chiostro di S. Vincenzo e il prete Bernardo, l’abate Maione di S.
Vincenzo diceva: “ut olim ipsum coenobium S. Mariae constructum fuisset a d. Theodorada ducissa in
Castanieto”. Il ‘placito’, che, però, il Di Meo pone all’897, venne “tenuto da Lodovico Castaldo,
coll’assistenza de’ Castaldi Telberto, e Otilone, il Giudice Guideriso figlio di Bernardo, Rodefrit, e
Rodelpoto figlio di Rofrit; Grimoaldo figlio di Ratone, Zottone figlio di Clafone, e Audoaldo figlio di
Trasaro”, quasi tutti personaggi dal nome e dalla origine longobarda. “In esso Majone, Abbate di S.
Vincenzo al Volturno, fece istanza contra il Chierico Bernardo, figlio di Bernardo (nota: di probabile
origine ‘franca’), che usurpato avea il Monistero di S. Maria di Castagneto, vicino Piniano”.
Per motivi legati alla tradizione unanime, alla toponomastica ed, ancor più importante, alle ragioni più
propriamente storiche, non sembra affatto condivisibile la identificazione della chiesa di S. Angelo in
Altissimo “con il sito della Morgia S. Michele, a 2 km ad ovest di Castellino del Biferno”, proposta
recentemente (se ne ignora su quali basi) dall’autorevolissimo Jean-Marie MARTIN (Il Molise nell’alto
Medioevo, in AA.VV., I Beni Culturali ... Isernia 2004).
Per l’esatta e precisa collocazione geografica basta rifarsi all’atto (in Archivio di Stato di Campobasso,
Fondo Amoroso: Protocolli notarili) del 29 aprile 1739 per Notaio AMOROSO F.A., significativamente
rogato “nella Terra di Calcabottaccio, in Provincia, e Contado di Molise”. Da esso ancora risultava il
“Feudo rustico, detto di Sant’Angelo in Altissimis, sito in questa Provincia, e Contado di Molise,
confinante dà una <parte> con li Territorij della detta Terra di Calcabottaccio, dà un’altra con li Territorij
della Terra di Lucito, dà un’altra con li Territorij della Terra di Civita Campomarano, et altri, franco,
eccetto dell’annuo canone enfiteutico perpetuo di docati dodeci alla Badia suddetta di Santa Sofia di
Benevento; Il luogo si nomina Sant’Angelo in Altissimis”.
Di S. Angelo in Altissimis sappiamo che “... nel 1148 vi erano vassalli, onde vi si formò un Casale con
giurisdizione presso il monistero di S. Sofia, della quale in una pergamena del 1472, inserita nel tom. 8
num. 18 vi ha certa memoria per le due fiere che questo documento dice tenersi nel Casale di Sant’Angelo
in Altissimis con recarvisi il vessillo di San Mercurio in signum dominii” (v. BORGIA S., Memorie ...,
III, pag. 85, in nota).
Molto importante l’identificazione di tale posizione geografica, perché permette di individuare con una
certa precisione anche il sito del “galdo biferno” ed, a questo collegato, quello di ‘Tiphernum’.
antropica, in ogni caso evidente (ma che era fenomeno diffuso e generalizzato), lascia
immaginare una geografia fisica con un territorio scarsamente abitato, con poco
seminatorio coltivato ed, al contrario, assai ricco di bosco, di macchia e, come dimostra
la presenza delle ‘baccas’, di pascolo. Più che probabile che gli insediamenti abitativi, se
si eccettua la ‘civitas’, sono, pur se discretamente diffusi, di piccola dimensione e del
tipo di semplici ‘oppida’, di ‘castra’ e di ‘casalia’, per la cui localizzazione risulta utile
la toponomastica e la continuità con i periodi immediatamente precedenti o successivi.
Pur se entrambe poco conosciute (ed indagate ancor meno), occorre registrare la
curiosa circostanza per cui ad una relativa semplicità dell’ambiente fisico, nonostante le
mille difficoltà per poterne ricostruire il disegno, imputabili alla scarsità (ed alle
unilateralità) della documentazione, corrisponde una situazione volutamente complessa
e, nel migliore dei casi, sfuggente della geografia religioso-sociale. Detto, seppur in
maniera assai sommaria e, per forza di cose, senza riferimenti alle specificità, di quello,
occorre abbozzare almeno qualche tratto di caratterizzazione di quest’ultima ovverosia
della geografia religioso-sociale.
Un primo segno di connotazione è, sicuramente, la particolarità del rito religioso.
Relativamente ad esso, anche se, per diversi aspetti e nel suo complesso, può essere, per
quanto, assai poco, ne rimanga di documentazione, assimilato ai tanti ‘latini’, quel
particolare rito, conosciuto come ‘benevento’ e praticato, in modo diffuso e per periodi
lunghi, in tutta la “Langobardia minore”, “che di «beneventano» ha soltanto il luogo di
conservazione di alcuni dei suoi migliori manoscritti, non è un rito longobardo: esso è
molto anteriore all’invasione del 568, anche se i duchi longobardi di Benevento, una
volta divenuti cattolici, lo adottano come rito ufficiale e gli danno grande risalto. Esso si
caratterizza per il suo arcaismo e la sua povertà, che riflettono la sua antichità. Poiché
per ragioni geografiche esso è stato in contatto con le chiese di rito greco situate
nell’Italia del Sud, il rito di «Benevento», più di tutti gli altri riti latini, ha attinto da esse
diversi elementi,…”165. Questo rito, che è conosciuto quasi esclusivamente da fonti e da
documenti di data assai tardiva dei più antichi manoscritti ancora conservati e del quale
“non esiste più un sacramentario «beneventano», ma già dei messali completi dal
contenuto molto carolingio”, necessariamente doveva essere di emanazione bizantina e,
per moltissimi versi, la ‘longobardizzazione’ è servita a conservarne la integrità. E’ ciò
tanto più vero, laddove si considera specialmente che “il continuum culturale tra
Oriente ed Occidente sussiste circa fin verso il 650; esso si esprime in particolare nel
continuare ad adottare feste orientali, come l’Esaltazione della Croce, nella traduzione di
Vite di santi orientali …, e con la notevole rappresentanza greca al Concilio del
Laterano del 649. Non vi era quindi nulla che impedisse la ricezione ininterrotta dei
modelli greci fino a quest’epoca”166.
165
BERNARD P., I tempi della Liturgia, in Storia del Cristianesimo, III, Roma 2002, pag. 952.
BERNARD P., I tempi … cit., pag. 952 e, nella parte più generale, da pag. 933 e seg. La Bernard
aggiunge: “Stando a uno dei <messali> più importanti, copiato all’inizio dell’XI secolo in territorio
«beneventano», alcune particolarità sono tuttavia sopravvissute, ma in una forma molto sfumata, poiché
sono rare le orazioni che non provengono da Roma. In questo rito, i prefazi propri sono più numerosi che a
Roma, e alcune messe – molto rare: cinque in tutto – hanno una curiosa orazione post Evangelium, che
sembra sconosciuta altrove. Le rare messe i cui materiali siano pressappoco esclusivamente «beneventani»
sono quelle della vigilia di san Benedetto da Norcia, quella dell’apostolo Bartolomeo e quella della
166
Il secondo indicatore, di tanto sottovalutato e scarsamente considerato di quanto, al
contrario, potrebbe gettare squarci di luce su quei secoli che la damnatio memoriae ha
reso oscuri e poco leggibili, è la diffusione culturale con la presenza e le realizzazioni
artistiche. Al lettore superficiale potrebbe apparire del tutto marginale il fatto che (v.
nota 89) “il canto, cioè la tradizione orale, che è rimasta la più fedele al passato, … è
rimasto vivo circa fino a metà dell’VIII secolo: la messa dei Dodici Fratelli, creata verso
il 760, risale all’acquisizione e alla traslazione delle loro reliquie a Santa Sofia di
Benevento”. Tale circostanza, invece, deve essere ripensata con maggiore attenzione;
specialmente se si considera, a parte il fatto che la costruzione era stata effettivamente
iniziata sotto Gisolfo già da alcuni anni, che il duca Arechi “intra moenia Beneventi
templum Domino opulentissimum ac decentissimum condidit, quod Graeco vocabulo
ΑΓΗΙΑΝ ΣΟΠΗΙΑΝ idest sanctam sapientiam nominavit”167, tempio il quale pare
essere “stato costruito ad imitazione dell’omonimo di Costantinopoli. Il Gregorovius
afferma pure che «il nome dato da Arechi al Monastero lascia pensare a relazioni ed
intelligenze bizantine, e la stessa costruzione della cupola sembra accennare a
Bisanzio»”168. Non è difficile pensare che questo “alito greco”, condizionandone il modo
di vivere e le economie degli abitanti, abbia spirato sull’intero territorio del ‘ducatus’.
E, così come il vento, che indistintamente, ma sempre, soffia con la maggiore o minore
intensità voluta dall’influenza della parte dominante, lo ha fatto per un periodo lungo e
composto da secoli.
Un terzo ed ultimo fattore di condizionamento va individuato, per come e quanto
possibile (purtroppo, molto poco), nella ripartizione e nella composizione demografica,
per la cui ipotesi di ricostruzione occorre, in mancanza di documenti sicuri, andare per
Trasfigurazione: è poco” per poterne operare una ricostruzione.
Sulla origine, sulla particolarità ed autonomia, sulla durata di lungo periodo e, cosa affatto secondaria, sui
successivi interventi finalizzati alla ‘cancellazione’ o, quantomeno, all’allineamento di esso alle posizioni
‘romane’, occorre sapere che “l’Ordo missae e l’anno liturgico di questo rito sembrano essere stati quasi
totalmente romanizzati sin dall’inizio dell’epoca carolingia. […]. «Benevento» ha conservato più
fedelmente di Roma i grandi Vangeli delle domeniche di Quaresima, ma il canto, che sembra essere
sopravvissuto in gran parte (eccetto la salmodia senza ritornello, l’equivalente del tractus romano), è
molto originale e non ha nulla di romano o di carolingio. Come sempre, è il canto, cioè la tradizione orale,
che è rimasta la più fedele al passato. Come tutti i canti liturgici ereditati dalla tarda Antichità, esso è
rimasto vivo circa fino a metà dell’VIII secolo: la messa dei Dodici Fratelli (1° settembre), creata verso il
760, risale all’acquisizione e alla traslazione delle loro reliquie a Santa Sofia di Benevento fatta dal duca
Arechisi II, è ancora in canto «beneventano».
167
LEONE OSTIENSE, I, Capo IX. “Dentro le mura di Benevento fondò al Signore un tempio ricchissimo
e bellissimo, che con parola greca chiamò SANTA SOFIA e cioè santa sapienza”.
168
MEOMARTINI A., I monumenti e le opere d’arte nella città di Benevento, Benevento 1889, pag. 368 e
seg. Il Meomartini sostiene, con dovizia di prove, che S. Sofia, inizialmente e fino al secolo X monastero
femminile, era stato costruito con lo stile bizantino. Ne trascriviamo qualche brano: “Le basi delle
colonnine del chiostro indubitatamente sono bizantine”(pag. 383); e “… vi sono due basi formate da due
antichissimi capitelli bizantini”(pag. 384); e ancora “…; capitelli cristiani primitivi, detti anche bizantini
della prima maniera nei quali l’artista, seguendo le tradizioni romane, qualche volta anche greche, col
decorarli della foglia di acanto ingegnossi di imitare i capitelli corintii”(pag. 385). Ed a pag. 392 conclude,
affermando che “quello che a me sembra indiscutibile,…, si è che qui da noi all’epoca longobarda
l’intonazione artistica ci veniva d’oriente;… Lo stesso capitello … nel chiostro di S. Sofia è ritenuto opera
di artisti greci dell’VIII secolo. […]. La influenza greca poté molto su di essi (= duchi e principi
longobardi), e dobbiamo sempre più convenire che in Benevento spirò l’alito greco”.
analogia e procedere per gradi di ragionamento. Si è portati ad ammettere, nonostante il
numero modesto, una presenza dei ‘goti’ diffusa sul territorio. E, pur se il quantitativo
dei longobardi penetrato in Italia sia stato numericamente più o meno pari a quello dei
goti, la loro diffusione, che si tenta di immaginare, sembra tendenzialmente maggiore.
Ma perché, contrariamente al favore di tale atteggiamento verso i goti e verso i
longobardi, si è portati a dimenticare o, comunque e nel migliore dei casi, ad attribuire
scarsa rilevanza alla presenza, per i secoli dal VI all’VIII ed oltre, dei greco-bizantini?
Eppure la cultura di questi ultimi (basti pensare al modo, indubitabilmente mutuato
dall’Impero, della gestione del potere associando familiari al governo) e l’imitazione
longobarda delle strutture e dei sistemi (prendere dalla cultura bizantina le parole
caratterizzanti il modo stesso di gestire il potere di ‘dux’ e di ‘judex’) imperiali, che
determinarono che “anche l’Italia longobarda pervenne, nel secolo VIII, alla costruzione
di un sistema sociale in cui la classe dei possessori si identificava con la classe militare e
politica”169, ben starebbero a dimostrare, già da sole, che la presenza numerica di greci
nella società ‘longobarda’ fu più che consistente. E, inoltre, che molto la influenzarono.
A tutto questo occorre ancora aggiungere che “in questo tempo (nota: il Sarnelli si
riferisce alla metà del X secolo, ma tutto lascia pensare che il fenomeno fosse di lungo
periodo e, oltre alle condizioni precedenti, fu sicuramente favorito dagli arrivi seguiti
alla iconoclastia) erano moltissimi Greci in Benevento, e così insolenti, che
pretendevano non poter’ essere scomunicati, che dal Patriarca di Costantinopoli; onde
Papa Giovanni nel privilegio della conferma, intimando la scomunica, replica: sive
Graecus, seù quicumque alter homo; perciocché i Longobardi levarono a’ Greci il
dominio; ma non discacciarono i Greci cittadini, né impedirono le loro usanze, mentre
fra’ barbari alla Greca pure vissero, come si vede dalle statue quasi tutte palliate, e da’
riti grecanici nella stessa Chiesa fin qualche secolo dopo il millesimo,…”170. E che tale
presenza (per la quale, è bene sottolinearlo, anche lo stesso Sarnelli fa riferimenti all’uso
di quei riti grecanici, che da soli starebbero a dimostrare la diffusione di lungo periodo),
nella composizione demografica, non sia esclusività della sola Benevento, ma, al
contrario, fosse assai diffusa sul territorio e, soprattutto, che venisse, nel tempo, da
molto lontano, ben lo si desume dal fatto che, nel 787 (e quindi più di un secolo prima
della occupazione del 891 – che potrebbe, ma impropriamente, far pensare allo stabilirsi
proprio in quella fase dei Greci – da parte di Simbaticio, che vi stabilì il suo ‘palatium’
per qualche anno) “tutti i Vescovi del Principato di Arechi, …, <sono> co’ bacoli
pastorali, …”171, strumenti tipici, come si è visto, e che ritroveremo anche a ‘Musane’,
169
TABACCO G., Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Torino 1982, pag. 115.
“L’autorità regia ebbe a Benevento, e in qualche misura anche a Spoleto, un riconoscimento più spesso
formale che sostanziale. In tal modo i due grandi ducati longobardi si inserivano fra i territori bizantini
tendenti essi pure all’autonomia”(pag. 130).
Sembra possibile spiegare con la evidente e significativa presenza dell’elemento greco il fatto che nella
Benevento longobarda, a differenza che altrove, non penetra l’elemento franco; e, quasi certamente, le
divisioni e le scissioni del IX secolo nelle “reliquiae Langobardorum gentis” dipenderanno dalla
maggiore o minore influenza dell’elemento bizantino.
170
SARNELLI P., Memorie cronologiche de’ Vescovi, ed Arcivescovi della S. Chiesa di Benevento,
Napoli 1691, pag. 57.
171
SARNELLI P., Memorie … cit., pag. 40. Il BORGIA (op. cit., pag. 101 e seg., in nota) è relativamente
più preciso e dettagliato nel riferire che “… in que’ tempi le lettere ed i libri non trovarono migliore
del rito greco o, anche e meglio, a questo punto, del rito ‘beneventano’, il quale,
nonostante le correzioni di epoca carolingia che miravano a farlo rientrare nell’orbita di
Roma (di quella Roma che ha appena compiuto la scelta di ‘occidentalsi’ con il
sottomettersi alla potenza franca), fu (e, con evidenza assai palese, non poteva non
essere) lungamente diffuso nell’intera area della “Langobardia minore”.
Questi segnali di connotazione, tutti, possono essere bene individuati, ed, in tal
modo, attribuiti a quella preesistente ‘civitas’ dalla quale ‘Musane’ ripeteva la sua
origine, dalla lettura di quella scultura a rilievo, che, al presente, risulta collocata nella
facciata esterna della parete posteriore della Chiesa di S. Francesco. Essa, il cui
ritrovarsi allocata nelle pertinenze della Chiesa del Convento sembrerebbe, ma solo
apparentemente, segno poco spiegabile, combinata con quella “Catedra, ò sia la Sedia
dell’antico Vescovo, con la sua Cupola, e Crocetta sopra, tutta lavorata,
scorniciata, intagliata, et indorata, fatta ad otto angoli, e stava sotto l’arco della
Sagristia sopra la Sepoltura delli Vescovi morti, avanti al quale arco, vi era un
parapetto di pietra, alto da circa tre palmi…”(v. nota 17, Docc. nn. 1 e 2), che si
trovavano (v. nota 16) “nell’antico vescovado della destrutta città dell’homini sani,
alias Musane,…, la quale chiesa hoggi è posseduta da padri Conventuali”, trova
rifugio, che presso i Monaci, alla diligenza de’ quali noi siamo debitori …, e parte al continuo commercio
de’ Beneventani co’ vicini Greci, de’ quali in Benevento ve ne era sì gran copia, che non solo avevano
Chiese distinte, come S. Niccolò de Graecis, e San Gennaro de Graecis, ma per tenerli in dovere furono
obbligati i Papi Marino II o sia Martino III nel 944 e Giovanni XII nel 957 nelle loro bolle dirette a
Giovanni ed a Landolfo Vescovi di Benevento, …, di fare di essi espressa menzione scrivendo: sive sit
illa magna, sive parva persona aut Graecus: sive Graecus sit, seu quicumque alter homo; e lo stesso
fecero dappoi Gregorio V nella sua Bolla del 998, …”.
Perché ci si convinca di tale interpretazione degli avvenimenti, si riporta, da CAPOZZI G. (Memoria
storico-canonica della Chiesa di Morcone, Benevento 1844), qualche brano significativo. “Or questa
Città, e questa Chiesa era senza dubio sede Vescovile nel IX secolo. […]. Emanuele Schelstrate (Antiq.
Eccles. Tomo 2 Append. 17 pag. 687) pubblicò il primo un codice a penna della Biblioteca Vaticana num.
1184, che contiene l’elenco de’ Vescovi dell’orbe Romano, fatto … nell’anno 891, in quello appunto in
cui fu estinto in Orso il principato Beneventano, e queste nostre contrade tornarono, sebbene per poco, nel
dominio de’ Greci (Giannone Storia civile del Regno di Napoli libr. 7 Cap. 1). In esso sotto la Provincia
Calabriae, e ‘l titolo de Episcopatibus qui proprii sunt juris, et nullum in subditos exercent, chiamati da
Lionclavio Autocefali, nota quello di Morcone. L’Abbate Troylo (Troylo L. e C.T. 1 Par. 2 Cap. 14 num
35 Tom. 4 Par. 1 Cap. 8 num. 101) soggiunge, che fu questa Città Vescovile nel medio evo, a’ tempi
dell’influenza de’ Patriarchi di Costantinopoli in Italia. Anzi la vuole dichiarata da essi Chiesa
Arcivescovile, e la numera tra i Metropolitani avulsi a Dioecesi Romana, atque Trono
Constantinopolitano subjecti, secondo la novella di Leone il filosofo (888) riferito dal citato Lionclavio
(Jurium Greco Romanor. T. 1 Lib. 2). E nel num. 74 sull’autorità di Nilo Desopatario, e di Roberto Mirer
sostiene che le Chiese di Puglia, di Calabria, e di altri luoghi del regno di Napoli furon soggette al
Patriarca di Costantinopoli dal 715 fino all’anno 1116”(pag. 19). E “questi rilievi dimostrano ancora che
cessata la Greca dipendenza, se ne conservasse tuttavolta il rito intorno a duecento anni dopo. Il Cardinale
de Luca (De Luca In Conc. Trid. Disc. 8 num. 25 Disc. 14 n. 20, e 21) insegna «Dicta intrusione cessata,
Sedes Apostolica ejiusdem ritus continuationem permisit; prudenter tamen curata fuit introductio ritus
Latini …». E poco appresso aggiunge «Antiquiori tempore frequens erat usus ritus Graeci in Italia …
ob dominationem Imperatoris Constantinopolitani, qua durante, istae partes, vel regiones … vivere
coactae fuerunt sub obedientia Patriarchae Constantinopolitani, qui plures Episcopatus erexit, unde
provenit illud inconveniens»”(pag. 22). Senza nessun commento a lasciando al buon lettore di riflettere,
si consiglia solo di tenere in considerazione il fatto che il Cardinale De Luca era, appunto, un Cardinale
della Chiesa Romana.
spiegazione, solo se la si collega alla ‘civitas’ di Tiphernum, che, nel tempo, diventa
Bifernum e, successivamente, Musane. Vale, cioè, a dire che, quando Bifernum subirà
la ‘cancellazione’ ed emergerà Musane, la cattedra episcopale, di rito greco-bizantino,
viene quasi certamente spostata e fissata in una ‘Ecclesia’ (probabilmente titolata a S.
Paolo), che, vi sono testimonianze diverse in tal senso, è preesistente alla costruzione del
convento francescano e dalla quale ha continuato ad esercitare un ‘episcopus’ greco in
concorrenza e contrasto con quello ‘latino’ di S. Maria, quando questi viene istituito.
Quella scultura, in pietra arenaria del luogo, sicuramente databile tra il VII e la
prima metà del IX secolo, rappresenta, nella tipica posizione frontale (richiama molto i
mosaici bizantini di Ravenna) della iconografia dell’arte bizantina, un ‘episcopus’, che,
di relativamente modesta statura e con la testa, leggermente sovradimensionata rispetto
al corpo, come poggiata su un cuscino dalla strana forma triangolare, con il vertice in
alto, sul quale è raffigurata una città capovolta (forse la “destrutta città”?), indossa
paramenti del rito greco-orientale e sembra essere, con ottima probabilità, il coperchio o,
comunque, la parte superiore di un monumento funebre172.
Si diceva dei segnali di connotazione riscontrabili e ben leggibili in quella
scultura: il rito, così come i paramenti indossati dal personaggio raffigurato, è assai
evidente; così come lo sono pure la fattura, l’ispirazione ed il significato artistico
dell’opera; resterebbe da determinare la presenza ‘greca’ tra la popolazione del
gastaldato ‘biffernense’, che, per l’assenza di documenti dovuta alle successive
‘cancellazioni’, resta cosa non facile a dimostrarsi. Tuttavia, non è affatto semplice
casualità o di scarso rilievo il fatto che quella “città detta anche Li-Musani, …, riconosce
i suoi principij dalla nobile famiglia Pantasia Beneventana, e perciò i Limosanesi, come
originarij godono in Benevento del privilegio di Cittadini”173. Perché quella “nobile
famiglia Pantasia”, che, almeno quanto al nome, sembra proprio di origine bizantina,
ben potrebbe essere tra quei “moltissimi Greci” che furono allora, e per lungo periodo,
presenti in Benevento.
Poche cose? Meglio, in ogni caso, queste poche cose, che pure rappresentano la
piccola traccia che, pur labile ed appena visibile, può servire a ripristinare un minimo di
verità storica del persistere a credere nelle verità non vere.
2.3 – L’anacoretismo, il cenobitismo, il monachesimo
Il tentativo di ricostruire l’organizzazione e la geografia fisica del paesaggio,
riferito ai secoli del periodo di tempo che va dalla tarda romanità fino a tutto l’alto
medioevo, ricompreso nel territorio del “gastaldatus Biffernensis”, evidenzia, oltre ad
una forte predominanza della macchia boschiva, dell’incolto e probabilmente, nella valle
del fiume, del paludoso malarico, elementi di limitata uniformità e lo trova assai
172
Assai simile a quella tomba, che era in Morcone e descritta da CAPOZZI (op. cit., pag. 21), sul cui
“coverchio si vede l’immagine a rilievo, cogl’indumenti sacerdotali, secondo il rito Greco. Invece della
pianeta ha una specie di Piviale, ed in petto una croce. Non colla Berretta, ma col Camelaucium Greco in
testa, …, simile al Cappuccio de’ Benedettini, o Berrettino de’ Pontefici”.
173
SARNELLI P., Memorie … cit., pag. 224 e seg.
discontinuo. In esso, una volta che è stato ridimensionato il ruolo dei ‘latifundia’, sia
armentizi che agrari, dal profondo calo demografico e dal generale imbarbarimento, le
funzioni sociali e produttive delle antiche ‘villae’ vengono interamente, ma con processi
discretamente lunghi nel tempo, rimpiazzate da strutture abbaziali e monastiche. Tutto
questo anche nelle scelte del posizionamento e della localizzazione, che, dovendosi
soddisfare bisogni ed esigenze motivazionali non molto dissimili da quelle del passato,
fanno privilegiare gli stessi siti degli organismi produttivi romani.
Intorno a tali ‘strutture’, che, dall’iniziale monadismo individualistico di origine
orientale e da esso mutuato (tra la fine del IV ed il V secolo) nella pars Occidentis
dell’impero, lo spirito organizzativo della prima generazione, quella, per intendersi,
‘pre-benedettina’, delle ‘regole’ latine spinge, in un primo tempo, ad evolvere in “forme
più o meno eremitiche e anacoretiche”174 e, poi (a partire dalla prima metà del VI
secolo), anche per l’influenza delle due maggiori ‘regole’ dell’Occidente, la “Regula
Magistri” e la “Regula Benedicti”, organizza in ‘complessi’, caratterizzati da un modo
di vita associato nei ‘cenobi’ e localizzati in posizioni strategicamente situate a breve
distanza dalle grandi vie di comunicazione, nei pressi delle risorse idriche e nelle
vicinanze, quando proprio non sopra, di luoghi poco offendibili dalle bande dei predoni,
spesso si ri-formano villaggi ed insediamenti ‘amministrati’ da una casta religiosa e
‘mantenuti’, una volta organizzati, con il prodotto di quel sistema economico chiuso, che
sarà la ‘curtis’, che, nel ducato di Benevento, prenderà a svilupparsi solo – e non può
essere diversamente – a partire dalla conversione dei longobardi.
Va, subito e però, annotato che il monachesimo rappresentava un fenomeno del
tutto nuovo, rivoluzionario e, per tanti aspetti, estremizzante ed estremistico, quasi
‘terroristico’ (il termine, seppur con altri riferimenti, venne usato da Le Goff), del
Cristianesimo teso ad affermare il nuovo della individualità e della singolarità rispetto
all’esistente, il ‘mono’ rispetto al ‘poli’. Ed è un fatto che esso tende a svilupparsi nelle
fasi di ‘crisi’. Inoltre, nei momenti di maggiore contrasto religioso tra la pars Orientis e
la pars Occidentis dell’impero, che, nei secoli dal IV al VI, sono di massima dottrinali e,
dal VII al IX, riguardano in prevalenza la disputa dell’iconoclasmo, vanno registrate
fughe assai consistenti di ‘monaci’ dall’area greca verso il mondo latino. Essi, ed è
circostanza da non sottovalutare e che va tenuta presente, si stabiliscono, travasando
modi di vivere, cultura, atteggiamenti e quant’altro, diffusamente su un territorio
predisposto dalla crisi in atto a riceverli. E non poteva non essere che logicamente
privilegiato dalla vicinanza il territorio dell’Italia centro-meridionale.
E, nonostante la casualità, se non proprio la mancanza, di documentazione, pure per
il territorio dell’area tiferno-fagifulana “è possibile individuare almeno due fasi, la prima
delle quali”, quella dell’eremitismo individuale o del piccolo cenobitismo anacoretico
italo-greco, “abbracciante i secoli V-VI (nonché gli inizi del VII), che vide in tutto il
Mezzogiorno l’esistenza di impianti monasteriali di tipo cenobitico, retti da regole
particolari, per lo più a carattere misto, e sottoposti a un vigile controllo da parte dei
pontefici. Ne è una chiara testimonianza l’epistolario di Gregorio Magno, il quale
intervenne di continuo nella vita dei monasteri,..., ora per decidere in merito a
174
VITOLO G., Caratteri del monachesimo nel mezzogiorno altomedievale (secc. VI-IX), Salerno 1984,
pag. 10.
controverse elezioni abbaziali o per ovviare agli inconvenienti di un governo poco
saggio, ora per risolvere difficoltà finanziarie o punire monaci negligenti, ora per tentare
di arrestare la crisi di alcuni monasteri,... [...]. Interventi di questo genere, comportando
una limitazione dell’autorità dell'ordinario diocesano, mostrano chiaramente in quale
considerazione il Papato tenesse i monasteri meridionali, di cui voleva garantirsi il
controllo diretto. Né si tratta di una scelta occasionale, dovuta alla originaria formazione
monastica del pontefice, dato che l’esempio di Gregorio Magno, a partire dal sec. VIII,
era destinato ad essere seguito dai suoi successori, fino a diventare,..., una vera e propria
costante della politica papale nel Mezzogiorno.
A questa prima fase, caratterizzata da una organizzazione di tipo prevalentemente
cenobitico e da un deciso intervento papale nella vita dei monasteri sia greci che latini,
seguì,..., un rarefarsi dei centri monastici, con il conseguente prevalere di forme più o
meno eremitiche di esperienza monastica. Il processo era già in atto,..., al tempo di
Gregorio Magno, dalle cui lettere emerge altrettanto chiaramente come solo in alcuni
casi il fenomeno fosse dovuto alle incursioni longobarde, dovendosi piuttosto inquadrare
gli altri abbandoni nel contesto di crisi economica e demografica, che probabilmente
proprio nel sec. VII raggiunse nel Mezzogiorno il suo culmine”175.
La prima fase di diffusione del fenomeno monastico, che, sia nella forma
anacoretica di matrice greco-bizantina e sia in quella cenobitica di rielaborazione, pur
con contaminazioni, latino-occidentale, non poteva non trovare che terreno assai fertile
nell’area tiferno-fagifulana, dove il Cristianesimo, combinato con residuali forme
paganeggianti, aveva trovato espansione già da tempo, ebbe a sua volta almeno due
sotto-periodi di maggiore crescita, che furono intervallati da un terzo di stasi, se non
proprio di regressione, il quale trova collocazione temporale tra la guerra gotica, cui
seguì la triste carestia del 565-570176, e la conversione della “gens Langobardorum”, a
partire dall'ultimo quarto del VII secolo, alla religione degli autoctoni romani. La
accettazione, forse anche per motivi di opportunità politica, della nuova fede religiosa,
tuttavia, più che una cristianizzazione e, per così dire, una civilizzazione delle gerarchie
‘religiose-civili’ dei longobardi, che praticavano un arianesimo frammisto a culti pagani,
portò, nella realtà, alla longobardizzazione delle strutture ‘civili-religiose’ della società
cristiana. Essa, prima di tutto, fece sì che al riconoscimento della uguaglianza giuridica
tra indigeni e conquistatori non seguisse una partecipazione dei primi al potere, che restò
prerogativa dei longobardi; tanto che l’organizzarsi delle strutture monastiche divenne
175
VITOLO G., op. cit., pag. 11 e segg. “Le motivazioni ed i caratteri di questo eremitismo dei secoli VIVII sono ovviamente diversi da quelli che ne provocarono una rifioritura all'inizio del secondo Millennio,
quando esso si configurò come ‘una forza di rottura nei riguardi delle istituzioni ecclesiastiche e sociali
preesistenti, in quanto era espressione delle nuove esigenze di moralismo estremistico, di spiritualità
pauperistico-evangelica, di religiosità più intima, ma rispondeva anche, molto bene, a diffusi
atteggiamenti mentali di una società in cui il processo di sviluppo si andava decisamente accelerando’.
Niente di tutto questo nei secoli di cui qui ci occupiamo. Adesso l’eremitismo è l'espressione sul piano
della spiritualità di una società in crisi, che si ripiega su se stessa e, dopo aver visto sconvolto il proprio
assetto territoriale, aspetta di darsene uno nuovo, una società che, sia pur senza rifiutare gli apporti esterni,
esprimerà dal suo stesso seno le forze per rinascere e per dar vita ad una nuova organizzazione dello
spazio fisico, i cui principali punti di riferimento saranno i monasteri e gli insediamenti castrensi”.
176
PROCOPIO da Cesarea, La guerra gotica, trad. COMPARETTI, Roma 1896, II, 20.
quasi un contrapporsi dei locali al potere, per così dire, ufficiale ed alle sue ataviche
strutture tribali, insofferenti di ogni gerarchia e che furono all’origine della formazione
di domini personali e di potentati locali, del tutto autonomi e privi di ogni
riconoscimento politico. In secondo luogo determinò che si venisse ad affermare una
organizzazione della campagna, che prevedeva unità produttive completamente
autosufficienti, le curtes; esse, modellate in certo qual modo e, come si diceva, anche nel
posizionamento sul territorio, sullo schema delle antiche villae, ne costituirono di fatto il
superamento, non avendo alcun rapporto di mercato e, nella più assoluta autonomia
economica, producendo esclusivamente ciò che serviva alla comunità. Consentì, infine
ed insieme ad un imbarbarimento della società, l’introduzione nella cultura e nel diritto
‘romano’ di abitudini, di consuetudini e di principi del diritto ‘germanico’, che, come il
mundio (per tale istituzione giuridica poteva verificarsi anche il caso per cui il
mundualdo ‘vendeva’ la donna, sulla quale appunto esercitava il diritto di mundio, ad un
esponente del Clero, che ne disponeva, anche sessualmente, come di una cosa), sono
documentati nell’area limosanese almeno sino al XVII secolo.
E, se appare insidioso individuare, sia per la dimensione temporale che per quella
spaziale, la collocazione originaria dei primi siti cenobitico-monasteriali, ovviamente
assai “più difficile riesce quantificare il fenomeno eremitico, di per sé più sfuggente,
soprattutto in un periodo di scarsa produzione letteraria e documentaria”177.
Per tentare una ricostruzione delle cose di allora da riferire al territorio della
diocesi tifernate-musanense, occorre ragionare per ipotesi e fare affidamento solo su
elementi di collegamento minimi, indiretti e, quasi sempre, di poca percettibilità, come
la tipologia della localizzazione, la intitolazione (e, con essa, la toponomastica), il
raffronto con le strutture consimili, la coevità delle diffusioni devozionali ed il rito178.
Al primo sotto-periodo di sviluppo, quello dell’eremitismo greco-orientale e di quel
piccolo cenobitismo che lasciava ad ogni struttura una sua ‘regola’, il quale, poco
conosciuto (ma non, perciò, poco diffuso), è limitatamente definibile nella reale
consistenza, sembra possibile, quasi con certezza, riferire l’originario eremo di S. Maria
di Faifoli, per il quale il rito greco-bizantino è documentato almeno sino a tutto il X
secolo. “Il cardinale Orsini afferma che nelle Chiese delle più insigni badie
dell'Archidiocesi di Benevento, sotto la cui giurisdizione (nota: in quanto eredità
portatale dalle istituzioni ecclesiastiche di Limosano) era Santa Maria di Faifoli, gli abati
177
VITOLO G., op. cit., pag. 14.
PIETRANTONIO U., Il Monachesimo benedettino nell’Abruzzo e nel Molise, Lanciano (CH) 1988. Il
Pietrantonio, la cui opera, lodevole per le indicazioni bibliografiche, per le schede e per la indicazione
delle fonti, è, al contrario, assai lacunosa dal punto di vista critico, nello ‘Studio introduttivo’ dedica al
movimento monastico prebenedettino appena qualche pagina. “Nella considerazione di un movimento
prebenedettino va anche rilevata, per tradizione, per menzione in documenti di epoca posteriore, per
ragioni di toponomastica (che costituisce un documento probante quando è di origine remota) e per la
struttura di alcune diocesi dal duplice rito greco e latino, la presenza di un monachesimo basiliano, che
quando si accentuerà l’esodo dei monaci dall'Oriente in seguito ai provvedimenti iconoclastici, diventerà
coevo di quello benedettino. [...]. I Basiliani risultano presenti anche a Trivento, Chiauci, Mirabello
Sannitico,...”. E' solo un caso che, dopo aver accennato ad “alcune diocesi dal duplice rito grego e latino”,
il Pietrantonio menzioni insediamenti tutti non distanti dal territorio della diocesi di Limosano?
178
portavano il bacolo pastorale che è proprio degli abati greci, ed asserisce inoltre che
questi abati usavano il rito greco; rito quello che era adoperato verso l'anno 1000”179.
Ma quali potrebbero essere gli altri loci dell’attuale territorio limosanese ad essere
privilegiati dai primi esponenti del movimento eremitico-anacoretico? Una circostanza di
grande interesse, che presenta una particolare caratteristica di unicità che la rende assai
significativa, è la posizione di diversi di essi al di sopra di una grande ‘morgia’ o, come è
nelle fonti, specificamente: “super magno saxo”, “super montem lapideum”, “in
pesclo majore”, “in pesclo minore”. Se, poi, a questo loro posizionamento, assai
singolare e che trova pochi riscontri in altre località180, si unisce la titolazione delle
relative emergenze (badie, cenobi, eremi e “casalenum Ecclesie”) a Santi (Silvestro papa,
Illuminata vergine e martire, Vittorino e Martino vescovo), tutti del Cristianesimo
primitivo, ne emerge, con una certa evidenza, l’antichità e, con essa, la possibilità di
datarli al periodo, durante il quale, tra il V ed il VI secolo, si ebbe la prima diffusione di
eremiti e di anacoreti (che organizzavano i loro primi cenobi e gruppi di asceti) che,
provenienti dall’oriente e spinti da motivazioni dottrinali, vengono a stabilirsi sopra un
territorio discretamente libero e ben disposto a riceverli e ad accoglierli.
“Il monachesimo greco, sotto il suo aspetto economico sociale e culturale, è stato
elemento di unità e di continuità della vita greca nell’Italia del sud già forse dal VII
secolo in poi …”181 e, più probabilmente senza il forse, già in precedenza, se “la
179
QUARTULLO M., Fondazione di monasteri benedettini nel Molise, tesi di laurea, anno accademico
1972/73, pagg. 105 e 106.
Anche MARINO L. (La Chiesa di S. Maria di Faifoli a Montagano, in AM 1979, pag. 129 e segg.)
sembra essere dell'avviso di dover datare ad epoca ‘antica’ l’eremo di Faifoli, quando afferma, a pag. 132,
che “dal VI-VII secolo in poi, il territorio viene caratterizzato e, per più di un aspetto, qualificato dagli
insediamenti monastici benedettini” ed, a pag. 161, che “la pianta della chiesa era caratterizzata da uno
schema iconografico semplice, di memoria paleocristiana...”.
180
Circa il posizionamento e la particolare organizzazione in gruppo del monachesimo greco, BORSARI
S. (Monasteri bizantini dell'Italia meridionale longobarda, in ASPN, n.s. XXXII, 1950-51, pag. 1 e segg.)
rileva che “spesso molti monasteri di una stessa regione si univano insieme, sì da formare una specie di
congregazione, che era retta dall’egumeno del più importante tra i monasteri collegati, oppure da un
monaco, che per le sue virtù fosse particolarmente indicato per questa carica”.
Se possibile, ancora più chiaramente, sia per la attribuzione del riferimento utile e necessario alla
datazione e sia di quello relativo alle caratteristiche del posizionamento, si esprime POLONIO V. (Chiesa,
chiese, movimenti religiosi, Bari 2001), quando, a pag. 139, afferma che “nel Mezzogiorno il
monachesimo greco ha esistenza duratura e originale. E’ favorito dalla situazione politica; è nutrito da
ripetuti apporti orientali, dovuti a fughe motivate dai soliti contrasti dottrinari, …; è arricchito da
contributi di origine bizantina. Alla fine si costruisce un ambiente non puramente imitativo, bensì mosso
da fermenti propri. Una volta regredite le numerose comunità latine (e anche greche) attestate ai tempi di
Gregorio Magno, tende a prevalere un sistema eremitico su cui siamo poco informati. Le numerose grotte
caratterizzate da segni di devozione (note da tempo ma più sistematicamente ricercate e indagate da una
quarantina di anni a questa parte) sono difficilmente databili a motivo della loro elementarità: tuttavia si
pensa a una forma eremitica, sia pure non quantificabile, inserita nel quadro di crisi generalizzata …,
orientata in prevalenza, ma non esclusivamente, verso lingua e tradizioni greche; …”. E, a pag. 143,
conclude che “il monachesimo greco del Mezzogiorno italico imbocca (dal XII e XIII secolo) la via del
declino, in parallelo con la progressiva latinizzazione del paese”.
181
CILENTO N., op. cit., pag. 34. Così vengono sintetizzate dal Cilento le ipotesi del Guillou, mentre,
parlando del Mor, scrive (pag. 25) che “egli fu attratto dalla varietà delle istituzioni romanico-bizantine
che, fra i secoli VIII-XI, furono limitanee alle istituzioni degli stati Longobardi delle regioni interne del
Benevento del VII secolo era una città colta, nella quale all’eredità sannitica si erano
aggiunti nei secoli i portati della già composita cultura ellenistica”182.
E’ stato già riferito in altro lavoro183 (e ad esso si rimanda per eventuali ulteriori
approfondimenti) della geografia e delle ricostruzioni storiche riguardanti le emergenze
cenobitico-monastiche, situate tutte su ‘morge’ nell’agro limosanese, di S. Silvestro
papa, di S. Illuminata vergine e martire 184, di S. Martino vescovo e di S. Vittorino. Pare
possibile collegarne la fioritura e la diffusione al movimento cenobitico, che il ‘monaco’
Equizio, “contemporaneo un po’ più vecchio di S. Benedetto” 185, dopo aver mutuato ed
assimilato influssi orientali, al dire di Gregorio Magno nei suoi ‘Dialoghi’, “pro suae
magnitudine sanctitatis multorum in eadem provincia monasterium pater exsistit”.
Anche se c’è chi è portato ad identificare, in maniera esclusiva ed escludente, con
la provincia Valeria (e, quindi, con una parte dell’Abruzzo) la ‘provincia’ di cui parla
papa Gregorio, collocando in essa il monastero equiziano di “S. Equizio (poi San
Benedetto) di Pizzoli”186, la traccia del riferimento geografico riscontrabile nel testo
della ‘bolla’, senza data, di Papa Anastasio IV, che, però, fu Papa solamente tra il 1153 e
l’anno seguente, con la quale venivano confermate all’Abbazia di Monte Cassino
“<ecclesiam sive monasterium> Sancte Illuminate in castello Lemusano,… curtem
Sancte Marie in Sala, Sancti Benedicti Piczoli ibidem,…”187, porta ad ampliarla fino a
ricomprendervi l’ambito territoriale dell’attuale Limosano. E, se, cioè, ‘S. Benedetto (in
precedenza titolata, appunto, a S. Equizio) di Pizzoli’ era “ibidem”, ossia “in Sala”, “i
tanti monasteri equiziani, sia maschili che femminili, dei quali sono andate perdute le
testimonianze”188 e, insieme ad essi, una parte significativa del ‘movimento’ eremitico
ed anacoretico prebenedettino, quantomeno quello equiziano, andrebbero riferiti anche
sud, da lui messe a confronto per individuarne i possibili interscambi e le reciproche influenze”. Ed, a pag.
26, lamenta che “nella tematica della medievistica dominante, che mantiene l’Italia meridionale in una
sorta di isolamento storiografico, si insiste con particolare attenzione sull’Europa romano-cristiana e
franco-germanica o sul Regnum Italicum, chiusi in un’area privilegiata nordica e non più mediterranea,
con una economia silvo-pastorale e parzialmente agraria, in netta contrapposizione alla rarefatta atmosfera
teologica e culturale di Bisanzio e ai «turpis lucri commoda» della mentalità mercantile islamica e grecolevantina; mentre non si sottolinea abbastanza il costante rapporto con l’oriente bizantino e musulmano
che l’Italia meridionale, sia longobarda che dei ducati autonomi costieri greco-italici e dei temi bizantini,
mantenne come punto d’incontro e di mediazione attiva fra oriente e occidente”.
182
MONTESANO M., La cristianizzazione dell’Italia nel Medioevo, Bari 1997, pag. 65. Si veda, per la
derivazione della cultura bizantina da quella ellenistica, BECK H.G., Il millennio bizantino, Napoli 1982.
183
V.: BOZZA F., Limosano: Questioni … cit., specialmente il 3° capitolo.
184
Il nome stesso di ‘illuminata’ sembra corrispondere alla trasposizione latina, avvenuta probabilmente
in quel periodo di tempo, che la Bernard (v. note 85 e 86) colloca anteriormente al 650 ed in cui si ebbe la
“traduzione di Vite di Santi orientali”, della parola greca ‘fotina’. Maturo A. (Gli “Acta” di S. Illuminata,
in “Roma e l’Oriente” 1914, nn. 7 e 8) propone (v. pag. 86) la derivazione di S. Illuminata dalla S. Fotina,
“vissuta circa l’anno 340” e, dopo aver ricostruito la trasposizione, a pag. 90 conclude “che la leggenda,
nata in Oriente, venuta in Occidente, a Montecassino, modificata, abbellita passasse nell’Umbria, dove il
monachismo ebbe il massimo splendore”.
185
SALVATORELLI L., San Benedetto e l’Italia del suo tempo, Bari 1929, pag. 46.
186
PIETRANTONIO U., op. cit., pag. 47.
187
KEHR P.F., Papsturkunden in Italien, Reiserberichte zur Italia Pontificia, Acta Romanorum
Pontificum, Vol. 5, Città del Vaticano 1977, IV, pag. 69, doc. XXII di Montecassino.
188
PIETRANTONIO U., op. cit., pag. 47.
al territorio della ‘provincia’ sannitica ed, in particolare, all’area tiferno-musanense189,
cui, appunto, apparteneva la “Maccla bona”, che era parte consistente di “Sala”.
Il carattere di singolarità all’area monastica della “Maccla bona” le derivava dalla
circostanza, per la quale, in un ambito di territorio relativamente ristretto, si riescono a
collocare ben tre complessi cenobitici (S. Maria, S. Benedetto e S. Pietro) ed, inoltre, dal
cambiamento di ‘titolazione’, che li interesserà di frequente nei secoli a venire190.
A quel primo sotto-periodo di espansione, che, se si eccettua qualche esempio, pur
importante ma isolato, del VI secolo (Montecassino con Benedetto da Norcia ed il
Vivarium di Cassiodoro), è caratterizzato da uno spontaneismo individualistico e, per
così dire, di base, al quale rimangono complessivamente estranei (e, pur se “in genere si
tratta di comunità formate da esponenti dell’aristocrazia”[Pacaut, v. in seguito], era per
essa un modo di rinchiudersi in se stessa e di ‘ritirarsi’) gli esponenti della vecchia
aristocrazia senatoriale, segue un periodo di stasi, se non di vera regressione, del
fenomeno monastico, che può collocarsi, all’incirca, tra l’invasione ed il progressivo
insediamento della “gens Langobardorum” e la conversione (terz’ultimo decennio
circa del VII secolo) di quest’ultima ai cristianesimi degli autoctoni e greco-bizantino.
Da questo momento, abbandonato e, comunque, svilitosi l’antico modo eremitico, può
farsi iniziare una nuova e forte fase di crescita del movimento monastico nella forma
cenobitico-monasteriale, al quale – fatto nuovo e da non sottovalutare – partecipa in
maniera massiccia e consistente la classe più elevata. Ed “il fatto che la nobiltà si inserì
in gran numero nella carriera ecclesiastica”, dove effettivamente “si attua la fusione
dell’aristocrazia senatoria tardo-antica con i nuovi dominatori”, sta a significare, oltre
alla emarginazione delle masse, la volontà e l’interesse politico per il controllo di quel
patrimonio (è il ruolo politico, che combinanadosi con quello più puramente economico,
svolge la ‘curtis’), che, a differenza che altrove, “nell’Italia centrale e meridionale
rimase sostanzialmente intatto: accanto alle grandi abbazie restarono anche molti piccoli
monasteri” con i loro possedimenti più o meno grandi e, sempre, significativi191, diffusi
ed estesi a macchia di leopardo sul territorio.
Questo nuovo atteggiamento delle classi dominanti va ad inserirsi in un “quadro
del monachesimo, <che> nel Mezzogiorno italiano comprende anche, tra il V e il VII
secolo, nel passaggio tra il Tardo Antico e l’Alto Medioevo, le numerose fondazioni
sorte … grazie ad un più marcato influsso della cultura e del cristianesimo bizantino”192.
In contrapposizione, forse, con quello autoctono, “il monachesimo greco costituisce un
momento importante della storia del Mezzogiorno italiano, ove cominciò a diffondersi,
189
In quest’ottica e nella direzione della relativamente buona (erano ancora forti le residualità del
paganesimo) diffusione del Cristianesimo nell’attuale Molise assume un significato assai particolare anche
la “Epistola ad Episcopos per Campaniam, per Samnium et per Picenum…”, scritta da Papa Leone I,
curiosamente non indicando l’Aprutium, il 6 Marzo del 459 (o 461), con cui condannava “alcuni abusi
relativi alla circostanza in cui veniva amministrato il sacramento del Battesimo ed il modo con cui spesso
si amministrava il sacramento della Penitenza o Confessione (con pubblico libello)” (FERRARA V.,
Canneto sul Trigno, Vasto 1988, pag. 169).
190
V.: BOZZA F., Limosano: Questioni … cit.
191
FINK K. A., Chiesa e… cit., pag. 78 e seg., passim.
192
PACAUT M., Monaci e religiosi nel Medioevo, Bologna 1989 (trad. da Les ordres monastiques et
religieux au Moyen Age, Paris 1970), pag. 28 e seg.
insieme ad altri elementi tipici della cultura e dell’amministrazione pubblica bizantina,
in seguito alle conquiste realizzate da Giustiniano verso la metà del VI secolo”.
Successivamente ed a riprova della continuità nel tempo del fenomeno, “il trasferimento
di monaci ed eremiti orientali nell’Italia meridionale venne accelerato dall’avanzata
araba in vaste porzioni dei domini bizantini”. Questi “monasteri greci, fedeli alla regola
basiliana, non si organizzano soltanto nella forma di eremi oppure di cenobi, ma anche
secondo una serie di modelli intermedi che giustappongono, dosandole in misure
variabili, le due tendenze ascetiche”, per agevolare e permettere ai singoli monaci di
riunirsinella chiesa e nei pochi altri ambienti comuni per le celebrazioniliturgiche
comunitarie, specie negli ultimi due giorni della settimana, per consumare i pasti e per
ascoltare le parole e l’insegnamento del loro superiore. “Accanto alle varie forme di
aggregazione monastica si moltiplicano anche, numerose e continue sin dopo il Mille, le
esperienze di vita solitaria di anacoreti e di piccoli gruppi di eremiti che dimorano in
grotte naturali o in insediamenti rupestri diffusi ampiamente”193 sul territorio.
Il fattore più importante è, poi, che “i legami tra i centri della cultura monastica
greca in Italia e l’Oriente si mantengono intensi e continui sino a favorire uno scambio
di esperienze cenobitiche” non solo, ma anche, “per il costante afflusso di monaci
orientali, molti dei quali si fermano stabilmente ed entrano nelle file del clero regolare e
secolare, sino a contribuire a diffondere rituali, usi e costumi bizantini sino alla fine del
secolo VIII, quando si conclude il periodo di più intensa espansione del cristianesimo
orientale”. In più e “nel complesso, però, il monachesimo greco meridionale conserva le
energie per prolungare la sua esistenza nell’arco di otto secoli, nonostante la progressiva
attenuazione dei rapporti con i grandi centri di spiritualità orientali e il loro
soffocamento causato dalla diffusione e dalla prevalenza della cultura latina in seguito
alla costituzione dei Principati e poi del Regno normanno”194, e, maggiormente, alle
violente imposizioni, con conseguenti ‘cancellazioni’, che seguirono allo “scisma
d’oriente” del 1054 ad opera del patriarca Michele Celurario.
La risposta ‘politica’ longobarda al tentativo dell’imperatore Costante II, che, nel
663, “Beneventanorum fines invasit, omnesque pene, per quas venerat, civitates cepit”,
fu la scelta, così immediata quanto opportunistica, della classe dei dominatori della
“gens Langobardorum” del ‘ducatus’ beneventano di convertirsi al cristianesimo, che,
nel meridione, più che ‘romano’ ha connotazione di “cristianesimi diversi”. Tanto che
tale classe dominante potrà partecipare attivamente alla ripresa della fase espansiva del
monachesimo. Già “la moglie di Romoaldo, Teodorada, fondò allora, fuori le mura di
Benevento, una chiesa e un monastero in onore dell’apostolo Pietro, che fu la prima
fondazione chiesastica che si conosca qui, dal tempo della conquista longobardica”195. E
193
PACAUT M., Monaci … cit., pag. 77 e seg. passim.
PACAUT M., Monaci … cit., pag. 78 e seg.
195
HIRSCH F., op. cit., pag. 44 e seg. La Montesano (op. cit., pag. 54), al riguardo, scrive che “offrì
l’esempio Teodorada, moglie di Romualdo, che intorno al 670 fuori delle mura della città di Benevento
costruì una basilica dedicata a san Pietro”. E, dopo aver riferito che “tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII
secolo la situazione migliorò decisamente, grazie alla conversione dei longobardi al cattolicesimo, al
progressivo abbandono dei costumi più apertamente paganeggianti e alla fusione con i latini”, a pag. 55,
aggiunge inoltre che “il mutamento nell’attitudine dei longobardi verso la Chiesa e la religiosità cristiana è
simboleggiato dalla rilevanza che nel ducato di Benevento assunse in quello stesso periodo il culto
194
ad essa (si noti, nelle titolazioni, il ‘cambiamento’ in direzione di esperienze ‘romane’ e,
meglio, più ‘autoctone’), ma quando fu ‘reggente’ del figlio Gisulfo (689-706), si
debbono anche le fondazioni, in aree soggette ai ‘bulgari’, dei monasteri di S. Maria in
Castanieto (v. nota 87) vicino Piniano, di S. Angelo in Altissimo (o anche “in
Altissimis”) nel “galo nostro biferno” (dove quel ‘nostro’ lascia ben intendere la
finalità politica e la volontà di estendere il controllo sul territorio) e, più conosciuto e
fortunato, di S. Vincenzo “ad fontes Volturni” per mano “di tre nobili beneventani,
Paldone, Tasone e Tatone, che, contro la volontà de’ lor parenti, si consacrarono alla vita
monastica”196. Il tutto avveniva, mentre, significativamente per comprendere i fatti di
allora ed il punto di tensione tra Roma e Bisanzio, l’imperatore Giustino II tentava di
“far condurre a Costantinopoli papa Sergio (687-701), proprio come l’avo suo Costante
avea fatto con papa Martino”197.
Diversi elementi rendono possibile datare proprio a questo momento (tra la fine
del VII e l’inizio dell’VIII secolo) la evoluzione del monachesimo della “Maccla bona”
dal tipo eremitico-anacoretico a quello monastico-cenobitico, potendovi collocare: 1) la
struttura della “curtis Sancte Marie in Sala”; 2) il cambiamento, di grande significato,
dall’orientaleggiante S. Equizio in favore del culto, indubbiamente più ‘occidentale’ e
romano, di S. Benedetto, nella titolazione della omonima struttura cenobitica di ‘Piczoli’
(che si trovava ‘ibidem’); 3) e, da ultimo, la probabile ‘fundatio’ del terzo complesso,
quello che, analogamente e coevamente a quanto stava accadendo nella città di
Benevento, veniva, altrettanto significativamente, pure titolato a S. Pietro.
Quasi contemporaneamente la stessa Montecassino, distrutta dai Longobardi verso
il 580, stava vivendo “nel secondo decennio del secolo VIII l’iniziativa di Petronace,
originario di Brescia, appoggiata da papa Gregorio II e concretamente sostenuta dalla
collaborazione dei monaci della vicina abbazia di san Vincenzo al Volturno, che vi
permise la riorganizzazione della vita cenobitica”198 e la ‘rifundatio’ del monastero.
All’evidente forte attivismo di Roma, che, al fine di ottenere la sua completa
autonomia da Costantinopoli, viene combinando i propri con gli interessi longobardi in
danno di quelli bizantini, ed all’inserimento, altrettanto palese, delle classi dominanti ai
vertici delle strutture monastiche (ma anche episcopali), che, per mezzo di procedimenti
complessi, stavano definendosi e concretizzandosi nel cinquantennio a cavallo tra la fine
del VII e gli inizi dell’VIII secolo, gli effetti di un fattore nuovo e, per tanti versi,
imprevedibile stanno per sommarsi. Sono quelli che, direttamente o indirettamente,
occorre riferire per almeno due secoli, l’VIII ed il IX, allo scontro, tanto religioso quanto
e, forse, più politico, relativo al culto delle immagini sacre o dell’iconoclasmo.
“Benché le fonti iconoclaste siano state sistematicamente falsificate o distrutte,
occorre pensare che l’iconoclasmo e l’istituzione dell’Ortodossia siano stati degli shock
paragonabili – fatte le dovute proporzioni – alla Riforma e alla Controriforma”. Ed è un
dell’arcangelo Michele, per mezzo del quale la tradizione guerriera longobarda ricevette una più decisa
impronta cristiana”. E’ appena il caso di aggiungere che tale culto fu, probabilmente sin da allora,
parecchio presente anche nel territorio del “galo Biferno”.
196
HIRSCH F., op. cit., pag. 48. Il Di Meo data al 692 la fondazione del “Monistero di S. Maria a
Castagneto, vicino a Piniano”.
197
HIRSCH F., op. cit., pag. 48.
198
PACAUT M., Monaci … cit., pag. 38.
fatto, con il quale bisogna assolutamente fare i conti (ma che, in ogni caso, impedisce di
coglierne completamente quegli effetti), che “la damnatio memoriae che colpisce tutto il
periodo iconoclasta ci consegna troppo poche fonti per farci apprezzare, al di là del
problema dell’immagine, le novità certamente importanti che vengono allora apportate
alla politica sociale ed economica della Chiesa”199, delle sue istituzioni, dirette o
indirette, e, più nello specifico, del movimento monastico.
E, se tutto questo è vero per l’iconoclasmo, lo diventa maggiormente per la
comprensione della diffusione ‘locale’ e del relativo raccordo con la storia ‘generale’
delle dispute e delle controversie teologiche e dottrinali dei secoli precedenti. Si sa (ben
poca cosa) solo che nei tempi intorno al 650 (e, quindi, prima del tentativo di Costante
II, ma contemporaneamente alla esperienza di papa Martino) “i Longobardi del Ducato
di Benevento erano opposti all’Arianesimo ed altresì al Monotelismo, condannato in
Roma da più di 33 Vescovi di questo Ducato (nota: tale numero coincide esattamente
con quello massimo dei suffraganei attribuiti successivamente a Benevento). Da questi
medesimi Vescovi, che vedemmo l’anno precedente al Concilio (nota: dove, come si
vide, la presenza fu in prevalenza di ‘greci’), si rileva che la pietà de’ Duchi ristabilite
avea quelle Sedi Vescovili, che già vedemmo distrutte da’ Longobardi medesimi
allorché vi entraron da barbari”200. Cosa che sta a rappresentare una prova ulteriore della
continuità delle sedi vescovili precedenti e, quindi, anche di Tiphernum (“musane”,
“alias della città distrutta”, ancora non può essere sorta). Ed, a parte la partecipazione e
il contributo dell’episcopato beneventano alla disputa sul monotelismo, poco altro. E, se
sin qui tutti i Concili ‘ecumenici’, ultimi il quinto e il sesto riuniti rispettivamente a
Costantinopoli nel 553 contro i «Tre Capitoli» e nel 680-681 contro il monotelismo,
avevano sempre e solo deliberato su dogmi e sulla dottrina teologica della Chiesa, il
concilio di Trullo (691) rappresentò il tentativo da parte dell’Imperatore e “dei prelati
del Greco Impero”, andato fallito per l’opposizione di Papa Sergio, di ristabilire l’unità
dopo i contrasti, prevalentemente politici, dell’ultimo cinquantennio.
Ma, allorché si prese atto che era fallito anche l’estremo tentativo del 710, quando
“il S.P. Costantino <viene> invitato a Costantinopoli dall’Augusto Giustiniano, per
accordar la Chiesa Greca colla Latina, in ordine ai Canoni del Concilio Trullano”201, lo
scontro si fece inevitabile. E, nel 726, con la firma dell’imperatore Leone III Isaurico
(717-741) del decreto col quale si ordinava la distruzione delle immagini sacre, ha inizio
il fenomeno dell’iconoclasmo, che fu avvenimento politico assai più che religioso. Lo
scontro tra Oriente ed Occidente fu combattuto senza esclusione di colpi; e con
conseguenze ed effetti assai gravi. Tanto che “non contento il frenetico Imperatore del
nuovo tributo di capitazione, e della confiscazion de’ Patrimoni della S. Sede, fece per
giunta staccare dal Patriarcato Romano tutti i Vescovadi dell’Illirico, Calabria, Sicilia,
… Il pessimo Patriarca Anastasio usò tutti gli artifizi per adescare i Vescovi di questi
luoghi, colmandoli di onori, …; e in tal modo si videro i primi Arcivescovadi nel nostro
Regno. Molti scrittori accusano, ma a torto, i Romani Pontefici, che, suae in
199
DRAGON C., L’iconoclasmo e la nascita dell’ortodossia, in Storia del Cristianesimo, IV, Roma 2002,
pag. 108 e seg.
200
DI MEO, Annali … cit., ad annum 650.
201
DI MEO, Annali … cit., ad annum 710.
Generalibus Conciliis plenipotentiae consulentes, eressero molti Vescovadi, e tutti
poveri, e senza decoro. Parto fu questo della malizia de’ Patriarchi di Costantinopoli, per
aver seguaci de’ loro errori, e Popoli attaccati al dominio Imperiale. Siffatto
smembramento delle Sedi Vescovili dal Patriarcato Romano fu al sommo funesto a’
buoni costumi, ed alla disciplina della Chiesa per le nostre Contrade. Vi si eleggevano
per Vescovi in Costantinopoli coloro, che sarebbero più propri agl’Interessi Imperiali, e
de’ Patriarchi, …; venivano scelti, cioè, i più animati a declamare contra i romani
Pontefici. Si caricarono poi questi Vescovi di pesi, ed angherie così, che non può
leggersi senza orrore l’estrema miseria, in cui furon ridotte le Chiese. Fu del tutto
mostruoso il commercio, e traffico delle Prelature, e la distribuzione de’ beneficj, che
solo si avevano da chi sapea ben frequentare le case de’ Greci Magnati. […]. Quindi fu
tolto dagli Ecclesiastici il celibato, i costumi si corruppero. Non convengono gli Scrittori
sul numero delle Sedi prese dal Patriarca di Costantinopoli, perché non tutte furono
occupate nel medesimo tempo. Si han due notizie delle sedi soggette a Costantinopoli,
… Fu essa (nota: la seconda) pubblicata prima dal Leunclavio, indi meno intesa da Carlo
di S. Paolo. […]. Queste edizioni son tra loro discordi nell’ordine, nel numero e ne’
nomi delle Sedi; e diversa lezione se ne vede eziandio ne’ Codici Vaticani. […]. Nella
Disposizion del Leunclavio si hanno 83 Metropoli, 39 Arcivescovadi, senza suffraganei,
e 563 Vescovadi soggetti al Patriarca. […]. Presso il Leunclavio si ha un catalogo degli
Arcivescovi soggetti al Patriarca di Costantinopoli. […]. … Costantinopolitanus
possidebat usque ad Francorum adventum. Sic etiam in Longobardia, et Apulia, et in
omnibus regionibus maritimas Metropoles antea possidebat Constantinopolitanus”202,
in un modo che rimane davvero molto scarsa, sia per quantità che per qualità, la
presenza ‘occidentale’ “usque ad Francorum adventum”.
La vicenda dell’iconoclasmo durerà ancora per molto; e, nel IX secolo, porterà
all’affermarsi della ‘ortodossia’. Ma è, qui, il caso di fermarsi; e di dare un cenno
all’influenza che essa ebbe sul monachesimo e sulle istituzioni monastiche. Tra le
conseguenze della lotta iconoclasta, la più evidente fu che essa “costrinse numerosi
monaci alla fuga in Occidente e sovente i fuggiaschi recavano con loro immagini sacre
allo scopo di sottrarle alla distruzione, e spesso si trattava di icone mariane. Altre volte,
sono le leggende inerenti il rinvenimento di immagini e alle successive fondazioni in
loro onore a tradurre in forma narrativa il senso degli accadimenti politico-religiosi del
tempo: di fronte al pericolo iconoclasta, il sopraggiungere di immagini sacre o il loro
ritrovamento in luoghi remoti celava la volontà di rinverdire nella Cristianità occidentale
il culto tradizionale”203 e, nei fatti, rappresentava la diffusione, accanto al monachesimo
di tipo cenobitico e, più o meno, ‘ufficiale’, ed il mantenersi in vita dell’antico modo di
essere eremitico, che riprendeva fiato e vigore, stabilendosi, talvolta, ai margini, quando
non al di fuori, della ufficialità e dell’ortodossia. Pur nella sua indeterminatezza, la
diffusione di tale movimento, incontrollato ed incontrollabile, sottovalutato e sfuggente,
202
DI MEO, Annali … cit., ad annum 733. E, siccome la diocesi di ‘Musane’ “leggesi registrata in tutti gli
antichi Provinciali. In quello della Cancelleria Apostolica stampato nel 1549 Sub Archiepiscopo
Beneventano Musanensem S. Mariae; così negli altri registrati nella Geografia Sagra di Carlo à S.
Paulo, stampato in Parigi nel 1641” (SARNELLI, op. cit., pag. 224 e seg.), essa sarebbe tra quelle
bizantine, se, proprio come deve ritenersi, trattasi dello stesso Carlo di S. Paolo, indicato dal Di Meo.
203
MONTESANO M., op. cit., pag. 73.
ma non, per questo, poco efficace (basti solo pensare che continuerà ad essere alimentato
per circa due secoli, l’VIII ed il IX, dalla fuga verso l’Occidente di monaci greci di
osservanza bizantina, i quali non sempre e facilmente vennero accolti o si riuscirono ad
integrare nella società occidentale), sarà alla radice dei movimenti di contestazione
‘ereticale’.
Anche se, a motivo della continua mobilità dei confini (il concetto, come categoria
mentale, di ‘stato’ è ancora assai lontano da venire, dovendosi, e potendosi, parlare solo
di esercizio di dominio) tra aree di influenza e più o meno soggette a controllo, “fare una
netta divisione fra territori bizantini e territori longobardi nell’Italia meridionale, durante
questi secoli, è logicamente impossibile”204, l’ampiezza di un tale fenomeno di
‘immigrazione’ di ‘monachi’ permette di ipotizzarne una diffusione consistente e
sull’intero territorio. In più, sembra possibile ipotizzare che, accanto al proliferare del
movimento eremitico di singoli, che, a motivo della mobilità nello spazio e della non
perdurabilità nel tempo, resta sempre difficile da quantificare e, con ancora maggiore
problematicità, da individuarne la precisa collocazione sul territorio, vennero, più
frequentemente di quanto si riesca di pensare, ad organizzarsi anche delle strutture
cenobitico-monastiche di gruppo.
E, pur non dovendola affatto ritenere esclusiva (non fosse altro che proprio a
motivo delle caratteristiche della conformazione fisica del suo territorio, eccessivamente
pianeggiante ed accogliente e, quindi, poco adatta alla rigidità del fenomeno eremitico),
se “la regione in cui, a preferenza, si diressero i monaci bizantini, fu l’Apulia, <dove> vi
giungevano dalla penisola balcanica, …, ricacciati sempre più a nord dalle incessanti
incursioni saracene, da un senso di intima, continua insoddisfazione, che li faceva
sempre andare in cerca di nuove sedi, sempre più appartate, ove, in luogo scosceso e
naturalmente munito o in una spelonca, potessero trovare la pace dello spirito” 205, la
forma del monachesimo bizantino, organizzato in cenobi, è documentata “anche nei
principati longobardi, <dove> non mancarono i gruppi più o meno numerosi di monaci
greci”206.
Il monachesimo italo-bizantino in questi secoli coltivava lo stesso ideale di vita
204
BORSARI S., Monasteri bizantini nell’Italia meridionale longobarda (sec. X e XI), in ASPN XXXII
(1950-51), pag. 1.
205
BORSARI S., Monasteri bizantini … cit., pag. 2 e seg.
206
BORSARI S., Monasteri bizantini … cit., pag. 6. Il Borsari, nella prima parte del suo lavoro, riferisce
della presenza del monachesimo bizantino, tra l’altro, nell’area napoletana; presso Troia (in Capitanata),
dove “probabilmente bizantino <era> il monastero di S. Maria sul Monte Arato”; tra Salerno ed Amalfi,
dove “dovevano essere sorti parecchi monasteri bizantini ex genere grecorum”; nel principato capuano; a
Pontecorvo (nell’attuale Lazio meridionale), dove esisteva un monastero con l’abbas et monachus de
genere Grecorum.
Da tale geografia resta proprio difficile, se non impossibile, escludere la “provincia beneventana”.
Specialmente se si deve tenere presente (v. Di Meo, Annali … cit., ad annum 761) che “era ben copioso il
numero de’ Monaci, che continuavano dall’Oriente a venire in Occidente, fuggendo dalla persecuzione del
furioso Iconoclasta Augusto Costantino. […]. Molte Religiose eziandio, per lo stesso motivo, dall’Oriente
fecero passaggio in Italia”.
E, infine, occorre aggiungere che quel fenomeno, che interessò anche il movimento monastico femminile,
fu di durata assai lunga e parecchio generalizzato. Difatti, nell’856 (v. Di Meo), a Montecassino i monaci
“cantavano Terza, indi la Messa Venite Benedicti, con canto Gregoriano, in Greco, e in Latino”.
monastico che venne coltivato nel resto della Chiesa bizantina. Il rito che seguivano era
il bizantino. La vita di questi monaci consisteva in una continua, feroce lotta contro il
proprio corpo. E il far coltivare i terreni appartenenti al loro monastero a pastinato od a
parziaria [che erano tipi di contratti agrari allora particolarmente diffusi nell’Italia
meridionale (a) e di cui è stata trovata traccia anche nell’area limosanese] dimostra che
la vita di questi monasteri non avesse subito delle profonde modificazioni rispetto a
quelle dei monasteri dell’Oriente bizantino. In ogni caso, i monaci, tra i quali la
coscienza di essere i rappresentanti di una tradizione culturale diversa da quella latina è
assai viva, non mangiavano carne per divieto, aspetto questo che fu avvertito parecchio
in occasione dello scisma del 1054, dopo il quale vari monasteri de genere Grecorum
risultano donati alle grandi abbazie, in particolare Montecassino, occidentali.
Nella Chiesa bizantina non sempre i monasteri erano indipendenti tra loro. Spesso
molti monasteri di una stessa area si univano insieme, sì da formare una specie di
congregazione, la quale veniva retta dall’egumeno del più importante tra i monasteri
collegati, oppure da un monaco, che per le sue virtù fosse particolarmente indicato per
questa carica. Non vi erano della norme fisse che regolassero queste unioni di monasteri,
ma i rapporti fra i monasteri collegati erano fissati volta per volta (b). Questi
raggruppamenti di vari monasteri greci (o, ancora meglio, italo-bizantini) diffusi su
un’area circoscritta e sottoposti alla dignità, paragonabile ed assimilabile a quella di un
‘episcopus’ o di un abate ‘nullius’, dell’archimandritato (l’archimandrita era colui che
reggeva una congregazione di monasteri), non mancarono nell’Italia longobarda207.
Relativamente alla figura dell’archimandrita, quasi esclusivamente appartenente
e, come si è visto, tipica del monachesimo bizantino, è possibile affermare che ne è stata
rinvenuta traccia, oltre che nell’area territoriale riferibile a Castropignano (che, pure,
rientrava nell’ambito della diocesi ‘Musanense’), anche tra i ‘superiori’ del Convento
francescano di Limosano, quando, nel 1722, ci si imbatte in “Pater Franciscus de
Amico, Custos, Guardianus Archimatrita et Prior”208. Consapevolezza, onestà e rigore
fanno ritenere una tale traccia certamente segno assai leggero ed, a motivo della
lontananza eccessiva nel tempo, indizio poco collegabile al fenomeno del monachesimo
italo-greco. Pur, tuttavia, se si considera che essa si riferisce allo stesso complesso, in
cui è stata trovata una scultura raffigurante un personaggio bizantino di una certa
autorevolezza e sicuramente di rito greco; se si considera anche che alla chiesa di quel
complesso conventuale (caso unico di testimonianze vescovili in un convento) era
possibile, ancora nel XVIII secolo, associare “la Catedra, ò sia la sedia dell’antico
Vescovo, con la sua Cupola, e Crocetta sopra, tutta lavorata, scorniciata, intagliata,
ed indorata, fatta ad otto angoli, e stava sotto l’Arco della Sagristia sopra la Sepoltura
delli Vescovi morti”209; se, inoltre, si considera (ecco le cancellazioni!) che “in detta
Chiesa vi erano quantità di altari per tutte le mura, le quali poi li fece levare la buon
207
BORSARI S., Monasteri bizantini … cit., passim da pag. 11 a pag. 15 e con aggiustamenti. Le
indicazioni delle fonti sono: (a) PIVANO S., I contratti agrari in Italia nell’alto Medio Evo, Torino 1904; e
(b) P. DE MUSTER, Osb, De monachico statu iuxta disciplinam Byzantinam (S. Congregazione per la
Chiesa Orientale – Codificazione Canonica Orientale – Fonti – Serie II, Fascicolo X), Roma 1942.
208
Si veda (in BOZZA F., Limosano: Questioni … cit.) la ricostruzione dell’ “Elenco dei Padri
Guardiani, Superiori del Convento di Limosano per il periodo dal 1689 al 1809”. La notizia è di fonte
notarile (Notaio Amoroso F.A. di Limosano) dell’ASC.
Anima del cardinale Orsini, e soli trè ce ne fece restare”210; se si considera, infine, tutto
questo in aggiunta al fatto che, contemporaneamente all’intervento dell’Orsini, alcuni
‘Guardiani’ “posero in polito la Chiesa”, sorge, pur restando la indimostrabilità del
collegamento al monachesimo italo-bizantino, qualche sospetto più che legittimo. Ed i
dubbi crescono a dismisura.
Una ultima considerazione rimane da fare. Ed è che, in ogni caso, il monachesimo
italo-bizantino ha ritardato e posto limiti allo sviluppo di quello di tipo occidentale.
2.4 – I Saraceni
“Eo siquidem tempore rara in his regionibus castella habebantur, sed omnia villis
et ecclesiis plena erant. Nec erat formido aut metus bellorum, quoniam alta pace omnes
gaudebant, usque ad tempora Sarracenorum”211. E, mentre risulta difficile credere ad
una “alta pace” ed, ancor meno, alla totale mancanza di tensioni o di guerre, certamente
il fatto nuovo, che interesserà molto la parte meridionale della penisola e, quindi, anche
il ‘Samnium’, è rappresentato dall’irrompere dei ‘Sarracenorum’ sulla scena.
“Il grande avvenimento del VII secolo, anche per l’Occidente, è rappresentato
dall’apparizione dell’Islam e dalla conquista araba”212, anche se gli effetti della presenza
dei ‘Saraceni’ si manifesteranno massimamente nei secoli IX e X e si avvertiranno per
l’intero “periodo, compreso tra il IX ed il XIV secolo, in cui gli arabi si inseriscono nella
vita del territorio italiano”213.
Per intendere la situazione socio-politica di fondo, entro la quale potranno entrare
ed operare con relativa, ed eccessiva, facilità “i saraceni del Garigliano, gli assalitori di
Roma, i taglieggiatori delle terre campane e laziali, i corsari infestanti i litorali del
Tirreno e dell’Adriatico” (ma anche, e non poco, le parti interne), i quali, come mostra il
silenzio quasi totale delle fonti di parte araba, non ubbidiscono a nessuna autorità
costituita, ma solo “a quella esiziale organizzazione corsara”214 e predona, che è ad essi
innata e li caratterizza nella specificità, occorre tener presente “che se il ducato
beneventano era di estensione notevole, giungendo a comprendere tutto il territorio tra il
Garigliano e il Pescara – eccezion fatta per la fascia costiera bizantina o variamente
autonoma – …, era altresì vero che a tanta estensione non faceva riscontro un reale
controllo da parte del potere «pubblico» accentrato a Benevento di tutte le forze locali,
laiche come ecclesiastiche, che si presentano, almeno esteriormente, come un reticolo
209
ASC, Fondo AMOROSO, Notaio Amoroso FrancescoAntonio, Fides publica per Mag.cum
Dominicum Amoroso Terre li=Musanorum del 19 Aprile 1755. L’atto, di grandissimo interesse, è stato
quasi interamente riportato da BOZZA F. (Limosano: Questioni … cit.).
210
V. nota precedente.
211
Chronicon Vulturnense, ed. FEDERICI, Roma 1925, I - 6. “Similmente in quel tempo rari erano in
queste regioni i luoghi fortificati, ma tutti erano pieni di ville e di chiese. E non vi era timore o paura di
guerre, perché tutti godevano di una grande pace, sino ai tempi dei Saraceni”.
212
LE GOFF J., La civiltà dell’Occidente medievale, Milano 2000, pag. 33.
213
RIZZITANO U., Gli Arabi in Italia, in ATTI della XII settimana CISAM di Spoleto, pag. 93.
214
RIZZITANO U., Gli Arabi … cit., pag. 95, passim. Il Rizzitano (se ne veda l’articolo anche per le
indicazioni bibliografiche sulla presenza araba in Italia) spiega il silenzio delle fonti arabe proprio con la
mancanza di disegno organizzato.
patrimoniale-giurisdizionale. Così che si è potuto immaginare che di contro ad uno stato
di permanente crisi del potere centrale del ducato, per il controllo degli uffici del Sacro
Palazzo di Benevento, si configurasse il nascere di una serie di signorie territoriali di
conti e gastaldi longobardi, portati, …, a dar vita ad una Landesherrschaft, magari non
fondata sul vassaticum o sul beneficio, scarsamente diffusi in area beneventana
nell’epoca carolingia, ma sull’esercizio comune di un potere – militare o ecclesiastico –
collegato con una base fondiaria (a)”215. Tale marginalizzazione parcellare presuppone
ed è all’origine del continuo rinnegare, a seconda dell’interesse momentaneo, gli accordi
conclusi il giorno prima e dello stringere improvvisamente patti con il nemico che si
stava combattendo. E solo essa, da cui non si può in nessun modo prescindere, consente
di spiegare quella ‘volatilità’ di sistema, che ne impedisce, per la rapidità di scontri e di
alleanze, di cogliere e di afferrare la continuità del processo storico.
Il particolarismo anarchico ed egoistico, fatto di corruzione, di tradimento, di
inganno, di opportunismo e di vigliaccheria, è diventato il sistema della lotta di tutti
contro tutti. Veniva sicuramente da lontano ed affondava le radici nell’atavica ‘dualità’
tra ambienti ‘romani’ ed ambienti ‘barbari’, che aveva per lunghi tratti caratterizzato la
società occidentale. Riprese, però, vigore e si sviluppò, quando “crebbe poscia di molto
sotto lo stesso Gregorio II (nota: decade seconda dell’VIII secolo) il temporal dominio
della sede Apostolica per gli enormi attentati contro le sacre imagini dell’Imperatore di
Oriente Leone, detto dalla sua patria Isaurico (Anastas. in vit. Gregor. II). Allora fu, che
una gran parte delle Città d’Italia, le quali dopo la venuta de’ Longobardi rimase
erano nell’obbedienza dell’Impero Orientale, non potendo più soffrire la persecuzione
mossa dal forsennato Augusto contro le imagini del Crocifisso, e de’ Santi suoi, …,
incominciò di proprio movimento a ricusare di pagare i consueti tributi, e quindi
cacciati i magistrati Imperiali, scosso il giogo del Greco tiranno dominio, si elessero i
propri duci, e si posero sotto la protezione del Papa. […]. Quel che ad ogni modo è
certo, che la Città di Roma con i luoghi del suo Ducato soggetto fino allora
all’Imperatore d’Oriente, si sottrasse anche essa dall’obbedienza di Leone, e de’ suoi
Ministri, cioè degli Esarchi di Ravenna, …”216.
Iniziarono ad arrivare per le loro scorrerie sin dalla metà del VII secolo, quando,
215
CAPITANI O., Storia dell’Italia medievale, Bari 1999 (V ediz.), pag. 135 e seg. Il Capitani, in nota, fa
riferimento e cita TABACCO G. (L’ambiguità delle istituzioni nell’Europa costruita dai Franchi, in
Rivista Storica Italiana, LXXXVII [1975], pag. 100). Anche se “a guardare da vicino le vicende interne
del ducato beneventano nella prima metà del sec. IX è difficile non riconoscere il prevalere ben più netto,
nel Sud, di una Amtersherrschaft su di una Landesherrschaft, della vicenda politica cittadina rispetto alla
vicenda territoriale-patrimoniale della campagna”(pag. 137).
216
BORGIA S., Memorie … cit., pag. 3 e segg. Il Borgia, in nota a pag. 25, aggiunge che “Gregorio III
sull’esempio di Gregorio II suo predecessore si studiò da prima colle preghiere ed esortazioni di far
desistere Leone Isaurico dalla persecuzione mossa contro le Sacre Imagini; ma chiarito poi che a nulla
queste giovavano con Leone indurato nell’eresia, convocò nell’anno 732 un Concilio nella Basilica
Vaticana di novantatre Vescovi d’Italia, e procedé a fulminare scomunica contro chiunque ardito avesse di
usare atti d’irreligione verso le sacre imagini”.
Anche DANIEL N., (Gli Arabi e l’Europa nel Medio Evo, Bologna 1998), accosta l’iconoclasmo alla
presenza araba, quando, a pag. 24, scrive che “nel 717 gli Arabi tolsero l’assedio a Costantinopoli e il
nuovo imperatore Leone l’Isaurico si diede subito ad imporre l’iconoclastia a cui andava in particolare il
favore dell’esercito”.
sbarcati già a Siponto, dove erano venuti “per depredare l’Oracolo di S. Michele
Arcangiolo, sito nel Monte Gargano, Grimoaldo piombando su di essi, gli abbatté sino
all’ultima strage (Paolo Diacono, IV, 47)”. E, sin da allora, quelli che erano riusciti a
fuggire, ripararono “in region de’ Sanniti, ove avvezzi alla preda, viveano ne’ monti, e
nelle selve, finché potessero passare altrove, o avessero l’aiuto dei loro”217. Scopo delle
incursioni dei ‘Saraceni’, più che il saccheggio ‘corsaro’, sembra essere stato, il traffico
degli schiavi, se è vero che, nel 752, “molti Mercadanti Veneziani, venuti a Roma,
comperarono gran quantità di schiavi Cristiani, uomini, e donzelle, per andargli a
vendere a’ Saraceni in Africa”218 e, poco più di un secolo più tardi, nel 865, a Taranto
stavano “sei navi, nelle quali erano nove mila schiavi Cristiani Beneventani” 219, pronti,
evidentemente, per essere messi sul mercato. Fu un tale commercio, esercitato senza
scrupolo alcuno (tanto che non disdegnarono di parteciparvi anche i grandi monasteri) e,
per la forte richiesta (presumibile necessità di forza lavoro per le miniere africane di
metalli preziosi) rispetto all’offerta, produttivo, un fatto generalizzato e duraturo.
Mentre (e tutti i fattori di cambiamento furono, e come tali vanno interpretati, mai
improvvisi e sempre di lungo periodo), conseguenza dell’iconoclasmo, il fenomeno del
monachesimo italo-bizantino costituiva un ostacolo serio, nell’area assoggettata alla
influenza longobardo-greca, caratterizzata da una estrema ‘volatilità’ ed indefinitezza
nei confini220, alla espansione del monachesimo occidentale o (in seguito e per gli effetti
della riforma ‘carolingia’ e della codificazione da parte di Benedetto di Aniane), in
prevalenza, ‘benedettino’; mentre lo svuotamento della caratteristica della ‘centralità’
del potere longobardo, che mai era stato ‘centralista’, nonostante (o, probabilmente,
proprio a causa di un tale accadimento) il ‘ducatus’ di Benevento, a motivo della
‘autoproclamazione’, nel 774, da parte di Arechi, sia diventato ‘principatus’ ed abbia
tentato di inserirsi nel gioco delle potenze e dei grandi interessi, determinava lo
smembramento, con le divisioni con Salerno e con Capua, ed il dissolvimento di quella
esperienza; mentre si compiva la scelta ‘occidentale’ (franca e sassone-nordica), in
217
DI MEO, Annali … cit., ad annum 650.
DI MEO, Annali … cit., ad annum 752. E, prima del loro stanziarsi, “che la tratta fosse intensa risulta
dal trattato di pace (4-VII-836) tra Sicardo, principe di Benevento, e il duca di Napoli Andrea” (Cilento).
219
DI MEO, Annali … cit., ad annum 865. Circa l’importanza dell’aspetto economico, assolutamente
prevalente su quello politico o religioso, SALIERNO V. (I Musulmani in Puglia e in Basilicata, Manduria
[TA] 2000), a pag. 21, scrive che “nella frantumazione del potere nell’Italia meridionale ha buon gioco la
politica saracena del saccheggio che va esaminato più dal punto di vista economico che religioso o politico
in senso stretto: le scorrerie, viste spesso in termini di devastazioni e massacri, furono con una parola
moderna un’operazione commerciale per rifornire i mercati orientali di schiavi: le donne per gli harem, gli
uomini per la manodopera, i ragazzi per il servizio delle corti, della nobiltà, dei benestanti”.
220
Relativamente al problema, importante perché lo si affronta con categorie logico-mentali diverse da
quelle della contemporaneità, della continua ‘volatilità’ ed alla estrema ‘mobilità’ dei confini fino al
periodo ‘normanno’, basterà ricordare (v. Di Meo, ad annum 761) che “vi fu novità ne’ confini de’
Ducati di Benevento, e Spoleti, perché Marsia, che finora era stata, …, nel Ducato di Benevento, qui si
vede, ch’era stata aggiunta a Spoleti”.
E’ anche il caso di annotare come fu l’iconoclasmo a favorire la diffusione sul territorio di culti
devozionali ‘nuovi’. Sembra possibile affermare che, proprio in questo periodo (è la coincidenza permette
di pensare alla possibile contemporanea costruzione della Chiesa di S. Stefano in quella “Musane” che sta
ora emergendo), si sviluppano le devozioni per S. Stefano e, più ancora, per S. Silvestro, ai quali
potrebbero collegarsi delle “Congregazioni de’ Monaci Greci” (v. Di Meo, sempre ad annum 761).
218
danno della “pars Orientis” bizantina (il ritorno successivo costituirà solo l’estremo
tentativo di dare una risposta a quella opzione), da parte di Roma, che è diventata
cristiana e ‘papale’; mentre tutti questi fattori, variamente combinandosi, irrompono nel
grande gioco della storia, interviene a dare a quest’ultima carattere di indeterminatezza
la forza, islamizzata, dei “Sarracenorum”.
Essa, inconsapevolmente consapevole di non poter esercitare, nell’immediato,
nessun ruolo di ‘rottura’ (l’abbiamo vista avulsa da un vero disegno e, comunque, assai
disorganizzata), si limita, favorendo le precarietà e le marginalità (con ‘cancellazioni’
limitate nello spazio), a cambiare accordi per intervenire, or con l’uno o con l’altro dei
contendenti, al fianco di chi, in ogni caso, potesse più rimunerarne l’aiuto ed a favorire,
così, la frantumazione del potere. “L’elemento religioso, anche quando dichiarato
esplicitamente, o non esisteva o era solo una copertura giustificativa nei confronti dei
fedeli o della Chiesa”, che sembra averlo introdotto ed utilizzato solo successivamente.
Ma “un altro elemento è quello che gli annalisti, soprattutto di fonte occidentale, hanno
sottolineato di continuo, e cioè le devastazioni ed i massacri che le scorrerie e le
incursioni saracene produssero sulle regioni costiere dell’Italia meridionale. Cosa
comprensibile, probabilmente perché è l’elemento più visibile di quelle che erano
considerate delle pure e semplici operazioni commerciali, ma meno importante delle
deportazioni di coloro che venivano catturati per essere venduti come schiavi: il risultato
era una diminuzione delle forze di lavoro, un depauperamento dell’economia e
dell’agricoltura, un abbandono di vaste zone che lasciate a lungo incolte diventavano in
breve improduttive. […]. Sembrerà strano ma le popolazioni dell’Italia meridionale
temevano, almeno nel IX-X secolo, più le scorrerie che eventuali stanziamenti saraceni:
le incursioni improvvise sconvolgevano la vita economica e commerciale delle
popolazioni colpite, con conseguente perdita di guadagni, di beni e di manodopera”221.
L’invio, da parte del nuovo “Princeps reliquiae Langobardorum gentis”, Arechi,
nel 774, anno che, nei documenti 222, si inserisce nella fase terminale dell’insediamento di
Bifernum (in precedenza Tiphernum), dei ‘cortisani’ e dei ‘baccari’ “in galo nostro
221
SALIERNO V., I Musulmani … cit., pag. 11 e seg. passim. Il Salierno, che cita DANIEL N. (Gli Arabi
… cit., pp. 89-133), aggiunge, a pag. 13, che il clero ha “preso l’abitudine di convivere con ancelle
comprate come schiave secondo «legem et consuetudinem agareni»” ; ed, a pag. 14, afferma che “il
mondo musulmano, assieme a quello bizantino, esercitò sull’Occidente, sino al XII secolo, una reale
egemonia economica”.
222
Solo in un altro documento “del maggio 878 sottoscritto dal principe Adelchi di Benevento a
Trivento”(v. DE BENEDITTIS G., Repertorio … cit., pag. 26) si fa riferimento a situazioni “ex finibus
Campibassi et ex finibus Biffernensibus”. L’espressione, tuttavia, sembra lasci intendere il riferimento ad
un ambito territoriale molto più che ad un insediamento abitativo.
Ad ogni buon conto, è il caso di annotare che anche il RUOTOLO (Il Gastaldato … cit., pag. 222) pare
indicare, pur con il riferimento a Montagano, l’esistenza di un Gastaldato “Biferno”, quando, per la
divisione del Principato di Benevento con Salerno, scrive che “a Radelchi sono assegnati oltre a
Benevento, anche Brindisi, Bari, Canosa, Lucera, Ascoli, Siponto, Bovino, Sant’Agata, Avellino, Telese,
Alife, Campobasso, Biferno (Montagano), Boiano, Isernia, Larino”. Tuttavia, occorre dire che, a parte
Campobasso, il cui insediamento, essendolo allo stesso tempo Boiano, lascia sorgere qualche dubbio sul
fatto che sia potuto essere sede di gastaldato, le strutture amministrative civili indicate erano tutte (e,
quindi, non poteva non esserlo Biferno) anche sede di diocesi religiose. Il citato Ruotolo conclude che
“nell’antico Sannio pentro oltre al Castaldato di Boiano sono sorti anche quelli di Campobasso, di
Biferno, di Isernia”, essendo, del resto, Larino nel Sannio frentano.
ad Biferno”, oltre alla evidente finalità del controllo politico su un’area strategica, sta ad
indicare, con certezza, che il relativo insediamento di riferimento, una ‘civitas’, è entrato
in una crisi profonda. Il fatto, poi, che da quella data sarà trascorso neppure mezzo
secolo, quando, nell’818, è possibile trovare in “una Bolla del S. Padre a Giosuè Abb.
del Volturno, rapportata in quella Cronica, <con cui> gli conferma i Monasterj, le Celle,
e Chiese … in Canneto, in Palene, al fiume Trinto (il Trigno?), in Musano, in Arole, in
Planisi, in casale Piano; … S. Marco in Anglona, S. Pietro in Trite, in Vipera
(Gambatesa?), in Vairano, …, in Isernia, …”223, la prima traccia del nome
dell’insediamento abitativo, sicuramente nuovo e diverso, nominato “Musano”, il quale
sta organizzandosi, con presumibili finalità difensive, proprio nelle ‘grotte’ facilmente
ricavabili e ricavate, scavando il tufo, sul quale attualmente ancora situa, proverebbe che
la crisi di Bifernum da acuta si era fatta irreversibile a causa delle scorrerie di quei
‘Saraceni’, che erano riparati “in region de’ Sanniti, ove avvezzi alla preda, viveano ne’
monti, e nelle selve, finché potessero passare altrove, o avessero l’aiuto dei loro”. Del
resto, questo ‘passaggio’ sta avvenendo proprio quando la scelta ‘franca’, con la politica
di Carlo Magno, ha iniziato a dare i suoi frutti.
Ad essersi spostati, con l’obiettivo di organizzare la loro difesa dagli attacchi dei
“Sarracenorum”, erano stati proprio i figli, i nipoti ed, in ogni caso, i discendenti diretti
di quei ‘cortisani’ e di quei ‘baccari’, dai quali, beneventani e venuti da Benevento,
diventa, in tal modo, giustificabile e del tutto possibile che, ancora nel XVII secolo, si
sentisse la consapevolezza che “i Limosanesi, come originarij godono in Benevento
del privilegio di Cittadini”. E sembrerebbe, a questo punto, impossibile che non siano
stati ‘trasferiti’, nella fase, che, però, non deve essere collocata in un momento, ma, al
contrario, in un periodo di tempo sufficientemente lungo, del ‘passaggio’ dalla Biferno
di Cascapera alla Musane della posizione attuale, sia il ‘palatium’ del potere civile, che
è stato incontrato attivo giusto un secolo prima, e sia la sede vescovile, che, di rito
greco-bizantino, viene, in questo momento, fissata nella Chiesa, che, probabilmente
titolata a S. Paolo224, situava proprio nell’identico sito di quella che, fra qualche secolo,
si costruirà – o, meglio, ri-costruirà – annessa al Convento dei frati francescani.
“Con un diploma del Principe Radelgiso, …, <si> concedette al suo Tesoriere Totone, …, l’intero Waldo
ne’ confini di Larino”(v. Di Meo, ad annum 844), il quale, se, come sembrerebbe evidente, non era quello
di Larino, ben potrebbe essere il “galo nostro ad Biferno”.
223
DI MEO, Annali … cit., ad annum 818. Tra le finalità del documento è possibile leggere il chiaro
tentativo politico del Papato e della parte ‘franca’ di estendere il controllo, oltre che sul Monastero di S.
Vincenzo al Volturno, sul territorio del principato beneventano.
A titolo di curiosità (ma non solo) si riporta che ancora “verso quest’anno il Papa Pasquale edificò in
Roma il Monastero di S. Prassede per li Monaci Greci, i quali a cagion della persecuzione dell’Iconoclasta
Leone Armeno, erano da Costantinopoli, e luoghi vicini fuggiti a Roma”. Solo a Roma? Ci sembra proprio
difficile da credersi.
224
Tale ‘ricostruzione’, e solo essa, riesce a spiegare il fatto che nella testimonianza al f. 190 della citata
Collect. t. 61 dell’ASV, il dichiarante “dixit quod vidit clerum dicte terre limosani videlicet Clericos sancti
Stephani sancti pauli et aliarum Cappellarum esiusdem terre euntes ad Ecclesiam sancte marie proprie in
festis eisdem virginis ad officiandum et honorandum … (= disse di aver visto il clero della detta terra di
Limosano e precisamente i Chierici di Santo Stefano, di S. Paolo e delle altre Cappelle andare alla Chiesa
di S. Maria propriamente nelle festività di essa Vergine per officiare ed onorare …)”. Il brano permette di
ricostruire, così, anche la geografia delle chiese della ‘civitas’ di Limosano, che, coincidendo con le
situazioni posteriori, risulta aver mantenuto una sua lunga continuità nel tempo.
Durante le prime operazioni da parte delle forze saracene, composte ora da
Berberi, Ismaeliti, Mauri, Agareni, Saraceni e tenute insieme dal solo fatto di essere
islamizzate, nella parte della penisola posta a sud di Roma, le quali furono più o meno
contemporanee sia all’intervento franco-carolingio e sia, relativamente allo specifico
dell’area limosanese, al ‘trasferimento’ dell’abitato da Biferno a Musane, ed, in ogni
caso, sin da prima della seconda bizantinizzazione, la diffusione della consapevolezza di
una osservanza ‘cristiana’ diversa da quella ‘romana’ risulterebbe attestata anche dalle
fonti arabe225. Anche se assoldate, di solito combattevano sotto comandanti propri ed,
“oltre a fare incursioni contro il nemico, devastavano anche il territorio di quelli che li
avevano assunti al loro servizio. Dalle fonti locali di quel periodo risulta che sia la zona
costiera sia l’interno dell’Italia meridionale erano alla mercé di bande arabe, le quali
operavano, sembra, indipendentemente l’una dall’altra, e spesso furono protette e
finanziate dai diversi duchi longobardi”226. Nella parte interna del territorio avevano,
cioè, fissato come delle teste di ponte, dalle quali poter operare facilmente le loro razzie
per il rifornimento di beni e di schiavi ai porti costieri. Testimonianze e prove di tali
stanziamenti in ambiente molisano sono nella toponomastica, frequente e diffusa, dei
diversi ‘monte’ (o ‘ripa’) Saraceno, dei quali un “monte Saraceno” sta ad oriente di
Cercemaggiore, non distante dall’omonimo corso d’acqua; un secondo “monte
Saraceno” è possibile localizzare ad oriente di Pietrabbondante; ed, infine, la “ripa
Saracena” che, così come quelli posta nelle vicinanze della risorsa idrica, situa tra
Petrella Tifernina, Lucito, e Castelbottaccio e le cui origini vengono proprio da una
colonia di Saraceni. A motivo della prossimità geografica, da quest’ultima partivano,
assai probabilmente, i saccheggi ed i pericoli che costringevano gli abitanti di Bifernum
a spostarsi nelle grotte di Musane, per nascondersi e sfuggire, in tal modo, al pericolo.
Se, in precedenza, le scorrerie dei Saraceni, favorite dalla loro predominanza con
la flotta sulle acque del Mediterraneo, erano state, nella loro occasionalità, frutto di
incursioni e di razzie, è nel secondo venticinquennio del IX secolo che l’intervento
arabo, promosso dagli Aghlabiti, la nuova dinastia di Qairawàn (attuale Tunisia), la
quale ha ben presto assunto un atteggiamento politico di quasi totale indipendenza nei
confronti del califfato abbàside, si veste dei caratteri di una vera e propria conquista227.
Da questo momento, infatti, oltre che per il procacciamento di risorse commerciali,
“quella terra dei Rum, i bizantini, che le truppe di Asad si preparavano a conquistare
altro non era per la cultura dell’epoca che territorio di gihad o «guerra santa»”228.
Nel giugno dell’827 le truppe musulmane sbarcavano sulla costa meridionale della
Sicilia; ed, “a soli pochi anni da quel primo successo gli invasori riuscivano già a
inserirsi nel giuoco politico della repubblica di Napoli, che nell’835 faceva ricorso al
loro aiuto contro Sicardo, principe longobardo di Benevento. Commerce d’abord,
sembravano pensare i responsabili della politica interna di quel ducato autonomo ed
225
Da fonte araba (al-Baladhuri, vissuto nel IX secolo), la città di Bari, che (v. nota 142) rientrava in
ambito longobardo, relativamente alla osservanza bizantina, risultava essere una “città abitata da Cristiani
non appartenenti alla schiatta dei Rum (= Romani)”.
226
FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia meridionale bizantina (IX-XI secolo), in AA.VV., I Bizantini in
Italia, Milano 1982, pag. 48.
227
FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 47.
228
RIZZITANO U., Gli Arabi … cit., pag. 99.
elettivo, ai quali non sfuggiva che ormai il basso Tirreno era entrato sempre più
saldamente nella sfera d’azione della potenza musulmana e che un’attività commerciale
su quel mare poteva esplicarsi solo dopo aver avviato i buoni rapporti con la potenza che
ne aveva allora il predominio. Quanto ai musulmani, a costoro non poteva che fare
comodo sentirsi appoggiati sulla terraferma”. Appena qualche anno dopo, “sul litorale
adriatico – dove nell’838 i musulmani avevano messo a sacco Brindisi, battendovi
Sicardo, e nell’anno seguente sconfitta la flotta veneta a Taranto – oggetto di più
durevole conquista in quel mare, che né longobardi né bizantini riuscivano a sottrarre
alle incursioni saracene, fu certamente Bari, assalita fra l’840 e l’841 da un liberto
aghlabita, che non poté comunque espugnarla. A quel primo infruttuoso tentativo seguì
ben presto – ad una data che è difficile precisare con certezza – l’insediamento di un
emirato cui diede vita il berbero Khalfùn intorno all’847, forse incoraggiato all’impresa
da Radelchi, principe di Benevento – antagonista, all’epoca, di Siconolfo, principe di
Salerno – che non ebbe discaro fare ricorso ai musulmani di Taranto; ma fu soprattutto
al-Mufarrag ibn Sallàm ad impegnarsi nel consolidamento di quella colonia musulmana
dell’Adriatico, per la quale sollecitò anche regolare investitura non già all’emiro
aghlabita da cui dipendeva all’epoca la Sicilia bensì al califfo di Baghdàd. L’ultimo
decennio (861-871) di vita dell’effimera conquista è legato al nome ed alle imprese di
Sawdàn, resosi tristemente famoso in numerosi territori dell’Italia meridionale”229 e, per
quanto riguarda l’economia del presente lavoro, nel Sannio. Nel frattempo, era l’agosto
dell’846, i saraceni con le loro imbarcazioni erano comparse davanti ad Ostia, da dove
partire per invadere Roma, “e ne devastano, e saccheggiano una parte” 230, che
comprende “le basiliche di S. Pietro e di S. Paolo. Una schiera di Musulmani giunge
anche a cinque miglia dalla Badia di Montecassino, bruciando chiese e monasteri”231.
L’anno seguente, l’847, alle ‘cancellazioni’ provocate dalle spinte disgregatrici
interne al principato, dalla accresciuta turbolenza, con la conseguente progressiva
erosione del potere del ‘princeps’, delle grandi famiglie dell’aristocrazia e, infine ma
non nell’ordine di importanza, dalle scorrerie di quei “Mori, e Saraceni <che> invadono
Benevento, e scorrono saccheggiando fino ai confini di Roma”, e non meno la parte
229
RIZZITANO U., Gli Arabi … cit., pag. 101.
DI MEO, Annali … cit., ad annum 846. Già dall’840 il Di Meo scriveva che: “Entriamo da quest’anno
ne’ tempi più tristi, e calamitosi, che abbian mai avuti queste nostre Contrade. Vedremo le Provincie
rabbiosamente animate a divorar l’una l’altra, e non riuscendo loro di operare l’intera desolazione, invitare
i saraceni a compir la barbarie. Comincia la decadenza del Principato Beneventano, col di struggimento
delle Città, delle Chiese, de’ Monisteri, e con Provincie lasciate in deserto di solitudine, ed in campagne
incolte, senz’abitatori”.
E, nell’841, “ridotto come in disperazione il Principe Radelgiso (Benevento), a cui poco restava del
Principato, essendo in mano di Siconolfo (Salerno, ma l’effettiva ‘divisio’ si concretizzerà qualche anno
più tardi) la Campania, il Principato Citra, la Lucania, la Calabria, e buona parte della Puglia
(meridionale), fece venire un grande esercito de’ Saraceni, e con rabbia da Saraceno, assalì la Città di
Capua. […]. E la Città di Capua fu presa, e dopo un sacco generale fu bruciata, e abbattuta in modo, che
non risorse mai più nello stato primiero”.
Dall’842 il cambiamento delle strategie da parte di ognuna delle forze in campo si fa più evidente. Tanto
che, mentre “finora erasi Radelgiso servito di saraceni stranieri, d’ora in poi vedremo le desolazioni
arrecate dai Saraceni stabiliti nel Regno”. E questi “Saraceni, …, plurimas (in Beneventanis) Civitatum vi
obtinent (= I Saraceni nella provincia beneventana tengono con la forza gran parte delle Città)”.
231
RUOTOLO N., Il Gastaldato … cit., pag. 220.
230
adriatica della penisola (ed eventuali ritardi sono spiegati solo dal controllo bizantino su
di essa) se “assalirono, e depredarono <pure> il Gargano”(v. Di Meo, ad annum 856), si
aggiunsero quelle, non meno gravi, dei disastri naturali. “Fu un tremuoto generale per
tutta la regione Beneventana, sì forte, che abbatté dalle fondamenta la Città d’Isernia…
Una simil ruina di edifizi fu a S. Vincenzo al Volturno. […]. Il Frezza, presso il
Ciarlante (lib. I c. XI), scrive, che nell’anno 853, un tremuoto buttò a terra Bojano, e vi
fece un lago, che ora non si vede, ma solo una quantità di acque correnti”232.
La seconda metà del secolo IX, oltre al diventare acuto della disgregazione della
“reliquiae Langobardorum gentis”, che, facendosi irreversibile, ne porterà al completo
dissolvimento, vede la crescita, in operatività, dell’emirato barese, il quale proprio di
quella riesce contemporaneamente ad essere causa ed effetto. Esso, una volta che, nel
breve giro di soli pochi anni, ne è stato consolidato il potere ‘interno’, con Sawdàn,
“dopo aver depredato in ogni castello dell’Apulia, devasta crudelmente tutto il territorio
beneventano, portando incendio, morte, distruzioni, o facendo prigionieri (nota: con la
evidente finalità del commercio di schiavi, che, v. nota 142, fa rinvenire, nell’865, a
Taranto ben novemila di essi): «totam terram Beneventanam – dice Erchemperto – igne,
gladiis et captivitate crudeliter devastabat, ita ut non remaneret in ea alitus»(a)”233.
“Occupa Telese, Sepino, Boiano, Isernia ed il castello di Venafro. «Quibus diebus
Thelesiam, Aliphas, Sepinum, Bovianum et Hiserniam, castrum quoque Benafrum
cepit»(a). Saccheggia, poi, la badia di S. Vincenzo al Volturno; i monaci, quasi nudi ma
illesi, si salvano nel castello, mentre Sawdan fa gettare nel fiume «frumenta et
legumina», profana gli altari, ruba l’ingente tesoro di gioielli e di danaro che i frati
avevano nascosto; beve nei calici sacri e si fa incensare con turiboli d’oro. Trasporta a
Capua carri pieni di preda: una moltitudine di prigionieri e mandre di bestiame; ritorna a
Teano, a Montecassino, a S. Vincenzo. I monaci, perché i monasteri non siano bruciati,
gli versano, per mano del diacono Reginaldo, tremila monete d’oro ciascuno”234.
232
DI MEO, Annali … cit., ad annum 847.
RUOTOLO N., Il Gastaldato … cit., pag. 223. Il Ruotolo cita da (a) ERCHEMPERTO, Historia
Langobardorum Beneventanorum, MGH, ed. WAITZ, Hannover 1878, cap. 29, pag. 245. “Devastava
crudelmente tutta la terra Beneventana col fuoco, con la spada e con la prigionia, così che non rimanesse
in essa neppure l’alito”. Il Di Meo (v. ad annum 862) riferisce con chiarezza che “Seodam iniquissimo Re
de’ Saraceni, col ferro, col fuoco, e colla schiavitudine devastava tutta la terra beneventana, con tal
crudeltà, che in essa quasi non vi restava alcun uomo. […]. Il Principe Adelgiso fu costretto a fermar con
quel barbaro la pace, con obbligarsi a dargli tributo, e perciò degli ostaggi. Condussero in Bari senza
numero di prigionieri”.
234
RUOTOLO N., Il Gastaldato … cit., pag. 225. Il Ruotolo, che cita sempre da (a) ERCHEMPERTO, op.
cit., cap. 29, riporta anche, sempre seguendo Erchemperto, l’episodio del fallimento del tentativo del
castaldo di Boiano, Guandelperto, e del castaldo di Telese, Maielpoto, i quali riescono a coinvolgere anche
Lamberto, duca di Spoleto, e Gerardo, conte di Marsia, ma, non avendo “predisposto alcuna tattica
militare, non un programma concreto, gelosi e forse nemici l’uno dell’altro”, vengono sconfitti ad Ariano.
“La rotta orribile (in cui persero la vita anche Guandelperto e Maielpoto), e la strage grande, che [v. Di
Meo, ad annum 864] i Saraceni nell’anno precedente fecero de’ Beneventani, e Franzesi, siccome tolse ai
Cristiani ogni coraggio, e li fece determinare a non più venir con essi alle mani, ma solo difendersi ne’
Castelli muniti; così fece di molto aumentar l’orgoglio del saraceno, che senza gran contrasto funditus
delevit Benevento, e i suoi confini, in modo che fuori delle Città principali, non vi fu luogo, che potesse
aver scampo della fierezza di lui. In quei giorni Seodam prese Telese, Alifi, Sepino, Bojano, Isernia e ‘l
Castel di Venafro; depredò il Monistero di S. Vincenzo martire, e per non bruciarne gli edifizi, ebbe tre
233
“Avea … Seodam ridotte agli ultimi estremi tutte le nostre Contrade; e vedansi già
queste in pericolo vicinissimo di cadere all’intutto nel di lui dominio, … Mossi quindi da
sì pressante motivo, …; il Principe di Benevento, e i Castaldi di tutte le Città, o andarono
essi, o spedirono de’ Legati a piangere a’ piedi di Lodovico, per muoverlo a pietà, …,
essendo già divenute le Provincie nostre, come luoghi deserti, dacché una parte de’ suoi
abitatori o era uccisa, o mandata a vendere in Africa, e in Asia”. E, mentre i “Saraceni
demo Apuliam, et Beneventum dexpoliati sunt; propter quod Lugdoicus Beneventum
venit”235, nell’866, costretto a ricorrere ad un itinerario, che, attraversando il Lazio, per
Sora e Montecassino, e, per Capua, la Campania, lascia intendere il territorio abruzzese e
la fascia adriatica essere sotto il controllo saraceno. Tanto è vero che il “generale Editto,
con titolo «Constitutio promotionis exercitus abservationis partibus Beneventi
…»”, stabiliva che “sarà il nostro viaggio per Ravenna, e nel Marzo in Pescara, e con noi
tutto il nostro esercito Italico. I Toscani, col popolo, che viene oltre per Roma, vadano a
Pontecorvo, per Capua, e Benevento; e si trovino ad incontrarci in Lucera”236.
La opzione di una tale strada ‘adriatica’ (un ramo della quale, dipartendosi da
Lanciano, attraverso sia la Tiphernum [e, dopo, Biferno] posizionata a Cascapera che
Musane, arrivava sino a Benevento), confermata anche in altre occasioni237, oltre a
provarne l’esistenza e, nell’occasione, anche il controllo saraceno sul territorio che essa
attraversava, lascia ipotizzare un forte collegamento bizantino che per diverso tempo ha
tenuto uniti alto, medio e basso adriatico.
Ludovico, che era imperatore (lo era la discendenza ‘franca’ dall’anno 800, da
quando, cioè, Carlo Magno “fu dal S. Padre coronato solennemente Imperatore, avendo
ciò deciso lo stesso Concilio, che così conveniva. Quia cessabat a parte Graecorum
nomen Imperatoris, …, ut ipsum Carolum Imperatorem nominare debuissent, qui ipsam
Romam tenebat, ubi semper Caesares sedere soliti erant”), intervenne; ma, proprio a
Benevento, nell’870, “il Principe Adelgifo, a persuasione de’ Greci, fece sollevar contra
Lodovico le Città del Sannio, della Campania, e della Lucania, e fece ad esse ricever
presidio Greco”238. Così, quasi contemporaneamente, si ha che: nell’869, si teneva “il
Concilio VIII Generale, e IV Costantinopolitano contra Fozio” 239, al quale partecipano
mila scudi di oro; indi passato a Monte Casino, per lo stesso motivo, ebbe una simil somma di danaro.
Così Erchemperto …”.
235
DI MEO, Annali … cit., ad annum 866.
236
DI MEO, Annali … cit., ad annum 866.
237
Si veda, in Di Meo, ad annos 801 ed 802, l’itinerario seguito da Pipino per le sue operazioni contro
Grimoaldo, Principe di Benevento. Una tale strada risulta, se possibile, ancor più evidente, seguendo
l’itinerario, che, quasi sicuramente, non poteva non passare che per “l’antico ponte a fabbrica” sotto a
Limosano, di Enrico II, il quale “alla fine di dicembre 1021 era ancora a Ravenna, a visitare, come il suo
predecessore, la desolata S. Apollinare in Classe. Il 1 febbraio 1022 era già a Chieti, donde confermò a
Montecassino i possessi nel comitato di Termoli, usurpati dai conti Atto e Pandolfo; e nello stesso mese
era a Campo di Pietra in territorio beneventano, donde confermò a S. Vincenzo al Volturno i beni
posseduti nei comitati «Apruciense, Pinnense, Teatino e Termolense»”(CARABELLESE F., L’Apulia ed
il suo Comune nell’alto medioevo, Bari 1905, VII, pag. 149).
Per ulteriori indicazioni, si veda: BOZZA F., Limosano: Questioni … cit., specialmente il capitolo I.
238
DI MEO, Annali … cit., ad annum 870.
239
DI MEO, Annali … cit., ad annum 869. “Cominciò il Concilio a’ 5 Ottobre, e in esso fu letta
l’Allocuzione di Gauderico Vescovo di Velletri, fatta nel Concilio Romano dell’anno precedente”.
diversi vescovi (rito greco-bizantino?) dell’Italia meridionale; nell’873, già inizia ad
arrivare “in Otranto la flotta de’ Greci, con un Patrizio, in soccorso de’ Beneventani, i
quali prometteano di pagare al Greco quel censo che davano all’Imperador Francese”240;
nell’874, “una gran caterva de’ Saraceni scorreva per Benevento fino alla Puglia,
devastando il tutto”241. E, nell’875, mentre Ludovico muore a Brescia, “nel mese di
Luglio, vennero i saraceni, e bruciarono una Città, il cui nome è caduto dal testo. Alcuni
crederono, che fosse Benevento; ma né fu questa bruciata, né i Saraceni vi entrarono”.
“Nell’anno precedente si seminò, e non si è raccolto. Ma in quest’anno, come non
si è seminato, così non si ha speranza di raccogliere nel seguente anno. Così a’ 15
Novembre di quest’anno 876 scrisse il Papa all’Imperadore. Ma assai più che quello
della fame, fu in quest’anno ferale il flagello de’ Saraceni. Nell’anno 876, al dir
dell’Annalista Salernitano, i Saraceni accrebbero i fatti d’armi contra del Principato di
Benevento: bruciarono Telese, Alifi, Bojano, Sernias, ed altri parecchi luoghi, fino a
Troade. Il Principe Adelgifo due volte fu vinto, e fugato da essi. Una gran flotta de’
Saraceni ne’ lidi Romani fece danni, uccisioni, e prede in gran numero”, proprio mentre
veniva conclusa una “alleanza del Principe di Salerno, e de’ Duchi di Napoli, Amalfi, e
Gaeta, co’ Saraceni”242.
Giovanni VIII (872-882) sembra essere parecchio preoccupato per le sorti stesse
del papato, se, nell’877, si vede costretto a scrivere all’Augusto Carlo che “continuano
intanto i Saraceni a desolar l’Italia. […]. Tutta la Campania è devastata dai fondamenti.
Già i Saraceni passano impunemente il fiume, che da Tivoli va a Roma, e depredano la
Sabina. Son distrutte le Basiliche, e gli Altari: i Preti, i Monaci, e le Monache sono
uccisi, o fatti schiavi. I Vescovi qua, e là raminghi marciscono per la fame; la terra è
ridotta in solitudine, spogliata di abitatori; le Chiese sono abbattute, gli Altari demoliti, e
uccisi i sagri Ministri, le Città, i Castelli, e le Ville son distrutte così, che appena
conoscesi, ove furono”243.
Ed anche per Tiphernum (o, dalla fine del VII secolo, Biferno) doveva essere
vero, come in effetti fu, che, come tante altre, “questa Città sì popolata prima, restò
disabitata, e desolata del tutto. Poiché dal furore de’ barbari quanti mai ne scamparono,
si ricoverarono tutti, a guisa di fiere, nelle scoscese caverne de’ monti, nelle spelonche, e
ne’ nascondigli, nel mentre i Saraceni senza opposizione seguivano a tutto devastare, e
bruciare”244. Per i Bifernensi, cioè, l’unica possibilità di riparo, e di prospettiva verso il
futuro, fu rappresentata dalle grotte ricavate nel tufo di Musane, che, appena da qualche
decennio e con un processo non immediato, proprio ora ed urbanisticamente, viene a
strutturarsi in vero e proprio insediamento.
Ma, se la forza saracena aveva potuto inserirsi nel vuoto provocato dalla frattura,
in seguito all’iconoclasmo (e non solo), tra la pars Orientis e la pars Occidentis, che, per
quanto concerne la ‘romanitas’ cristiana e papale (che sta vivendo momenti di grandi e
forti contrasti, se, come riporta, al dir del Di Meo, l’Annalista Salernitano, “anno 882,
240
DI MEO, Annali … cit., ad annum 873.
DI MEO, Annali … cit., ad annum 874.
242
DI MEO, Annali … cit., ad annum 876. E’ il caso di dire che Troade risulta di difficile localizzazione.
243
DI MEO, Annali … cit., ad annum 877.
244
DI MEO, Annali … cit., ad annum 878.
241
Joannes Papa occisus est a furore Armenico, ejus Dapifero, qui partem thesauri sui
statim apstulit, et fugiit Bissancium”), sentendosi in qualche modo come ripudiata,
compie la scelta ‘franca’ per essere comunque sostenuta, e giustificare, così, il suo
modo di crescere e di affermarsi, da un potere ‘imperiale’, proprio nello stesso
momento, in cui i problemi legati all’iconoclastia si stanno avviando a soluzione, “la
presenza araba nel mare Adriatico fu considerata a Costantinopoli decisamente
preoccupante” e, anche se già “nell’867 una grande flotta bizantina (cento navi circa)
fece ritorno vittorioso nel mare Adriatico, è alla morte di Ludovico II (875) che i
Bizantini realizzarono i loro progetti italiani”245 con la riconquista della città di Bari, in
cui, avendo essa sollecitato l’intervento bizantino, il primicerio Gregorio entrava nel
dicembre 875 (o 876).
“Sin dal primo momento la riconquista bizantina dell’Italia meridionale fu
condotta con notevole impegno e con grande consequenzialità, sia sul piano politico che
su quello militare, navale, ecclesiastico, ed economico-demografico. I Bizantini
cercarono di imporre il loro dominio in Italia con tutti i mezzi di cui disponevano. La
gestione della campagna politica era nelle mani di Gregorio, la cui presenza in Italia è
testimoniata almeno fino all’885. Subito dopo il suo ingresso a Bari egli inviò il gastaldo
locale insieme agli altri notabili della città a Costantinopoli, perché prestassero il
giuramento di fedeltà all’imperatore, non lasciando alcun dubbio sulle sue intenzioni
politiche: i Bizantini non erano entrati a Bari per offrire una generosa assistenza militare
ai Longobardi minacciati dai Saraceni, ma per rimanerci”246.
Cacciato da Bari e dalla Apulia, il coacervo di forze saracene, nell’880, “abbatté, e
depredò la Terra Beneventana, Romana, e Spoletina; Monisteri, Chiese, Città, Oppidi,
Vichi, Monti, Colli, ed Isole. Da costoro furono bruciati i Monisteri di Monte Casino, di
S. Vincenzo al Volturno, ed altri molti. […]. In questo tempo furon prese, e bruciate in
un mese solo Isernia, …, e nello stesso anno anche il Castel Boviano” 247 con, molto
probabilmente, l’intero Sannio. Ed, appena l’anno seguente, già “si partivano per andare
a stabilirsi al Garigliano, donde li vedremo portar le desolazioni più orride, che la
barbarie più inumana abbia potuto mai operare, e in tutte le nostre Provincie, e nella
Campagna Romana. Di tante stragi ne fu cagione il Papa, come lo era stato di altre
antecedenti, per l’ambizione di aver vassallo il Conte di Capua. […]. Situati che furono
quivi quei cani, stando in pace con Gaeta, si mossero a divorare spietatamente ogni
parte; e a’ 10 di Ottobre presero, spogliaron di tutto, diedero alle fiamme, e poi
245
FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 48, passim. Quanto a Papa Giovanni VIII, il Di Meo
riferisce che “fosse cagione, che per obbrobrio venisse appellato Papessa”
246
FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 49. Prova del radicale cambiamento della politica di
Costantinopoli nei confronti di Roma è il fatto che “Gregorio mantenne rapporti cordiali con papa
Giovanni VIII (872-882). Afflitto e avvilito dalle continue incursioni e razzie arabe nell’Agro Romano, il
papa era disposto a qualsiasi compromesso con l’imperatore e con il patriarca di Costantinopoli in cambio
di aiuto militare, anzitutto navale, contro i nemici musulmani. «Manda dieci navi da guerra (chelandia),
buone e ben equipaggiate al nostro porto [cioè a Ostia] per liberare le nostre coste da quei ladri e pirati
arabi», gli scrisse il papa nell’aprile dell’877”(v. ivi, pag. 49 e seg.).
247
DI MEO, Annali … cit., ad annum 880. E, siccome [v. FALKENHAUSEN (Von) V., La dominazione
bizantina nell’Italia meridionale dal IX all’XI secolo, Bari 1978, pag. 21] “già nell’879 cominciava la
controffensiva di Bisanzio, allorquando sue navi riportarono alcuni successi nelle acque della Campania”,
è da supporre che i Saraceni si vedevano accerchiati.
abbatterono interamente l’insigne, e straricco Monistero di S. Vincenzo al Volturno.
[…]. Oltre il Monistero di S. Vincenzo, in quest’anno stesso i Saraceni del Garigliano
saccheggiarono, e poi distrussero a fuoco, e ferro i Monisteri di S. Maria di Apinianico,
ed altri, tentando far lo stesso di S. Martino di Marsico. Ma senza numero furono i
Castelli, e le ville desolate da questi ferocissimi Ismaeliti”248. E poco più di due anni più
tardi, il 22 Ottobre 883, a Montecassino anche “il Monistero del Bb. Benedetto venne
da’ Saraceni occupato, distrutto, e bruciato”249, con l’uccisione, così come era accaduto
nel cenobio volturnense, di un gran numero di monaci e, per i sopravvissuti, con l’essere
fatti prigionieri o, per chi vi riuscì, con la fuga.
Nel frattempo, una consistente banda di “Saraceni castrametati” si era stabilita in
Sepino, da dove, quasi fosse una posizione avanzata, partivano per le loro scorribande di
rapine e di distruzioni contro “coenobia, urbes, oppida”250, incutendo terrore e paure.
Ma, una volta che il potere bizantino nella Apulia si fu consolidato, “nell’ottobre
891 lo stratega Symbatikios, dopo un assedio di più mesi, penetrò nella capitale
longobarda del principato di Benevento, dove, sparito il principe longobardo, egli fissò
la sua residenza nel palazzo del principe”251. L’avvenimento significò non solo la
248
DI MEO, Annali … cit., ad annum 881. Dal fatto che si spingono in Abruzzo si desume chiaramente
che hanno operato anche nell’attuale Molise. La colonia saracena del Garigliano seguitò ad operare
scorrerie “tra l’883 e il 916: si trattò di un insediamento di tipo ribat (= sorta di monastero fortificato che
forniva rifugio agli abitanti in tempo di guerra ed era una costruzione tipica delle zone di frontiera, sorta di
avamposto), una sorta di campo trincerato posto sulla collina di Traetto, alla foce del Garigliano, …, dal
quale partirono in un trentennio la maggior parte delle sortite contro i monasteri … di Farfa (892), San
Clemente di Casauria (916), sortite che si avvalevano spesso della connivenza dei servi o famuli dei
monasteri, categoria irrequieta, trattata male dagli abati e pronta a passare dalla parte dei saraceni così
come era solita fare con altri invasori. D’altronde la manodopera servile, di poco costo e di molta utilità
nei lavori dei campi era una componente importante nella vita del tempo: non dimentichiamo che al
commercio di questi servi, alias schiavi, partecipavano senza remora alcuna le varie città-stati dell’Italia
meridionale e a nulla servivano le proteste del papa. Fu papa Giovanni X con l’aiuto di Bisanzio e in una
lega con i duchi di Napoli, Salerno, Gaeta, Spoleto, Capua e Benevento nel 916 a conquistare il ribat e a
disperderne i saraceni”(SALIERNO V., I Musulmani … cit., pag. 48 e seg.).
249
DI MEO, Annali … cit., ad annum 883. E, mentre per Monte Cassino risulta difficile ricostruire la
consistenza numerica, relativamente a S. Vincenzo si ha che “…, non solo venne incendiato il monastero,
ma vennero anche trucidati 900 monaci che avevano opposto un’accanita resistenza, mentre altri 500
furono trascinati via come prigionieri”(SEGL P., I Saraceni nella politica meridionale degli imperatori
germanici, in AA.VV., San Vincenzo al Volturno, Atti del I Convegno [1982] di Studi sul Medioevo
Meridionale, Montecassino 1985, pag. 68). Tuttavia VALENTE F. (S. Vincenzo al Volturno: Architettura
ed arte, Montecassino 1995) fa riferimento “alla distruzione totale del monastero ed all’eccidio di almeno
cinquecento monaci”(v. pag. 48) ed, a pag. 52, riferisce che “furono saccheggiati i tesori dell’abbazia,
distrutto lo scriptorium con tutti i codici ad allora elaborati e raccolti dagli amanuensi, demolite le
officine, fatte crollare le murature degli edifici sacri”.
Il Di Meo, dopo avere suggerito ed indicato una possibile linea di indagine, orientata verso l’Abruzzo
chietino, sulle attività politico-economiche e le grandi disponibilità patrimoniali del Monastero cassinese,
conclude (v. ivi) che “non minori ricchezze avea S. Vincenzo al Volturno: aggiungete le immense di
Casauria, e quelle di S. Sofia di Benevento, e di S. Benedetto di Salerno. […]. Intanto erano le
Parrocchiali Chiese tante spelonche”.
250
RUOTOLO N., Il Gastaldato … cit., pag. 227 e segg.
251
FALKENHAUSEN (Von) V., La dominazione … cit., pag. 24. “In quest’anno furono costretti loro
malgrado i Beneventani a piegare il collo sotto il giogo de’ Greci. […]. Vedendo dunque costoro, ch’era
questo un tempo proprio per impossessarsi di Benevento, e quindi distendere le loro mani in tutte le nostre
riconquista e la rioccupazione bizantina, questa volta diretta, del principato, quanto il
ridimensionamento forte, pur se non la definitiva scomparsa, del pericolo saraceno sul
suo territorio.
La stessa tipologia dell’intervento arabo, in quanto, più che una dominazione vera
e propria (difatti, il potere delle diverse ‘unità’ politiche esistenti sul territorio, seppur
indebolito, non subisce alcun cambiamento di titolarità), rappresentava, priva com’era di
un reale disegno collettivo ed asservita esclusivamente all’interesse di arricchimento
individuale, un saccheggio lungo e continuo, comportò, in quanto indirizzato al
particolare, cambiamenti e cancellazioni profonde, radicali e rivoluzionarie (tanto che,
mentre precedentemente era di natura socio-economica la principale motivazione alle
aggregazioni, da questo momento essa assume il carattere della difensività) nelle
geografie umane e fisiche. Il fenomeno di Biferno, che cessa di esistere evolvendo, nella
ricerca del nascondiglio da parte degli abitanti, in Musane (o Mesane), quasi
sicuramente non fu, né poté esserlo, fatto isolato. Ed all’abbandono, in seguito alle
incursioni ed ai saccheggi, dei grandi monasteri, di certo, corrispose quello delle tante
strutture cenobitiche, di significato minore, ma, in quantità, assai numerose e largamente
diffuse sul territorio.
E, nonostante taluno abbia pur potuto registrare qualche aspetto positivo, se è vero
che “la presenza islamica, insieme ad altri molteplici fattori, concorse a provocare e
accentuare il fenomeno in sé peraltro positivo del particolarismo, attraverso il quale si
costituirono i numerosi centri di potere delle signorie locali: i «dominatus loci» che,
nell’assenza dei pubblici poteri e nell’universale disordine, dovettero necessariamente
provvedere a se stessi, creando un principio d’ordine più circoscritto e vitale” 252, ed
indipendentemente dalle radicali e consistenti trasformazioni dovute alle cancellazioni,
che le fonti, scarse e reticenti, non fanno emergere (ma proprio nel IX secolo la serie dei
cambiamenti porta ad una geografia completamente nuova), “gli effetti delle guerre e
degli scontri che nel secolo nono si ebbero nell’Italia meridionale comportarono una
esportazione considerevole di schiavi e cioè una diminuzione delle forze del lavoro così
massiccia che il paese non era certo in grado di sopportarla”253. Vale, cioè, a dire che “la
conseguenza più grave delle incursioni arabe non furono le uccisioni, ma le deportazioni
di coloro che venivano catturati per essere venduti come schiavi”254.
Sfuggono i dati dell’andamento della popolazione di allora (che sarebbe pure un
ottimo indicatore degli effetti dell’événement arabo), ma è, per la comprensione di quel
periodo, circostanza assai importante il fatto che, immediatamente dopo, “la riconquista
Provincie; si posero in moto per ciò eseguire. Era impicciolito il Principato: il Principe era bambino di
anni dieci: gli altri nostri piccioli Principati, e Contadi venivano disertati da’ Saraceni: i Dominanti erano
fra loro in discordia, ora soccorsi, ed ora assaliti dai Saraceni. Non potevano i Beneventani aver soccorso
dal Re Guido, ch’avea troppo che fare per sostenere se stesso. […]. «Intravit Sybbaticius Stratigo cum
Graecis in Benevento, mense Octobris, et in Sipontum mense Junii»”(Di Meo, ad annum 891).
252
CILENTO N., Il rischio islamico, in AA.VV., San Vincenzo al Volturno, Atti del I Convegno [1982] di
Studi sul Medioevo Meridionale, Montecassino 1985, pag. 35. Circa la diffusione e la generalizzazione
degli effetti, il Cilento, in prosieguo, aggiunge che “le incursioni islamiche si dirigono prevalentemente
dalle coste verso le regioni interne”.
253
DANIEL N., Gli Arabi … cit., pag. 106.
254
DANIEL N., Gli Arabi … cit., pag. 106.
bizantina dell’Italia meridionale incise anche in ambito demografico. Durante i lunghi
anni di guerra e di incursioni il sud d’Italia aveva subito enormi devastazioni e un
notevole regresso demografico: a ogni razzia o conquista araba la popolazione delle
località occupate veniva catturata, e chi non poteva riscattarsi era venduto come schiavo
oltremare. I pochi atti notarili superstiti, provenienti dall’Italia meridionale, parlano
spesso di congiunti o conoscenti degli attori, dispersi in prigionia dei saraceni. […]. E’
quindi probabile che, al momento della riconquista bizantina, mancasse la manodopera
per riorganizzare l’agricoltura”255. Tanto che, per decenni, Costantinopoli fu costretta a
più di un tentativo di ripopolamento, mediante l’utilizzo di schiavi e di servi di varia
provenienza, su parti del territorio riconquistato.
Per dirla tutta, mentre i Saraceni, facendo tabula rasa e costringendo persino a
cambiamenti nelle geografie umane e fisiche, hanno sradicato e depredato ricchezze,
persone e cultura, la seconda bizantinizzazione, per ripristinare un minimo di vita e di
dinamismo sul territorio, deve, a sua volta, reimpiantare la sua cultura e ripopolarne
l’ambiente geografico. Si spiega, così (ma senza lasciarsi fuorviare dal malcelato
sentimento campanilistico e, per qualche verso, patriottico, del cronista), e si riesce, in
tal modo, a dare un senso al fatto che “una fonte longobarda dell’inizio del X secolo
racconta: «vi erano alcuni Greci a Benevento che trattavano gli abitanti come fossero
stati loro servi: li minacciavano, li percuotevano, imponevano loro le più svariate
corvées, li terrorizzavano in continuazione, senza avere riguardo per nessuno, senza
prestar fede a nessuno, senza mai dire a nessuno la verità, senza mai rispettare con
nessuno gli impegni presi. Era per essi un gioco in pubblico e in privato infrangere i
giuramenti, commettere adulteri, darsi a ogni lussuria e ai furti più svariati; e se un
longobardo, sottoposto a violenze, avesse mai osato rivolgersi alla giustizia, doveva
ritirarsi avvilito, dopo essere stato preso a pugni e a schiaffi, frustato e battuto: in tal
modo risultava evidente che in loro non era alcunché di buono. I seguaci del diavolo
affermano a parole e fatti solo ciò che Cristo odia e Satana ama; e per ultimo avevano
stabilito in modo irrevocabile di deportare dalle loro terre tutti i cittadini di Benevento e
gli altri abitanti di questo principato, legati con catene di ferro, come già un tempo con
astuzia il loro infame re Antioco volle fare con i Gerosolimitani. E perciò tutti gli
abitanti dell’Apulia, del Sannio, della Lucania, della Campania erano uniti dall’odio
nei loro confronti»”256.
Se l’ebbrezza della riconquista, da un lato, riesce a far spiegare (ma non a farli
giustificare) i comportamenti del vincitore bizantino verso i longobardi vinti, la notizia
lascia immaginare almeno due cose: la prima è che gli arabi dovettero essere non meno
crudeli e spietati; la seconda è che il territorio riassoggettato al potere di Costantinopoli,
che evidentemente comprendeva anche il Sannio, fu assai ampio. Anche se, al dire del
cronista, apparentemente solo “tribus denique annis, novemque mensibus, et diebus
255
FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 53.
FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 57. La fonte, di cui trattasi, è il Catalogus regum
Langobardorum et Ducum Beneventanorum, in MGH, Scriptores rerum Lang. et Ital., pag. 406. Il tante
volte citato DI MEO, ad annum 895, riporta che “i Greci Signori di Benevento, al dir dell’Anonimo
Beneventano, trattavano quei Cittadini da schiavi, con minacce, bastonate, ed angherie diverse. Non vi era
più alcun riguardo, ed onor per alcuno, né osservavasi alcuna fede. Gli spergiuri, gli adulterj, non solo
privati, ma ancor pubblici, ognissorta di fornicazione, ogni spezie di furto, erano per essi cosa da nulla”.
256
viginti, dominatio Graecorum tenuit Beneventum, Samniique Provinciam”; e,
nell’895, da Benevento spostò la sua sede a Bari.
2.5 – Franchi e Germanici
Ma, “il secolo VIII è il secolo dei Franchi”257, i quali, sollecitati, per il loro essersi
convertiti alla osservanza cattolica sin dal VI secolo, ad intervenire da una precisa
‘scelta’ compiuta da una ‘latinitas’, che, nella ricerca di una sua autonomia da
Costantinopoli proprio nel momento in cui è, da un lato, assai forte il contrasto
sull’iconoclasmo e, dall’altro, è cresciuta di molto la minaccia di rimanere schiacciata
tra il controllo longobardo e la dipendenza da Bisanzio, era venuta evolvendosi nella
direzione della primazialità papale nella gerarchia, riescono ad inserirsi tra le forze
presenti nello scenario del gioco politico della penisola italica. Cosa che fu più o meno
contemporanea all’intervento arabo; e contribuì, moltiplicando il numero delle forze in
campo, a renderlo assai complicato.
Durante la prima metà dell’VIII secolo, “i Franchi riafferravano tutte le loro
fortune. Il clero si riformava sotto la guida di Bonifacio, e la dinastia giovane e
intraprendente dei Carolingi sostituiva l’esausta dinastia dei Merovingi, che è passata
alla leggenda con l’immagine dei re fannulloni.
Senza dubbio i maestri di palazzo carolingi detenevano da decenni il potere
effettivo presso i Franchi, ma il figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve, fece il passo
decisivo riconoscendo in tutta la sua portata l’egemonia cattolica dei Franchi. Concluse
con il papa un’alleanza favorevole alle due parti. Riconobbe al pontefice romano il
potere temporale su una parte dell’Italia intorno a Roma. Poggiandosi su un atto falso
redatto fra il 756 e il 760 dalla cancelleria pontificia, la pretesa Donazione di
Costantino, lo stato pontificio o Patrimonio di san Pietro nasce e, da questo momento,
costituisce il potere temporale del papato, che avrà una parte così importante nella storia
politica e morale dell’Occidente medievale. In compenso, il papa riconosce a Pipino il
titolo di re nel 751 e lo consacra nel 754, l’anno stesso in cui appare lo stato pontificio.
Venivano gettate le basi che, in mezzo secolo, avrebbero consentito alla monarchia
carolingia di raggruppare la maggior parte dell’Occidente cristiano sotto il suo potere e
di restaurare a proprio vantaggio l’impero di Occidente”258.
A dare, per quanto possibile, un minimo di spiegazione alla ‘scelta’ papale stava il
257
Le GOFF J., La civiltà … cit., pag. 33. “La loro (= dei Franchi) affermazione in Occidente, malgrado
qualche scacco, per esempio di fronte a Teodorico, è cosa regolare dopo Clodoveo. Il colpo da maestro di
Clodoveo è stato quello di convertirsi con il suo popolo, non all’arianesimo, come gli altri re barbari, ma
al cattolicesimo. Può così giocare la carta della religione, beneficiando dell’appoggio, se non del papato
ancora debole, almeno della potenza gerarchica cattolica e del monachesimo non meno potente. Fin dal VI
secolo i Franchi hanno conquistato il regno dei Burgundi, dal 523 al 534, poi la Provenza nel 536”.
258
Le GOFF J., La civiltà … cit., pag. 35. Il Di Meo, ad annum 756, registra che “veggiamo dato il titolo
di Patrizio de’ Romani al Re Pippino, ed a’ suoi figli Carlo, e Carlomanno”. E col titolo vi era, però,
“l’obbligazione di proteggere, e difendere la Chiesa Romana, restando al Papa la piena sovranità. […].
Pippino promise al Papa l’Esarcato, e gli diede tutta la dignità, e l’impero degli Esarchi, che includeva
eziandio l’amministrazione di Roma, la quale ubbidiva alla giurisdizione dell’Esarco, …”.
fatto che, appena nel 751, i longobardi del ‘Regnum’ si erano impadroniti, proprio
contro le pretese territoriali del papato stesso, del territorio dell’esarcato di Ravenna,
dipendente, precedentemente, da Costantinopoli.
Una delle conseguenze, per qualche aspetto curiosa (ma non troppo), di simile
svolta, o, se lo si preferisce, degli effetti da essa prodotti, nella conduzione della politica
papale fu che, se, “dei tredici vescovi romani tra il 678 e il 752, solo due erano stati di
origine romana; e tutti gli altri furono siriani, greci, siciliani” 259 e, comunque, di
estrazione e di cultura ‘orientali’, si deve, a partire da quest’ultima data, che, all’incirca,
è quella intorno alla quale è possibile collocare nel tempo la scelta ‘franca’, registrare
un radicale capovolgimento, con papi ‘occidentali’. Nei fatti, già “i papi Paolo I e
Costantino (II) tennero conto dei mutati rapporti di potere; essi comunicarono
ufficialmente al re franco, rispettivamente nel 757 e 767, la loro elezione, come era
successo fino a quel momento soltanto nei confronti dell’imperatore. A ragione Paolo
vide nel re franco l’unico che lo potesse proteggere da un attacco bizantino a Roma”260.
Mentre è “con il pontificato di papa Adriano <che> scomparve definitivamente il nome
dell’imperatore bizantino dai documenti papali e dalle monete”261.
Di contro, la conseguenza di maggior significato sarà che, subito dopo la sconfitta
di re Desiderio, avvenuta un ventennio appena dai primi accordi, essendo intervenuto
dietro richiesta di papa Adriano, che, secondo la ricostruzione del Di Meo, l’anno prima
“spedì per mare una Legazione a Carlo Magno, pregandolo di soccorrere l’afflitta
Chiesa”, “al più tardi dal 5 giugno del 774 Carlo Magno, che nel 768 era succeduto al
padre Pipino, portava il titolo di rex Francorum et Langobardorum, re dei Franchi e dei
Longobardi. E l’Italia settentrionale e centrale caddero di fatto nelle mani del regno
franco, mentre nel sud della penisola continuò ad esistere il ducato indipendente
longobardo di Benevento”262.
Dove, nel giro di appena qualche mese, Arechi, il ‘dux’ di Benevento, prendendo
atto di una situazione che vedeva uscito di scena il ‘rex’ della “Langobardorum gens” e
nella quale egli non poteva far più riferimento a nessuno al di sopra di lui, “poiché aveva
in moglie la figlia dell’abbattuto Re Desiderio, …, alzata quindi bandiera di sovranità, e
prendendo il titolo più luminoso di Principe; si fece solennemente coronare da’
Vescovi in una Dieta de’ suoi Grandi, e ciò con somma gioia de’ suoi Popoli, da’ quali,
ben lo meritava, era amato con tenerezza”263.
Appare, a questo punto, assai evidente e senza ombra di dubbio alcuno come i
‘Vescovi’, che parteciparono alla “Dieta dei Grandi del ducato per incoronare
solennemente ed ungere il nuovo Principe” e che si sa essere stati proprio tutti i titolari
259
FINK K. A., Chiesa e… cit., pag. 16. V. nota 43.
BECHER M., Carlo Magno, Bologna 2000, pag. 77. Dall’elenco ufficiale dei Papi si ha che Paolo I
(San) fu papa dal 757 al 767; e Costantino II fu, in realtà, antipapa tra il 767 e il 769. E ciò, appunto, sta a
dimostrare la difficile situazione che, relativamente alla scelta ‘franca’, si stava vivendo a Roma.
261
BECHER M., Carlo … cit., pag. 78. Adriano, succeduto a papa Stefano III (768-772), resse il papato
tra il 772 ed il 795.
262
BECHER M., Carlo … cit., pag. 55. “All’inizio di giugno <del 774>, dopo quasi nove mesi di assedio,
la città di Pavia capitolò. Re Desiderio fu mandato in esilio in un monastero franco. E Carlo si impadronì
del tesoro regio longobardo e assunse il titolo di re dei longobardi”.
263
DI MEO, Annali … cit., ad annum 774.
260
(tra cui anche quello della diocesi riconducibile al “galo nostro in Biferno”) delle sedi
situate nel territorio della “provincia beneventana” o, che è la stessa cosa, del ‘ducato’,
agiscano in aperta contrapposizione con la scelta ‘politica’ del papato.
Una tale posizione di chiaro contrasto solleva serie perplessità ed interrogativi, sui
quali occorre un minimo di riflessione.
Era, o poteva essere, quella dei vescovi ‘beneventani’ una posizione, per così dire,
solo di comodo o di mero opportunismo? Sicuramente a tale domanda la risposta deve
essere negativa, non potendo essi trarre alcun vantaggio da questa posizione; ma, al
contrario, essa li porta ad essere schierati dalla parte ‘perdente’.
Avrebbe potuto essere, seppur carica di inavvedutezza eccessiva, solo una scelta di
devota fedeltà al ‘dux’? Proprio impossibile crederlo, in quanto è sin troppo evidente
che quel comportamento li avrebbe portati ad una rottura netta con il papato romano.
Ed allora? L’unica spiegazione possibile sembra essere che l’intero ‘episcopato’
beneventano viene ad assumere, coerentemente con la scelta filobizantina di Arechi, il
quale “già nell’autunno del 775 deve aver raggiunto un accordo con i bizantini ed i duchi
longobardi di Spoleto, del Friuli e della Tuscia allo scopo di cacciare i franchi
dall’Italia”264, la posizione (e, in quanto di natura, di ispirazione e di osservanza ‘greca’,
può farlo) di mantenersi fedele all’imperatore di Costantinopoli (al quale promette “tam
in tonsura quam in vestibus usu Graecorum perfrui sub eiusdem imperatoris
dicione”). E, proprio come era costume bizantino, di accettare e di rispettare, per come
possibile, le disposizioni dell’autorità civile. Con una scelta, cioè, che si originava da
una cultura che veniva da lontano e non frutto di una scelta dettata da interessi
momentanei.
Una tale posizione di forte autonomia dal papato di Roma da parte degli Episcopi
della “provincia beneventana” trova una conferma, seppure indiretta ma ugualmente
probante, dal fatto che i rapporti tra i monaci “ex genere Langobardorum” e quelli “ex
genere Franchorum” furono contrastanti e contrastati persino nell’ambito di un’unica
struttura monastica. “All’interno stesso delle comunità monastiche insorgono conflitti di
«nazionalità» tra le varie fazioni in cui si dividono. Clamorosa fu a questo proposito la
deposizione, prima del 13 ottobre 778, di Autperto a S. Vincenzo, al quale due anni dopo
subentrò il longobardo Potone: il dissidio politico dette luogo a gravi accuse contro
costui trasmesse a Carlo Magno dal duca di Spoleto Ildebrando, che era strumento della
sua politica verso l’Italia meridionale longobarda; il re franco incaricò Papa Adriano di
condurre un’inchiesta con la partecipazione di due «missi» per accertare i fatti: Potone si
sarebbe rifiutato di cantare all’ora sesta il salmo «pro regis incolumitate», anzi in
qualche occasione avrebbe dichiarato che «si non mihi fuisset pro monasterio et terra
Beneventana talem eum (cioè Carlo) habuisse sicut unum canem»; Potone fu però
scagionato e reintegrato previo giuramento di fedeltà da parte sua e di cinque monaci
«ex genere Franchorum» e altrettanti «ex genere Longobardorum»”265.
264
BECHER M., Carlo … cit., pag. 79.
CILENTO N., S. Vincenzo al Volturno e l’Italia meridionale longobarda e normanna, in AA.VV., San
Vincenzo al Volturno, Atti del I Convegno [1982] di Studi sul Medioevo Meridionale, Montecassino 1985,
pag. 46. Quanto ad Autperto, trattasi del grande “moine et théologien” Ambrogio Autperto, di origine
franca e legato da vincoli di parentela con Carlo Magno, che fu abate di S. Vincenzo al Volturno dal 777
al 778. Il longobardo Potone tenne l’abbaziato tra il 780 ed il 783.
265
Indipendentemente dalla sua conclusione, tutti gli aspetti della vicenda stanno a
mostrare tra le posizioni dei ‘franco-papali’ e dei ‘longobardo-bizantini’ meridionali
una marcata divergenza. Divergenza che non può non attribuirsi anche all’ambito
dell’episcopato, che, già di suo, sta attraversando un periodo di riappropriazione di ruoli
e di funzioni sul territorio. Difatti e per la relativa lunga durata di quanto nel lento
processo avveniva, “a scorrere la corrispondenza del papa Giovanni VIII con i potentati
meridionali, particolarmente frequente negli anni precedenti l’881, …, si ha l’immediata
percezione della ormai inveterata debolezza delle Chiesa Romana di fronte alle
frequenti alleanze tra i duchi della Longobardia minore con l’episcopato locale.
Quest’ultimo, peraltro, proprio attraverso simili compromessi era riuscito a ricomporre il
tessuto delle circoscrizioni diocesane – non tutte, certo, e non nei medesimi luoghi –
dopo l’irruzione dei Longobardi nella seconda metà del secolo VI, che le aveva quasi del
tutto cancellate dal quadro istituzionale della regione. Da allora, ossia almeno dal secolo
VII fino ai difficili anni di Giovanni VIII, sul cadere del secolo IX, il papato se da una
parte era pur riuscito ad accrescere la sua autonomia nel ducato romano trasferendo in
uno stato di diritto il suo patrimonio privato, aveva visto invece diminuire il suo
prestigio sulle chiese locali, almeno nel Mezzogiorno longobardo”266. E di questa
conseguenza l’unica spiegazione possibile, oltre alla maggiore o minore condivisibilità
della prima, non può non essere che anche qui, nel Mezzogiorno longobardo appunto, i
bizantini ancora potevano contare su delle forti aderenze ed erano predominanti.
E che il collante della cultura longobarda con i greco-bizantini fosse intenso e
tuttora manifestasse legami di quasi indissolubilità, nonostante venga visto, assai
inspiegabilmente nella sua voluta riduttività, semplicemente come un “colto riferimento
di carattere meramente cronologico, senza alcun significato istituzionale relativo ad una
eventuale sovranità bizantina su quel territorio montagnoso che oggi costituisce la
regione Molise”267, sta quella indicazione (a dir il vero, assai poco usuale, se in area
266
PICASSO G., Il pontificato romano e l’Abbazia di S. Vincenzo al Volturno, in AA.VV., San Vincenzo
al Volturno, Atti del I Convegno [1982] … cit., Montecassino 1985, pag. 233.
267
FALKENHAUSEN (Von) V., I rapporti tra il monastero di San Vincenzo al Volturno e Bisanzio, in
AA.VV., San Vincenzo al Volturno dal Chronicon alla storia (a cura di DE BENEDITTIS G.), Isernia
1995, pag. 141. Pur riconoscendone l’origine ‘longobarda’, La Falkenhausen tenta sempre (e si pensa con
eccessiva supponenza) di minimizzarne, del Monastero Volturnense, i rapporti di dipendenza con
Bisanzio. Se ne riportano (v. pag. 141 e seg.), integralmente affinché ognuno possa trarne le conclusioni
proprie, le considerazioni: “Nel catalogo degli imperatori bizantini all’inizio della cronaca infine, la
stereotipa formula Iste preceptum fecit Sancto Vincencio cum bulla aurea affianca i nomi di Costantino
VII con la madre Zoe (913-920), Costantino VIII (1025-1028) e Romano IV Diogene (1068-1071), senza
che vi sia rimasta qualsiasi traccia dei praecepta di questi imperatori. La formula manca, invece, accanto
al nome di Romano I, il cui privilegio è testualmente inserito nella cronaca. Dobbiamo, quindi, supporre
per il X e l’XI secolo l’esistenza di quattro crisobulle bizantine a favore dell’abbazia vulturnense oppure la
confusione tra i vari basileis di nome Costantino e Romano da parte di chi ha elaborato il catalogo
cronologico degli imperatori? Sarei propensa per la seconda spiegazione. In un errore analogo è del resto
incorso anche Pietro Diacono, il famoso bibliotecario di Montecassino, che pur si vantava di sapere il
greco; egli attribuì, infatti, un privilegio di Costantino VII datato 951 al padre di questi, Leone VI (896912). L’abbazia di San Vincenzo al Volturno fu fondata negli anni a cavallo della fine del VII e l’inizio
dell’VIII secolo da tre nobili fratelli longobardi di origine beneventana. Se il cronista colloca la
fondazione del monastero nel periodo dell’impero di Giustiniano II … siamo di fronte ad un colto
riferimento di carattere meramente cronologico, senza alcun significato istituzionale relativo ad un
longobarda si datavano i documenti col sistema bizantino della indizione), da parte del
cronista, di dover riferire, nel tempo, la fondazione del Monastero Volturnense al
periodo dell’impero di Giustiniano II (685-695, 705-711) e precisamente, per usarne le
parole (v. Cron. Vul., I), quando era “apud Constantinopolim imperante Iustiniano”.
Ma, nonostante non siano aspetti irrilevanti, si era agli accadimenti dell’anno 774,
nel quale, poco prima che esso terminasse (era il mese di novembre) e subito dopo che si
era fatto incoronare solennemente Principe, Arechi decide di inviare cortisanos e
baccarios “in galo nostro biferno”.
Ed occorre, per coglierne le reali motivazioni, tornarvi sopra. Diventa, collegando
la sequenza dei diversi fatti, finanche troppo chiara la finalità politica del ‘Princeps’, il
quale ha per obiettivo, riconoscendo il privilegio al monastero di S. Sofia (inaugurato
appena dodici anni prima), di servirsene in contrapposizione ai grandi cenobi di Cassino
e di S. Vincenzo al Volturno, che stanno entrando (basterebbe guardare a chi viene
imposto di diventarne abate) nell’orbita franca. E tale contrapposizione era, non solo
strategica, bensì derivata dalla propria identità culturale bizantina, se, solo dopo pochi
anni dalla sua costruzione avvenuta secondo i canoni stilistici ed artistici presi da
Costantinopoli, serve a diventare alternativa a quei cenobi.
Oltre all’evidenziato aspetto della identità culturale e, ad essa collegata, religiosa,
occorre, inoltre ed infine, aggiungere quello, riconducibile alla indicazione geografica ed
eventuale sovranità bizantina su quel territorio montagnoso che oggi costituisce la regione Molise.
All’inizio dell’VIII secolo, infatti, da molto tempo Bisanzio aveva perso il controllo sull’alta valle del
Volturno, ormai sicuramente nelle mani del duca di Benevento, Gisulfo I (689-706 circa), che con la
conquista di Sora, Arpino ed Arce aveva spostato il confine settentrionale del suo ducato fino al Liri.
L’abbazia di San Vincenzo era quindi una fondazione longobarda a tutti gli effetti, per quanto riguarda sia
la provenienza dei fondatori, i nobili fratelli beneventani Paldone, Tatone e Tasone, sia il territorio ove era
costruito ed ove era collocata la maggior parte dei beni fondiari, sia per il principe protettore, Gisulfo I,
che aveva incoraggiato la pia iniziativa ed ampiamente dotato il nuovo monastero.
Per tutto l’VIII secolo e la maggior parte del IX, fino alla distruzione del monastero ad opera dei Saraceni
nell’881, il suo sviluppo territoriale ed istituzionale si svolgeva nell’ambito del ducato – poi principato –
di Benevento e nel contesto politico delle tensioni tra l’impero carolingio, il papato e la Langobardia
minore. Poco attendibile mi sembra la breve notizia riportata nel catalogo degli imperatori relativa al nome
di Miche III (e più precisamente riguardo al suo governo autonomo dall’856 all’867): Iste [fecit]
preceptum Sancto Vincencio. Infatti, non è rimasta alcuna traccia del presunto privilegio di Michele III,
che in quel periodo ebbe rapporti pessimi con il papato ed era notoriamente assente dalla scena politica
dell’Italia meridionale. Non si capisce del resto, che genere di concessione il basileus avrebbe potuto fare
alla lontana abbazia molisana. Se non si tratta di una mera invenzione del cronista, il che mi sembra
l’interpretazione più verosimile, si potrebbe eventualmente pensare ad un privilegio emanato da qualche
imperatore omonimo ed attribuito erroneamente a Michele III. Non vorrei a priori escludere che
l’imperatore Michele VII Duca (1071-1078), che, ad esempio, fece una grandiosa donazione a
Montecassino, abbia emanato anche un privilegio per San Vincenzo. In ogni caso durante il primo e forse
più significativo periodo della sua storia, che ebbe il suo apogeo nell’abaziato di Epifanio (824-842), non
sembra che vi fossero relazioni di alcun genere tra San Vincenzo e Bisanzio”.
Una considerazione: ma, se il primo viene liquidato come semplice “riferimento colto” ed il secondo solo
come “poco attendibile”, le ricostruzioni storiche, talvolta, sembrano avere non lo scopo di andare verso
una ricerca di verità, bensì, per scopi eruditi e di prestigio personale, ad allontanarsi da essa.
Contro l’atteggiamento minimizzante e senza proporre personali interpretazioni (che darebbero solo vita a
polemiche), resta solo da registrare il fatto di tali riferimenti di collegamento a Bisanzio di una parte del
territorio del Samnium già prima della seconda bizantinizzazione di fine IX secolo.
insediativa, relativo al legame con Benevento, evidentemente assai stretto sin dall’VIII
secolo, dell’area riferibile a Biferno-Musane (la trasformazione, a motivo dello
spostamento – fenomeno assai generalizzato nel periodo e riscontrabile a quasi tutte le
civitas molisane – dei rispettivi siti dovuto alle scorrerie dei Saraceni, sta proprio ora
avvenendo), che è detta, appunto, ‘nostra’ ed, in quanto tale, reclamata dal Principato
beneventano in una fase storica in cui viene avvertito come forte la rivendicazione del
controllo sul territorio.
Ma, nonostante “il papa aveva sperato che i franchi sarebbero intervenuti in Italia
meridionale, per imporvi militarmente le sue pretese nei confronti dell’imperatore
romano d’oriente”268; nonostante, per motivi collegabili alla maggiore urgenza di difesa
contro gli attacchi mossi dal pericolo arabo, da parte di Bisanzio vi fosse la disponibilità
“a riconoscere la posizione di potere dei franchi in Italia, che sottintendeva anche il
controllo di Roma e del papato”269; nonostante, seppur con qualche evidente ritrosia,
dopo alcuni anni “Carlo si decise a favore di un intervento militare in Italia meridionale.
[…]. <E> nel marzo del 787 Carlo entrò nel principato e Arechi rinunciò subito a ogni
resistenza. Riconobbe la superiorità di Carlo con un giuramento e consegnò, tra l’altro,
suo figlio Grimoaldo come ostaggio”270, impegnandosi anche al pagamento annuale di
una forte somma; nonostante, si diceva, tutte queste condizioni favorevoli, perché (si
tenga presente che Tuscia e Spoleto stanno entrando nell’orbita papale) Carlo Magno e i
carolingi si fermano (o sono costretti a fermarsi?) davanti al ‘Principato’ beneventano?
Prima di rispondere, occorre annotare il fatto, profondamente nuovo sulle scenario
delle forze in campo, che, da parte di Costantinopoli, veniva convocato, proprio nel 787,
un concilio generale a Nicea “al quale fu invitata una delegazione del papa ma non dei
franchi”271. Obiettivo dichiarato (e chiaramente tattico) del Concilio di Nicea era la
ratifica del decreto imperiale che permetteva nuovamente il culto delle immagini; cosa
che, mentre eliminava quella contrapposizione teologica che aveva diviso la chiesa per
decenni, consentiva di minare gli accordi franco-romani. “Papa Adriano accolse con
soddisfazione questo proposito e mandò i suoi legati a Nicea. Nemmeno lui sembra
essersi turbato di fronte al disegno di Costantinopoli nei confronti dei franchi. In qualità
di patriarca dell’occidente il papa tutelava allo stesso tempo anche gli interessi dei
franchi. In fin dei conti, soltanto da pochi anni, questi avevano chiesto testi liturgici e
canonici per riformare la loro chiesa e portarla nella giusta direzione”272.
268
BECHER M., Carlo … cit., pag. 80.
BECHER M., Carlo … cit., pag. 80.
270
BECHER M., Carlo … cit., pag. 81.
271
BECHER M., Carlo … cit., pag. 82.
272
BECHER M., Carlo … cit., pag. 82 e seg. “Nel 794 il re franco convocò un concilio a Francoforte. Il
fatto che i vescovi franchi si riunissero intorno al loro re non era insolito, ma in questo momento Carlo
governava anche l’ex regno longobardo. E venne discusso anche il concilio di Nicea, con il risultato che le
sue decisioni furono rifiutate. In questo modo Carlo sistemò anche il papa in modo chiaro, poiché i suoi
inviati portarono con sé questa risoluzione, sebbene Adriano fosse di tutt’altra opinione sull’esattezza e
sull’efficacia dei regolamenti del concilio di Nicea. Ma, alla fine, per salvare le apparenze, il papa non
confermò né le decisioni di Francoforte, né quelle di Nicea. Carlo aveva espresso in modo assolutamente
chiaro la sua pretesa di uguaglianza giuridica con l’imperatore e ribadito la sua posizione di
preminenza nei confronti di Adriano. Tanto da assegnare al suo successore (Papa Adriano moriva a
Natale del 795) Leone III soltanto il compito della preghiera, mentre lui doveva proteggere la chiesa
269
Non rientrando nella economia del lavoro, non interessa qui andare oltre, ma solo
aver registrato le posizioni delle diverse forze sul campo. Ed è, a questo punto, possibile
proporre una risposta e dare qualche considerazione.
I carolingi, nonostante i non facili e contrastati interventi sulle grandi abbazie di
Montecassino e di S. Vincenzo al Volturno (sulle quali, però, il controllo romano già era
di rilievo), sono costretti a fermarsi davanti ai confini della Langobardia minore sia
perché questa, con tutto il meridione italiano (cui viene nuovamente concessa, per un
certo periodo, la liceità della iconodulia), rientra nell’orbita delle influenze bizantine e
sia perché la presenza ‘Sarracenorum’, poco governata ed ingovernabile, sfuggente e
priva di motivazione seria ad appropriarsene, costituisce, a suo modo e nel suo
disordine, un ostacolo non indifferente per la conquista militare e politica 273. Cosa che
permette di poter spiegare sia come, da parte cassinese e volturnense, gli interessi
patrimoniali fossero indirizzati in direzione degli Abruzzi assai più che verso i territori
della Langobardia minore e sia come operazioni di inserimento, con scopi politici, in
area molisana vengono operate da quelle due grandi abbazie nel corso del X secolo. E
permette di dare una spiegazione al fatto che il ricostituito e riconosciuto impero
d’occidente274 non riesce a (e non ha la forza di) preservare quei complessi cenobitici,
soggetti, si dice, all’influenza franco-papale, dalle distruzioni degli anni ottanta del IX
secolo, che le fecero, per decenni, diventare “nullius hominis habitacio, sed tantum
bestiarum possessio”.
Difatti, se il tentativo più concreto di spingere la denominazione imperiale franca
(di cui l’effetto più significativo è rappresentato dalla vistosa spaccatura che subisce
l’Italia, dove, mentre la parte soggetta alla influenza franca vede la formazione delle
signorie territoriali, in quella riferibile alla influenza bizantina se ne ha lo sfaldamento) è
rappresentato dalle discese di Ludovico II (850-875), queste si infrangono o con i
Saraceni, come quando, nell’862, “ben più volte a reprimere la loro ferocia, venne in
queste parti l’esercito de’ Franzesi, ma nulla profittando, sen tornò per la stessa via,
onde era venuto”275, oppure perché, nell’870 “il Principe Adelgiso, a persuasione de’
Greci, fece sollevar contro Lodoico le Città del Sannio, della Campania, e della
Lucania, e fece ad esse ricever presidio Greco; <e> a Lodofico fu fatto quel malo ufizio
(nota: di farlo prigioniero a Benevento, perché “volea per se il Principato Beneventano, e
Capua”) pro Graecorum vafritia”276. E, nell’873, si arriva al punto che, “essendo giunta
in Otranto la flotta de’ Greci spedita dal porto di Costantinopoli, con un Patrizio, in
soccorso de’ Beneventani, i quali promettevano di pagare al Greco quel censo, che
romana e difendere i cristiani dai pagani e dagli infedeli”(pag. 84 e seg.).
273
In effetti, solo parte del territorio abruzzese (i sette gastaldati dei Marsi, Valva, Amiterno, Forcone,
Aprutium, Penne e Chieti) rientrerà, ma nell’801 e quando cioè Carlo è stato già incoronato imperatore, in
mani franche, potendosi più immaginare che intravedere una linea di confine sulle rive del Trigno.
274
Sulla incoronazione ad imperatore di Carlo Magno (Natale 800) e, più ancora, sulla lunga vicenda del
riconoscimento da parte bizantina, si veda BECHER M., Carlo … cit., specialmente da pagina 86 in poi.
275
DI MEO, Annali … cit., ad annum 862. Sulla interpretazione ed il valore storico da assegnare ai
tentativi di Ludovico II, oltre che per una analisi più che valida della storia dell’impero d’Occidente, si
veda CAPITANI O, Storia … cit.
276
DI MEO, Annali … cit., ad annum 870.
davano all’Imperador Francese”277.
In una “situazione, aperta a tutti i colpi di mano, difficilmente riconducibile ad una
qualche linea unitaria che non si riveli schematica e incompleta, verso l’ultimo
ventennio del sec. IX nell’Italia meridionale le tre grandi iniziative prese da Ludovico II
(imperatore ‘franco’), da Basilio I il Macedone (imperatore ‘bizantino’) e da Giovanni
VIII (papato) approdarono a risultati di un certo rilievo, anche se – almeno nel caso
dell’imperatore carolingio e del papa – diversi e, talora, opposti a quelli sperati. Il
fallimento dell’impresa di Ludovico II fu tale non sul piano militare, ma su quello
politico: e pure il successo conseguito a Bari contro i Musulmani, mentre favorì lo stesso
ritorno vittorioso dei Bizantini, determinò il profilarsi di una linea discriminante tra un
ambito (il mezzogiorno) decisamente bizantino, dal punto di vista culturale,
istituzionale, economico, nella dimensione di una dominazione politico-militare attestata
direttamente sul territorio e destinata a mantenersi per due secoli; ed un’area
longobardo-italica (centro-nord) in cui la realtà cittadina – a differenza da quella
dell’area bizantina – è soprattutto collegata con la tradizione di dinastie autonome e
gelose del loro esercizio del potere”278. E se il meridione vedeva il ritorno bizantino, da
parte sua il Papato ne aveva ottenuto il riconoscimento, di fatto e di diritto, sia del
Patrimonium Sancti Petri che di un proprio ‘primato’ autonomo e non più dipendente
da Bisanzio ed era, nel contempo, venuta ad affermarsi, nonostante le mille difficoltà,
non ultime quelle dinastiche e successorie, l’idea stessa di un imperium in Occidente.
All’interno di questo quadro generale e di insieme, il “galo nostro Biferno”, dove
il centro abitato di riferimento (ad interpretare il citato documento del maggio 878, nel
quale si usa quell’espressione “ex finibus Campibassi et ex finibus Biffernensibus”,
che, con la sua indeterminatezza, lascia ben intendere l’avvenuta scomparsa di Biferno)
si è venuto spostando nell’altro di Musane (o, indifferentemente, Mosane e Mesane)
dall’antico insediamento con quel nome, sito a Cascapera, viene a trovarsi in una zona di
confine ed, in quanto tale, di grande importanza strategica. E che, tra l’altro, fosse tale
sta a provarlo quella strada che, proveniente da Chieti e Lanciano, ne attraversava il
territorio interamente, da nord a sud, e permetteva, passando il “ponte sul Biferno”, di
raggiungere agevolmente Benevento e che si vide (v. nota 160 e successiva nota 203)
percorsa dall’imperatore Arrigo II nel 1022.
Premettendo, ed aggiungendo, che il concetto di confine non ha mai rappresentato,
in epoca alto medioevale, una linea, fissa e continua, di divisione dei territori di due
strutture diverse, ma, al contrario, esso va immaginato discretamente discontinuo e
mobile, l’avvento dell’impero carolingio, essendo che “il comitato teatino tra gli anni
801, 802 fu tolto da Pipino al ducato di Benevento”, porta a dover fissare, a partire da
tale data, “ad flumen Trinium”279 la linea di demarcazione tra l’area soggetta all’impero
occidentale e quella ricadente sotto l’influenza longobardo-bizantina. E questa linea di
demarcazione, a differenza di quanto sembrerebbe potesse avvenire lungo la fascia
adriatica280, deve essere considerata relativamente stabile.
Queste considerazioni tutte lasciano ben immaginare l’importanza strategica (oltre
277
DI MEO, Annali … cit., ad annum 873.
CAPITANI O., Storia … cit., pag. 146 e seg.
279
FARAGLIA N.F., Saggio di corografia abruzzese medioevale, in ASPN XVI (1891), pag. 650.
278
a rappresentare, se dovesse il paziente lettore ritenerlo ancora di qualche necessità, una
ulteriore prova della sua esistenza) del “galo Biferno”, con il ‘palatium’ in un
insediamento posto alla sinistra del fiume (che, solo così, riesce a spiegare le finalità del
controllo sul territorio), e le ragioni stesse dell’interesse che il ducato (e, dal 774, il
principato) di Benevento potesse avere a considerarlo ‘nostro’281.
Un siffatto controllo non avrebbe mai potuto essere effettivo e concretizzarsi nella
sua totalità, se, come mostra l’assoggettamento al monastero di S. Sofia (sorto, come fu
visto, con influenze ‘greco-bizantine’) di quelle strutture monastiche ritenute di non
trascurabile importanza, esso non si fosse riferito, oltre che alle organizzazioni religiose
del monachesimo ‘regolare’, anche, e maggiormente, alle istituzioni, come potrebbero
essere le diocesi, del clero ‘secolare’.
Se si considera che l’andamento demografico, caratterizzato da una situazione
280
Il citato FARAGLIA (v. art. cit.) riconduce ed assegna al ducato di Spoleto anche la fascia adriatica
‘molisana’, quando riporta (le note, tra parentesi, sono dell’autore) che “dopo che Grimoaldo duca di
Benevento ritolse Lucera ai franchi, il Fortore formò per poco il confine dell’impero di Carlomagno
sull’Adriatico, e la diocesi di Larino fu unita alla terra teatina (TRIA, o.c., Cap. V 109). Ed anche Termoli
restò soggetta al contado di Chieti (PELLEGRINO C., Dissertatio VIII Tabula chorografica Medii Aevi).
Il conte chietino Trasmondo nel 1011 donò al monastero di s. Vincenzo al Volturno le terre poste in
Serramala nel territorio di Termoli (Chr. Vult. 498), e nel 1014 i figliuoli d’Ildeprando e Albone donarono
allo stesso monastero le terre che possedevano nel comitato tremolano a Serramala, dov’era edificata la
chiesa di s. Bartolomeo, …, e la terra di Gisone, già donata dal conte Trasmondo (Ivi, 499. Per questa
chiesa di s. Bartolomeo pochi anni dopo, cioè nel 1022, l’Abate vulturnese Ilario domandò giustizia
all’imperatore Arrigo nel placito di Campo de Petra. Ivi 497). E qui è da porsi mente alla espressione
comitato tremolano, perché Termoli era soggetto a Trasmondo, il quale poi s’intitolò marchese, e pare che
abbia diviso in comitati minori la marca teatina (Chron. Casaur. 852). In conseguenza sul mare Adriatico
tra le foci del Trigno e del Biferno si estendeva il territorio tremolano dipendente dal ducato di Spoleto”.
Ma con tale ricostruzione contrasta, e non poco, la dipendenza dalla sede metropolitana di Benevento della
diocesi di Termoli, che risulta (v. il citato KLEWITZ) in area bizantina; cosa, questa, che farebbe
propendere, sempre di più, per una linea del confine “ad flumen Trinium” sino al mare.
Una soluzione possibile, se proprio se ne deve trovare una, potrebbe essere individuata (v. SCHIPA M.,
Le “Italie” del medio evo, in ASPN XX [1895], pag. 427 e segg.) nel fatto che il thema di Longobardia,
istituito con l’inizio della seconda bizantinizzazione, si estendeva dal limite settentrionale di quello di
Calabria sino “a’ confini naturali del mare e, dentro terra, a’ confini politici dello Stato romano e del
Regno italico o, press’a poco, ad una linea di frontiera che dalla foce del Sisto, a ponente di Terracina sul
Tirreno, saliva verso greco fin oltre Sora, alle sorgenti del Sangro, e quindi, scendendo verso levante,
seguendo il corso superiore del Sangro e poi tagliando il Trigno, andava a raggiungere l’Adriatico alla
foce del Biferno. La vecchia Calabria, chiusa in sé, formante thema da sé, conservò la propria autonomia
amministrativa come già la Sicilia, a cui era sottratta. Fuori di essa stendevasi il thema nuovo, formato
quasi tutto dal paese che, come dominio longobardo, già da tempo i Bizantini chiamavano «Longobardia».
E il thema conservò il nome del paese, nè, fin oltre la metà del X secolo, s’appellò altrimenti che
«Longobardia». I signori longobardi che vi restavano potevan bene essere intitolati πριγκιπεσ ed
anco ρεγεσ (CEDRENO, II, 355) ; ma, per la corte di Costantinopoli, non eran che vassalli, dipendenti
dallo stratego, capo del thema. […]. Poi divampò più vasto l’incendio : «quanti erano abitatori di
Longobardia e di Clabria tanti ruppero a ribellione, alleatisi a’ Saraceni» (TEOPH. Cont., VI, 454). E
allora il Porfirogenito spedì Mariano Argiro come stratego Calabriae et Longobardiae (Syll. VI, 5), uniti
eccezionalmente i due themi sotto l’autorità d’un unico generale”.
281
Ben minore sarebbe stata, per gli interessi beneventani, l’importanza strategica nel caso di una
localizzazione dell’insediamento di riferimento per il territorio del “galo Biferno” alla destra del fiume,
che postulerebbe, inoltre, una linea di confine tra le due entità politco-amministrative lungo il Biferno. Ed
è, quest’ultima, ipotesi assai difficile da suffragare.
stabile, ma sempre di crisi e con picchi, indicanti le eventuali variazioni, maggiormente
verso il basso, mai dovette far registrare cambiamenti significativi, risulta anche facile
immaginare che l’aspetto del paesaggio geografico dovesse presentarsi prevalentemente
aperto, discontinuo ed a maglie larghe, segnato da insediamenti sparsi e di dimensione
modesta. Potendosi, e dovendosi, condividere la derivazione dell’etimo ‘sala’, “che si è
fissata nella nostra toponomastica”, dalla base longobarda sala (alto-tedesco a. sal), che
stava ad indicare “un elemento tipico in ogni distretto o unità poderale dipendente da un
nucleo longobardo”282, l’esistenza di un corpo feudale con tale nome 283, esteso “per mille
e cinquecento tomoli incirca” verso mezzogiorno al confine con l’agro di Fossalto (e,
quindi, in posizione diametralmente opposta al sito di Biferno a Cascapera), farebbe
pensare a presenze longobarde diffuse sull’intero territorio riconducibile a Limosano.
Cosa, questa, che giustifica, a sua volta, quei fenomeni di trasformazione linguistica
collegati e collegabili a tali presenze, cui in precedenza è stato fatto riferimento.
Talune altre di siffatte evidenze insediative, di dimensioni assai modeste e, più
frequentemente, assimilabili alle dipendenze, nel sistema produttivo di tipo ‘curtense’,
dalle strutture cenobitico-monastiche, più che veri e propri poli di aggregazione
economica e sociale, stavano a formare, strategicamente posizionate sul territorio, delle
coerenti trame funzionali al suo controllo ed, a partire dalla seconda metà del secolo
VIII, alla sua difesa. Almeno originariamente, esse erano abitate prevalentemente da
popolazione maschile e venivano amministrate dal potere pubblico della civitas della
unità amministrativa, cui erano asservite.
Le colture agrarie non sembra fossero molto varie né, tanto meno, specializzate. E
l’economia, oltre che sulla pastorizia, si reggeva sulla produzione, molto spesso riferita
alla ‘curtis’ cenobitico-monastica, di cereali (grano, orzo e miglio), sulla coltivazione
della vite e sulla cura degli orti, di modestissime estensioni, posizionati attorno alle
rudimentali abitazioni. Oltre che meli, peri, fichi e poche altre piante cespugliose e semiselvatiche di frutti, diffuso, come mostra il toponimo di “contrada castagna” (ora
scomparso, ma per lungo tempo presente nella toponomastica limosanese), era l’albero
del castagno. La presenza di numerosi boschi sino ai margini dell’abitato consentiva un
allevamento, ma sempre allo stato brado, di suini. Discreto quello degli ovini, mentre
minimo dovevano essere i bovini. Le ghiande, sfarinate e tritate, erano spesso utilizzate
anche per l’alimentazione umana. Oltre ai pochi e limitati spazi riservati alla presenza
dell’uomo, si estendevano distese di foreste, di macchia cespugliosa e di spazi incolti.
Le crisi demografiche (di cui la più significativa sembrerebbe essere quella che è
da registrare, in coincidenza con le incursioni e le razzie dei saraceni, nel IX secolo)
282
SABATINI F., Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia mediana e meridionale, in
Atti e Memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colombaria, Vol. XXVIII (n.s. XIV)
1963-1964, Firenze 1964, pp. 123-249, specialmente da pag. 153 e segg. Il Sabatini in nota (a pag. 153),
dopo aver riepilogato che “sono sostanzialmente d’accordo, su ciò, il MEYER-LUBKE, il BEZZOLA, il
MIGLIORINI e il WARTBURG”, riporta ben a proposito che “per le attestazioni di sala nelle carte
longobarde (oltre che nell’Editto di Rotari, capp. 133 e 136) cfr. … per l’Italia meridionale A. LIZIER,
L’economia rur. dell’età prenormanna nell’It. Mer., Palermo 1907, 5 sgg. Nel Glossarium Cavense
(MGH, Leg. IV, 656), di provenienza beneventana, compilato intorno al 1000, sala è spiegato senz’altro
con domo in curte facta”.
283
Si vedano i più volte citati lavori di BOZZA F.
assai frequenti, seppur con effetti relativamente modesti in quanto andavano, del resto,
ad inserirsi in un quadro di depressione generale già grave, servivano a rendere
improbabili le possibilità di ripresa, oltre che più complicata e difficile una situazione,
nelle geografie antropiche, di per se assai cupa.
Eppure, il prodotto finale di lungo periodo, nonostante rappresenti il risultato di
fasi fortemente statiche, almeno apparentemente e solo nella misura riconducibile alla
mancanza di documentazione, nel loro divenire, mostra cambiamenti tali che, almeno
rispetto a quei periodi precedenti che avevano visto una maggiore presenza umana sul
territorio, evidenziano inequivocabili i segni di ‘cancellazioni’ assai profonde.
La mancanza, quasi totale, di documentazione, frutto anch’essa di ‘cancellazioni’,
che talvolta furono realizzate inconsapevolmente (come dovettero probabilmente essere
quelle operate dagli arabi) e, nel ribollire dei veloci cambiamenti determinati dalla
generale situazione di debolezza politica che caratterizzò il ‘principatus’ longobardo
quando entra in contatto con i Franchi, assai spesso volute con consapevolezza da quella
parte che, al momento, era la vincente, di certo non rende agevole la ricostruzione del
dettaglio del prodotto finale riferibile all’area limosanese. Sembra, tuttavia, poterne dare
un cenno di lettura, che, relativamente alla geografia umana della seconda metà del IX
secolo, evidenzia l’emergere lento di un insediamento ‘nuovo’, Musane, nell’attuale sito
di Limosano, contemporaneamente con l’abbandono del centro abitato di Biferno
(precedentemente, Tiphernum) posizionato a Cascapera. Nel territorio, che, in quanto
tale insediamento di Musane mantiene la sede sia di un gastaldato-contea e sia di una
diocesi (probabilmente di rito greco-bizantino o, nel migliore dei casi, con due distinti
episcopi284), è possibile riferire ad esso, oltre al monastero di S. Angelo in Altissimis,
284
Sulla possibilità della contemporanea presenza di due (o, forse, anche più) vescovi sulla stessa sede
vescovile si veda (ma vi è anche una traduzione italiana, con prefazione, di GUARINI G.B., Le diocesi
d’Italia dalla metà del X fino a tutto il XII secolo, Melfi 1908) GRONER A., Die Dioezesen Italiens von
der Mitte des 10. bis zum Ende des 12. Jahrhunderts, Diss. Freiburg 1904.
Relativamente alla condizione delle chiese di Limosano di essere state ‘cattedrali’, si riporta parte di un
articolo di BOZZA F. (La decadenza di Limosano: quali i motivi?), consegnato nel 2001 alla redazione
del periodico “Provincia Notizie” di Campobasso, ma rimasto inedito: “[…]. Ma il ‘fatto’, singolarissimo
e che propone allo storico dubbi e difficoltà, riguarda la impossibilità a ricostruire la ‘vera’ sede della
“maior ecclesia” della Diocesi di Limosano.
Che la “Chiesa Arcipretale Matrice, sotto il titolo, e Vocabolo di Santa Maria Maggiore in Cielo Assunta
di questa antica Città”, sia stata l’antica (o la più antica) Cattedrale, oltre alle fonti più classiche ed alla
più consolidata e documentata tradizione, lo dicono i cennati documenti dell’Archivio Vaticano, quando
riferiscono che: 1) “è tuttora chiamata Chiesa Vescovile e Vescovato”, 2) “ivi si trova il libro che si
chiama libro pastorale”, 3) in essa vi sono “le mitre vescovili, i pastorali, l’anello, i rocchetti (arochetas),
il bacolo (tipico del rito greco) e due cattedre di cui una è di legno e l’altra in pietra” e, da ultimo, “tutto
il Clero della Terra di Limosano, ossia i Chierici di Santo Stefano, di San Paolo e delle altre Cappelle di
quella Terra, vanno alla Chiesa di Santa Maria specialmente nelle festività della Vergine ad officiare…
ed il popolo della predetta Terra va a tale Chiesa ad ascoltare gli uffici divini e la onora come la Chiesa
maggiore e quella Vescovile”.
Ma, se, come sembra, ciò è vero, che valore deve riferirsi a quella “antica pietra quadra di piano, ab
antiquo lavorata”, posta, ancora nel 1743 (ma poi andata distrutta), “sopra l’arcotrave di detta (della
Chiesa di S. Stefano) antica Porta, in mezzo, e sotto l’arco di pietra, infra detto arco, ed arcotrave,
lavorato detto arco, come sopra, con cornicioni e fogliami…, con iscrizzione antica intagliata, e scolpita
à scalpello, e puntillo, in mezzo della quale, vi è un fogliame à guisa d’una rosa”? Essa, riportando, tra
l’altro, che “HUIUS ECC: EPISCOPALIS AEDIF: URBIS”, dava una indubitabile prova del fatto che
dipendente da S. Sofia di Benevento, sono esistenti il casale della ‘Sala’ (cui fanno
riferimento i tre complessi della Maccla bona), che evolverà in Castelluccio di
Limosano, ed, oltre ad un diffuso eremitismo di matrice greco-bizantina (S. Vittorino),
le evidenze, assai probabilmente ‘basiliane’, cenobitico-monastiche di S. Illuminata, di
S. Silvestro e di S. Martino.
Il fatto che, ai fini di una ricostruzione storica che non sappia di superficialità, non
si possa più prescindere dalla “identificazione, verso la metà del X secolo (nota: ma il
riferimento temporale deve essere spostato in avanti di qualche secolo), del territorio
diocesano beneventano (nota: che va ricompreso nell’area soggetta alla giurisdizione
della organizzazione ecclesiastica bizantina285) con quello politico del principato
espressa chiaramente in una lettera di Agapito II del marzo 947 (a)” 286, combinato con
l’accertata e sicura presenza ad Otranto, in periodo di tempo precedente la seconda
bizantinizzazione, di un “vescovo iconoclasta”287, suggerisce di dare uno sguardo sia al
problema del rapporto difficile, quando non fatto di vere e proprie contrapposizioni con
scontri, tra le gerarchie della cristianità orientale e quelle della cristianità ‘romana’ sul
territorio dell’Italia centro-meridionale, nel quale le prime avevano diffusione, e sia
all’altro, non meno importante, della quantificazione, proiettata nel lungo periodo, di tali
gerarchie. Ricollegabile ad entrambi è, da ultimo, anche quello del come furono vissute
anche la Chiesa di S. Stefano dovette essere Cattedrale. Oltre a tale testimonianza, alcune “riviste” e
ricerche fatte (o ordinate) dall’Orsini durante il XVIII secolo tendevano a dimostrare essere stata (o essere
ancora in quel periodo?) anche tale Chiesa la Cattedrale della Diocesi limosanese.
E, da ultimo, come spiegare il contenuto di quella “fides publica”, del 19 Aprile 1755, con la quale “In
publico Testimonio costituito il Mag.co Domenico Amoroso… di sua età di anni novantatre in circa, come
ha detto, e dal suo aspetto apparisce, spontaneamente have asserito, come in tempo di sua figliolanza, e
poteva allora essere da circa sedici anni (e quindi, prima del 1680), che il Convento, ora di San
Francesco… non veniva abitato da Monaci, ma stava senza nessuno… ha conosciuto, e veduto in detta
Chiesa, che vi erano quantità di altari per tutte le mura, le quali poi li fece levare la buon Anima del
Cardinale Orsini Arcivescovo di Benevento, e soli tré ce ne fece restare, come si vedono oggi; ed in detta
Chiesa, ci ha conosciuto, veduto, e toccato con le sue mani la Catedra, ò sia la Sedia dell’antico
Vescovo, con la sua Cupola, e Crocetta sopra, tutta lavorata, scorniciata, intagliata, et indorata,
fatta ad otto angoli, e stava sotto l’arco della Sagristia sopra la Sepoltura delli Vescovi morti, avanti
al quale arco, vi era un parapetto di pietra, alto da circa tre palmi…; ma poi essendo venuti li Monaci
in detto Convento, ed il primo Guardiano fù Frà Francesco Mancinelli d’Agnone…, ed arrivati
questi, posero in polito la Chiesa,… […]. Ed ha soggionto che la porta, e facciata avanti della Chiesa di
detto Convento, come presentemente si vede tutta di pietre lavorate fine, con cornicioni, colonnette, e
lioncini dimostra essere porta di Vescovado, anzi sopra la finitora di detta porta, sopra il cornicione vi
era un Angiolo grande di pietre benfatto, che faceva cima, con un incensiero di pietra in mano, e lo
detto primo Guardiano Mancinelli lo fece levare,… “?
Sulla contemporaneità di più vescovi sulla stessa diocesi di Limosano, anche se relativamente al secolo
XII, si veda del citato BOZZA F., Limosano: Questioni di Storia.
285
Il PRATESI (Note … cit.) fa, in merito, sue le conclusioni del fondamentale studio del KLEWITZ,
anch’esso (v. nota 57) citato.
286
PRATESI A., Note … cit., pag. 21, in nota. Il Pratesi indica, come fonte, JAFFE’ Ph., Regesta
pontificum Romanorum ab condita Ecclesia ad annum post Christum natum MCXCVIII, ed. II, Lipsiae
1885, 3636.
287
FALKENHAUSEN (Von) V., La dominazione … cit., pag. 8. La Falkenhausen riprende la notizia da
DVORNIK F. (La vie de Saint Grégoire Décapolite et les Slaves Macédoniens aux IX siècle, Paris 1926,
58), precisando che “l’editore data questo incontro (nota: tra S. Gregorio Decapolita ed il vescovo
iconoclasta di Otranto) agli anni ’30 del IX secolo”, quando era acuta la seconda fase dell’iconoclasmo.
nello specifico di tale territorio le dispute relative alle tematiche dottrinali e teologiche
(oltre ai tanti scismi, provocati dai contrasti ai vertici, e non solo).
Non era cosa impossibile, e neppure rara, che, come a Roma o a Bisanzio, potesse
avvenire anche nelle specificità locali di un ambito diocesano ridotto che gli esponenti
intermedi delle gerarchie, seguaci di una dottrina anziché di un’altra, di un antipapa
anziché del papa più o meno legittimo (o, se ‘bizantino’, di un patriarca anziché di un
altro), di una ritualità confessionale-liturgica anziché di un’altra, tenessero ad affermare,
ciascuno per la propria parte, la visibilità fisica in contrapposizione a quella della ‘parte’
avversa. In tali casi, la presenza contemporanea serviva solo ad acuire i contrasti.
Senza scendere nel particolare (che è cosa non certo facile a farsi), vale la pena,
per cogliere le difficoltà, di porsi qualche domanda: la questione dell’Henotikon, se fu
sentita in Sardegna e nel Veneto288, come fu vissuta nello specifico della diocesi di
Tiphernum? e come vedevano schierati gli esponenti del clero di tale diocesi le grandi
questioni cristologiche e trinitarie? e le lotte, senza esclusione di colpi, tra iconoclasti ed
iconoduli come si concretizzavano nello specifico dell’ambito territoriale del “galo
nostro Biferno”? e le conclusioni dei ‘Concili’ come venivano trasferite nelle realtà
locali? o le resistenze (e anche le opposizioni) a quelle come si concretizzavano? le
vicende dei tanti antipapi, così come le lunghe vacanze di sede, quali effetti avevano? e,
una per tante, come si visse la condanna (terzo concilio di Costantinopoli del 680) di
papa Onorio I (625-638) “per eresia”? e, appunto, le ‘eresie’ quale e quanta diffusione
ebbero sul territorio e nelle piccole realtà locali? e le vicende dei papi (basti pensare a
Marozia) con concubine, dalle quali avevano figli, che, poi ed a loro volta, diventavano
anch’essi papi, quale impatto avevano? ed, infine, come poté essere vissuto il periodo
seguente al 897, anno in cui “Papa Stefano VI … adunò un Concilio, e fatto disumare il
cadavere di Papa Formoso (nota: morto l’anno prima), lo fece condurre al Concilio, e
mettere come a sedere colle vesti Pontificali, … Quindi lo condannò, lo fece spogliare
degli abiti sagri, fecegli tagliare tre dita, colle quali date avea le benedizioni, indi tagliar
la testa. Dopo ciò, lo fece buttare nel tumulo di un pellegrino, ed indi gittar nel Tevere.
Dichiarò irrite, e nulle tutte le Ordinazioni da lui fatte, per così riempire la Chiesa di
turbamenti, e confusioni”289?
La difficoltà, conseguente spesso alle cancellazioni coeve o collegate ai fatti che
seguirono alle vicende di contrasti e di contrapposizioni, a rispondere a tali (ed a tante
altre simili) domande non sta certo a significare che quelle vicende non si vissero o che
non ebbero a manifestare effetti anche nelle realtà più o meno piccole.
E mentre “le divisioni dell’impero tra i successori di Carlo Magno nel IX secolo
mutarono rapidamente la situazione” dell’impero stesso e mentre “verso la fine del IX e
del X secolo si può già parlare di una decadenza del governo imperiale in Occidente”, “a
nord delle Alpi si stava formando, nel territorio germanico-orientale, una nuova struttura
statale: lo stato tedesco medioevale sotto i re di Sassonia, che poi vengono ad assumere
la successione nell’impero d’Occidente e col tempo acquisirono una posizione di
egemonia”290. E, mentre la parte centro-meridionale dell’Italia rimaneva di fatto sotto il
288
V. GUILLOU A., L’Italia… cit.
DI MEO, Annali…, ad annum 897.
290
FINK K. A., Chiesa e… cit., pag. 24 e seg.
289
controllo bizantino (la residualità longobarda, indefinita, era solo apparente, se non
proprio funzionale ad esso), “l’espansione dello stato germanico in Italia centrale venne
ufficializzata nel 951 con la proclamazione a re d’Italia del sovrano germanico Ottone I.
Alcuni anni più tardi, nel febbraio del 962, Ottone fu incoronato a Roma dal papa come
imperator e i rapporti tra Oriente ed Occidente furono turbati dalla volontà del sovrano
germanico di riunire sotto il proprio governo tutte le regioni d’Italia”291. Ma i tentativi di
penetrazione da parte sia di Ottone I (969-970) che di Ottone II (982) in territorio
bizantino portarono a modestissimi risultati.
Poiché il ‘tema’ di Langobardia risulta menzionato per la prima volta in un atto
dell’892292, risulta facile pensare che esso, come tale sentito e considerato dai vertici del
potere bizantino ancora verso la metà del X secolo, rappresentasse non solo uno
strumento politico (che, per la cultura bizantina, è anche religioso) di presenza e di
controllo del territorio, ma anche, e forse più, la codificazione e la presa d’atto di una
situazione che veniva da lontano. Cosa che ben giustifica il fatto come “i tre principati
longobardi, Salerno, Benevento e Capua (gli ultimi due generalmente soggetti a un unico
principe), come i tre ducati campani, Napoli, Amalfi e Gaeta, riconoscessero, in linea di
principio, la sovranità bizantina”293 e non quella dell’imperatore d’Occidente. E, volendo
291
CHRYSOS E., L’impero bizantino, Milano 2002, pag. 130. “Fin dalla sua ascesa al trono nell’867,
Basilio I si sforzò di ristabilire i rapporti di Bisanzio con la chiesa di Roma, turbati dalla deposizione del
patriarca Ignazio e dalla salita di Fozio al trono patriarcale. […]. La deposizione di Fozio nell’867 creò le
condizioni per normalizzare i rapporti di Bisanzio con la Chiesa di Roma e per creare un fronte cristiano
contro le invasioni arabe. I successi di quegli anni contro gli arabi rendevano l’impero bizantino forte
antagonista delle tendenze espansive dei franchi in Italia ma i principi cristiani d’Italia e i bizantini si
allearono e nel 915 le loro forze vinsero gli arabi al fiume Liri arrestandone l’avanzata.
Tra il 915 e il 962 la politica bizantina in Occidente è caratterizzata da grande attività diplomatica mentre
Costantinopoli opera per equilibrare le relazioni con i sudditi latini dell’impero. A questo fine si stipulano
alleanze con i principi occidentali e vengono conclusi diversi matrimoni tra principesse bizantine e
membri delle case regnanti d’Occidente. […]. Questi matrimoni dinastici, veri e propri «scambi
matrimoniali», erano accompagnati da accordi scritti di alleanza e d’impegno di aiuto”(pag. 128 e seg.).
292
FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 56. Anche se la Falkenhausen accusa di “contenuto
ambiguo” il famoso passo del “De administrando imperio”, che rappresenta “una sorta di manuale di
governo scritto fra il 948 e il 952 dall’imperatore Costantino Porfirogenito”, pure, a pag. 57, scrive che “il
‘tema’ di Langobardia non era solo la provincia direttamente amministrata dallo stratego di Bari, ma
comprendeva anche i principati longobardi di Benevento, Salerno e Capua e i ducati campani di Napoli,
Amalfi e Gaeta, governati da propri principi e duchi indipendenti, di fatto, da Costantinopoli”.
293
FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 58 e seg. “Tale riconoscimento veniva espresso in
alcuni stati, a esempio Napoli e talvolta anche a Benevento, attraverso la menzione del nome
dell’imperatore e dei suoi anni di governo nella datatio degli atti pubblici e privati”.
A questo punto e se è vero che “l’imperatore d’Oriente nella titolatura ufficiale concepisse l’idea di un
‘tema’ di Langobardia includente tutta l’Italia meridionale con la sola eccezione della Calabria”, non
sembra possibile condividere l’esigenza della Falkenhausen, secondo la quale “lo storico moderno deve
ben distinguere tra il ‘tema’ di Langobardia strettamente sotto il controllo dell’amministrazione bizantina
e gli stati periferici, più o meno legati all’impero, a seconda della situazione politica del momento”.
Una tale esigenza di distinzione “ad escludendum”, come quella di voler in tutti i modi fissare i confini (da
questa parte è mio e di là è tuo), appartiene a categoria mentale e logica formatasi in periodo di tempo
posteriore.
Sul fatto, poi, che la sovranità bizantina sui territori longobardi non fosse cosa solo “di principio”, ma
‘reale’, vale la pena di sapere (v. ivi, pag. 61 e seg.) che “Ottone I intanto, nell’intenzione di ricostituire
l’impero carolingio, assunse anche le pretese sull’Italia meridionale, e già nel 966 ricevette l’omaggio dei
proprio applicate alla realtà del X secolo categorie storico-mentali successive, se pure si
tiene che la provincia bizantina del ‘tema’ di Langobardia ‘confinava’ con il principato
di Benevento294, risulta “difficile stabilire con precisione il tracciato delle relative
frontiere. Mancano, infatti, per i secoli X e XI, fonti che indichino con sicurezza dove
finiva il territorio bizantino e dove invece cominciava quello longobardo, ma
possiamo presumere che i confini fossero alquanto mobili e che cambiassero di
frequente”295.
Ma in un tale scenario come si inserivano le attività della politica del Papato e, sul
territorio, quelle delle relative, e connesse, istituzioni secolari e regolari? Per dare una
risposta, occorre premettere che la ricerca, finalizzata alla visibilità del proprio ruolo, di
autonomia dall’impero bizantino, sfuggita di mano e ad ogni controllo, è all’origine di
una situazione di generale disordine, caratterizzata da elezioni papali sostanzialmente
determinate dai rapporti di potere e dalle lotte tra le grandi famiglie dell’aristocrazia. E’
ciò tanto vero che “una grande quantità di elezioni vescovili contese, di consacrazioni di
vescovi di Roma avvenute senza richiedere l’approvazione dell’imperatore, di tumulti,
violenze, destituzioni e atrocità in luoghi sacri (sinodo col cadavere di Formoso)
caratterizza le condizioni del IX secolo”296. Che sostanzialmente rimasero tali per il
secolo seguente ed anche oltre, se “dalla prima spedizione in Italia di Ottone I (962) fin
verso la metà del secolo successivo si protrasse l’insicurezza della situazione”297.
Ne deriva che la patrimonialità dei grandi complessi monastici e delle istituzioni
mirava, prima di tutto, a stabilire la ‘riconquista’ del territorio. E, dopo l’inserimento,
serviva ad affermare la forza di una, anziché di un’altra, delle parti in lotta.
“La politica aggressiva degli imperatori sassoni ebbe ripercussioni notevoli anche
sul sistema ecclesiastico dell’Italia meridionale: nel 966, per ordine di Ottone I, il papa
promosse ad arcivescovo Giovanni, vescovo di Capua, fratello di Pandolfo Capodiferro
e titolare della sede di uno dei capoluoghi del principato; la promozione ad arcivescovo
del vescovo di Benevento seguì nel 969”298. Le sin troppo evidenti finalità politiche di
tali atti, tesi a stabilire un controllo ‘occidentale’ sui territori soggetti all’influenza
bizantina, sono abbondantemente confermate dalla coevità della risposta dell’imperatore
principi di Capua e Benevento, che da decenni tentavano di sottrarsi al dominio bizantino. […]. Due anni
dopo, egli mandò come legato a Costantinopoli il vescovo di Cremona, Liutprando, che doveva trattare
con il basileus essenzialmente su tre punti: riconoscimento della dignità imperiale di Ottone, matrimonio
del figlio omonimo e co-imperatore di Ottone con una principessa porfirogenita; dominio sull’Italia
meridionale”. Come noto, su nessun argomento fu trovato accordo, ma della missione resta la “Relatio de
legatione Constantinopolitana” scritta dal vescovo di Cremona.
294
A titolo di esempio, si vedano, relativamente all’affannosa e deviante indicazione dei confini lungo il
fiume Fortore, tra tanti: CORSI P., Le diocesi di Capitanata in età bizantina: appunti per una ricerca, in
AA.VV., Ricerche di storia abruzzese, Chieti 1986, pp. 42-90; e il più classico BORSARI S., Aspetti del
dominio bizantino in Capitanata. A tal riguardo, il Borsari, che pure accenna al tema dell’attività fondiaria
delle grandi abbazie, scrive che “questo fiume rappresentò l’estremo limite dell’impero: solo per brevi
periodi la sua autorità si affermò al di là di esso, almeno se dobbiamo attribuire un qualche significato alla
datazione di alcuni documenti del basso Molise”.
295
FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 58.
296
FINK K. A., Chiesa e… cit., pag. 25. Si pensi semplicemente agli effetti posti dalla “questione della
legittimità di papi che giunsero al governo due o anche tre volte”.
297
FINK K. A., Chiesa e… cit., pag. 26.
298
FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 79.
Niceforo II, il quale ordinava al patriarca di Costantinopoli “di promuovere Otranto a
sede metropolitana preponendola ai nuovi vescovadi di Acerenza, Tursi, Gravina,
Matera e Tricarico (968)”299. Anche se i dubbi sollevati dal documento n. 5 della nota 17
(vedasi) e, di più, dal fatto che i 24 vescovi suffraganei, tra cui anche l’Episcopus
Limosani, della porta di bronzo (nella quale “la situazione delle figure è anche alla
Greca, cioè, che quella dell’Arcivescovo è alla parte sinistra della porta, …”) della
cattedrale di Benevento “tutti sono colle casole Greche, e ciascheduno col suo pallio
lungo, come lungo è anche quello dell’Arcivescovo”300, farebbero propendere per il
contrario, va detto che, nonostante “non risulta che le diocesi latine cambiassero rito” e
la storiografia sostenga che “non trova rispondenza nella realtà l’asserita proibizione del
rito latino nell’Italia meridionale”301, restano da valutare gli effetti di quella coeva
decretazione, riferita da Liutprando, da parte del basileus, che (“nec permittat in omni
Apulia seu Calabria Latine amplius, sed graece divina mysteria celebrare”) andava
proprio nella direzione diametralmente opposta302.
E nel disegno, con cui il Papato mira ad inserirsi nelle zone di influenza bizantina
e ad annodare i legami con il clero di quelle regioni 303, risultano attivamente inserite le
grandi abbazie.
Al riguardo, in altro lavoro, già si notava come la simultaneità di certe date rende
difficile dire se una tale opzione politica del Papato e del Clero secolare rappresentasse
essa la risposta ad una ‘diversa strategia’ da parte del potere civile dei Principi
beneventani (nella cui orbita ruotavano tanto la media valle del Biferno che quella del
Fortore) messa in campo «per accrescere il controllo del territorio» allorché «dal 961 al
981 Pandolfo, consapevole della dilagante predicazione benedettina con i suoi assunti,
moltiplicò le donazioni pro remedio animae a favore delle comunità monastiche le quali
divennero delle vere e proprie imprese di trasformazione fondiaria…». Oppure sia
accaduto il contrario e, cioè, che la nuova politica, favorevole all’espansione del Clero
regolare da parte del Principato, abbia rappresentato, per ridimensionare le pretese dei
299
FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 79.
SARNELLI P., Memorie … cit., pag. 107. Moltissimi, del Sarnelli, i riferimenti al rito greco praticato
dall’Episcopato della “Provincia Beneventana”. Sul fatto, poi, che questa fosse tanto ‘civile’ che
‘religiosa’ lo dimostra il fatto che (v. pag. 58) “il Vescovo Beneventano, sì per ragione della sua Città ab
antico Metropoli del Sannio, degna di prerogative sopra le Città inferiori, giusta i canoni Apostolici,
Niceni, ed Antiocheni; sì per ragione delle Città soggettegli da Papa Vitaliano infin dall’anno 668; sì
per la dichiarazione di Agapito II nel 946, che determina spettare al Vescovo Beneventano tutte le
Chiese della Provincia non solo, ma eziandio del Principato, è finalmente nel 969, …, istituito
Arcivescovo Metropolita come dalla bolla sub datum VII Kal. Junij (= 26 Maggio)”.
301
FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 79.
302
LIUTPRANDO da Cremona, Liutprandi Relatio de legatione Constantinopolitana, in Die Werke
Liutprands von Cremona, ed. BECKER J., in MGH, Scriptores in usum scholarum, Hannover-Leipzig
1915, cap. LXII, p. 209.
303
Notevoli ed importanti, ai fini di una ricostruzione veritiera, per i secoli X ed XI, delle dinamiche
politico-religiose nell’area beneventana, i citati lavori di: 1) KLEWITZ H.-W., Zur Geschichte der
Bistumsorganisation Campaniens und Apuliens im 10 und 11 Jahrhundert, in Quellen und Forschungen
aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XXIV (1932-33) e 2) PRATESI A., Note di diplomatica
vescovile beneventana. Parte II. Vescovi suffraganei (secoli X-XIII), in Bullettino dell’Archivio
Paleografico Italiano, n.s., I (1955).
Relativamente all’area limosanese, si veda, da BOZZA F., Limosano: Questioni … cit., il paragrafo 3.3.
300
vescovi (che, in virtù della potestà accordata al nuovo ‘arcivescovo’ ut fraternitas tua et
successorum tuorum infra suam diocesim in locis quibus olim fuerant sempre in
perpetuum episcopos consacret, qui vestre subiaceant ditioni, si stanno riappropriando
delle sedi episcopali delle ‘civitas’), una scelta troppo obbligata in seguito al nuovo
atteggiamento dei Pontefici.
E, se, a questo punto, cogliere la cronologia delle motivazioni politiche non è
affatto semplice, di contro risulta relativamente assai facile ricostruire i fatti che ebbero
ad interessare i monasteri dell’agro limosanese e, nello specifico, il ‘cenobio’ di S.
Illuminata. Quest’ultimo, subito dopo che, rompendo delicati equilibri, si è inserito
(schierato dalla parte del Papato) nello scontro anche il Monastero di Montecassino, al
quale nel mese di settembre 972 «oblatae sunt… tres ecclesiae in Lumisano, id est
Sancta Maria, Sanctus Petrus et Sanctus Benedictus in loco Maccla bona, cum
omnibus rebus et pertinentiis earundem ecclesiarum», viene assoggettato dal Principe
Pandolfo alla giurisdizione dei Monasteri di S. Eustasio (o Eustachio) e di S. Elena,
situati nel contado di Pantasia (si notino i nomi ‘greci’), sin dalla data di fondazione di
questo secondo (“ab ipso suae constructionis exordio”), che risale al 976.
Ma l’evolvere delle condizioni politiche in atto porta al rapido passaggio (una
prima ‘oblatio’ dovette sicuramente essere anteriore al 1066, se è vero che la porta di
bronzo del Monastero cassinese, sulla quale [Pannello XII – II Valva] risultava inciso il
nome del monastero limosanese, veniva realizzata proprio in tale anno a Costantinopoli)
del cenobio di S. Illuminata dalla giurisdizione beneventano-bizantina a quella cassinese.
Tale passaggio si realizzava tra mille contrasti e non fu di certo indolore. Come dimostra
con assoluta evidenza il seguente brano del Chronicon Cassinense (IV, 34):
«Sed et Johannes, Triventinae sedis episcopus una cum Robberto filio Tristayni (a:
Trostayni in charta ap. Catt<ola>. Hist. P: 421. Limosani situm est in com. Molise, ad
Bifernum) Limessani castri domino, optulit huic loco ecclesiam sanctae Illuminatae
infra fines praedicti castri Limessani, loco ubi dicitur Petra majore, cum omnibus
ecclesiis et pertinentiis suis, pena indicta centum librarum auri id removere
quaerentibus.
Notandum plane videtur, nequitiam et fraudolentiam Alferii Triventinatis episcopi
(b: Jam anno 1084 episcopus fuit; v. DI MEO Ann. Ad h. a.) hoc in loco inserere. Hic
enim, dum praepositus in eadem beatae Illuminatae ecclesia esset, sciens supradictam
ecclesiam monasterio Sancti Eustasii ab ipso suae constructionis exordio subditam, et a
Beneventanis principibus in eodem loco concessam, simulque cupiens eam a dicione
eiusdem monasterii subducere, accessit ad praepositum qui tunc monasterio praeerat,
eumque rogare suppliciter coepit, ut sibi cartas eiusdem loci ostenderet, dicens suae
haereditatis cartas ibidem esse repositas: orare ut sibi illas exinde auferre permitteret,
ne forte temporis vetustate perirent.
Praepositus autem nullum in verbis eius dolum existimans, dat ei et perquirendi et
adsportandi licentiam.
Tandem igitur inter reliquas praeceptum a Beneventanis principibus de ecclesia
Sanctae Illuminatae monasterio sancti Eustasii factum invenit; quod videlicet lucide
satis et aperte continebat, qualiter ecclesia illa a suae constructionis principio
monasterii beati Eustasii a Beneventanis principibus tradita fuerat. Huius illa ductus
invidia et iniqua nebriatus vesania, rapuit, abscondit et ad domum propriam reversus
illud minutiam incidit.
Haec ita acta fuisse ego ex ore Alberti huius nostri Coenobii monachi ultimam fere
jam aetatem agentis audivi, ne quis hoc existimet mendose descriptum».
Quali gli interessi (che spiegano bene i motivi per i quali, relativamente al periodo
che precede quella data, non rimane ‘carta’ alcuna) celati dietro a tali comportamenti,
che, mossi ed ispirati solo (si fa per dire) da ‘nequizia e fraudolenza’, avevano per
evidente obiettivo il cambio di giurisdizione del Monastero di S. Illuminata? Facile e
senza dubbio alcuno immaginare la risposta a tale domanda.
Sembra appena il caso, per capire quali e quante potessero essere le complicità e
da quale parte esse fossero, di aggiungere che l’autore di questa cancellazione, Alferio,
verrà successivamente premiato con l’essere nominato vescovo di Trivento” 304. E viene
da chiedersi su chi fosse quest’Alberto monaco e da quale parte fosse ‘schierato’.
Ovviamente, come tante volte, resta impossibile rispondere; pur tuttavia, sappiamo che
304
BOZZA F., Limosano: Questioni … cit., cap. III. Dell’annotazione di PIETRO DIACONO riprendiamo
(v. pag. 76 in nota) la “superficiale traduzione” da BOZZA F., Limosano nella Storia, citato:
“[…]. E’ da notare che sembra essersene appropriato di questo luogo la cattiveria e la fraudolenza di
Alferio vescovo di Trivento. Infatti ivi, mentre era il preposito nella stessa Chiesa della Beata Illuminata,
sapendo che la suddetta chiesa era soggetta al Monastero di S. Eustasio sin dall’anno della sua
costruzione (= di quest’ultimo) e che era stata concessa a questo stesso luogo dai principi Beneventani, e
desiderando di sottrarla dalla giurisdizione di questo monastero, si presentò al preposito che lo aveva
preceduto al Monastero, iniziò a supplicarlo acché gli mostrasse i documenti di quel luogo, dicendo che vi
erano conservate anche le carte della sua eredità: lo pregò di consentirgli di prenderle affinché non si
perdessero per la forte vecchiaia del tempo.
Ritenendo, quindi, il preposito non esservi dolo nelle sue parole, gli concede il permesso di cercarle e di
portarle via.
Quindi tra i documenti trova l’atto di autorizzazione da parte dei principi Beneventani per mezzo del quale
fu assegnata al Monastero di S. Eustasio la Chiesa di S. Illuminata, il quale atto con bastante chiarezza ed
apertamente conteneva che detta Chiesa era stata concessa al Monastero del Beato Eustasio dai principi
Beneventani dal principio della sua costruzione. Egli, furente d’invidia ed ubriaco di iniqua follia, rapì il
documento, se lo nascose e, tornato a casa propria, lo strappò minutamente.
Che questi fatti così siano andati lo appresi dalla bocca di Alberto monaco di questo nostro Cenobio,
quando era già avanti negli anni, [e li riportiamo] affinché nessuno ritenga che quanto riportato sia
falso”.
Occorre aggiungere che, oltre alla documentata presenza del monastero beneventano di S. Sofia nell’area
del territorio riferibile a Limosano (con il controllo delle strutture cenobitico-monasteriali di S. Martino
Vescovo e di S. Croce), anche il monastero di S. Vincenzo al Volturno, seppur con gli ovvi contrasti tra
longobardi e franchi (si notino i nomi dei partecipanti e dei contendenti), tentava il suo inserimento.
Riferisce, a tal riguardo, il Di Meo (ad annum 897) che “appartiene a quest’anno, non al precedente, come
credé il Muratori, un Placito tenuto da Lodovico Castaldo, coll’assistenza de’ Castaldi Telberto, e Otilone,
il Giudice Guideriso figlio di Bernardo, Rodefrit, e Rodelpoto figli di Rofrit; Grimoaldo figlio di Rotone,
Zottone figlio di Clafone, e Audoaldo figlio di Trasaro. In esso Maione, Abbate di S. Vincenzo al
Volturno, fece istanza contra il Chierico Bernardo, figlio di Bernardo, che usurpato avea il Monistero di S.
Maria di Castagneto, vicino Piniano. Il Chierico rispose che lo aveva ottenuto dal Palazzo, cioè per
concessione del Principe. Insisté l’Abbate, che il Principe non potea darlo; e ch’essendo stato quel
Monistero fonadato dalla Duchessa Teodorada, ella, e ‘l duca Gisolfo suo figlio lo avevano donato a S.
Vincenzo. Il Chierico fece istanza, che l’Abbate provasse quest’assunto; ma non avendone l’Abbate
alcuna scrittura, ed essendo tal fatto di più di 150 anni addietro; secondo il costume, giurarono cinque
Monaci, che tale era il fatto, e fu data vinta la causa all’Abbate”.
il cenobio di S. Illuminata fu interessato dalla ‘riforma’ “S. Brunonis nostri causa”,
ampiamente diffusa in area calabrese e, quindi, incontestabilmente greco-bizantina.
Ed, a proposito di cancellazioni, resta, considerato che i sistemi per praticarle
potevano essere i più impensabili, solo doveroso domandarsi sul numero e sugli effetti
che esse ebbero a produrre. E rimane, poi, da chiedersi se siano possibili le ricostruzioni
delle situazioni vere e reali, riferibili tanto alle micro storie così come alla macro Storia,
precedenti ad esse. O, che è la stessa cosa, più che i prodotti finali sarebbe interessante
poter conoscere le situazioni intermedie.
LIMOSANO: Ricostruzione della probabile estensione della diocesi. Nel ‘Processus’
vengono riportati i “castra et ecclesie dicte dioecesis, uidelicet terra Limosani, castrum
sancti Angeli, castellucium de Limosano, ripa Limosani que uocabatur Ripa comitis cum
casali sancti Stephani de Ripa, castro Pimanum cum baronia sua, Fossaceta cum
casalibus suis, Camelum, Gobacta, Raytinum cum rocca Racini, castrum Montis Agani,
Colli rotundus, Pretella cum rocca, castrum de Lino Ferraria, castra Petra (ma leggasi:
casca pera) Ideo castrum Iohannis Fulconis Torella, Molisium, Serra Graffida cum
sancto Alexandro, Collis altus et Capiletum” (= nel quale erano indicati i siti e le chiese
della detta diocesi, ossia la terra di Limosano, il castello di sant’Angelo, castelluccio di
Limosano, ripa <di> Limosano che si chiamava Ripa del conte col casale di santo
Stefano di Ripa, castro Pimano con la sua baronia, Fossaceta con i suoi casali, Cameli,
Covatta, <O>ratino con la rocca di Racino, il castello di Monte Agano, Collerotondo,
Petrella con la rocca, castro di Lino Ferrara, cascapera vale a dire il catello di Giovanni
Falcone Torella, Molise, Serra Graffida con sant’Alessandro, Collealto e Campolieto).
Particolare della ‘cripta’ della chiesa di S. Maria Maggiore (ora, del Rosario), che, in
epoca medievale fu la chiesa ‘Cattedrale’ della diocesi di Limosano.
Ancora nei primi anni del ‘300 ci fu chi poteva testimoniare di aver visto in quella
stessa Chiesa le mitre vescovili, i pastorali, l'anello, i rocchetti (in ipsa Ecclesia mitras
Episcopales pastorales anulum arochetas), il bacolo (baculum) e due stalli di cui
uno è di legno e l'altro di pietra (et duas sedes quarum una est de ligno et alia
lapidea).
CAPITOLO III: La egemonia del Papato e le lotte per il ‘potere’
3.1 – Il culto latino dopo lo scisma del 1054
“Per l’impero lo scisma fu tutt’altro che un evento positivo, in quanto coinvolse in
modo irreversibile le sorti dell’Italia meridionale facilitando il definitivo assestarsi della
dominazione normanna nella penisola. A seguito dello scisma, infatti, svanì ogni
possibilità di intesa tra Roma e Costantinopoli in funzione antinormanna, proprio mentre
i rapporti, anche culturali, tra la provincia bizantina d’Italia e l’Oriente andavano sempre
più rarefacendosi. Si accelerò per contro il processo di avvicinamento tra i normanni,
disposti a favorire in un’area culturalmente egemonizzata da Bisanzio il clero latino
riconoscendo la propria dipendenza ecclesiastica da Roma, e il papato desideroso di
frenare la diffusione delle istituzioni monastiche italo-greche”305, che sino ad allora –
pare sin troppo evidente – erano state preminenti.
Tutto questo, però, rappresenta il dopo scisma del 1054 e le sue conseguenze; ma
qual’era stato il prima o, se si preferisce, il reale scenario della “provincia bizantina
d’Italia”, all’interno della quale, che pure aveva rappresentato “un’area culturalmente
egemonizzata da Bisanzio”, si visse lo scontro e vennero ad essere subiti gli effetti di
quell’attivismo opportunistico normanno che portò ad un forte rimescolamento [con
anche la creazione, dopo Civitate, di nuove diocesi, come, ad esempio, quella della
‘normanna’ Aversa istituita in funzione di contrastare la Napoli ‘bizantina’ o, per lo
specifico molisano, quella di Guardialfiera, istituita, probabilmente nel 1068 (o, secondo
alcuni, nel 1061, che, in ogni caso, è successivo sia a Civitate che allo scisma), dalla
‘romanità’ per chiaramente inserirsi in ambiente greco-bizantino]306 delle istituzioni,
specie religiose, dopo l’alleanza col papato contro l’impero d’Oriente e le sue strutture?
Va subito detto che, allo stato (e, in quanto diventate cultura, non potendosi non
applicare tutte le categorie logiche e storiche, per l’appunto, imposte dal ‘dopo’), viene
sicuramente difficile dare una ricostruzione definitiva della situazione ‘precedente’. Ciò
perché le ‘cancellazioni’ radicali, operate deliberatamente dalla successiva
riaffermazione della ‘latinità’ da parte di un papato (e di una Chiesa), che, per rendersi
esso stesso a sua volta credibile, si vede costretto a porre mano a quella ‘auto-riforma’,
305
GALLINA M., Potere e società a Bisanzio, Torino 1995, pag. 258 e seg.
Relativamente all’ambiente pugliese, basterà segnalare (v. Di Meo, ad annum 1091) che “a quest’anno
si reca ancora la fondazione, o ristabilimento del Vescovado di Gravina”, proprio quando “il Gargano
dunque, Lucera ec. (ed anche Vasto e parte dell’Abruzzo col Trigno) erano sotto la sovranità de’ Greci.
Quivi ancora si ha, che Roberto Conte del Principato <e di Limosano, perché, come si vedrà,> figlio del q.
Tristano, donò allo stesso Abbate <di Montecassino> il Castel Toro …”.
306
dalla quale nel secolo XI “incomincia una nuova epoca, con l’innalzarsi della Chiesa
romana al di sopra delle sue contingenze e condizionamenti locali” 307 (quali furono? e
perché e, di maggiore significato, come ebbero a manifestarsi ed a svilupparsi?), hanno
lasciato ben pochi elementi che potessero rendere in qualche modo visibile la leggibilità
del fatto che, “durante l’Alto Medioevo, l’Italia meridionale si allontana dal resto
dell’Occidente”308 per seguire un suo autonomo destino.
E, siccome l’esistenza del sole non può essere negata per il semplice fatto che
esso, al tramonto, ci viene nascosto ai nostri occhi, è proprio su tali ‘segni’ che deve
essere indirizzata maggiormente l’attenzione.
Del tipo di datazione di un atto con il sistema, che è di matrice bizantina, della
‘indizione’ (con l’inizio, cioè, dell’anno al primo di settembre) e, ancor più, se recante il
riferimento agli imperatori regnanti a Costantinopoli la spiegazione più coerente è, oltre
che lo stato di dipendenza amministrativa di una località, l’avvenuto recepimento da
parte di questa del dettame, specifico ed ampio nel suo significato, della ‘cultura’ greca.
In particolar modo chi si è occupato di ‘confini’ è portato a ritenere la località, cui è
possibile riferire l’atto con tali elementi, trovarsi sicuramente in ambiente, se proprio
non in territorio, soggetto alla influenza bizantina 309. Ed, oltre all’ambiente culturale, la
‘grecità’ di un’area è data sicuramente dal riferimento ‘diretto’ delle fonti.
Una influenza ‘greca’, certamente di forte significato, sul territorio dell’attuale
basso Lazio (ma l’episodio suggerisce di guardare anche alla complessa rete di rapporti
tra il monachesimo ‘occidentale’ e quello ‘orientale’) è provata dal fatto che, nel 998,
l’Abate del Volturno, Giovanni, “… donò a D. Giacomo Monaco, e Abbate de genere
Graecorum la foresta di Ferosili, per fondarvi un Monistero (poi detto S. Pietro di
Foresta) ma con legge, che ipsum Monasterium de vestris Graecis Monachis sit
amodo, et usque in sempiternum; quicumque exinde hanc regulam, quod dicitur,
Atticam, in Latinam convertere voluerit, maledictus, et excommunicatus fiat”310.
307
FINK K.A., Chiesa … cit., pag. 27.
MARTIN J.-M., Le Chiese latine nell’Italia meridionale (secoli VII-XI), in Storia del Cristianesimo,
cit., IV. Pag. 814.
309
GAY J., L’Italie méridionale et l’empire Byzantin …, Paris 1904; FALKENHAUSEN (Von) V., La
dominazione … cit.; MOR C.G., La difesa militare della Capitanata ed i confini della regione al
principio del secolo XI, in Papers of the British School at Rome, XXIV (1956), pag. 29 e segg.; BORSARI
S., Aspetti del dominio bizantino in Capitanata, in Atti della Accademia Pontaniana, n.s., XVI (1966-67),
pag. 55 e segg.; CORSI P., Le diocesi … cit.
310
DI MEO, op. cit., ad annum 998. “… Il Monastero stesso sia solo dei vostri Monaci Greci, e sino alla
fine dei tempi; e da ora chiunque volesse trasformare questa regola, che viene detta ‘Attica’, venga fatto
maledetto e scomunicato”. In quanto può essere interpretato come fenomeno non certamente unico o
occasionale, l’importante “Monistero di S. Pietro a Foresta, ove, ancora nel 1050, era Abbate Clinus de
natione Graecorum” (v. sempre DI MEO), va localizzato nelle vicinanze di Pontecorvo. Esso, “benché il
suo fondatore avesse esplicitamente stabilito che la sua fondazione avrebbe dovuto restare per sempre
greca, …, nel 1093 fu donato a Montecassino” (BORSARI S., Il Monachesimo bizantino nella Sicilia e
nell’Italia meridionale prenormanne, Napoli 1963, pag. 116). Cosa che è possibile ricondurre alla
ampiezza ed alla radicalità dei fenomeni riconducibili alla latinizzazione seguita (o comandata) allo
scisma. In precedenza, “questo monastero, che talvolta viene indicato dai documenti come dedicato a S.
Pietro, e talvolta a S. Paolo, fu retto successivamente dagfli abati Clino (1030 e 1047), Arsenio (1063),
Saba (1066) Giona (1071 e 1072)” (BORSARI S., Monasteri bizantini nell’Italia meridionale longobarda
(Sec. X e XI), in ASPN 1950-51, pag. 11.
308
L’esistenza di motivazioni utili a riferire alla cultura bizantina l’intero territorio
molisano dipendente politicamente dal principato longobardo di Capua, oltre che dalla
coesistenza e dagli evidenti rapporti (che meriterebbero una indagine approfondita) del
monastero volturnense con strutture ed elementi monastici “de genere Graecorum”, è
provata dal tipo di datazione, che conta gli anni, non solo con il riferimento ai ‘principi’
locali, ma anche con la durata del governo dell’Imperatore di Bisanzio, del “Giudicato
di Assenzio Giudice di Capua”, che, del 936, riguarda un pezzo di terreno “di passi 1186
in Tiano, e in Venafro scritto dal Not. Leotperto Anno XXVII Imp<eratoris>.
D<omini>. n<ostri>. Constantini M. Imp. et XXXVI anno Pr<incipis>. D<omini>.
Landulfi gl<oriosi>. Pr<incipis. et XXVII Pr<incipis>. D<omini>. Athenulfi eximii
Principis …”311.
Sicuramente deve farsi rientrare nell’orbita dell’influenza di Costantinopoli anche
l’intero territorio riconducibile alle dipendenze politiche del principato di Benevento, se
risulta che, nel 955 (anno in cui proprio nella città di Benevento gli atti pubblici erano
datati “anno Regnante D<omino>. Constantino M. Imp<eratore>. ... XVI anno
Pr<incipis>. Landulfi gl<oriosi>. Pr<incipis>. ...”), “si erano dunque di nuovo (nota:
evidentemente era successo già altre volte in precedenza) i Principi di Benevento
sottoposti alla sovranità de’ Greci Augusti”312. Che, poi, una simile circostanza fosse non
il frutto della occasionalità di una scelta politica di un momento contingente, ma, al
contrario, il risultato prodotto da una condizione culturale di lungo periodo lo dimostra il
fatto che venti anni prima, nel 935, “Landolfo, Principe di Benevento (che era stato
nemico de’ Greci Augusti) ... in quest’anno ... non solo si era pacificato, ma si era
ancora dichiarato vassallo de’ Greci, e faceva mettere in fronte delle pubbliche Carte i
nomi di questi Augusti”313. E maggiormente lo prova il fatto che (v. nota 8), oltre un
Per notizie ed approfondimenti riguardanti il “Monistero di S. Pietro a Foresta” o, più precisamente, S.
Pietro della Foresta, si veda: NICOSIA A., La valle della Quesa e il monastero greco di S. Pietro
(Pontecorvo, Esperia), in Benedictina, XXIV (1977), pp. 115-138.
Il tutto è spiegabile con il fatto che il monastero volturnense rientrava nel tema bizantino di Longobardia,
se è vero (v. Di Meo, ad annum 942) che “gli Augusti Greci nel dì 2. Aprile di quest’anno, Indizione XV.
diedero con Bolla di oro un Diploma, a Raimbaldo Abbate di S. Vincenzo al Volturno, che adjacet in ipsa
amica Christi in nostro Tremate esistente Longobardia, cum his, quae sub ea <mansione> sunt
Monasteriis …”.
311
DI MEO, op. cit., ad annum 936. Si noti, oltre alla chiara origine ‘franca’ del Notaio, la coincidenza,
affatto casuale, dello stesso numero di anni di governo sia dell’Imperatore Costantino che del principe
Atenolfo, che era stato associato al governo, con sistema tipico ed in uso a Costantinopoli, dall’altro
principe Landolfo. Va aggiunto, infine e per compiutezza della notizia, che sempre il Di Meo riferisce di
altri atti con tale sistema di datazione.
312
DI MEO, op. cit., ad annum 955. Era sicuramente già successo quando Arechi II, da poco (774)
autoproclamatosi ‘princeps’, nell’intento di affermare la propria indipendenza sia dai Franchi di Carlo
Magno e sia da quel Papato, che, per raggiungere la sua autonomia da Bisanzio, ha appena compiuto la
scelta ‘franca’, ricevendone in cambio anche l’iniziale nucleo dei territori dello Stato Pontificio, si rivolge
a Costantinopoli e promette sottomissione all’imperatore Costantino VI (tam in tonsura quam in
vestibus usu Graecorum perfrui sub eiusdem imperatoris dicione).
E, appena qualche anno più tardi, precisamente nel 778, “... in Terracina, poiché nello stesso anno i Greci
riacquistarono quella città, e per maggior sicurezza la soggettarono al Patrizio di Sicilia, a cui si
apparteneva il supremo comando anche ne dominj Greci di quà dal Faro” (v., Borgia, Memorie ..., III, pag.
151, in nota).
313
DI MEO, op. cit., ad annum 935.
secolo e mezzo prima (proprio durante quel 774, che, per quanto attiene la collocazione
nella temporalità dell’evento, è sicuramente ‘prima’ della seconda bizantinizzazione),
già il ‘princeps’ Arechi si era rivolto a Costantinopoli ed aveva promesso sottomissione
“tam in tonsura quam in vestibus usu Graecorum perfrui sub eiusdem imperatoris
dicione” all’imperatore Costantino VI.
Relativamente all’attuale territorio molisano, facevano sicuramente parte del
principato di Benevento, soggetto all’influenza della cultura bizantina, non solo l’area
larinate, per la quale, nel 960, “si ha in uno Strumento del Volturno, che quell’Abbate
Paolo diede alcuni beni in Larino in enfiteusi al Giudice Claffone ... <Acto> in Civitate
Alarino, anno XLVIII Imp<eratoris>. D<omini>. n<ostri>. Constantini M. Imp. ...
XXI anno Pr<incipis>. D<omini>. Landolfi gl<oriosi>. Pr<incipis>. ...”314, ma anche, e
soprattutto, tutte quelle aree periferiche e di confine, rappresentate, insieme con quella di
Bojano, dalle diocesi di Trivento, di Termoli e di Musane, che situavano tra i fiumi
Trigno e Biferno. La necessità di far coincidere il confine politico del principato con
quello religioso delle diocesi suffraganee è con chiarezza riaffermata dai documenti
istitutivi delle sedi metropolitane di Capua (cui, nel 966, vengono assegnate Venafro ed
Isernia) e della stessa Benevento, il cui “Vescovo Beneventano sì per ragione della sua
Città ab antico Metropoli del Sannio, degna di prerogative sopra le Città inferiori, giusta
i Canoni Apostolici, Niceni, ed Antiocheni, sì per ragione delle Città soggettegli da Papa
Vitaliano infin dell’anno 668, sì per la dichiarazione di Agapito II nel 946, che
determina spettare al Vescovo Beneventano tutte le Chiese della Provincia non solo,
ma eziandio del Principato, è finalmente nel 969, ..., istituito Arcivescovo Metropolita
come dalla bolla sub datum VII Kal. Junij (nota: 26 Maggio), et Johannis XIII Papae ...,
riferita distesamente dall’Ughelli, ...”315, che “gli assegna le Chiese suffraganee, colla
potestà d’ordinarvi i Vescovi (ita ut fraternitas tua, successoresque tui infra suam
dioecesim, in locis, quibus olim fuerant, semper Episcopos consacret, qui vestrae
subjaceant ditioni), e sono S. Agata, Avellino, Quintodecimo, Ariano, Ascoli, Bovino,
Vulturara, Larino, Telesa, Alife”316. Ad esse vengono aggiunte, appena pochi anni più
tardi e precisamente il 6 Dicembre 983, con il “privilegio di Giovanni XIV per
314
DI MEO, op. cit., ad annum 960.
SARNELLI P., op. cit., pag. 58. Il Sarnelli, a pag. 33, scrive che “nell’anno 668 a’ 30 di Gennaio,
Vitaliano Papa, ..., con suo diploma, rapportato dall’Ughelli, unì aeque principaliter alla Chiesa
Beneventana la Sipontina, già desolata, colla Basilica di S. Michele nel Monte Gargano (nota: che è
devozione di derivazione bizantina), et innoltre gli sottopose, come à Vescovo della Metropoli, le Chiese
Episcopali di Bovino, Ascoli, Larino”, i cui toponimi permettono al Pratesi (v. art. cit., in nota a pag. 21),
il quale, a sua volta, riprende e segue le ipotesi del Klewitz (v. art. cit.), “l’identificazione, verso la metà
del secolo X, del territorio diocesano beneventano con quello politico del principato <come> è espressa
chiaramente in una lettera di Agapito II del Marzo 947 (JAFFE’-L., n. 3636)”.
“I diplomi di Agapito, nel 946, confermano la giurisdizione ecclesiastica del Vescovo di Benevento, pari a
quella del territorio del Principato composto da 34 contee, che nel X sec., annoverava 32 Chiese
suffraganee” (MASELLI G., La Diocesi di Trivento, Agnone 1934, pag. 12). Non solo; ma, siccome “le
chiese di Trivento e di Termoli ab antiquo sono state soggette al Vescovo di Benevento, e così parimenti
tutte le altre chiese che sono edificate nel recinto di queste, e di altre per le Città, per li castelli e luoghi
soggetti al dominio del Principato beneventano” (ivi, pag. 11), sembra chiaro che Benevento fosse già
sede metropolitana prima del 969 e che la bolla di tale anno, come quella del 983, rappresenti
esclusivamente un atto politico.
316
SARNELLI P., op. cit., pag. 65.
315
l’Arcivescovo Aione, Lucera, Termoli e Trivento, che, insieme a Sessula, vengono
aggregate alla provincia beneventana, <e che> sono in territorio bizantino e la loro
inserzione nella lista delle possibili suffraganee è fatta con lo scopo evidente di rendere
più saldi i legami del clero latino di quelle regioni con la Chiesa di Roma, per sottrarlo
all’influenza della Chiesa di Costantinopoli”317.
Accertato che geograficamente fu assai più ampio e diffuso di quanto portano ad
immaginare le successive ‘cancellazioni’, occorre volgere l’attenzione sulla continuità di
lunga durata del ‘bizantinismo’, che, frutto della vera tradizione della ‘romanitas’ prima
che questa venisse contaminata dalla ‘barbaritas’ franco-germanica, non può essere
riferito, marginalizzandolo e restringendone nel tempo e le cause e gli effetti,
esclusivamente al fenomeno di fughe, che, pur numerose quantitativamente, nella
qualità, in quanto diluite nel tempo, non possono attribuirsi che caratteri di sporadicità,
dei profughi iconoduli durante i contrasti dell’iconoclasmo (dal 726 all’842) ed, ancor
meno, alla sola seconda bizantinizzazione (fine del IX e X secolo). Oltre alle tracce,
poche, già evidenziate ed alle considerazioni, molte, già proposte, farebbe pensare alla
diffusa persistenza di quella cultura, con tutto quanto ad essa riferibile, la circostanza
(assai indicativa anche di quanto avveniva all’interno delle strutture monastiche), per
cui, nell’856 (e, quindi, prima della seconda bizantinizzazione), proprio nel monastero di
Monte Cassino (il cui abate Bertario – e la cosa sta a dimostrare ampiamente il clima
culturale che vi si respirava – assegna il nome, chiaramente greco, di Eulogimenopoli
all’insediamento posto ai piedi del monte) i monaci “cantavano Terza, e indi la Messa
‘venite Benedicti’, con canto Gregoriano, in Greco, e in Latino”318. E, per il periodo di
tempo precedente a tale data (e, più precisamente, per il periodo carolingio e durante la
seconda fase dell’iconoclasmo, anche se il fenomeno sembrerebbe fortemente radicato e,
per questo motivo, già diventato ‘cultura’), è da considerare il fatto, importante perché di
fonte bizantina, che il perseguitato igumeno di Studion (nelle vicinanze di
Costantinopoli), “Teodoro Studita (nota: 759-826) ricorda i preti greci ordinati a Roma,
317
PRATESI A., art. cit., pag. 23. Il Pratesi rimanda a quanto aggiunge nella successiva pag. 26, e
precisamente: “Nel 983 la lista comprende quattro nuovi nomi: Sessula, presso Acerra (nota: in evidente
posizione di confine con Napoli), che scompare tra il 1053 e il 1058 (nota: proprio subito dopo lo scisma),
probabilmente assorbita da quest’ultima, e Lucera, Termoli e Trivento, conservatesi fino ad oggi. La
menzione di queste tre città, un tempo comprese nei limiti della diocesi beneventana e poi perdute,
rappresenta il punto iniziale di un movimento di penetrazione progressiva nel territorio posto sotto il
controllo bizantino e porta a una significativa variazione nel dettato del documento pontificio. Mentre
infatti nel privilegio del 969 è conferita all’arcivescovo la potestà di consacrare vescovi nei loci della sua
diocesi in cui essi «olim fuerant», in quello del 983 è detto: «tribuimus atque concedimus licentiam tibi
tuisque successoribus episcopos ordinandi in his videlicet civitatibus ... »; qui non si accenna più alla
diocesi, perché Termoli, Trivento e Lucera alla fine del secolo X sono fuori dei confini del principato: se
nei privilegi successivi il dettato ripete di nuovo la formula del primo, ciò è possibile in quanto i confini
della Chiesa beneventana si sono ormai estesi a comprendere anche i nuovi territori, ma l’identità tra
diocesi e principato è ormai infranta per sempre. A Termoli e a Trivento la cattedra, rimasta a lungo
vacante, fu restituita molto probabilmente in questa circostanza; a Lucera invece il vescovo Landenolfo è
attestato già nel 977, insediatovi quindi dai Greci o quanto meno indipendente dalla giurisdizione
metropolitica di Benevento: lo scopo antibizantino del provvedimento pontificio è pertanto palese”.
318
DI MEO, op. cit., ad annum 856. Del monastero di Montecassino il Di Meo riferisce, con dovizia di
particolari, usi e costumi.
a Napoli e in Longobardia”319. Sembra più che evidente che fosse ‘greco-bizantino’ sia
il clero regolare che quello secolare (cosa che apre alla possibilità, significativa ed
affatto trascurabile, di estendere tale caratterizzazione anche alle gerarchie episcopali).
Del lungo periodo di cinque secoli che vanno dalla metà circa del VI (conclusione
della guerra greco-gotica) a circa quella dell’XI (battaglia di Civitate e definitivo scisma
d’Oriente), quindi, il primo secolo e mezzo (durante il quale ancora non avviene la
fusione della cultura autoctona, di matrice romano-bizantina, con l’altra, di derivazione
nordica, della “gens Langobardorum”) vedono l’orientalizzazione della ‘romanitas’ (e
non poteva essere diversamente, in quanto i longobardi sono ancora ariani), che, come
dimostra S. Sofia di Benevento, costruita con canoni artistici e ad imitazione della
omonima di Costantinopoli, tale rimane anche nel secolo VIII e dopo la conversione al
cattolicesimo (ancora soggetto, anche nel vescovo di Roma, alle gerarchie di Bisanzio)
delle classi dirigenti longobarde. Se a tutto ciò si aggiunge che, per quanto esposto, non
sembra più potersi dubitare della persistenza, durante i successivi due secoli e mezzo di
quel periodo, della ben radicata cultura (ed, in modo particolare, delle forme religiose)
bizantina, che neppure la forte potenza di Carlo Magno riesce minimamente a scalfire,
sul territorio della ‘Longobardia’, ben si riescono a comprendere i motivi, per i quali
“tutti e ventiquattro i sudetti (= della porta di bronzo della Chiesa Cattedrale di
Benevento) suffraganei stanno colla destra alzata, che hà il pollice unito al dito
anulare: e tutti sono colle casole Greche, e ciascheduno col suo pallio lungo, come
lungo è anche quello dell’Arcivescovo. Qual portamento di pallio non si usa né alla
Latina, né da’ Vescovi Latini, …”320.
319
JACOB A. e MARTIN J.-M., La Chiesa greca in Italia (c. 650 – c. 1050), in Storia del Cristianesimo,
cit., IV. Gli AA. prendono la notizia, assai importante per il riferimento alla Longobardia, da
SANSTERRE J.-M., Les moines grecs et orientaux à Rome aux époques bizantine et carolingienne,
Bruxelles 1983.
320
SARNELLI P., op. cit., pag. 107. Relativamente all’effettivo numero dei vescovi ‘suffraganei’, occorre
portare il numero, abituale e, per così dire, ufficiale di ventiquattro almeno a trentatre (v. nota 17 al
capitolo 2°, doc. n. 2, che, tra l’altro, riporta che “si vede nella Serie de Vescovi Suffraganei essere il
secondo nella Porta di Bronzo della Metropoli Beneventana, riportato ancora dall’Arciprete Ciarlanti
d’Isernia, dall’Ughelli, e da Monsignor Sarnelli nella sua Cronologia de Vescovi Beneventani
“Musanensem Sanctae Mariae”, il quale numera fra trentatre Vescovi Suffraganei, quello di
li=Musani il secondo”).
Del resto, già il Borgia (III, nota a pag. 58 e segg.), chiosando il De Vita, riportava che: “In questo anno (=
1153) Anastasio IV con sue lettere de’ 22 Settembre dirette a Pietro Arcivescovo gli conferma XXII
Chiese Suffraganee, ... Il dottissimo de Vita seguendo l’autorità del Concilio Provinciale di Ugone
Guidardi, e con la scorta del Vescovo di Bisceglia Pompeo Sarnelli, conta XXXII Chiese Suffraganee,
quante una volta certamente vi avevano nella Provincia Beneventana, e dopo aver parlato di XXVII di
queste (nota: per le cui sedi, si veda utilmente sempre il Borgia), così delle altre cinque ragiona: Qui vero
reliqui hi sint Episcopatus quinque qui cum XXVII illis superius comprobatis definitum XXXII numerum
impleant, vetera produnt monumenta; nam et Episcopatum Acquae putridae, Limusanensem sive
Musanensem, Ordonensem, Frequentinum, Sepinensem, (quos inter superiores XXVII praeteritos
invenies) memoratos in posterioribus indubiae fidei monumentis habemus, additos scilicet Archiepiscopo
Beneventano Suffraganeos”.
Circa l’elenco delle trentadue diocesi, lo riportiamo (ma manca Morcone, che ne porterebbe il numero a
trentatre; numero che, peraltro, è quasi coincidente con quello relativo alle trentaquattro ‘contee’ del
principato longobardo beneventano) dal citato Sarnelli (v. op. cit., pag. 12), il quale scrive: “Vastissima è
poi la Provincia, che costava anticamente di XXXII. Suffraganei, che con molto studio da noi ricercati
Se una tale presenza culturale e delle strutture-istituzioni religiose, diffusa su tutto
il territorio soggetto al controllo politico del potere longobardo, investiva il complesso
delle autorità del clero secolare, viene da interrogarsi sul quando, nel tempo, collocarne
la fase iniziale. La risposta, nonostante le probabili accelerazioni impresse ad una
situazione locale già esistente sia dai fuggiaschi dall’iconoclasia, prima (VIII e prima
metà del IX secolo), e sia, dopo (ultimo quarto del IX e X secolo), dalla seconda
bizantinizzazione, deve essere individuata nel fatto che, con la bizantinizzazione di
Giustianiano seguita alla guerra greco-gotica, “… i Greci,…, per aver seguaci dé loro
errori innalzarono delle nuove sedi (vescovili)…; e che poi i Romani Pontefici
istituissero qualche nuova Sede, e molte ne ristabilissero. Pur tuttavolta in numero assai
maggiore erano i Vescovadi nel nostro Regno di quello, che sono al presente, primaché
le tante, e sì doviziose Città di esso venissero barbaramente sterminate dà Longobardi.
(…), Mevania,…, Samnia…”321.
Assai carente risulta essere la documentazione per ricostruire l’evolvere dinamico
delle situazioni nel lungo periodo che va dal VI-VII al IX-X secolo, ma troviamo nella
fase terminale, che coincide con quella che precedette immediatamente lo scisma del
1054, relativamente al territorio molisano della “Provincia Beneventana”, le diocesi
suffraganee di Bojano, Larino, Limosani, Sepino (?), Termoli, Trivento (gli antichi
municipia romani) e, certamente da dopo il 1058 (anno del privilegio di papa Stefano X,
nel quale, così come sempre nei documenti precedenti ed a riprova che a tale data non
era stata istituita, ancora non figura), Guardialfiera.
Sempre relativamente a tale territorio, l’influenza culturale e cultuale (con anche,
nello specifico, la ritualità) greco-bizantina è possibile documentarla, non solo per le
istituzioni del clero secolare, ma anche per la quasi generalità delle tipologie, diverse e
diversificate, del clero regolare e, meglio, dei movimenti eremitici e cenobitici
riconducibili ai fenomeni del ‘monachesimo’.
Difatti, “tra le altre cose prestigiose della S. nostra Chiesa Metropolitana furono
sempre rilevanti i dodici più insigni tra gli Abati Diocesani, i cui titoli sono i seguenti:
I.
Abate di S. Maria della Strada (in agro di Matrice),
II.
Abate di S. Maria di Faifoli (in agro di Montagano),
III.
Abate di S. Maria del Romitorio (in agro di Campolieto),
IV.
Abate di S. Pietro di Pianisi (in agro di S. Elia a Pianisi),
V.
Abate di S. Lorenzo di Apice,
VI.
Abate di S. Maria di Guglieto (tra Vinchiaturo e Mirabello Sannitico),
VII. Abate di S. Maria di Rocca presso Monte Rotaro,
VIII. Abate di S. Maria di Decorata (in agro di Colle Sannita o, ma meno
probabilmente, tra Gildone e Riccia),
IX.
Abate di S. Maria di Campobasso (in agro di Campobasso)
X.
Abate di S. Maria di Ferrara vicino l’oppidum Sabiniano,
erano:
Acquaputrida, S. Agata, Alife, Ariano, Ascoli, Avellino, Bojano, Bovino, Civitate, Dragonara, Fiorentino,
Frigento, Guardia alferia, Larino, Lesina, Limosani, Lucera, Monte-corvino, Montemarano, Ordona,
Quintodecimo, Sepino, Sessola, Telesa, Termoli, Tocco, Tortivoli, Trivento, Trivico, Troja, Viccari,
Volturara”.
321
DI MEO, Annali… cit., I, pag. 70.
XI.
Abate di S. Maria di Venticano,
XII. Abate di S. Silvestro in oppido di S. Angelo a Scala.
[…]. Nelle proprie Chiese, del resto, <essi> godono dell’uso della Mitra e della
Crossia, come si rileva dal<la> Sinodo Provinciale di Ugone Guidardo di felice ricordo
nostro predecessore, celebrata nell’anno 1374, indizione XII, sotto il Pontefice Massimo
Gregorio XI, nel capitolo sulla ordinazione dei Sacramenti, nel quale esso <dice>: Si ha
anche [come l’Arcivescovo] che tutti gli Abati <rientranti> nella Diocesi hanno la
Mitra, e la Crossia, che competono alla propria disposizione, e provvisione. […]”322.
Ma, mentre risulta di facile comprensione cosa sia la mitra, d’uso ancora assai
comune, cos’è la ‘Crossia’, non più utilizzata nelle cerimonie religiose?
“Cap. IX. La Crossia dunque, al volgo Crozzia, è propriamente il bacolo <=
bastone che arriva all’altezza> dell’ascella, italianamente chiamata Stampella, cui risulta
simile il bacolo pastorale, che al presente usano gli Abati Greci, e che suole dipingersi
per l’insigne S. Antonio Abate, ornato nella sommità a forma di una T maiuscola. La
Crossia così come anche il bacolo è un Pastorale, diverso dal Pontificale, per gli Abati
della nostra Diocesi, e quando usavano del rito Grecanico, ed allora anche comune,
come mostra più chiaramente di tutti il nostro Predecessore di felicissima memoria il
Cardinale Arcivescovo Savelli nel<la> Sinodo Provinciale dell’anno 1567 (nota: che,
come si vide, risultò ancora sottoscritto da un Episcopus Limusanensis), recitando: tra
l’altro esistono nella stessa Diocesi Beneventana molti Abati che hanno l’uso della
Mitra, e del Bacolo. Tra tutte le altre sono in essa dodici Abbazie, alle quali è conferito
<l’incarico> dall’Arcivescovo Beneventano.
Cap. X. Per la qual ragione, affinché vengano eliminati gli equivoci per il futuro, e
venga tributato il dovuto onore ad ognuno, con la presente costituzione dichiariamo
essere di competenza dei prenominati dodici Abati della nostra Diocesi l’uso della Mitra,
e del Bacolo, così come diverso dal Pontificale, nelle rispettive proprie Chiese giusta
322
Synodicon Dioecesanum S. Beneventanae Ecclesiae … [d’ordine del Card. Orsini], Benevento 1723,
pars. I, pag. 41 e seg.
“CAPUT VI. Inter caetera S. Metropolitanae Ecclesiae nostrae decora, conspicui semper fuere ex
Dioecesanis Abbatibus insignioribus duodecim precipui, quorum tituli sunt seguentes.
I.
Abbas S. Mariae de Strata,
II.
Abbas S. Mariae de Faifolis,
III.
Abbas S. Mariae de Heremitorio,
IV.
Abbas S. Petri de Planisio,
V.
Abbas S. Laurentii de Apicio,
VI.
Abbas S. Mariae de Guilleto,
VII.
Abbas S. Mariae de Pocca prope Montem Rotanum,
VIII.
Abbas S. Mariae de Decorata,
IX.
Abbas S. Mariae de Campobasso,
X.
Abbas S. Mariae de Ferrara propè Oppidum Sabinianum,
XI.
Abbas S. Mariae de Venticano,
XII.
Abbas S. Silvestri in Oppido S. Angeli ad Scalam.
CAPUT VII. […]. Caeterum in suis Ecclesiis usu Mitae, & Crossiae fruuntur, ut ex Provinciali Synodo,
fel. recor. Praedecessoris nostri Hugonis Guidardi anno 1374 indict. XII sub Pontif. Max. Gregorio XI
celebrata, in cap. de Sacramen. ordin. liquidò constat, in quo ille: Habet etiam (nempè Archiepiscopus)
Abbates infrà Dioecesim omnes habentes Mitras, & Crossias, ad suam dispositionem, & provisionem.
[…].
l’antichissima usanza”323.
Tanto in esse che in molte altre delle strutture monastiche (cosa che ne amplia e ne
generalizza la diffusione sul territorio), balza agli occhi, subito ed evidente, oltre alla
diffusione del rito greco, la circostanza per cui ben sei (se non addirittura sette) delle
dodici abbazie più insigni della provincia beneventana posizionavano nel territorio
molisano. Non solo; ma di esse (con ben tre – significativamente le prime nell’elenco –
ricadenti nella diocesi di Limosano e due in quella di Bojano) nessuna risulta situata
nelle diocesi del confine sul fiume Trigno (Trivento e Termoli) o di Larino, nonostante
al territorio di queste ultime tre diocesi è possibile riferire le abbazie, non certo
secondarie, di S. Maria del Castagneto, di S. Maria del Canneto, di S. Maria “ad
Basilicas” di Monte la Teglia (Tavenna), di S. Maria di Casalpiano (Morrone del
Sannio) e di S. Angelo in Altissimis (agro di Lucito).
Occorre, però, annotare che, a differenza delle altre (S. Maria del Castagneto, pur
nonostante i tentativi autonomistici databili intorno alla fine del IX ed alla metà del XI
secolo e spiegabili, specialmente i secondi, con i forti contrasti tra latini e grecobizantini324, era soggetta al monastero del Volturno; S. Maria del Canneto e S. Maria di
Casalpiano dipendevano da Montecassino e, storicamente, S. Angelo in Altissimo da S.
Sofia), tutte le cosiddette abbazie insigni erano indipendenti e, in ogni caso, non soggette
ad alcuno dei maggiori monasteri. Una tale circostanza, assai significativa, sta a
dimostrare che, mentre ne rimaneva esclusa l’area alla destra del Biferno, maggiormente
soggetta alla influenza greca, sull’intero territorio posto tra i fiumi Trigno e Biferno era
in atto, e, ricollegabile anche alla ri-istituzione delle metropolitane, veniva da assai
lontano325, uno scontro di interessi più o meno contrapposti. Nel quale, e, dopo lo
323
Synodicon … cit., pag. 42.
“CAPUT IX. Crossia verò, vulgo Crozzia, baculum propriè est subalaris, italicè Stampella appellatus, cui
similis est baculus pastoralis, quo hodiè Graeci Abbates utuntur, quique dipingi solet pro S. Antonii
Abbatis insigni, forma T majusculi in summitate exornatus. Crossia itaque baculus est Pastoralis, a
Pontificali diversus, Abbatibus nostrae Dioecesis, & cum Graecanico ritu uterentur, & modo etiam
communis, ut clarissimè omnium praecl. mem. Predecessor noster Cardinalis Archiepiscopus Sabellius in
Synodo Provinciali de anno 1567 ostendit, inquiens: Multi praeterea Abbates, usum Mitrae, et Baculi
habentes in ipsa Beneventana Dioecesi existunt: duodecimque in ea inter caeteras exstant Abbatiae, que à
Beneventano Archiepiscopo conferuntur.
CAPUT X. Quapropter, ut aequivoca in posterum amputentur, & debitus quique honor tribuatur, praesenti
constitutione declaramus, praefatis duodecim nostrae Dioecesis Abbatibus usum Mitrae, & baculi, licet à
Pontificali diversi, in suis Ecclesiis juxtà vetustissimum morem competere.”.
324
Lo stesso ‘placito’, tenuto il 10 giugno 1053 da papa Leone IX “cum contra fines Apuliae pergens, loco
Sale iuxta Bifernum fluvium”, fu finalizzato, a motivo delle probabili sollecitazioni rivendicative da parte
dello stesso abbate volturnense che si vide, a conclusione della vicenda, riassegnata l’importante struttura
monastica, a chiudere una vertenza per un tentativo di rendersi ‘indipendente’. Evidentemente, però, chi
era uscito soccombente dalle decisioni di quel ‘placito’ non si rassegnava, se è vero che (v. DI MEO, ad a.
1059) “... il S.P. passò a Benevento, ed al principio di Agosto vi celebrò un altro Concilio. [,,,]. In esso
l’Abbate Giovanni fece istanza contra il Monaco Alberto, che per la prepotenza del Normanno Conte
Roffredo avendo usurpata la Cella molto ricca di S. Maria di Castagneto, vi avea preso il nome di Abbate;
e benché S. Leone IX nel 1053 glie l’avesse tolta, e vietato di accostarsi, o di ritenere il nome di Abbate,
pure non curando la scomunica, continuava nella sua usurpazione. Il Papa ne investì l’Abbate Giovanni, e
impose la pena della scomunica, e mille mancusi d’oro contra il Conte, e il Monaco, se più osavano
inquietarlo”.
325
V. BOZZA F., Limosano: Questioni … cit., specialmente il 3° Capitolo.
scisma, vi si saranno innestate anche nuove motivazioni ed, in ogni caso, legate alla
riaffermazione della cultualità occidentale in danno di quella greco-bizantina, è possibile
ricomprendere anche il poco chiaro episodio (v. capitolo precedente) della distruzione
delle carte del cenobio limosanese di S. Illuminata, nome di una ‘ricostruita’ santa che
altro non è che la trasposizione (appena dopo lo scisma, come il fattaccio farebbe
pensare?) in latino della greca S. ‘Fotina’, la cui “passio dall’Oriente era venuta a
Montecassino verso il sec. VIII o IX”326. Esso, come già si vide, era stato assoggettato –
e si può, anche in questa circostanza, ancora registrare lo scontro politico in atto tra
Montecassino e Benevento – dal Principe Pandolfo Capodiferro, non già (come, seguito
da qualche altro, vorrebbe il Bloch [si veda il classico, in 3 volumi, Montecassino in The
Middle Ages, pag. 427 e seg.]) a “the monastery of S. Eustasius de Arcu” di
Pietrabbondante, ma alla giurisdizione del Monastero di S. Eustasio (o Eustachio),
situato nel contado di Pantasia (alla destra del Biferno ed in area sicuramente soggetta
alla influenza greco-bizantina), “ab ipso suae constructionis exordio”, che dal Tria si fa
risalire al 976, con il “preceptum a Beneventanis principibus de ecclesie sancte
Illuminate monasterio beati Eustasii factum”.
Degno di rilievo, infine, è il fatto che la quasi totalità (sei su sette) delle abbazie
molisane insigni, così come anche delle altre (quattro su cinque) ricordate più sopra,
risulta dedicata a “S. Maria”. Cosa che porta a collocare327 la data della originaria
fondazione di tali strutture (o del loro emergere come organizzazioni unitarie e ben
definite), al più tardi328, al periodo del primo iconoclasmo (VIII secolo).
Ne è venuto fuori, relativamente allo specifico molisano, un quadro della
326
MATURO A.E., Gli ‘acta’ di S. Illuminata, in Roma e l’Oriente, VII 1914, 101-118 e 286-291; VIII
1915, 86-90 e 214-230. pag. 87 e seg. Oltre alla edizione critica degli ‘acta’, il Maturo, a pag. 88, si
chiede: “Come dunque s. Fotina si è trasformata in s. Illuminata? Spontanea si presenta la risposta se noi
ci fermiamo ad esaminare il significato greco del nome”. Inoltre, “non è da meravigliarsi che nel sec. in
cui traeva origine la leggenda per la Chiesa Orientale, qualche pio Monaco volendo «Christianorum acta
fortia, ipsae sanctorum Martyrum res praeclarissimae gestae, perpetuae memoriae monumentis
consignerentur», elaborasse, con la sua fervida fantasia una nuova leggenda. […]. Così le due sante
orientali, …, divennero una Vergine e santa della Chiesa d’Occidente”.
Una ricostruzione dettagliata degli avvenimenti è in: BOZZA F., Segni di presenze bizantine nel
‘Samnium’ molisano dell’alto medioevo (476-1054), Campobasso 2007.
327
GOUBERT P., Quelques aspects de l’Hellénisme en Italie meridionale au Moyen-age, in Atti del 3°
congresso internazionale di studi sull’alto medioevo: Benevento – Montevergine – Salerno – Amalfi, 1418 ottobre 1956, Spoleto 1959, pag. 304. Circa la diffusione, prima della seconda bizantinizzazione dei
secoli IX e X, del monachesimo ‘basiliano’, il cui nome “fut employé pour la premiére fois au début du
XI.e siécle par la Curie romaine pour désigner les nombreux moines grecs de l’Italie méridionale de rite
byzantin”, il Goubert indica queste tre distinte fasi:
1) “Importé en Italie sous Justinien, le monachisme italo-grec se développe avec la byzantinisation
progressive des provinces italiennes de l’Empire byzantin.
2) A partir du VII.e siècle, il bénéficie de l’afflux des moines, qui s’enfuyaient de Syrie et d’Egypte à
cause des invasions perses et arabes.
3) Cet afflux s’accentua à la suite des persécutions iconoclastes du VIII.e siècle, car dans les provinces
byzantines de l’Italie méridionale les lois iconoclastes ne furent jamais en viguer”.
328
Relativamente al parametro della diffusione delle cultualità, già il citato GOUBERT P. poteva avvertire
che: “il serait intéressant d’étudier le role de l’Italie méeridionale comme «relai» pour ainsi dire entre la
spiritualità orientale et la spiritualità occidentale. Cela est évident pour le culte de St Nicolas, transporté de
Myre à Bari, St Luc, St Marc, St Mathieu, St Mathias, St André etc.
situazione complessiva delle geografie politiche e religiose, che, perfettamente in linea
con quella delle condizioni generali dell’Italia peninsulare alla immediata vigilia dello
scisma del 1054329, riesce a mostrare, nel migliore dei casi e ad essere ottimisti, una sorta
di pacifica convivenza tra due culture (ciascuna con una propria forma di religione, una
propria ritualità, una propria immagine artistica, un proprio pensiero, una propria ricerca
filosofico-teologica) differenti e distinte l’una dall’altra. Ciò sarebbe tanto più vero e
realistico di quanto, e non vi è motivo per dubitarne, descriveva il reale stato delle cose
lo stesso papa Leone IX, il quale, solo a qualche mese dallo scisma, poteva indicare che
“cum intra et extra Romam plurima Graecorum reperiantur monasteria sive
ecclesiae, nullum eorum adhuc perturbatur vel prohibetur a paterna traditione, sive
sua consuetudine; … (= ritrovandosi dentro e fuori di Roma moltissimi monasteri o
chiese, fino ad ora nessuno di essi viene turbato o proibito dalla ‘paterna’ tradizione o
dalla sua consuetudine)”330. Entrambi concetti, questi di tradizione e di consuetudine,
che, più che una situazione di breve durata, lasciano ipotizzare una condizione di assai
lunga persistenza nel tempo.
“Non bisogna, infatti, mai dimenticare – da un punto di vista metodologico – come
la presenza dei Bizantini nell’Italia meridionale, non è, e non rimane mai, un fatto di
Le culte de St Michel, si vénéré en Orient, se propage par le Mont Gargan et deviendra une des grandes
dévotions del Lombards et des Normands.
St Come et St Damien, St Serge, St Georges, St Cristophe, les quarante martyrs de Sébaste, St Ephrem, St
Antoine, Ste Thècle, Ste Euphémie conquièrent Rome et l’Occident aprés avoir été vénérés spécialment
par les moines grecs de l’Italie méridionale.
Nous avons encore toutes fraiches à la mémoire les dévotions byzantines transportées à Benevent, Ste
Sophie (la Sagesse divine), St Hélianus, St Mercure etc.
Mais c’est surtout par les moines basiliens, ermites ou cénobites, que la spiritualité byzantine se répandit
en Sicile et dans l’Italie du Sud”(pag. 303).
329
PETRUCCI E., Rapporti di Leone IX con Costantinopoli, in Studi medievali, serie 3^, XIV 1973, pp.
733-831. Per la ricostruzione, la più probabile e puntuale, delle vicende che precedettero lo scisma risulta
ancora utile l’ottimo studio del Petrucci.
330
LEONE IX, Epist. 100 (a Michele Cerulario) in P.L., CXLIII, col. 764A; ed. WILL C., Acta et scripta
quae de controversiis Ecclasiae Graecae et Latinae saeculo undecimo composita extant, Leipzig 1861, p.
81, col. A, 11. 3-19.
Il citato (v. nota precedente) Petrucci riferisce, a pag. 804 e seg., che “fu proprio durante il viaggio del
1050 che egli (= Leone IX) prese coscienza dei problemi dell’Italia meridionale, abbozzando con tutta
probabilità alcune ipotesi di soluzione. La complessa situazione politica e religiosa dovette apparire
all’esame del papa, riformatore ma anche politico prudente ed esperto, di una gravità estrema. […]. In
realtà da un lato i Normanni, che nella loro azione di consolidamento e di conquista taglieggiavano le
popolazioni e violavano senza esitazioni beni e immunità di chiese e monasteri, dall’altro la presenza in
alcune regioni di due organismi ecclesiastici con tradizioni ecclesiologiche e soprattutto disciplinari
tanto diverse, costituivano due aspetti di una stessa intricata situazione locale che, per gli uomini della
curia dovevano certamente essere affrontati nello spirito della Riforma (cfr. GAY J., L’Italie meridionale
et l’Empire byzantin cit., p. 479 sg.)”. E, poiché “risulta che negli ambienti occidentali si pensava a diritti
della Santa Sede in Puglia e nell’Italia meridionale”, diritti che possono farsi ascendere, così trovando
spiegazione alle aspirazioni del “papa a recuperare i patrimonia della Chiesa Romana nell’Italia
meridionale” (pag. 792), proprio al decreto del basileus Leone III Isaurico, appena dopo l’inizio della lotta
iconoclasta, di farne dipendere i vescovati direttamente dal Patriarca di Costantinopoli, è possibile che
“Roma aveva già progettato per suo conto di intervenire contro quella preminenza e autorità del patriarca
bizantino, che, tradizionale in Oriente, era ritenuta dal diritto canonico occidentale come una usurpazione
ed un abuso” (pag. 796).
esclusiva potenza politica, ma comportò una vasta implicazione di influenze culturali,
religiose, etniche. […]. Il lungo grande duello fra Bisanzio ed i principati longobardi –
ove, anche per la natura delle fonti di cui disponiamo, si ha l’impressione di una
interminabile, tragica tela di Penelope – in realtà ci si manifesta sempre più chiaramente
come una lotta fra mondo latino e mondo greco, fra Roma e Bisanzio, uno dei punti più
vivi e più evidenti di una frizione che, in modo più o meno acuto, si ritrova lungo la
linea di contatto fra chiesa greca e chiesa latina. Non si può trascurare il fatto che
proprio nell’Italia meridionale l’urto era se non più vivo, certo più pungente e molesto,
perché più vicino a Roma, perché riguardava popolazioni latine e greche (non slave, non
germaniche come altrove) perché, infine questa divisione con le sue implicazioni di
contrasti politici accaniti, con i suoi innumerevoli spostamenti di frontiera, indeboliva,
obiettivamente la posizione di Roma”331
Se, a questo punto, proprio si vuole fissata, pur nella fluttuabilità e volatilità legate
alla rapidità dei cambiamenti temporali, una linea di demarcazione del confine o della
discriminazione, essa più che tra i ducati tradizionalmente bizantini e la “Longobardia
minor” e meridionale, dovrebbe essere posta nel rispetto di quel parametro culturale
rappresentato dalla percezione (assai sentita a Costantinopoli ed a Roma un po’ meno)
della differenza tra quanto era imperiale e, pertanto, romano e quanto non lo era e veniva
ancora considerato ‘barbarico’ (e, cioè, franco-germanico), che aveva ridotto la
latinitas332 ad una condizione di schiavitù.
Tale concetto (con, cioè, una valenza più culturale che fisica), nonostante nei fatti
si dimostrarono, per la parte imperiale, delle “protestations purement platoniques (Jaffé,
Regesten 2446, 2448, 2483)”333, riesce a spiegare assai bene le reali motivazioni delle
politiche papali (con anche le discussioni teologiche connesse alla questione del
Filioque), per cui già “à la fin du VIII.e siècle, Adrien I.er (772-793) proteste à deux
reprises contre ces usurpations byzantines” ed ancora “au milieu du IX.e siècle, Nicolas
331
MANSELLI R., Roberto il Guiscardo e il Papato, in Roberto il Guiscardo e il suo tempo – Atti delle
prime giornate normanno-sveve: Bari, 28-29 maggio 1973, Roma 1975 (e rist. Bari 1991), pag. 186 e seg.
332
GOUBERT P., Quelques ... cit., pag. 308. «Dans la première moitié du IX.e siècle, le clerc arménien
Basile donne ces précisions : «Ont été arrachés au diocèse de Rome et sont soumis actuellement au trone
de Constantinople les métropolitains ...», et il en donne naivement la raison: «parce que le Pape de
l’ancienne Rome est entre les mains des Barbares» (c’est-à-dire des Francs)”.
Sembra quella del Goubert una grande intuizione, ma rimasta tale, purtroppo, solo nelle intenzioni ed, a
mio modestissimo parere, non sufficientemente approfondita; né recepita dalla successiva ricerca storica.
In effetti, essa, più che ad una semplicistica liquidazione, assai diffusa nella storiografia successiva
(Falkenhausen, Guillou, ecc.), per cui “le idee a Bisanzio non erano molto chiare”(PERTUSI A.,
Contributi alla Storia dei temi bizantini dell’Italia meridionale, in Atti del 3° congresso … cit., Spoleto
1959, pag. 406), permette di interpretare in maniera più condivisibile il fatto che (v. ivi) “Costantino
Porfirogenito, …, in un passo ben noto del de adm. imp. (Const. Porph. de adm. imp. 27.6 e segg.
Moravcsik), parlando proprio del tema di Longobardia, dice: «Dopo la traslazione dell’impero a
Costantinopoli, tutti questi territori – cioè, «tutto il dominio dell’Italia, Napoli, Capua, Benevento,
Salerno, Amalfi, Gaeta e tutta la Langobardia», come aveva specificato poco prima – furono divisi in due
dominii, per cui da parte dell’imperatore di Costantinopoli erano inviati due patrizi: l’uno di essi
governava la Sicilia, la Calabria, Napoli e Amalfi, l’altro risiedeva a Benevento e governava Pavia e
Capua ed i rimanenti territori. Ogni anno pagavano all’imperatore la somma dovuta al fisco»”.
333
GOUBERT P., Quelques ... cit., pag. 308.
I (858-867) s’éleve également contre ces empiétements”334. E consente anche di spiegare
(e di individuarne le ragioni ambientali e spiccatamente politiche) i fatti che avvengono
subito dopo la metà del X secolo. Vale a dire che, mentre sullo sfondo “fonctionnaires
byzantins et moines grecs propagent l’hellénisme” e mentre, dalla parte imperialbizantina, Niceforo Foca emana, intorno al 968, un decreto che impone per i ‘themata’
dell’Italia meridionale la sostituzione della ritualità e della liturgia latina con quelle
greche335, dalla parte franco-papale, “contre les empiétements de la dinastie
macédonienne, le Pape Jean XIII vers 970 créa dans l’Italie méridionale des provinces
ecclésiastiques: Capoue, Bénévent, Salerne, Naples, Amalfi. Mais les éveques grecs de
cette contrée, champ de bataille entre les rites grec et latin, continuèrent, …”336, ad
operare e ad essere attivi. Molto probabilmente, talvolta, contrapposti nella stessa sede;
quando non, e da entrambe le parti, a crearne delle nuove337.
Il successivo andamento delle cose, però, lascerebbe ipotizzare, a fronte di una
forte aggressività pontificia, una politica religiosa, ma non solo (si pensi anche al
potenziamento civile e militare da parte di Basilio Boiohannes), ispirata ad un concreto
realismo, se non a vere e proprie strategie difensive (sulla scena meridionale, ed ai
margini delle zone a maggiore influenza greca, si stanno inserendo i normanni), per
mantenere almeno le posizioni, per così dire, minime. Troppo prossime a Benevento,
(re-istituita da poco sede metropolitana ‘latina’), vengono abbandonate a se stesse le
diocesi di Sepino (che mai più sarà tale) e di Morcone (che, forse, avrà anche una
brevissima sopravvivenza latina). Ed, a partire dagli ultimi anni del secondo decennio
del XI secolo, viene portato a termine il rafforzamento della linea di difesa alla destra
del Fortore con le diocesi di Civitate, Dragonara, Fiorentino, Volturara, Montecorvino,
Tertiveri, tutte diocesi che, e la cosa viene assai significativa, la bolla del gennaio 1058
(subito dopo lo scisma) di papa Stefano IX riassoggetterà, come suffraganee, alla
metropolia di Benevento338. Una tale rilettura (che fa, peraltro, pensare alla possibilità
per cui alcuni vescovi non figurano come suffraganei nei vari elenchi ‘ufficiali’ perché si
erano schierati, o si schiereranno, a favore della ortodossia ‘greca’) viene fuori dal fatto
che “cominciò Troia a riedificarsi … in quel tempo; <e Basilio>, dopo aver riedificata
Troja, edificò ancora Dragonara, Florenzia, Civitate, ed altri Municipi … […]. Ma non
si creda che tutti questi altri luoghi siano stati edificati in pianta. Fiorentina la vedemmo
334
GOUBERT P., Quelques ... cit., pag. 308.
LIUTPRANDO da Cremona, Liutprandi Relatio ... cit., p. 209.
336
GOUBERT P., Quelques ... cit., pag. 309.
337
GAY J., Les diocéses de Calabre à l’époque bizantine, in Revue d’Histoire et de Littérature religieuses,
V-1900, pag. 251 e seg. Il Gay, per la Calabria, riferiva sin da allora della ‘nuova’ istituzione, da parte
orientale, delle diocesi, suffraganee da Reggio, di Bisignano, Rossano, Amantea, Nicasto e, dipendenti da
S. Severina (arcivescovato di creazione dal patriarcato di Costantinopoli), di Umbriatico, Cerenzia ed Isola
Capo Rizzato.
338
L’intervento bizantino, che non fu di nuova istituzione, ma di una ‘rifundatio’ e di un potenziamento
(comunque di una riorganizzazione), è dimostrato, tra l’altro, anche dal fatto che “nel 1014 figura per la
prima volta Lesina, anch’essa in territorio bizantino” (Pratesi, op. cit., pag. 27) e dove aveva trovato nel
secolo VII rifugio il vescovo di Lucera.
Già in precedenza, Volturara aveva un suo vescovo, se è del 1013 una “Bolla di Arderado Vescovo di
Volturara”(Di Meo). Ed a Fiorentino, evidentemente esistita da secoli, si riferisce il Di Meo, quando, al
858, parla della “Chiesa di S. Giambattista, vicino le mura della Città Fiorentina (in Capitanata)”.
335
ancora detta Città fin dall’858 ma senza vescovo. Ora essa Firenzuola, e Dragonara
da’ Greci ebbero Vescovado”339.
Una situazione complessiva, nella quale, in maniera compatibile, si possono ben
inserire il percorso ed il viaggio, con cui, appena nel 1022, “venne Arrigo in Italia, ed
egli colla maggior parte delle truppe s’incamminò per le Marche. […]. … ne’ primi
giorni di Febbraio era già a Campo di pietra, Territorio Beneventano, non lungi da Troja,
ove in sua presenza tennero un Placito”, col quale si restituì all’Abbate Ilario del
Volturno “in contado di Termoli il Monistero di San Bartolomeo”340.
Questa, a grandi linee (sarebbe di grande importanza, ad esempio, la conoscenza
delle reali condizioni delle diverse posizioni nelle dispute dottrinali e teologiche dei
singoli vescovati), la situazione dei rapporti che precedettero lo scisma del 1054341.
Ma, “après le schisme de Michel Cérulaire la situation changea”342, mediante una
imposizione, tanto decisa quanto determinata, delle istituzioni e delle forme religiose
339
DI MEO, ad annum 1018. Il Groner (GRONER A., Die Dioezesen Italiens von der Mitte des 10. bis
zum Ende des 12. Jahrhunderts, Dissertazione Friburg 1904 [trad. Italiana con prefazione, da dove si cita,
di GUARINI G.B., Le diocesi d’Italia dalla metà del X fino a tutto il XII secolo, Melfi 1908, pag. 56]),
segnalato dal citato Pratesi (v. pag. 30, in nota 1), avanza l’ipotesi dei vescovati doppi di Limosano unita a
Ferentino e di Lesina unita ad altra sede non specificata. A parte il fatto (certo e dimostrato per Limosano)
che per doppio vescovato è possibile riferirsi anche alla contemporanea presenza di due vescovi, di rito
diverso, nella medesima sede, legami tra Fiorentino, che aveva avuto “il vescovato da’ Greci” (e, sul finire
del XIII e nei primi anni del XIV secolo, doveva essere ancora tale, se il teste del f. 153r dichiarava che
“vidit Episcopus florentini in maiore beneventana ecclesia [il cui “archiepiscopus reputabat eum
suum suffraganeum”] in festa beati Bartholomei visitantem ipsam ecclesiam cum mitra in capite et
tenentem baculum pastoralem in manu”), e Limosano sono ulteriormente documentati nel più volte
citato Processus (ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Fondo Avignonese, Collect. t. 61) del primo
decennio del XIV secolo, circostanza quest’ultima che porta ulteriori elementi di conferma all’ipotesi del
Groner e, perché ai ff. 185r e 186r veniva testimoniato che “iam sunt quindici anni quod clerus et populus
florentini petunt et appetunt unionem fieri de dicta civitate florentini cum terra limosani”, avendone
persino nominato per “procuratorem dopnum Thomasium de Johanne ad petendum a domino summo
pontefice fieri unionem”, la renderebbe assai meno “macchinosa” di quanto la vorrebbe lo stesso Pratesi.
Quanto a Ferentino, va detto (e la circostanza ne conferma il dato della estrema decadenza della situazione
demografica, e non solo, risultante dal Processus) che “la di lui rovina seguita nell’anno 1255 insieme co’
Dragonara, <fu> cagionatali dalla Gente del Papa, contro il Re Manfredi ribelle della Chiesa, mentre
teneasi guardato da Saraceni confederati di Manfredi” (DE SANCTIS F., Notizie istoriche … di
Ferrazzano, Napoli 1791, pag. 19).
340
DI MEO, ad annum 1022. Il Carabellese (CARABELLESE F., L’Apulia ed il suo Comune, Bari 1905,
VII, pag. 149), dopo aver osservato che (v. pag. 48) “una divisione netta e precisa fra i domini del regno
d’Italia e del sacro romano impero, e quelli dei Temi di Longobardia non ci fu mai”, riferisce che “alla
fine di dicembre 1021 era ancora Ravenna … Il I febbraio 1022 era già a Chieti, donde confermò a
Montecassino i possessi nel comitato di Termoli, usurpati dai conti Atto e Pandolfo; e nello stesso mese
era a Campo di Pietra in territorio beneventano, donde confermò a S. Vincenzo al Volturno i beni
posseduti, nei comitati «Apruciense, Pinnense, Teatino e Termolense» contro Atto suddetto”.
Per arrivare, passando per Campodipietra, prossima a Campobasso, da Chieti a Benevento (dove, v. DI
MEO, “Landolfo Principe di Benevento, pacificatosi coll’Augusto Arrigo, lo ricevé con grande onore in
Benevento”), il probabile percorso stradale fu per quella “Strada dei Langianesi”, che, toccando
Limosano, passava per l’antico ponte posto sul Biferno, proprio tra la stessa Limosano e Montagano.
Si noti, infine, il forte attivismo patrimoniale nella direzione abruzzese, che conferma l’eventuale
demarcazione essere tra la cultura greca e quella franco-papale, delle abbazie cassinense e volturnense.
341
PETRUCCI E., Rapporti ... cit.
342
GOUBERT P., Quelques ... cit., pag. 309.
franco-latine e papali.
E lo scisma? “Era in questi tempi Patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario,
…, il quale … con sue lettere dirette a Giovanni Vescovo di Trani nella Puglia, ed a
Pietro Patriarca di Antiochia prese a querelarsi temerariamente di più cose della Chiesa
Latina, contro delle quali rinnovò pure le accuse che nel IX secolo le aveva fatte Fozio,
donde incominciò lo scisma tra le due Chiese (in nota: ecco le principali accuse del
Cerulario contro i Latini. Quod Latini in particulam Filioque Simbolo adjecissent; quod
azimo pane in sacrificio utaretur; quod feria IV carnem, parasceve caseum et ova edant,
sabbato jejunent; soffocata et polputa comedant; quod Monachi adipe suillo utantur,
eorumque infirmi carnibus vescantur; quod Sacerdotum nuptias prohibeant Latini; et in
Missa tempore communionis usus ministrantium azyma comedat, et reliquos salutet;
quod anulos in manibus Episcopi gerant ut sponsi; quod baptismum unica mersione
peragent, quod omnes barbam radant). A cagione di questi litigi il Pontefice nel mese di
Gennaio del 1054 spedì da Benevento in Costantinopoli suoi Legati all’Imperatore
Costantino Monomaco … […]. Ma invano si trattò di concordia, e queste liti andiedero
poi a terminare in un deplorabile scisma, l’infelice storia del quale è registrata negli
Annali Ecclesiastici. Per occasione di questa gravissima controversia si scrissero per
parte de’ fautori del Cerulario più opuscoli in Greco, e benché questi tradotti in Latino
(tanto che esso già quinquagenario nel mentre era in Benevento si coltivò ne’ secoli
barbarici, non solo per il continuo commercio de Beneventani co’ vicini Greci, ma
anche per il dominio, che questi ebbero per alcuni anni in Benevento) fossero presentati
a Papa Leone, pur tuttavia, …, noi crediamo, che Leone fosse a ciò fare spronato per
essere più a portata di rispondere ai Greci”343.
Tra gli effetti più evidenti della conseguente riaffermazione della romanitas latina
(e franco-papale) da una parte e, dall’altra, del parallelo arretramento di quanto aveva
significato la cultura greca (le cui persistenze residuali in Calabria – che, dopo Nilo da
Rossano (910-1004), riusciranno ancora ad esprimere un personaggio come Gioacchino
da Fiore (1130?-1202) – serviranno, peraltro, a bloccare nella Sicilia l’espansionismo
arabo), entrambi frutti maturati dallo scisma (le cui radici già il Di Meo faceva risalire a
secoli precedenti), è da registrare la definitiva scomparsa dalle scene della politica
centro-meridionale delle “reliquiae Langobardorum gentis”. Ed, in contemporanea
proprio al novantennio delle definizioni (v. la nota successiva n. 41) delle suffraganee
della sede metropolitana a Benevento, l’affermazione di quei Normanni, i quali, perché
possano riuscire a diventare soggetto vincente e vincitore e ad imporre, in tal modo, le
proprie specificità culturali (ed, in particolare, i nuovi concetti di potere e di stato),
dovranno farsi vassalli del potere papale. Gestendovi il nuovo, che avanzava e stava
prendendo forma, in maniera del tutto diversa che in passato. Tanto che, dopo una netta
frattura, anche i documenti iniziano ad essere, rispetto al prima, più numerosi e più
espliciti.
Si diceva della riaffermazione della romanitas latina e delle cancellazioni operate
(con il conseguente occultamento delle prove). E bisogna tornare ad esse, nonostante la
necessità di sintesi costringa ad accennare appena al tentativo (fu, tra i più evidenti, il
343
BORGIA S., Memorie … cit., II, pag. 34. Per la ricostruzione, assai puntuale, delle vicende che
precedettero lo scisma risulta, come già si diceva, ancora utile l’ottimo lavoro del Petrucci.
solo? e, soprattutto, cosa poteva avvenire per le realtà locali?) del 997 di sostituire il
papa, il quale “fu costretto a fuggir da Roma, nudo di tutto, e ritirarsi a Pavia”, con
Rilegato, di origine greca, che persino “fu intronizzato”344.
E’ stato già accennato, ultimo atto di una serie di documenti finalizzati alla nuova
organizzazione che è venuta a prodursi, in maniera assai dinamica, nel corso di circa un
novantennio345 dalla istituzione della sede metropolitana, al privilegio del 24 gennaio
1058, col quale papa Stefano IX ridisegna, ad appena qualche anno dallo scisma e, da
questo momento, in maniera relativamente definitiva, la geografia delle suffraganee di
Benevento346. Ed è stato accennato pure alla istituzione, con l’evidente finalità politica di
re-impiantare cultualità e ritualità latine nello scacchiere politico-religioso del territorio
ricompreso tra i fiumi Trigno e Biferno, nel 1068 (o, al più presto ma sempre dopo lo
344
DI MEO, ad annum 997. “Gregorius V ann. 1 mens V et eum foras ejecerunt, et Johannem Graecus
elegerunt”.
345
Eccoli nella schematica sintesi ripresa dal Pratesi (pag. 23 e seg.):
- privilegio di Giovanni XIII del 26 maggio 969, con cui il papa conferisce a Landolfo vescovo di
Benevento e Siponto la dignità arcivescovile e l’uso del pallio, precisando le città in cui il presule ha il
diritto di consacrare vescovi che siano a lui soggetti;
- privilegio di conferma di Giovanni XIV ad Aione arcivescovo, del 6 dicembre 983;
- lettera di Gregorio V ad Alfano arcivescovo, dell’aprile 998;
- privilegio di Sergio IV allo stesso, del 21 gennaio 1011;
- privilegio di Benedetto VIII allo stesso, del marzo 1014;
- privilegio di Leone IX a Uodalrico arcivescovo, del 12 luglio 1053.
346
Nonostante la diocesi di Limosano (come quella di Morcone, che già vedemmo nel capitolo precedente
di rito greco nei secoli IX e X) ancora non figura nell’elenco ufficiale della bolla del 1058, il Vipera
(VIPERA M., Cronologia Episcoporum et Archiepiscoporum Metropolitanae Ecclesiae Beneventanae,
Napoli 1636, pag. 85 e pag. 90) riferisce di due elenchi delle diocesi suffraganee, rispettivamente del 11
luglio 1054 e del 3 maggio 1057, nel secondo dei quali, a differenza che nel primo, risulta già indicata
quella diocesi. Circostanza che farebbe pensare ad una sovrapposizione da parte latina, proprio nel lasso di
tempo compreso tra tali date della diocesi limosanese. E che debba trattarsi di una sovrapposizione lo si
può desumere dal fatto che già prima del 1054 e sin dal 1040 (v. documento n. 4 in nota 17 del capitolo
precedente) si ha che Fotino è episcopus titolare, evidentemente greco-bizantino, di tale diocesi.
Relativamente, poi, alla bolla di papa Stefano IX, datata “a’ 24 di Gennaio di quest’anno” 1058, di
“conferma ad Udalrico Arcivescovo di Benevento” (consacratovi nel 1053, subito dopo la battaglia di
Civitate), con la quale di tale Arcivescovato “ne dice suffraganei S. Agata, Avellino, Monte Marano,
Troja, Dragonara, Civitate, Montecorvino, Tortiboli, Viccarino, Florentino, Termoli, Trivento, Volturara,
Tocco, Quintodecimo, Monte di Vico (Trivico), Atino, Larino, Ascoli, Lucera, Alifi, Telese, Bovino” (v.
DI MEO, il quale pure non riporta Ariano), la lettura che ne dava già il Di Meo, essendovi inserite tutte le
diocesi lungo il Fortore, nella Capitanata e, per così dire, di confine (e che vedemmo istituite “da’ Greci”,
farebbe pensare ad interessi di appropriazione sul territorio in un preciso momento storico.
“Su questo [= Udalrico, al quale il 12 luglio 1053 una bolla pontificia (evidentemente da Benevento)
concedeva il pallio di arcivescovo] e sugli altri arcivescovi tedeschi di Benevento, cf. PAHNCKE,
Geschichte …, p. 22, nota 12 di p. 20; p. 74 e cf. quanto egli stesso dice nelle sue Verbesserungen und
Nachtraege; SCHWARTZ, Die Besetzung …, p. 36” (BERTOLINI O., Gli Annales Beneventani, in BISI
42, Roma 1923, pag. 139). I due lavori (e bisognerebbe approfondire questo importante aspetto che
starebbe a dimostrare un forte movimento di cambiamento nelle istituzioni della chiesa individuabile
anche nei sinodi diocesani che proprio Udalrico sta per organizzare) citati dal Bertolini sono:
- PAHNCKE H., Geschichte der Bischoefe Italiens deutscher Nation, I, Berlin, Ebering, 1913
(Historische Studien …, Heft 112);
- SCHWARTZ G., Die Besetzung der Bistumes Reichitaliens unter den saechrischen und
salischen Kaisern, Leipzig u. Berlin, Teubner, 1913.
scisma, nel 1061), della piccola diocesi di Guardialfiera. Ed è stato accennato anche, da
ultimo, al fattaccio347, che in questo modo trova il suo spazio nella logica di un disegno
ben preciso, della distruzione delle carte del cenobio di S. Fotina (o Fotiné), santa
greca, che, a partire da questo preciso momento348, diventa di S. Illuminata, la santa
latina corrispondente; non prima, però, di averlo tolto alla giurisdizione della istituzione
bizantina di S. Eustasio ed assegnato al monastero cassinese (con una ulteriore seconda
donazione nel giugno 1109 ad opera di Tristaino, “Limessani castri dominus”, e, ancora
una volta, del vescovo di Trivento), strumento della politica romana e papale.
Circa gli effetti pratici della politica di riaffermazione della romanitas latina, in
sostituzione di quella greca, da parte papale, oltre che i necessari tempi ad affermarla,
può bastare, a dimostrarne i contenuti, il fatto che “S. Pietro Damiani (Epist. ad S.R.E.
Cardinales) dice, che il Papa nel Concilio di Puglia depose Giovanni Arcivescovo di
Trani, e Siponto, Sincello Imperiale, e ch’era stato uno de’ Capi del partito de’ Greci
Scismatici, … Ma non sappiamo, se fu deposto per questi capi. Il Damiani solo dice, che
questo Arcivescovo deposto, come ancora il Vescovo di Ascoli (nota: diocesi
suffraganea di Benevento), deposto in seguito da Alessandro II portavano Pontificales
baculos cum continuo radiantis metalli nitore confectos, … Il S.P. nello stesso
Concilio di Melfi, depose il Vescovo di Montepiloso, come simoniaco, e adultero; e il
Vescovo di Tricarico, perché consagrato neofito”349. Già prima, però, e precisamente nel
1060, si era intervenuti in aree più prossime a Roma ed anche in territorio molisano, se è
vero che “Il S.P. … in Aquino depose quel Vescovo Angelo, perché da neofito fatto
Vescovo, di pessimi costumi, …, e di già scomunicato da Leone IX e vi consacrò
Vescovo Martino, nativo di Firenze, e Monaco Cassinese. Consagrò parimente vescovo
di Venafro, ed Isernia Pietro, nativo di Ravenna, anch’esso Monaco Cassinese”350.
A differenza, però, delle istituzioni del clero secolare, quelle monastiche, come
mostra il fatto che (v. nota 6) il Monastero di S. Pietro a Foresta aspetterà qualche
decennio ancora per passare a Montecassino, probabilmente fecero maggiori resistenze.
Ma, se non tanto nelle cose specifiche (più difficili ad essere individuate, ma che
pure non mancano351), nella sua generalità l’opera della riaffermazione emerge sin
troppo chiara ed evidente già dalla frequenza, dalla sequenza delle date e dalla presenza
stessa dei papi, dei “Conciliorum Provincialium, tum ab ipsis Summis Pontificibus
Beneventi celebratorum, tum a propriis Metropolitis”. Ne saranno dieci, di cui ben sei
347
Chr. Mon. Casin., ed HOFFMANN H., in MGH Scriptores XXXIV, Hannover 1980, pag. 499 e seg.
Tra il 1066 ed il 1084, anno in cui l’autore, Alferio, viene fatto vescovo di Trivento (Di Meo). Anche
se, figurando il monastero limosanese già come titolato a S. Illuminata nella porta di bronzo, fusa prima
del 1071, di Montecassino, la data è da collocare tra il 1066 ed, appunto, il 1071.
Di Alferio sappiamo che “visse a’ tempi del Pontefice Pasquale II (1099-1119). Viene ricordato da Pietro
Diacono nella Storia Cassinese. Per lo stesso apprendiamo che avendo egli sottratto alcune carte al
monastero di Sant’Eustasio, presso Benevento, distrusse, tra esse carte, il documento, pel quale i Principi
Beneventani tenevano sottoposta la chiesa di Santa Illuminata a quel monastero (Pietro Diacono: Storia
Cassinese, cap. 54)” (DE SIMONE E., I Vescovi di Trivento, Trivento 1993).
349
DI MEO, ad annum 1059.
350
DI MEO, ad annum 1060. Si noti sia la provenienza dal mondo centro-settentrionale di questi nuovi
Vescovi e sia il loro status di Monaci del Monastero di Montecassino, espressione della fedeltà alla
politica franco-papale. E, nel 1110, troviamo Vescovo di Limosano Gregorio, già Monaco cassinese.
351
BOZZA F., Segni di presenze … cit.
348
presieduti da pontefici, nell’arco di appena un sessantennio352, quello decisivo. Che,
però, come mostra il fatto che la chiesa beneventana, a partire dal 1130 e per circa otto
anni, sarà il teatro dello scisma di papa Anacleto II, dovette sicuramente incontrare in
loco grandi resistenze.
In perfetta coincidenza proprio con il costituirsi sul territorio delle strutture di
potere organizzate dai normanni, i quali, portatori di una cultura assai diversa da quella
degli autoctoni, dovranno impiegare tempi non brevi e non rapidi per raggiungere una
‘integrazione’, il periodo di tempo intercorrente tra lo scisma del 1054 e, dopo circa
settantacinque anni (ma ci si può tranquillamente spingere oltre), l’altro anacletiano
nonostante quanto lascia emergere la revisione, con le sistematiche falsificazioni, del
secolo XVI353 specialmente, fu vissuto nelle realtà locali in condizione di scontri legati
alla faziosità, allora particolarmente violenta e tesa alla sopraffazione, delle parti in lotta.
Vale a dire, cioè, che, mentre le diocesi, di cui diventa non facile la ricostruzione delle
successioni, attraversarono una fase di confusione, durante la quale sembra assai
probabile che ognuna, presa singolarmente, visse, per periodi più o meno brevi e/o più o
meno lunghi, alternativamente e fuori da ogni schema logico sia la ritualità greca e sia
quella latina (e, non infrequentemente, però anche l’esperienza della contemporaneità,
fatta di forte contrasto, dei due riti) con la seconda sempre più vincente e stabile, il
numero di quei “plurima Graecorum monasteria sive ecclesiae”, che, in precedenza,
era possibile incontrare sia intra che extra Romam, veniva, anch’esso sempre più e
nonostante le probabili resistenze, a contrarsi ed a ridursi.
E, se è vero che già “au concile de Melfi en 1058, Nicolas II, fort de l’appui des
Normands, décida de rendre au Patriarcat de Rome, les terres qui lui avaient été enlevées
par les empiétements des empereurs isauriens ou macédoniens”, è altrettanto vero, e non
bisogna dimenticarlo, che “l’évolution fut lente e la latinisation ne se fit que par
étapes”354. In certo qual modo, e se solo si considera che sono trascorsi più di due secoli
e mezzo, lo dimostra a sufficienza il fatto che “en Calabre, dans la diocèse de Reggio, on
comptait entre 1326 et 1328 d’après les registres des collecteurs d’impots, gens
352
Dal citato Synodicon apprendiamo che:
i “Concilia I Generis (= presieduti dal papa)
• A Nicolao II celebratum anno 1059 <con> Uldarico VI Archiepiscopo;
• A Victore III celebratum anno 1087 <con> Roffrido IX Archiepiscopo;
• Ab Urbano II celebratum anno 1091 <con> eodem Roffrido Archiepiscopo;
• A Paschali II celebratum anno 1108 <con> Landulpho II Archiepiscopo X;
• Ab eodem Paschali II celebratum anno 1113 <con> eodem Landulpho Archiepiscopo;
• Ab eodem Paschali II celebratum anno 1117 <con> eodem Landulpho Archiepiscopo”.
E i “Concilia II Generis (senza la presenza del papa, che mai più sarà presente in una sinodo provinciale)
• Ab Uldarico VI Archiepiscopo celebratum anno 1061;
• Ab eodem Uldarico VI Archiepiscopo celebratum anno 1062;
• A S. Milone VIII Archiepiscopo celebratum anno 1075;
• A Landulpho II Archiepiscopo X celebratum anno 1119”.
Per la celebrazione di un nuovo concilium bisognerà far passare più di due secoli ed aspettare quello “a
Fr. Monaldo Monaldesco Ord. Min. XXIII Archiepiscopo celebratum anno 1331”.
353
Il Di Meo, dopo averne accennato ad annum 1094, arriva alla conclusione, per cui “… dunque o è falsa
la Platea, o son false le Carte, che erano tutte altre nel 1533”.
354
GOUBERT P., Quelques ... cit., pag. 309.
minutieux, qui ne se trompent guère: 103 pretres ou clercs, 5 protopopes ou archipretres,
13 monastères d’hommes, 3 monastères de femmes”355.
Il tutto sta a confermare l’analisi, secondo cui “il sec. XI segna, nello sviluppo
della cultura di lingua greca in Italia, una svolta importante <e> due avvenimenti si
produssero nel corso di quel secolo destinati ad avere conseguenze di lunga portata sui
destini dell’ellenismo nel Mezzogiorno: lo scisma cerulariano, di cui si tende oggi da
alcuni a sottovalutare l’importanza, ma che ebbe strette connessioni, nella sua genesi e
nel suo sviluppo (a) proprio coll’Italia meridionale, provocando la collusione tra papato
e invasori normanni, e il definitivo insediamento di questi ultimi, che nel loro zelo per il
rito latino da loro professato (zelo dettato da motivi politici più che religiosi) privarono
all’inizio della loro dominazione la Chiesa bizantina d’Italia di molte ed importanti sedi
episcopali, vale a dire di altrettanti centri di cultura greca (b). L’adattamento della
popolazione al nuovo stato di cose non avvenne senza difficoltà, e l’antipatia di una
parte almeno degli Italo-greci verso Roma, rinvigorita dall’ormai avvenuto distacco
formale tra le due Chiese, sopravvisse a lungo, almeno sino al sec. XIV, quando,
succeduta alla dinastia sveva la casa d’Angiò, tutta devota al cattolicesimo latino, «les
Grecs d’Italie», osservava P. Battifol, «étaient … mis en demeure ou de faire secte à
part, comme des Vaudois, ou de passer au romanisme» (c)”356. Non solo «les Grecs
d’Italie»; ma, maggiormente ed in senso assai ampio, la cultura (con tutto quanto a
questa riconducibile), che essi, con una straordinaria osmosi di scambi reciproci con i
longobardi meridionali357, avevano prodotto nel corso di diversi secoli.
3.2 – La ‘fortuna’ delle grandi famiglie
A partire all’incirca dall’anno mille, parallelamente all’emergere ed all’affermarsi
nella società, proprio come i documenti e le fonti iniziano a mostrare con frequenze
sempre più insistenti, della figura del ‘miles’, viene anche a costituirsi, e per il territorio
a mezzogiorno di quello che era diventato il Patrimonium S.ti Petri la penetrazione e
355
GOUBERT P., Quelques ... cit., pag. 311. Il Goubert, che riporta anche le stituazioni di alcune altre
diocesi calabresi, prende i dati e cita da: GAY J., Notes sur la conservation du rite grec dans la Calabre et
dans la Terre d’Otrante au XIVe siècle, in Byzantinische Zeitschrift, tomo IV, 1895, pag. 59-66.
356
GIANNELLI C., L’ultimo ellenismo nell’Italia meridionale, in Atti del 3° congresso internazionale di
studi sull’alto medioevo: Benevento – Montevergine – Salerno – Amalfi, 14-18 ottobre 1956, Spoleto
1959, pag. 291. Il Giannelli, in nota, registra che e/o cita:
(a) Sul territorio italo-greco hanno avuto origine nel sec. XIII due polemiche tra Latini e Orientali, quella
relativa alla formula battesimale (cf. C. GIANNELLI, Un documento sconosciuto della polemica tra
Greci e Latini intorno alla formula battesimale, in Orientalia christiana periodica, X [1944], pp. 150-67) e
l’altra sul Purgatorio, su cui v. M. RONCAGLIA, Georges Bardanès métropolite de Corfou ecc. (Studi e
testi francescani, 4), Roma 1953.
(b) Cf. ad es. SCADUTO, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale, Roma 1947, pp. 37 ss.
(c) BATTIFOL, L’abbaye de Rossano, p. XXXVI.
357
GAY J., L’Italie méridionale et l’Empire byzantin, Paris 1904, pag. 605 e seg. “C’est la mélange des
influences bizantine et lombarde, qui a donné à l’Etat gréco-latin organisé par les Normands au Sud de la
Péninsule, son caractère original ... La civilisation si brillante, qui s’y épanuit au XIIe siècle, a son
principe dans le développement de la vie urbaine, du commerce et du luxe – conséquence naturelle des
rapports plus fréquents avec Byzance”.
l’evidenziarsi delle famiglie e, ad esse in senso allargato collegate, delle classi dominanti
normanne di certo non rappresentarono un fattore estraneo, il potere, per alcuni versi,
definito ma, per altri, ancora non completamente, dei “domini loci”. Al formarsi, cioè,
di nuove strutture gerarchiche e gerarchizzanti della società, che, diversamente dal
passato e con il diffondersi dei fermenti culturali portati dai normanni, ha caratteristiche
sempre più laiche e sempre meno religiose (aspetti che vengono sempre più percepiti
come separati e separabili tra loro), corrisponde l’evidenziarsi di un ordo intermedio,
quello dei cavalieri, che, nell’evoluzione dalla semplice funzione di uomo d’arme
all’essere espressione di una condizione sociale, costituisce la causa ed, al tempo stesso,
anche l’effetto di quel fenomeno.
Ma, per arrivare alle situazioni sociali, occorre iniziare a ricostruire, per quanto e
come sia possibile farlo, quelle delle geografie.
Nonostante la storiografia tradizionale colloca proprio a questo periodo il punto di
cesura con i secoli bui dell’alto medioevo per far partire le dinamiche della crescita sia
demografica che nel numero degli insediamenti, per i quali è da ora che ne viene fissata
la definitività e, pur con i necessari accomodamenti apportati dagli sviluppi successivi, il
punto d’inizio della situazione com’è al presente 358, la geografia delle presenze umane
sul territorio, dopo timidi tentativi di risveglio, cui, a partire “dai primi del secolo X”359,
non furono di certo estranee le variazioni per i miglioramenti climatici, porta a registrare
la scomparsa, da un lato, della gran parte degli insediamenti minori e minimi (i casalia, i
castra ed i borghi) sparsi, ma scarsamente difendibili, in gran numero sul territorio e,
dall’altro, la precisa definizione dei ruoli dei centri abitati più significativi, le “terrae”,
assegnate ad un “utile padrone”, il dominus. Arriva, cioè, a maturazione il processo di
concentrazione e di stabilizzazione della presenza umana negli insediamenti innescato
dalla ricerca di maggiore difendibilità del locus dal pericolo ‘Sarracenorum” prima (IX
secolo) e, poi (secolo X), della forte instabilità e volatilità politica.
Va subito premesso che, per una ricostruzione, la più attendibile, delle geografie, è
necessario partire dalla constatazione per cui “appare chiaro dalla lettura critica del
Cat(alogus) Bar(onum) che è stata fatta, che la contea di Molise (come del resto tutte le
contee del Regno normanno) non costituiva affatto una entità territoriale della quale è
possibili tracciare il perimetro del confine (come fecero il De Francesco e la Jamison),
ma era costituito da una serie di terrae feudali non necessariamente contigue tra loro.
Accanto e tra i feudi del conte, vi erano: i possessi ecclesiastici, e quelli patrimoniali; i
feudi tenuti direttamente in capite de domino Rege; le terrae regie”360. Confermerebbe
358
“E dopo il Mille, in tutto l’Occidente, aumenta la popolazione. E un forte incremento demografico
porta al formarsi di nuovi centri abitati, che rapidamente si ingrandiscono, si moltiplicano, e si recingono
di mura, dando origine a nuovi paesi e castelli (castra)”. COLITTO F., Il Molise intorno al Mille, in AM
1981, pag. 298. Anche il MASCIOTTA colloca ad appena dopo il mille la ‘fondazione’ di un gran
numero degli attuali centri abitati del Molise.
359
PONTIERI E., Sul così detto Comune di Benevento nel Mille, in SAMNIUM 1933. “Dai primi del
secolo X si ebbe una rinascita della vita urbana si può dire in ogni contrada del Mezzogiorno d’Italia:
castelli, borghi e casali sorsero qua e là per le campagne, che offrivano una sicurezza maggiore e, …; un
tono di vita più intenso e più raffinato pulsò per le città, …” (pag. 10).
360
CUOZZO E., Il formarsi della feudalità normanna nel Molise, in ASPN XCIX (Terza serie, anno XX)
1981, pag. 116.
tale composizione il quadro della situazione geografica degli insediamenti riferita ai
primi secoli dopo il mille che potrebbe derivarsi (ma in altra sede) combinando le
risultanze del Catalogus Baronum (che, relativo al periodo tra il 1150 ed il 1168,
tuttavia, mostra delle lacune per alcune zone, tra cui quella del medio Biferno) ed i dati
delle Rationes Decimarum Ecclesiae dei primi anni (1308-1310) primo trentennio del
XIV secolo. Che, però ed in quanto il territorio della ex-diocesi di Limosano è confuso
con Benevento, danno una situazione relativamente poco sicura, se non proprio troppo
approssimativa, per l’ambito del medio Biferno. Tuttavia la geografia degli insediamenti
di quel territorio è ricavabile, con sufficiente precisione, dalla consistenza stessa della
diocesi come risulta dalla “reinscriptio” al momento dello scisma anacletiano, durante il
quale si ha la contemporanea presenza, documentata e certa, di almeno due episcopi
(Ugo per il partito di papa Innocenzo e, fattosi nominare da papa Anacleto, il vescovo
Gregorio) sulla stessa cattedra episcopale361.
In una situazione in evoluzione e complessivamente in movimento ed ai margini
più estremi dei poteri bizantini costituiti (che, però, coincidono perfettamente con quelli
dei poteri longobardi, assai deboli e carenti, sopravvissuti alle divisioni), ma già in crisi,
arrivano ad incunearsi i primi nuclei di normanni, dei quali “la loro comparsa è avvolta
nel mistero, non potendosi precisare né il tempo, né il luogo, né se fossero espatriati in
cerca di occupazioni o pii pellegrini o mercenari al soldo degli ambiziosi principi
longobardi”362. Emergono da tale mistero, se proprio si vuole dare scarsa considerazione
a quelli che, già in precedenza e più o meno da mercenari363, avevano militato negli
eserciti degli imperi d’occidente e d’oriente, due gruppi di maggior significato: il primo,
con a capo rappresentanti della famiglia dei Quarrel-Drengot, si stabilisce nei territori
361
Questi erano gli insediamenti: Limosano, il castello di sant'Angelo, Castelluccio di Limosano, Ripa
(di) Limosano che si chiamava Ripa del conte col casale di Santo Stefano di Ripa, Castro Pimano con la
sua baronia (probabilmente Casalciprano e Roccaspromonte), Fossaceta con i suoi casali, Cameli, (S.
Elena Sannita) Covatta, (O)ratino con la rocca di Racino, il castello di Monte Agano, Collerotondo,
Petrella con la rocca, castro di Lino Ferrara, Cascapera, ossia il castello di Giovanni Folcone Torella,
Molise, Serra Graffida con Sant'Alessandro (aveva un valore di ben 6 once di decime ecclesiastiche, che
farebbe pensare ad una struttura molto importante), Collealto e Campolieto..
A tali insediamenti principali occorre aggiungerne qualche altro e tutto quanto rimaneva delle dipendenze
dalle strutture monastiche, che, dalle Ratinones Decimarum e da altre fonti, risultano essere:
a) nella diocesi di Guardialfiera: Licetum (Lucito), Caltabuccatium ed Aquabuctatium (Castelbottaccio),
Civitas Campumarini (Civitacampomarano e, non lontano) Castrum Ionathe, Lupatum (Lupara);
b) nella diocesi di Trivento: Ecclesia S. Blasii de Maclabona (tra Limosano e Fossalto), Rocca episcopi
(tra Trivento e Limosano), Petracupa (Pietracupa), Petra Valla (Pietravalle ?), Ecclesia S. Marie de
Castenneto (vicino Casalciprano), S. Petrus de Balneo (“in valle Luparia”);
c) nella diocesi di Boiano (che si estende fino a Castellino e, ad esclusione di Faifoli, ha preso dalla
diocesi di Limosano tutti i centri alla destra del Biferno): Monasterium S. Marie de Campobasso;
d) nella diocesi di Benevento: Monasterium S. Marie de Heremitorio (già della diocesi di Limosano, sito
in agro di Campolieto), Monasterium S. Marie in Faynola (Faifoli), Prior S. Silvestri de Limosano, (a
poche centinaia di metri da Limosano, in direzione nord) Castrum Matricii (Matrice).
362
PONTIERI E., Il capitolo sui normanni nella Storia d’Italia, in Settimana CISAM XVI (1968), Spoleto
1969, pag. 20.
363
Secondo il citato Pontieri (v. articolo in nota precedente), lo stesso Melo di Bari, che, longobardo, si era
posto alla testa dell’insurrezione della sua terra (1009) contro l’Impero greco-bizantino, si era incontrato
con alcuni di essi, il cui contengente, guidato da Gilberto Buatère, veniva battuto nell’ottobre 1018 dal
catapano bizantino, mandando a monte i piani e le speranze dello stesso Melo.
posti tra Napoli, che dipende ancora dai greci, e Capua soggetta ai longobardi e fissa il
proprio punto di riferimento ad Aversa, di cui nel 1029 ottiene la titolarità del potere364;
l’altro gruppo, riunito intorno agli esponenti della famiglia degli Haut-ville (Altavilla),
si stabilisce nell’area del territorio posto tra l’Apulia bizantina365 e la Lucania, che
dipende dai longobardi, costituisce, nel 1041, il maggiore punto di riferimento, e di
potere, a Melfi e in appena un decennio penetra, attraverso la fascia di territorio, più o
meno ampia, ricadente tra l’Apulia ed il principato di Benevento, sino alla Capitanata
molisana, dove forma quel Comitatus Loritelli366, che viene ad emergere sulle ceneri
della longobarda (e, più probabilmente, bizantina) contea di Pantasia367, e sino al Molise
364
Anche se “nuovi documenti hanno permesso a E. Cuozzo, Intorno alla prima contea normanna
nell’Italia meridionale, in E. Cuozzo, J. M. Martin (a cura di), Cavalieri alla conquista del Sud. Studi
sull’Italia normanna in memoria di Léon Robert Ménager, Roma-Bari 1998, pp. 172-7, di ritenere «che la
contea di Ariano, e non quella di Aversa [...] sia stato il primo organismo politico realizzato dai Normanni
nel Mezzogiorno»” (TRAMONTANA S., Il Mezzogiorno medievale, Roma 2000, pag. 26, in nota 9).
365
Il Di Meo, ad annum 1027, registra che Corrado, succeduto ad Arrigo, “fu coronato Imperadore con sua
moglie Gesela nel giorno solenne di Pasqua … Indi col suo esercito soggiogò a se Capua, e Benevento, e
diede a’ normanni Ascoli, Canosa, e Ruvo per tenere a freno i Greci; e così Wippo, Apuliam, dice,
processit, et Beneventum, et Capuam, et reliquas Civitates illius Regionis, …, et Normannis, …, ibi
abitare licentiam dedit, et ad defendendos terminos Regni adversus Graecorum versutias, eos
Principibus suis coadunavit”.
366
Per qualche utile approfondimento su tale istituzione, si veda: AA.VV., La contea normanna di
Loritello, Campobasso 2002.
367
Se è vero che (cosa che spiegherebbe anche l’assoggettamento del cenobio limosanese di S. Illuminata
a quello di S. Eustasio, in Pantasia, “ab ipso suae constructionis exordio”, fatto che rappresentava la
risposta alle prime, del 972, oblationes, fatte, a qualche anno appena dalla istituzione [969] della
metropolia a Benevento, sicuramente in funzione anti-bizantina, delle tre ecclesiae di S. Maria, di S.
Benedetto e di S. Pietro cum earum pertinentiis, situate alla Maccla bona, che rientrava nella Sala,
antico corpo feudale confinante con Castelluccio di Limosano posizionato tra i territori di Fossalto e della
stessa Limosano) “un diploma del 976 di Pandolfo e Landolfo autorizzava l’abate Johannes Pantasia a
fondare il monastero di S. Elena, nella contea di Pantasia”, molto probabilmente proprio da essa veniva
l’omonima famiglia, la quale (perché perdente rispetto alla emergente famiglia dei de Molisio?), prima di
spostarsi a Benevento (al più tardi durante il secolo XII), fu tra le maggiori di Limosano tanto che aveva
scolpite le insegne sulla porta del Borgo di quella “olim civitas” (VIPERA). Il suo esponente più noto fu
quel Pantasia Abdenago, che, “di nobile famiglia originaria di Limosani (Molise)”, fondava a
Benevento “... nel 1177 una chiesa e una collegiata, quella di S. Spirito, e, accanto ad essa, una
confraternita laicale” (ZAZO A., Dizionario Bio-Bibliografico del Sannio, Napoli 1973; voce
‘PANTASIA Abdenago’).
Fu “famiglia di giudici, di notai e di sacerdoti quella dei Pantasia, un ramo della quale si trasferì a
Benevento dall’originario Molise. Agli inizi del XII secolo, da Poto Pantasia, nasceva Abdenago
«fundator Ecclesie Sancti Spiritus» (nota: culto della tradizione bizantina, da cui, proprio negli stessi anni,
sta molto attingendo il contemporaneo calabrese Gioacchino da Fiore) e dell’omonima Confraternita e suo
primo abate (+ 6 agosto 1183). Fin dal 1143 ci incontriamo con altro Pantasia, Johannes, che fu monaco e
poi priore del priorato verginiano S. Filippo e Giacomo di Benevento e nel 1230 con Pantasia judex e
Bernardo Pantasia. Bernardo fu uno dei nuovi consoli del 1230 ed ebbe un figlio, Pietro diacono che
troviamo menzionato con altri della stessa casata, in un contratto di compravendita. Padre di Bernardus fu
Riccardus Pantasia notarius ascritto anche lui, per devozione dei suoi discendenti, alla Confraternita S.
Spirito. Quasi tutti i Pantasia abitavano in parrocchia S. Eustasii; colà nel XIII secolo abitava
Bartholomeus abbas Pantasia canonicus beneventanis, in una casa di proprietà del Monastero di S. Sofia
«pro qua omni anno tenetur solvere tarenos VI», e vi abitava anche Aldemarius Pantasia, «nobilis et
prudens vir». Un altro Aldemarius, canonicus, et «rector Ecclesie S. Angeli ad Caballum» fin dai tempi di
più interno, dove, a Bojano, verrà a strutturarsi, ad opera della famiglia dei de Molisio
(che, con caratteristiche di forti tendenze autonomistiche, sembra non risultare collegata
alle altre due – almeno sino al 1140, quando Ugo II giura fedeltà a re Ruggero e ne entra
in parentela – ed agisce autonomamente e per interessi propri), il Comitatus Bojani368,
che, prendendo il nome dal titolare (anche se un centro abitato col nome di ‘Molisium’ è
documentato ricadere, già durante il contemporaneo scisma anacletiano, nella diocesi di
Limosano), diventerà il Comitatus Molisij solo a partire dal 1142369, quando si avrà
anche la probabile riunificazione della contea di Bojano con quella di Limosano 370, che,
a partire da Tristaino (che era uno dei figli di Ugo<ne> I, figlio a sua volta del
capostipite Rodulfus, di cui si ha la prima notizia nel 1053), era appartenuta ad un ramo
collaterale della stessa famiglia.
Oltre che durante la fase letale sia della longobardicità (che prende a scomparire),
sia dell’ellenismo greco-bizantino (che persisterà solo, ed in modo assai marginale, in
qualche isola, ma riferibile esclusivamente alle categorie religiuose) e sia di quel
singolare modo di essere rappresentato, nel centro-meridione, dalla combinazione delle
due culture, che pure aveva dato vita ad una propria tipicità culturale, il fenomeno
normanno ha bisogno della contemporaneità della latinizzazione, per affermarsi e per
mettere le sue radici in un territorio sociale che, con la feroce radicalità degli scontri tra
chi, sempre più numerosi, reclama il nuovo e chi difende le resistenze espresse dalle aree
di privilegio legate al vecchio, sta vivendo riforme e rifondazioni ad ogni livello; e, con
queste, una fase di confusione, se non di vero e proprio sbandamento371.
Onorio III, fu tra i sostenitori del diritto alle «refectiones et prandia», soliti a concedersi ai chierici che
nelle solenni festività religiose, accompagnavano la cavalcata dell’arcivescovo per le vie della Città. Nel
1308-1327 certamente svolse la sua attività un secondo giudice della famiglia Pantasia, Riccardus (e nel
1308-1310 un non nominato «filius iudicis Riccardi Pantasie» pagava la decima di tre tareni), in non pochi
negozi contrattuali e arbitrali, come quello relativo al giudicato dell’abate di Casanova sul diritto di
giurisdizione restituito al Monastero di S. Sofia, sui casali di S. Pietro ad Lauretum e di S. Maria ad
Lucernale. Nel 1325 – ci dice il Borgia – gli abitanti di Paduli (Benevento), vassalli di Guglielmo di
Shabran conte di Ariano e di Apice, aggravarono con indebite esazioni i Beneventani di qua e di là dai
fiumi Calore e Tammaro, contro il tenore dei privilegi concessi da Carlo I d’Angiò. La causa fu trattata in
Napoli alla Corte di Roberto d’Angiò. E Benevento fu efficacemente difesa dal «discretus vir iudex
Richardus Pantasia civis beneventanus, ambassator et nuncius universitatis hominum Beneventi». Un
secondo Richardus Pantasia anche giudice, lo incontreremo nel 1385 (v. ARCHIVIO STORICO
PROVINCIALE BENEVENTO, Fondo S. Vittorino, t. 9, perg. 10)” (ZAZO A., Professioni, Arti e
Mestieri in Benevento nei secoli XII-XIV, in SAMNIUM 1959). Anche se erano molte le cose in comune,
appare quasi singolare la coincidenza per cui, come a Benevento esisteva un importante Monastero di S.
Vittorino, anche a Limosano vi era un “Casalenum Ecclesiae S.ti Vittorini” posto in quella che è
diventata “La Morgia d’ S.ta Luttrina”.
368
Risulta essere primo titolare della contea di Bojano Rodulphus de Molisio nel 1053.
369
CUOZZO E., Il formarsi della feudalità normanna ... cit., pag. 118 e segg.
370
BOZZA F., Limosano: Questioni ... cit., Cap. VI.
371
“Questi rilievi dimostrano ancora che cessata la Greca dipendenza, se ne conservasse tuttavolta il rito
intorno a duecento anni dopo. Il Cardinale de Luca (De Luca, In Conc. Trid. Disc. 8 num. 25 Disc. 14 n.
20 e 21) insegna «dicta intrusione cessata, Sedes Apostolica ejiusdem ritus continuationem permisit ;
prudenter tamen curata fuit introductio ritus Latini …». E poco appresso aggiunge «antiquiori tempore
frequens erat usus ritus Graeci in Italia ... ob dominationem Imperatoris Constantinopolitani, qua durante,
istae partes, vel regiones … vivere coactae fuerunt sub obedientia Patriarchae Constantinopolitani, qui
plures Episcopatus erexit, unde provenit illud inconveniens»” (CAPOZZIG., Memoria … cit., pag. 22).
Minata dagli eccessi degli esponenti, tanto del clero secolare che di quello
regolare372, la credibilità stessa del potere, che, in precedenza, era stato amministrato
prevalentemente dalle organizzazioni religiose, è da tempo andata in crisi; ed, ora, viene
anche messa in discussione e ‘contestata’. Così, proprio mentre la società sta vivendo la
istituzionalizzazione del rapporto vassallatico, può emergere (ed essere riconosciuta ed
accettata), all’altro capo del rapporto, la categoria del “Signore, e utile padrone”, che
prende una sua visibilità e, nel tempo, la sua continuità 373. Non solo; ma è che al suo
servitium, opportunamente ed opportunisticamente, viene a collocarsi, sempre più
emergente dopo l’anno mille, anche la figura di quel miles, che, col farsi esponente di un
ordo a se stante, porterà al fenomeno della cavalleria.
Conseguenze del tutto naturali (come naturali saranno le stesse resistenze delle
istituzioni religiose) del combinarsi di tali processi furono tanto la laicizzazione del
potere quanto, ad essa contemporanea e favorita molto dalla disordinata situazione
politica in cui ne avviene l’inserimento, l’affermazione degli esponenti delle famiglie
normanne (che vengono ben ricompensati per i servizi prestati ai detentori del potere),
che le fonti locali coeve374, quasi affascinate dal loro aspetto fisico, descrivono alti, forti
ed, in quanto ‘superiori’, predestinati ad esercitare quelle funzioni del comando, che le
indebolite, e perdenti, aristocrazie longobarde, confluite e, sempre più spesso, confuse
nelle istituzioni clericali, hanno dimostrato di non riuscire più a mantenere. Mutamenti
profondi e radicali trasformazioni che si concretizzano proprio mentre gli insediamenti,
che erano stati ‘civitas’ (e che, in quanto tali, avevano rappresentato sul territorio il
punto di riferimento sia del potere civile che di quello religioso), vanno a perdere per
372
Se, relativamente al clero regolare, per il quale, durante l’XI secolo, vi saranno, tra tante, le grandi
riforme dei Citaux e di Cluny, il Di Meo, già ad annum 901 (ma, ad annum 958, annotava ancora che “in
questi tempi per la maggior parte i Monasterj d’Italia erano divenuti sentine di vizj”), poteva registrare
che “… si videro i Monasterj moltiplicarsi, e straricchire fino all’eccesso, ma, eccetto i Basiliani
(nota: la cui diffusione sembra più che evidente; tanto che, al 992, scrive di monasteri in cui si recitavano
in greco i divini Uffizi), tutti gli altri furon tenuti da Monaci, quasi tutti attaccati al solo interesse, e
piaceri”, la condizione del papato, che, a partire dal secolo della eccessiva “pornocrazia papale”, era
giunto ad una condizione tale per cui, prima della serie (che parte con Leone IX) dei papi monaci di
origine tedesca (la quale culminerà nella riforma di papa Gregorio VII [1073-1085], dopo che, nel 1057, è
stata data origine anche all’ordo del cardinalato), fu possibile al figlio di Teofilatto di diventare papa, col
nome di Bendetto IX, per ben tre volte nell’arco di tempo di poco più di un decennio, e dei vertici delle
istituzioni del clero secolare fu a dir poco scandalosa; e, in ogni caso, ha perso autorevolezza e credibilità.
Non solo; ma (v. Di meo ad annum 1044) “fu in somma confusione in quest’anno la Chiesa Romana”,
perché il papato veniva venduto e rivenduto tanto che “furono così tre Pontefici, risedendo Benedetto (IX)
nel Laterano, e gli altri due, uno (Silvestro III) a S. Pietro, e l’altro (Gregorio VI) a S. Maria Maggiore.
Tra le tante, una delle disfunzioni del clero era la sua partecipazione allo scambio di schiavi (ed al
possibile abuso sessuale), se è vero che, ancora nel 993 (v. Di Meo), “Maione Arcidiacono, e Abbate [di
S. Massimo, presso Salerno] con una permuta si prese da Friderisio figlio di Radoaldo due schiavi, e gli
diede in compenso due picciole serve, Grisa, e Maria, figlie di Mirandola”.
373
Curioso, ma non troppo, è il fatto che, proprio mentre, all’interno della Chiesa, le riforme portano alla
non ereditarietà delle cariche religiose, viene ad affermarsi la successione ereditaria del feudo.
374
ALESSANDRO DI TELESE: Alexandri Telesini abbatis ystoria Rogerii II regis, a cura di L. De Nava,
Fonti par la Storia d’Italia [o, abbreviato, FSI], 112, 1991; AMATO Dl MONTECASSINO: Storia dei
normanni volgarizzata in antico francese a cura di V. De Bartholomaeis, FSI, 1935; ANNA COMNENA,
Alexiadis, in Corpus Sscriptorum Historiae Byzantinae, XLIX, 1839.
periodi più o meno lunghi ed in maniera più o meno definitiva, a motivo delle intestine
lotte partigiane e fratricide, una tale caratteristica storica. Favoriti dai cambiamenti in
atto delle geografie, insediamentali e non, a seguito del fenomeno dell’incastellamento e
delle mutate funzioni (per i processi di riforme in corso) delle strutture monastiche che
stanno perdendo lo storico ruolo che era appartenuto alle curtis; e dal fatto che, proprio
nel momento della loro ridefinizione, “bande di cavalieri normanni ‘armati alla pesante’
vengono ad inserirsi nella complessa realtà politico-istituzionale dell’Italia meridionale
fino ad assumervi una posizione egemone”375 in una realtà che, a contatto sia con la
cultura che con le lusinghe dei richiami del lusso e dei modi di vivere arabi 376, sta
conoscendo potenzialità commerciali ed economiche mai sperimentate nel passato.
Il formarsi (mediante una accorta politica di accordi matrimoniali e di legami di
parentele377), l’emergere (con la opzione di mai scegliere un dominus fra le componenti
etniche diverse dalla propria) ed il diventare visibili degli organismi, molto politici,
almeno inizialmente, e poco amministrativi, “poneva fine al mercenariato che aveva
caratterizzato i primi contatti dei normanni con terre e uomini del Mezzogiorno e dava
corpo a insediamenti stabili e alla strutturazione di un sistema sociale in cui la classe
dominante dei possessori si identificava con la classe militare e politica dei normanni. I
milites, dei quali si trova traccia nei documenti, erano a un tempo possessori di beni e
uomini che costituivano la garanzia militare delle tradizioni della stirpe e
dell’aggregazione sociale. Le funzioni pubbliche erano infatti esercitate da una gerarchia
di poteri che faceva capo al conte e che corrispondeva alle diverse stratificazioni
giuridiche, sociali ed economiche sorrette dall’esercizio delle armi, dal possesso
fondiario, dalle tradizioni e istituzioni religiose”378, che, proprio ora, favoriscono e fanno
anche registrare la diffusione di nuove devozioni (come quella, ad esempio, per S.
Leonardo). Il tutto in un sistema caratterizzato da un tessuto di rapporti personali che,
garantendo ai cavalieri i privilegi, le autonomie militari e le prerogative fiscali,
amministrative e giudiziarie379, appartenute già alle istituzioni religiose, lasciava
vincolata la gran parte degli autoctoni alla condizione di contadini assimilati alla terra
che erano costretti a coltivare.
Viene quasi a realizzarsi nella concretezza il passaggio alla persona delle funzioni
e dei ruoli del potere da quelli che erano stati (o, quantomeno, avevano rappresentato)
gli organismi istituzionali.
375
CUOZZO E., Note per una storia della Contea normanno-sveva di Loritello, in La contea normanna …
cit., pag. 55.
376
Si pensi solo a cosa venga a rappresentare la Sicilia per l’allora commercio internazionale ed alle grandi
produzioni della seta.
377
Sarebbero da fare oggetto di indagini le influenze della diversità delle nuove presenze fisiche (che
arrivano su territori ‘stanchi’) e le conseguenti scelte, da parte dell’elemento femminile autoctono, di
incontrarsi, ai fini della riproduzione, con l’elemento maschile nordico “biondo e di bello aspetto”. Non è
certamente un caso il crescere, con l’arrivo dei normanni, di figli da relazioni extra-coniugali.
378
TRAMONTANA S., Il Mezzogiorno medievale, Roma 2000, pag. 18.
379
D’ALESSANDRO V., Il nobile, in AA.VV., Condizione umana e ruoli sociali nel Mezzogiorno
normanno-svevo, Atti delle none giornate normanno-sveve – Bari 17-20 ottobre 1989, Bari 1991.
“Sorgeva l’età della nuova aristocrazia, orgogliosa della propria fondazione, del carattere di casta che
nutriva e voleva mantenere autoriproducendosi, del diritto d’origine all’autonomia del potere (il cui
sistema ed apparato ripetevano nelle contee il sistema e l’apparato della curia centrale)” (pag. 416).
Relativamente al Comitatus Loritelli (il cui nucleo originario viene ad essere
formato da Goffredo d’Altavilla, fratello di Roberto il Guiscardo, che fece di Rotello il
centro della sua espansione sui territori della Capitanata [estesa in area molisana sino a
Tufara, Gibbizza, Gildone, Cercia e Santa Croce], del Molise e degli Abruzzi costieri),
delle tre dinastie di origine normanna (gli Altavilla380, i Basunvilla [o Vassonville]381 e i
de Say [o Sées]382), che tennero la contea, “la prima stirpe ha cominciato la sua carriera
politica nel periodo della completa anarchia che va dalla conquista normanna a quella
del Mezzogiorno da parte di Ruggero II di Sicilia, e l’ha proseguita in età monarchica
fino alla fine del secolo XII, quando non reggeva più sin da mezzo secolo la contea di
Loritello; … La dinastia di Vassonville, insediata da Ruggero II, ha avuta una carriera
importante ma breve (non oltre due generazioni); il problema essenziale sembra essere
che la contea, anche se disciplinata dalle nuove norme imposte da Ruggero II, era troppo
380
Dopo Goffredo, nel 1061, viene proclamato “primis comes de Loritello” il figlio Roberto, che tiene la
contea fino al 1107. Gli successe il figlio Roberto II (1107-1136) su “una signoria territoriale che si
estendeva dal fiume Pescara alla Capitanata (CUOZZO E., Note … cit., pag. 55). Guglielmo di Loritello,
succeduto al padre, viene privato, sin dal suo “primo anno comitatus” (1137), della contea per aver
prestato omaggio ed offerto truppe all’imperatore Lotario contro Ruggero II.
Quanto alla composizione della contea di Loritello, “la documentazione superstite non ci consente di
individuare tutti i territori feudali che la costituivano. Gli studiosi, dal De Francesco (Origini e
sviluppodel feudalesimo nel Molise fino alla caduta della dominazione normanna, in ASPN XXXV
[1910], pagg. 273-294) al Martin (La pouille du Vie au XIIe siècle, Roma 1983, Index Général, alla voce
Loritello), ne hanno elencato alcuni sulla base della documentazione superstite: S. Paolo e Force nella
Provincia di Ascoli; Chieti e nella sua Provincia Trevelliano, Villamagna, Montefilardo, Lanciano, Atessa,
Ortona, Montacuto, Monteodorisio, Abbatteggio, Caramanico, Torrebruna, Civitaluparella, Gissi,
Sculcula, S. Angelo, S. Silvestro, Ururi; Mantellare, Delicato, Dragonara, Bovino, Biccari, Fiorentino,
Volturara in Capitanata.
Questo elenco dei feudi che facevano parte della contea di Loritello, soppressa nel 1137, è ricavato dalla
superstite documentazione privata, semipubblica e pubblica, che riguarda i conti. Esso può essere ampliato
grazie alla testimonianza di quell’eccezionale documento normanno della metà del XII secolo, che è
tradizionalmente chiamato Catalogus Baronum” (CUOZZO E., Note … cit., pag. 55 e seg.), tenendo ben
presente, però, che il Comitatus Loritello ha già, con l’affermarsi del potere centrale della monarchia,
perso molte delle caratteristiche di signoria territoriale e fatto emergere quel sistema di poteri su feudi
tenuti dal conte in capite de domino Rege, che non sono contigui tra di loro, ma sparsi a macchia di
leopardo sul territorio e possono essere concessi in servitio a suffeudatari ed a subsuffeudatari.
381
“La seconda dinastia dei conti di Loritello in pratica si limita ad una sola persona: Roberto III di
Vassonvilla” (MARTIN J.-M., I conti di Loritello nel regno normanno, in La contea … cit., pag. 78 e
seg.), che, nipote, per parte materna (Giuditta) di re Ruggero II e già conte di Conversano, riceve la contea
nel 1154 dal cugino Guglielmo I il Malo. La detiene tra ribellioni (che lo portano al seguito di Federico
Barbarossa) e riappacificazioni, definitiva quella del 1169, sino alla sua morte avvenuta nel 1182 (15
settembre), senza eredi maschi (ma con Adelisia, “filia quondam egregii Roberti Lorotelli et comitissa
Florentini”).
382
“Quanto alla famiglia di Sées, essa svolge un ruolo non trascurabile sotto il regno di Guglielmo II. Ma
la contea di Loritello affidata ad un suo esponente che le fonti non permettono di valutare precisamente
(nota: ma il Cozzo, che tiene conto delle indicazioni prosopografiche del Kamp, riferisce che “dopo la
morte del conte Roberto de Basunvilla la contea di Loritello non fu soppressa, ma fu concessa da re
Guglielmo II d’Altavilla al conte Riccardus de Say”, feudatario della Calabria [v. ivi, pag. 67 e seg.]),
chiaramente era meno importante di quella precedente. Durante il periodo anarchico della minore età di
Federico II e del suo soggiorno in Germania (1198-1220), il conte di Loritello non sembra svolgere nessun
ruolo politico maggiore, mentre la Capitanata è sottomessa all’autorità di Matteo Gentilis, conte di Lesina
e di Civitate, di probabile origine abruzzese” (MARTIN J.-M., I conti … cit., pag. 80).
importante per sopravvivere nell’ambito di un regno centralizzato”383 e, a suo modo,
forte ed efficiente. Vale a dire che la stirpe dei de Say si trova ad essere titolare di una
contea che, già da tempo, ha esaurito ogni sua funzione di organismo territoriale.
Se ancora rimane da fare oggetto di ricerche, specie per quanto attiene ai rapporti
con gli abati volturnensi (Liutprando [1045-1053], Giovanni [1053-1076], Gerardo
[1076-1109?], Benedetto [1109-1117], Amico [1117-1139]) ed alle influenze esercitate
su di essi, la intricata e “complessa storia dei Borrello, che nell’XI secolo condizionano
la vita politica dell’Alto Molise e di parte dell’Abruzzo, <in quanto> è ancora avvolta
nella nebbia del passato anche se i pochi studi (a) mettono in evidenza le conseguenze
che furono determinate dalla loro epopea e dalle loro scorribande”384, appena meno
confuse risultano le vicende e le influenze dei titolari del comitatus Bovianensis, che,
con la costituzione della monarchia di re Ruggero, diventerà il comitatus Molisij.
Probabilmente a motivo della grande prolificità (un fattore, questo della riproduttività,
che con i normanni registra una grande ripresa e che lo storico dovrebbe meglio valutare
e tenere in considerazione) dei comites “cognomine de Molisio”385, cui si accompagna il
caratteristico spiccato senso dell’indipendenza e dell’autonomia personale, ben presto e
sin dalla terza generazione, la contea sembra perdere il carattere della signoria
territoriale (che, però, riacquisterà con il conte Ugo II al tempo della monarchia, quando
sarà costretto a sottomettersi al re Ruggero386) per assumere l’aspetto di una serie di
383
MARTIN J.-M., I conti … cit., pag. 73.
VALENTE F., L’influenza di Desiderio in alcune architetture del Molise, in La contea … cit., pag. 111
e seg. Il Valente indica in nota (a): A. DE FRANCESCO, Origini e sviluppo … cit., in ASPN 1909,
Napoli, Pp. 53-63; A. DIIORIO, Pietrabbondante dall’epoca longobarda ai nostri giorni, Roma 1975; A.
DI IORIO, La Terra Burrellensis e la contea longobarda di Pietrabbondante, in Almanacco del Molise
1985, Campobasso 1984; A. DI IORIO, Le imprese militari dei Conti Borrello e le loro memorie storiche,
in Almanacco del Molise 1986, Campobasso 1985.
Relativamente alle origini ed alla stirpe dei Borrello, che molto probabilmente non erano “ex genere
normannorum”, si veda: RIVERA C., Per la storia delle origini dei Borrelli conti di Sangro, in ASPN
1919. Il Rivera, al riguardo, scrive che “otto giorni prima della battaglia famosa di Civitate fu celebrato a
Sala sul Biferno un solenne placito ad istanza di Liuffrido (nota: che è nome longobardo) il quale ricorreva
contro un monaco Alberto che aveva usurpato S. Maria di Castagneto. A quel placito intervenne Oderisio,
il terzo figlio di Borrello. Egli era colà con l’esercito papale ... Nelle schiere avverse combatteva invece
Rodolfo di Molise, forte di braccio e valente di consiglio allora già conte di Boiano, e che certo dovè
uscire ancora più ingrandito dalla vittoria normanna”.
385
A titolo di esempio, si riporta quanto scrive, ad annum 1092, il Di Meo, il quale riferisce che “dal
Gattola si ha che Rodolfo cognomine de Molisio, comes patriae Bovianensis, co’ suoi figli Ugo, e
Ruggieri, col suo nipote Roberto figliolo del morto suo figlio Roberto, per le anime del suo padre
Guimondo (nota: figlio di Rodolfo I), di sua madre Emma, de’ suoi figli Roberto, Rodolfo, e Guglielmo,
di sua figlia Adeliza, e Beatrice, della q. sua moglie Alferada, e de’ suoi fratelli Roberto, Ugo, Antonio,
Guimondo, Alanno, e Strostaino (Ughelli ha Trostaino) donò a M. Casino la Chiesa di S. Croce d’Isernia,
sopra il Monte Pesclatura, e ‘l Castello Bagni in Contado d’Isernia. Scrive <l’atto> Anserano Notaio
d’Isernia nel Castel Carpinone, e si firmano Leone Vescovo d’Isernia, Ildolfo Giudice, Angerio di
Pettorano, Giovanni Turturis ...”.
Il documento suggerirebbe anche di indagare sulla presenza e sulla diffusione dei nomi franco-normanni e
di quelli di estrazione longobarda; ma è cosa che, pur assai utile, non rientra nell’economia del presente
lavoro.
386
“Ruggero ... non perdonerebbe al suo Barone Ugone Conte di Bojano (nota: che era contrario a papa
Anacleto), se prima non gli consegnasse il Castello al mare del Volturno, et terras suas universas, quas
384
dominatus loci, a capo dei quali, specialmente per i più importanti, si ritrovano esponenti
collaterali della stessa famiglia, più o meno disposti ad una linea di condotta comune.
Che, imposta (v. nota 82), troverà il suo collante, e proprio come in certo qual modo sta
avvenendo per il comitatus Loritelli, nella scelta a favore della monarchia e, nello
scisma, della parte anacletiana.
Per gli ultimi anni del secolo XI ed una volta che si è stabilizzato, da circa un
trentennio, il potere normanno (mentre, come mostra la onomastica, l’apparato notarile
e, presumibilmente, di gran parte della classe dei funzionari amministrativi è ancora
longobardo), i documenti lasciano intravedere, a parte i Borrello per l’alto Molise ed “il
Conte Paldone, figlio di Giovanni Conte di Venafro”387, una situazione più o meno
definita con “Ugone, conte di Bojano, figlio del Conte Rodolfo”388 e, dominus
Limessani (= Limosano), quel Robbertus, che, “filius Trosteni” (o Tristano), sta per
partecipare alla prima crociata389 e, insieme a Trivento, alla sin troppo evidente
latinizzazione in corso dell’area del medio Biferno (v. sia l’episodio del cenobio di S.
Illuminata, che nel giugno del 1109 viene ri-offerto a Montecassino, e sia quel Gregorio,
che, già monaco cassinese, diventa vescovo di Limosano dal 1110390). Anche se l’ambito
territoriale del medio Fortore (gastaldato, forse di Vipera, a se stante?), come mostrano
le coeve (1070 e 1074) donazioni a Montecassino del conte Nubilone (il cui nome è di
probabile derivazione autoctono-longobarda) del Registrum Petri Diaconi, sembrerebbe
rimasto sotto l’influenza longobarda di Benevento, almeno sino agli anni settanta di quel
Bifernus fluvius, orientem versus, praeterfluit ... Tali condizioni furono al sommo penose all’afflitto, e
valoroso Conte, ma gli convenne accettarle” (Di Meo, ad annum 1134).
387
Di Meo, ad annum 1095.
388
Di Meo, ad annum 1094. “Da ughelli abbiamo uno strumento scritto in Benevento, per cui Ugone,
Conte di Bojano, figlio del Conte Rodolfo, con suo fratello Ruggieri, per mano di Oberto Vescovo di
Bojano, donò a Madelmo Abate di S. Sofia Castel Betere, cogli abitanti. Fu scritto da Ermengario Notajo
di Bojano, e firmato da un Vescovo Giovanni (lo credo di Montemarano, ...), Oberto di Bojano, Lamberto
Conte, Bernardo Vescovo (lo credo di S. Agata de’ Goti, che vedemmo al 1059, 1075 o di Dragonara, che
vedremo al 1100), Melchiorre Vescovo (non so di dove) e Roberto, figlio di Cristiano. An. D. Inc. MXCV
mense Januario”.
Nonostante la attendibilità delle sue ricostruzioni, i ragionamenti del Di Meo per attribuire la titolarità
delle sedi diocesane sembrano alquanto eccessivi; eppure, per una più attendibile situazione delle diocesi,
un parametro che andrebbe esaminato potrebbe venire dall’analisi della onomastica dei rispettivi titolari.
Circa il susseguirsi della titolarità comitale su Bojano, si ha (v. TULLIO R., Origine del nome Molise, in
AM 1991, I, pag. 63): Rodolfo I (1053-1059); Guimondo (1059-?) (che è anche padre di quel Tristano [o
Tristaino, Trosteni e Cristiano, ecc.] che troviamo titolare di Limosano), figlio del precedente; Rodolfo II
(?-1095), figlio di Guimondo; Ugo I (1095-1113), figlio di Rodolfo II; Simone (1113-1117), figlio di Ugo
I; Roberto (1117-1128) , figlio di Ugo I e fratello di Simone; Ugo II (1128-1160), figlio di Simone.
389
Di Meo, ad annum 1096. L’elenco, assai significativo per i pochi elementi che vi sono ricompresi (v.
HIESTAND R., Boemondo I e la prima Crociata, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate – Atti
delle quattordicesime giornate normanno-sveve: Bari, 17-20 ottobre 2000, Bari 2002, pag. 74),
comprendeva anche “un fratello di Tancredi che sarà ucciso nella battaglia di Dorileo, Roberto di Ansa,
Ermanno di Canne, Roberto figlio di Torstaino e Unfredo, Raul, Riccardo figlio del conte Rainulfo,
Boello di Chartres, Albereto di Cagnano, Umberto di Montescaglioso”.
Cfr. ivi, pag. 233 e segg., anche MARTIN J.-M., Les structures féodales normanno-suabee et la Terre
Sainte.
390
In precedenza, e la circostanza sembra affatto casuale, sulla cattedra vescovile di Limosano (v. doc. 4 in
nota 17 del capitolo 2°) si sono avuti tutti vescovi con nome greco-longobardo.
secolo391.
Quanto alle situazioni geografico-amministrative, dalle quali (e sulle quali) viene a
formarsi, “la contea di Molise era ai tempi della monarchia normanna divisa in due
grandi regioni: «in principatu» e «in ducatu», che probabilmente rispecchiano i due
modi d’acquisto originarii della conquista sui longobardi secondo che era stata fatta
dalla stirpe de’ Drengot o da quella degli Altavilla. La linea che separa tra queste due
parti del Molise passa tra Montagano (...) e Castellino (...) che sono «in ducatu» e
Oratino, Baranello e Longano che sono «in principatu»”392, di cui è, con tutta evidenza,
anche quel Robbertus, filius Trosteni, Limessani dominus, qui dicitur de Principatu.
Sembra una situazione che, diversa per molti aspetti da quanto sta accadendo per
Loritello, ancora privilegia quei centri abitati che erano stati precedentemente civitas e
dove sono stati definitivamente vinte tutte le resistenze dei sistemi di potere longobardo.
E, per lo specifico limosanese, di quella “nobilissima famiglia Pantasia, fondatrice della
Città di Limosani”393, che, col suo trasferirsi a Benevento, abbandona definitivamente il
campo e della cui esistenza le cancellazioni dei vincitori porteranno alla scomparsa
definitiva di ogni traccia.
Delle vicende, ivi compresa anche quella della riunificazione nelle mani del conte
Ugo molisianus (che, nel 1148 [ottobre] “sedens pro tribunali in civitate limosane cum
baronibus magnatibus iudicibus aliisque suis bonis hominibus”, è presente alla
‘concordia’, stipulata a Limosano, con Johannes, l’Abbate di S. Sofia di Benevento,
riguardante il pagamento di tributi da parte degli uomini del Monastero di S. Angelo in
Altissimo394), e dei passaggi successori nel ramo dei de Molisio di Limosano ci si è già
occupati altrove395. E il ripeterli sarebbe fare cosa inutile.
A questo punto occorre solo aggiungere che quella riunificazione viene ad essere
concretizzata (e la circostanza lascia pensare ad una volontà di ottenere risultati
predeterminati) proprio mentre si cancellavano gli effetti di quello scisma anacletiano,
che aveva affondato le sue radici nella tradizione culturale greca (evidentemente ancora
viva sul territorio), e proprio mentre si neutralizzavano i seguaci più fedeli di papa
Pierleoni.
Ma già, con anche una maggiore e più significativa visibilità per i rispettivi
insediamenti, dei quali erano stati costituiti o, meglio, erano diventati ‘domini’, stavano
emergendo, insieme a tanti altri (gran parte dei quali, di probabile estrazione sociale più
bassa, deriveranno, mentre i componenti del rango più elevato mantennero quello del
proprio luogo d’origine, un proprio “cognomen toponomasticum”, come i Santangelo, i
391
Registrum Petri Diaconi, docc. nn. 498 (c. 210v e 211r), 499 (c. 211r) e 500 (c. 211c-v). Ed anche la
Chronica … cit., Hoffmann 1980, pag. 442 e note 21, 22 e 23.
392
RIVERA C., Per la storia ... cit., pag. 83 in nota 3. A parte il possibile errore di confondere Limosano
con l’improbabile Longano (che è in provincia di Isernia), occorre registrare come i due diversi nuclei
originari del Comitatus Molisij possano essere identificati con i gastaldati longobardi ‘Bovianensis’ e
‘Biffernensis’.
393
SARNELLI P., Memorie ... cit., pag. 101.
394
JAMISON E., I conti di Molise e di Marsia nel secoli XII e XIII, Casalbordino (CH) 1932, App. doc. 1.
Va annotato, con una forte sottolineatura, il collegamento giurisdizionale con Limosano dell’area, con le
relative problematiche patrimoniali, di S. Angelo in Altissimo, che proverebbe anche la derivazione di
Musane dalla “città distrutta” ivi posizionabile.
395
BOZZA F., Limosano: Questioni ... cit., Capitolo VI.
Montagano, i Gambatesa, ecc., dal centro abitato ‘autoctono’, in cui si erano stabiliti396),
i vari Giuliano di Castropignano, Roberto di Molisi, Giovanni di Carpinone, Bernardo di
Freselone, ecc., la cui misura della fedeltà al Conte avveniva nel vincolo del rapporto
feudo-vassallatico, ma era, anche e sempre di più, in ragione di un proprio personale
interesse.
Ma, se questo era quanto venne a formarsi ai livelli più alti delle società, quale
potrebbe essere stata, dal punto di vista sociale, la composizione antropico-umana delle
realtà insediamentali, almeno di quelle maggiormente significative? Va subito detto che,
anche se bisognerebbe pure indicarne le motivazioni vere nelle più che certe successive
persecuzioni e cancellazioni, “le scarse informazioni sugli atteggiamenti delle masse e
sui movimenti di opinione di quegli anni impediscono di individuare quanto sarebbe da
attribuire a uno spontaneo fanatismo popolare e quanto invece a precise e meditate scelte
dei poteri responsabili dei vari organismi politici e della Chiesa”397. Tutto questo riferito
ad un ambiente per il quale le fonti classiche della storiografia ‘normanna’ (Malaterra,
Amato di Montecassino e Guglielmo di Puglia) riferiscono, per una società che, in tal
modo, si dimostrerebbe multietnica e parecchio composita, di presenze, più o meno
consistenti e diffuse (ma che, con tutta evidenza, vivono i contrasti e le diversità), di
musulmani (pur se visti come “la feccia della terra”)398, di greci (pur se ritenuti “la razza
396
MENAGER L.R., Pesanteur et étiologie de la colonisation normande de l’Italie, in Roberto il
Guiscardo … cit.; e, in Appendice: ID., Inventaire des familles normandes et franques emigrées en Italie
méridionale et en Sicile (XIe – XIIe siècles). Il Ménager (di cui sono importanti le ricerche), a pag. 222,
conclude che “il semble donc que lorsque le gros de la vague normande s’est déversé en Italie méridionale
l’usage des noms à qualificatif géographique impliquait une appartenance au milieu chevaleresque. Il est
en tout cas permis d’affirmer que cet usage s’est imposé comme tel avec les immigrés dans leur pays
d’adoption. C’est en effet une règle qui souffre peu d’exceptions que, dans le Sud de la Péninsule et en
Sicile dès le milieu du XIème siècle et en milieu rural, le cognomen toponomastique désigne toujours le
domaine foncier, siége principal d’un lignage féodal. La force de cette norme était telle que dans plusieurs
cas probables (Clermont-Chiaromonte, Hauteville-Altavilla, Laigle-Aquila, Lucy-Luzzi) et au moins dans
un cas surement (Moulins-Molise) les porteurs d’un anthroponyme à surnom géographique ont entendu en
perpétuer la justification en donnant au lieu italien de leur établissement le nom de leur terre d’origine”.
397
TRAMONTANA S., Qualche considerazione su aspetti, anche religiosi, della questione ebraica
nell’età di Roberto il Guiscardo, in Roberto ... cit., pag. 269. Relativamente al “processo attraverso il
quale l’egemonia dei nuovi venuti era stata possibile”, il Tramontana coglie bene il fatto che “la lunga
marcia della classe dirigente normanna sulla strada di questa egemonia delle terre conquistate, pur
complicata e piena di svolte, apparentemente contraddittoria, ora brutale e dura, ora morbida, veniva
condizionata non solo da scelte politiche in fondo necessarie per coagulare un’opera di ricostruzione e di
riorganizzazione anche amministrativa, ma da atteggiamenti di intolleranza che è possibile rintracciare
persino nello stato d’animo di quanti ne hanno narrato, in modo più o meno artificioso o sincero, le
vicende” (pag. 275).
398
Relativamente alla città di Benevento, una fonte araba (Kitab ar-Rawd al-mi<tàr), citata da De Simone
(v. DE SIMONE A., I luoghi della cultura arabo-islamica, in Centri di produzione della cultura nel
Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle dodicesime giornate normanno-sveve, Bari 17-20 ottobre 1995,
Bari 1997, pag. 60 e seg.), riferisce che “è la più importante delle città longobarde. […]. In questa città
risiedono trecento giuristi musulmani, … A Bùnint risiedono ricchi mercanti musulmani (più di
quattrocento) che possiedono edifici superbi e svolgono una fiorente attività commerciale. Per questo
motivo i mercanti ed i pellegrini che si recano a Roma fanno sempre tappa in questa città”.
Quanto alla loro diffusione sul territorio, il Beranger (BERANGER E.M., Presenze ed influenze saracene
nel medio e basso Liri (IX-XII sec.), in Presenza araba e islamica in Campania (a cura di CILARDOI A.),
Napoli 1992) “individua uno stanziamento, durato circa un cinquantennio, ai confini del Lazio con il
perfida”), di longobardi “instancabili nel tradimento” e di ebrei “perversi e malvagi”399,
dentro il contesto complessivo e più ampio, in cui la gens normannorum, ovviamente
ed almeno rispetto agli autoctoni che avevano trovato nel loro inserimento, altro non
rappresentava che una minoranza elitaria, forse dominante, ma, di certo, numericamente
assai sparuta e, comunque, poco rilevante sulle influenze culturali.
Assai improbabile (cosa che non deve portare ad escluderne la presenza), invece,
risulta anche la semplice possibilità di individuazione della consistenza, quantitativa e
qualitativa, delle altre componenti. Di cui, tuttavia ed in assenza della documentazione
andata distrutta sia nelle reciproche lotte e sia deliberatamente dalla parte che da esse ne
usciva vincente, sembrerebbe essere rimasto almeno (ma solo) qualche piccolo indizio.
Con evidente carattere di grande significatività e di lunga durata (se divenne fatto
culturale e se rimase cosa persistente nel tempo), un segno della presenza di saraceni è
possibile individuarlo, oltre che nel particolare legame che ha tenuto unito Limosano a
Lucera, nel toponimo ‘ruga’400, che, col significato di “via o strada secondaria di
campagna”, bisogna far derivare dall’arabo più che, come di solito (ma erroneamente) si
ritiene, dal francese per indicare una viuzza (la rua) del centro abitato.
Sempre relativamente al dialetto limosanese (che, allo stato presente, risulta già
desueto, assai contaminato ed, in ogni caso, sempre meno utilizzato, se non proprio
definitivamente già scomparso e perduto) e tra tanti (ci si limita qui ad indicare
solamente i più certi quanto al riferimento etimologico: cannacca, calicara, carmosino,
carrafone [e, antico, anche carrafina], fustagna, giubba, varda, tartagliare, riggiola,
papuscio, sciambecca, tauto, zaaglia), un altro etimo riferibile ad una sicura derivazione
dalle influenze arabe è ‘fondaco’ (funn’c’) col significato di “piccola bottega situata al
piano più basso, e nascosto, di un edificio”, in cui si esercitava il commercio,
specialmente dei tessuti (si noti la prevalenza degli etimi che si riferiscono appunto a
quel tipo di attività).
Certamente poco cosa, se non fosse che una conferma assai significativa, sia della
presenza saracena come, ed ancor più, del tipo multietnico di quella società, verrebbe da
una notizia, rinvenuta come annotazione scritta secondo cui nella terra di Limosano vi
erano (o vi erano state), oltre a quella ‘cristiana’, anche le due distinte comunità di
saraceni e di ebrei401, le quali tutte, pur mantenendo spazi definiti ed a ciascuna di esse
riservati, avrebbero convissuto, secondo modalità di pacifiche convivenze assai diffuse
nel meridione402, tra di loro ben integrate.
Molise: Saraciniscum (San Biagio Saracinesca), a non grande distanza da Venafro”.
399
TRAMONTANA S., Qualche considerazione ... cit., pag. 276.
400
Così è stato trovato più volte (una per tutte: “la via, seù la Ruga, che va alla Menzola delle Macchie”)
negli inventari del 1687 (v. APL = Archivio Parrocchiale di Limosano) delle due chiese parrocchiali, S.
Maria e S. Stefano, di Limosano. Sembra, però, già scomparso negli inventari del 1712/13. Con un tale
significato (“Vicolo. Anche viottola tra due siepi”), si veda: FINAMORE G., Vocabolario dell’uso
abruzzese, Città di Castello 1893 (ristampa Bologna 1967).
401
E passatami da P. Mario Colavita (cui va il mio sincero ringraziamento), già parroco, fino al 2002, di
Limosano, il quale l’avrebbe trovata nei documenti dell’Archivio Parrocchiale di Limosano (attualmente,
ma da dopo il terremoto del 2002, tenuto in modo assai disordinato e precario).
402
COLAFEMMINA C., Gli ambienti ebraici meridionali e le Crociate, in Il Mezzogiorno ... cit., pag.
397 e segg.
Quanto alla presenza di ebrei, che sicuramente veniva da lontano403, in mancanza
sia di fonti documentarie che di ricerche404 precise (che, in ogni caso ed allo stato delle
cose, ne impediscono ogni ricostruzione storica attendibile), sembra possibile cogliere
qualche traccia, prima di tutto, nella radicata e persistente continuità, nelle fonti della
storia limosanese, dei nomi biblici nella onomastica locale (Tobia, Samuele, Giosafat,
Melchisedech, Giacobbe, Giosuè, Abramo, ecc.). Ed, inoltre, farebbero pensare ad essa
sia la gestione delle disponibilità finanziarie (ed a tutto quanto ad esse collegato), sia la
storica “piazza delle poteche” (che rappresentava il luogo in cui gli abitanti delle terre
convicine a Limosano che volessero “aliquid emere aut vendere accedunt ad terram
ipsam et ibi inveniunt quod querunt”405) e sia i documentati traffici dei cereali e,
collegati ai tipici laboratori (le ‘fucine’), dei prodotti derivati dalla trasformazione del
ferro, in quanto appaiono tutti elementi riconducibili alle classiche attività, legate al
commercio, tenute in maniera prevalente e quasi sempre dagli ‘judei’.
Ma, da una situazione precedente di complessiva generale tolleranza nei confronti
sia degli Judei che dei Saraceni, sembra che “è con la venuta dei Normanni nell’Italia
meridionale che muta completamente l’atteggiamento nei confronti degli Ebrei”. E,
mentre proprio con i normanni penetra, si fa strada e diventa cultura l’idea stessa di
‘crociata’, della quale l’antisemitismo altro non rappresenta che un risvolto ed i cui
prodromi possono individuarsi nelle azioni e negli atteggiamenti dei normanni nel
mezzogiorno italiano, “anche per i Saraceni si assiste a un netto mutamento di
atteggiamento nell’età normanna” appunto.
Da allora, infatti, va registrato che “rispetto alle fonti letterarie dell’età longobarda
già Amato di Montecassino cambia atteggiamento, introducendo nella sua Storia un
aneddoto assai significativo”, quello del giovane cristiano Achille, che “fu «gabé de la
perversité de li judée»”406. Non solo, ma “accanto alle vicende di Achille può essere
posto il Tractatus de Passione Domini, una fonte abruzzese della fine dell’XI secolo, che
riporta le oscure vicende accadute ad Aternum (Pescara) nel 1062. Qui la gens parva
Judaeorum aveva modellato con la cera un crocefisso, e nella sinagoga si divertiva a
403
“Pare che nei territori soggetti ai longobardi beneventani l’influenza degli ebrei nel IX secolo sia stata
notevole, al punto da spingere i cristiani a «iudaizare et otiari in sabato»; chierici e laici sedevano a mensa
con gli ebrei e non erano infrequenti rapporti di natura coniugale tra i seguaci delle due fedi. Contro
questo stato di cose la Chiesa prese posizione mediante sinodi tenuti, sembra, a Benevento e a Siponto”
(COLAFEMMINA C, Insediamenti e condizioni degli Ebrei nell’Italia meridionale e insulare, in
Settimana CISAM 1978, Spoleto 1980, pag. 224). Del Colafemmina, tra gli altri suoi lavori, si veda,
specialmente per le indicazioni bibliografiche, anche: Cultura ebraica nel Sannio nel secolo XV, in
Archivio Storico del Sannio, n.s. II (1997), pag. 31-40.
404
Per quanto è dato di conoscere, l’unica ricerca a sfiorare la situazione molisana sembrerebbe:
BERARDI M.R., Per la storia della presenza ebraica in Abruzzo e nel Molise tra medioevo e prima età
moderna: dalla storiografia alle fonti, il L’ebraismo dell’Italia meridionale peninsulare dalle origini al
1541: società, economia, cultura, Atti del IX congresso internazionale dell’Associazione Italiana per lo
studio del Giudaismo: Potenza – Venosa, 20-24 settembre 1992, Galatina 1996, pag. 267.
405
ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Fondo Avignonese, Collect. t. 61 ... cit., f. 177a. <Quelli che
vogliono> “comprare o vendere qualcosa arrivano alla stessa terra ed ivi trovano quello che cercano”.
406
PALMIERI S., Mobilità etnica e mobilità sociale nel Mezzogiorno longobardo, in ASPN 1981, pag. 63
e seg. Il Palmieri, del quale sembra assai utile il suo studio, per il periodo precedente (per il quale analizza
anche la presenza di greci) riferisce del “benevolo silenzio delle fonti letterarie nei confronti degli Ebrei,
che tra l’altro vivevano liberi da ogni particolare costrizione” nell’Italia meridionale longobarda.
usarlo come bersaglio per le frecce; ...”.
Proprio come l’altra, pure questa seconda vicenda, “anche se avvenuta
immediatamente al di fuori dell’area longobarda, è assai significativa per la diffusione
dell’antisemitismo in quel periodo, che troverà poi la sua espressione pubblica
nell’attività di Ruggero II, che tra il 1143 e il 1154 «Iudeos et Sarracenos ad fidem
Christi convertere modis omnibus laborabat, et conversis dona plurima et necessaria
conferebat»”407.
Significativa se quasi li accomuna in un unico destino, una tale menzione accanto
agli Judei dei Sarracenos (o, più propriamente, degli Agareni delle fonti) porta a far
pensare che, come i primi, anche questi ultimi, una volta che avevano raggiunto una loro
integrazione nella società, “svolsero nella Longobardia minore un ruolo simile a quello
degli Ebrei, sia pure con valenze diverse”408.
Insomma e sorvolando sui fermenti legati (nelle tipologie, diverse e di natura
diversa – ortodossia ed eterodossia, grecità e romanità latina, ecc. … –, delle domande
da parte di una base sottomessa e delle risposte che venivano – e per quanto potevano
venire – dalle istituzioni) alle discussioni religiose (basti pensare a quello che potevano
rappresentare le non infrequenti ‘conversioni’ da una fede all’altra409), una società, che,
per certi versi e per la sua dinamicità, era preclusiva di ogni forma di cambiamento e, se
questo doveva concretizzarsi, poteva essere realizzato solo ai margini, alti o bassi che
fossero, ma scarsamente soggetti a controllo. Come nello spazio sociale, che era stato
occupato dalle aristocrazie normanne, o in quello fisico (e non solo), nel quale vengono
a stabilirsi gli ordini crociato-cavallereschi.
3.3 – Gli ‘ordini’ crociato-cavallereschi
La conoscenza assai scarsa e limitata dei percorsi viari (da tenere ben distinti da
quelli tratturali, in quanto non coincidenti), che durante l’intero medioevo furono attivi e
407
PALMIERI S., Mobilità ... cit., pag. 64. Il Palmieri cita da: ROMUALDI SALERNITANI, Chronicon,
ed. C. A. GARUFI, RIS, VII, Città di Castello – Bologna 1914-1935, pag. 236.
408
PALMIERI S., Mobilità ... cit., pag. 65. “La presenza musulmana nel Mezzogiorno d’Italia è legata al
secondo assalto che l’Islàm dal IX secolo in poi fece all’Occidente latino; un legame che ne ha
condizionato la storia, che è sempre stata scritta nei termini di una lunga serie di avanzate e ritirate, di
stragi compiute dai Saraceni e di riscosse di imperatori carolingi, riducendo i rapporti tra Saraceni e
potentati longobardi unicamente in termini politico-militari”; anche se i fatti non andarono sempre così.
409
Il Colafemmina (v. Gli ambienti ebraici meridionali … cit., pag. 400 e seg.) riferisce della “fuga da
Bari dell’arcivescovo Andrea e il suo ingresso nel patto di Abramo, mediante la circoncisione, a
Costantinopoli”. Non solo e senza togliere valore a quelle nella direzione del cattolicesimo, “l’esempio di
Andrea fu seguito da altri, provocando scandalo nelle terre di Langobardia e riempiendo di confusione e di
vergogna gli ecclesiastici bizantini e latini di quelle contrade”. Del fatto, che, come dimostra la quasi
contemporanea conversione all’ebraismo di Obadiah da Oppido Lucano, non dovette essere cosa isolata o
occasionale, si è occupato, citato dal Colafemmina, BLUMENKRANZ B., La conversion au Judaisme
d’André archeveque de Bari, in The Journal of Jewish Studies, 14 (1963), pag. 33-36.
Il Palmieri (v. art. cit.) registra sia che il principe “Adelchi lamenta in questo precetto [dell’867] l’insolita
fuga ad Saracenos di un tal Erchempandus, quando in genere queste fughe erano verso Napoli o ad
provinciam finibus Grecis” (pag. 68) e sia, più significativo, “il caso singolare di un arcivescovo di Bari,
Orso (1078-1089), che si convertì all’islamismo” (pag. 74 e seg.).
funzionali alla mobilità dei pellegrini ed ai traffici commerciali, pone seri ostacoli, se
proprio non la impedisce, alla ricostruzione, per i secoli dal XI al XIII e relativamente al
territorio molisano, della rete delle strutture degli ordini cavallereschi e, nello specifico,
di quelle dei cavalieri templari ed ospitalieri410. Eppure, la diffusione di quelle presenze
organizzate, significativa e condizionante, fu, come già da lungo tempo veniva indicato
(ma si dimostrò suggerimento che, inascoltato, rimase – e rimane ancora – voce nel
deserto)411, fattore tanto rilevante quanto, appunto, poco indagato e conosciuto.
Va premesso, già da subito, che alla eziologia (nel costruirsi dinamicamente e nel
410
Anche se i Templari e gli Ospitalieri furono quelli maggiormente presenti sul territorio molisano, gli
ordini cavallereschi, genericamente definibili “crociati” o “di Terrasanta”, sono: l’Ordo canonicus
custodum Sancti Sepulcri, successivamente Ordo Equestris Sancti Sepulcri, L’Ordine Ospedaliero di San
Giovanni di Gerusalemme, o degli Ospitalieri, i Templari e i Teutonici.
Quanto agli studi maggiormente significativi, si veda: per gli Ospitalieri, FONSECA C.D., Mezzogiorno
ed Oriente: il ruolo del Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, in Studi
Melitensi, 1 (1993), pagg. 11-22; per i Templari: TOMMASI F., Pauperes commilitones Christi: Aspetti e
problemi delle origini gerosolimitane, in “Militia Christi” e Crociata nei secoli XI-XIII, Atti della XI
settimana internaz. (Mendola, agosto-settembre 1989, Milano 1992, pag. 443-475.
411
AMELLI A., Quaternus de excadenciis et revocatis Capitinatae de mandato imperialis maiestatis
Frederici secondi (prefazione, pagg. XV e segg., a), Montecassino 1903. “Ed eccoci alla seconda parte del
documento De Revocatis, parola, come vedemmo, abrasa, non si sa per quale motivo, nel titolo generale,
mentre fu lasciata nei titoli particolari.
Parrebbe quasi di vedere qui una lunga lista di proscritti, alla quale stanno a capo, con lo sventurato Pier
della Vigna, i Templari gli Ospitalieri e i Teutonici. Di fronte a questi stanno i nuovi favoriti dalla Corte
Imperiale, nelle persone poco sopra rammentate, e in particolare, Giovanni Moro, il conte Gualterio, il
marchese di Umburg, il conte di Caserta, e il Notaio Nicolao di Brindisi. Come si vede, è un nuovo campo
che si apre alle investigazioni dei dotti, e una nuova fonte alla quale dovrà attinger la critica. Fin qui nel
dramma in cui campeggia Pier della Vigna pochi figuravano gli attori, ora invece vi entrano tutti quelli che
dal nostro Documento vediamo condividere la trista sorte dell’antico Segretario, e tutti gli altri che si
avvantaggiano dalla disgrazia di lui. Noi intanto limitiamo a richiamare l’attenzione degli studiosi a due
punti di contatto che scorgiamo fra lo Scadenziario e il Testamento Imperiale. In questo leggiamo tra le
altre, le seguenti disposizioni: Item statuimus ut omnia bona milizie domus Templi que Curia nostra tenet,
restituantur eidem, ea scilicet que de iure debent habere … Item statuimus ut omens captivi in carcere
nostro detenti, liberentur, praeter illos de imperio et praeter illos de regno qui capti sunt ex proditionis
nota … Item voluimus et mandamus quod nullus de proditoribus regni in aliquo tempore reverti audeat in
regnum, nec aliqui de eorum genere succedere possint; immo heredes nostri teneantur vindictam de eis
sumere. Come appare, il coronato testatore revoca l’ordine di confisca già emanato, e in base al quale fu
compilato lo Scadenziario, ma solo per quello che concerne i Templari, confermandolo per i felloni
(proditores). Come poi, nell’ordine di revoca non fossero compresi coi Templari, anche gli Ospitalieri e i
Teutonici, è uno degli altri quesiti che si propongono agli studiosi. L’altro punto di contatto è nella qualità
già rilevata di notaio e di testimoni in quei Nicolao di Brindisi Conte di Caserta e Marchese di Umburg,
che nello Scadenziario si vedono sostituiti agli Ospitalieri, all’Arcivescovo di Capua e ai Teutonici”.
Del tutto analoga alla situazione della Capitanata era quella della diocesi di Chieti, se è vero che, con un
documento del 1244 dato “Laterani x.... Aprilis pontificatus nostri anno primo”, l’allora “Papa Innocenzo
[IV] dirigendosi ai vescovi e prelati di Capitanata e della «terra Teatina», si dichiara non poco sorpreso e
commosso, perché i cittadini «oppidani» e «castellani» di quelle provincie, non avendo alcun riguardo alle
fatiche ed alle spese sostenute dai Templari, «ea ipsos in civitatum, oppidorum, castellorum et aliarum
villarum restauratione compellunt expendere, quo in usus militum templi et necessitates orientalis
provincie fuerant eroganda». Onde ordina ai detti prelati di inibire in suo nome ai conti, baroni e cittadini
delle loro diocesi, di molestare ulteriormente i frati Templari con simili esazioni, sotto pena di sentenza di
scomunica per le persone e d’interdetto per le terre” (BEVERE R., Documenti relativi ai Templari delle
diventare espressione di un modo di essere sociale, le cui radici affondavano, di certo, a
periodo di tempo di gran lunga precedente alla regolamentazione ufficiale, almeno per i
Templari, da parte di Bernardo di Clairvaux col suo Liber de laude nove militie) del
concetto di monaco-guerriero ed al suo farsi cultura (abbiamo già incontrato
“Robbertus, filius Trostaini, Limessani comes” che partecipa alla prima crociata)
contribuiscono fattori diversi. Essi, oltre che nella militarizzazione della società che
porterà al fenomeno della cavalleria, sono da cercare nei mutamenti seguiti alle riforme
che, a partire dal secolo XI, interessarono sia le ristrutturazioni del vivere monastico e
sia la stessa istituzione del papato (e della Chiesa) ad opera degli esponenti (i cosiddetti
“papi monaci”) di quel monachesimo riformato ed austero, che, nella componente
tedesco-franca, si afferma sulla corrotta tradizione politico-italica. Il tutto in una società
in cui la regola sono (o, meglio, sono diventate) la contrapposizione accesa, la
segregazione delle appartenenze e la radicale, e diffusa, contestazione (si pensi alle
propagande del pauperismo eremitico, con le conseguenti predicazioni laicali ed
eretiche, contro la ricchezza sfarzosa delle istituzioni religiose, con le conseguenti
pratiche della simonia e del nicolaismo412).
Il miles monachus, nato (componente militare) per proteggere i pellegrini diretti ai
luoghi santi e, una volta che questi sono stati liberati dai crociati, per difenderli dai
tentativi di riconquista degli infedeli, ed assoggettato, per assegnargli sia una disciplina
di comunità e sia, con la vita di gruppo, l’impermeabilità dai condizionamenti esterni, a
regole prese dalla tradizione monastica franco-occidentale, è, quanto ad operatività,
destinato al medio oriente. Vale a dire che egli fa parte di ‘organizzazioni’ (in cui, molto
significativamente, non si riesce a scorgere nessuna traccia della cultura greca) che, sin
dall’inizio, dispongono, per il loro operare, di un territorio (rispetto alle istituzioni del
monachesimo tradizionale) assai vasto ed hanno, per poter adempiere ai loro impegni
istituzionali, la caratteristica della mobilità.
Dopo essere stato reclutato in occidente (dove viene visto e considerato come il
nuovo possibile), il monaco guerriero, inquadrato in strutture militari composte da
diversi elementi, deve essere trasportato con mezzi e seguendo percorsi stradali e rotte
marinare, in direzione dell’oriente palestinese e medio, il più possibile sicuri ed
attrezzati per consentire la continuità dei rifornimenti oltre che, riferiti all’utenza dello
spostamento lungo le vie di comunicazione, il controllo e la redditizia ospitalità.
Ma, per fare tutto questo, erano necessarie una organizzazione diffusa in modo
capillare sul territorio ed, ancor più, una macchina perfetta e funzionante per la gestione
amministrativa dei mezzi finanziari derivanti dalla continua raccolta e delle disponibilità
patrimoniali provenienti da donazioni (di chi, quasi sempre di estrazione sociale elevata,
entrava a far parte dell’ordine e/o da parte dei tanti che avevano fede in quel tipo di
missione patrocinata dalla Chiesa, che, nella idealità iniziale e, soprattutto, per il fatto
che la componente laica all’interno della sua struttura era assai maggiore di quella
‘clericale’, rappresentò, e come tale venne percepito dalle popolazioni, il modo nuovo,
ed atteso, di assoggettare ad una riforma credibile, che da semplicemente possibile si
Provincie Napoletane, in ASPN XXV (1900), pag. 403 e seg.).
412
Oltre alla definizione della posizione della Chiesa circa il problema delle investiture, la condanna
definitiva ed ufficiale, cui seguirono molte resistenze, si ebbe col Dictatus Papae del 1075.
faceva anche concreta, le istituzioni legate della religione), dal naturale moltiplicarsi
della ricchezza ben gestita (si deve ai “pauperes commilitones Christi Templique
Salomonis” l’invenzione della lettera di credito come strumento finanziario che rendeva
più facile rispetto al passato i movimenti di capitale da un posto all’altro, lontano dal
primo) e – perché no? – dai bottini e dai saccheggi derivanti dalle attività di guerra, che,
con la finalità di riconquistare i luoghi santi dagli infedeli, è diventata “guerra giusta”.
Caratteristica dell’insediamento (percettoria e/o mansione o, anche, magione)
conventuale era il suo posizionamento al di fuori della cinta muraria che racchiudeva il
centro urbano; non infrequentemente era collocato lungo gli itinerari ed i percorsi viari.
Si trattava di una struttura autosufficiente che, normalmente, era formata da una
cappella riservata all’uso quasi esclusivo dei fratres, da una scuderia con annessa
selleria, dalla fucina collegata all’armeria, da depositi per la conservazione delle derrate
alimentari e da un ospitale utilizzato talvolta anche come infermeria.
La collocazione sul territorio delle domus-mansiones veniva fissata nei centri di
transito o di confluenza delle principali correnti di traffici e di pellegrinaggi. Di modo
tale che, oltre al controllo degli spostamenti di persone e di cose (derrate alimentari e di
vettovagliamento in prevalenza, ma anche le armi), era la funzione assistenziale (con
tutte le attività connesse) quella preminente ad essere esercitata nelle domus e negli
annessi hospitales, posizionati, come si diceva, lungo i percorsi viari.
La comunità di ogni magione, al cui vertice era un Praeceptor (o Prior) con
compiti di mantenere la disciplina e di amministrarne il patrimonio rimettendone i frutti
al diretto superiore per via gerarchica, era composta in massima parte da membri laici
(non clerici) suddivisi tra milites (quasi sempre cadetti con ascendenze aristocratiche) e
servientes (sergenti), di estrazione sociale più bassa, ma sempre ‘liberi’, i quali, al
momento di essere ‘recepti’ nell’ordine, dovevano promettere, per voti, la “obedientiam,
reverentiam, castitatem et vivere sine proprio”, ottenendo di ricevere, all’atto della
‘professione’. il “mantellum habitus ordinis”. Per il maggior (e miglior) sfruttamento
delle risorse terriere, non infrequente era l’utilizzo di conductores esterni all’ordine.
All’interno delle case potevano trovarsi anche i donati, persone che, condividendone la
vita quotidiana e senza emettere i voti, vivevano tra i fratres.
La rapida capillarità della loro diffusione, la puntuale precisione organizzativa, la
rigida e ferrea disciplina interna, la capacità nell’amministrare413 le disponibilità delle
risorse immobiliari e finanziarie, proprie e di terzi, e, buon ultima nell’elenco ma non
per importanza, la considerazione ed il rispetto cui generalmente si tennero da parte sia
delle società che dei poteri costituiti, i quali se ne servirono come fidati strumenti
operativi e politici da proteggere, furono i fattori di maggior rilievo a favorire la fase
espansiva degli ordini crociato-cavallereschi, che, per lo schema (sempre assai riduttivo)
dell’organizzazione sociale, rappresentarono un fenomeno di casta.
Tutto questo mentre, da una condizione, all’interno dello scacchiere, che l’aveva
413
Sicuramente ebbero relazioni economiche anche con le altre grandi strutture monastiche, come mostra
la “confirmatio Alexandri papae .III. facta magistero et fratribus militiate Templi de ecclesia Sancti
Angeli de Canutio ab abbate Casinensi eis sub annuo censu concessa” del Registrum Petri Diaconi, doc.
171B, c. 78r, del 1° giugno 1178/1179 (v. DELL’OMO M., Il Registrum Petri Diaconi, Commentario
codicologico, paleografico, diplomatico, Napoli [Montecassino] 2000, pag. 104).
tenuta sempre ai margini e considerata appena una “zona di confine tra il mondo
orientale e quello occidentale” ed, in ogni caso, diversa dal mondo europeo, “in seguito
all’insediamento dei Normanni ed all’avvio delle crociate, la situazione geopolitica del
Mezzogiorno mutò profondamente. Con un processo lento ma inarrestabile la cultura
latino-occidentale avanzò a danno di quella greco-bizantina”414 su un territorio che dalle
influenze francesi veniva, per tanti versi, ‘europeizzato’ e dagli interessi economici e
strategico-militari era usato come avamposto (o, a seconda del punto di vista415, zona di
retroguardia) per le spedizioni e per i rifornimenti.
Tra tutti gli ordini militari ad avere la maggior diffusione operativa sul territorio,
che, con i contemporanei fenomeni dell’affermarsi dei normanni e della litinizzazione,
diventa del Regnum Siciliae, e, per lo specifico che qui interessa, su quello molisano,
furono (e su essi si concentrerà l’attenzione) i Templari, o “Pauperes Commilitones
Christi Templique Salomonis”, e gli Ospitalieri, o “Ordine Ospedaliero di San
Giovanni di Gerusalemme”, cui, dopo la soppressione, col concilio di Vienne del 1312,
dell’ordine del Tempio, ne verrà affidato il patrimonio fondiario.
Relativamente alla militia Templi Ierosolimitani (di fondazione416 e di tradizione
414
HOUBEN H., Templari e Teutonici nel Mezzogiorno normanno-svevo, in Il Mezzogiorno ... cit., pag.
251. Assai importante lo studio di Houben per le indicazioni bibliografiche sia per i Templari che (v. pag.
256) per l’ordine dei Teutonici.
415
BRESC BAUTIER G., Les possessions des églises de Terre Sainte en Italie du Sud (Pouille, Calabre,
Sicile), in Roberto il Guiscardo ... cit., pag. 13-39. “Un lien religieux semole en effet unir deux terres
méditerranéennes et latines, les plus orientales, grace au développement en Pouille, en Calabre et en Sicile
du temporel des grands établissements de Terre Sainte. La similitude meme de certains structures
religieuses – « latinisation » de pays grecs et arabes -, économiques, - la colonisation de la terre par le
système du casal -, artistiques – le mélange des influences et les importations étrangères -, politiques – un
roi étranger et un féodalité importée face aux éléments indigènes encore en place – est accentuée par ce
phénomène d’expansion religieuse de la Terre Sainte vers l’Ouest, qui prolonge l’Orient latin jusqu’aux
portes de Rome. Il suffit de dresser des cartes du temporel des diverses églises orientales en Occident pour
constater leur forte concentration en Italie du Sud.” (pag. 13).
Per il fenomeno “del Mezzogiorno italiano come hinterland (visto dalla Palestina) o come base di partenza
(visto dall’Europa)”, si veda: HOUBEN H., Templari e ... cit., pag. 252 e seg.
416
Istituito a Gerusalemme, tra il 1118 ed il 1120, per iniziativa di Ugo di Payns, il quale, come dimostra
la sua rapida diffusione, veniva ad istituzionalizzare fermenti culturali e richieste già da tempo presenti
nella società, l’ordine della “Milizia dei poveri cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone” ottiene
dalla Chiesa il suo riconoscimento e la sua approvazione nel concilio di Troyes (1129 o, secondo alcuni,
1128). Esso, assoggettato ad una ‘regola’ (preparata specificamente da Bernardo di Clairvaux) che ne
fissava, oltre che le gerarchie, disposizioni assai precise riguardo alla disciplina da tenere nei conventi, sui
campi di battaglia e durante gli spostamenti, con la bolla “Omne datum optimum” (1139) di papa
Innocenzo II otteneva l’esenzione da ogni altra autorità internazionale che non fosse quella del pontefice,
che, in tal modo, ne diventava l’unico superiore.
Non solo; ma, come si legge nella bolla di soppressione “Vox in excelso” (3 aprile 1312), “la sacrosanta
Chiesa Romana, trattando gli stessi frati dell’Ordine con benevolenza particolare, li ha armati col segno
della croce contro i nemici di Cristo, li ha esaltati con molti onori e li ha muniti di esenzioni e privilegi; e
che in molti modi, proprio per questo, furono aiutati da essa e da tutti i buoni fedeli di Cristo con
moltiplicate elargizioni di beni, …”.
Per tali motivi l’ordine ebbe diffusione assai rapida e, con la gestione, accorta e puntuale, degli ingenti
patrimoni che affluivano, si sviluppò in maniera enorme già nell’arco del primo secolo di vita.
Le prime difficoltà ebbero ad emergere, a motivo del suo obbligo nei confronti dell’autorità papale, con
Federico II, il quale, sin dal 1226, disponeva la confisca, a favore della ‘camera imperiale’, dei beni sia
più recente rispetto a quella degli Ospitalieri), va subito precisato che, se è vero (e non
può essere diversamente) che “la storia si fa con le fonti <e che> sono quindi le fonti con
la loro esiguità o abbondanza a condizionare il quadro storico” e le analisi di un
fenomeno, ci si trova (e sembra più che evidente la successiva volontà di cancellarne
l’organizzazione e le realizzazioni) di fronte ad una situazione complessiva di ampia
difficoltà, se è vero che “la base documentaria è stata notevolmente ridotta, oltre che da
una prematura soppressione dell’ordine all’inizio del Trecento e da una certa damnatio
memoriae dovuta a questo evento traumatico, anche dalla perdita dell’archivio centrale
del Tempio, avvenuta secondo le ricerche di Rudolf Hiestand durante il secolo XVI.
<E> a parte quello che riferiscono le fonti storiografiche, rimangono soltanto sporadiche
attestazioni in documenti locali di varia provenienza”417; le quali, tuttavia, tornano
relativamente poco utili per uno studio definitivo. Si tenga presente, inoltre, che esso, il
fenomeno templare, poco opportunamente per i condizionamenti che ebbe ad esercitare
sulla società (e che, perché se ne ignorano le cause, sfuggono ad ogni riflessione),
risulta, allo stato della ricerca418, ancora un episodio scarsamente indagato ed, in quanto
tale, assai poco conosciuto.
La ricostruzione delle probabili geografie della presenza templare, nonostante le
difficoltà imputabili soprattutto alla mancanza di specifica documentazione dovuta alle
cancellazioni riferibili alla successiva damnatio memoriae, evidenzia, relativamente al
meridione, una situazione che rispetta assai fedelmente le suddivisioni amministrative
emerse con i normanni. Così, mentre per la parte dell’Italia centrale situata al di là del
confine dei territori che sono stati ricompresi nel “regnum normannorum”, appena
costituito, le percettorie, a carattere provinciale (e, però, dipendenti da un unico
“magnus percettor” soprannazionale [cui fanno capo anche la Tuscia, la Lombardia e la
Sardinia], il quale, a sua volta, dipende ed è soggetto esclusivamente al “magnus
dei Templari che degli Ospitalieri. Pur se legati al rapido mutare che caratterizzò le relazioni tra
l’imperatore ed il papato, i rapporti di Federico con gli ordini cavallereschi, se si eccettuano quelli con i
Teutonici (il cui gran maestro, Hermann von Salza, fu tenuto anche come suo consigliere), si mantennero
generalmente tesi e difficili; specialmente quelli nei confronti dei Templari.
Anche se con gli angioini, che ne favorirono la restituzione immediata dei beni, la situazione, almeno in
un primo momento, parve migliorare, va, tuttavia, detto che sembra possibile individuare in quel loro
progetto (che, proposto – o, meglio, imposto – già in precedenza al Papato in maniera congiunta da Carlo I
di Napoli ed il sovrano di Francia, fu argomento di discussione nelle sessioni del Concilio di Lione del
1274) “di fusione <tra i Templari e gli Ospitalieri> che rischiò di ridurre il Tempio ad un vasto
salvadanaio senza serratura che i sovrani europei avrebbero saccheggiato per i loro interessi” (FRALE B.,
Il Papato e il processo ai Templari, Roma 2003, pag. 36), le premesse di un événement di lunga durata che
si conclude col processo che portò alla condanna definitiva (concilio di Vienne del 1312) prima e, poi, alla
conseguente scomparsa.
417
HOUBEN H., Templari e ... cit., pag. 254. Houben, che lo indica in nota, fa riferimento alla preziosa
ricerca di HIESTAND R., Zum Problem des Templerzentralarchivs, in “Archivalische Zeitschrift”, 76
(1980), pp. 17-37. Si noti la importante sottolineatura, da parte di Houben, del concetto, per i Templari e
per quanto essi ebbero a rappresentare come espressione culturale, di damnatio memoriae.
418
Segnalato anche dal citato Houben (v. pag. 254), risulta, almeno per una prima conoscenza più
generale, ancora assai utile: GUERRIERI G., I cavalieri Templari nel regno di Sicilia, Trani 1909; e,
relativamente al Molise (ma la ricerca storica, che riesce ad individuare solo qualche traccia, passa in
second’ordine rispetto all’interesse cultural-esotericistico dell’autore): DI PAOLA D’ORTONA C., Sulle
tracce dei Templari, Campobasso 2002.
magister generalis”419) e gestite da un percettor (spesso laico e non chierico, anche se di
estrazione nobiliare), situano: “in Urbis partibus” (la città di Roma con la sede di S.
Maria dell’Aventino e il territorio sino a Ceprano), “in Patrimoni beati Petri in Tuscia
partibus” (con sede a Viterbo – in quella Viterbo che, nel corso del XIII secolo, è anche,
e significativamente, la sede del Papato – nella chiesa di S. Maria de Carbonaria), “in
ducatus Spoletani partibus” (con sedi importanti ad Assisi e Gubbio), “in Maritime et
Campanie partibus” (corrispondente al basso Lazio attuale) ed “in Marchiae
Anconetanae partibus”420, il territorio centro meridionale (e, più specificamente, quello
molisano) fa registrare l’esistenza di una “provincia Apulee” (che è una delle più
importanti di tutte), alla quale risulta unito l’Aprutium (e necessariamente anche, ma
solo quello, il territorio molisano riferibile al comitatus Loritelli)421, e la “provincia
Terre Laboris”, la quale, proprio come il relativo Justitiariatus, dipenderebbe da
Capua e parrebbe estendersi fino a comprendere l’intero comitatus Molisij422. Una
situazione geografica generale che tiene conto del Ducatus Apuliae e del Principatus
Capuae e, nonostante tutto, appare relativamente stabile e sufficientemente chiara; ma
419
GILMOUR-BRYSON A., The trial of The Templars in The Papal State and The Abruzzi, Città del
Vaticano 1982. Indispensabile, ai fini della ricostruzione della geografia e dell’organizzazione dell’ordine
templare, la pubblicazione dei documenti curati dalla Gilmour-Bryson.
420
GILMOUR-BRYSON A., The trial ... cit. La serie dei “magni percettori” per l’ultimo ventennio circa
della vita dell’ordine è (v. ivi, pag. 188 e seg.): “frater Blancus de comitatu Placentie” (circa nel 1281);
“frater Gulielmus Provintialis” (o, forse, “de Nove” nel 1286), “qui mortuus fuit ultramontes”; “frater
Artusius Pocapalgia” (o Pocapaglia), “qui mortuus fuit in Viterbio et sepultus in Sancta Maria de
Carbonaria de Viterbio dicti ordinis”; “frater Gulielmus de Cannellis”, percettore nel 1292, “qui fuit
remotus de dicta preceptoria et missus in Ungariam, qui, reddiens de Ungaria, mortuus est Reate”; mentre
era ancora vivente il suo predecessore, venne nominato “frater Huguitio de Vercellis qui mortuus est et
sepultus in Sancta Maria in Capita dicti ordinis Balneoregensis dyocesis”; “et post dictum fratrem
Huguitionem fuit et est magnus preceptor in illis partibus frater Iacobus de Monte Cucho” (o, più
precisamente, da Montecucco).
421
GILMOUR-BRYSON A., The trial ... cit. Si omette l’indicazione della pagina, in quanto trattasi di
notizia più volte testimoniata; ma la cosa risulta assai evidente soprattutto alla pag. 214 (v.), dove viene
testimoniato che “Apprutium est in preceptoria dicti ordinis de Apulea” e che (v. pag. 131) “unus
preceptor confuerat esse in tota Apulea et Aprutio”, per la quale, ancora il 28 aprile 1310, “est magnus
preceptor in dicta provincia Apulee et Aprutii frater Odo de Valdis”.
Per quanto attiene all’Aprutium, va registrato che il ripetersi dell’espressione “in Aprutii partibus” (o,
con significato ancor più evidente, “Aprutium, seu in illis partibus”) lascerebbe pensare più a presenze di
istituzioni organizzate, quasi autonome e diffuse sul territorio, dipendenti direttamente dalla percettoria
provinciale, che, come organizzazione amministrativa, ad una struttura unitaria.
422
CAPONE B., I Templari nel Molise: le domus di Tappino e di Ferrazzano, in Atti del XIV Convegno
di Ricerche Templari – Nola (NA), 7 Settembre, e Cicciano (NA), 8 Settembre 1996, Latina 1997. La
Capone, sulla base di “un documento del 1373, conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi, <che>
contiene l’elenco delle case dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme esistenti nel Priorato di Capua”
(Bibliotèque Nationale, Ms. Latino n. 4191), afferma che “il Priorato di Capua aveva giurisdizione sulle
domus dell’attuale Campania, dell’Abruzzo e del Molise interno”.
A proposito della provincia di Terra di Lavoro il Guerrieri (v. op. cit., pag. 24) scrive che “un’altra
provincia continentale del regno di Sicilia dove l’Ordine del Tempio si estese notevolmente, sempre
durante il dominio dei Normanni, fu la Terra di Lavoro, la quale ebbe prima un piccolo ospizio annesso
alla chiesa di San Terenziano, fuori le mura di Capua, poi in questa medesima città una Casa grande e
assai importante per tutta la regione, e un’altra notevole con numerosi beni anche a Maddaloni.
che, tuttavia, sembra abbia subito delle modifiche, più o meno sostanziali 423, solo con la
soppressione dell’ordine del Tempio e la conseguente fusione (che, però, fu argomento
di continua discussione per l’ultimo trentennio del XIII secolo e, di certo, già all’ordine
del giorno del concilio di Lione del 1274) dei patrimoni con quello degli Ospitalieri.
Quanto alla localizzazione degli insediamenti ed alla tempistica della diffusione,
nonostante le ricostruzioni a carattere piuttosto generale424, ancora ne risulta di grande
difficoltà una definizione per quanto più possibile, specialmente con riferimenti all’area
molisana, attendibile, in quanto le notizie risultano troppo scarse e frammentarie.
Per analogia con la capillarità della diffusione sia nella Capitanata (che, già di suo,
comprendeva una parte non irrilevante dell’attuale area molisana) e sia sul territorio
appartenente alla diocesi teatina425, non si può non immaginare una presenza avente
423
Tali modifiche comporteranno che, mentre il territorio di Limosano continuerà a dipendere da Capua, i
territori “della Commenda di Malta, sotto il titolo, e vocabolo di San Vennitto” (ASC, Fondo Amoroso,
Notaio AMOROSO Francesco Antonio della piazza di Limosano; atto del 19 Ottobre 1744), confinanti
con Cascapera, che, almeno in parte, rientrava nel demanio di Limosano, vengono assoggettati alla
magione di Guglionesi,
424
Si vedano principalmente: HOUBEN H., Templari e ... cit., pag. 256 e segg.; e GUERRIERI G., I
cavalieri Templari ... cit. Relativamente alla diffusione in “provincia Apulee” dalla quale dipende anche
l’Aprutium (ed il Molise costiero e collinare), il Guerrieri – ci si perdoni la lunga nota – scrive (v. pag. 20
e segg.) che, dopo il primo stabilimento di Barletta, da qui “i Templari si estesero con numerose e ricche
Case, sempre nella seconda metà del secolo XII, innanzi tutto nella regione della Capitanata, ed ebbero
una precettoria a San Leonardo di Puglia, di cui fu molto tempo a capo il templario fra Pietro di San
Gregorio con un fra Elia tesoriere, un’altra a Salpi diretta, sul finire del secolo, da Raul precettore,
dedicata a Santa Maria «de charitate domus Templi» con ricca chiesa e con rispettivo cimitero nel quale si
accoglievano le sepolture dei pii benefattori, e un’altra assai importante a Foggia. [...]. Altre case poi, altre
vigne e terre semenzabili ebbe pure a Bassano, specialmente «iuxta iardinum Templi», fondi rustici presso
il piccolo fiume Celone, altri sulle vie pubbliche di Barletta e di Siponto, e altri a Montecorvino, sulla via
di S. Paolo e in tutto l’adiacente territorio. Possedette anche tutto il vasto tenimento di Alberona, terre
semenzabili, vigneti, boschi, orti e abitanti delle campagne; molte case a Siponto, saline, orti e vigne, ...;
oliveti, terre, case e vigne a S. Quirico, a Montesantangelo, sulle vette del Gargano, alcune case «in porta
maiori» e presso la chiesa di S. Pietro; vigneti a Mattinata, sull’ampio golfo sipontino, detto poi di
Manfredonia, altri beni a Montesio, a Carbonara, a Lama carnaria, terre semenzabili a Villanova, vigneti,
orti, oliveti e case a Ferrentino, a Casalnuovo, a Civitate sul Fortore, sulle vie di S. Marciano e di S.
Leone. [...].
Da Foggia infine l’Ordine del Tempio si estese in altre città assai importanti nella parte più alta della
Capitanata, cioè a Lucera, a Torremaggiore, a Sansevero e a Campomarino; e di qua, nella valle del
Biferno, a Guglionesi e a Termoli, dove ebbe rendite, speciali privilegi e il possesso dei casali di S. Marco
e di S. Giacomo, con una terra «in pantano» e altre «in costis sancti Quirici»”.
E dal Molise i Templari passarono in Abruzzo, e le loro Case ricche e numerose furono a Vasto, «citra
flumen Piscaria», a Monteodorisio, ad Atessa, a Castelluccio, a Penne, a Castelmagno dove ebbero le due
vaste possessioni, grandi come feudi, dette selva malevola e selva di gualdo, e più di ogni altro a Chieti e
in tutta la marca Teatina; Case tanto vaste e numerose da essere in seguito obbligate a concorrere buona
parte delle spese per la riparazione delle mura delle città e delle fortezze comprese in quei vasti territori”.
425
GILMOUR-BRYSON A., The trial ... cit. Se l’affissione dei mandati a comparire, mediante editto,
deve essere apposta alle porte “ecclesiarum cathedralium civitatum Aprutii, silicet Aquilensis, Pennensis
et Ad[rie]nsis, Aprutine, Theatine, Valvensis, et Marsicane, ecclesiarum dicti ordinis militie Templi
Ierosolimitani que essent in dicto Apruto constitute, et ecclesie Sancte Marie de Colle Maio ordinis
sancti Benedicti de Aquila, ...” e nonostante il fatto che “nomina vero ecclesiarum dicti ordinis militie
Templi in Aprutio non exprimimus in huiusmodi nostro mandato pro eo quod inquisitione facta super
hoc et prehabita, invenire hucusque nequivimus dictum ordinem in dicto Aprutio aliquas vel aliquam
caratteristiche simili anche nell’ambiente ‘molisano’ dipendente dal comitatus Loritelli,
al quale, peraltro, risultavano soggetti tutti quei territori.
Ad avvalorare una simile ipotesi, che potrebbe (e dovrebbe) essere riferita pure a
tutta l’area molisana restante (e, cioè, anche a quella soggetta alla “provincia Terre
Laboris”), portano le seguenti espressioni, che, riportate in maniera frequente dai testi426,
sembrano assai indicative, oltre che di una condizione, di una diffusione significativa e
condizionante: “quadam conventicula seu congregatione” esistenti “in partibus” di
Torremaggiore (Foggia), ma non solo; “alia conventicula” presenti in aree imprecisate;
e, sempre riferiti ad ambienti non indicati precisamente, “in quadam congregatione seu
conventicula”.
Che cosa erano tali conventicula, se non strutture di base sparse sul territorio,
poste extra moenia dei centri abitati, con un numero ristretto di fratres e finalizzate al
controllo diretto ed alla gestione degli interessi? Non solo; ma la loro esistenza (cui,
probabilmente, sono da imputare le ritualità interne e le devianze – omosessualità,
pedofilia, il sacramento della confessione fatta da un “non clericus” e quant’altro – che
portarono alle imputazioni finali427) sta bene a dimostrare che l’ “ordo militie Templi
Gerosolimitani” era presente dappertutto; ed occupava spazi consistenti della vita
sociale ed economica.
E solo le cancellazioni imputabili alla successiva damnatio memoriae hanno
impedito, ed impediscono, una conoscenza della vera verità.
Oltre che alla presenza di proprie strutture (e di evidenti interessi patrimoniali
diffusi sull’intera fascia costiera) a Campomarino, a Termoli (con la dipendenza di S.
Giacomo) ed a Guglionesi428, centro, quest’ultimo, nella cui chiesa di S. Nicola molto
probabilmente situava una magione di discreta importanza429 (dalla quale dipenderà – o
ecclesias vel ecclesiam haberi” (v. pag. 121), pure, a pag. 123, vengono indicate la “ecclesia Sancti
Nicolai de [....]II[....] dicti ordinis militie Templi Theatine diocesis e la “ecclesia Sancti Salvatoris de
Linari Theatine diocesis dicti ordinis militie Templi, le quali, oltre all’evidente caso di pratica ed effettiva
cancellazione ed insieme alla circostanza per cui a testimoniare siano “frater Ceccus Nicolay Ragonis de
Lanzano” e “frater Andreas Armanni de Monte Odorisio”, starebbero ad indicare tracce di una presenza
molto diffusa. E basterebbe, per rendersene conto, vedere l’ultima parte della nota precedente.
CAPONE B. e CERRETANI G., Fondazioni templari in Abruzzo fra il Sangro ed il Trigno, in Atti
dell’VIII Convegno di Ricerche Templari, a cura della LARTI, 1990, pag. 15-28.
426
GILMOUR-BRYSON A., The trial ... cit.
427
GILMOUR-BRYSON A., The trial ... cit., pag. 155. “... Dixit et deposuit quod credit esse notum et
manifestum inter fratres dicti ordinis quod fratres qui recipiuntur ad dictum ordinem debeant abnegare
Christum, spuere super crucem et eam pedibus conculcare, et quod ydolum debeant adorare, et quod clam
teneant sua capitula, et quod magnus magister et preceptores etiam layci possint absolvere fratres a
peccatis confexatis”.
428
GUERRIERI G., I cavalieri Templari ... cit., pag. 23; e, per lo specifico di Termoli, il documento 13 a
pag. 109.
429
DI PAOLA D’ORTONA C., Sulle tracce ... cit., pag. 50. Il Di Paola d’Ortona, in nota, cita: “Cfr. L.
SORELLA, Un intrigo ... forse Templare, in «Made in Molise», anno IV, n. 7, estate 2002 (si segnala la
Fonte di Nallo, in agro di Guglionesi, dove sono presenti alcuni elementi di scultura architettonica che
rimandano al sigillo templare. Inoltre, nella stessa Guglionesi, nella chiesa di San Nicola è presente, su un
pilastro, una croce nel classico colore rosso templare).
Si veda anche G. MORLACCHETTI, F. PAOLONE, L. SORELLA, La chiesa di San Nicola a
Guglionesi, Guglionesi 1997”.
già, e sin da allora, dipendeva? – anche la “Commenda di Malta, sotto il titolo, e
vocabolo di San Vennitto”, posta “in tenimento di S. Angelo Limosano” e confinante,
circostanza poco casuale, colla via di Cascapera430) con dipendenza quasi certa anche a
[Montenero di] Bisaccia, il segno più caratteristico, più significativo e più evidente (ma
non solo quello) della ‘templarità’, il “quadrato magico”, ad Acquaviva Collecroce431
(il “Castrum Acquaevivae habitatum cum vaxallis Schlavonis” del documento di papa
Bonifacio VIII del 1297), e proprio nel centro abitato, nelle cui immediate vicinanze
situava il ‘primo’, e più importante, tenimento della “Venerabilis Commendae S.
Primiani de Larino”432, farebbe pensare che i beni di quest’ultima, se non tutti, almeno
430
Per la relativa “Pianta Topografica del territorio”, che era di circa ventitre ettari esteso, si veda in
Archivio Parrocchiale di Sant’Angelo Limosano.
431
DI PAOLA D’ORTONA C., Sulle tracce ... cit., pag. 61 e segg.
432
TRIA G.A., Memorie storiche, civili ed ecclesiastiche della città e diocesi di Larino, Roma 1744
(ristampa anastatica Isernia 1989), pag. 362 e segg. “Come poi fusse passato questo Monastero (nota: il
Monasterium B. Benedicti, qui edificatus esse videtur in finibus Larino, infra Murum, & Muricinum) con
sue Grancie in Commenda de’ Cavalieri Gerosolimitani, finora per le diligenze fatte presso gl’Autori, che
trattano delle Ragioni di questa Sagra Religione, non ci è riuscito porlo in chiaro; si ha fondamento però di
credere, che ciò avvenisse verso il fine del Secolo XIII. in occasione, che Biagio Abate, e Monaci del
Monastero di S. Angelo in Palazzo, posto nella Terra di Acquaviva, Diocesi di Guardia Alfiera, fecero
concessione di detta Abadìa alla Religione Gerosolimitana, perché si vede presso Bossio, Istoria della
Religione di S. Gio: Gerosolimitano lib. 1. p. 16. che Bonifacio VIII. nel 1297. confermò la detta
concessione con tutti i suoi annessi, connessi, e dipendenze, e che forsi il Monastero di S. Benedetto di
Larino fusse stato considerato, come annesso a quello di S. Angelo in Palazzo, osservando, che anche
attualmente questi beni vanno uniti, benché il titolo preminenziale sia di Commenda di S. Primiano di
Larino, e nel Catalogo dei membri di questa Commenda viene notato quello di S. Angelo in Palazzo; si
stima, che possa tutto ciò dilucidarsi dall’epist. 466. del medesimo Pontefice, che si ritrova nel tom. 2. del
suo Registro p. 117. terg. nell’Archivio Vaticano, da noi non potuto osservare, poiché in detta lettera di
Bonifacio VIII. si spiegano in particolare i membri di essa concessione, come nota il Bossio nel luogo di
sopra riferito, e questo è il suo Catalogo.
Catalogus Membrorum, seu Granciarum dictae Venerabilis Commendae S. Primiani de Larino.
Ecclesia, seu Conventus S. Michaelis Archangeli in Palatio Provinciae Comitatus Molisii cum Territoriis
suis seminatoriis, Casalibus habitatis, & inhabitatis, videlicet: Casale habitato S. Mariae de Cerreto cum
Ecclesia S. Mariae, Vaxallis, Vaxallorumque redditibus, Casale Cerreaniae inhabitato, unito cum
Territorio dicti Casalis S. Mariae de Cerreto.
Item Castrum Acquaevivae habitatum cum vaxallis Schlavonis, dominium Vaxallorum in temporalibus
cum mero, & mixto Imperio, ac etiam cognitione causarum civilium, criminalium, & mixtarum.
Item in castro Rotelli hujus Dioecesis (Larinen.) Ecclesia S. Petri cum Territoriis, intritibus, & aliis juribus
suis.
Item in Terra Serrae Capriolae hujus Dioecesis (Larinen.) Ecclesia Sancti Jacobi &c.
Item in Terra S. Martini hujus Dioecesis (Larinen.) Ecclesia S. Luciae &c.
Item in Civitate Termularum Ecclesia S. Joannis cum nonnullis Vinealibus, Territoriis, introitibus, & aliis
juribus &c.
Item in Terra Collis Nisii ejusdem Dioecesis (Termularum) Ecclesia S. Jacobi, S. Margaritae cum suis
juribus.
Item in Terra Montis Nigri Ecclesia S. Blasii cum juribus suis &c.
Item in Terra S. Juliani hujus Dioecesis (Larinen.) Ecclesia S. Blasii cum suis juribus &c.
Item in Terra Macchiae Provinciae Capitanatae Ecclesia S. Mariae Hierosolymitanae cum bonis suis.
Item in Valle Fortore prope flumen Fortoris juxta Territorium Castri Collis Forti, seu Collistorti hujus
Dioecesis (Larinen.) Ecclesia S. Petri in Valle, & Territorium, quod est circa eamdem Ecclesiam, quod
erat Castrum de S. Petro in Valle, modo inhabitatum.
la parte maggiore, siano stati di derivazione templare.
Non solo; ma l’elenco (che pure si presterebbe a non poche considerazioni, che,
però, l’economia del presente lavoro sconsiglia di intraprendere), oltre alla circostanziata
conferma della organizzazione dei “conventicula seu congregatione” presenti e diffusi
sui territori delle diocesi sia di Larino che di Guardialfiera (e non solo, dovendovi
ricomprendere anche l’intera media valle del Fortore e le relative strutture
monastiche433), che possono essere aggiunti agli altri della diocesi di Termoli e della
fascia costiera, mostra, con una copertura totale del territorio, anche una straordinaria
efficienza della presenza stessa. Che, con il controllo delle culture riservate
particolarmente alle coltivazioni di ‘vigneti’, si estendeva sino a Benevento, per la cui
area “una casa del Tempio è menzionata nel 1184, quando Guglielmo «de la Fossa»,
magister delle case del Tempio in Puglia e Terra di Lavoro, ricevette «in civitate
Beneventi in domo eorundem fratrum … S. Templi» una donazione di Goffredo III,
duca di Lotaringia, il quale era sulla via per Gerusalemme («in itinere Sancti Sepulchri
in Jerusalem»)”434.
E, con i probabili ‘conventicula’ di Macchia (già, come Monacilioni, appartenente
alla Provincia di Capitanata), di Riccia e, soprattutto, di Castropignano, si è entrati, pur
saltando di pari passo (ma, come si vedrà, solo apparentemente) l’intera area del medio
Biferno, nell’ambito del Molise più interno, dove, oltre alle domus di Tappino (che, con
il nome di S. Salvatore, situa, significativamente, fuori dai centri abitati limitrofi) e di
Ferrazzano dedicata a S. Bartolomeo435, si trovavano “le domus di Frosolone, Boiano,
Item in Castro Castellutii Dioecesis Guardiae Alferiae quaedam Grancia dictae Ecclesiae S. Michaelis
Archangeli in Palatio.
Item in Terra Ricciae Provinciae Comitatus Molisii pro Hospitali S. Joannis Hierosolymitani &c.
Item in Terra Campileti pro Ecclesia S. Salvatoris de Monacilioni &c.
Item in Castro Monacilionis Provinciae Capitanatae Ecclesia S. Salvatoris.
Item in Terra Castripignani Provinciae Comitatus Molisii Ecclesia Sancti Petri.
Item in terra Ripae hujus Dioecesis (Larinen.) Ecclesia S. Blasii &c.”.
433
Vi è un documento che suggerisce una tale ipotesi. Ed è quello, dato alle “... idus aprilis pontificatus
nostri anno quarto”, con il quale “il pontefice Nicola [IV] ordina all’abate del monastero di Torremaggiore
della diocesi di Civitate di ricuperare al monastero di S. Elena di Montealvo, dell’ordine di S. Benedetto,
della diocesi di Larino, le proprietà che erano state concesse ed alienate con suo danno e svantaggio”
(BEVERE R. Documenti ... cit., pag. 406), probabilmente ai tempi di Federico II. Circa la templarità
dell’importante monastero di S. Pietro di Torremaggiore, proprietario “sul territorio compreso nei confini
descritti «in precepto de Buiano catepano italie», cioè da Radicosa fino al rivo «Ferrandi» ed alla valle
Lucerina” (v. BEVERE R., ivi), basterà vedere il documento, riportato dal Bevere (v. pag. 405), col quale
“fu dal pontefice concesso ai Templari”.
434
HOUBEN H., Templari e ... cit., pag. 261. Si veda anche: CAPONE FERRARI B., I Templari
nell’«enclave» papale di Benevento, in EAD., Sulle tracce dei cavalieri templari, Torino 1986, pag. 117.
“Godefridus […] pro beneficiis, quae a Magistris Sancti Templi Salomonis in itinere Sancti Sepulchri in
Jerusalem large ac benigne susceperat in Civitate Benedenti in domo eorundem fratrum susceptus S.
Templi […] in manus Guillelmi de la Fossa magisteri ejusdem Templi domorum quae sunt in Abulia et
terra laboris […]”.
435
CAPONE B., I Templari … cit. Così come l’antichità, anche “la templarità della domus Tapini è
attestata da un unico documento giunto a noi attraverso il suo regesto, un lungo regesto che ci fornisce
notizie di notevole interesse. Vi si legge che «nell’anno 1208, alli 10 di agosto, Mons.re Ray[naldo],
vescovo di Boiano, si aggiusta della decima che gli spetta della cultura di San Salvatore di Tappino, che
avevano comprato li Templari del Signor Raynaldo del Monte Vairano, con frà Nicola di Collalto,
Cantalupo, Ripalimosano, Trivento, Isernia”436 e Venafro, tutte appartenenti alla
“provincia Terre Laboris”. E, inoltre, i monaci “militie Templi”, quasi certamente sin
dal secolo XII, “ebbero un convento in S. Giovanni in Galdo”437.
Tanto la presenza assai egemonizzante a Bojano, che, sede del comitatus, “fu un
luogo particolarmente frequentato dai cavalieri del Tempio” sia per la chiesa di “S.
Bartolomeo de’ Cruciferi o della Cruciata” e sia per l’altra “importante testimonianza,
che merita essere citata quale presenza templare” e rappresentata dall’eremo di S.
Egidio438, quanto la singolare commistione (per il fatto che propone il problema dei
rapporti con le altre istituzioni – civili e religiose – legate alla gestione del potere) nella
titolarità del “casale di Canapino”, che “doveva trovarsi in località Santa Maria di
Campobasso, e sotto la giurisdizione del Maestro Generale del Tempio”, ed era “per una
terza parte infeudato a Roberto di Molise del quale per la prima volta trovo la qualifica
Latinus dominus e per gli altri due terzi, notizia importantissima, alla Sacra Militia
Templi, ordine sacro cavalleresco dei Templari”439, sembrano essere elementi assai utili
a mostrare la visibilità raggiunta rapidamente, oltre che i condizionamenti esercitati,
dall’ordine dei “pauperes commilitones Christi Templique Salomonis”.
E l’ambito territoriale del medio Biferno? Sicuramente la radicale capillarità della
presenza, già riscontrata massiccia per le altre aree, porta con certezza ad ipotizzare che
anch’esso, proprio come tutti gli altri, fosse adeguatamente coperto sia di “conventicula
seu congregatione”, sia di strutture atte ad esercitare la ospitalità e sia di patrimoni
consistenti.
Tra i diversi altri che è ancora possibile trovare a Limosano, il segno, indicatore
certo di templarità, rappresentato da “un elemento particolare, che accomuna alcune
chiese del Molise centrale, <consistente nel> bassorilievo delle lunette sovrastante il
portale nel quale compare spesso il cosiddetto agnello crocifero”440, presente (e visibile),
come probabile materiale di riutilizzo, sul portale della chiesa di S. Francesco di
Limosano, che fu autorizzata (con la bolla del 7 Luglio 1312 “Sacrae religionis vestrae
merita”) per i frati francescani appena due mesi dopo il documento che assegnava i beni
templari agli ospitalieri e, nel giro di soli pochi anni, ri-costruita su una pre-esistente
struttura, che ben potrebbe essere identificata proprio con quella stessa “ecclesia Sancti
Maestro delle case di Puglia e di Terra di Lavoro, e riceve quattro onze d’oro dal detto frà Maestro
Nicola per comodo del Vescovado, …»” (v. ivi, pag. 33 e seg.). Collalto, da cui era originario Frà Nicola,
potrebbe essere localizzato, e la cosa, se confermata (e nonostante l’ipotesi della Capone di posizionarne il
sito “nell’alta valle del Volturno”), sarebbe di grande interesse per la presenza templare nel Molise, in quel
“casale Collis Alti”, che era situato tra Fossalto e Castropignano.
Si veda anche: I regesti di Gallucci. Documenti per la storia di Boiano e del suo territorio dal 1000 al
16000, ed. De Benedittis G., Napoli 1990, pag. 33 e seg.
436
DI PIETRANTONIO N., I Templari a Termoli – Un’ipotesi da sviluppare, in Sui Generis, anno 3, n. 5
[gennaio-aprile 2005], pag. 58. L’elenco risulta ricavato dal citato documento del 1373, conservato alla
Biblioteca Nazionale di Parigi.
Relativamente a Isernia, si veda IMPERIO L., San Giovanni del Tempio di Isernia, in Atti dell’VIII
Convegno … cit., pag. 29-44.
437
MASCIOTTA G.B., Il Molise dalle origini ai giorni nostri, ristampa Campobasso 1981-1985.
438
DI PAOLA D’ORTONA C., Sulle tracce ... cit., pag. 47.
439
GASDIA V.E., Storia di Campobasso, Verona 1960, pag. 386 e seg.
440
DI PAOLA D’ORTONA C., Sulle tracce ... cit., pag. 50.
Pauli”, della quale: 1) i ‘clerici’, insieme a quelli di S. Stefano e delle “aliarum
Capellarum eiusdem terre”, andavano “ad Ecclesiam sancte marie proprie in festis
eidem virginis ad officiandum et honorandum”441; 2) nel marzo 1012, fu fatta a
Montecassino “oblatio Johannis presb(y)teri de rebus suis in Sancto Johanne et Paulo
de Lemosano”442; e 3) il risultare associata con una evidenza dedicata a “Sancto
Johanne”, indicata “in primis” nell’ “Inventarium bonorum, ac jurium Commende S.ti
Joanni Hierosolomitani in Terra Limosani”443 del 1587, potrebbe far pensare ad un
‘conventiculum’ templare (posto extra moenia e lungo la via che menava sia al bosco
che a Cascapera), cancellato dalla successiva damnatio memoriae.
Ed, oltre al segno della templarità rappresentato dell’agnello crocifero, da quella
pre-esistente struttura provenivano anche l’episcopus, vestito di paramenti della ritualità
greca, ancora visibile scolpito444 all’esterno (probabile materiale di riutilizzo, in forte
analogia con l’agnello) della stessa Chiesa (lato ovest) e, cancellate, le residualità (una
sedia vescovile ed una tomba dei vescovi, che, se così non fosse, avrebbero certamente
una spiegazione assai difficile per un convento di semplici frati francescani) di una
precedente sede di una struttura assai significativa445 che, oggetto delle successive
cancellazioni dovute alla damnatio memoriae dei Templari, dava a quel conventiculum
rilevante visibilità per il territorio del medio Biferno.
A siffatta condizione, sicuramente interessante e di rilievo (ed, in ogni caso, ad un
punto di riferimento di non poco prestigio – e, comunque, finalizzato al controllo – per il
territorio) portano credito la struttura, la consistenza ed il posizionamento del patrimonio
descritto nel citato inventarium del 1587446.
441
ASV, Fondo Avignonese, Collect. ... cit., f. 190.
Registrum Petri Diaconi, doc. n. 498 (c. 142v-143r).
443
ASC, Fondo Amoroso, Protocolli del Notaio Ramolo Nicola Maria, atto del 28 agosto 1587, che, di
lettura assai difficoltosa, riporta, a sua volta, inventari precedenti (1559 e 1527).
“”In primis una ecclesia diruta, et destrutta sita fuori le mura di detta Terra di Limosano in loco ubi dicitur
lo giardiniello con un horto avanti detta Ecclesia con Casalino dalla banna di dietro all’Ecclesia predetta
diruta detta di S.to Janni, ...”
444
BOZZA F., Segni di presenze ... cit.
445
BOZZA F., Limosano: Questioni ... cit. Capitolo V.
446
ASC, Fondo Amoroso, Protocolli del Notaio Ramolo Nicola Maria, atto del 28 agosto 1587, già citato.
Oltre alla “Ecclesia diruta, et distrutta … detta di S.to Janni” (ma nell’inventario del 1527 si parla de “le
due Ecc.e di S.to Jac.o e di S.to [?]”) ed all’annesso orto, di cui è stato riferito in precedenza, l’inventario
della Commenda faceva registrare:
a) - uno pezzo di terra sita alla fonte Vernavera alias a S.to Janni della Serra di capacità di tomola
diece in circa;
b) - Uno pezzo di terra sito a S.ta Croce di tomola tre in circa;
c) - Uno pezzo di terra alli Monti (?) di tomola cento in circa;
d) - Uno pezzo di terra alli patrisi di tomola sei in circa;
e) - Uno pezzo di terra à fiorano di tomola due, e mezzo in circa;
f) - Uno pezzo di terra alli patrisi pero che l’Inventario vecchio detto alla Valle di tomola uno, e
mezzo;
g) - Una vigna sita in detto luoco alla Valle [confinante con il precedente];
h) - Una vigna … sita alla fonte delle Vetiche [ci circa tre tomoli];
i) - Una vigna ed un vineale, siti alli ferrainini, [di complessivi circa tomoli quattro];
j) - Un censo di carlini tre l’anno sopra una casa sita alla piazza delle fucine di quattro membri;
k) - Un censo di grana cinque l’anno sopra una casa sita alla piazza delle fucine di tre membri;
442
Esso, tra gli altri beni, riporta [v. punto e) della precedente nota n. 142] un “pezzo
di terra à fiorano di tomola due, e mezzo in circa”, che era “confinante con li territori
da una banna da sopra li beni dello spedale, ...” e con quella via pubblica che,
passando per Ferrara, scendeva sino all’Adriatico; ed, a fine XVI secolo, ancora “si dà à
coltura à terraggio d’ogni diece uno quando si semina”.
A parte il fatto (di per sé non senza significato) che le cancellazioni successive
sembra abbiano contribuito a ‘togliere’, a nascondere e quasi a sopprimere un qualcosa,
la posizione in posto assai contiguo a quei “beni dello spedale”, che, proprio come
lascia ben ipotizzare il toponimo di “colle dello spedale” rimasto conseguentemente alla
zona (ma ne sta definitivamente scomparendo ogni traccia), doveva rappresentare una
struttura, la quale era probabilmente finalizzata all’accoglienza ed all’ospitalità per i
pellegrini che percorrevano tale via pubblica. Essa, così come mostrano i segni ancora
visibili sul territorio, era pertinente ad una probabile casa-conventiculum dell’ordine del
Tempio (o, ipotesi da non escludere, di quello degli Ospitalieri).
Tali segni o forme di residualità fisica, attualmente rientranti nell’agro di Lucito
(ma già feudo di Ferrara) a non molti metri dal confine di quest’ultimo con quello di
Limosano447, sono rappresentati da delle mura a secco (come tali, ed indicanti almeno
due emergenze dai rispettivi perimetri abbastanza grandi, figurano nelle mappe più
antiche di rappresentazione del territorio) in stato di conservazione più o meno discreto,
situate in zona sufficientemente nascosta, ma ampia e pianeggiante, ed a distanza assai
breve dal percorso viario; e, di maggiore significato, da una ‘costruzione’, sempre a
secco e relativamente ben mantenuta, che ha caratteristiche assai particolari e per molti
versi uniche sia nella tipologia e nella forma che nella destinazione d’uso e nell’utilizzo,
di non facile identificazione e neppure ipotizzabilità, cui era – o doveva essere – adibito.
L’edificio, mentre nella parte perimetrale esterna è, con una altezza stimabile a 4 metri,
all’incirca di forma quadrata (con lato di 8,00 mt.), all’interno contiene, con un accesso
difficilmente praticabile in quanto è alto circa 1,20 mt., largo circa 0,75 mt. e lungo circa
2,75 mt., un vano a base rotonda (diametro di circa 2,50 mt.) e, dopo una altezza di circa
1,20 mt., a volta con cupola a forma di trullo; in posizione opposta, ma non in maniera
diametrale al vuoto dell’ingresso, è possibile individuare una piccola apertura (una presa
d’aria?), che, di circa mt. 0,40 di altezza per mt. 0,30 di base, non sembra tuttavia
trovare nessuna corrispondenza all’esterno (e non ne risulta determinabile, quindi, la
effettiva lunghezza) che, se tale fosse stata, sarebbe caduta quasi sull’angolo (e non,
come logica e convenienza avrebbero voluto, sulla metà del lato che ne rappresentava la
parte più corta) della struttura stessa.
Questo è quanto, veramente poco, rimane di più significativo; ed, in certo qual
l) - Una parte di vigna alli patrisi;
m) - Un pezzo di terra, seu vignale sito a S.ta Alluminata di tomola due in circa.
Omettendo le tante considerazioni (si noti, comunque, la forte presenza dei vineti), pur possibili, non può
non essere annotato che negli inventari più antichi figuravano (nel frattempo probabilmente erano stati
dimessi) anche diversi altri beni con dislocazioni in altre zone dell’agro limosanese.
447
Di buon significato, in quanto ricollegabile, e riferibile, all’esistenza di una tale casa-conventiculum,
potrebbe sembrare il fatto che a non molta distanza dal “colle dello spedale” situava (e situa, anche se la
toponomastica antica, peraltro molto variata con le operazioni di accatastamento) anche quel “colle di
Dio”, che, con le corruzioni linguistiche, successivamente è passato ad essere il “colle di Diego”.
modo, contribuisce a confermare il fatto che “in Italia è scarsamente attestata un’attività
edilizia sacra da parte dei Templari, e in genere essi utilizzano preesistenti luoghi di
culto”448, dei quali nulla, o quasi, è stato mantenuto successivamente. Perché la violenza
delle cancellazioni, alla quale spesso, per l’événement culturale, si è accompagnata
l’indifferenza, quando non proprio l’ignoranza colpevole perché voluta e, forse, ancor
più deleteria della prima, costringe all’impossibilità ad andare oltre nella individuazione
delle presenze fisiche.
In ogni caso esse furono parte assai rilevante di una geografia densa, nonostante la
scarsa loro identificabilità e le tante lacune per ricostruirne il ‘sistema’. E, soprattutto,
una geografia che pone non pochi problemi per i condizionamenti e le relazioni con le
altre forze in campo. Quali, per esempio, i rapporti con il potere, pur’esso di derivazione
francese, feudale e civile operante negli stessi ambiti territoriali? E, se è vero che “va
inoltre ricordato che nel 1226 un templare di nome Riccardo fu eletto vescovo di
Lavello”449, quali i rapporti (ivi comprese le ‘scalate’) con le organizzazioni e con le
istituzioni, regolari e secolari, della chiesa, specialmente nelle circoscrizioni locali? Ed,
a parte le agevolazioni fiscali ed economiche ed i favori ricevuti dal papato, se “una
particolare menzione meritano le relazioni dei Templari con il clero, che temette la loro
concorrenza”450, come si svolsero tali relazioni? Non è che le stesse istituzioni fossero
espressioni del potere templare? E, infine, perché contemporaneamente alla scomparsa
dei Templari, si perdono anche le tracce di diverse istituzioni, monastiche e non,
dell’attuale Molise, per le quali non si riesce più a definirne l’esatto ruolo precedente sul
territorio? E le domande potrebbero essere ancora molte altre.
Tra le tante, una ipotesi di risposta (o di ulteriore domanda?) la suggerisce la
circostanza per cui “Gregorio IX motivò il 23 marzo 1228 la scomunica, pronunciata
contro Federico II nel settembre 1227, oltre che con la mancata partenza per la crociata,
con il fatto che l’imperatore avrebbe spogliato i Templari e gli Ospedalieri dei loro beni
nel regno di Sicilia”451.
Non solo interessi di potere (o di ‘sudditanza’ al potere?), però. Ma, come è facile
pensare, il problema era (o sembra essere stato) anche, e soprattutto, economico e legato
al traffico di schiavi e della forza lavoro, come dimostra “una lettera di Gregorio IX
datata 5 agosto 1228, in cui il papa si lamenta del fatto che Federico II aveva confiscato
«un centinaio di schiavi posseduti da Ospedalieri e Templari in Sicilia e nelle Puglie,
restituendoli ai saraceni senza alcun compenso per gli ordini»”452. Di quell’enorme
448
DI PAOLA D’ORTONA C., Sulle tracce ... cit., pag. 32.
HOUBEN H., Templari e ... cit., pag. 268.
450
HOUBEN H., Templari e ... cit., pag. 269. Non solo “Alessandro III, tra il 1171 e il 1181, vietò al clero
della Puglia di pretendere dai Templari «contra institutionem illustris memorie R[ogerii] regis Sicilie
hactenus obeservatam» la tassa del plateaticum o del passagium”, ma (v. ivi, pag. 270) “era un gran
sostenitore dei Templari, i cui servizi finanziari gli erano utili”.
451
HOUBEN H., Templari e ... cit., pag. 271 e seg. Houben cita, in nota 78, tra l’altro, dalle Epistolae
saeculi XIII e regestis pontificum Romanorum selectae, ed. K. Rodenberg [M.G.H., Epistolae saeculi XIII,
I], Munchen 1883, nr. 371, p. 289: «quia Templarios et Hospitalarios bonis mobilibus et immobilibus quae
habebant in regno temere spoliavit».
452
HOUBEN H., Templari e ... cit., pag. 272. “Centum Sclavos etiam quos domus Hospitalis et Templi
habebant in Sicilia et Apulia colligi faciens eos reddidit Saracenis, nulla exinde recompensatione facta
domibus supradictis”.
449
patrimonio fondiario, del resto e nonostante (ma è cosa che è tutta da dimostrare)
“l’esiguità numerica dei Templari, una gestione diretta avrebbe richiesto l’impiego di un
notevole numero di operai salariati oppure di schiavi”453.
E, almeno per quanto riguarda direttamente la milizia del Tempio, ci si ferma. Si è
costretti a farlo perché sono stati cancellati i riferimenti utili per la ricerca. Del resto,
“molto scarse sono, ..., le notizie sui rapporti «spirituali» di laici con l’ordine del
Tempio”454; e scarse sono quelle per stabilire le relazioni ed i condizionamenti esercitati
sulla società di allora.
Da parte sua, l’ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, vocato
tradizionalmente più ai servizi (ed agli interessi) connessi alla ‘ospitalità’, a differenza
di quello dei Templari che, almeno istituzionalmente, doveva privilegiare le finalità
legate alla guerra, fu storicamente più antico455 del secondo, dei cui beni patrimoniali,
dopo la soppressione e con la bolla “Ad provvidam” (2 maggio 1312), ne divenne
l’esclusivo assegnatario. Fatto che, combinato con la sistematica damnatio memoriae
che ne seguì, obiettivamente impedisce la ricostruzione delle disponibilità da riferire
rispettivamente a ciascuno di essi per i periodi precedenti..
La recente lettura interpretativa, secondo la quale gran parte dei sette xenodochia
(ospizi o, anche, ‘spedali’) europei, che col “privilegio papale rilasciato a Benevento nel
febbraio del 1113 venivano confermati all’ospizio di Gerusalemme”456, si trovavano
lungo l’itinerario italo-francese percorso da papa Urbano II fra il 1094 ed il 1098, nel
periodo, cioè, preparatorio, della predicazione e dei primi anni della Crociata457, lascia
pensare che, seppur in maniera lenta a motivo dei naturali impedimenti di una situazione
politica che veniva definendosi proprio nella seconda metà dell’XI secolo, l’idea 458,
nuova, del monaco-guerriero trova quella diffusione, che con i templari sta per diventare
453
HOUBEN H., Templari e ... cit., pag. 274.
HOUBEN H., Templari e ... cit., pag. 275.
455
Sembrerebbe essere stato costituito (v. AMATO da Montecassino, IV, 39), con finalità di ospitalità e,
comunque, assistenziale, da un gruppo di amalfitani presenti a Gerusalemme sin dal 1063.
456
LUTTRELL A., Gli Ospedalieri nel Mezzogiorno, in Il Mezzogiorno ... cit., pag. 290.
457
MATZKE M., Daibert von Pisa zwischen Pisa, Papst und ersten Kreuzzug, Sigmaringen 1998, pagg.
107-127 e 180-182. Nonostante venga ritenuta “molto discutibile” dal Luttrell, “la sua ipotesi è che
Daiberto, certamente quasi sempre accanto a Urbano, e divenuto arcivescovo di Pisa, poi legato papale
alla Crociata, e dal 1099 al 1102 patriarca di Gerusalemme, fosse responsabile della fondazione di una
serie di ospizi lungo le vie verso l’Oriente come contributo all’infrastruttura della futura Crociata; ed
anche che la sottrazione dell’ospizio gerosolimitano al controllo dei Benedettini di Santa Maria Latina
intorno al 1100/1101 fosse previsto dalla Curia romana in Francia già nel 1095/1096” (v. LUTTRELL A.,
Gli Ospedalieri … cit., pag. 291)
458
Il citato Luttrell (v. ivi, pag. 291 e seg.) da la seguente ‘interpretazione’ dell’andamento dei fatti: “Poco
dopo la caduta di Gerusalemme l’ospizio o ospedale latino fu in qualche modo aggregato al Santo
Sepolcro, che costituiva l’obbiettivo principale della crociata. Dopo il 1099 intorno al Santo Sepolcro
c’era un’aggregazione di tre elementi: quello liturgico rappresentato dal clero della stessa chiesa, quello
caritativo centrato sull’ospedale, e quello militare. Questa situazione fu riconosciuta dal conte Ruggero di
Sicilia quando nel 1101 inviò al patriarca Daiberto, il quale era probabilmente passato a Messina verso la
fine del 1098, la somma di 1000 bisanti da dividere fra il Santo Sepolcro, l’ospedale e l’esercito regio. Più
tardi un gruppo di milites ad terminum era sotto obbedienza del priore del Santo Sepolcro ma residenti
nell’Ospedale, e fu un piccolo numero di questi milites a lasciare il Santo Sepolcro e l’Ospedale nel 1120
per formare l’Ordine del Tempio”.
454
radicamento assai forte sul territorio.
“E’ importante notare che i canonici del Santo Sepolcro non adottarono una vita
regolare prima del 1114, e che fu solo nel 1121 che il papa confermò la loro Regola e i
loro possedimenti. Rispetto all’ospizio gerosolimitano, il Clero del Santo Sepolcro aveva
minor bisogno di uomini e denaro dall’Occidente, e sembra che solo intorno al 1120
iniziasse una sua coerente organizzazione in Occidente”, contemporaneamente, quindi,
alla diffusione dei pauperes commilitones Christi Templique Salomonis, che, in ogni
caso, superarono tutti gli altri ordini come presenza. “Fra il 1119 e il 1124 il papa donò
al santo Sepolcro una chiesa a Benevento; aveva due chiese a Brindisi nel 1128; ma per
il Santo Sepolcro non è documentato nulla a Bari o a Troia prima del 1138. Il Tempio,
fondato nel 1120, è documentato in Puglia solo intorno al 1142”459; tuttavia, ben tre dei
xenodochia, situati nel relativo Principatus, risultano nominati nel menzionato
privilegio del 1113.
Benché “è vero che una fondazione poteva esistere già prima della più antica
documentazione sopravvissuta, ed è anche vero che spesso non risulta se con una
ecclesia ci fosse anche una domus, o se con una domus ci fosse anche un ospizio”, per
l’Italia meridionale, per cui “non rimangono molti atti di donazione” o altra diversa
documentazione di altra natura, va, comunque ed in ogni caso, registrato che, almeno
rispetto alla diffusione dell’ordine templare, “c’era un ritardo generale nell’inserimento
dell’Ospedale”460, che va tenuto ben distinto anche dal Santo Sepolcro.
Come per tutti gli altri ordini monastico-cavallereschi, così pure per gli Ospitalieri
poco, troppo poco, rimane dell’attività edilizia; e “le chiese rotonde o ottagonali furono
costruite o tenute <sia> da questi ultimi, <ma anche> dai Templari, dal Santo Sepolcro o
da altri”461, per cui risulta impossibile dare una precisa assegnazione.
Relativamente alla possibile situazione della geografia insediamentale, delle
presenze e dell’organizzazione dell’Ospedale, rimane da aggiungere che per grandi linee
sembra doversi ritenere che fosse non molto dissimile da quella templare con priorati a
Barletta ed a Capua462, dai quali dipendevano sia la gestione degli interessi come anche il
controllo del territorio molisano.
Dopo l’abolizione decisa dal Concilio di Vienne (1312) e formalizzata con il
documento pontificio Vox in excelso, le disposizioni della bolla Ad provvidam463
459
LUTTRELL A., Gli Ospedalieri … cit., pag. 294.
LUTTRELL A., Gli Ospedalieri … cit., pag. 297.
461
LUTTRELL A., Gli Ospedalieri … cit., pag. 297. Il Luttrell cita da CADEI A., Architettura sacra dei
Templari, in Monaci in armi: l’architettura sacra dei Templari attraverso il Mediterraneo, a c. di G. Viti
et al., Certosa di Firenze 1995.
462
LUTTRELL A., Gli Ospedalieri … cit., pag. 299 e seg..
463
“Il papa dispose che i frati avrebbero potuto entrare in un altro ordine religioso e che i beni, cioè quanto
rimasto dalle ruberie del re di Francia, sarebbe stato devoluto all’ordine dell’Ospedale” (FRALE B., Il
Papato ... cit., pag. 186). La bolla papale rappresentava, però, solo l’atto conclusivo ed attuativo di quel
progetto di unificazione degli ordini militari, che, “discusso seriamente sin dai tempi del concilio di Lione
(1274, stava diventando una necessità storica considerate le scarse speranze di riconquista in Oriente ma
anche la progressiva buricratizzazione degli ordini militari, che la forzata inattività bellica spingeva ad una
riconversione in senso finanziario e diplomatico. Da almeno trent’anni il papato condivideva con le corone
d’Europa la convinzione che il progetto avrebbe fatto progredire i piani per recuperare la Terrasanta” (v.
ivi, pag. 176), che, per il fatto che queste ultime avevano sicuramente mire ed interessi assai diversi da
460
portarono, in tempi sufficientemente lunghi464 (circostanza che, almeno per l’ambiente
meridionale, farebbe pensare a più che probabili resistenze negli ambiti locali durate per
l’intero XIV secolo con trascinamenti e discussioni), al passaggio agli Ospedalieri delle
strutture (e della gran parte dei milites) ed all’accorpamento dei rispettivi patrimoni.
Di quelli tra essi che erano situati in area molisana la relativa amministrazione
sembra abbia fatto capo alle domus-conventicula, che, come Larino (con la Commenda
di S. Primiano), Limosano (lo documenterebbe la serie degli inventari di cui è stato
riferito) e Bojano (con la sede di una storica casa della Commenda, dalla quale si
continueranno ad amministrare, per diversi secoli ancora, numerosi beni fondiari465),
erano state quelle di maggiore tradizione e significato sul territorio.
Ma il modo di condizionare l’esterno era venuto a diminuire gradualmente. Sino a
scomparire del tutto.
quelli politico-spirituali e religiosi del papato stesso, mai più furono portati a termine.
464
GUERRIERI G., I cavalieri Templari ... cit.
465
E’ del 28 dicembre 1752 (v. ASC, Fondo protocolli notarili, Not. Amoroso F.A.) l’atto di vendita da
parte di Ascanio Longo di una casa “per sodisfare docati nove al Sig.r Canonico la Gatta di Bojano, per
l’affitto da esso Ascanio tenuto delli beni della Commenda di Malta sistentino in questa sud.a Terra de
li=Musani”, che, molto probabilmente, erano stati accorpati in precedenza con quelli di Bojano.
Effige di Vescovo, con indumenti del rito greco, scolpita a rilievo posta sul lato ovest della Chiesa di S.
Francesco di Limosano, che fu dei frati francescani Conventuali.
L’ “episcopus Limusani”, suffraganeo dell’arcivescovo metropolitano, così come fu raffigurato sulla
porta di bronzo della Cattedrale di Benevento.
CAPITOLO IV: Federico II e gli Angioini
4.1 – Ghibellini e Guelfi
Se era stata proprio con la sottomissione vassallatica al papato, ufficialmente con
l’incoronazione a ‘re’ del sovrano normanno Ruggero d’Altavilla, ad aversi la formale
(e definitiva) legittimazione al Regnum delle due Sicilie, che, con le crociate, almeno di
fatto (ma assai relativamente nelle intenzioni, se è vero che mantenne, e sino a Federico
II, ancora assai forti i legami sia con l’area bizantina che con quella araba), era entrato
nell’orbita occidentale, la vera e definitiva “«europeizzazione» del Mezzogiorno fu
accentuata dall’«unio regni ad imperium», cioè dall’unificazione tra il regno normanno
di Sicilia ed il Sacro Romano Impero, in seguito al matrimonio tra Enrico VI e Costanza
d’Altavilla”466. Ma, a differenza di quanto era stato prima della latinizzazione che seguì
allo scisma del 1054 (allorché era stato “d’Oriente”), tale Sacro Romano Impero è, ora,
“d’Occidente”.
E, mentre questa, nei tratti essenziali, si dimostrò essere la dinamica evolutiva dei
rapporti e delle influenze negli schieramenti di politica internazionale, la presa di
coscienza, negli ambiti delle località e delle particolarità, tanto della propria personale
condizione politico-economica, sociale e religiosa quanto degli abusi e delle deviazioni
dal ruolo delle ufficialità istituzionali porta a forme di irrigidimento e di contestazione.
Ed, in ogni caso, a prendere – ed a far prendere – una posizione che, scomparse e svanite
come nel nulla le forme della mediazione ed iniziata la crisi delle autorità a favore di una
certa diffusa laicalità, spesso (sempre più spesso) si dimostra radicale. In un contesto che
vede la società meridionale presentarsi ancora – si pensi alle corti di re Ruggero e di
Federico II – come il consueto laboratorio di civiltà etniche, linguistiche e religiose le
resistenze, quando non vere e proprie reazioni, alla latinizzazione pongono presto ad una
chiesa, quella post-gregoriana che ha appena portato a termine le riforme dei papi
monaci tedeschi, sul cammino, nella direzione diametralmente opposta, verso
l’uniformità e l’accentramento il problema della gestione delle pluralità.
L’evoluzione delle strutture, da parte sua, veniva a concretizzarsi durante un
intervallo di tempo che, contemporaneo ad una fase con clima più caldo467 (tra l’ultimo
quarto del secolo XI ed, almeno, per l’intero secolo successivo), vedeva una esplosione
– con i problemi ad essa connessi – dell’andamento demografico che, durante i primi tre
secoli e mezzo del secondo millennio, portava al raddoppio del numero degli abitanti468.
466
HOUBEN H., Templari e ... cit., pag. 252. Per chi, relativamente alla “unio regni ad imperium”, voglia
approfondirne genesi ed effetti, rimane ancora classico ed insuperato lo studio di: BAAKEN G., Unio
regni ad imperium. Die Verhandlungen von Verona 1184 und die Eheabredung zwischen Heinrich VI und
Konstanze von Sizilien, in QFIAB LII (1972), pp. 219-297.
467
LE ROY LADURIE E., Times of Feast, Times of Famine. A History of Climate from the Year 1000,
London 1975, pag. 255. Il XII risulta essere stato “il secolo più caldo del Medioevo”.
468
LIVI BACCI M., Storia minima della popolazione nel mondo, Bologna 2002. Le indicazioni (v. ivi,
pag. 44) numeriche sono che dai 30 milioni del 1000 la popolazione europea passava, nel 1200, a 49
milioni ed, intorno al 1340 (prima della peste), a 74 milioni per tornare a 52 milioni nel 1400, a 67 milioni
nel 1500, ad 89 milioni nel 1600 ed a 95 milioni nel 1700.
Una situazione che, pur con i suoi aspetti positivi, indubbiamente e con l’aumentata
richiesta (domanda) di mezzi per la sopravvivenza imposta ad una produzione (offerta)
agricola fatta ancora con mezzi arcaici (la resa per il frumento, ad esempio, si aggirava
in media intorno al quattro per unità di prodotto seminata), contribuiva, nell’immediato e
per le connesse difficoltà, ad esasperare le posizioni ed a radicalizzare i contrasti.
Oltre che a motivo sia delle problematiche poste dalla necessità di
sopravvivenza469 e sia per le influenze di altre diverse concause (tra cui, non ultima,
quella decadenza, sin quasi alla inefficacia delle autorità, del potere – di ogni potere –
politico, che aveva già permesso l’inserirsi ed il rapido posizionarsi ai vertici dei
normanni – tanti o pochi? avventurieri, isolati pellegrini senza meta o portatori di un
progetto?) come la crisi della economia curtense ed il conseguente avvicinamento agli
insediamenti abitati – sino ad entrarvi dentro – delle produzioni e, con le strutture
religiose che vengono a posizionarsi appena “extra moenia”, dei punti del riferimento
della decisione economica, col XII secolo si ha, senza nessuna possibilità di mediazioni
o di compromessi, la radicale esplosione delle dualità, dei dualismi e, soprattutto, delle
estremizzazioni degli opposti: ricchezza o povertà, ortodossia o eresia, santo o diavolo,
papa o imperatore, clerici o laici. E, per quanto concerne la presa di coscienza, diventata
espressione di concretezza, della lotta politica, guelfi o ghibellini.
Ed il secolo successivo, poi, della esasperata radicalità, ‘vissuta’, di tali condizioni
così eccessive ne vedrà gli effetti portati sino alle conseguenze più estreme.
Relativamente all’ambito territoriale del medio Biferno, la situazione geografica
(altrove ne è stata proposta una ricostruzione dettagliata 470), che sta registrando la perdita
progressiva della presenza diffusa ed ancora ‘vicatim’ ed il parallelo definirsi degli
insediamenti che, senza più o meno grandi variazioni, manterranno continuità con gli
attuali, vede Limosano rientrare nello “Justitiariatus Terre Laboris”471, tenere la
condizione di “civitate nostra” con la sicura presenza della diocesi nella prima metà del
XIII secolo472 e, soprattutto, avere le caratteristiche, percepite come tali anche
469
ABULAFIA D., Federico II: un imperatore medievale, Torino 1993 (trad. da: Frederick II. A medieval
emperor, London 1988). “Nel XII e XIII secolo si verificò in tutta Europa e in buona parte del bacino
mediterraneo una vera e propria esplosione demografica, con conseguente espansione della domanda di
derrate alimentari” (pag. 8).
470
BOZZA F., Limosano: Questioni … cit.
471
ASV, Fondo Avignonese, Collect. t. 61: Benevent. Civitatis et ducatus Varia 1132-1312. Ms. Ch. s.
XIV, già citato (v. nota 17 del 2° capitolo).
472
RUCK W., Die Besetzung der sizilischen Bistumer unter Friedrich II, dissertazione inedita dell’Univ.
di Heidelberg 1923, pag. 17.
Senza sottolineare che trattasi della situazione immediatamente precedente la angioinizzazione, il Ruck fa
le sue ricostruzioni con le risultanze del:
“1) Liber censuum verfasst von Cencius, dem spaeteren Papst Honorius III im Jahre 1192, herausgegeben
von Fabre-Duchesne 1889 in der Bibliothèque des Ecoles françaises d’Athènes et de Rome, Bd. VI;
2) Die Teilnehmerliste des Laterankonzils vom Jahre 1215, veroeffentlich von Jakob Werner in Neuen
Archiv XXXI, p. 584 ff. 1906, dis bis jetzt fur diesen Zweck noch garnicht benutzt wurde;
3) Ein Provincial aus den Jahren 1230-1260, das den Prophezeiungen das Pseudo-Joachim de Floris
uberd en Orbis christianus zugrunde gelegt ist und in Venedig im Jahre 1517 herausgegeben wurde”.
In un documento del 1194 (v. f. 1v della raccolta di carte manoscritte di cui alla nota precedente), che
coincide con l’epoca del Liber Censuum, di cui al punto 1), viene chiaramente riportato: “intus fines
civitatatis nostre lemusane”.
all’esterno, di una “terra ita bona” che, “exceptis urbis civitatibus quae sunt digne ad
habendum episcopum videlicet luceria, arianum et Boyanum, nulla aliarum civitatium
quae sunt in provincia beneventana est ita apta et ydonea ad cathedram episcopalem seu
pastoralem habendam sicut terra limosani predicta et ideo apta et ydonea reputatur,
tenetur et habetur”473.
Ci si è venuti a trovare davanti, indubbiamente e come confermeranno i dati delle
“Rationes Decimarum Ecclesiae” (che mostrano, mentre i “clerici Campibassi solvunt
unc. I” solamente, come “Limosanum solvit unc. III <et> tar. XXIIII”, che, essendo
circa quattro volte tanto, rappresenta una somma assai considerevole474), ad una realtà
insediamentale, che, normalmente poco conosciuta e, perciò stesso, sottostimata,
manifestava, di pari passo ad una condizione di fortissimo sviluppo demografico (le
fonti permettono di stimare la presenza umana in all’incirca quattromila abitanti),
fermenti di grande vivacità, non solo per quanto attiene gli aspetti riconducibili agli
ambiti religiosi, ma, soprattutto, per le esperienze politiche, sociali e culturali475.
Come mostra la vicenda della “re-inscriptio”476, sollecitata dalle richieste (o
pretese) di quel Gregorio477 che è venuto a trovarsi schierato dalla parte dell’anti-papa
Anacleto II (durante lo scisma [1130-1138]478 che non poco si alimentò di tradizione e di
linfa culturale greco-bizantina), mentre sulla cattedra vescovile già siede l’episcopus
filo-papale Hugo(ne), quella realtà urbana, storicamente, vive di contrasti e di lotte
vivaci ed assai accese nella contrapposizione tra le parti.
Cose tutte che vanno a confluire in uno scontro che ha radici lontane e risvolti, nel
tempo, di natura sempre più politica e, nonostante l’apparente copertura, sempre meno
religiosa.
Quella vicenda, che già andava ad innestarsi sulla tradizione, di lunga durata,
greco-bizantina e da essa prendeva forme e vigori, diventava episodio concreto proprio
473
ASV, Collect. t. 61 ... cit., f. 164v. E, dopo aver fatto il paragone con le realtà insediamentali di analoga
evidenza (con le quali Limosano può stare alla pari) e mentre al f. 175r viene riportato che “dicta terra
limosani est melior terra ... quam plures civitates dicte provincie beneventane ut putat civitates Guardie
alferie, dragonarie, Termolense, lesine, Montis corbini, Vulturarie et florentini”, al f. 190v i termini del
confronto si fanno anche con le ‘terre’ assai più vicine, se è vero che “ipsa terra limosani est meliora terra
quam sit civitas Treventi et civitas Guardie et civitas Larini, ...”.
474
BOZZA F., Limosano: Questioni … cit., capitolo 3°.
475
BOZZA F., Limosano: Questioni … cit., capitolo 1°.
476
KEHR P.F., Papsturkunden in Italien, Reiserberichte zur Italia Pontificia, Acta Romanorum
Pontificum, Città del Vaticano 1977 (Rist., in 5 volumi + 1 di indici, dell'opera “Nachtrage zu den
Romischen Berichten”, in ‘Nachrichten der k. Gesellschaft der Wissenschaften zu Gottingen’ Phil. Hist.
Klasse, 1903), Vol. IV, pag. 218 e 219 (già 560 e 561).
DE BENEDITTIS G., Note storiche-topografiche sulla Diocesi scomparsa di Limosano, in AM 1981,
pag. 246-252.
BOZZA F., Limosano: Questioni … cit., capitolo 1°.
477
ASV, Collect. t. 61 ... cit. Oltre al nome di Gregorio, al f. 183r si fa anche il nome, come ‘episcopum’
che, probabilmente gli successe (ma se ne ignora sia l’epoca e sia se venne subito dopo), del “quondam
alium dominum Rahonem”. Cosa che, per tanti versi, permetterebbe di ipotizzare una certa persistenza
della sede diocesana antipapale anche dopo il superamento dello scisma.
478
Per una idea di cosa rappresentò lo scisma, si segnala che, nel solo primo trentennio del XII secolo,
precedettero quello anacletiano gli scismi di Teodorico (1100), di Alberto (1102), del romano Silvestro IV
(1105-1111), del francese Gregorio VIII (1118-1121) e di Celestino II (1124).
mentre la vecchia classe dominante legata alla famiglia “de’ Pantasij” si vedeva
costretta ad abbandonare il campo (per andare a stabilirsi definitivamente a Benevento)
alle emergenti (o appena emerse) forze normanne, che, tra i diversi gruppi, contrastano
tra loro per diventare ‘potere’. Non solo; ma metteva in evidenza anche l’indissolubilità
dell’antico legame che, in modo ombelicale, teneva unito almeno una ‘parte’, quella più
tradizionalista, conservatrice e legata alla tradizione religiosa, degli abitanti dell’ambito
territoriale limosanese e del medio Biferno alla città, sede metropolitana, di Benevento.
Contribuiva, poi, a non poco ingarbugliare la situazione il diffondersi, ad opera di
una predicazione contestatrice da parte di ‘poveri’ eremiti riformatori ed innovatori479 (di
quella tradizione greca avversata ferocemente da quest’ultima così che non è un caso che
l’eresia emerge proprio con la latinizzazione) e, talvolta, di laici diseredati con sempre
più insistenti richiami al ritorno: alla povertà evangelica contro gli abati ed i ‘clerici’
gaudenti e ricchi, alla castità sacerdotale contro le pratiche di nicolaismo di preti
ammogliati e concubinari, ad una credibile dignità della propria rispettiva missione
specifica contro gli esponenti – e non erano pochi – di un clero simoniaco, vizioso e
corrotto.
Esigenze religiose che, proprio nel momento in cui vengono a definirsi tanto il
rapporto (ed il sistema) vassallatico-feudale al vertice alto quanto, alla base ‘sociale’, la
realtà-entità ‘terra’ come punto di riferimento economico-insediativo, si combinavano
(ed andavano anche a sollecitare) con quelle a caratterizzazione sia sociale, col
trascorrere degli anni maggiormente visibili (pur se, allo stato, non sempre individuabili
con esattezza), e sia, più complessivamente, politica, delle quali, per le nuove esigenze
poste dalla esplosione demografica480, si è costretti a prendere coscienza. Proprio mentre
è entrato nella fase della irreversibilità la crisi (solo a poco varranno dopo le ‘riforme’,
479
A titolo di esempio e, maggiormente, a riprova di una condizione largamente diffusa (l’ampiezza del
fenomeno, specialmente sul coinvolgimento dell’area ‘molisana’, sarebbe tutta da indagare), viene da
segnalare, per il periodo tra la seconda metà dell’XI e la prima del secolo successivo, sia il beato Giovanni
da Tufara (1084-1179[14/11]) ed, a lui contemporaneo, sia il beato Stefano Corumano da Riccia, entrambi
i quali operarono nell’ambito del medio Fortore.
480
ASV, Collect. t. 61 ... cit.
Tra i tanti utilissimi elementi, i richiamati manoscritti dell’Archivio Vaticano, oltre alle stime della
consistenza domografica (che, relativamente al primo decennio del XIV secolo, permettono di fissare in
circa quattromila il numero degli abitanti di Limosano), riferiscono che:
- “in territorio dicti castri non sunt ligna sifficientia per usu hominum dicte terre et homines ipsos
euntes per lignas ad silvas montisagani <et> cascapere” (f. 203);
- “homines de castro limosano … captos per eo quod ducebant animalia in silvis seù territorio
Triventi” (f. 206) <et> Petrelle, nonché di Ferrara;
- gli abitanti delle ‘terre’ convicine che volessero “aliquid emere aut vendere accedunt ad terram
ipsam et ibi inveniunt quod querunt” (f. 177);
- “propter multitudinem sapientium, in dicta terra limosano sunt multi boni litterati et nobiles bene
triginta logiste et doctoraliste et medici phisici et qui regit scolas in gramaticalibus” (f. 183);
- “audivit a mercatoribus de limosano …” (f. 201);
- “homines ducentes somarios oneratos frumento” (f. 180) ed anche “ordei” percorrono la strada
che “audivit dici a caldarariis et pluribus aliis quod a finibus terre limosani et a finibus territorii
civitatis florentini sunt vigenti miliaria” (f. 182).
La presenza dei ‘caldararii’ riesce bene a provare l’esistenza dei laboratori, le ‘fucine’, nei quali avveniva
la trasformazione del ferro in arnesi domestici ed in armi. Verrranno essi smantellati con le disposizioni
legate alla angioinizzazione (v. BOZZA F., Limosano nella … cit.).
perché solo parzialmente condivise, finalizzate ad arrestarne il declino, se bisognerà
attendere i grandi cambiamenti dovuti agli effetti della capacità ‘rivoluzionaria’ degli
ordini mendicanti) il modello di sviluppo rappresentato dal sistema produttivo
curtense481, che, con le sue influenze e le sue dipendenze diffuse sul territorio, era venuto
a svilupparsi intorno a quelle istituzioni monasteriali, le cui disponibilità finanziariopatrimoniali e schiavistico-umane (intese, queste ultime, come ‘forza-lavoro’), già da
qualche secolo, erano state fatte oggetto (non solo le grandi abbazie, ma più o meno tutte
quelle diffuse sul territorio) delle frequenti razzie, finalizzate agli scambi nei rapporti
commerciali, da parte dei “Sarracenorum”. Con la conseguenza, consolidatasi nel lungo
periodo, dello spostamento delle forme socio-aggregative condivise dal controllo
religioso-monastico verso le posizioni più difendibili, con la garanzia di sicurezza e,
d’altra parte e per quanto riguarda le esigenze socio-politiche, con una organizzazione
che, inizialmente era tutta da inventarsi e che, solo adesso (secoli XI-XIII), sta
prendendo la sua forma definitiva.
Bisogna, a questo punto, registrare che hanno partecipato allo spostamento verso
la nuova forma socio-insediativa rappresentata dalla ‘terra’482, creandosi, con la capacità
di garantire ‘protezione’, le proprie aree di interesse e di influenza, anche gli esponenti
apicali di quel diffuso fenomeno delle chiese private (Eigenkirche), che, prosperato a
margine delle organizzazioni cenobitiche ed eremitiche, l’analisi e le conclusioni del
481
Traccia della diffusione, in area limosanese, di tale sistema sarebbe individuabile nella ‘bolla’, senza
data, di papa Anastasio IV (il quale, però, fu Pontefice solamente tra il 1153 e l’anno successivo), con la
quale si confermavano all’Abbazia cassinese “…(ecclesiam sive monasterium) Sancte Illuminate in
castello Lemusano, …curtem Sancte Marie in Sala, Sancti Benedicti Piczoli ibidem,…” (KEHR P.F.,
Papsturkunden in Italien, Reiserberichte zur Italia Pontificia, Acta Romanorum Pontificum, Vol. 5, Città
del Vaticano 1977, IV, pag. 69, doc. XXII di Montecassino), ossia proprio “in Sala”, il cui corpo feudale
(che comprendeva anche l’evidenza religiosa titolata a S. Pietro, di cui resta traccia nel toponimo di
“Lame di S. Pietro”), esteso per circa millecinquecento tomoli dal Biferno sino all’agro di Sant’Angelo,
situava lungo il confine di Castelluccio di Limosano e di Fossalto.
Una organizzazione delle presenze sul territorio che, oltre alla precisa collocazione geografica del “locus
Sale iuxta Bifernum fluvium”, riesce pure a ben motivare il fatto che “otto giorni prima della battaglia
famosa di Civitate fu celebrato a Sala sul Biferno un solenne placito ad istanza di Liuffrido il quale
ricorreva contro un monaco Alberto che aveva usurpato S. Maria di Castagneto. A quel placito intervenne
pure Oderisio, il terzo figlio di Borrello (Chron. Vulturn., 513). Egli era colà con l’esercito papale e a lui
alludono le parole dell’Appulo Poeta «et Burrellina generata propagine proles» (Guillelmi Appuli, II,
166). Nelle schiere avverse combatteva invece Rodolfo di Molise, forte di braccio e valente di consiglio
allora già conte di Boiano (Guillelmi Appuli, II, 134-135 e 168-169), e che certo dovè uscire ancora più
ingrandito dalla vittoria normanna” (RIVERA C., Per la storia delle origini dei Borrelli conti di Sangro,
in ASPN XLIV (n.s. V [1919]), pag. 72 e seg.).
482
“Dal concetto di possesso emerge subito che terra era diventata una delle parole chiave per identificare,
in termini culturali e di valori condivisi, il modo di vivere e di aggregarsi della società di quegli anni. Una
parola che riconduceva da una parte all’agricoltura che era fondamento dell’economia e della vita
materiale del tempo, dall’altra al prestigio e al potere, cioè a valori di carattere simbolico e a norme di
carattere giuridico, amministrativo e politico. A un ecosistema, si direbbe oggi, in cui natura e cultura si
combinavano e interagivano sia in termini specifici di pratiche tecniche, agronomiche ed economiche, sia
in termini di convivenza sociale e di ordinamenti politici” (TRAMONTANA S., Terre e uomini, in Le
eredità normanno-sveve nell’età angioina, Persistenze e mutamenti nel Mezzogiorno, Atti delle
quindicesime giornate normanno-sveve, Bari, 22-25 ottobre 2002, Bari 2004, pag. 179).
Feine483 hanno dimostrato, nonostante ne sfugga la reale consistenza, essere state di larga
e capillare diffusione nel mondo rurale484.
Dall’alto e con l’imposizione del centralismo della ‘statualità’ dai normanni, “il
collegamento amministrativo che proprio a cominciare da Ruggero II si stabilì tra
monarchia e Comuni – un collegamento che durò e si completò con gli altri sovrani e
soprattutto con Guglielmo II ... – consente di comprendere perché proprio la migliore
alleata delle autonomie cittadine finì col relegare le stesse autonomie ad una posizione
marginale, dal punto di vista politico, in ragione del carattere protettivo che la monarchia
si assunse delle consuetudines locali (peraltro distinte ben presto tra accettabili e malae)
e non sollecitando nessuna forma di protagonismo di potere del tutto svincolato da
collegamenti col sovrano o con i feudatari. La «statualità» normanna si fondò sul
carattere empirico eterogeneo delle coordinazioni del potere: ma avendo sempre chiaro
lo scopo della tutela dei maggiori e superiori interessi della monarchia medesima. Che fu
quindi ad un tempo feudale e burocratica perché volle e seppe interpretare l’esercizio del
potere attraverso il rapporto di tipo personale e vassallatico, con forze signorili, laiche
ed ecclesiastiche, e attraverso la relazione diretta filtrata da apparati burocratici, non
certamente originali, ma chiaramente finalizzati, con le comunità cittadine. In ciò la
principale ragione del mancato o largamente incompleto, ..., «momento politico» dei
Comuni del meridione”485.
L’intreccio di tanti elementi che, in rapida e dinamica combinazione accelerata
dalla confusione dei vuoti di poteri (basi pensare sia all’esperienza del ‘normanno’
Tancredi contro Enrico VI e sia all’inserimento, con ripercussioni nell’ambito locale più
strettamente molisano, di esponenti tedeschi, nobili ed avventurieri “per la conquista”,
che, con Corrado di Lutzelinhart [detto Moscaincervello] e Marcovaldo di Anweiler486,
483
FEINE H.E., Studien zum langobardisch-italischen Eigenkirchenrecht, II Teil.: Das
Eigenkirchenwesen in Unteritalien, …, in Zieitschift der Savigny Stiftung f. Rechtsgeschichte, Kann, Abt.,
XXXI (1942), pp. 1-105.
484
Più che qualche accenno (che, però, ne lascia già trasparire la reale consistenza), relativamente all’area
limosanese, è possibile riscontrare in: BOZZA F., Limosano: Questioni … cit.
Va segnalato che i documenti del Registrum Petri Diaconi ordinati cronologicamente (v. HOFFMANN
H., Chronik und urkunde in Montecassino, in QFIAB LI [1971]) fanno registrare, per il primo trentennio
del secolo XI, una fortissima attività di ‘oblationes’ di evidenze diffuse sul territorio molisano alla
Abbazia cassinese, il cui movimentismo, riconducibile a probabili finalità politiche di ordine protettivo,
sarebbe tutto da indagare.
485
CAPITANI O., Storia dell’Italia medievale, Bari 1999 (V ediz.), pag. 383.
486
Di rilievo la figura di Marcovaldo di Anweiler, il quale, già funzionario di corte con Federico I
Barbarossa, alla morte di quest’ultimo, fu uno dei principali e più fedeli collaboratori di Enrico VI in
Italia. Quando, nel 1195, l’imperatore Enrico riuscì a prendere il possesso del Regnum Siciliae,
Marcovaldo venne nominato titolare della Marca anconetana, di Ravenna e della Romagna. Due anni più
tardi, nel 1197, dopo la morte di Moscaincervello, ottenne anche il Comitatus Molisij.
La prematura morte dell’imperatore Svevo lo costrinse ad affrontare in prima persona l’ostilità del papato
per recuperare i feudi concessigli.
Il conflitto con la Chiesa divenne irreversibile quando la normanna Costanza, vedova di Enrico VI, muore
lasciando la tutela del figlioletto Federico a papa Innocenzo III, costringendo lui, capo della fazione
filoimperiale che non condivideva la decisione della regina, a scendere sino in Sicilia. Pur sconfitto (1200)
da Gualtiero di Brienne, sostenitore del papa, nel 1201 riesce ad impadronirsi di Palermo.
Morì, però, subito dopo (1202).
terranno, contro ed in danno della classe di baroni locali, perfino il Comitatus Molisij
dopo i di Mandra e prima dei da Celano) durante le fasi di passaggio (accompagnato
dalla volatilità di una classe feudo-baronale, laica ed ecclesiastica, che è disunita, poco
consistente ed incapace di scegliere) alla “unio regni ad imperium” prima e, dopo, alla
seguente lunga minorità (sotto la tutela di papa Innocenzo III) del “puer Apuliae”
Federico II, fanno emergere una situazione politica che vede, man mano e con forza
sempre maggiore, contrapporsi alle forze conservatrici ed ancora legate alle espressioni
della tradizione religiosa quelle progressiste e che, per la contrapposizione, vanno ad
alimentarsi di ogni tipo di contestazione.
Ed in una realtà socio-insediativa, quella di Limosano, che rappresenta il punto di
riferimento dell’intero ambito territoriale del medio Biferno e che “a maiore parte
hominum”487 continua ad essere ritenuta e percepita come una “bona terra et melior totae
provinciae <beneventanae> excepto boyano”488, quali le forze in campo? Come si svolse
lo scontro? E quali furono le forze che andavano a prevalere?
Va subito rilevato che, già dal tentativo di Tancredi di conservare la tradizione e
l’eredità normanna, l’area del medio Biferno (come porzione del Comitatus Molisij) era
rientrata nella zona ad influenze di parte imperiale con il diretto controllo di esponenti
fedeli agli Staufen, di origine tedesca e che, incaricati direttamente dall’imperatore, non
trasmetteranno più in maniera ereditaria neppure la titolarità del Comitatus. E questo
contemporaneamente alla crisi dell’autorità e del potere normanno anche nel Comitatus
Loritelli (il quale, proprio ora e per mancanza di una sua tradizione di lungo periodo,
scompare definitivamente, mentre il Comitatus Molisij, che era stato innestato sulla
tradizione, di lunga durata, delle strutture politico-religiose ‘bovianensi”, continuerà a
sopravvivere pur se costretto a percorrere strade nuove, ma assai secondarie).
Circa l’aspetto sociale, la concreta possibilità (cosa che sta per provocare la crisi
del monachesimo benedettino e, come si vedrà, l’emergere di quello ‘mendicante’) di
svincolarsi dalla sudditanza passiva delle strutture clerico-monastico-religiose (che
hanno controllato e gestito le risorse del territorio), ripudiandola, per diventare soggetti
attivi all’interno delle mura urbane (il cui ambito è di volta in volta identificato come la
“Universitas civium” o la “Terra”) altro non può essere che la logica conseguenza; e
quel fatto nuovo, che, di lì a soli pochi anni, andrà a sfociare nella predominanza della
parte più radicale e contestatrice, la ghibellina (che, nell’immaginario colpevolizzante
degli avversari legati alla tradizione religiosa, andava a confondersi con la presenza
eretica), su quella guelfa e più ‘ortodossa’.
Il fatto che l’idea ghibellina (con quanto, come l’eresia, ad essa riconducibile) con
gli esponenti ‘Svevi’ divenne, in area molisana, fenomeno socio-politico predominante
ed assai generalizzato è possibile riscontrarlo nella persistenza (che ne dimostra anche il
forte radicamento nella società), di lunga durata, sino alla avanzata angioinizzazione.
Una prima prova di tale persistenza, come anche del radicamento sociale, la si può
individuare nel contenuto del documento, col quale papa Onorio IV “da Perugia, il 4
aprile 1285” chiede all’arcivescovo di Benevento, di recente elezione (dopo la morte di
487
488
ASV, Collect. t. 61 ... cit., f. 154.
ASV, Collect. t. 61 ... cit., f. 171
quel Romano Capoferro489, sicuramente del partito filo-svevo, che, nel 1276, aveva
nominato – forse come contropartita per l’assoluzione, al Concilio di Lione del 1274,
dalla scomunica – Pietro de’ Marone ad abate di Faifoli), Giovanni di Castrocoelo (che
verrà, poi, creato cardinale da Celestino V), “di citare il vescovo di Larino che aveva
esortati quei cittadini «ad rebelliones spiritum contra Caroli Sicilie regis heredes»”490.
Non è, di certo, determinabile la qualità e neppure l’intensità dello “spiritus ad
rebelliones”; pur tuttavia, il tentativo di coinvolgere (da parte di un episcopus, esponente
della gerarchia religiosa) l’intera cittadinanza sembra assai significativo.
Solo se si premette che l’accusa di eresia costituiva un elemento indispensabile di
caratterizzazione dell’avversario politico e di identificazione del ghibellino, si riesce a
cogliere – e la circostanza rappresenta la seconda conferma di quella persistenza e del
relativo radicamento sul territorio – il significato più vero e reale della contestazione
sociale e politica rappresentata dalla diffusa presenza di eretici. Vale a dire, cioè, che dal
‘conservatore’ della tradizione l’avversario politico viene visto come chi ne mina dalle
fondamenta anche l’ortodossia religiosa. Così che il ghibellino è automaticamente
percepito anche come eretico; e viceversa491.
Dopo che “fin dall’anno 1269 Carlo I aveva scritto ai baroni ed agli uomini del
contado di Molise e del giustizierato di Abruzzo, ingiungendo di dar favore a Bernardo
da Raiano che aveva incarico di prendere gli uomini di Rocca Maginolfi, per pubblica
fama infetti di eresia, e di condurli incatenati a Capua”492, la capitale del giustizierato
“Terrae Laboris” dal quale dipende il Comitatus Molisij (e, con esso, anche l’intera area
del medio Biferno); e dopo che il re “Carlo II a 30 aprile 15.° indizione (1302) scriveva
a tutti gli ufficiali del regno, perché prestassero aiuto agli inquisitori, frati Rinaldo, di
Monopoli, Luca, di Gragnano, e Tommaso di Aversa, dell’ordine dei predicatori,
489
Romano Capoferro fu figura assai controversa. Resse l’arcivescovato di Benevento dal 1254 e non
sempre con posizione chiara e coerente con la politica delle gerarchie ecclesiastiche; e, dopo essere stato
colpito da scomunica per aver partecipato alla messa solenne che seguì l’incoronazione di Manfredi, riuscì
ad ottenere l’assoluzione da papa Alessandro IV. Risultava ancora indagato il 22 gennaio 1268 [«de
Beneventano electo reperies, nobis mittas, cum apud nos instetur assidue pro expeditione ipsius»] dal papa
francese Clemente IV. Ottenuta (ma a quale prezzo?) la definitiva assoluzione da Gregorio X nel corso del
concilio di Lione (1274) [«Tu crudelitatem eius (Manfredi) metuens, illuc (ad civitatem Panormitanam)
accessisti; non tamen fuisti presens in capella regia Panormitana dum idem Manfredus se presumpsit
ibidem facere coronari; quamquam indutus capa serica interfuisses missarum solempnis in Panormitana
ecclesia in presentia dicti Manfredi»], morì nel 1280. Sulla cattedra metropolitana di Benevento, dopo due
anni di contrasti e di discordie tra gli esponenti del Capitolo, al quale spettava la nomina dell’arcivescovo,
gli successe il discusso personaggio Giovanni de Castrocoelo, che, come mostra la non chiara vicenda
della nomina a cardinale, fu sicuramente favorevole agli angioini.
490
ZAZO A., L’arcivescovo Giovanni de Castrocoelo difensore in Benevento nel XIII secolo della libertà
cittadina, in Samnium 1958, pag. 205.
491
La stessa possibilità di indire ed organizzare le crociate contro le eresie presuppone, per tanti versi, una
tale identificazione.
492
BEVERE R., Notizie storiche tratte dai documenti conosciuti col nome di Arche in carta bambagina, in
ASPN XXV (1900), pag. 258, nota 2. Il Bevere, tra parentesi, suggerisce di ‘vedere’: DEL GIUDICE,
Cod. dip. Ang., T. II, p. 342-343.
Premesso che Rocca Maginolfi corrisponde all’attuale Roccamandolfi, la data dell’interessamento, il 1269
(quando gli angioini hanno appena sconfitto gli svevi e, con l’organizzazione del regno, stanno
consumando le loro vendette politiche), lascia chiaramente intendere che quella di re Carlo, più che da
motivazione religiosa, nasceva da interesse politico.
nell’esercizio del loro ufficio. (Reg. Ang. 119 f. 195 b)”493; è il documento, che si
trascrive, a documentare bastantemente la consistenza del fenomeno eretico, del quale,
mentre altrove interesseranno i suggerimenti riguardanti l’aspetto religioso, qui occorre
cogliere le indicazioni concernenti quell’aspetto politico, che faceva, allora, del
ghibellino automaticamente un eretico.
“[1305] Nobili viro Berterando artus militi Regio Iustitiario Terrelaboris et
Comitatus Molisii. Frater Thomas de Aversa ordinis Predicatorum, Inquisitor heretice
pravitatis in Regno Sicilie auctoritate Sancte Romane Ecclesie Deputatus salutem quam
sibi. Quia ex concursu familie diversorum dominorum in Castris parvis ubi captivi
morantur potest de eorum fuga periculum generari. Et nos in Rocca Maginolfi
habeamus sexaginta hereticos captivos, et intellexerimus quod ad dictam Roccam venire
intendatis volentes precavere periculo quod ex concursu vetre familie et nostre posset in
dictis hereticis suboriri. Nobilitatem vestram rogamus nichilominus sub pena
excommunicationis et privationis terre vestre precipientes quatenus quamdiu nos in
dicta Rocca moramur cum nostris captivis ad eam nullatenus veniatis. Recedentibus
autem nobis quod deo dante cito erit, ad eam venire poteritis iuxta vestre arbitrium
voluntatis. Ceterum Berdelloctus Comestabilis vester, tantam in facie nostra fecit
iniuriam sine causa quantam passi non fuimus post quam incepimus Inquisitionis
officium exercere, quem posuimus sub catena et ad Regiam iustitiam curabimus
destinare. Sciatisque domine Iustitiarie quod vestra familia nimis assuescit nobis
iniurias erogare, et ecce iam tertio predictam ab ea sustinuimus patienter. Protestamus
autem in filio dei quod nisi per vos huiusmodi corrigantur et cito quod nos pretermissis
omnibus convocabimus populum Regionis, et talem proferemus sententiam quod
omnibus audientibus erit in severitatis exemplar. Idcirco iterate rogamus quod vestram
familiam dirigatis, et vos et ipsa et si non favorem saltem impedimentum in officio fidei
nullatenus impendatis.
Data apud Roccam Maginolfi xii° die Iulii iij^ indictionis”494.
Chi sono tutti quei prigionieri detenuti dalla nuova classe diversorum dominorum
capillarmente imposta, in sostituzione di quella favorevole agli Staufen, persino negli
insediamenti più piccoli? Sono essi solo l’espressione della contestazione religiosa? O
non anche, come più verosimilmente sembra, la vera resistenza dell’opposizione politica
legata al ghibellinismo? Ed, ancora, quali qualità e quantità di questo fenomeno di
resistenza, assai complesso (in che misura vi ha partecipato la componente ‘religiosa’?),
del quale occorrerà mezzo secolo di angioinizzazione per ottenerne la cancellazione? E,
soprattutto, che cosa, delle espressioni del potere svevo sul territorio, venne cancellato?
Relativamente all’area del medio Biferno con l’insediamento della ‘civitas’ di
Limosano (con le sue istituzioni) che ne costituiva, come già è stato visto, ancora il
punto di maggior riferimento urbano (Campobasso è ancora un semplice ‘castrum’), le
fonti riferiscono trovarsi essa, per il periodo svevo, al centro di percorsi viari che,
disposti a raggiera, la tengono collegata con Benevento, con Lucera e la Capitanata, con
Bojano, con la fascia adriatica e con l’Abruzzo lancianese495.
493
BEVERE R., Notizie … cit., pag. 258, nota 1.
BEVERE R., Notizie … cit., pag. 258 e seg. Il Bevere, tra parentesi, aggiunge: vol. VI, pag. 40.
495
BOZZA F., Limosano: Questioni … cit., specialmente il Capitolo 1°.
494
Oltre a quella riconducibile agli spostamenti dei pellegrini, ancora meno influente
perché legata alla conservazione delle tradizioni religiose, è proprio la frenetica mobilità
dei ‘mercatores’ a favorire la diffusione dei modi nuovi di essere e di pensare; e, con la
partecipazione alla vita urbana, di quella socialità nuova, che affondava le radici ad
epoca lontana, se è vero che “fin dal 1119, l’arcivescovo di Benevento, Landolfo, nel
Sinodo provinciale da lui celebrato il 10 marzo, sottoponeva a scomunica «disturbantes
mercatores ad Civitatem venientes et redeuntes»”496 e che con le limitazioni ed i freni
posti, ed imposti, dagli Staufen alla classe feudo-baronale viene a caratterizzare sempre
di più la società.
E, come ha già dimostrato la vicenda stessa dello scisma anacletiano, dalla città di
Benevento497 (contesa, a suon di privilegi richiesti dagli esponenti di ognuna delle parti
Dai citati manoscritti (v.: ASV, Collect. t. 61 ... cit.) è possibile ricavare elementi assai utili (e che si prova
a rielaborare) per la ricostruzione dei percorsi viari verso Benevento e verso Fiorentino e la Capitanata.
Stando a quanto veniva riferito “a mercatoribus de limosano” che impiegano “duas dies ad eundem” ed
altri due quando “a benevento reditur limosanum”, tra le “plures alie vie” (più o meno dettagliatamente
indicate), che, estese circa “quadraginta miliaria”, conducono a Benevento, quella probabilmente più
frequentata doveva essere la strada che “a terra limosani usque Ripam sunt quatuor miliaria et a Ripa
usque castrum campibassi sunt miliaria tria et a castro campibassi usque feraczanum sunt miliaria duo et a
feczano usque mirabellum sunt miliaria duo et a mirabello usque ad abbatiam sancte marie montis virdis
sunt miliaria duo et ab ipsa abbatia usque monticellum sunt miliaria duo et a ponticello usque castrum
cerzi piczuli sunt miliaria tria et a castello cerzi (“per viam hospital de guarana”) usque Rigum de gualdo
sunt miliaria duo et a Rigo de gualdo usque Supinum sunt miliaria tria et a Supino usque villam Canapini
sunt miliaria duo et a villa Cannapi usque morconum sunt miliaria quatuor et a Murcono usque
montoronum sunt miliaria decem et a montarono usque Crapariam sunt miliaria tria et a Craparia usque
Beneventum sunt miliaria quatuor”.
Relativamente, invece, all’altra strada che, di circa “vigenti miliaria” e che “ab ortu solis usque ad post
nonas” si percorreva in meno di “uno die” di viaggio, a Limosano veniva da Fiorentino e la Capitanata
“itur per viam montis de sculcula, viam montis calvi, viam Tonniculi viam casalis sancti modesti viam
Turris de appis, viam Ripe de butono et viam putrelle”; anche se, nella direzione contraria, “plures vie fieri
possunt sed meliora via est qua itur per collum rotundum diocesis boyanensem et accedit santa maria de
strata diocesis beneventane tabernas figarole Tonniculi diocesis dragonariensis ut accedit sculcula et
postea florentinum”.
496
ZAZO A., Professioni, Arti e Mestieri in Benevento nei secoli XII-XIV, in Samnium 1959, pag. 122, in
nota 8; ROTILI M., Benevento, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo: Atti delle
decime giornate normanno-sveve, Bari 21-24 ottobre 1991, Bari 1993, pag. 298.
497
“Il riesame della lunga e complessa vicenda politica della città, confermata ai pontefici romani con il
trattato di Ceprano del 1080, evidenzia la preoccupazione di questi (sebbene inclini a non favorire
l’autonomo svilippo della città) ma soprattutto della comunità beneventana di ottenere o vedere
confermate le libertà di transito e di commercio nel territorio del regno, o almeno nelle zone di più assidua
frequentazione e interesse. Dopo il consolidamento della potenza dei Normanni, ricorrenti furono le
difficoltà per il ceto di produttori e mercanti, tutte le volte in cui il papato scelse la linea contraria ai nuovi
dominatori del Mezzogiorno; e questo spiega anche la formazione, all’interno della città, del partito
filonormanno, inteso a tutelare fondamentali interessi economici in contrapposizione con il partito
filopapale” (ROTILI M., Benevento … cit., pag. 295).
Il Rotili, in nota 12, scrive: “Sulle vicende e la dinamica politica del periodo normanno-svevo cfr. Mario
ROTILI, Benevento e la provincia sannitica, Roma 1958, pp. 43-60; W. HAGEMANN, Benevento nel
periodo svevo, in W. HAGEMANN – A. ZAZO, La battaglia di Benevento, a c. di Mario Rotili,
Benevento 1967, pp. 7-58”.
Relativamente alla storia dei contrastati rapporti tra normanni e papato, si veda il citato studio del Rotili, il
quale suggerisce anche di “Cfr. O. VEHSE, Benevent als Territorium Kirchenstaates bis zum Beginn des
contrapposte, tra gli esponenti Svevi ed il papato498), dove i ‘mercartores’ limosanesi
potevano beneficiare della libertà di transito e delle ampie agevolazioni commerciali499,
Limosano trae non pochi spunti per le proprie esperienze economiche e, con queste,
socio-politiche. Anche quando “l’insorgere del conflitto tra Federico II ed il papa
Gregorio IX, creando condizioni di isolamento militare della città [di Benevento],
avrebbe provocato contraccolpi all’esplicazione della libera attività commerciale”500,
che, per quanto concerne l’ambito limosanese, se non accresciuta, resta intatta, viva ed
attiva, a motivo delle influenze esercitate dai contatti commerciali che continuavano sia
con l’area, federiciana e ghibellina, della Capitanata che con l’intero Abruzzo costiero e
specialmente con l’area lancianese.
“L’évolution, du règne de Roger II à celui de Frédéric II, est assez complexe, mais
pas considérable. Certes, pendant la période anarchique du début du XIIIe siècle, le
pouvoir central ne peut plus controler les fiefs ni leur tenanciers, et est hors d’état
d’exiger des prestations militaires régulières; du moins l’organigramme de
l’administration d’Etat n’a-t-il disparu. A’ son retour, en 1220, Frédéric II remet
l’aristocratie au pas, récupère terres et hommes distraits du domaine royal; il réduit
finalement à quatre le nombre des comtes (Manoppello, Chieti, Acerra et Caserte, les
trois derniers étant ses propres gendres), sans toutefois supprimer les autres
circonscriptions comtales, qu’il fait administrer par la curia; mais, comme Guillaume Ier
il se méfie de la haute aristocratie”501.
Con il ridimensionamento della presenza sul territorio dell’aristocrazia nobiliare, si
viene a creare una situazione complessivamente favorevole, oltre che all’emergere di
una classe ‘borghese’ medio-piccola, incline a riversare i profitti derivanti dalle proprie
attività di ‘mercatores’ essenzialmente nell’investimento fondiario (e senza dimenticare
né le ‘poteche’ e neppure quei laboratori di produzioni artigianali, le ‘fucine’, legati alla
trasformazione del ferro) e caratterizzata da grande dinamismo, a liberare consensi ed
adesioni alla parte ghibellina e filo-imperiale sicuramente meno rigida, più liberale e che
– non poteva essere altrimenti – accelera in maniera forte i profondi processi di
avignonesischen Epoche, Roma 1932”, che, prima di comparire in volume unico, era stato pubblicato in
QFIAB, XXII (1930-31), pp. 87-160 e XXIII (1931-32), pp. 80-119.
498
“Il rinnovo del privilegio da parte di Enrico VI e Costanza il 3 giugno 1191, su sollecitazione dell’abate
di Santa Sofia Guglielmo, mentre denota l’allineamento della città sulle posizioni filosveve condivise
nello stesso tempo dal pontefice, segna il mantenimento dell’essenziale condizione di libertà di transito e
commercio” (ROTILI M., Benevento … cit., pag. 297; il documento è pubblicato dal citato Hagemann,
pag. 22). Ma già qualche anno più tardi “le vicende seguite al declino delle fortune politiche di Tancredi
non avrebbero sostanzialmente compromesso la particolare posizione giuridica della città, rimasta
saldamente nelle mani del papa, e le sue possibilità di commercio; ed infatti il 13 luglio 1195 Celestino III
confermava tutte le libertà e immunità, incluse le concessioni elargite dai re di Sicilia” (ROTILI M.,
Benevento … cit., pag. 297; per quanto riguarda il privilegio celestiniano [del quale ne viene pubblicato il
testo], si veda: KEHR P.F., Una bolla inedita di Papa Celestino III per la città di Benevento, in Samnium
XIII [1940], pag. 1-4).
499
Ancora “nel maggio del 1636, la città di Limosani, appellandosi a precedenti concessioni, reclamava
piena libertà di transito per Benevento ed esenzione da qualsiasi dazio per merce importata nella città
pontificia” (v.: SAMNIUM 1975, pag. 102 e seg.; e BOZZA F., Limosano nella ... cit., pag. 177.), dove i
limosanesi godevano dello status giuridico di ‘cittadini’.
500
ROTILI M., Benevento … cit., pag. 297 e seg.
501
MARTIN J.-M., L’ancienne et la nouvelle aristocrazie féodale, in Le eredità … cit., pag. 106.
trasformazione sociale che, rompendo con la tradizione, stanno cancellando i modelli, di
ogni tipo, alto medievali.
Non si affermeranno, perché avranno solo poco tempo per essere assimilati e per
diventare fenomeno culturale definitivo. Pur tuttavia, per quanto riguarda la ‘civitas’ di
Limosano ed il territorio del medio Biferno, le produzioni legate alla trasformazione del
ferro forniranno all’imperatore Federico le armi per le sue imprese contro i privilegi del
guelfismo papista e, di più, delle aristocrazie nobiliari ed improduttive; i fermenti della
contestazione lieviteranno, alimentati da residualità della tradizione greco-bizantina, nei
movimenti eremitico-eretici e pauperistici sino alle posizioni radicali dei ‘fraticelli’ ed
esprimeranno, con il loro essere condizionanti, il personaggio di Pietro de’ Marone; la
laicizzazione della società, che pure, con metodo antico, non si fa scrupolo di cancellare
il pre-esistente, favorirà primavere di esperienze, rimaste assai brevi, con la ‘terra’
controllata meno dal palazzo e dal castello e, di più, dalla “Universitas civium”.
4.2 – Gli ordini mendicanti
Fu la presa di coscienza di se stesso e dei propri mezzi da parte di quella
componente ‘laica’ e non ‘clerica’ che aveva favorito l’emergere della “terra” ed il suo
trasformarsi sino a diventare “Universitas civium”, che, certamente, fu fatto di non
breve periodo, a far entrare in crisi, nonostante le ‘riforme’ che si dimostreranno essere
piuttosto e solo dei ‘tentativi di riforma’, il modello di sviluppo monastico e curtense.
Ad essa si accompagnava una credibilità assai scarsa da parte delle istituzioni religiose,
regolari o secolari che fossero, le quali, con la latinizzazione, sono venute a confermare
sul territorio, rispetto alla grecità, modelli di vita deludenti delle aspettative e lontani dal
comune sentire. In ogni caso, esse, le istituzioni religiose tutte, vengono a cessare di
rappresentare il punto di riferimento dell’assistenza religiosa e, ridotte a non aver più
nessuna credibilità, possono essere messe in discussione e contestate. Tanto che, pur in
mancanza di preparazione teologica, il laico non appartenente al clero (al quale è più
facile essere povero rispetto ai clerici), percepito sempre più come portatore di valori
genuinamente e squisitamente evangelici, si auto-appropria della facoltà di indicare i
termini della salvezza e, nella impossibilità di amministrare i sacramenti, di poterla
‘predicare’ agli altri.
“Nel sec. XII il fatto «ereticale» diviene un elemento di notevole importanza per la
società, mentre nel sec. XI era stato in opgni caso un connotato minoritario: ciò è tanto
più vero, in quanto, massimamente per l’Italia, il sec. XII è il secolo che vede allargarsi
notevolmente la partecipazione sociale della popolazione, in maniera affatto diversa da
quanto era avvenuto almeno fino alla metà del secolo precedente: frutto della riforma
ecclesiastica e del richiamo ad una maggiore penetrazione dell’identità del vivere
cristiano (...); frutto della nascita dei Comuni. Certamente: ma anche e soprattutto
parallela e simultanea richiesta di riappropriazione di un bene, quello della certezza
religiosa, che era l’unico che questa società – in cui non contavano più soltanto
feudatari, signori, vescovi ed abati, ma anche rudes o idiotae inurbati, piccoli mercanti,
emergenti categorie professionali (giudici e notai), milites consapevoli della loro
funzione, monetieri, artigiani – che era l’unico che questa società, si diceva, avvertiva
come realmente comune a tutti. Questo risveglio religioso in sé non ha nulla di
eterodosso, chiede solo di «rationabiliter vivere» (cioè di vivere secondo un coerente e
semplice modello cristiano) proprio perché avverte profondamente il nesso tra religione
e vita quotidiana: e quando questo nesso non appare evidente, può anche, quel risveglio,
dar luogo a contestazioni o a rifiuti. Rifiuti, in specie, dell’identità tra verifica religiosa e
struttura ecclesiastica inserita nella storia”502.
Nella contestazione della immobile staticità dei privilegi delle caste, simoniache,
nicolaitiche e, soprattutto, ricche, della chiesa ufficiale (dalla quale, tuttavia, si pretende
una ‘approbatio’ per sfuggire, specialmente dopo le crociate, alle accuse di eresia), la
predicazione e la laicalità sono, almeno nelle fasi iniziali e, cioè, fino a quando esse
stesse non si doteranno di gerarchia ed a questa si conformeranno, gli aspetti di
maggiore caratterizzazione delle “religiones novae”503, che si presentano mendicanti e
povere a quelle società in evoluzione e che sono in attesa del cambiamento o che il
cambiamento stanno realizzando. Aspetti di connotazione assolutamente innovativi che
già hanno portato, come primo e più appariscente effetto, alla crisi del movimento
benedettino e, più in generale, del monachesimo cenobitico di tradizione occidentale504
(mentre, per tanti versi, quello di matrice orientale continuerà a sopravvivere); crisi il cui
terminus a quo può essere collocato (e collegato) al momento iniziale dello scisma del
1054 e che, assai curiosamente, diventerà acuta proprio con la affermazione della
latinizzazione. Vale a dire che, nonostante i vari tentativi di riforme (che già di per sé
dimostrano lo stato di crisi), “si l’on considère l’ensemble des faits que révèle l’histoire
monastique du XIe siècle, une constatation s’impose: la forme que le monachisme a
revetue dans la tradition bénédictine, bien que prospère, austère et bienfaisante, ne suffit
plus à satisfaire les aspirations ascétiques de beaucoup d’ames généreuses. Aussi voit-on
surgir d’autres formes de monachisme: elles ne sont point encore, ou à peine, des
institutions; elles sont, par conséquent, d’une extrème variété. Mais elles présentent ce
caractère commun qu’en toutes reprend le dessus cet élément érémitique dont une
grande partie des fondations monastiques occidentales avaient été marquées dès leurs
débuts. Ces réalisations s’accompagnent parfois – et ce cas deviendra de plus en plus
fréquent – de critiques adressées au monachisme traditionnel: comme presque toujours,
l’élan vital provoque une certaine aggressivité. Ces attaques viennent de partout: des
laics, des clercs et, ce qui est plus révélateur, des moines eux-memes”505.
Con ogni probabilità, contemporaneamente a quella del monachesimo maschile,
sia cenobitico che eremitico, ha inizio anche la crisi di quelle forme del “movimento
religioso femminile”506 e, più in generale, dell’ascetismo delle moniales (o, anche, delle
sorores), che, allo stato, risultano ancora troppo sottovalutate in quanto scarsamente
502
CAPITANI O., Storia ... cit., pag. 455 e seg.
PELLEGRINI L., “Che sono queste novità”, Le ‘religiones novae’ in Italia meridionale (secoli XIII e
XIV), II ediz., Napoli 2005.
504
LECLERCQ J. Osb, La crise du monachisme aux Xie et XIIe siècles, in Bullettino dell’Istituto Storico
Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano, LXX (1958). “Au cours des quelques cent années qui
s’écoulent depuis le milieu du Xie siècle jusque vers le milieu du XIIe, la crise trovera des interprètes qui
la formuleront avec une lucidité, et meme une apreté, croissantes » (pag. 21).
505
LECLERCQ J. Osb, La crise ... cit., pag. 21 e seg.
503
indagate ed assai poco conosciute (relativamente al territorio molisano esse risultano
completamente dimenticate dalla storiografia) e che, come ben lascerebbe ipotizzare la
presenza nelle fonti documentarie delle varie badesse, ebbero quella diffusione concreta
e discreta (lo stesso monastero di S. Sofia di Benevento, dall’inizio e sino agli ultimi
decenni del X secolo, fu istituzione monastica femminile; ed, in tal caso, chi, e come, ne
poteva amministrare l’enorme patrimonio e tutte le ‘strutture’ monastiche dipendenti?),
della quale, seppur non determinabile con sufficiente approssimazione, rimane possibile
indicarne modalità e tipologia. “Ve ne erano di tre tipi. Alcuni non erano né associati ad
un monastero maschile, né posti nelle sue vicinanze. Altri facevano parte di un
«monastero doppio», costituito da una comunità di uomini e da una comunità di donne,
entrambi sotto l’autorità di uno stesso abate o di una stessa abbadessa. Infine, vi erano
quelli che si potrebbero chiamare «monasteri-gemelli», o «gemellati»: ed era il caso di
quelle comunità di monaci e di monache che si trovavano in prossimità l’una dall’altra
senza tuttavia che l’una dipendesse dall’altra. Ma molti di essi, in tutte e tre le categorie,
erano monasteri familiari, ossia fondati da una famiglia, alla quale appartenevano, che vi
designava l’abbadessa, vi inviava le proprie figlie a ricevere una educazione fino all’età
del matrimonio, e vi collocava per sempre quelle fra esse che, per diverse ragioni, non
era possibile maritare, come pure le vedove. La famiglia «dotava» sia il monastero nel
suo insieme sia ciascuna monaca in particolare.
Questa tipologia generale comportava a sua volta tre specie di «nonnae»: le
monache propriamente dette, viventi, come i monaci, sotto il rigore di una regola
approvata; le canonichesse che, come i canonici, conducevano una vita comune meno
stretta e conservavano i loro beni patrimoniali; infine le recluse, che vivevano sole in
una cella o eremitaggio accanto a una cappella o a un monastero, oppure nelle loro
vicinanze.
Tale fu, con qualche variante secondo i periodi e i paesi, la situazione generale
fino all’XI secolo”507 di quei “monasteri femminili <che> erano esistiti in Occidente fin
dalla antichità”508.
Una situazione generale, alla quale, ‘cancellata’ e tutta da approfondire per quanto
riguarda la realtà molisana, portano alcuni elementi (come potrebbe essere la vicinanza,
che – sembra il caso delle tre ‘strutture’ della “maccla bona” in agro di Limosano509 –
molte volte rimaneva inspiegabile) che possono individuarsi anche per l’area dell’ambito
territoriale del medio Biferno510.
Nonostante (almeno nelle forme più facilmente riconoscibili dai nostri parametri
506
GRUNDMANN H., Movimenti religiosi nel Medioevo, Bologna 1980 (2^ ediz. Italiana sulla 2^
tedesca, Darmstadt 1961). Per eventuali approfondimenti (riguardanti, però, le situazioni a partire dal XIII
secolo) e per suggerimenti metodologici finalizzati ad “un censimento da fare”, risulta assai utile:
BENVENUTI A., La fortuna del movimento damianita in Italia (sec. XIII): propositi per un censimento
da fare, in Chiara d’Assisi, Spoleto 1993, pp. 59-106.
507
LECLERCQ J., Il monachesimo femminile nei secoli XII e XIII, in Movimento religioso femminile e
Francescanesimo nel secolo XIII, Assisi 1980, pag. 65 e seg. Il Leclerq, in nota, precisa che “la parola
latina nonna è semplicemente la forma femminile di nonnus, applicata ai monaci nella Regola di san
Benedetto e in altri documenti antichi e medievali. Significa ‘monaca’” ed è sinonimo di monialis; di certo
non ha il significato di ‘nutrice’.
508
LECLERCQ J., Il monachesimo femminile … cit., pag. 64.
509
BOZZA F., Limosano: Questioni … cit.
culturali) “fino a tutto il XII secolo non sono noti Ordini religiosi femminili: ciò
significa che la vita regolare delle donne era organizzata in stretta dipendenza o da
singoli monasteri o da congregazioni maschili (è il caso dei Cluniacensi come pure dei
monasteri che dipesero da cenobi riformati a partire dall’XI secolo), oppure era sotto la
responsabilità del vescovo, cosa che significava l’adozione di una normativa approvata
in sede locale”, nonostante ciò ed a motivo della crisi in atto delle organizzazioni
monastiche (cui, specialmente per la considerazione della donna nella società, viene data
una migliore risposta di attenzione dai movimenti ereticali511), già “nel corso del XII
secolo c’erano stati dei tentativi di rispondere in modo nuovo alla necessità di conferire
un inquadramento alla vita religiosa femminile”512.
Quei tentativi di cambiamento, che interessano i diversi monachesimi (maschili e
femminili) stanno per sfociare tutti nella rivoluzione, profonda e di grande significato,
degli “ordines mendicantium” (ed anche “ordines mendicantes”), termine col quale “i
papi e i padri dei concili duecenteschi si servirono per descrivere la differenza fra gli
ordines novi, sorti in quel secolo, e gli ordines antiqui”513; rivoluzione preceduta, nel
tempo, dalle teorizzazioni profetiche a carattere escatologico di Gioacchino da Fiore
(1130?-1202)514 e dalla sua riforma eremitico-monastica cui, nata in area di tradizione
510
Sembra, al riguardo, il caso di segnalare che è del giugno 1014 (v. Registrum Petri Diaconi, doc. n.
325) la “Oblatio Saphiri presbiteri et Saxe monache de Sancto Benedico de Murrone Atenulfo abbati”.
511
GONNET G., La donna presso i movimenti pauperistico-evangelici, in Movimento … cit. Già “il Koch
osservava con ragione che, mentre” nei movimenti pauperistico-evangelici ed ereticali, per molti dei quali
poteva predicare e addirittura amministrare i sacramenti, “la donna godeva di una posizione di parità con
l’uomo simile a quella che aveva nel cristianesimo primitivo, tanto la Chiesa Greco-ortodossa quanto la
romana ne valorizzarono la funzione, per cui fatalmente si assisté ad una singolare forza di attrazione
esercitata da quei movimenti eterodossi che, ispirandosi alla prassi delle primitive comunità cristiane,
ridavano alla donna un ruolo attivo nel culto” (v. pag. 106 e seg.). Anche per la bibliografia, si veda:
KOCH G., Frauenfrahe und Ketzertum in Mitterlalter. Die Frauenbewegung im Rahmen des Katharismus
und des Waldensertums und ihre sozialen Wurzeln (12.-14. Jahrhundert), Berlin 1962; e, con traduz. ital,
di T. Grandi, La donna nel Catarismo e nel Valdismo medievali, in Medioevo ereticale [a cura di
CAPITANI O.], Bologna 1977.
512
ALBERZONI M.P., Papato e nuovi Ordini religiosi femminili, in Il Papato duecentesco e gli ordini
mendicanti, Spoleto 1998, pag. 211 e seg. Relativamente alla “normativa approvata in sede locale”, la
Alberzoni, in nota, aggiunge: “Una ricca casistica in merito è delineata negli studi di A. BENVENUTI
PAPI, «In castro poenitentiae». Santità e società femminile nell’Italia medievale, Roma 1990 (Italia sacra.
Studi e documenti di storia ecclesiastica, 45); una puntuale esemplificazione in M. SENSI, Incarcerate e
recluse in Umbria nei secoli XIII e XIV: un bizzoccaggio centro-italiano, in Il movimento religioso
femminile in Umbria nei secoli XIII-XIV, a cura di R. RUSCONI, Firenze 1984 (Quaderni del «Centro per
il collegamento degli studi medievali e umanistici nell’Università di Perugia», 12), pp. 87-121, una
versione parziale è in Mistiche e devote nell’Italia tardomedievale, a cura di D. BORNSTEIN – R.
RUSCONI, Napoli 1992 (Nuovo Medioevo, 40), pp. 57-84”.
513
ELM K., Gli Ordini mendicanti: un ceto di vita religiosa, in Il Papato ... cit., pag. 6. Lo studioso, in
nota, aggiunge: “Cfr. i contributi in: Religiones novae, Verona 1995 (Quaderni di storia religiosa).
514
Gioacchino da Fiore nacque a Celico intorno al 1130. Sembra che sin da giovane sia rimasto attratto
dall’eremitismo di tipo bizantino, ancora assai diffuso in Calabria; tanto che, intorno al 1148, intraprende
un lungo viaggio in Oriente, visitando Costantinopoli, la Siria e la Palestina, dove raccoglie molto
materiale per la sua formazione ascetica. Più che ventenne, verso il 1152, entra nell’ordine cistercense e,
qualche anno più tardi, a Corazzo (ne diventerà abate nel 1177) venne ordinato sacerdote. Profondo
studioso e conoscitore delle Scritture, nel 1182 lo ritroviamo nell’abbazia di Casamari, dove, incontratosi
con papa Lucio III, ottiene da lui la “licentia scribendi” e scrive le sue opere principali (Concordia del
culturale greco-bizantina, molto attingeranno le spiritualità delle religiones novae che
stanno per emergere come (e per) effetto delle “profonde trasformazioni economiche e
politiche del tardo dodicesimo e del tredicesimo secolo, alle quali gli ordini dovettero
adeguarsi”515.
Tralasciando, in quanto non rientra nell’economia del presente lavoro e perché
ebbero una diffusione esclusivamente localistica, gli ordini mendicanti-apostolici detti
‘minori’516 (peraltro e come fa pensare l’esperienza del Beato Giovanni da Tufara [10841179], non del tutto sconosciuti al Molise e i cui sviluppi in ambito locale rimangono
tutti da indagare) e quelli, tra i quattro ‘maggiori’517, del tutto dimenticati (se non, forse,
‘cancellati’), ci si limiterà alla diffusione dell’ordo “fratruum” (e – la crisi è diventata
irreversibile – non più “monachorum”) di quel Francesco d’Assisi che, nonostante tutto,
sceglierà di restare ‘laicus’ e di non diventare mai un sacerdote e/o un ‘clericus’.
Dopo che, lungamente preparata nel tempo518 (coincidente con l’affermarsi degli
Nuovo e dell’Antico Testamento, Commentario all’Apocalisse, Salterio delle dieci corde). La ricerca di
una osservanza più rigorosa gli consiglia di rivolgersi al papa (lo faranno anche Francesco d’Assisi e
Pietro de’ Marone) per richiederne l’autorizzazione a poter costituire un tipo di organizzazione più
conforme alle sue idee di vita contemplativa; istituisce, così ed a permesso ottenuto da Lucio III, la
“Congregazione Florense” (la cui regola, orientata alla preghiera ed alla meditazione, sarà approvata da
Celestino III nel 1196) presso l’abbazia di S. Giovanni in Fiore. Gioacchino muore nel 1202.
L’importanza di Gioacchino sta nella produzione scritta, che espone le sue intuizioni e le sue profezie.
Egli, secondo il modello trinitario (mutuato dalla tradizione bizantina), divide la storia in tre epoche:
- l’età del Padre, corrispondente all’Antico Testamento e caratterizzata dalla servitù dell’uomo alla legge
divina;
- l’età del Figlio, compresa tra la nascita di Cristo e la profetizzata data del 1260 e rappresentata dal
Nuovo Testamento, è un’epoca di fede e di umile accettazione dei desideri divini;
- l’età del Santo Spirito, assai prossima, consentirà agli uomini di entrare in diretto contatto con Dio,
ottenendo la completa libertà del messaggio cristiano; sarà destinata a soppiantare l’organizzazione della
Chiesa, schiava dei condizionamenti temporali, allontanatasi dai comandi evangelici e verrà retta
dall’osservanza monastica. Solo in questa terza età sarà possibile la vera comprensione della parola di Dio
nel significato più recondito e non solo in quello letterale.
Le sue dottrine, che, confutate dal teologo parigino Pietro Lombardo (e si può notare ancora la
contrapposizione tra la tradizione culturale franca e quella di matrice greco-bizantina), verranno
condannate (ma non per eresia) dal concilio lateranense del 1215; ma da esse assai attingeranno le correnti
spiritualistiche del XIII secolo.
515
ELM K., Gli Ordini mendicanti: un ceto di vita religiosa, in Il Papato ... cit., pag. 10.
516
Per eventuali approfondimenti, si segnala: DAL PINO F.A., Papato e Ordini mendicanti “minori” nel
Duecento, in Il Papato ... cit., pp. 105-159. Il citato Elm (v. nota precedente) specifica che “nel 1274 il
secondo Concilio Lionese si vide costretto a dissolvere cunctas affatim religiones et ordines mendicantes,
formatisi dopo il IV Concilio Lateranense senza l’approvazione papale. Secondo il Chronicon Sancti [?]
Catharinae de Monte Rotomagi ed altre fonti si tratterebbe degli ordines Poenitentiae Jesu Christi, Matris
Jesu Christi, Martyrum, Apostolorum, Evangelistarum, Sanctae Crucis, Crucifixorum, de Monte Viridi,
Servitorum, Guillelmitarum et Trinitariorum” (pag. 7 e seg). E aggiunge che “ormai sappiamo che gli
ordini menzionati dal Chronicon non furono gli unici ad essere dissolti e che fra di loro erano non pochi
che si distinguevano affatto dai quattro ordini mendicanti, perché erano ordines possidentes” (v. pag. 8). I
quattro ordini mendicanti erano: Francescani, Domenicani, Eremitani di S. Agostino e Carmelitani, i
quali, di origine orientale, “seguivano inizialmente una formula vitae di tipo eremitico-comunitario nella
tradizione eliana” (ELM K., Gli Ordini ... cit., pag. 10).
517
V. nota precedente.
518
“Già nel 1179, al III concilio Lateranense, le indulgenze concesse ai Crociati di Terra Santa venivano
estese a coloro che avessero preso le armi contro i catari albigesi” (CAPITANI O., Storia ... cit., pag. 465),
Hohenstaufen in Italia), la risposta repressiva di quella chiesa ufficiale (che è ricca di
privilegi e, nonostante la riforma del secolo XI, si presenta ancora con i difetti di un
clero simoniaco e concubinario) è stata la ‘crociata’ contro il catarismo degli Albigesi
(1208); dopo che, per impedire o, comunque, per esercitare il proprio controllo sul
lievitare dinamico della contestazione assai diffusa sul territorio (anche molisano, come
mostra l’indicato caso – punta appena emergente di un profondo mondo sommerso – del
Beato da Tufara), quella chiesa ufficiale ad altro non riesce a ricorrere se non alla
decisione del Concilio Laterano IV (1215) di evitare la proliferazione delle “religiones
novae”, cui, in ogni caso, avrebbe dovuto essere applicata una delle ‘regulae’ degli
antichi “ordines monastici”; dopo la morte di papa Innocenzo III (1198-1216), già tutore
del “puer Apuliae” Federico (che, solo quattordicenne, ha appena raggiunto la maggiore
età nel 1208, ereditando il Regnum Siciliae unito all’impero d’Occidente), il quale aveva
autorizzato nel 1210, certamente non prevedendone i futuri sviluppi e sottostimandone le
potenzialità future, una ‘fraternitas’ laicale priva di una ‘regula’ e solo vincolata da un
impegno di obbediente fedeltà al papa519, con un semplice permesso verbale concesso a
Francesco d’Assisi (1181?-1126) che gli si è presentato con uno sparuto gruppo di pochi
“fratres” (dei quali nessuno sembra appartenesse ad un “ordo canonicus” e/o fosse
‘clericus’); dopo tutti questi processi-eventi e dopo esperienze diverse da parte della
“nova religio” (tra cui quella, significativa, del pellegrinaggio-crociata contro i Saraceni
della Terrasanta, dove, “dal 1217, è provinciale”520 quel Frate Elia, pure lui laicus e che
già gode – e godrà sempre – la massima fiducia di Francesco), il nuovo papa, Onorio III
(1216-1227), con la bolla Solet annuere del 1223 concede, in contrasto con le
proibizioni del recente concilio, quell’approvazione alla seconda, e definitiva (ma con
situazioni di evidente compromesso), edizione (la Regula prima, più rispettosa dello
spirito originario, era stata scritta nell’eremo di Fontecolombo tra il 1220 e il 1221) della
“regola”, la bullata521 (scritta a più mani), a partire dalla quale “Francesco rinuncia alla
guida del suo movimento, le cui dimensioni e le cui trasformazioni gli appaiono,
evidentemente, al di sopra delle sue forze”522.
Dopo che Francesco (resterà, però, sempre, il superiore carismatico) ha rinunciato,
la cui origine sembra debba essere collegata (sia con il bogomilismo e sia con il papàs Niceta) a tradizioni
culturali e/o a personaggi provenienti dall’oriente greco-bizantino.
519
“[...]. Haec est vita quam frater Franciscus petiit sibi concedi et confirmari a domino papa Innocentio.
Et ille concessit et confirmavit eam sibi et fratribus suis habitis et futuris Frater Franciscus et quicunque
erit caput istius religionis promittat oboedientiam et reverentiam domino papae Innocentio” (v.
CAPITANI O., Storia ... cit., pag. 469).
520
BARONE G., Frate Elia: suggestioni da una rilettura, in I compagni di Francesco e la prima
generazione minoritica, Spoleto 1992, pag. 63.
521
Seguendo un percorso rapido verso le situazioni di compromesso, “come è stato giustamente notato dal
Landini (LANDINI L., St. Francis of Assisi and the Clericalization of the Friars Minors, in Laurentianum
26 [1985], 161-173), in questi anni il movimento francescano si presenta già come Ordine di chierici e
laici; ma specifico carattere di questa fase – e in linea con la volontà esplicita del fondatore – è l’assoluta
uguaglianza di tutti i fratres. La Regula bullata prevede che ci siano uguali opportunità per entrambe le
categorie: chierici e laici avranno le stesse responsabilità amministrative; se le loro funzioni saranno in
parte diverse – e grande è la riverenza dovuta ai sacerdoti – pari sarà la dignità” (BARONE G., Frate …
cit., pag. 64).
522
BARONE G., Frate … cit., pag. 63.
l’approvazione legittimatrice è ottenuta mentre, “dopo un breve periodo in cui il
movimento è sotto la guida di Pietro Cattani, dal 1221, alla morte di quest’ultimo, è Elia
ad assumersi la responsabilità dell’Ordine”523 (che, mutuando dagli ordini monasticocavallereschi il tipo di organizzazione ed il modo di essere presente sul territorio, si
struttura in ‘province’); il quale Elia, pure lui sempre e solo un laicus, gode, sino alla
morte del fondatore, del suo ampio favore e sostegno, che non gli verranno mai meno.
E, se, “alla morte di Francesco, Elia non venne confermato nella carica di ministro
generale: il Capitolo del 1227 scelse Giovanni Parenti”524, per rompere con il passato,
forse, e, mentre ognuno dei primi discepoli darà interpretazioni e farà esperienze proprie
(come lascia intravedere il rigorismo eremitico-spiritualista di Frate Eligio), lasciando al
primo il solo incarico della progettazione e della “costruzione della grandiosa basilica
che doveva accogliere le spoglie del santo”525 appena canonizzato (1228). La traslazione
avverrà, a edificio non ancora ultimato, già nel 1230.
Ed appena “due anni più tardi”, dal Capitolo del 1232 Frate Elia, laico e, come
lascia pensare “la necessità politica di raccomandarsi alle sue preghiere” da parte di
Federico II sin dal 1236526, anche già ghibellino, “veniva regolarmente eletto generale,
carica che doveva ricoprire fino al 1239”527, l’anno che, nello scontro tra laici e clerici,
con connotazioni e risvolti intrecciati alle esigenze della lotta politica (che viveva e si
alimentava di ferocità nello scontro tra ghibellini e guelfi), vede la vittoria finale della
‘sacerdotalizzazione’ e, per l’ordine, la perdita definitiva dell’originario e primitivo
spirito di ‘fraternitas’ laicale, con la destituzione di Elia (che, sino alla scomunica,
diventerà il “dilectus familiaris et fidelis” di Federico) al quale, nel mese di maggio528,
succede Alberto da Pisa, “il primo sacerdote a ricoprire la carica di ministro generale”529.
Con prospettive tutte nuove, se è vero – ed è vero – che “l’Ordo fratrum minorum,
prima della tormentata e contrastata «clericalizzazione» del francescanesimo, aveva
guardato al mondo ed alla società secondo ben diverse prospettive”530, anche nella
523
BARONE G., Frate … cit., pag. 63.
BARONE G., Frate … cit., pag. 65.
525
BARONE G., Frate … cit., pag. 66.
526
BARONE G., Frate … cit., pag. 68.
527
BARONE G., Frate … cit., pag. 67.
528
Ma, sempre di quel 1239, era già del 6 marzo la nuova scomunica di Federico II da parte di papa
Gregorio IX; e, facilmente riferibile agli effetti di tale atto, appena di circa un mese più tardi una lettera
pastorale, la Sedes Apostolica, con la quale lo stesso papa Gregorio sollecitava ai frati mendicanti una
capillare predicazione anti-imperiale.
529
BARONE G., Frate … cit., pag. 71. “Come viene registrato, con soddisfazione, da Tommaso di
Eclleston: i frati, riuniti in capitolo a Roma poterono assistere alla prima messa celebrata da un loro
ministro generale. Un breve accenno, ma sintomatico della crescente insofferenza dei chierici nel vedersi
sottoposti all’autorità di un laico, segno di quella impossibilità di essere veramente fratelli, che tanto
Francesco aveva paventato.
Secondo la Cronica XXIV generalium, le costituzioni approvate dal capitolo del 1240, o più probabilmente
già del 1239, di cui non è conservata traccia (nota: evidente frutto di cancellazioni), ma sostanzialmente
confluite nelle bonaventuriane Constitutiones Narbonenses del 1260, stabilirono che ministri generali e
provinciali avrebbero dovuto, da allora in poi, essere scelti solo tra i chierici. E la spaccatura nell’Ordine si
farà ancora più netta quando le Narbonenses vietarono ai laici la promozione al clericato, salvo licenza del
ministro generale” (v. ivi, anche per le indicazioni nelle rispettive note).
530
CAPITANI O., Storia ... cit., pag. 470.
524
esigenza, particolarissima, di avvicinarsi alla fraternità cosmica e della natura.
“Nella seconda metà del secolo i contrasti – malgrado gli interventi pontifici e
talora a causa di essi – si radicalizzarono e le due tendenze si costituirono in vere e
proprie fazioni avverse. I conventuali accettarono di seguire la regola interpretata e
integrata dalle bolle pontificie che mitigavano la povertà, mentre i loro avversari –
generalmente chiamati spirituali (...) o fraticelli (...) –, sempre più impregnati di idee
millenariste risalenti a Gioacchino da Fiore, accentuando il rigorismo e l’ostilità verso
Roma, si trovarono ridotti a posizioni eretiche. [...]. I Francescani dell’una e dell’altra
tendenza avevano moltiplicato le biografie del santo attribuendogli discorsi e
atteggiamenti conformi alle loro posizioni. Non si sapeva più a quale Francesco votarsi.
Il capitolo generale del 1260 affidò a san Bonaventura (nota: ministro generale dal 1257)
il compito di descrivere la vita ufficiale di san Francesco che l’ordine avrebbe d’ora in
poi considerato corrispondente al vero Francesco. Questa vita o Legenda (detta Legenda
maior per distinguerla da una Legenda minor, ...) fu approvata dal capitolo generale del
1263, e quello del 1266, per troncare le controversie, decise di proibire ai frati di leggere
d’ora innanzi qualsiasi altra Vita (di san Francesco) e ordinò loro di distruggere ogni
precedente scritto su Francesco. [...].
Malauguratamente per gli storici, i Francescani obbedirono all’ordine del 1266 al
punto che la ricerca dei manoscritti non distrutti si rivelò infruttuosa”531.
Ed, in tal modo, ancora una non lieve ‘cancellazione’ era stata perpretata.
Era, quel 1266, lo stesso anno della sconfitta di Manfredi a Benevento ad opera di
quel Carlo d’Angiò, il quale, invitato dal Papato, guelfo e conservatore, ed abbattendo
con gli Staufen il laicismo dei ghibellini, aveva la possibilità di inserirsi definitivamente
nell’Italia meridionale.
Se vere, le notizie, secondo cui “nel Capitolo Generale del 1230, …, la Provincia
di Puglia fu scissa in due circoscrizioni: «Provincia Apuliae», che un secolo più tardi
sarà ribattezzata in Provincia di San Nicola, e «Provincia Sancti Angeli», in onore di San
Michele Arcangelo, che comprendeva i conventi della Capitanata e del Molise; <e che>
primo ministro di questa nuova Provincia Religiosa fu un frate molisano: fra Daniele da
Capracotta”532, permetterebbero di ipotizzare che il movimento francescano, sin dalla
fase della iniziale forma della ‘fraternitas’ laicale, trovò diffusione sull’intero territorio
molisano533.
531
LE GOFF J., San Francesco d’Assisi, Milano (traduz. Italiana) 2000., pag. 22 e segg., passim.
“Stupefacente decisione dettata sicuramente dal desiderio di metter fine alle divisioni interne, facilitata da
una certa insensibilità dell’epoca per l’obiettività scientifica, ma che rivela un disprezzo dell’autenticità
tanto più curioso se si pensa che san Francesco aveva proclamato tutt’altro rispetto per la lettera e lo
spirito dei testi autentici, e che nel suo Testamento aveva dichiarato: «Il ministro generale e tutti gli altri
ministri e custodi per obbedienza siano tenuti a non aggiungere e a non togliere nulla a queste parole. Anzi
abbiano sempre con sé questo scritto insieme con la regola, leggano anche queste parole»” (v. ivi, pag.
24).
532
PETRONE N., I Francescani nel Molise, s.l. (ma con stampa a Cerbara di Città di Castello [PG]) 1991,
pag. 13. Il Petrone, in nota, indica che la fonte è: MARCO DA LISBONA, Cronache dei tre Ordini,
Napoli 1680, parte III, p. 641.
533
Sin dall’ottobre del 1216, Jacques de Vitry nella nota lettera scritta da Genova (Jacobi Vitriacensis de
beato Francisco eiusque societate testimonia. Epistola I data Ianuae a. 1216 oct., in BOEHMER H.,
Analekten zur Geschichte des Franciscus von Assisi, Tubingen 1930) scriveva che “gli uomini di questa
Dove, come altrove, condizionato dalle lotte politiche tra ghibellini e guelfi e dalla
ripresa delle attività economiche dovuta alla fase di sviluppo demografico in essere, ci si
allinea a quel significativo processo di urbanizzazione, che si intravede nel fenomeno
per il quale “i religiosi del Molise, abbandonati gli eremi di Santa Maria di Maiella
presso Agnone (a) e di Santo Stefano, «luogo solitario e selvaggio», nei dintorni di
Isernia (b), si stanziarono nelle periferie cittadine e dei borghi più popolosi, scegliendo
gli insediamenti di tipo urbano e rurale”534.
Va sottolineato il fatto che un tale processo di avvicinamento agli insediamenti
maggiori (ed, in quanto tali, con ancora – per la maggior parte dei casi – le specificità
della ‘civitas’ sede vescovile) viene a concretizzarsi contemporaneamente alla fase
giovanile e formativa, molto probabilmente influenzandola e suscitando, forse e già da
allora (come sottolineato in altri lavori), entusiasmi ed aspettative nella personalità del
personaggio del molisano “Pietro de’ Marone”, che diventerà papa Celestino V.
Prima di dare lo sguardo alla definitiva diffusione, in Molise, del francescanesimo
‘conventuale’, poiché ebbe ad insediarsi, coprendone gran parte del territorio, nei loci di
Agnone, Frosolone, Isernia e Boiano, Campobasso e Guglionesi, sembra opportuno dare
un cenno di quella spiritualità al femminile, anch’essa, rispetto alla tradizione, non poco
innovativa, pur se “la cui storia rimane in gran parte nascosta e sotterranea”535.
Già nel 1216, Jacques de Vitry, “sensibile e attentissimo alle espressioni religiose
del suo tempo”, riusciva a cogliere la differenza nel modo di vivere della ‘religio nova’
francescana: “mobile quello dei frati, stabile quello delle donne”, servendosi in maniera
assai significativa, più che del termine di monasterium, di hospitium, avendo la “ben
netta coscienza di trovarsi di fronte ad una nuova realtà”536. Eppure, nonostante le
“pauperes dominae S.ti Damiani” per diversi anni riuscissero a vivere senza nessuna
regola e seguissero la sola “formula vitae”, che “costituisce un insieme di observantiae
S. Damiani, nate dall’esperienza del gruppo e dall’insegnamento di Francesco”537, il
Privilegium Paupertatis di papa Innocenzo III, coincidente, tra il 1215 ed il 1216, con
“l’accettazione del titolo di abbadessa, in conformità alla regola benedettina, da parte di
Chiara”538, sembrerebbe assegnare sin da allora alle “povere donne di San Damiano”
religione convengono una volta all’anno nel luogo stabilito, per rallegrarsi nel Signore e mangiare
insieme, ricavando da questi incontri notevoli benefici … Dopo di che, si separano per tutto l’anno
disperdendosi per la Lombardia, la Toscana, le Puglie e la Sicilia …” (v. PETRONE N., I Francescani …
cit., pag. 12 e seg.).
534
PETRONE N., I Francescani … cit., pag. 14. Anche se il riferimento, per Agnone, di sapore troppo
‘celestiniano’ potrebbe risultare poco convincente, a meno che non si riferisca a ‘locus’ con titolazione nel
frattempo e successivamente modificata, il Petrone, in nota, indica:
(a) MARINELLI NICOLA, Agnone Francescana, Agnone 1927, Documento A, p. 101;
(b) VITI ANGELO, Note di diplomatica ecclesiastica sulla contea di Molise dalle fonti delle pergamene
capitolari di Isernia, Napoli, 1972, p. 221.
535
GENNARO C., Chiara, Agnese e le prime consorelle: dalle «pauperes dominae» di S. Damiano alle
Clarisse, in Movimento religioso … cit., Assisi 1980, pag. 169.
536
GENNARO C., Chiara, … cit., pag. 170, passim.
537
GENNARO C., Chiara, … cit., pag. 172.
538
GENNARO C., Chiara, … cit., pag. 176 e seg. Per eventuali approfondimenti sulla vita e la spiritualità
di Chiara, si può utilmente consultare: LAZZERI Z., Il processo di canonizzazione di santa Chiara di
Assisi, in Arch. francisc. hist. 13 (1920), test. XVIII, 6.
un tipo di osservanza conforme alla tradizionale regola benedettina. Assegnazione che,
confermata dalle Constitutiones ugolinianae, avviene in osservanza dei canoni del
recente concilio del 1215; ma, come è stato visto, in modo totalmente diverso da quanto
sta per essere applicato dai Pontefici nei riguardi della fraternitas maschile539.
“L’irradiazione del gruppo nell’ambiente circostante già nei primissimi anni
sembra inoltre esser confermato da un documento del 1217, da cui risulterebbe che
Chiara stessa, insieme a due compagne, Marsebilia e Cristiana, acquistarono un fondo a
Foligno per insediarvi un monastero, in cui poi Marsebilia rimase come abbadessa”540. Il
primo locus del Molise appartenuto alla Clarisse sembra essere stato in Agnone, dove la
Per sottolineare l’aspetto che porta ad interessare il problema del sacerdozio femminile e l’altro della
amministrazione dell’eucarestia (richieste assai presenti e sentite nel campo delle eresie dei secoli XII e
XIII), piace riportare, dal citato lavoro della Gennaro (v. pag. 189 e seg.) il dettaglio della nota 54. “Nei
Fioretti l’immagine di Chiara è legata alla benedizione dei pani alla presenza di Gregorio IX – durante una
visita del pontefice a S. Damiano – e al miracolo di un segno di croce rimasto impresso sui pani stessi.
Nasce intorno a Chiara la memoria di miracoli eucaristici, come questo ricordato dai Fioretti o quello di
una moltiplicazione di pani, ricordato nel processo di canonizzazione, che sono espressione della
consapevolezza nell’ambiente circostante della devozione intensissima di Chiara per l’eucarestia. Mi
chiedo se questo elemento non vada ad arricchire e a rendere complessa la discussione sul comportamento
sacerdotale di Chiara e soprattutto sulla lettura in questa chiave data dai testimoni, al di là dell’episodio
legato all’attacco dei ‘Saraceni’ a S. Damiano, in cui Chiara avrebbe portato – o avrebbe fatto portare –
davanti a sé il SS. Sacramento”.
539
Occorre segnalare che, pur se una tale ‘diaspora’ potrebbe bene essere anticipata, e di non pochi anni (a
quando, probabilmente, ancora quelle esigenze non erano ancora state inquadrate dalla ufficialità della
Chiesa), nel tempo, “l’impressione, a partire dagli anni Quaranta del secolo XIII, è quella di una grande
diaspora, che coinvolge i gruppi di donne che non erano riuscite a entrare nei nuovi monasteri, o che non
l’avevano voluto. Il fenomeno viene denunciato assolutamente irregolare da Gregorio IX il 21 febbraio
1241 e bollato nove anni dopo con parole ancor più severe da Innocenzo IV, che ci fornisce un altro
particolare «l’usurpazione del nome di sorores minores, che non spetta neppure alle suore dell’Ordine di
S. Damiano». Al di là della volontà di denuncia dell’inganno, i due scritti evidenziano la pressione di
scelte religiose, che l’Ordine di fresco istituito non riesce a incanalare, o addirittura non può o non vuol
accogliere al proprio interno. […]. L’Ordine damianita agisce dunque da schermo per un fenomeno molto
più vasto, quello delle Sorores minores, denominazione, …, utilizzata da Giacomo da Vitry nel 1216 per
indicare la componente femminile del gruppo minoritico. Ma le sorores minores di Giacomo da Vitry
rappresentano esclusivamente il ramo femminile dei fratres Minores, o non piuttosto una realtà più vasta,
più articolata e geograficamente più diffusa di quanto non lascino intravedere le indicazioni del
vitriacense? Ricondurre tutto all’unica matrice di ispirazione minoritico-francescana significa appiattire
una realtà complessa ed eterogenea quale risultano essere le sorores minores, diffuse già tra secondo e
terzo decennio del secolo XIII nelle varie regioni, costituite da gruppi sorti autonomamente – pur
nell’ambito dell’unico ideale di povertà e servizio evangelico, che animava il vasto e vivace movimento
religioso femminile italiano – e che ebbero un’autonoma vicenda con esiti tanto diversi, quanto diversa era
stata la loro matrice. Le recriminazioni dei documenti pontifici lasciano intravedere realtà scarsamente
disponibili all’inquadramento normativo-istituzionale, pensato e voluto dall’autorità ecclesiastica per
normalizzare i gruppi pauperistici femminili dei primi decenni del secolo” (PELLEGRINI L., Che sono …
cit., pag. 297 e seg.), la cui origine ed il relativo svilupparsi nella società sarebbero probabilmente da
collocare a periodi precedenti. “Il fenomeno, sempre più macroscopico man mano si avanza nel secolo
XIII, assume svariate modalità e si impone all’attenzione della società cittadina: si pensi alle centinaia di
«incarcerati, reclusi, eremiti» dell’uno e dell’altro sesso, che costituiscono il macrofenomeno della vita
religiosa dei laici soprattutto, …, come pure al fenomeno delle penitenti, collegate o meno agli ordini
mendicanti. Fra loro donne, il cui impegno religioso, coerente fino all’eroismo, le impone all’attenzione e
alla venerazione delle popolazioni urbane” (v. ivi, pag. 298 e seg.).
“istituzione del Monastero risale al 1249 ... al tempo in cui viveva l’Istitutrice Santa
Chiara”541, morta solo nel 1253 e canonizzata appena due anni più tardi. Inizialmente,
come lascia ipotizzare il documento (1281), “datum apud Urbem veterem 6 idus augusti
Pontificatus nostri anno primo”, di papa Martino IV indirizzato “dilectis in Christo
filiabus, Abbatisse et Conventui Monasterii Sanctae Mariae de Anglono Ordinis Sancte
Clare, Triventinae Dioecesis”542, le “sorores minores” si stabilirono nel monastero di S.
Maria per trasferirsi a Santa Chiara “non successivamente al 1280, essendo stato
costruito il nuovo edificio che si componeva di ventiquattro stanze, due stanzoni, tre
lavatoi, un refettorio e molti scantinati”543.
Sembra che, appena dopo il 1275 (a Napoli erano già arrivati gli Angioini), le
Clarisse arrivano ad insediarsi anche a Isernia544, per merito, però, della devozione di un
singolo, più che di una vera esigenza sociale. E, se l’analisi dei residuali elementi delle
architetture servono a stabilire qualche indicazione, sembra probabile che le ‘sorores’ si
siano stabilite a Bojano appena qualche anno prima della fine del XIII secolo 545. Cosa
che evidenzia una loro diffusione prevalentemente nelle aree montane, che vengono
privilegiate rispetto a quelle costiere e collinari. Nel secolo successivo esse arriveranno a
Campobasso (prima del 1343546), a Guglionesi (dopo il 1340) ed a Frosolone (1367547),
insediamenti, questi molisani, tutti aventi o le caratteristiche della ‘civitas’ oppure
diventati ‘emergenti’ per i cambiamenti portati dalla avvenuta angioinizzazione.
Nel frattempo, e sempre nelle immediate vicinanze dei centri abitati ‘maggiori’
(aspetto che lascia pensare ad una evidente evoluzione anche in Molise perfettamente in
linea con quella generale), era venuto a posizionarsi anche il movimento ‘conventuale’
maschile. Il dettaglio della situazione degli insediamenti, già, tuttavia, nella sua fase
terminale, è quello che è possibile precisare “nella ‘Serie di fr. Paolino da Venezia’
(1334-1344) detta Polichronicon o Provinciale Ordinis Fratrum Minorum, <dalla quale
si ha che la ‘Provincia Sancti Angeli’> comprende 4 Custodie e 29 luoghi (a). In
quest’ultima serie, a differenza delle altre, vengono, per la prima volta designate anche
le località dove sorgono i luoghi.
540
GENNARO C., Chiara, … cit., pag. 175. La Gennaro prende la notizia, indicandolo in nota, da: M.
SENSI, Le Clarisse a Foligno nel secolo XIII, in Coll. francisc. 47 (1977), 349-363. Quanto alla rapidità
della diffusione, si veda il più volte citato lavoro della Gennaro, specialmente da pag. 174 e seg.
541
MARINELLI N., Agnone francescana, Agnone 1927, pag. 104 e seg.
542
Il testo è riportato, con incertezze ed errori di trascrizione, dal Marinelli citato (v. nota precedente).
543
AA.VV., Fabbriche francescane in antologia, Vasto 2001, pag. 118. “Tra il Convento di S. Francesco
ed il Monastero di Santa Chiara vi era un passaggio segreto, con ingresso Monastero dal vano adibito a
sepoltura, ora chiuso, e ingresso Convento dalla porta laterale esterna, sita all’altezza della sagrestia, che
comunicava anticamente con i sotterranei della Chiesa e del Convento di S. Francesco” (v. ivi, pag. 119).
544
CIARLANTI G.V., Memorie historiche del Sannio, Isernia 1644 (rist. anastatica: Sala Bolognese
1981), pag. 386 e seg. “Fu egli (= Alferio d’Isernia) tanto divoto, e pio, che nella sua propria casa & a sue
spese edificò la Chiesa, e Monastero di Monache di S. Chiara, a cui havea dato principio nel 1275 in
circa ... [...]. Nel 1280 vi dimoravano le Monache in vita comune e co’l primiero rigore della Regola,
perché introdotte vi furono venticinque anni in circa dopo la morte della lor madre S. Chiara, il che appare
per più scritture di quello, & in particolare per una del 1287 nella quale sta sottoscritto di propria mano il
famoso Andrea d’Isernia a tempo, ch’era Avvocato fiscale della Corte Regia”.
545
TROMBETTA A., Arte nel Molise attraverso il Medioevo, Cava dei Tirreni 1984, pag. 440.
546
GASDIA V.E., Storia di Campobasso, I,. Verona 1960, pag. 590.
547
COLOZZA M., Frosolone dalle origini all’eversione del feudalesimo, Agnone 1931, pag. 216 e seg.
Ecco il testo della Serie di fr. Paolino da Venezia, che riportiamo dagli ‘Annales
Fratrum Minorum’ del Wadding (b):
Provincia S. Angeli habet quatuor Custodias:
Custodia Comitatus (= del Contado di Molise) habet: Iserniae (Isernia), Venafri
(Venafro), Boiani (Boiano), Campibassi (Campobasso), Angloni (Agnone), Limosani
(Limosano), Planitii (Pianise o Pianisi, a breve distanza da S. Elia a Pianisi).
Custodia Civitatis (= di Civitate) habet: Gulion (Guglionesi), Scialeran (Larino),
Civitatem, Praecinae, Termonarum (Termoli), Vasti, Montis Odorici.
Custodia Montis S. Angeli habet: S. Angeli, Manfredoniae, S. Joannis Rotundi,
Vestarum, Pesquitii, Rodi, Caniani, Iskitelli.
Custodia Capitanatae habet: Lugeriae, S. Severe, Foggiae, De Casali Novo, Troiae,
Aesculi, Corneti”548.
Dei dieci ‘loci’ ricadenti nell’attuale territorio molisano (evidenziati) i più antichi
sembrerebbero essere (oltre a quanto già detto per Isernia ed Agnone): quasi di certo
Venafro549, probabilmente Campobasso550 e, forse, Pianisi che potrebbe appartenere “alla
serie dei romitori fondati ai tempi di S. Francesco in terra molisana”551. Per i restanti
cinque (Guglionesi, Boiano, Termoli, Larino e Limosano) gli inizi, a parte qualche
dubbio per il primo di essi, sono da collocarsi solamente nel successivo XIV secolo552.
Ne è venuto fuori un quadro geografico-insediativo che ben si presta a qualche
considerazione. Appare, prima di tutto, chiaro che il diffondersi del movimento
francescano si concretizza in due ben distinte fasi temporali: una prima, legata agli
entusiasmi iniziali della innovativa e rivoluzionaria ‘fraternitas’, precede la sconfitta
sveva; la seconda, nella prima metà del XIV secolo ed, a clericalizzazione avvenuta,
dopo la angioinizzazione e, con essa, la guelfizzazione del movimento stesso (diventato,
548
FORTE D., Movimento Francescano nel Molise, Campobasso 1975, pag. 23 e segg. Il padre Doroteo
Forte cita:
(a) GOLUBOVICH Girolamo (P.), Biblioteca biobibliografica di Terra Santa, Quaracchi 1913, tom. II,
pp. 241, 244, 245, 249.
(b) WADDING, Annales Minorum, tom. IX, p. 216.
In tutte le altre serie, che sono la ‘Serie Spagnola’ (1263-1270), la ‘Serie Anglicana’ (1290), la ‘Serie
Sassone’ (1300 circa) e la ‘Serie del Capitolo Generale di Napoli’ (1316), la Provincia S. Angeli, sempre
suddivisa in quattro ‘Custodie’, comprende sempre 22 luoghi (e questi, però, non sono mai specificati).
549
“Secondo qualche storico, questa casa religiosa sarebbe sorta durante la dominazione sveva, insieme ad
Isernia e Agnone” (PETRONE N., I Francescani … cit., pag. 23).
550
“Nella relazione inviata alla Santa Sede, in occasione della soppressione innocenziana, il 21 febbraio
1650, si legge che «il detto monastero fu fondato nel 1250»” (PETRONE N., I Francescani … cit., pag.
23. Il Petrone, in nota, cita: Archivio Segreto Vaticano, stat. Regul., Relationes, F. 43, Convento di
Campobasso).
551
DI IORIO E. (P.), I cappuccini nel Molise, Campobasso 1976, pag. 172
552
Di Guglionesi (e sono evidenti i motivi del dubbio), “anche se la relazione inviata alla Santa Sede nel
1650 parla di fondazione «risalente al tempo di San Francesco», sappiamo che era in piena efficienza nella
seconda metà del secolo XIV” (PETRONE N., I Francescani … cit., pag. 21). Il convento di Boiano “era
in piena efficienza nel 1306” (v. ivi, pag. 19). Per quello di Termoli, “sorto vicino al mare, risulta – come
da una iscrizione rinvenuta – che questo convento è stato costruito nel 1311” (v. ivi, pag. 22; e
GUASTAMACCHIA G., Francescani in Puglia, Bari-Roma, 1963, pag. 131). La costruzione dei ‘loci’ di
Limosano e di Larino, sollecitati dall’intervento di re Roberto, venne iniziata dopo il 1312, anno in cui,
con la bolla (7 luglio) “Sacrae religionis vestrae merita” di Clemente V, se ne dava incarico al Ministro
Provinciale di S. Angelo.
nel frattempo, l’Ordo fratrum minorum), vede stabilirsi, nelle località più funzionali alle
nuove esigenze politiche, un ‘ordine conventuale’ perfettamente allineato sulle
posizioni papali ed ‘ufficiali’. Ne rappresenta, per molti versi, una prova la latente
presenza (nell’area tra Trivento e Frosolone) degli spiritualismi eretici e riconducibili
alle contestazioni estremiste dei ‘Fraticelli’ di Angelo Clareno, i quali, insieme alla
diffusione, coeva proprio al trentennio della prima angioinizzazione, dei ‘Celestini’,
farebbero da ostacolo momentaneo al diffondersi delle spiritualità francescane.
Seguendo percorsi penetrativi che vanno dalla montagna verso il mare, vengono
privilegiati, poi, quasi esclusivamente quei centri abitati, all’interno dei quali sono
funzionanti attività economiche (produttive e commerciali) costituenti poli attrattivi per
le presenze umane dei rispettivi ambiti territoriali. Con un processo di urbanizzazione
sicuramente imprevedibile dalla originaria spiritualità e che mostra tutta l’evoluzione del
movimento stesso.
Sembra, infine, sin troppo evidente che l’insediamento francescano privilegia,
come è stato già accennato, quel centro urbano che, precedentemente, è stato già una
‘civitas’ con la sede episcopale (eccettuata Trivento, vengono interessate tutte le antiche
diocesi) oppure che, con gli Svevi o gli Angioini, viene a emergere e ad acquistare
visibilità (Agnone, Guglionesi, Pianisi e la stessa Campobasso). Processo storico,
questo, che almeno per il Molise si attualizza, come è stato registrato altrove 553, con la
stessa logica seguita dai movimenti celestiniani per la scelta del loro posizionarsi nelle
vicinanze degli insediamenti.
4.3 – Celestino V, già “Pietro de’ Marone”
“Nella vita di S. Pietro del Morrone vi ha molte questioni oscure; e lo riconoscon
tutti. Una delle cause, e forse la principale, di tale oscurità a me pare sia questa: i coevi
del Santo ci dettero di lui notizie per lo più schiette e precise. I biografi posteriori però
impresero man mano ad esagerarle, ed in molti punti finirono col falsarle, specialmente
quelli di maggior grido che furono il Fabbro, il Marini ed il Telera. E perché costoro
furon gli ultimi biografi di Lui, e che più diffusamente ne trattarono, avvenne che fino ad
oggi furono consultati come testi per averne luce. Ma trovandosi in essi, fra tante cose
vere non poche false, le questioni si avvilupparono sempre più invece di risolversi”554.
553
BOZZA F., Pietro de’ Marone: l’avventura del molisano del suo tempo che diventerà papa Celestino
V, L’Aquila 2006.
554
CELIDONIO G., La non autenticità degli Opuscola Celestina, Sulmona 1896, pag. 1.
Il Celidonio si riferisce a:
1) WION A., Lignum Vitae, Venezia 1595, pag. 96. “Aeserniae in Samnitibus umili in loco natus (= in una
modesta località tra <quelle> Sannite di Isernia)”. Sulle capacità di applicare un metodo teso alla
falsificazione e sulle intenzioni di strumentalizzare le prove da parte del Wion, il quale, pertanto ed in tal
modo, risulta ben poco credibile, si possono vedere i goffi tentativi di falso sulla vita dell’abate Desiderio,
il quale, originario e nativo di Benevento, deve “vestire l’abito di monaco nella Cava” per l’esigenza di
valorizzazione del suo proprio ordine, anziché, come fu nella realtà dei fatti, nel monastero beneventano di
S. Sofia (v.: DI MEO, Annali del Regno di Napoli, ad annum 1058, VII, pag. 372).
2) FABRO D., Vita Sanctissimi Patris S. Coelestini V, Parigi 1599. Il Fabro, a proposito della località di
nascita di Pietro, usa la seguente espressione, alquanto sibillina come quella del Wion: “ex Aeserniae
Sulla stessa linea era stato il Papebrochio, il quale, già più di due secoli prima, aveva
scritto che “è opinione che la sua (= di Pietro) patria fosse Isernia antica città del Sannio.
Tuttavia ci sono antichi manoscritti (la prima parte di essi proveniente dal prologo
attribuito ad uno dei suoi discepoli, che fu Beato Roberto de Salle) dove si dice che
nacque nel castello di S. Angelo; e il poeta notturno (nota: A.S. Bugatti, alias Notturno
Napoletano) considera patria del Santo «Lemusane»”555.
In netto contrasto con quella ‘opinione volgare’ (che sembra formarsi, a partire
dalle operazioni contro-riformatrici del dopo concilio di Trento, con gli interessi, a fini
promozionali, da parte di esponenti della “Religio celestina”) stavano le testimonianze
degli “antichi manoscritti”556, i quali (e solo essi) “ci dettero del Santo notizie per lo più
schiette e precise”. E’ da essi (ma escludendo tutti i rifacimenti dei secoli XVI e XVII e
le esagerate falsificazioni di prove, che, nelle intenzioni, avrebbero dovuto supportare le
ricostruzioni di quei “biografi posteriori <che> impresero man mano ad esagerarle, ed in
colonia sanctissimae regionis Aprutii Terrae Laboris originem duxit”;
3) MASTAREO V., Vite de’ SS. Protettori della fidelissima città dell’Aquila, Napoli 1629;
4) MARINI L., Della vita et Miracoli di S. Pietro del Morrone che fu Celestino Papa quinto, Milano
1630;
5) CIARLANTI G.V., Memorie Historiche del Sannio, Isernia 1644 (rist. Bologna 1969);
6) TELERA C., Historie Sagre degli huomini illustri per Santità della Congregatione de Celestini,
Bologna 1648; ed anche: S.ti Petri Coelestini PP. V opuscola omnia, Napoli 1640;
7) SPINELLI V., Vita di S. Pietro del Morrone Papa, detto Celestino V, Roma 1664.
555
PAPEBROCHIO D., Acta Sanctorum Maii, collecta, digesta etc., Tomus IV quo continetur dies XVII,
XVIII e XIX, 1685, pag. 499. Il Papebrochio riprendeva, più o meno fedelmente, quanto cinquantacinque
anni prima aveva già scritto il Marini, che così si era espresso: “La patria del Santo secondo l’opinione
volgare fu Esernia ... Altri scrittori nondimeno hanno lasciata memoria, che il luogo dove nacque Pietro,
fu un Castello chiamato S. Angelo: Così hanno alcuni Manoscritti antichissimi, la prima parte dei quali si
professa nel prologo, che fu lasciata scritta di propria mano da un Monaco di Santa vita discepolo del
Santo e si ha che fu Beato Roberto de Sale. [...]. E’ donque cosa certa, che la patria del nostro santo Pietro
fu nel Contado de Molisi, che è parte di terra di Lavoro, et in questo distretto sta posto il nominato
Castello, et anco la Città d’Esernia ...”.
556
Oltre alla cosiddetta Autobiografia (1296), che, di paternità dubbia ed assai incerta, peraltro non riporta
nessuna indicazione precisa, ed escludendo le fonti con notizie troppo generiche e scarsamente affidabili,
sarebbe da far riferimento a (seguendo l’ordine cronologico):
1) - Roberto de Sale, Prologo (1296?): “in castello Sancti Angeli natus dicitur”;
2) - Bartolomeo da Trasacco e Tommaso da Sulmona, Vita ‘C’ (1303-1306): “<il monastero di S. Maria di
Faifoli>, quod est in provincia unde ipse exiterat oriundus”;
3) - Anonimo [che riprende dalle due diverse edizioni (1296 e 1314) dell’Opus Metricum di J.
Stefaneschi], Cod. Vallicel. H46 (1351): “est locus Aprutii Ausoni cognomine unde dicunt Petrus
semina habet”, dove sarebbe possibile interpretare l’etimo ‘Ausoni’ (scritto in caratteri gotici) come una
errata trascrizione di ‘Musani’, il nome più antico di Limosano;
4) - Jacobo Tiraboschi, Vita in volgare Cod. Biblioteca Marciana V68 (1400-1450): “in la provincia de
terra de mo.e, sotto al regname de Napoli, in uno castello chiamato Sancto Angelo”;
5) - Stefano Litianus (= da Lecce), Vita Beatissimi Confessoris Petri Angelerii (1471-1474): “Petrus de
Castello Sancti Angeli, comitatus Molisii, prope Limosanum” e “quorum (= locorum et
monasteriorum) primum extitit coenobium quoddam, in quo et ipse recepit monasticum habitum, cui
nomen erat Sancta Maria in Fayfolis, prope castellum Limosani et Sancti Angeli terram, unde iam
ipse oriundus fuit, ...”.
6) - Antonio Simone Bugatti [= Notturno Napolitano], Vita … in versi (1520): “una cettà Lemusane
appellata”.
molti punti finirono col falsarle”) che occorre partire – e ripartire – per una lettura del
personaggio ‘vero’ di “Pietro de’ Marone”557, il quale per le ‘cancellazioni’ cui venne
sottoposto, rispetto al prodotto di quei ‘biografi’, sembra essere profondamente altro e
diverso558.
Così e dopo aver escluso la cosiddetta “Bolla di Dario” (cui, conservata solo in
copia di epoca successiva e posteriore al secolo XVI559, “nessuna fede si può prestare,
neppure la più lieve, perché esso è corroso nelle intime fibre, da manifesta falsità e
continui errori”560), la “Bolla del Vescovo di Isernia Matteo” (in cui “niente è detto,
neppure sottinteso, che si riferisca alla nascita del Religioso Fra Pietro”561) e la “Bolla
del vescovo Roberto” (documento “rappresentato da una copia semplice, non autentica e
che rimonta al secolo XVII”562; “il primo ad addurre tale Bolla a favore di Isernia fu
Celestino Telera”563) , mentre per la storiografia, favorevole ad Isernia come sua patria,
Pietro è nato nel 1215, la Vita “C” (datata tra il 1303 ed il 1306) attribuita a Tommaso
da Sulmona, discepolo contemporaneo di Pietro, riportando che “morì nel 1296, dopo
aver vissuto 87 anni (sancta illius anima de illius corpore est regressa anno domini
MCCLXXXXVI, vitae vero suae anno LXXXVII)”, porta a collocarne la nascita tra il 1209
(risultante dalla differenza tra 1296 meno 87) e, al più, i primi mesi del 1210.
E, come per la data, anche per il luogo di nascita, diversamente dalla “opinione
volgare” tirata fuori da quei ‘biografi’ e per la quale “la patria del Santo … fu Isernia” 564,
il Prologo di Roberto de Sale (1296?) ha che “in castello Sancti Angeli natus dicitur”;
la menzionata Vita “C” riporta che egli, da giovane, ebbe frequentazione del monastero
di S. Maria di Faifoli, “quod est in provincia unde ipse exiterat oriundus”; e, infine, la
Vita Beatissimi Confessoris Petri Angelerii di Stefano Litianus (= da Lecce), datata tra il
1471 ed il 1474, riferisce ancora che “Petrus de Castello Sancti Angeli, comitatus
Molisii, prope Limosanum” e “quorum (= locorum et monasteriorum) primum extitit
coenobium quoddam, in quo et ipse recepit monasticum habitum, cui nomen erat
Sancta Maria in Fayfolis, prope castellum Limosani et Sancti Angeli terram, unde
iam ipse oriundus fuit, ...”565.
Dopo una frequentazione, di qualche anno, forse, e probabilmente discontinua, del
557
E’, e perciò la si preferisce, l’esatta forma [v. pag. 72, sulla quale si tornerà in seguito per la questione
della fundatio della Congregazione dei Celestini], usata per indicarlo, nel Synodicon Dioecesanum
Sanctae Beneventanae Ecclesiae, Benevento 1723 (d’ordine del Card. Orsini).
558
E’ il risultato della ricerca (è ad essa che ci si rimanda): BOZZA F., Pietro de’ Marone: l’avventura …
citata. In essa si parla diffusamente anche della figura dell’autore del Prologo e primo biografo, quel beato
Roberto de Sale (e non Salle), che, per diverse ragioni, non è da confondere con il quasi omonimo beato
abruzzese Roberto de Salle (1273-1341).
559
HERDE P., Die herkunft papst Coelestin V, in Grundwissenschaften und Geschichte Festschrift fur P.
Acht, Kallmunz 1976. Dello stesso autore si veda, in quanto più importante, l’altra opera: Coelestin V,
Peter von Morrone, der Engelpapst, Stuttgart 1981.
560
DE ANGELIS E., La patria di S. Pier Celestino Papa Celestino V, Ravenna 1958 (postuma a cura di
GIANNOTTI C.), pag. 30,
561
DE ANGELIS E., La patria … cit., pag. 17.
562
DE ANGELIS E., La patria … cit., pag. 17.
563
DE ANGELIS E., La patria … cit., pag. 18.
564
MARINI L., op. cit. Si riporta dalla citazione del DE ANGELIS (v.: La patria … cit., pag. 11).
565
E perché non, come ogni logica avrebbe dovuto richiedere, vicino a Montagano, distante appena
qualche centinaio di metri?
monastero di S. Maria di Faifoli (il quale situava – e situa – prope castellum Limosani et
Sancti Angeli terram, unde iam ipse oriundus fuit566; frequentazione possibile solo da S.
Angelo e non da Isernia), Pietro, il quale veniva da famiglia, quasi certamente, assai
numerosa, “ricevette il monasticum habitum”, quando era “juventute progredente” (= in
gioventù avanzata) e, presumibilmente, intorno ai venti anni, proprio in quel monastero
di Faifoli (e su questo la storiografia è pressoché concorde), nel quale, venendo sin da
allora in contatto con le idee profetiche e spiritualiste di Gioacchino da Fiore (1130?1202), ebbe modo di accedere e di formarsi a quella cultura tipica del luogo (e molto
diversa da quella degli ambienti circostanti) che, per la documentata presenza di abati di
rito greco, aveva origine e tradizioni bizantine (rigidità della visione ascetica e tendenza
eremitica)567, che ne caratterizzerà assai profondamente la spiritualità.
Se fu l’ispirazione derivante dalle residualità orientali ancora presenti sul territorio
ad influenzare la personalità religiosa di Pietro, le scelte e gli accadimenti del percorso
566
A parte la considerazione già indicata nella nota precedente, va detto che, nonostante la radicata
tendenza ‘isernista’ di ridimensionarne ruolo e funzione, il monastero di S. Maria di Fiaifoli, assai
prossimo a Montagano in direzione nord, era una delle dodici abbazie insigni della arcidiocesi di
Benevento (e, fin quanto è esistita – sino a dopo la metà del XIII secolo –, della diocesi di Limosano).
Dal citato Synodicon Dioecesanum Sanctae Beneventanae Ecclesiae, che sicuramente fa testo, risulta
(pag. 41, Pars I) che “inter coetera S. Metropolitanae Ecclesiae nostrae decora, cospicui semper fuere ex
Dioecesanis Abbatibus insignioribus duodecim precipui, quorum tituli sunt sequentes
I
Abbas S. Mariae de Strata
II
Abbas S. Mariae de Faifolis
III
Abbas S. Mariae de Heremitorio
IV
Abbas S. Petri de Planisio
V
Abbas S. Laurentii de Apicio
VI
Abbas S. Mariae de Guilleto
VII
Abbas S. Mariae de Rocca prope Montem Rotanum
VIII
Abbas S. Mariae de Decorata
IX
Abbas S. Mariae de Campobasso
X
Abbas S. Mariae de Ferrara prope Oppidum Sabinianum
XI
Abbas S. Mariae de Venticano
XII
Abbas S. Silvestri in Oppido S. Angeli ad Scalam”.
Ne emerge non solo l’importanza di Faifoli; ma il fatto che, su dodici abbazie, ben nove (e le prime tre
dell’elenco situavano nel territorio della diocesi di Limosano) risultano dedicate a S. Maria (culto che si
radicò in area longobarda durante la lotta dell’iconoclasmo) lascia ben intendere sia l’anitichità di tutte
quelle Ecclesiae e sia che vi si praticò il rito greco. Difatti, siccome tutti questi abbates (pag. 42) “…
coeterum in suis ecclesiis usu Mitrae, et Crossiae fruuntur, ut ex Provinciali Synodo, fel. recor.
Praedecessoris nostri Hugonis Guidardi anno 1374”, in cui “in cap. de Sacramen. ordin. liquido constat, in
quo ille: «Habet etiam (nempe Archiepiscopus) Abbates infra Dioecesim omnes habentes Mitras, et
Crossias ...»”; e siccome (pag. 42) “crossia itaque baculus est Pastoralis, a Pontificali diversus,
Abbatibus nostrae Dioecesis, et cum Graecanico ritu uterentur, et modo etiam communis, ut
clarissime omnium praecl. mem. Predecessor noster Cardinalis Archiepiscopus Sabellius in Synodo
Provinciali de anno 1567 ostendit”, risulta chiaramente dimostrato che essi, anche dopo lo scisma del 1054
per un periodo più o meno lungo, avrebbero praticato il rito bizantino.
Per un approfondimento della diffusione, prima dello scisma, del rito greco, si veda: BOZZA F., Segni di
presenze bizantine nel ‘Samnium’ molisano dell’alto medioevo (476-1054), in corso di stampa per conto
della Biblioteca Provinciale di Campobasso.
567
BOZZA F., Pietro … cit. Assai utile è, per eventuali approfondimenti, lo studio citato, dove vengono
esposte in maniera diffusa molte idee nuove sul percorso di vita e sulla figura del personaggio di Pietro.
della vita umana subirono, e non poteva essere altrimenti, i condizionamenti dei fatti
della politica contemporanea. Già nel 1227 a papa Onorio III (Cencio Savelli; 12161227) sulla cattedra pontificia era succeduto Gregorio IX (Ugolino dei Conti di Segni,
nipote, forse, di papa, dal 1198 al 1216, Innocenzo III), il quale, da cardinale, era stato il
protettore (ed il traghettatore verso le posizioni ufficiali) del nascente francescanesimo.
E l’anno seguente, in qualche modo spintovi anche dalla immediata scomunica (che
veniva dopo l’ennesimo rinvio) da parte del nuovo papa, tanto deciso quanto energico,
Federico II intraprende quella crociata, che, passata alla storia come “la crociata degli
scomunicati”, viene portata a conclusione, già nel 1229, per mezzo delle sue
straordinarie capacità diplomatiche nelle trattative, in maniera del tutto pacifica e senza
alcun spargimento di sangue. L’effetto di maggior significato dei due fatti (la scomunica
e la crociata), però, fu il riacutizzarsi delle rivalità e delle lotte tra ghibellini e guelfi
nelle realtà, dalle piccole alle grandi, degli insediamenti abitati.
Nell’ambito territoriale, all’interno del quale operava, con la sua tipica e specifica
spiritualità e con le sue attività culturali, la struttura abbaziale di S. Maria di Faifoli era,
con molta probabilità e come mostrerà la radicale angioinizzazione 568 cui verrà a suo
tempo sottoposta, vincente la parte ghibellina. Tutto questo, mentre, come proverebbe il
successivo legame di Pietro agli angioini, egli doveva essere di parte guelfa e contraria
alle posizioni imperiali.
Ne verrebbe quasi che sin da giovane egli, il quale ha una sua preparazione ed è
persona nient’affatto sprovveduta, si sia trovato a vivere, mentre è vincente l’idea
ghibellina, una condizione di imbarazzo e difficilmente sostenibile, per uscire dalla
quale sta aspettando un’occasione propizia e favorevole. Che venne subito dopo il 1230,
anno in cui Federico, perché ha finalmente mantenuto fede alle promesse, può
riconciliarsi con la Curia; così che, dopo essere stato sciolto dalla scomunica da parte del
pontefice, viene reintegrato nel corpo della Chiesa e riottiene la legittimità
dell’ubbidienza da parte dei suoi sudditi.
Una tale condizione di avvenuta pacificazione, nuova nelle relazioni e nei rapporti
politici, permette a Pietro, che ha “viginti et amplius (20 e più)” anni, di mettersi in
cammino, probabilmente nel 1231569, insieme ad un compagno (che più di un elemento
568
Ad essa, cui, assai probabilmente, è riferibile anche la perdita della istituzione della diocesi,
documentata durante la prima metà del secolo XIII anche dai citati documenti dell’ASV, che ne parlano
come di “civitate nostra”, da parte di Limosano, il cui insediamento, dopo che, proprio dagli angioini, il
castrum Limosani in Justitiariatu Terre laboris (Registri della Cancelleria Angioina, II, p. 252, n. 64;
XIV, p. 145, n. 93), con il relativo feudo, nel 1269, “concessum est Adenulfo, filio Johannis Comitis
Romanorum Proconsulis”, viene pure privato, con conseguente spostamento a Campobasso, delle
caratteristiche fucine, nelle quali (poste all’interno delle mura di quella che, come risultava nel castello di
Lucera, era “Limusane nobis fidelissima”), con Federico II, si producevano armi, potrebbe (e dovrebbe)
essere collegato anche il ritorno del 1276 di Pietro guelfo-angioino come abate proprio di S. Maria di
Faifoli in area ghibellina.
Tornando alla perdita della diocesi proprio con l’angioinizzazione, essa è mostrata anche dal
cambiamento, da registrare proprio nelle fasi di passaggio del potere dagli svevi agli angioini, da civitas a
castrum, dell’indicazione usata per caratterizzare l’insediamento di Limosano.
569
OLIGER L., voce Celestino V in Enciclopedia Cattolica, Firenze 1949. Corre obbligo di annotare che la
datazione dei fatti della vita di Pietro de Marone risulta incerta e non poco controversa. La cosa consiglia
di seguire, per quanto e dove possibile (ma anche con qualche opportuna variazione), la sintetica e
porta ad identificare con quel Roberto de Sale570 che gli sarà discepolo fedele e, tra i
primi ad occuparsi delle cose della sua vita, a dirlo “in castello Sancti Angeli natus”),
partendo da Faifoli, con l’obiettivo di raggiungere Roma. Ma decide (per quale motivo?)
di fermarsi dapprima in una grotta della località Scontrone, nelle vicinanze di Castel di
Sangro, per conformarsi allo schema della vita anacoretica di derivazione orientale, ed in
un secondo momento sul monte Palleno (attualmente Porrara), “dove trascorre tre anni
in una caverna scavata nella roccia”.
Forse perché è diventato insufficiente a tenere raccolti i primi seguaci imitatori,
lascia, intorno al 1235, il Palleno, per spostarsi sulla montagna del Morrone, nei pressi
di Sulmona, dove continua a condurre vita anacoretica nelle caverne ricavate dalla
roccia. Sino a quel 1239, che rappresenta, proprio come per l’imperatore della casa
Staufen, un momento di tormentata cesura e, come tale, di seri interrogativi per chi si
occupa di Pietro de’ Marone.
Va, prima di tutto, detto che è già del 6 marzo la nuova scomunica di Federico II
da parte di Gregorio IX; ed è, facilmente riferibile agli effetti di tale atto, appena di circa
un mese più tardi quella lettera pastorale, la Sedes Apostolica, con la quale lo stesso papa
Gregorio sollecitava ai frati mendicanti una capillare predicazione anti-imperiale.
Ricollegabile ad entrambe le circostanze, che già da sole lascerebbero ben intendere
l’atmosfera di grande tensione venutasi a stabilire nei rapporti politici e sociali di quel
preciso momento storico, è il fatto che il capitolo generale dell’ordine dei francescani si
spinge sino alla deposizione (16 maggio) del laico Frate Elia da ministro generale,
sostituendolo con il più anziano, sacerdote, Fate Alberto da Pisa. In realtà quel capitolo
rappresenta il momento finale dello scontro tra la primitiva fraternitas laicale e la
concezione, con la «clericalizzazione», di renderlo l’ordo di clerici, che sfocia nella
vincente destituzione dello stesso Elia, il quale, perdente e scomunicato dalla ufficialità,
proseguirà il suo personale percorso spirituale.
Insieme con la sempre avvertita esigenza di evitare le rischiose aree dell’eresia, è
la necessità (e la tensione psicologica, ruvida e medievale) di doversi schierare, di
innovare e di rinnovare, rimanendo dentro la Chiesa e ad essa fedele, a spingere Pietro a
partire, nel 1239571 e proprio in coincidenza con tutti questi accadimenti, per Roma.
Dove (deve diventare sacerdote? ed era quello di diventare sacerdote il motivo specifico
schematica ricostruzione dello studioso francese.
570
Il “Beato Roberto de Sale” (che potrebbe essere la stessa Sale “iuxta Bifernum fluvium” dove si era
fermato Leone IX il 10 giugno 1053), che, tra l’altro, il 4 agosto 1252 riceve il dono di un feudo e di un
bosco, accettandolo in nome di Pietro, da Gualtiero di Paleara (v. MOSCATI A., I monasteri di Pietro
Celestino, in BISI, LXVIII, Roma 1956, pag. 104), sembra essere proprio quell’uomo di cultura e quel
litteratus del movimento, che, nel giugno 1275, copierà, perché venga reso pubblico a Sulmona, il testo
della bolla di papa Gregorio X. E questi sembrano essere tutti elementi utili a fare di lui un socius di Pietro
sin dalla loro gioventù. Deve egli essere tenuto sicuramente personaggio diverso dall’omonimo abruzzese
beato di Salle (1273-1341).
571
Si preferisce la ricostruzione proposta, precisando che, anche se per i successivi sviluppi la data della
sua ordinazione risulta relativamente influente (o del tutto ininfluente), vi è una corrente storiografica che
preferisce anticiparne la data, mantenendo sempre Roma come luogo, al 1234. Essa, però e con una certa
forzatura degli eventi (un sacerdote che, a vocazione anacoretica ed eremitica, va a riprendere gli studi?),
sostiene che, dopo l’ordinazione, “trascorre probabilmente un breve periodo di istruzione a San Giovanni
in Venere (diocesi di Chieti)”.
del suo viaggio a Roma?) egli, già trentenne, alloggiato presso il Laterano572, compie gli
studi (circostanza che, contrariamente alla tendenza agiografica di sminuirla, induce a
denotarne una preparazione culturale apprezzabile) sino alla ordinazione a sacerdote
(Francesco d’Assisi mai lo era diventato e restò semplice diacono).
Se rimane incerta la data della sua ordinazione, è difficilmente dubitabile che a
Roma si sia trattenuto sino al 1241, anno in cui, il 22 agosto, moriva Gregorio IX e, il 25
ottobre, veniva eletto papa (quasi certamente imposto da Federico II) da un conclave
composto da soli sette cardinali (i prelati tedeschi e francesi, scampati alla morte, dal 3
maggio erano tenuti prigionieri dall’imperatore nelle carceri del regno di Sicilia, dopo la
sconfitta delle navi genovesi e papali dell’isola del Giglio) quel Goffredo Castiglioni,
che, di estrazione monastica, sedette, col nome di Celestino IV, sul trono pontificio solo
per diciassette giorni e morì (come?) il 10 novembre ancor prima della consacrazione.
Da Roma ed “alla volta di Sulmona con l’obiettivo di raggiungere il Morrone e
stabilirvi la propria dimora, Pietro partì nell’autunno del 1241”573, per allontanarsi, con
ogni probabilità, dalla nuova situazione politica, che, almeno momentaneamente, era
venuta evolvendo in direzione decisamente più favorevole all’imperatore.
Determinato a riprendere una vita di isolata solitudine anacoretica e di condurla
sempre all’interno della Chiesa, al ritorno da Roma Pietro, deluso e, per ora, distaccato
dagli accadimenti politici, trova un Morrone che gli appare troppo affollato di eremiti.
Tanto che, per evitarli, si vede costretto a ritirarsi in spelonche sempre meno accessibili
di quella Maiella, che, come dimostra la successiva frequente toponomastica per i loci
frequentati dai monachi della religione dei celestini “de Majella”, diventerà la montagna
simbolo della congregazione di eremiti che, quasi spontaneamente e con gradualità, da
questo momento viene a formarsi intorno a lui, che doveva possedere buone capacità
organizzative ed una certa predisposizione al comando.
Il ‘movimento’, formatosi intorno a Pietro nel successivo ventennio e su un’area
che è geograficamente assai vasta, a parte la forte specificità eremitico-anacoretica che
lo caratterizza, aveva, in ogni caso, non poco in comune con la laicalità della originaria
fraternitas francescana; ed è sicuramente in forte crescita. Anche se, proprio mentre
l’Ordo fratrum minorum diventa tale, distruggendo le fonti autentiche (con la rinuncia
allo spirito più originario) ed avviandosi a conformarsi alle disposizioni unificatrici
dell’era bonaventuriana, papa Urbano IV (il francese Jacques Pantaléon, che sta creando
le condizioni politiche favorevoli alla sconfitta degli Svevi ed – anche se non vedrà mai
arrivarlo a Napoli – alla discesa di Carlo d’Angiò) “con lettera del 1° giugno 1263 da
Orvieto, delega il vescovo di Chieti Nicola di Fossa ad incorporare il rettore e i monaci
dell’eremo di S. Spirito di Maiella nell’ordine di san Benedetto [a]. Il 2 giugno il papa
pone sotto la protezione della santa Sede l’eremo di S. Spirito di Maiella, dell’ordine di
san Benedetto, e gli conferma i suoi beni. Il vescovo Nicola di Fossa incorpora i monaci
572
E’ l’opinione della gran parte dei biografi. Pur tuttavia, vi è anche chi sostiene che “è probabile che
abbia soggiornato a Sant’Eusebio e a San Pietro in Montorio” (GURGO O., Celestino V e gli spirituali,
Novara 1998), monasteri che saranno in un secondo tempo le istituzioni celestiniane a Roma.
573
GURGO O., Celestino V … cit., pag. 44.
nell’ordine benedettino e ne costituisce il primo rettore con privilegio dato a Chieti
probabilmente il 20 giugno 1263”574.
In ogni caso il “rector” ed i “fratres eremi Sancti Spiriti de Magella”575, con
quella ‘incorporazione’ (rispettosa, tra l’altro, delle canoniche disposizioni conciliari),
godono della legittima, e scritta, autorizzazione delle istituzioni religiose. Non solo; ma
appare sin troppo evidente che, con essa, in quel modo e sin da allora, risulta già fondata
giuridicamente e legittimamente una nuova ‘congregazione’, seppur nella tradizione
benedettina. Tanto che Pietro, consapevole di questa situazione nuova, da ora “inizia una
intensa attività di spola tra le località abruzzesi della Maiella e del Morrone, della
campagna romana (sicuramente Ferentino, Anagni e Sgurgola, in diocesi di Anagni) ed
anche del territorio molisano576 (la prima di quest’ultimo sembra essere Isernia) per
organizzare il crescente movimento religioso”577.
Ulteriori e seri problemi, riguardo alla ricostruzione della vita di Pietro, vengono
dai tentativi di falsificare, anticipandola, la data della bolla di ‘conferma’ da parte di
papa Gregorio X della “religione dei celestini”. Va detto che la storiografia del XVII
secolo, contrariamente a quella che è l’evidenza dei fatti ed, appunto, falsificandoli, è
portata a far essere presente Pietro a quel concilio di Lione, che, aperto il 7 maggio, dura
574
MOSCATI A., I monasteri ... cit., pag. 105. Si trascrive, ritenendolo di grande interesse, il testo della
lettera di papa Urbano IV, riportato in nota [a] dalla Moscati:
“Urbanus episcopus servus servorum Dei. Venerabili fratri episcopo Theatino. Salutem et apostolicam
benedictionem.
Cum, sicut ex parte dilectorum filiorum rectoris et fratrum heremi Sancti Spiriti de Magella tue dioecesis
fuit propositum | coram nobis, ipsi qui nullius ordinis observantiis sunt astricti, ordinem beati Benedicti
profiteri, sique incorporari | desiderent, et ipsius informari etiam institutis, nos, eorum propositum favore
benevolo prosequi cupientes |, fraternitati tue per apostolica scripta mandamus quatenus, si est ita et eis
facultates proprie suffragantur |, adeo quod idem ordo possit ibidem perpetuis temporibus observari;
eundem ordinem in heremum ipsam, | si expedire videris, inducas easque incorpores ordini memorato,
sine iuris praeiudicio alieni.
Datum | apud Urbemveterem kalendas iunii pontificatus nostri anno secundo”.
575
Pare sin troppo evidente in tale titolazione, cui si conformeranno molti dei ‘loci’ celestiniani, le
influenze delle idee millenariste e della cultura di Gioacchino da Fiore.
576
“L’8 ottobre 1272 Filippo Beneventi di Chieti e Glorietta sua moglie donano a Placido, procuratore di
S. Spirito di Maiella, una vigna in Isernia nel luogo detto Pons de Arcu, per costruirvi la chiesa di S.
Spirito. Più che di una nuova costruzione, si tratta di una ricostruzione (avvenuta poco dopo, perché la
chiesa è nominata nella bolla di Gregorio del 1275); ad essa infatti accenna Matteo, vescovo d’Isernia, in
un documento del settembre 1276, con cui si rivolge ai seguaci di Pietro del Morrone residenti apud
Yserniam nella chiesa dedicata a S. Spirito e a S. Benedetto [*]. La chiesa divenne poi un priorato; si sa
infatti che il 3 marzo 1291 Nicola, priore di S. Spirito di Maiella di Isernia, concede, per ordine di Pietro,
vigne e beni a Dionisio di Sulmona, abitante in Isernia” (MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 110). In
nota [*] la Moscati riporta che: “anche questo documento è inserito nella bolla di Nicola IV, ...: «Matheus
ecclesie Ysernien. Episcopus religiosis viris fratri Petro de Murron. Abbati ecclesie sancte Marie in
Fayfulis, Beneventan. Diocesis, ac universis fratribus suis apud Yserniam commorantibus in ecclesia
Sancti Spiritus de novo constructa tam presentibus quam futuris, sancti Benedicti ordinis ...» ; esenta
dalla giurisdizione episcopale «... oratorium vel ecclesiam quod per vos de novo constructam est ad
honorem Sancti Spiritus et beati Benedicti ... in territorio civitatis predicte in loco ubi dicitur Pons de Arcu
...»”. Nel 1295 priore di S. Spirito di Isernia risulta Tommaso di Civita di Penne.
577
BOZZA F., Pietro … cit.
poco meno di tre mesi e si conclude già verso la fine del luglio 1274578. E, pur di ottenere
tanto, ricorre ad attribuire al documento la data del 21 marzo 1274, quando
evidentemente il concilio stesso non è neppure iniziato e non ha potuto ancora stabilire
che “omnes ordines per apostolicam sedem non approbatos (nota: ma quello di Pietro
era stato autorizzato già da oltre un decennio) in hoc concilio ... debere cassari”. “Ma la
data della bolla è però il 22 marzo 1275: infatti il giorno segnato (11 Kal. Aprilis) è
appunto il 22 e l’anno 1275 risulta dal calcolo dell’indizione (la terza) e dall’anno (il
terzo) del pontificato di Gregorio X. L’anno 1274 segnato nella bolla segue lo stile
dell’incarnazione al modo fiorentino”579. L’originale del documento pontificio risulta,
peraltro (coincidenza, ancora una volta, parecchio importante), introvabile580.
Del resto, oltre al fatto che la data del marzo 1274 è anticipata rispetto al concilio,
Pietro è (senza scomodare le capacità taumaturgiche derivantigli dalla futura santità)
nella impossibilità pratica di prevedere gli argomenti in discussione ad un concilio che,
quando, nel novembre 1273, sarebbe partito (per potervi essere presente), è ancora tutto
da preparare e da organizzare. Cosa che porta a spostare la partenza al novembre 1274 (e
la data della bolla al marzo 1275), quando i lavori di quel concilio sono già terminati,
rendendo compatibile il fatto che (v. la Vita “C”) “«audiens vir iste sanctus omnes
ordines per apostolicam sedem non approbatos in hoc concilio ... debere cassari ...
Exposuit se illuc ire». [...]. L’eremita si mise dunque in cammino con due compagni
(Giovanni d’Atri e Placido de Morreis) nel novembre del 1274”581. Qualche giorno
prima, egli, consapevole (e la circostanza è più che significativa) della validità giuridica
della autorizzazione già in suo possesso, aveva fatto “pubblicare il 28 ottobre 1274 la
prima conferma della sua comunità, approvata da Urbano IV nel 1263: il documento fu
presentato dal monaco Roberto (nota: è il fedele ‘socius’ Roberto “de Sale”?), per suo
incarico, al giudice Tommaso di Sulmona”582.
Ma perché, allora ed atteso che quel suo viaggio non è in alcun modo collegabile
al concilio, Pietro va in quel momento a Lione?
578
“Notizie della presenza di Pietro al concilio, ..., si trovano nel Marino (pp. 151-53); nella biografia
pubblicata da C. TELERA, Historie sagre degli huomini illustri per santità della Congregazione de
Celestini dell’ordine di S. Benedetto, Bologna 1648 – Napoli 1689, p. 241; e nel CELIDONIO (II, p. 33),
il quale dice inoltre che Pietro giunse a Lione nel febbraio del 1274, poiché si basa sulla datazione della
bolla pontificia in favore del monaco, che attribuisce al 21 marzo 1274 (nota: ma in tale data il concilio
ancora non iniziava)” (MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 116).
579
MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 116. La Moscati suggerisce di “confrontare in tal senso anche le
osservazioni del BAETHGEN [Beitraege zur Geschichte Coelestin V (Schriften der Koenigsberger
Gelehrten Gesellschaft, 10 Jahr., Heft 4), Halle 1934], p. 273, nota 4”. “E’ noto che il computo fiorentino
presentava il difetto di una unità rispetto a quello moderno nei mesi di gennaio e febbraio e fino al 24
marzo, mentre dal 25 marzo fino al dicembre la datazione corrispondeva al computo moderno degli anni”
(GALANTE M., Per la datazione dei documenti beneventani editi e inediti di epoca longobarda, in ASPN
1975, Napoli 1976, pag. 73), perché era un metodo che partiva ab incarnatione (e non a nativitate).
580
Dalla più volte citata MOSCATI si sa che “è pubblicata da P.M. CAMPI, Dell’historia ecclesiastica di
Piacenza, II, Piacenza 1651, pp. 446-48, n. 169, che l’ha copiata nell’Archivio di S. Eusebio in Roma, e
dal Marino, pp. 154-57, che l’ha portata dall’Archivio di S. Eusebio a quello di S. Spirito di Sulmona. [...].
Una copia è un documento del 12 giugno 1275 (cf. CHIAPPINI, p. 137, n. 45) e una parziale (...) è nel
cod. VII, B 12, ff. 7v-8v (ms. del sec. XVII) della biblioteca Brancacciana di Napoli”.
581
MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 115.
582
MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 115.
Il motivo (o, potendo essere più di uno, i motivi) evidentemente deve essere
cercato altrove. E, se proprio ci si deve riferire al sinodo, probabilmente in uno degli
altri grandi temi, che, con la moltiplicazione degli ordini religiosi (frutto, allora, di
esigenze di rinnovamento e di mutate aspirazioni) definito col canone 23 Religionum
diversitatem, erano stati dibattuti: la fusione dell’ordine dei Templari con gli
Ospitalieri583, il trasferimento del papato in Francia584 ed il tentativo di riunificazione,
superando le divisioni dello scisma del 1054, della chiesa greca con quella romana.
Argomenti tutti che, ben più della conferma ad una congregazione già approvata,
possono rappresentare un indizio condivisibile per una vera motivazione che rimane
tutta da accertare. E’, difatti e prima di tutto, certo che Pietro (il quale appare sempre
meno come asceta ed eremita solitario) “giunse in quella città ove prese alloggio in una
casa appartenuta allora a’ Templari e che di presente è un monastero del suo ordine”585.
Ed è, poi, pure certo che da allora egli diventa uno strumento, tanto visibile ed esposto
quanto utilizzato, dei progetti politici degli angioini e della loro angioinizzazione. E da
quel preciso momento, infine, lo si trova legato allo spirito delle idealità ed al modo di
essere residuale della grecità ancora presente.
E, se si deve dare credito al documento confermativo, non originale, del 22 marzo
1275, l’Ordo Sancti Spiritus de Majella et fratris Petri prioris dicti Monasterii, che è la
“caput congregationis”, ha una consistenza aggirantesi intorno alle seicento unità di
persone sparse su sedici ‘provvedimenti’ o loci, tra cui S. Spirito di Isernia.
583
Proprio nel corso del concilio di Lione del 1274 “fu vagliato quel progetto di fusione <tra i Templari e
gli Ospitalieri> che rischiava di ridurre il Tempio ad un vasto salvadanaio senza serratura che i sovrani
europei avrebbero saccheggiato per i loro interessi” (FRALE B., Il Papato e il processo ai Templari,
Roma 2003, pag. 36).
584
GATTO L., L’allontanamento della sede pontificia da Roma nelle proposte della casata angioina e di
Pierre Dubois, in Aspetti culturali della società italiana nel periodo del papato avignonese, Todi 1981.
“... Non bisogna dimenticare che esso [= il progetto del trasferimento del papato in Francia] ebbe origine
dalle convinzioni angioine di legare la politica papale a quella angioino-francese e inoltre dall’intenzione
di connettere saldamente a tali ambienti anche l’impero, ..., e di collegarlo più ancora alla corona francese
e alla figura del sovrano Filippo l’Ardito. Tali convinzioni si riflettono in un altro, assai precedente
progetto di trasferimento del papato, questa volta del 1273. Gli avvenimenti ispiratori sono abbastanza
noti: siamo nell’estate del 1273 ed è pontefice Gregorio X, allora in viaggio da Orvieto a Firenze verso
Lione nell’intento di realizzare un Concilio ecumenico e convinto della necessità di indurre gli Elettori ad
una più rapida scelta di un imperatore il quale si assuma il compito di organizzare la nuova crociata. Carlo
d’Angiò, d’intesa con il nipote e con alcuni influenti cardinali francesi, spedisce verso la Curia stanziatasi
a Firenze una missione diplomatica incaricata di chiedere a papa Gregorio il parere della Chiesa romana su
una possibile accettazione della candidatura imperiale affidata a re Filippo III.
[...]. Proprio per impedire che in avvenire il ripetersi di tali situazioni [= i fatti del conclave di Viterbo
(1268-1271)] intralciasse ancora la vita della Chiesa e del papa, gli ambienti politici legati a Carlo I
d’Angiò ed a Filippo III intendevano precostituire una situazione che prevedesse l’allontanamento del
papa da Roma e dagli intrighi politici connaturati alla città stessa. Tale allontanamento avrebbe contribuito
a rendere meno precaria e soggetta la vita della Curia, liberata dalle preoccupazioni temporali e quindi da
molte delle ragioni che la rendevano legata alle famiglie romane” (v. ivi, pag. 242 e segg.) ed alle
opposizioni fomentate ancora dalle fazioni ghibelline non ancora annientate.
585
RACINE B., Storia ecclesiastica, 1781, VIII, pag. 116. La stessa Chiesa di S. Maria di Collemaggio
sembrebbe essere stata costruita, in appena un decennio circa, per “un incarico dato dai Templari a Pietro
– che avevano aiutato a Lione – per costruirla appunto” (LOPARDI M.G., Il collemagico di Celestino,
L’Aquila-Roma 2000, pag. 82 e seg.).
Nel 1276, Pietro, che evidentemente non è più (o, almeno, non è solo) un’eremita
solitario e sconosciuto, o semplicemente perché è un uomo assai soddisfatto per la piega
assunta dagli eventi e tanto entusiasta che “cominciò a fondare o restaurare chiese e
monasteri”586 oppure, più probabilmente, perché è strumento, più o meno consapevole,
nelle mani della angioinizzazione587, viene chiamato dall’arcivescovo di Benevento,
Romano Capoferro (che lo vedemmo partecipare alla incoronazione di Manfredi, essere
scomunicato ed ottenere l’ assoluzione – a condizione di favorire Pietro, forse da ciò
costretto a recarsi nella città francese? – proprio nel concilio di Lione), a rimettere
ordine nella vita, diventata alquanto rilassata e dissoluta, del monastero di S. Maria di
Faifoli, che, per l’avvenuta soppressione della diocesi di Limosano (accorpata a
Benevento) con l’arrivo degli angioini, è passato sotto la diretta giurisdizione
arcivescovile. Che la venuta “del monaco in S. Maria di Faifoli dovette avvenire proprio
nel 1276” lo dimostrerebbe “un privilegio di Matteo, vescovo d’Isernia, del settembre
1276, <che> si rivolge a lui chiamandolo abate di S. Maria in Faifoli” 588. La circostanza
per cui, contrariamente a quanto lo stesso Pietro aveva prescritto nelle recenti (1275)
costituzioni della sua congregazione (avrebbe dovuto chiamarsi Prior), assumesse il
titolo di abate porta a pensare per Faifoli ad una osservanza diversa dalla sua (forse
para-benedettina), almeno per un certo periodo precedentemente al suo arrivo.
Ma, trovandosi che “in Nostris annalibus praeclarissimus est, quod A(nno)
D(omini) 1276 Clar(ae) Mem(oriae) Romanus de Capoferris Archiepiscopus S(anctum)
Petrum de Marone [deinde Coelestinum V Pont(ificem) Max(imum)] Abbatem S.
Mariae de Faifolis huius Dioecesis a se designatum consecravit: In qua functione, …
novam Monachorum Eremitarum Congregationem, titulo S. Damiani, sub Regula
vero S. Benedicti, qua postea Coelestinorum vocata est, instituit”589, questa “nova
Monachorum Eremitarum Congregatio, titulo S. Damiani, sub Regula vero S.
Benedicti, qua postea Coelestinorum vocata est”, cosa rappresenta nella economia delle
istituzioni fondate da Pietro?
586
MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 121. La Moscati cita da Analecta Bollandiana 16, pag. 404, n.
15: «coepit vir iste sanctus multa monasteria et loca capere, ...».
587
L’opera di Pietro risulta, e ci si limita ai soli documenti ricollegabili alla politica di angioinizzazione,
sia dal fatto che “il 16 luglio 1278 re Carlo I d’Angiò, da Lagopesole, esenta Pietro, ancora dimorante in
S. Maria di Faifoli, dal venire a Napoli a prestare giuramento di fedeltà per alcuni casali di tale monastero,
essendo il monaco gravemente malato” (MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 123; e documento in
CANTERA B., Cenni storico-biografici riguardante San Pier Celestino, Napoli 1892, p. 22, nota 1) e sia
dal fatto che “il 27 settembre 1278 Carlo I, da Melfi, riceve sotto la sua protezione il monastero di S.
Spirito di Maiella, rivolgendosi a Pietro, abate di S. Maria in Faifoli, e nello stesso giorno, con un altro
mandato, ingiunge al giustiziere di Terra di Lavoro di non far molestare Pietro e i suoi monaci da un tal
Simone di S. Angelo, il quale … voleva due casali ed altri possedimenti di S. Maria in Faifoli, per non
aver i religiosi prestato a costui giuramento sulle terre della suddetta abbazia” (v. ivi).
588
MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 122.
589
Synodicon Dioecesanum Sanctae Beneventanae Ecclesiae, Benevento 1723 (d’ordine del Card.
Orsini), pag. 72. “E nei nostri annali è oltremodo chiarissimo che nell’anno del Signore 1276
l’Arcivescovo di chiara memoria Romano de Capoferro consacrò S. Pietro de Marone (poi Celestino V
Pontefice massimo) abbate di S. Maria di Faifoli di questa Diocesi, da lui stesso precedentemente
designato tale . Nella qual funzione, come riferisce il nostro Ciacconio, istituì la nuova Congregazione
dei Monaci Eremiti, col titolo di S. Damiano, ma nella regola di S. Benedetto, che successivamente
venne detta dei Celestini. […]”.
Sembra certo che essa, che è “nuova” e viene ‘istituita’ a Faifoli (abbazia e dove
il superiore, che ha la facoltà di usare, oltre la “mitram” anche la “crossiam et
baculum” della ritualità greca, ha quel titolo di ‘abbas’, che anche Pietro fa suo), è
anche diversa (con la titolazione, tipica del francescanesimo originario, “di San
Damiano”) da quella autorizzata sin dal 1263 ed ha il compito e la finalità di inserirsi – e
di operare – in un’area che, subito dopo la riunificazione avutasi al recente concilio,
vede riemergere – e, così, essere accolte – le aspirazioni della spiritualità greca ancora
presenti in nicchie definite del territorio590.
Ma, in questo caso, la bolla del 22 marzo 1275, successiva alla assoluzione
dell’arcivescovo Romano Capoferro dalla scomunica per essere stato dalla parte di
Manfredi, era autorizzativa di quale delle due ‘congregazioni’?
Ecco che ci si trova davanti ad una condizione motivazionale che, tra le altre
(come la collateralità con i Templari e/o la partecipazione alle politiche angioine per
portare il papato in Francia) possibili, giustifica non poco quel viaggio di Pietro a Lione,
intrapreso a concilio terminato da diversi mesi. Ad essa, d’altronde, portano i successivi
sviluppi che la “nova Monachorum Eremitarum Congregatio” sembra avere. Difatti,
dopo che (probabilmente nei primi mesi del 1279591) Pietro, lui direttamente, abbandona
– o rinuncia? – Faifoli e dopo che, per sua decisione, anche i circa quaranta monaci
590
In precedenza i rapporti erano stati non poco complicati. Difatti, i documenti di Celestino III e di
Innocenzo III (l’ultimo sembra portare ancora la data del 1204) funzionali alla condanna del fenomeno,
evidentemente diffuso e radicato, dei preti greci che venivano consacrati da un loro vescovo più vicino (il
quale, per parte sua, non godeva della corrispondente pari facoltà di consacrare preti latini nella sua
diocesi) e non dall’ordinario latino avevano prodotto solo una lenta rarefazione, ma non lo sradicamento,
del clero greco. Si viveva, in pratica, una condizione fatta di difficile tolleranza gestita e veicolata verso la
definitiva scomparsa nel tempo più o meno lungo. Sino a quando, nel 1266, con ritardo rispetto alla
restante Italia dove già lavorava a pieno regime, comparve, evidente frutto dei recenti accordi tra il papa e
gli angioini, anche nel meridione l’inquisizione affidata agli ordini mendicanti. In precedenza essa era
stata limitata e non aveva potuto affermarsi operativamente a motivo dell’ostilità da parte degli Staufen.
Federico II, infatti, era riuscito, con il compito di perseguire gli eretici del Regnum Siciliae, a tenere una
struttura inquisitoriale composta da suoi funzionari e dislocata seguendo la suddivisione amministrativa
per giustizierati (MICCOLI G., La storia religiosa, in Storia d’Italia, II, 2, Torino 1974, pag. 609).
Con la conquista angioina, invece, viene assicurato all’apparato ecclesiastico quel sostegno politico pieno
finalizzato alla attività repressiva che comportasse persino anche la soppressione e l’eliminazione fisica di
chi non volesse conformarvisi. In tal senso, la spedizione militare del 1266 era stata concepita dal papa
francese Clemente IV come una vera e propria crociata cismarina (HOUSLEY N., The italian crusades.
The Papal-Angevin alliance and the Crusades against Christian Lay Powers: 1254-1343, Oxford 1982,
pag. 18) contro la “heretica pravitate” dei Saraceni e degli scismatici che avevano precedenza sui
cattolici. E, già dal 1268, re Carlo I, con l’apparente scopo di combattere i sospetti di eresia da una parte e,
dall’altra, con mal nascoste finalità politiche, nomina quattro inquisitori domenicani, ognuno dei quali
viene preposto a ciascuna delle quattro parti (l’Abruzzo, la Terra Laboris, la Puglia e la Calabria con la
Sicilia) nelle quali era stato ripartito il territorio (MICCOLI G., La storia ... cit., pag. 690).
In tale contesto, il problema sia di come le residualità greche li abbiano accolti e sia della fidelitas (o
infidelitas) greca agli Angiò fu centrale negli anni (si ebbero ispezioni e controlli nelle istituzioni
monastiche greche [SCADUTO M., Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale. Rinascita e
decadenza sec. XI-XIV, Roma 1982, pag. 291 e seg.]) che precedettero la unio discussa e ratificata al
concilio di Lione (1274) e che, dal punto di vista politico, era funzionale all’obiettivo della restaurazione
dell’impero latino d’Oriente, caduto nel 1261, perseguito dai sovrani angioini.
591
BOZZA F., Pietro … cit.
dovranno abbandonare quel luogo, essi, più che negli Abruzzi (come sarebbe stato
logico), si dirigono nella direzione del “monastero di S. Giovanni in Piano, «quod paulo
ante acceperant»”592 e che, situato a breve distanza da Apricena, era appartenuto
precedentemente a monaci “ex genere Graecorum”593.
Apparentemente condivisa dagli angioini, tale ‘scelta’ di Pietro, con tutto quanto
ne sarà conseguenza, la si riesce ad individuare anche nel privilegio del 31 luglio 1294,
col quale Carlo II594, oltre ad alcuni loci (pochi e non tutti i già noti) dell’area abruzzese
ed a quelli, tutti, molisani (S. Maria di Trivento, S. Maria di Agnone, S. Spirito di
Isernia, S. Martino di Boiano, S. Spirito di Alife, S. Spirito di Venafro e S. Giovanni di
Cerro595), tra i quali (stranamente, ma non troppo; a meno che, dopo il trasferimento dei
monaci a S. Giovanni in Piano, le eventuali resistenze si siano spostate nel vicino eremo
di Limosano, la cui fondazione da ciò ne avrebbe ulteriore conferma) non vi è
ricompreso Faifoli596, riceve sotto la sua protezione S. Giovanni in Piano di Apricena
592
MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 124. “Questo monastero, abbazia benedettina in rovina, si
trovava nella Puglia alle radici del monte Gargano, nella diocesi di Lucera, non lungi dal mare Adriatico,
in luogo elevato dal quale si dominava tutta la distesa della Puglia piana. Era situato vicino all’attuale
Apricena: infatti i testi 17 e 86 del processo lo dicono S. Johannes in Plano prope Procinam.
I monaci trovarono il monastero in rovina, ma in breve tempo lo ricostruirono e gli recuperarono le chiese
e i possedimenti che da gran tempo aveva perduto, riportandolo allo splendore primitivo.
Sull’epoca di questo trasferimento l’elemento più indicativo è la notizia che la persecuzione di Simone di
S. Angelo durò circa sei anni. Poiché essa dovette cominciare intorno al 1277, il trasferimento dei monaci
da S. Maria in Faifoli a S. Giovanni in Piano viene a cadere intorno al 1283. A conferma di ciò sta il fatto
che due documenti lo indicano come già avvenuto nel 1284. […].
Dai discepoli si sa che nel monastero di S. Maria in Faifoli si trovavano oltre quaranta monaci e tutti
dovettero trasferirsi in S. Giovanni in Piano” (MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 124 e seg.), anche
se “in eo [= coenobio] sexaginta fratres cohabitare possent, quamvis quadraginta reliquit (= possono
coabitarvi sessanta frati, benché ne lasciò quaranta)”.
593
BORSARI S., Il Monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne, Napoli
1963, pag. 64 e seg. “La presenza di monaci greci è testimoniata anche nella parte più settentrionale della
Puglia, ai piedi del Gargano: qui nel 1054 l’abate greco Nicola offriva ad Adamo, abate del monastero
benedettino delle isole Tremiti, il monastero dedicato alla Vergine costruito nella località chiamata «Puteo
fetido», mentre nel marzo dell’anno seguente alcuni cittadini di Ripalta offrivano il monastero e la chiesa
di S. Nicola, posti nella stessa Ripalta, al monastero di S. Giovanni in Piano, posto a 6 chilometri da
Apricena, e che allora era retto dall’abate Giovanni, «ex genere grecorum»” [v. ivi, dove il Borsari cita:
T. LECCISOTTI, Documenti di Capitanata fra le carte di S. Spirito del Morrone a Montecassino, in
Iapigia, n.s., XI (1940), pp. 43-44].
Per approfondimenti su S. Giovanni in Piano, si veda: FIORE M.A., Il monasterio di San Giovanni in
Piano e della SS. Trinità di S.Severo, in: Benedictina 20 (1973), S.167-202.
594
A conferma di tutto sta che Carlo già “il 22 maggio 1294 ordina che non si defraudi il monastero di S.
Giovanni in Piano del possesso di due angoli nel lago di Varano, destinati per la pesca” (MOSCATI A., I
Monasteri ... cit., pag. 135).
595
Sembra poco condivisibile l’opinione della Moscati, la quale, a pag. 137 del suo lavoro più volte citato,
scrive “S. Giovanni di Cerro al Volturno era in diocesi di Campobasso”, sia perché Campobasso,
all’epoca, non era diocesi e sia perché non esiste alcuna possibilità di riferire Cerro al Volturno alla
diocesi di Campobasso. Dovrebbe, e potrebbe, trattarsi, perciò, di qualche monastero sito in una delle tante
contrade ‘Cerro’ dell’ambito territoriale del medio Biferno. Probabilmente a Castropignano.
596
L’esclusione di Faifoli può essere imputata o al fatto che il monastero già rientrava nella protezione
diretta del sovrano angioino oppure, più probabilmente, all’opera di angioinizzazione già molto avanzata
nell’ambito del territorio faifolano-limosanese. A questa seconda possibilità di spiegazione porterebbe la
documentata esistenza di un “Benefizio semplice senza cura sotto il titolo di S. Antonio di Vienna (ma,
con tutte le sue grancie, che risultano essere: S. Maria di Apricena, S. Nicola di Civitate,
S. Lucia di Civitate, S. Giacomo di Apricena, S. Spirito di Apricena, S. Pietro di
Apricena, S. Laurenzio di Apricena, S. Nicola di Apricena, S. Lucia di Apricena, S.
Giovanni di Brancia con il suo ospizio, S. Arcangelo di Lesina, S. Nicola di Lesina, S.
Angelo di Sannicandro, S. Nicandro di Sannicandro, S. Giovanni di Rodi, e due
pescherie, una nel lago di Varano e l’altra in quello di Lesina.
Un ulteriore elemento di conferma sarebbe individuabile nel fatto che, mentre
l’Ordine francescano sta diventando sempre di più l’espressione dei “fratres communi”,
questa seconda congregazione di Pietro, più avanti nel tempo (precisamente nel 1294 e
proprio per disposizione dello stesso papa Celestino V), accoglierà al suo interno, anche
se come semplice espressione autonoma e solo sino al 1295 (per la revoca da parte di
Bonifacio VIII dei provvedimenti del predecessore papa Celestino), quel movimento dei
“pauperes eremite domini Celestini” o dei Fraticelli di Pietro (Frate Liberato) da
Macerata e di Pietro da Fossombrone, che si farà chiamare Fra Angelo Clareno;
entrambi frequenteranno non poco il mondo orientale e si recheranno anche in Grecia
per un certo periodo.
Questo movimento, tra le cui persone più rappresentative è anche Tommaso da
Trivento, sfocerà in seguito nell’eresia (verranno perseguitati ed inquisiti nei primi anni
del ‘300 anche nei territori di Frosolone, di Trivento e di Roccamandolfi)597.
Di Pietro, dopo l’esperienza di Faifoli, si perdono quasi le tracce. Sino al giugno
del 1293, quando, col trasferimento della casa madre del movimento ‘abruzzese’ da S.
Spirito di Maiella a S. Spirito del Morrone, decide (e sarebbe da chiedersene i motivi) di
lasciare l’area della prima montagna per stabilirsi in quella sulmonese del Morrone. E va
ad abitare l’eremo di S. Onofrio.
più correttamente, Vienne) annesso alla Chiesa Arcipretale di Limosani”. Esso, come risulta
dall’inventario del 1712 (Archivio Parrocchiale di Limosano), disponeva dei seguenti beni (anche se una
annotazione apposta a margine successivamente riporta: “Si legga l’inventario del 1687 à fol. 15 à tergo e
vedrà quanto manca à questo dè beni stabili, tutto per incuria dell’Inventarista Mastrocinque”):
- la Chiesa sotto il tit.o di S. Antonio Abbate <che era situata> nelle pertinenze della sudetta Terra de
Limusani, distante da essa quasi un miglio nel luogo dove si dice Le Macchie. E totalmente diruta, che
non si possano ne meno giudicar le sue vestigia. Le sue coerenze sono circum circa i suoi beni. Fu
dall’E.mo Sig.re Cardinal Orsini Arcivescovo nella Visita del 1693 trasferito nella Arcipretale di S.a
Maria Maggiore;
- un territorio sito nelle pertinenze di detta Terra nel luogo dove si dice le Macchie di capacità di tt.a uno
e misure otto …, le coerenze del quale territorio sono li beni della Menza Arcipretale da tutte le parti.
Il legame tra la angioinizzazione e la diffusione dei monaci dell’Ordine antoniano (o antoniti) sta nel fatto
che quest’ultimo, sorto dopo che le reliquie di S. Antonio Abate, sul finire dell’XI secolo, furono portate
da Costantinopoli a Motte St. Didier, nella diocesi di Vienne, si diffuse proprio nelle località a maggiore
influenza angioina. Come, evidentemente (e non avendone individuate altre nell’attuale Molise), doveva
risultare proprio Limosano.
597
COLOZZA M., Frosolone, dalle origini all’eversione del feudalesimo, Agnone 1931 [IX], da pag. 148
a pag. 159. Con riferimento al Molise, notizie sul movimento dei Fraticelli ed una sintesi del processo
sono in: LA GAMBA F., Chiese e monasteri celestini e vicende dei fraticelli nella Diocesi di Trivento
(dalla fine del secolo XIII al principio del XIV) in A.M. 1978 da pag. 404 a 421; e, sempre in A.M. 1978.
anche FERRARA V., Un memorando processo “inquisitorio” nel Molise del 300.
Per la parte più generale, invece, si veda: FRUGONI A., Celestiniana, Roma 1954 (con ristampa nel
1991), specialmente il Cap. IV dal titolo, assai significativo, “Dai «Pauperes Eremite Domini Celestini»
ai «Fraticelli de paupere vita»”.
Si è, nel tempo, ad oltre un anno da quando è iniziato il conclave (per la morte, il 4
aprile 1292, di papa Nicolò IV); ed anche a circa un anno dalla sua conclusione con la
elezione a papa di Pietro, il quale è, nel frattempo e come mostra l’andamento dei fatti,
diventato ancor più partecipe dei disegni politici angioini.
Carlo II d’Angiò, che ha la necessità, urgente ed indispensabile, di far avallare dal
papa (da un papa) gli accordi sulla Sicilia raggiunti con Giacomo II d’Aragona598, dopo
essersi recato, tra il 21 ed il 29 marzo 1294, insieme al figlio Carlo Martello (dal 1290 re
d’Ungheria ed erede di Napoli; morirà nell’agosto 1295), a Perugia, arriva ad irrompere
sin nella sala delle canoniche riunioni del collegio cardinalizio nel tentativo di
determinare la fine del conclave. Ma è subito costretto ad abbandonare, oltre che la sala
del conclave, la stessa Perugia dall’intervento di quel cardinale Benedetto Castani che
Carlo, nel 1289, a Gaeta non aveva neppure ricevuto. Il successivo 6 (o 7) aprile
troviamo Carlo sul Morrone, dove ha un incontro con il vecchio eremita Pietro de’
Marone, protetto già dagli angioini. Pur volendo escludere la “macchinosa messa in
scena di Carlo con la responsabilità di Latino Malabranca” 599 (il decano dei cardinali
partecipanti al conclave), ipotizzata dalla determinata volontà di estremizzazione dello
Schulz600, l’andamento dei fatti, il concatenarsi tra loro ed il successivo sviluppo degli
eventi evidenziano, nel sovrano angioino, un chiaro disegno politico che si serve delle
cose e delle persone rientranti nell’orbita della Chiesa per essere realizzato.
Che gli interventi di Carlo abbiano contribuito (e non poteva essere diversamente)
a cambiare l’atmosfera riesce a coglierlo lo stesso Stefaneschi601, nonostante questi,
bonifaciano, sostenga che all’esito conclusivo del conclave si giunse casualmente, in
“una qual diffusa pensosità in Conclave, per l’impressione della morte del fratello del
cardinale Napoleone Orsini, nell’invito da parte dell’eremita (nota: perché non pensare
che sia stato concordato e, forse, scritto insieme, se non proprio sotto dettatura, con lo
stesso re?) a voler provvedere d’un capo la Chiesa, portato in Conclave da Latino
Malabranca, e quindi il discorrere sulla santità del monaco anacoreta, in un accenno
(nota: che in realtà era una vera e propria proposta) sulla possibilità di eleggere proprio
lui, subito afferrato dal Malabranca e infine nella rapida elezione”602, a voti unanimi, del
598
FRUGONI A., Celestiniana ... cit., pag. 83. “Carlo che a Figueras il 7 dicembre 1293 aveva concluso,
per la Sicilia, un accordo segreto con Giacomo II d’Aragona, accordo che doveva essere approvato dal
pontefice, alto sovrano feudale della Sicilia, prima dell’entrata in vigore stabilita per il 1° novembre 1294,
aveva assolutamente bisogno che finisse quella vacanza”.
599
FRUGONI A., Celestiniana ... cit., pag. 84, nota.
600
SCHULZ H., Peter von Murrhone, Dissertaz. Università Berlino 1894, specialmente da pag. 20 a 30.
601
Nell’Opus metricum (di Jacopo Stefaneschi, il quale fu nominato cardinale da Bonifacio III), che,
pervenutoci in due versioni, rispettivamente datate 1296 e 1314, fu edito da SEPPELT F.X., Monumenta
Coelestiniana, Paderbon 1921, pp. 1-146.
602
FRUGONI A., Celestiniana ... cit., pag. 84. Il Frugoni, in nota aggiunge che “a far precipitare la
decisione dei cardinali contarono certo moltissimo le notizie sugli sviluppi della situazione nello Stato
della Chiesa: la ribellione d’Orvieto e la sostituzione a Roma dell’amministrazione aristocratica, con un
senatore popoalre. Proprio per discutere di questo s’eran riuniti i cardinali (cf. BAETHGEN, Beitraege
zur Geschichte Coelestins in Schriften der Koenigsberger Gelehrten Gesellsch., 10 Jahr, Heft. 41, Halle
1934, pp. 302-6 e DIGARD, Philippe le Bel et le Saint-Siége de 1285 à 1304, Paris 1936, I, 158-66 e pp.
172-3)”.
vecchio (di circa 85 anni) Pietro, la cui età avanzata, già di per se stessa, porta a
supporre essersi trattato di una soluzione di compromesso. E sicuramente momentanea.
Era il 5 luglio 1294 (esattamente tre mesi dopo l’incontro tra re Carlo e Pietro sul
Morrone) e, dopo una sede vacante durata ben ventisette mesi, la Chiesa finalmente
aveva il nuovo papa.
Per comunicare a Pietro l’avvenuta elezione, il successivo 18 luglio l’ambasceria
ufficiale dei legati del sacro collegio (l’arcivescovo di Lione ed i vescovi di Orvieto e di
Patti) provenienti da Perugia giungono a Sulmona, dove trovano un vecchio “attonitum
tantave super novitate morantem irsutum barba, mestum pallore figura atque genis
maciem ieiunaque membra ferentem, sed tumidum lacrimis oculi velamina nigri
palpebras, rigidumque toga, vultuque verendum”603. Il tutto alla presenza sul monte di
Sulmona di Carlo Martello, inviatovi dal padre ed ivi subito portatosi da Melfi. Pietro,
dopo essersi raccolto in breve preghiera, dichiara la sua accettazione all’arcivescovo di
Lione, che “gli avrebbe annunciato la sua elezione, presentandogli il documento «fultum
cera fultumque sigillis» inviato dal Collegio”604.
“Sceso dal monte, ..., Pietro si porta a Sulmona, dove l’attende re Carlo, che più
non l’abbandonerà. [...]. Scrisse dunque una lettera ai cardinali ancora a Perugia,
avvertendoli che, pel caldo eccessivo, non poteva affrontare il troppo lungo viaggio, e si
recava invece all’Aquila”, per dove presumibilmente partì il 25 luglio. Ed ancora, a
questo punto, verrebbe da chiedersi su chi, Pietro o Carlo, abbia ‘scritto’ le condizioni
per il collegio cardinalizio.
“Entrò (27 luglio) in questa città a dorso d’un asino, tenuto a briglia da Carlo e suo
figlio.”605. Ad Aquila, che era completamente fuori dal territorio pontificio e pienamente
soggetta alla tutela ed alla giurisdizione angioina, decide di fermarsi. Ciò, in palese
contrasto con quanto stabiliva il Caerimoniale Romanum editum iussu Gregorii X (Ordo
Romanus XIII), il quale comandava esplicitamente che, “si fuerit absens vel de Collegio
Cardinalium non fuerit, ad locum in quo Cardinales sunt, in Consistorio venire debet
vocatus et ipse coelectionis de se facit consensum praesente”606.
E, da papa (tale formalmente tra il 9 – o il 10 – di agosto, giorno della morte del
cardinale Latino Malabranca, ed il 17 dello stesso mese, data di una bolla [XVI Kal.
Sept.], che recita “suscepti a nobis apostolatus officii anno primo”607, formula tipica
usata dal pontefice eletto e non ancora consacrato), decide anche di prendere il nome di
Celestino. Così, d’ora in avanti, è (e sarà) Celestino V. Ha accettato l’obbedienza e,
dopo il bacio dei presenti, ha impartito al popolo la sua prima benedizione da pontefice,
prima di tornare “ad cameram suam”.
603
STEFANESCHI J., Opus metricum, ed. Seppelt cit., pag. 44. “Confuso per tanta novità, vivente con
una ispida barba, mesto nel pallore della figura e dell’aspetto e che per i digiuni riesce appena a muovere
le membra, ma tumido negli occhi di lacrime, con le palpebre di velame di nero, nella toga rigido e col
volto macilento”.
604
FRUGONI A., Celestiniana ... cit., pag. 86.
605
FRUGONI A., Celestiniana ... cit., pag. 87 e seg., passim.
606
In Museum Romanum, II, Parigi 1689, pag. 221. E’ citato dal Frugoni (v. pag. 88, nota). “L’eletto, nel
caso sia assente o non fosse del collegio dei cardinali, deve venire nel luogo dove sono i cardinali in
concitoro e con la sua presenza egli stesso deve darne il consenso”.
607
FRUGONI A., Celestiniana ... cit., pag. 91.
“Ma una bolla di Celestino V del 21 agosto, conservata in originale nell’archivio
dell’Abbazia di Trisulti, così datata: «datum Aquilae .xii. kal. Septembris Pontificatus
nostri anno primo»”608, che (ed i motivi di una fretta, per creare il fatto compiuto, da
parte sia di Carlo II che dello stesso Celestino ci sarebbero stati tutti) proverebbe,
insieme con una propria cerimonia svolta separatamente da quella della incoronazione,
una consacrazione avvenuta già tra il 17 ed il 21 agosto609. Alcuni giorni prima, cioè, di
quel 29 agosto 1294, che rappresenterebbe in questo modo il giorno della sola cerimonia
dell’incoronazione, che, stando a Tolomeo da Lucca, con la straordinaria partecipazione
di “plus quam 200.000 hominum”, si svolse nella chiesa ‘templare’ di Collemaggio, che
parrebbe da poco costruita ad Aquila, in circa un decennio appena, per “un incarico dato
dai Templari a Pietro – che avevano aiutato a Lione – per costruirla appunto”610.
Oltre al legame con l’ordine del Tempio, è già emerso che Celestino, da quando
era ancora Pietro, era stato ostaggio dei regnanti angioini611. Ed, inevitabilmente, ora che
ha il potere, oltre ad esserlo diventato anche per gli appetiti delle burocratizzate
608
FRUGONI A., Celestiniana ... cit., pag. 92. L’Abbazia di Trisulti è in provincia di Frosinone
FRUGONI A., Celestiniana ... cit., pag. 92. Il Frugoni documenta, nella nota (che si trascrive
integralmente), la celebrazione delle due distinte cerimonie a distanza di alcuni giorni. “Nella Vita di
Tomaso da Sulmona si parla soltanto di incoronazione, il 29 agosto: «cumque pervenisset ad civitatem
Aquilae anno domini .MCCLXXXXIIII., fecit illuc ceteros cardinales advenire, coronam et tantum
apostolicum illuc apportari, quae suscepit honorabiliter in decollatione sancti Johannis Baptistae cum
maxima comitiva populorum» (Anal. Boll., XVI, p. 418). Così nella bolla dello stesso Celestino V: «Nos
qui in S. Johannis Baptistae Decollatione capitis in ecclesia S. Mariae de Colle Madio Aquilano ord. S.
Ben. suscepimus diadema impositum capiti nostro insigne» (RAYN., Annales Eccles., ad a. 1294, paragr.
13). Infine nella frase di Tolomeo da Lucca par di cogliere una distinzione fra i due avvenimenti,
consacrazione e incoronazione: «Papatum recepit venitque Aquilam, ubi tunc fixit sedem, ibidemque
consecratur et coronatur, fueruntque in sua coronatione plus quam 200.000 hominum, et ego interfui»
(Hist. Eccles., L. XXIV, cap. 29, in R.I.S., II, 1199)”.
610
LOPARDI M.G., Il collemagico … cit., pag. 82 e seg. “Invero Antonio Serramonacesca riferisce che
già nel 1281 i due monaci (nota: il molisano Stefano di Calvelli e Bartolomeo di Trasacco) avevano svolto
le pratiche di acquisto e che nel 1283 «il pio eremita aveva la gioia di veder gettate le fondamenta della
chiesa che poi verrà bella come un merletto uscito da mani di fate». [...]. Santa Maria di Collemaggio
venne consacrata nel 1288 e nel 1294, anche se forse non completata in tutto, poté essere teatro
dell’incoronazione di Celestino”. L’opera del SERRAMONACESCA, citata dalla Lopardi (v. pag. 83), è:
Celestino V, L’Aquila 1965.
611
Tra i tanti interessi, Carlo di uno in particolare doveva avvertire l’urgenza, se è vero che, tra le molte
altre concessioni, ricevette da Celestino “quella per cui il papa differì al futuro 29 giugno il pagamento del
censo (ottomila once l’anno), da cinque anni dovuto dal re di Sicilia alla Chiesa” (MOSCATI A., I
Monasteri ... cit., pag. 149 e seg. La Moscati deriva la notizia da: SCHIPA M., Un principe napoletano
amico di Dante (Carlo Martello d’Angiò), Napoli 1926, pag. 132).
609
gerarchie della Chiesa612, sta per esserlo maggiormente per gli esponenti della sua
congregazione, per la quale “in questo periodo emanò una serie di disposizioni”613.
Tralasciando quelle con effetti particolari, sembra che due decisioni, tra tutte
quelle prese durante il suo pontificato, portano a conseguenze più generali.
La prima è nel fatto che il 18 settembre, da Aquila, “elegge nel concistoro dodici
cardinali di cui due celestini, e precisamente Tommaso d’Ocre, eletto cardinale del titolo
di S. Cecilia e camerlengo di santa Chiesa, e Francesco d’Atri, eletto cardinale del titolo
di S. Lorenzo in Damaso. Il primo rimase in carica anche sotto Bonifacio VIII e morì il
29 maggio 1300; il secondo morì il 13 ottobre 1294. In sua vece fu eletto Giovanni da
Castrocielo, cardinale del titolo di S. Vitale. L’elezione avvenne probabilmente a Teano,
tra il 23 e il 28 ottobre, mentre gli altri cardinali, già a Napoli, erano all’oscuro di
tutto”614. La lista originaria (alla cui stesura partecipano i cardinali Ugo di Aycelin,
Matteo Rosso Orsini e Giacomo Colonna) dei dodici cardinali eletti “su indicazione di
Carlo, che voleva garantirsi il futuro”615, oltre ai due esponenti della “religione
celestina” (uno, Francesco d’Atri, del ramo ‘abruzzese’ e l’altro, Tommaso d’Ocre, del
ramo ‘molisano’ “titulo Sancti Damiani”), comprendeva altri tre italiani (il benedettino
Pietro dell’Aquila, Landolfo Brancaccio di Napoli ed il bergamasco Guglielmo Longo, il
quale è il cancelliere stesso di Carlo II) e sette francesi (il cistercense Robert de
Pontigny, il cluniacense Simon d’Armentier, Guillaume de Ferrières, Simon de
Beaulieu, l’arcivescovo di Lione Bérard de Got, Jean Le moine e Nicole de Nonancour).
L’altra è nella formula, particolarmente innovativa, della bolla del 29 settembre, da
Aquila sempre, con cui, relativamente ai peccati commessi «a baptismo, absolvimus a
culpa et a poena», “accorda indulgenza plenaria perpetuamente a coloro che, confessi e
612
Già il FRUGONI (Celestiniana ... cit., pag. 88) aveva registrato che, non appena Pietro arriva a Aquila,
“subito «nondum veniente senato», i «napoletani» si fanno avanti: Bartolomeo da Capua è nominato
notaio apostolico, Giovanni da Castrocoeli, arcivescovo di Benevento, è nominato Vicecancelliere”.
Probabilmente proprio da questo momento, entra a far parte della burocrazia della Cancelleria Apostolica
quel nuovo scrittore N. de Limos<ane> (Nicolò da Limosano), “personaggio ben segnalato dai
documenti pontifici che vanno dal 5 settembre 1294 al 28 gennaio 1300. Con molta probabilità fu dunque
Celestino V a portarlo nel collegio degli scrittori, dove rimase anche al tempo di Bonifacio VIII” (PECE
F., Celestino V cerca casa, in Il Tempo Molise di martedì 21/10/1997).
613
MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 142.
614
MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 143. Dal lavoro della Moscati si ricavano le seguenti notizie:
Tommaso d’Ocre era stato “prima abate del monastero di S. Giovanni in Piano”; Francesco d’Atri era
stato “uno dei primi seguaci di Pietro, priore di S. Spirito di Maiella e in seguito abate dello stesso S.
Spirito; Giovanni di Castrocielo (su questo personaggio, definito dallo Stefaneschi «virum terrena
colentem», dal passato burrascoso e grande opportunista, oltre che, come già è stato notato, di parte
guelfa, si veda: DIGARD G., Registres de Boniface VIII, pag. 182 e seg.), infine, fu, probabilmente
favorito dagli angioini, “prima arcivescovo di Benevento e vice-cancelliere di Celestino V. Passando
dall’ordine benedettino a quello morronese pochi giorni prima della elezione a cardinale, aveva cambiato
il suo nome in Pietro. E’ interessante notare che Giovanni da Castrocielo, il 15 settembre 1294, aveva
rinunziato ad ogni sua giurisdizione sul monastero di S. Giovanni in Piano in favore dell’abate Tommaso
di Ocre, rinunzia accettata sempre nel settembre da Celestino V”. E la Moscati conclude che “il monastero
di S. Giovanni in Piano, retto da un abate appartenente alla comunità di Celestino V, si era in tal modo
svincolato da ogni ingerenza esterna”. E, siccome “solo in seguito Celestino V aggregherà il monastero
stesso a S. Spirito di Sulmona”, verrebbe in tal modo confermata l’ipotesi, più sopra avanzata,
dell’appartenenza quasi ad una organizzazione diversa da quella sviluppatasi in Abruzzo.
615
FRUGONI A., Celestiniana ... cit., pag. 93. Per l’elenco, si veda anche: HERDE P., Coelestin V … cit
pentiti, visitino ogni anno la chiesa di S. Maria di Collemaggio di Aquila dai vespri della
vigilia fino a quelli della festività della decollazione di san Giovanni Battista (29
agosto), giorno in cui Celestino V era stato incoronato nella suddetta chiesa”616.
Col trasferimento da Aquila a Napoli (6 ottobre – 5 novembre), durante il quale
compie il tentativo di risanamento al monastero di Montecassino617, Celestino, nella cui
psicologia di vecchio c’è il rimpianto per le sue abitudini e per i suoi trascorsi, sembra
prendere coscienza del suo stato di sudditanza e dell’impossibilità, in quanto cosa più
grande di lui, di riformare la Chiesa.
Non solo; ma avviene anche di trovarsi ‘scaricato’ dal sovrano angioino (deluso,
forse, dal fatto che non riesce a trasferirsi in Francia).
E, pur se sembrerebbe che il documento (con la decisione definitiva) sia stato
scritto già il 10 (e da “un actor di quel testo della rinuncia, che solo lui sapeva” come poi
sarebbero andate le cose), “inaspettatamente, il 13 dicembre, il pontefice lesse, dopo
aver chiesto di non essere interrotto, nel solenne Concistoro”618 dei cardinali la formula
dell’abdicazione propria, libera e spontanea. E si spogliò, sembra, anche del suo abito
da papa per tornare ad indossare quello, a lui più congeniale, dell’anacoreta: era, infatti,
appena tornato ad essere Pietro de’ Marone semplicemente.
Al “gran rifiuto” ne seguì, sempre a Napoli, un conclave di soli undici giorni, che,
già il 24 dicembre, eleggeva Benedetto Caetani (o anche Gaetani), che, fatto cardinale da
616
MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 144 e segg., passim. Dal punto di vista giuridico la tipologia di
indulgenza plenaria concessa “universis Christi fidelibus” da Celestino V risulta molto innovativa e, per
certi versi, rivoluzionaria. Se, in precedenza, l’istituto dell’indulgenza, utilizzato prevalentemente per la
raccolta di mezzi finanziari necessari alla realizzazione di opere e di scopi materiali, cancellava la sola
pena temporale (e non il peccato né la colpa, la perdonanza celestiniana (ed, in qualche modo, si trattava
della istituzionalizzazione – torna ancora una volta il parallelo con Francesco d’Assisi – del perdono della
Porziuncola, accordato solo verbalmente da papa Onorio III) della bolla del 29 settembre prevede, per chi
si recasse a Collemaggio con animo pentito ed, “in spiritualibus”, in pace con Dio, l’assoluzione sia della
pena che la cancellazione della colpa con la remissione di tutti i peccati come se mai fossero stati
commessi “universis Christi fidelibus” e non solo per chi potesse disporre dei mezzi finanziari “in
materialibus”. Non solo, ma sembrerebbe che la chiesa di Collemaggio, la nuova “ecclesia spiritualis”,
venga indicata e vissuta come alternativa alle basiliche di Roma, sede della vecchia “ecclesia carnalis”.
Sembra quasi di poter cogliere, frutto di un disegno politico-socio-religioso complesso e tutto da indagare
nel personaggio di Celestino, la codificazione del fenomeno-esigenza dell’affrancazione dei cives in
genere e dei pauperes in particolare. Non sarà un caso che Bonifacio VIII, per tamponare gli effetti di
quella rivoluzionaria innovazione e per riportare a Roma potere e flussi di denaro, si vedrà costretto, di lì a
qualche anno, ad indire il giubileo. E nel tentativo, davvero estremo, di riformare la Chiesa in senso e nella
direzione spiritualista sembra di poter leggere una anticipazione, ma allora le motivazioni saranno
diverse, di quanto, dopo la restaurazione bonifaciana, avverrà con la “captivitas Avignonensis”.
617
MOSCATI A., I Monasteri ... cit., pag. 151. Pietro, forse più a motivo delle richieste di chi gli stava
intorno che per volontà sua, Celestino “volle salire a Montecassino. Quivi decretò che il monastero si
aggregasse all’ordine morronese ed ordinò ai monaci di indossare l’abito morronese invece di quello
benedettino. Alcuni monaci si piegarono al volere del papa, altri invece si ribellarono e fuggirono o furono
cacciati da Angelario, monaco morronese eletto dal papa nuovo abate di Montecassino. Celestino V
avrebbe poi introdotto nel monastero cinquanta suoi seguaci”. Tuttavia, “l’annessione non durò a lungo.
Bonifacio VIII, all’inizio del 1295, andando da Napoli verso Anagni, visitò Montecassino: ne derivò la
cacciata dei monaci celestini, l’imprigionazione di Angelario ed il ritorno alla primitiva regola”.
618
FRUGONI A., Celestiniana ... cit., pag. 99.
Martino IV, scelse il nome di Bonifacio VIII619. Il nuovo papa fa subito sapere a Pietro
che avrebbe dovuto seguirlo fino a Roma (la “caput Ecclesiae”, che, politico esperto,
subito stabilì di raggiungere; pur se si ferma ad Anagni), perché, in troppi, stanno
cercando già di contestare la sua elezione; e lui, Celestino, come tale poteva essere
strumentalizzato in una lotta di potere che avrebbe potuto sfociare persino nello scisma.
Dalla foresteria dell’abbazia di Montecassino, dove papa Bonifacio (che ha, nel
frattempo, già deciso l’annullamento degli atti del suo predecessore), con Pietro al
seguito, è salito per ripristinare la congregazione “Monachorum Casinensium”, parte,
probabilmente organizzata da Angelo Clareno (che, uno dei due capi, col nome
cambiato, del movimento spiritualista, fu visto ad Aquila incontrarsi con quel papa
Celestino, che, proprio lui, ha assegnato al movimento la denominazione di “pauperes
eremite domini Celestini”), la fuga del papa dimissionario, che, intorno al 20 gennaio
1295, viene trovato, ma, pur sottoponendolo ad un controllo vigile e discreto, non
portato via, dal camerlengo di papa Bonifacio e dal nuovo abate di Montecassino (che ha
sostituito il celestino Angelario) nell’eremo di S. Onofrio sul Morrone.
Aiutato sempre da alcuni “pauperes eremite” del Clareno620 (i quali, pratici ed
abituati a farlo, riuscivano a muoversi con rapidità sui monti), Pietro riesce a sottrarsi,
con spostamenti frequenti, al controllo degli uomini di Bonifacio VIII e, da questo
momento, anche di re Carlo. Nel mese di marzo, Pietro, che, insieme a quei “pauperes
eremite” che gli danno una mano, ha deciso di fuggire in Grecia621, dopo aver viaggiato
per ben quattro giorni, raggiunge una foresta dell’Apulia (forse il bosco dell’Incoronata,
tra Foggia e Cerignola). Ad aprile ritroviamo Pietro, che ha sempre goduto
dell’appoggio di qualche fedele compagno, a san Giovanni in Piano (e torna ancora,
nella sua vita, l’importanza di questo monastero), dove è riuscito ad ottenere la
collaborazione del priore, che lo nasconde per qualche giorno.
Sempre con l’intenzione di arrivare in Grecia, tra la fine di aprile ed i primi giorni
di maggio, seguendo la costa (lungo la quale sono dislocati numerosi loci appartenenti
alla congregazione monastica fondata a Faifoli), riesce a raggiungere Rodi Garganico, da
dove, dopo aver atteso per qualche giorno a causa delle cattive condizioni del mare,
decide di prendere il largo; ma lo stesso giorno, vinto dal destino (e dalla rassegnazione
di affidarsi ad esso senza più doverlo fuggire) più che dalla forza del mare, è costretto a
619
Sembrerebbe che, durante il conclave, in un primo momento sia risultato eletto l’anziano cardinale
Matteo Rosso Orsini, che, conoscitore delle cose della Chiesa, era il Decano del sacro Collegio. Egli (al
quale – e non a Celestino – Dante, guelfo e addentro delle cancellerie, potrebbe aver riferito il verso “fece
per viltade il gran rifiuto”), ritenendosi troppo anziano per l’incarico cui serviva una persona di gran polso,
avrebbe rifiutato, dopo aver indicato nel più giovane (ha appena 60 anni) Benedetto Caetani l’uomo da
eleggere.
620
“La notte, intorno al fuoco, s’intrecciavano dialoghi fra Celestino e i seguaci di Angelo Clareno, i
«pauperes eremite». E si ricordava spesso una profezia di Gioachino da Fiore il quale aveva sostenuto che
la Chiesa si sarebbe rigenerata a partire dall’Oriente; sicché molti Spirituali si erano rifugiati in Grecia non
soltanto per sottrarsi alle persecuzioni ma anche perché pensavano di prepararsi con il loro Ordine a
realizzare la profezia di Gioachino”. E qui torna, assai evidente, l’influenza della cultura greco-bizantina
sulla personalità dell’abate florense e da questi travasata a Pietro.
621
Tanto che (v. nota precedente) “Celestino pensò che si sarebbe dovuto recare in Grecia per mettersi al
servizio di quell’impresa spirituale”.
fermarsi a Vieste, dove, il 10 maggio, viene preso in consegna dal capitano della città,
che, dopo qualche giorno, lo affiderà al Connestabile regio Guglielmo d’Estendard.
Gli emissari di Carlo II e di Bonifacio VIII, ai quali dalle autorità di Vieste, a
richiesta, viene affidato negli ultimi giorni del mese di maggio, prendono Pietro e lo
conducono al palazzo papale di Anagni, nel quale, arrivatovi a giugno, è trattenuto sotto
rigida sorveglianza per circa due mesi; sino ad agosto, quando, per ordine di Bonifacio,
viene trasferito nella torre del castello di Fumone (a pochi chilometri da Anagni, dove,
in area pontificia ed a breve distanza dal regno dell’angioino Carlo II, il papa aveva
stabilito la sede), nel quale trascorrerà gli ultimi dieci mesi della sua umana esistenza622.
La storiografia risulta divisa anche su quest’ultimo periodo della sua vita: una
parte, quella più equidistante, lo vorrebbe contornato ed assistito da alcuni fedeli
discepoli ed appena rinchiuso in una piccola cella, mentre la parte più accanita contro
papa Bonifacio VIII – che stranamente coincide con quella che ne vorrebbe la nascita ad
Isernia – pretende una sua detenzione coatta ed assai dura ad essere sopportata. Sino alla
morte, che, avvenuta il 19 maggio del 1296, la seconda delle due correnti storiografiche
dice essere avvenuta in modo violento e con un colpo alla nuca 623. Il fatto, però, che il 18
agosto del 1295 (a trasferimento, quindi, di Pietro a Fumone appena già avvenuto) è solo
il preoccupato timore di Bonifacio (il quale, avendolo incontrato per l’ennesima volta, è
ben consapevole dello stato di vecchiaia di Pietro, che sta solo aspettando di morire in
pace) a consigliare ancora di dover impartire una semplice disposizione al priore del
monastero di Collemaggio per richiederne la riconsegna alla cancelleria pontificia della
bolla della perdonanza (precedentemente da lui annullata e cassata), sta a dimostrare
proprio un tipo di prigionia alquanto tollerante e permissivo.
Poiché riguarda, più che la vita di Pietro, il suo personaggio, si aggiunge che, su
pressioni di quel Filippo IV il Bello (1268-1314) che avrebbe voluto anche la damnatio
memoriae di Bonifacio VIII, disposto da Clemente V (1305-1314), il francese Bertrand
de Goth (il papa che, docile strumento nelle mani della dinastia franco-angioina, non
venne mai in Italia; che stabilì la sede papale ad Avignone; che dispose la soppressione
dei Templari, permettendo al re francese di appropriarsi delle loro ricchezze; e che,
infine, autorizzò la costruzione dei conventi francescani di Limosano e di Larino), si
svolse dal 13 maggio al 4 giugno 1306 il processo informativo sulla canonizzazione di
Pietro Celestino, il quale il 5 maggio 1313, col titolo di “san Pietro confessore”, venne
proclamato santo, sempre da papa Clemente V, nella cattedrale di Avignone. I suoi resti
mortali, da dopo la traslazione da Ferentino (15 febbraio 1327), riposano nella chiesa di
Santa Maria di Collemaggio ad Aquila.
622
Per la cattura e la permanenza di Pietro nel castello di Fumone, si veda: MARCHETTI-LONGHI G.,
Pervetusta Fumonis arx, in Archivio della Società Romana di Storia Patria, XLVII (1924).
623
“Tre secoli dopo (nota: quindi – e la circostanza assume un significato assai importante – sempre
durante il XVII secolo) si scoprì nella bozza frontale sinistra del suo cranio una lesione che venne
attribuita alla mano armata di un uomo. Nacque così una seconda versione della morte, secondo la quale
Pietro sarebbe stato ucciso da un sicario del papa che l’avrebbe trafitto con un chiodo. Il 29 agosto 1888
alcuni medici effettuarono un approfondito esame del teschio confermando che l’origine di quella lesione
non era accidentale ma dipendeva dalla mano di un uomo che avrebbe usato uno strumento acuminato
conficcandolo per circa cinque centimetri” (Enciclopedia dei Santi).
Ne è venuto un personaggio sfuggente e, per molti versi, assai poco definibile e
complesso; in ogni caso, è inserito e condizionato dalle accelerazioni e dai cambiamenti
veloci del complicatissimo secolo da lui attraversato.
Di certo appare evidente che, contro il ‘personaggio’624 costruito tra il XVI ed il
XVII secolo con l’opinione comune (ed avallata dall’alto se già nel gennaio 1616 papa
Paolo V approvava le nuove constitutiones dell’ordine, nelle quali figura il dettagliato
elenco delle “Abadie, Priorati e Chiese”) di una storiografia, asservita agli interessi di
parte (non è un caso che quasi tutti i biografi di quel periodo provengano dai ranghi più
elevati dell’Ordine) ed alla quale molto si rifaranno anche i biografi, di estrazione e di
cultura laica, del XIX secolo, sta l’altro ‘personaggio’, quello degli antichi manoscritti,
che si dice nato nel castello di S. Angelo, che è nella provincia dalla quale egli stesso ne
era venuto oriundo e che si trova nei pressi di Limosano, nella cui circoscrizione
religiosa (è significativo che si usi un tale parametro di riferimento geografico e non
l’altro della vicinanza, appena qualche centinaio di metri, con Montagano) situa quel tal
cenobio, il primo (e verrebbe anche confermata la notizia della fondazione della
congregazione “sub titulo S. Damiani”) di essi, nel quale egli stesso ricevette l’abito
monastico, <ed> al quale era <appartenuto> il nome S. Maria di Faifoli, nelle
vicinanze del castello di Limosano e della terra di S. Angelo, dalla quale egli era stato
oriundo (si noti la ripetizione delle stesse parole nelle antiche fonti)625.
E’ quest’ultimo che, scrostandolo da quel fascino particolare che, spesso con gli
interessi di campanile, ha condizionato le indagini e la riflessione, quando non ha
suggerito la manipolazione delle fonti, si è tentato di portare alla luce.
4.4 – La ‘angioinizzazione’
Pur se, rispetto alle limitazioni ed ai freni del periodo federiciano, restaurazioni e
cambiamenti negli apparati e nelle strutture delle feudalità ebbero a verificarsi già con i
successori Corrado IV (1251-1254) e, ancor più, con Manfredi, col quale “sans tomber
dans l’anarchie, l’état tend à se privatiser aux mains des Lancia et de leurs alliés”
provenienti dall’area piemontese626, è con l’arrivo, favorito da accordi627 con un Papato
624
Nasce sei anni dopo e ad Isernia, è quasi un povero illetterato e come incapace a prendere le decisioni,
parte per Lione – per farsi approvare una congregazione già autorizzata e per risultare presente ad un
concilio già chiuso – qualche anno prima di quanto effettivamente sia stato, è fatto morire martire da papa
Bonifacio (v., per quest’ultimo aspetto: GRANO A., La leggenda del chiodo assassino, Napoli 1998).
625
“in castello Sancti Angeli natus dicitur” (Roberto de Sale, 1296?); frequenta il monastero di S. Maria
di Faifoli “quod est in provincia unde ipse exiterat oriundus” (Tommaso da Sulmona, 1303-1306); e
“Petrus de Castello Sancti Angeli, comitatus Molisii, prope Limosanum” e “quorum (= locorum et
monasteriorum) primum extitit coenobium quoddam, in quo et ipse recepit monasticum habitum, cui
nomen erat Sancta Maria in Fayfolis, prope castellum Limosani et Sancti Angeli terram, unde iam ipse
oriundus fuit” (Stefano Litianus, 1471-1474).
626
MARTIN J.-M., L’ancienne et la nouvelle aristocratie féodale, in Le eredità normanno-sveve – Atti
delle quindicesime giornate normanno-sveve, Bari, 22-25 ottobre 2002, Bari 2004, pag. 106 e seg.
627
“Gli accordi, che erano intervenuti fra il Pontefice e il principe francese, erano i seguenti:
a) Carlo d’Angiò avrebbe ricevuto dal Papa l’investitura del Regno di Sicilia;
b) in cambio di ciò si sarebbe dichiarato vassallo del Pontefice;
che è già «francesizzato», di “Charles d’Anjou, à la tete d’une armée de Français et de
Provençaux”, che le modifiche (con le ‘cancellazioni’ sistematiche da parte dei guelfi)
divennero assai profonde e radicali; tanto da interessare molto dei precedenti sistemi e
schemi della organizzazione gestionale ed amministrativa del Regno. E, quanto alla
tempistica, in due fasi ben chiare e distinte, con la seconda di esse assai più decisa della
prima.
“Dès le lendemain de la bataille de Bénévent (1266), qui lui (= Carlo d’Angiò)
ouvre le Royaume, il emprisonne ou bannit les hommes de l’armée de Manfred (a) et
restitue les fiefs confisqués par le régime précédent (b). Peut-etre nomme-t-il quelques
justiciers transalpins, mais il conserve aussi des justiciers régnicoles (c); il s’entoure de
grand officiers français (…). Mais on ne peut parler de purge dans les cadres
administratifs et féodaux du Royaume.
Au contraire, après l’intervention de Conradin et les révoltes qu’elle a suscitées
dans le Royaume en 1268-1269, les biens des proditores sont systématiquement
confisqués; une bonne partie des fiefs se trouvent ainsi vacants, et le roi y place en
quantité Français et Provençaux. Ces inféodations massives se poursuivent en Sicile
jusqu’en 1271 et sur le continent jusqu’en 1274 (d). C’est dans ces années qu’est établi
le Liber donationum Caroli primi, autrefois étudié par Paul Durrieu (e). Ce registre
énumère les concessions royales de 1269 à 1273, de façon abrégée, mais en transcrivant
intégralement les clauses sauvergardant les droits de la couronne: le but de ce registre
n’était pas d’énumérer les concessions, mais de maintenir les droits du roi sur les biens
concédés. C’est donc en 1269 que la «nuova feudalità» fait son apparition dans le
Royaume et dans les cinq années suivantes qu’elle s’y implante. Les concessions
féodales faites à des Français et à des Provençaux représentent le moyen principal, mais
non le seul, de maintenir dans le Royaume des hommes dont le roi avait besoin”628.
c) avrebbe restituito al Papa le terre, che gli Svevi avevano occupato, a cominciare dal ducato di
Benevento;
d) avrebbe abrogato tutte le disposizioni, che dal tempo di Federico II avevano negato i privilegi
ecclesiastici;
e) avrebbe infine pagato un tributo annuo al Papa.
Il trattato pontificio-angioino era importante per la Chiesa, nel senso che esso era stato concepito e redatto
in modo da evitare che si potessero rinnovare per la Chiesa i conflitti ed i pericoli corsi nell’Italia
meridionale dall’epoca del regno normanno a Federico II, e gli attriti suscitati dall’applicazione delle
norme melfitane, per le quali i vescovi erano sottomessi all’autorità regia, la giurisdizione ecclesiastica era
controllata ed occorreva il placet regio per le elezioni ecclesiastiche” (COLITTO F., Il Molise del 200 nei
Registri della Cancelleria Angioina, in AM 1979, pag. 211).
Di fatto, però, si passò da un eccesso all’altro. Tanto che la Chiesa “si concepiva come una società di
istituzione divina, e quindi indipendente dallo Stato, e pretendeva di essere immune dalla giurisdizione
laica e dalle imposte, di vedersi riconosciuto il diritto d’asilo nei luoghi considerati quasi extra-territoriali
e di avere una potestà coercitiva, con la conseguente facoltà di avere magistrati e carceri propri. [...]. Di
immunità personali, locali e reali senza numero godevano gli innumerevoli ecclesiastici, i loro inservienti
e i loro beni. Il foro ecclesiastico aveva la competenza delle cause sia penali che civili; i fondi ecclesiastici
erano esenti da ogni imposta; grandi arbitrii si commettevano nel sottrarre, nelle cause in cui erano
litiganti laici ed ecclesiastici, la giurisdizione al foro laico” (FRATANGELO M., Il sequestro delle
Temporalità nel Regno di Napoli, s. l. [ma Campobasso] 1987, pag. 18 e seg.).
628
MARTIN J.-M., L’ancienne … cit., pag. 107 e seg. Il Martin riporta, e le si trascrivono a titolo di
informazione bibliografica, le seguenti note:
Per quanto riguarda lo specifico molisano, questa «nuova feudalità», che “fut
«massive», au détriment des régnicoles, provoquant une francisation de la Cour et du
milieu féodal”629, in maniera discretamente diversa che altrove, sembra essere formata da
elementi che, favoriti – o imposti – probabilmente dal vincente guelfo-papismo (e per
“servir à rémunérer les services, ou à garder la faveur de personnages qui ne sont ni
régnicoles, ni transalpins”630), provengono, se non proprio direttamente dagli apparati
ecclesiastici, dalle aristocrazie e dalle borghesie finanziarie dello stato romano (e non
solo), il cui emergere, con una tale influenza e con tanto peso economico-politico,
sarebbe probabilmente da collegare alle attività degli ordini cavallereschi (templari e/o
gerosolimitani), “dont certains ont depuis longtemps des intérèts dans le nord du
Royaume et auxquels sa propre politique romaine conduit Charles d’Anjou à
s’intéresser”631. Una tendenza, non poco particolare e curiosa (che fa pensare a forme di
remunerazione di quei precedenti prestiti serviti al finanziamento dell’intervento papalfrancoprovenzale), che sarebbe dimostrata da più di una concessione. Si ha, così, che “le
1er janvier 1270 un certain Pandulfus Petri Pandulfi de Grassis de Urbe (peut-etre un
banquier romain) reçoit le castrum de Petrella (sans doute Petrella Tifernina, prov.
Campobasso)”, “d’autres banquiers romains, Bartolomeo de Crescentio et Paolo
Signorili, reçoivent respectivement un castrum des Abruzzes et un castrum du Molise”
non meglio indicati, “Riccardo di Pietro Annibaldi reçoit en 1270 la moitié d’Agnone
(a) POLLASTRI S., La noblesse napolitaine sous la dinastie angevine: l’aristocratie des comtes (12651435), thèse de l’Université de Paris-X, 1994, reprod. Lille, 2 vol., p. 151.
(b) CADIER L., Essais sur l’administration du Royaume de Sicile sous Charles Ier et Charles II d’Anjou,
Paris 1891 [Bibliothèque des Ecoles françaises d’Athènes et de Rome, 59], p. 5.
(c) Voir S. MORELLI, I giustizieri nel regno di Napoli al tempo di Carlo I d’Angiò : primi risultati di
un’indagine prosopografica, dans l’Etat angevin. Pouvoir, culture et société entre XIIIe et XIVe siècle,
Rome 1998 [Collection de l’Ecole française de Rome, 245. Nuovi studi storici, 45], pp. 491-517.
(d) POLLASTRI S., La noblesse napolitaine cit., p. 151.
(e) DURRIEU P., Etudes sur la dinastie angevine de Naples. 1. Le “Liber donationum Caroli primi”,
dans «Mélanges de l’Ecole françaice de Rome», 6 (1886), pp. 189-228. ID., Etude sur les registres du roi
Charles Ier (1265-1285), Paris 1886-1887, 2 voll. [Bibliothèque des Ecoles françaises d’Athénes et de
Rome, 46 et 51], I, pp. 144-154.
629
POLLASTRI S., La présence ultramontaine dans le midi italien (1265-1340), in Studi Storici
Meridionali, 15 (1995), I, pag. 4. Per la lucidità dell’analisi, per i diversi aspetti della questione (numero e
modalità qualitative dell’intervento, fatto da esponenti militari e scarsamente acculturati) affrontati e per le
indicazioni bibliografiche, risulta indispensabile il lavoro della Pollastri.
“L’éliminatione des proditores des rangs des feudataires lasse des espaces vides d’homme qui
témoignagent, à la fois, de la profondeur de l’action menée par le souverain angevin et du resultat de la
politique menée par Manfred. Dans ces espaces, l’installation ultramontaine est massive, au point que les
feudataires régnicoles ne sont plus que quelques uns au milieu d’un univers français” (v. ivi, pag. 10). E
ancora, “l’élimination des élements perturbateurs s’accompagne, simultanément, de la volonté d’intégrer
l’élite française à l’ancienne élite, que Manfred avait mise en place. D’où les nombreux mariages entre
Ultramontains et Régnicoles, proditores, partisans de la première heure et ralliés de 1268/69. Nous
pouvons seulement relever la contradition de ces deux attitudes” (v. ivi, pag. 11), che contraddizione,
tuttavia, non è in quanto rappresenta il ‘riciclaggio’ del vecchio nel nuovo potere.
630
MARTIN J.-M., L’ancienne … cit., pag. 110.
631
MARTIN J.-M., L’ancienne … cit., pag. 110. Il Martin, in nota, suggerisce di “voir S. CAROCCI,
Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e nel primo Trecento, Roma
1993 [Collection de l’Ecole française de Rome, 181. Nuovi studi storici, 23], pp. 37-45”.
(prov. Isernia) et la terra Maccle Strinate, également sise dans le comté de Molise, pour
un revenu global de 110 onces” ; e, più o meno contemporaneamente, anche il castrum
Morronis era stato concesso a “un autre sujet du pape, Gregorius de Piperno”632, il quale
lo scambierà, qualche anno più tardi (1272), con il castrum Brocci (non lontano da Sora,
in provincia di Frosinone).
Tutto questo (e, quasi certamente, parecchio altro) in quel “Comitatus Molisij”,
che, accorpato da Federico II alla provincia (o, meglio, Giustizierato) “Terre Laboris”,
Carlo I “maintient sous l’administration de la curia”633, nonostante le rivendicazioni di
quel Ruggero che, figlio di Tommaso da Celano, “se présente comme conte de Celano,
de Molise et d’Albe”634 (tanto da essere accusato di aver concesso terre senza la prevista
regale autorizzazione) e seguendo l’esempio dei suoi predecessori.
In linea con quella tendenza (cui non possono essere estranee delle motivazioni
politiche) e sempre nel 1270 (precisamente “die XXVI martii”), da Capua, “concessum
est Adenulfo filio Johannis Comitis, Romanorum Proconsulis, et heredibus suis, etc.,
castrum Limosani, pro unc. LXXX”635. Oltre al fatto che è di Roma e che è figlio di
Giovanni “conte e proconsole dei Romani”, assai poco si conosce di Adenolfo, se non
che pretende una “subventionem ab hominibus castri sui Limosani”636 dal re, il quale,
dopo aver dato incarico a Johanni de Amicis di accertare la capacità di reddito del castri
Limosani637, ordina che vengano pagate allo stesso Adenolfo ed alla sua famiglia sia la
collectam pannorum638 che la collectam S. Mariae639. A questo punto e mentre poco altro
si riesce a sapere di lui, la cosa più evidente (e di maggiore interesse) che emerge dai
632
MARTIN J.-M., L’ancienne … cit., pag. 110 e segg. Da provenienza diversa da Roma venivano “le
Milanais Napoleone della Torre et ses frères, qui reçoivent dès 1268 Venafro (prov. Isernia) et d’autres
fiefs; en 1272, fait unique à notre connaissance, le roi constitue en leur faveur, «in certis terris regni
nostri», un fief-rente de 400 onces ayant rang de comté, sans doute mieux adapté à la fois à leurs
exigences et à leur absentéisme”. E, registrando che le concessioni sono tutte, o quasi, del 1270, si ha
ancora che “en 1270 on apprend que le castrum Pectorani (probablement Pettoranello del Molise, prov.
Isernia) a été confié à Goffridus de Faencia” (v. ivi, pag. 112).
633
MARTIN J.-M., L’ancienne … cit., pag. 117.
634
MARTIN J.-M., L’ancienne … cit., pag. 117.
635
I registri della cancelleria angioina [in seguito, solo R.A.] ricostruiti da Riccardo FILANGIERI (con la
collaborazione degli Archivisti Napoletani), Napoli 1950 e segg., II, pag. 252, n. 64.
La concessione, che contraddice in modo evidente la notizia per cui “all’avvento di Carlo I d’Angiò
Limosano fu dato in feudo alla stirpe dei conti di Renan, della Franca Contea, (V. Masciotta, II, p. 200)”
(v. COLITTO F., Il Molise ... cit., pag. 227, nota 54), si trova ripetuta in R.A., III, pag. 177, n. 411
(Adenulfo, filio Johannis Comitis, Romanorum Proconsulis, concessio castri Limosani, de Comitatu
Molisii); e in R.A., XIV, pag. 145, n. 93 (Concedit Adenulfo de Comite de Urbe mil. Et familiari castrum
Limosani in Justitiariatu Terre Laboris in donum).
Per le considerazioni su tale concessione (che, contrariamente alla datazione proposta dal Piedimonte, che,
incorrendo nel solito errore – si veda quanto già detto a proposito della bolla di Gregorio X a Pietro de’
Marone – di non considerare il modo fiorentino di datare gli atti, la vuole del 1269, è del 1270), si veda:
BOZZA F., Limosano nella ... cit., pag. 135 e segg.
636
R.A., XIV, pag. 148, n. 112 (Mentio Adenulfi de Comite mil. Et fam. Qui petit subventionem ab
hominibus castri sui Limosani).
637
R.A., XIII, pag. 95, n. 220 (Judici Johanni de Amicis mandata ut de annuo redditu castri Limosani, de
Comitatu Molisii, inquirat).
638
R.A., VIII, pag. 12, n. 73 (Mandat ut homines castri Limosani solvant Adenulfo, f. Johannis Comitis de
Urbe, eorum domino, collectam pannorum pro vestimentis eius et familiarum).
documenti sembra essere che il ruolo socio-politico (e religioso), economico e di
riferimento territoriale dell’insediamento di Limosano, che, da ora e nonostante stia
attraversando un momento congiunturale di forte espansione demografica640, inizia ad
essere percepito come la “olim civitas”, viene fortemente ridimensionato. Tanto che, per
la ufficialità del potere e dal 1270 (sono già trascorsi un paio di anni), è diventato – o sta
diventando – un semplice ‘castrum’.
Tra gli effetti di una tale trasformazione al ribasso vi è (nella persona di Adenolfo
sono facilmente individuabili tanto l’appartenenza guelfo-papista quanto la tradizione
culturale romana ed occidentale) la perdita – e la ‘cancellazione’ – della istituzione
‘diocesi’, che si vide ‘greco-bizantina’. Che, questa, certamente attiva nella prima metà
del XIII secolo641, scompare proprio con i cambiamenti derivanti dalle opportunità del
momento e dalla affermazione concreta del ‘nuovo’ sistema di potere (che, quasi
certamente, aveva da assecondare anche quelle pretese particolari e precise che
dovevano rompere con il passato), più che dagli accordi ufficiali tra papato ed angioini
(che, in teoria, avrebbero dovuto andare verso la tutela dell’esistente642).
Il tutto, del resto, perfettamente in linea con le grandi trasformazioni, o, meglio,
aggiustamenti, in corso. E, così, se, per quanto riguarda la politica religiosa, in periodo
svevo, “la carica di vescovo, sia nelle città greche che in quelle latine dell’Italia
meridionale, era alla portata della borghesia locale, nel cui ambito i giudici formavano il
ceto più colto e quindi, generalmente, anche quello politicamente più influente; gli unici
a poter gareggiare con essi erano i ricchi mercanti e gli esponenti della nobiltà
cittadina”643, ora “gli esponenti della Casa d’Angiò tendono, a loro volta e con ogni
mezzo, a poter contare su un episcopato ligio alla loro causa, anzi mettono in atto ogni
639
R.A., XII, pag. 46, n. 96 (Mandat ut homines castri Limosani collectam S. Mariae solvant Adenulfo, f.
Johannis Comitis de Urbe, eorum domino).
640
Come già segnalato, i già citati manoscritti dell’ASV (Fondo Avignonese, Collect. t. 61, Benevent.
Civit.is & Ducatus Varia 1132-1312, Ms. ch. s. XIV, specialmente dal f. 151 al f. 209) portano a stimare
in circa 4000 il numero degli abitanti di Limosano, che è una “terra” paragonabile solo a Bojano.
641
RUCK W., Die Besetzung der sizilischen Bistumer unter Friedrich II, dissertazione inedita dell’Univ.
di Heidelberg 1923. Importante quanto documentato (pag. 17) dal Ruck, perché va a confermare l’ipotesi
(v. BOZZA F., Limosano: Questioni … cit.) che vorrebbe un certo Raone essere titolare della diocesi di
Limosano tra il 1230 ed il 1250 (ASV, Fondo Avignonese, Collect. t. 61 ... cit.).
Contrariamente a quanto sostenuto dal Fonseca (FONSECA C.D., Le istituzioni ecclesiastiche, in Le
eredità … cit.), il quale, con documentazione già nota e riguardante periodi precedenti, scrive che “nel
secolo XIV vengono ripristinate le diocesi di Limosano e di Lesina e aggregate alla Sede metropolitica di
Benevento” (v. pag. 154), si ebbe solo, nei primi decenni del XIV secolo, un tentativo, andato fallito, di
ripristinare la diocesi (v. ASV, manoscritti citati) con la proposta di accorpamento – con sede a Limosano
– con quella di Fiorentino, che, dopo la morte di Federico II, era un insediamento entrato in una profonda
crisi “nel contesto della battaglia per la successione e all’assalto del 1255, allorché Fiorentino fu concesso
in feudo a Ruggero di Parigi dal papa Innocenzo IV” (BECK P., La Domus Imperiale di Fiorentino, in
“Castra ipsa possunt et debent reparari”: Atti del Convegno Internazionale di Studio, Castello di
Lagopesole 16-19 ottobre 1997, Roma 1998, pag. 146).
642
Oltre che per l’idea, correttissima, di «mutamenti» e di «persistenze», per “alcune clausole contenute
nei patti tra la Chiesa e la nuova dinastia per l’investitura del Regno”, si veda: FONSECA C.D., Le
istituzioni … cit., pag. 152 e seg.
643
KAMP N., Politica ecclesiastica e struttura sociale nel regno svevo di Sicilia, in ASPN 1978, pag. 9 e
seg. Si veda, in 3 volumi di grande spessore critico, anche: KAMP N., Kirche und Monarchie im
staufischen Königreich Sizilien, München 1973-1982.
sforzo per imporre la preponderanza francese anche nel governo spirituale delle
popolazioni del Mezzogiorno”. Anche se “non si giunse mai a una «francesizzazione»
dell’episcopato meridionale durante il regno degli Angioini”644, preferendosi, tuttavia e
nel caso in cui nessun mezzo riusciva ad ottenere l’allineamento (come dovette essere
per Limosano), quella soppressione che in molti casi divenne evento definitivo.
Che quella di sopprimere la diocesi fosse la conseguenza – o una delle tante
conseguenze – di una decisione e, soprattutto, il frutto di una precisa pianificazione
punitiva si può vedere, tra le condizioni riguardanti la concessione del feudo, nella
contemporanea condizione di azzeramento delle produzioni legate alla trasformazione
del ferro e, nello specifico, alla derivazione delle armi645 per esigenze belliche (che, ora,
vengono trasferite a Campobasso e daranno nome e fortuna ai Monforte-Gambatesa 646),
lasciando attivi (e tali rimarranno ancora per qualche secolo) i soli laboratori, di certo
più innocui (anche se specializzati), della zecca finalizzata alla produzione di monete647.
Pianificazione o, che è la stessa cosa, ‘cancellazione’ punitiva si diceva; ma di che
cosa? Certamente di un diffuso e, per il passato, vincente ghibellinismo, che, ritenuto
dalla contemporaneità ‘guelfa’ collegabile – e, spesso, collegato – al fenomeno delle
644
FONSECA C.D., Le istituzioni … cit., pag. 161 e seg.
Riguardo alle diverse fasi del processo di cambiamento e schematizzando, si ha che: 1) nell’ultimo
ventennio del regno di Federico II, quando è “nel servizio regio l’elemento unificatore che conferisce
omogeneità a questo gruppo in cui confluivano persone di diversa origine”, “i nuovi vescovi, i quali non di
rado venivano contrapposti ai candidati espressi dalle forze locali, formavano un gruppo relativamente
chiuso, … I prelati infatti, quelli almeno di cui conosciamo l’origine sociale, appartenevano
prevalentemente alla nobiltà cavalleresca ed avevano legami diretti con la corte o, quanto meno, con quei
nobili a cui Federico II, a partire dal 1220 e ancora di più dal 1230-31, conferì in modo esclusivo le
cariche pubbliche riservate ai cavalieri” (KAMP N. Politica … cit., pag. 16 e seg.); 2) “dopo la morte di
Federico II il papato riprese l’iniziativa nella politica ecclesiastica <e> provvide a nominare con proprie
provvisioni i vescovi per le sedi, che risultavano vacanti a causa del divieto delle elezioni decretato dal
papa, e tra il 1251 ed il 1254 insediò quasi 50 vescovi”, perseguendo “obiettivi non solo religiosi ma anche
politici”. Ma, siccome “la politica ecclesiastica di Innocenzo IV si mosse, quando si rivolse agli abitanti
del Regno, proprio nello stesso ambito sociale di quella di Federico II”, tanto che “contrariamente alle
speranze del papa, furono i vescovi da lui nominati ad essere trascinati dai loro familiari nobili nella
fedeltà a Manfredi e non viceversa”, “il nuovo corso che le provvisioni papali del 1251-54 dovevano
avviare dovette essere rinviato al 1266, che segna una nuova era della politica ecclesiastica in Italia
meridionale, quando il papa, attraverso una nuova internazionalizzazione, cercò tra l’altro di spezzare il
legame tra la Dienstadel del Regno e l’episcopato, che per due volte aveva opposto resistenza
all’interdetto” (KAMP N. Politica … cit., pag. 18 e seg., passim).
645
BOZZA F., Limosano nella ... cit.
646
Il fatto che della ‘famiglia’ di “Missere ioanp.ta Coccetta” facesse parte, ancora nel 1635 (v. ASP di
Limosano, Reg. dello stato delle anime dall’anno 1579 all’anno 1635), “Madama polita, madre, figlia del
mag.co m Joafranc.o manforte de’ gambatesa de anni 40”, porta ad ipotizzare una presenza a Limosano
di un ramo della famiglia dei Manforte-Gambatesa, di lungo periodo e sicuramente motivata da interessi
legati al controllo delle lavorazioni rimastevi.
647
Sulla zecca e sulla “monetazione di Limosano” si può vedere:
- PALLADINO G. – PAGANO M., Una nuova moneta di Nicola II (Cola) Monforte conte di
Campobasso coniata nella zecca di Limosano, in Rivista Storica del Sannio 2006 (I), pag. 107 e seg.;
- PAGANO M. – PALLADINO G., Limosano, una nuova zezza italiana, in Cronaca numismatica, n. 196
(Maggio 2007), pag. 34 e seg.;
- D’ANDREA A. – ANDREANI C., Le monete dell’Abruzzo e del Molise, MOSCIANO S.A. (PE) 2007,
pag. 341 e seg.
contestazioni eretiche, aveva già costretto Pietro de’ Marone (e il suo compagno Roberto
de’ Sale) ad allontanarsi dal Molise. Lo vedemmo, tra l’altro e con il concordante
atteggiamento politico sia di Romano Capoferro (che partecipa alla incoronazione di
Manfredi) e sia del vescovo di Larino648, già in quelle disposizioni, dettate da esigenze
più politiche che religiose, per mezzo delle quali “fin dall’anno 1269 Carlo I aveva
scritto ai baroni ed agli uomini del contado di Molise e del giustizierato di Abruzzo,
ingiungendo di dar favore a Bernardo da Raiano che aveva incarico di prendere gli
uomini di Rocca Maginolfi, per pubblica fama infetti di eresia, e di condurli incatenati a
Capua”649.
E, poi, oltre alla sin troppo evidente motivazione della presenza eretica, reale o, se
la si vuol ritenere frutto esclusivo di collegamento ideologico a quella ghibellina, meno
che fosse, una ulteriore causa per un intervento deciso potrebbe essere individuata nel
rapporto privilegiato che Limosano, la quale era stata «nobis (= agli Hohenstaufen)
fidelissima», aveva avuto, oltre che con Benevento, anche con Lucera “Sarracenorum”.
Ad ogni buon conto, le tre motivazioni (ghibellinismo diffuso, presenza eretica e
legame assai stretto con Lucera), pur se prese singolarmente, tutte e ciascuna avrebbero
giustificato un intervento forte, deciso e radicale da parte di Carlo I. Non solo; ma non
sono da escludersi neppure altre possibili ragioni, che, tuttavia, al momento risultano di
difficile individuazione.
‘Cancellata’, dunque, la identità politica prevalente sul suo territorio, ‘soppressa’
la sua istituzione diocesana, proibite e ‘smantellate’ (eccetto, si diceva, la produzione
delle monete e/o delle utensilerie e degli attrezzi agricoli e per la casa) le lavorazioni
legate alla trasformazione del ferro finalizzata alle attività belliche650, gli angioini (e la
loro politica) che cosa portano nel tessuto socio-economico della Limosano di allora?
Sicuramente una esosità fiscale più puntuale ed accentuata (che già fu possibile
intravvedere nella collecta pannorum pro vestimentis e nella collecta S. Mariae da
pagare ad Adenolfo ed ai suoi familiari ed eredi); essa, però, dovette essere cosa
parecchio generalizzata e relativamente comune anche agli altri insediamenti. Fatto
piuttosto unico e, per molti versi, singolare fu, invece, il ‘ritorno’ di Pietro de’ Marone
(il quale evidentemente partecipa alla angioinizzazione) a S. Maria di Faifoli, che, dopo
la recente soppressione della diocesi “Musanense S. Mariae”, rientra nella diretta
giurisdizione della arcidiocesi di Benevento. E’ possibile pensare che, sin da allora, alla
sua intensa attività, oltre al ‘risanamento’ della ‘abbazia’ montaganese, vada riferito
648
L’episodio, del 1285 (a morte avvenuta di Carlo I), già riportato, avviene quando, sempre con gli
angioini, la prerogativa per la elezione del vescovo, “che era stata costantemente rivendicata ed esercitata
dai Capitoli Cattedrali, viene effettuata nella maggioranza dei casi direttamente dalla Sede Apostolica
attraverso la nominatio o la translatio” (FONSECA C.D., Le istituzioni … cit., pag. 160). Esso consente
di proporre, come suggerimento per la ricerca riferita all’ambito molisano e per il periodo lungo, il
problema, con quanto (influenze di eresia, percorsi teologici, interessi e schieramenti negli scismi e negli
scontri all’interno delle singole civitas, …) ad esso riferibile, delle appartenenze politiche e religiose delle
istituzioni ecclesiastiche locali.
649
BEVERE R., Notizie storiche … cit., pag. 258, nota 2.
650
Si ha notizia del passaggio (1269), prima di intraprendere la sfortunata crociata che a Tunisi ne avrebbe
visto la morte per peste (1270), di Luigi IX, re di Francia e fratello di Carlo d’Angiò, a Limosano proprio
per rifornirsi delle armi ivi precedentemente prodotte e che, a causa dei recenti cambiamenti politici,
restavano ancora invendute.
(collegato in questa fase alla “nova Monachorum Eremitarum Congregatio, titulo S.
Damiani, sub Regula vero S. Benedicti, qua postea Coelestinorum vocata” appena
istituita) l’entusiasta e spontaneo sorgere delle dipendenze di Limosano, di Petrella, di
Pietracupa e di Castropignano, che in questo momento sono ancora di scarso significato
(spiegabile sia con la matrice greca e sia con i legami alle correnti più spiritualiste).
Che, poi, il percorso di avvicinamento (e di allineamento) alle posizioni del nuovo
potere sia stato sufficientemente rapido per una realtà insediativa, quella di Limosano,
che “est melior terra ... quam plures civitates dicte provincie beneventane”651 (e che,
pertanto, non può non avere che una consistente potenzialità e capacità finanziaria), lo
sta a dimostrare il fatto che, autorizzato dalla bolla “Sacrae Religionis vestrae merita”
del 7 luglio 1312 (ma la richiesta da parte di re Roberto era stata probabilmente del
1310652) di papa Clemente V da Avignone, vi si riesce ad impiantare un convento,
parallelamente all’altro di Larino (sottoposta pure, come fu visto nell’episodio degli
accertamenti sul vescovo ‘ghibellino’, ad interventi di normalizzazione), di quel
francescanesimo che era appena entrato nei favori (e tra gli strumenti politici) degli
angioini, portatovi da Carlo II e dal figlio Ludovico (1274-1297)653, che, francescano
651
Per la geografia insediamentale e per la preminenza territoriale di Limosano tra la fine del XIII e
l’inizio del XIV secolo, si veda: BOZZA F., Limosano: Questioni … cit.
652
Si veda: BOZZA F., Limosano: Questioni … cit.
653
PASZTOR E., Per la storia di san Ludovico d’Angiò (1274-1297), Roma 1955. “Siamo persuasi che
due filoni, il politico, in quanto san Ludovico fu il secondogenito di Carlo II re di Sicilia e conte di
Provenza e nipote di Filippo il Bello, e il religioso, in quanto il giovane principe entrò nell’Ordine
francescano proprio nel tempo in cui vi ferveva la lotta tra i «Fratres communes» e gli «Spirituali»,
formano il problema centrale della vita di Ludovico” (v. pag. 4 e seg.). Dal lavoro della Pasztor, che si
segnala anche per i suggerimenti e le indicazioni bibliografiche e che si raccomanda per la completezza
delle tematiche afferenti il personaggio di san Ludovico (o Luigi) d’Angiò, che, figlio del suo tempo e,
come i tanti altri personaggi (e lo stesso Pietro de’ Marone) dell’epoca, non poco strumentalizzato dalla
politica paterna, si incrocia con gli stessi, ne trascriviamo integralmente (v. pag. 7 e seg.) la vita.
“Ludovico d’Angiò visse soltanto 23 anni. Nacque nel 1274, ed era appena decenne, quando il padre,
Carlo lo Zoppo, cadde prigioniero di Alfonso III d’Aragona, nel corso della guerra del Vespro, il 5 giugno
del 1284. Aveva quattordici anni quando, nel 1288, in base al trattato di Canfranc, dovette andare insieme
a due dei suoi fratelli in Catalogna, come ostaggio in cambio del padre. Vi rimase sette anni (passò il
primo anno nel castello di Moncada, dal 1289 al 1293 fu nel castello di Ciurana, nel 1293 per alcuni
mesi a Castile e per il resto dell’anno, fino alla metà del 1294, a Barcellona. Nel 1294 venne ricondotto
al castello di Ciurana, dove rimase fino all’ottobre del 1295). Nel 1294, Celestino V gli permise di
prendere la tonsura e i primi quattro ordini minori religiosi (li riceve dalla mano del suo confessore, il
francescano Francesco Brun. L’altro maestro francescano che vive insieme con i principi, è il catalano
Pietro Scarrier) e gli conferì l’amministrazione dell’arcivescovato di Lione (la bolla del conferimento
viene pubblicata interamente per la prima volta dal LAURENT in Le culte de S. Louis d’Anjou a
Marseille au XIVe siècle, Roma 1954, pag. 34-35). Ma decadde dall’incarico senza che avesse mai
esercitato i suoi diritti, nell’aprile del 1295, quando Bonifacio VIII annullò le bolle di Celestino.
Nell’agosto del 1295 morì l’erede al trono di Napoli, Carlo Martello; i diritti di successione passavano
così a Ludovico, come secondogenito. Venne liberato dalla Catalogna nell’ottobre del 1295 e ordinato
suddiacono dal Papa, nel Natale del medesimo anno. Nel gennaio del 1296 rinunciò al trono in favore del
fratello Roberto e il 20 maggio (nota: secondo altri, il 19 maggio, che è la stessa data della morte di Pietro
de’ Marone) venne ordinato sacerdote a Napoli. Nel dicembre del 1296 Bonifacio VIII lo nominò vescovo
di Tolosa, dignità che egli accettò al patto di poter entrare prima nell’Ordine francescano. Pronunciò i voti
religiosi il 24 dicembre, con permesso papale ma segretamente, e li ripetè pubblicamente il 5 febbraio del
1297. Lasciò Roma insieme al padre per recarsi prima a Parigi, poi ad occupare la sua sede a Tolosa. Nel
(assai vicino alla corrente spiritualista predominante nella Provenza e nella Francia
meridionale, che stanno esprimendo il personaggio di Pietro di Giovanni Olivi), vescovo
di Tolosa e, nelle intenzioni paterne (rimaste tali solo a motivo della prematura morte del
figlio), già potenziale cardinale654, viene canonizzato nel 1317 (ed, in vita, il suo destino
si era incrociato anche con quello di Celestino V) e diventa il santo ‘patrono’ di
Limosano, portatovi da quei francescani Conventuali che lo terranno “come gloria
dell’Ordine fino all’età della Controriforma”655.
A tutti questi ‘mutamenti’, cui, di conseguenza, si accompagnò certamente anche il
cambiamento, epocale ed abissale rispetto alla prima parte del XIII secolo, della
mentalità collettiva e ‘culturale’, occorre aggiungere, per ottenere un disegno più vicino
alla realtà, anche il quadro delle ‘persistenze’ che, almeno – e solo – per la prima metà
del secolo seguente (e, cioè, fino all’emergere della visibilità di Campobasso, dove,
luglio si recò in Catalogna, per prestare i suoi buoni uffici nel ristabilire la pace tra il re d’Aragona, suo
cognato, e il conte di Foix. Di ritorno dalla Catalogna, nell’agosto del 1297, mentre si trovava insieme a
Carlo II, a Brignoles, nella Provenza, cadde ammalato e morì il 19 agosto 1297. Venne sepolto, secondo il
suo desiderio, nella chiesa francescana di Marsiglia. Fu canonizzato nel 1317 dal papa Giovanni XXII”.
654
FINKE H., Acta Aragonensia, Berlin und Leipzig, voll. I-II, 1908, vol III, 1922. Citato dalla Pasztor (v.
nota precedente), a pag. 588 del III vol. si legge, che Carlo II, “el feu tot son poder, que sent Loys for feyt
cardenal e nuylls temps non poch obtenir”.
“Nel 1294 Ludovico era un giovane di venti anni, ed ostaggio. Nel dicembre del 1296 Ludovico era un
sacerdote immerso nelle preghiere e negli studi, che rinunciava ai suoi diritti di erede al trono, per poter
dedicarsi alla vita religiosa, e che, circondato da francescani, cercava di diventare anch’egli uno di loro,
entrando in un convento dell’Ordine. Evidentemente il principe angioino, né a venti anni, né a ventidue
era il candidato più adatto al governo di diocesi importanti, né d’altra parte egli desiderava di esserlo.
Perciò, necessariamente, solo l’ambizione paterna e le ragioni politiche del momento potevano indurre il
Papato alle sue nomine” (PASZTOR E., Per la storia … cit., pag. 9).
Una tale conclusione (di un papato nelle mani degli angioini proprio nel momento in cui “nell’agosto del
1296 fu emanato l’ordine con il quale Filippo il Bello vietava qualunque invio d’oro o d’argento fuori del
regno <di Francia>, senza il suo consenso” [PASZTOR E., Per la storia … cit., pag. 12]) della Pasztor,
sotto tutti gli aspetti condivisibilissima ed effettivamente condivisa, se, come chiave di lettura, viene
applicata anche al personaggio di Pietro de’ Marone, ne riesce a ben giustificare i comportamenti suoi, in
quanto strumento politico ‘usato’ da Carlo II, e quelli di quest’ultimo nella vicenda della elezione a papa.
Ed anche – perché no? – i sistemi ed i metodi adoperati per la affermazione della angioinizzazione.
655
Dalla bolla [v. Bullarium Diplomatum et privilegiorum Sanctorum Romanorum Pontificum, IV,
Augustae Taurinorum MDCCCLIX (1859)] del 28 novembre 1336, con la quale papa Benedetto XII
fissava le “Constitutiones et statuta pro bono regimini fratrum Minorum S. Francisci de Assisio”, al $ 7
viene stabilito che: “Circa abstinentiam vero provide duximus ordinandum, quod in generali et
provincialibus capitulis, et etiam ubique in refectoriis dicti ordinis abstineatur ab usu carnium, quodque,
ubi comode fieri poterit, in quolibet conventu ordinis una magna aprs ipsius conventus iuxta dispositionem
guardiani ac consiliariorum conventus omni die in refectorio comedat, et in domo, in qua alia pars
conventus iuxta dispositionem dicti guardiani comederit, sicut in refectorio, ab omnibus silentium
observetur, et in mensa lectio habeatur. In festivitatibus autem Nativitatis, Resurrectionis et Ascensionis
Dominicae, Pentecostes, apostolorum Petri et Pauli, Assumptionis Virginis gloriosae, et Sancti Francisci,
Sancti Antonii et Beati Ludovici episcopi totus conventus in refectorio comedat. […]”.
Una disposizione, assai significativa perché riguarda anche il movimento femminile, era quella al $ 36,
che recita: “volumus etiam et mandamus, quod singuli ministri provinciales in singulis suis provinciis
singulis conventibus monialium praedictorum, quae sub cura seu redimine dictorum fratrum consistunt, in
quantum eas tangere vel respicere dignoscuntur, infra dictum terminum sub eorum et diffinitorum sigillis
sungulas copias debent assegnare; eaque eisdem conventibus legi ac vulgarizari faciant et esponi: ac sub
poenis contentis in eis districate mandari, ut illa deinceps debeant inviolabiliter observare”.
peraltro, erano state spostate le attività legate alla trasformazione del ferro), ancora
restarono in quella Limosano.
Che, come analizzato altrove656, è ancora un insediamento di circa quattromila
abitanti (con una forza militare di millecinquecento “homines armati”) e che, nei primi
decenni del secolo XIV, fa di tutto, ma invano, per riappropriarsi della istituzione della
diocesi (sembra lo strepito terminale di quel partito che proprio non voleva rassegnarsi a
rimanere sconfitto ed a essere ‘cancellato’). Ha, però, una capacità finanziaria così forte
(e con forti radici nel passato) che, sempre in quel lasso di tempo, riesce ad esprimere la
costruzione sia del convento dei francescani Conventuali, che sarà “uno dei più
magnifici che veder si possa”657, e sia dell’altro monastero, oggi scomparso, appartenuto
ai Celestini.
Ordini, quello dei francescani Conventuali e l’altro dei Celestini, entrambi
significativamente ‘vicini’ alle posizioni politiche degli angioini.
Erano, però, assai poca cosa rispetto a quel glorioso passato che, cancellato con
determinazione e radicalmente, diventava nel tempo solo un ricordo. Sempre più flebile
e confuso; quasi sino ad essere dimenticato del tutto.
656
BOZZA F., Limosano: Questioni … cit. In questo lavoro si possono utilmente trovare dettagliate
notizie riguardanti la datazione e la storia dei due conventi di Limosano
657
ASC, Monasteri soppressi, B. 7, f. 49. Lettera del marzo 1820 dell’allora Intendente di Molise “a Sua
Eccellenza il Segretario di Stato Ministro degli affari Ecclesiastici”. Eccone il testo:
“Fra le case religiose, che questa Provincia pianse soppresse nella passata Militar Occupazione annoverar
devesi particolarmente quella de’ PP. Minori Conventuali di S. Francesco del Comune di Limosani. Era
questo Monastero l’ornamento e il decoro, non dirò solo del Comune, ma dell’intera Provincia.
Istruzione e pietà pubblica trovavano in esso un grande alimento. Circa venti individui ognor vi si
trovavano, dedicati alcuni ad insegnare le Umane lettere, altri le teologiche scienze; non solo agli
Studenti iniziati nel Sacerdozio, ma eziandio ai Giovani del Comune in generale, del circondario, e
del Distretto. Altri finalmente consegnati alla spiegazione del catechismo, ed alla predicazione
dell’Evangelo. Essendo poi il suddetto Comune assai sprovveduto di Chiese, di Parrocchie, ed assai
bisognevole d’istruzione, e di freno morale, suppliva bastentemente al bisogno locale la chiesa del detto
Monastero, Chiesa vastissima, e maestosa, dove quei Padri dotti, e pietosi insieme con esemplare
devozione celebravano frequentemente delle solenni sacre funzioni, che richiamavano sin da lontani
Comuni il pubblico concorso. In quanto al locale del Monastero è uno de’ più magnifici che veder si
possa, non bisognevole d’altronde che di piccolissime riattazioni. Eccellenza, quanto io soglio essere
alieno dall’appoggiar domande per ripristinare de’ Monasteri de’ Mendicanti, altrettanto mi credo in
dovere di farlo con propensione, quando si tratta di veder riaperti Monasteri, da’ quali possa la Provincia
sperare non dubbj vantaggi in oggetto e di religione, e di pubblica istruzione. […]”.
Documento (primi anni del ‘300), in scrittura beneventana, dal quale risulta che “in dicta ecclesia de
limosano” vi erano state le “insignia episcopalia”, tra cu quel ‘bacolo’, che è di un rito diverso da
quello romano, il “beneventano”.
Riproduzione di una raffigurazione di papa CELESTINO V, già Pietro de Marone (dai Vaticinia B.
Joachim, manoscritto del XV sec. conservato nell’Archivio Storico Provincia di Benevento).
Documento (primi anni del ‘300), in scrittura beneventana, dal quale risulta che “in dicta ecclesia de
limosano” vi erano state le “insignia episcopalia”, tra cu quel ‘bacolo’, che è di un rito diverso da
quello romano, il “beneventano”.
Riproduzione di una raffigurazione di papa CELESTINO V, già Pietro de Marone (dai Vaticinia B.
Joachim, manoscritto del XV sec. conservato nell’Archivio Storico Provincia di Benevento).
CAPITOLO V: Eterodossie ed ortodossia
5.1 – I movimenti della ‘contestazione’
Come, con la nascita degli ordini religiosi, nei secoli XII e XIII, le connessioni658
ai movimenti riformatori, o, meglio, alla contestazione nei confronti della ‘ecclesia
carnalis’ (più ‘esistenziale’ e di stile che dogmatica e dottrinale), connessioni che
mostrano tanto un comune substrato di origini quanto gli esiti, per così dire, terminali di
esperienze destinate, seppur in maniera diversa, a sfociare o in formazioni ortodosse o in
sette ereticali, così sembra possibile riferire le precedenti confuse manifestazioni di “non
accettazione di un ordine definito” (secoli X e XI) proprio alle discussioni seguite, nel
tempo, alle frequenti rotture ed agli scismi tra Oriente ed Occidente (da Fozio a quello,
definitivo, del 1054). Cosa ancor più probabile se ci si riferisce agli ambienti
meridionali, nei quali la tradizionale ispirazione e gli influssi culturali venienti dalla
matrice greca erano stati – e sembrerebbe che lo saranno ancora per qualche secolo (XII
e XIII almeno) – assai predominanti, specialmente se si considera la forte connotazione
anacoretica ed eremitica che non può non assegnarsi a quella contestazione.
Vale a dire che, nonostante venga tenuta solo ai margini dalla ricerca storica,
l’eresia meridionale è, nei modi, nelle forme e nei contenuti, diversa da quelle centrosettentrionali, perché profondamente diverso era il substrato dal quale si originava. E tra
gli aspetti che maggiormente la caratterizzano e la connotano vi è sicuramente l’attesa
del possibile ‘cambiamento’ nella forma, che, dopo le delusioni dei secoli X e XI, è
diventata quasi disperata, dell’escatologismo apocalittico, la cui derivazione monastica è
sicuramente prevalente su quello canonico-clericale e laico. In altre, e più semplici,
parole, i cambiamenti, che ora la contestazione da parte della ‘ecclesia spiritualis’ non
riesce a provocare, verranno a realizzarsi e si faranno concretezza dopo e nel tempo a
venire; ed, in ogni caso, non c’è – non ci sarà – scampo alcuno per tutti i portatori di
privilegi e per i deviati ed i corrotti.
E, se negli ambiti territoriali del centro-settentrione (area soggetta alle influenze
occidentali e ‘franche’) le aspirazioni al rinnovamento o, comunque, al cambiamento
hanno “natura autoctona e sostanzialmente ascetico-rigorista dei fenomeni ereticali”659 e
sono più ‘sociali’, quelle del centro-meridione (area che affonda le sue radici profonde
nella cultura greco-orientale), in prevalenza individuali ed individualistiche, seguono,
per così dire, percorsi diversi e più ascetico-eremitici, e che, più monastici, vanno quasi
sempre a sfociare, per il consenso che incontrano, in ‘organizzazioni’ collettive.
Ma come – dove, quando e perché – nasce la ‘contestazione’?
Sicuramente essa va ad inserirsi nella difficoltà ad incontrarsi – e ad ‘unificarsi’ –
della religiosità popolare, dove è continua la prevalenza del dato sentimentale su quello
logico, che non smette mai di alimentarsi nelle persistenti forme della preesistente
658
GRUNDMANN H., Movimenti religiosi nel medioevo, Bologna 1980 (trad. it. della 2^ ediz. tedesca,
Darmstadt 1961; 1^ ediz. Berlin 1935).
659
MANSELLI R., L’eresia del male, Napoli 1963, pag. 112. L’intuizione di tale concetto era, tuttavia, in:
MORGHEN R., Medioevo cristiano, Bari 1962.
tradizione, anche pagana, e che, trasformata ed adattata, continua una sua propria realtà
ed un suo modo di essere, al di là delle prescrizioni e dei divieti dettati – ed imposti – da
quella cultura, che è minoritaria (o, se si preferisce, elitaria) rispetto ad un ‘popolo’
maggioranza e ‘popolare’ e per la “maggior parte del Medio Evo è ristretta al mondo
clericale, con conseguenze assai importanti per la comprensione stessa e della religione
popolare e delle forme di vita spirituale e politica”, con l’arroganza castale della
riflessione ‘colta’ di questa religiosità ‘clericale’660.
Ne deriva che nelle forme della ‘contestazione’ l’aspetto più evidente deve essere
individuato nella sua connotazione – e nella sua aspirazione – popolare. Ed è proprio tale
carattere, con il suo evolversi nel tempo, di ‘popolarità’ che farà da risposta agli
interventi riformatori, quando “il cristianesimo, che viene recepito in forma di religione
magica, di una più potente magia, lentamente si trasforma con la fine e nello spegnersi
della magia stessa, intorno all’XI secolo, prima che ricompaia, modificata e diversa, col
XIII secolo”661.
In questa prima fase della ‘contestazione’ popolare centro-meridionale, durante la
quale gli esponenti delle ‘gerarchie’ religiose erano tradizionalmente ancora portati a
privilegiare gli aspetti economici rispetto a quelli strettamente politici e che può farsi
terminare con l’inserimento dei normanni ai vertici di un potere, che ha serie difficoltà
ad essere riconosciuto – ed accettato – dagli esponenti delle strutture gerarchiche
religiose e, per quanto riguarda gli aspetti squisitamente religiosi, con quella “centralità
della esperienza monastica gioachimita nell’ambito della riforma che vide in antitesi
feconda il «vecchio» e il «nuovo» monachesimo”662, i rappresentanti della stessa furono
prevalentemente quei ‘romiti’, diffusi e sparsi sul territorio sin dal tempo della lotta
iconoclasta e che, con il loro monadismo individualistico, avevano potuto occupare gli
spazi, fisici e non solo, ad essi lasciati liberi dalle organizzazioni monastico-economiche
(le ‘curtes’)663, ai quali ‘romiti’ andavano a rivolgersi le privilegiate attenzioni di chi
andava alla ricerca di povertà e del ritorno a forme di vita ispirate al primitivismo
evangelico nelle esigenze di una maggiore e più autentica spiritualità (e, nella lotta tra la
religione ‘popolare’ e la religione ‘clericale’, quella medioevale è soprattutto attesa
escatologica) da parte di chi non vede altre alternative alla propria ‘salvezza’.
Quando, poi e nel passaggio dal modello della ruralizzazione curtense al sistema
660
MANSELLI R., Il soprannaturale e la religione popolare nel Medio Evo, Roma [edizione a cura di
Edith Pasztor] 1985 (seconda ristampa 1993), pag. 9; testo originale dell’opera pubblicata in francese:
RAUL MANSELLI, La religion populaire au Moyen Age. Problèmes de méthode et d’histoire, Montréal,
Institut d’études médiévales «Albert-le-Grand» - Paris, Librairie J. Vrin, 1975.
661
MANSELLI R., Il soprannaturale … cit., pag. 26.
662
AA.VV. (ma il concetto è di DAL PINO F.), Istituzioni monastiche e istituzioni canonicali in
Occidente (1123-1215), Atti della VII settimana internazionale di studio – Mendola, 28 agosto – 3
settembre 1977, Milano 1980, pag. 25.
663
In tale contesto è del tutto evidente che le strutture cenobitiche minori diventassero sempre di più semplici
strumenti a disposizione delle grandi abbazie (e non solo), divenute titolari dal 787 del privilegio dell’immunità
negativa per le loro ambizioni e lotte politiche. Ed è così che “l’aggregazione ad esse di un numero sempre crescente
di monasteri e di chiese, queste ultime a volte officiate da monaci eremiti o da piccoli nuclei monastici, che, si erano
rivelate strumento efficacissimo di animazione religiosa soprattutto nelle campagne” (VITOLO G., Caratteri del
monachesimo nel mezzogiorno altomedievale [secc. VI-IX], Salerno 1984, pag. 21), destinata a diventare ben
presto più estesa ed incisiva.
della concentrazione negli insediamenti664, con la sua evoluzione quasi naturale si farà
politicizzata e verrà percepita come elemento-strumento di lotta – e di accusa – politica
da una società che vive delle dualità contrapposte, quella ‘contestazione’, che non vuole
– e non può – entrare nell’insediamento ‘nuovo’ ed economicamente dinamico, sarà
confusa e diventerà ‘eresia’. Con la conseguenza di essere costretta, proprio durante la
fase di passaggio da una religiosità aristocratica (e di aristocratici) e cavalleresca ad una
religiosità prevalentemente ‘popolare’ (basti pensare ai fenomeni dei ‘conversi’ e degli
‘oblati’), a rifugiarsi in quella marginalizzazione, dalla quale fu sin troppo breve il passo
verso la estremizzazione e verso la condanna da parte delle ufficialità, dopo la crociata
cismarina665 (o quelle crociate che, prima dell’arrivo degli angioini, solo con gli Svevi –
e per la resistenza degli Svevi – erano state evitate al meridione).
E, se poco o nulla (se non nella incerta toponomastica, nella tradizione e nel modo
stesso di essere posizionato) resta dei secoli (dall’VIII al XI) della ‘contestazione’ dei
romiti, in quanto cancellata sia dalla sua stessa volatilità e sia dalla evoluzione degli
insediamenti, qualche traccia – ma solo ed appena qualche traccia – rimane della
‘eresia’ dei secoli dal XII al XIV, la cui successiva e definitiva cancellazione deve
essere imputata totalmente allo zelo della angioinizzazione che, in materia di repressione
delle forme ereticali (che erano ben combinate, o almeno come tali percepite, con la
contestazione politica), fu assai lunga nel tempo666.
Che la situazione fosse stata – e lo era ancora – effettivamente preoccupante e,
664
“Eo siquidem tempore rara in his regionibus castella habebantur, sed omnia villis et ecclesiis plena
erant. Nec erat formido aut metus bellorum, quoniam alta pace omnes gaudebant, usque ad tempora
Sarracenorum” (hronicon Vulturnense, I).
665
Sino a quando, nel 1266, con ritardo rispetto alla restante Italia dove già lavorava a pieno regime,
comparve, evidente frutto dei recenti accordi tra il papa e gli angioini, anche nel meridione l’inquisizione
affidata agli ordini mendicanti. In precedenza essa era stata limitata e non aveva potuto affermarsi
operativamente a motivo dell’ostilità da parte degli Staufen. Federico II, infatti, era riuscito, con il
compito di perseguire gli eretici del Regnum Siciliae, a tenere una struttura inquisitoriale composta da suoi
funzionari e dislocata seguendo la suddivisione amministrativa per giustizierati (MICCOLI G., La storia
religiosa, in Storia d’Italia, II, 2, Torino 1974, pag. 609).
Con la conquista angioina, invece, viene assicurato all’apparato ecclesiastico quel sostegno politico pieno
finalizzato alla attività repressiva che comportasse persino anche la soppressione e l’eliminazione fisica di
chi non volesse conformarvisi. In tal senso, la spedizione militare del 1266 era stata concepita dal papa
francese Clemente IV come una vera e propria crociata cismarina (HOUSLEY N., The italian crusades.
The Papal-Angevin alliance and the Crusades against Christian Lay Powers: 1254-1343, Oxford 1982,
pag. 18) contro la “heretica pravitate” dei Saraceni e degli scismatici che avevano precedenza sui
cattolici. E, già dal 1268, re Carlo I, con l’apparente scopo di combattere i sospetti di eresia da una parte e,
dall’altra, con mal nascoste finalità politiche, nomina quattro inquisitori domenicani, ognuno dei quali
viene preposto a ciascuna delle quattro parti (l’Abruzzo, la Terra Laboris, la Puglia e la Calabria con la
Sicilia) nelle quali era stato ripartito il territorio (MICCOLI G., La storia ... cit., pag. 690)
666
E, se “fin dall’anno 1269 Carlo I aveva scritto ai baroni ed agli uomini del contado di Molise e del
giustizierato di Abruzzo, ingiungendo di dar favore a Bernardo da Raiano che aveva incarico di prendere
gli uomini di Rocca Maginolfi, per pubblica fama infetti di eresia, e di condurli incatenati a Capua (v.
DEL GIUDICE, Cod. dip. Ang., T. II, p. 342-343)”, “Carlo II a 30 aprile 15.^ indizione (1302) scriveva a
tutti gli ufficiali del regno, perché prestassero aiuto agli inquisitori, frati Rainaldo di Monopoli, Luca di
Gragnano, e Tommaso si Aversa, dell’ordine dei predicatori, nell’esercizio del loro ufficio (Reg. Ang.,
119 f. 196 b)” (BEVERE R., Notizie storiche tratte dai documenti conservati col nome di Arche in carta
bambagina, in ASPN XXV (1900), pag. 258, in note.
quantomeno, di una certa gravità per la profondità delle radici che il fenomeno aveva
raggiunto lo mostra il testo di quel “Secundum Hugonis Guidardii Archiepiscopi
Provinciale Concilium, celebratum anno 1378”667, che non solo non figura (e per quale
motivo?) nell’elenco ‘ufficiale’ delle sinodi dell’arcidiocesi di Benevento668, ma se ne
ignora persino dove si sia svolto (a Limosano? Sembrerebbe assai probabile). Tale testo,
che sarebbe andato irrimediabilmente perduto e del quale lo stesso Cardinale Orsini
riferisce averlo scoperto assai casualmente a Limosano669, dove era a disposizione del
‘Rettore’ della Chiesa di S. Stefano (e – ancora una singolarità – non nella ‘cattedrale’
Il Bevere riporta (v. ivi) il seguente documento del 1305, che, riferito a Roccamandolfi, lascia bene
immaginare la gravità della situazione in area molisana:
“Nobili viro Berterando artus militi Regio Iustitiario Terrelaboris et Comitatus Molisii. Frater Thomas de
Aversa ordinis Predicatorum, Inquisitor heretice pravitatis in Regno Sicilie auctoritate Sancte Romane
Ecclesie Deputatus salutem quam sibi. Quia ex concursu famiglie diversorum dominorum in Castris parvis
ubi captivi morantur potest de eorum fuga periculum generari. Et nos in Rocca Maginolfi habeamus
sexaginta hereticos captivos, et intellexerimus quod ad dictam Roccam venire intendatis volentes
precavere pericolo quod ex concursu vestre familie et nostre posset in dictis hereticis suboriri. Nobilitatem
vestram rogamus nichilominus sub pena excommunicationis et privationis terre vestre precipientes
quatenus quamdiu nos in dicta Rocca moramur cum nostris captivis ad eam nullatenus veniatis.
Recedentibus autem nobis quod deo dante cito erit, ad eam venire poteritis iuxta vestre arbitium
voluntatis. Ceterum Berdelloctus Comestabilis vester, tantam in facie nostra fecit iniuriam sine causa
quantam passi non fuimus post quam incepimus Inquisitionis officium exercere, quem posuimus sub
catena et ad Regiam iustitiam curabimus destinare. Sciatisque domine Iustitiarie quod vestra famiglia
nimis assuescit nobis iniurias erogare, et ecce iam tertio predictam ab ea sistinuimus patienter. Protestamur
autem in filio dei quod nisi per vos huiusmodi corrigantur et cito quad pretermissis omnibus
convocabimus populum Regionis, et talem proferemus sententiam quod omnibus audientibus erit in
severitatis exemplar. Idcirco iterate rogamus quod vestram familiam dirigatis, et vos et ipsa et si non
favorem saltem impedimentum in officio fidei nullatenus impendatis.
Data apud Roccam Maginolfi xii° die Iulii iij^ indictionis (vol. VI, pag. 40)”.
667
Synodicon Dioecesanum S. Beneventanae Ecclesiae, edito (Benevento 1723) “per Eminentiss. , &
Reverendiss. in Cristo Patrem, & Dominum Fr. Vincentium Mariam” ORSINI, pars I, pag. 19.
668
“ELENCHUS Conciliorum Provincialium, tum ab ipsis Summis Pontificibus Benedenti celebratorum,
tum à propriis Metropolitis, quorum Acta, hactenus comperta, leguntur in sinodico huius Ecclesiae,
impresso anno Domini 1695.
Concilia I. Generis (con la partecipazione dei papi):
I.
A Nicolao II. celebratum anno 1059. Uldarico VI. Archiepiscopo.
II.
A Victore III. celebratum anno 1087. Roffrido IX. Archiepiscopo.
III.
Ab Urbano II. celebratum anno 1091. eodem Roffrido Archiepiscopo.
IV.
A Paschali II. celebratum anno 1108. Landulpho II. Archiepiscopo X.
V.
Ab eodem Paschali celebratum anno 1113. eodem Landulpho Archiepiscopo.
VI.
Ab eodem Paschali celebratum anno 1117. eodem Landulpho Archiepiscopo.
Concilia II. Generis (senza la partecipazione papale):
I.
Ab Uldarico VI. Archiepiscopo celebr. anno 1016 (rectius 1061).
II.
Ab eodem Uldarico celebr. anno 1062.
III.
A S. Milone VIII. Archiep. celebr. anno 1075.
IV.
A Landulpho II Archiep. X. celebr. anno 1119.
V.
A Fr. Monaldo Monaldesco Ord. MIn. XXIII. Archiep. celebr. anno 1331.
VI.
Ab Hugone II. Guidardo XXXI. Archiepiscopo celebratum anno 1374.
VII.
A Corrado Capycio XLI. Archiep. celebr. anno 1470.
VIII.
A Joanne VIII. Casa L. Archiep. celebr. anno 1545.
IX.
A Jacobo III. Card. Sabello LII. Archiep. celeb. an. 1567.
di S. Maria), rende di grande evidenza che i partecipanti alla sinodo (che, si diceva, non
figura negli elenchi ufficiali) potevano in modo assai chiaro affermare che: “In primis
nacque dapnamus, & perpetuò reprobamus omnem heresim, & hereticam pravitatem
extollentem se adversus sanctam Orthodossam, & Catholicam Fidem. In hiis scriptis
excommunicatos publicè nunciamus omens hereticos Patarenos, Gazatores, Pauperes
de Ludino, Passaginos, Cesalpinos, Manicheos, Amadistas, Speronestos, & alios
omnes quibuscumq; nominibus nuncupentur, & credentes eidem utadeò excomunicati et
perpetuò maledicti sint, et bona ipsorum sint nobis, & nostre Curie confiscata, &
Suffraganeorum nostrorum, prout spectat ad nos, & quemlibet eorundem”670.
Il fatto che una tale condanna venga fatta “in primis” sembra che stia a dimostrare,
già di suo, che le contestazioni eretiche (e significativamente il documento riferisce di
tipologie molto diversificate), ancora nella seconda metà del secolo XIV, fossero
quantitativamente numerose ed, oltre che pressanti, qualitativamente avevano origine
lontana nel tempo671. A partire dall’ultimo quarto del XIII secolo e durante l’intera prima
metà del successivo, sembra, di certo, più che probabile che, nelle forme indicate nel
citato documento e negli ambiti territoriali sia del medio Biferno che del medio ed alto
Trigno, siano state alimentate dal fenomeno dei ‘fraticelli’, nel quale erano confluite le
esperienze dello ‘spiritualismo’ dei “pauperes eremite Domini Celestini”.
Fenomeno, quello dei ‘fraticelli’, rilevante ed assai consistente se è vero, come è
vero, che poteva esprimere la carismatica figura di quel Francesco Marchesino (che
significativamente non risulta, mai ed in alcun modo, menzionato in nessuna delle
X.
Ab eodem Jacobo Card. Archiep. celebr. Anno 1571.
XI.
A Maximiliano de Palumbaria LIII. Archiepiscopo celebr. anno 1599.
XII.
A Joanne Baptista Foppa LVIII. Archiepiscopo celebratum anno 1656.
XIII.
A Fr. Vincentio Maria Ord. Praedicat. Card. Ursino LXI. Archiepiscopo celebr. anno 1693.
XIV.
Ab eodem Fr. Vincentio Maria Card. Archiep. celebr. anno 1698.
669
“Hoc idem nec modo praetermittendum duximus, cum elepso anno (se, come sembrerebbe più che
probabile, ci si riferisce a quello, il 1723, della pubblicazione del Synodicon, il ritrovamento dovette
essere del 1722) in Sancta oppidi Limusani nostrae Archidioecesis Visitatione apud S. Stephani Rectorem
Hugonis Guidardii Archiepiscopi vetustum, ac ferè consumptum Concilii Provincialis excriptum,
plurimis licet amanuensis mendis inquinatum, reperimus, anno abiti 1378, quadriennio post alterum ab
eodem coactum, anno videlicet 1374. quod est VI. In prefato nostro Sinodico impressum. Quapropter ad
illius memoriam sistinendam. Dignum, prout extat, existimavimus, cum praecipuorum tamen errorum
correctionibus, ac summariis ad singulos adiunctis, in nostra huius Synodi Appendice provulgare”.
670
Synodicon … cit., App. ad Tit. II. de Constitutionibus, pag. 69.
671
In generale, ma per analogia si può estendere il fenomeno anche al mezzogiorno dell’Italia, sappiamo
che “alla metà del Duecento frate Raniero Sacconi, un domenicano che in precedenza era stato per
diciassette anni in contatto ravvicinato con i catari e cataro lui stesso, nota – quasi per esorcizzare il
pericolo ereticale – che «in tutto il mondo non vi sono più di quattromila catari tra uomini e donne». Col
termine di catari egli probabilmente indicava i perfetti, coloro che avevano ricevuto il sacramento del
consolamento e che di conseguenza conducevano un’esistenza ascetica e spirituale. Com’è noto, risulta
arduo stabilire l’attendibilità dei dati quantitativi forniti in un’età prestatistica: essi sono indicatori di
grandezza dal valore ampiamente generico e tali vanno presi. Il numero di quattromila è ulteriormente
suddiviso dal Sacconi in riferimento alle varie chiese dualiste sparse in Occidente e in Oriente, disegnando
una geografia del catarismo che suscita una qualche sorpresa. Nel secondo quarto del XIII secolo il suo
centro non è nella penisola balcanica, né nel Mezzogiorno di Francia: l’area di maggiore concentrazione e
diffusione è nella pianura padana” (MERLO G.G., Eretici ed eresie medievali, Bologna 1989, pag. 85).
cronotassi ufficiali672), vescovo di Trivento, che, della corrente dei fraticelli spiritualisti,
viene torturato e bruciato vivo nei primi anni della seconda metà del XIV secolo e, più
precisamente, durante il pontificato di papa Innocenzo VI, quando, dal 1356 al 1361, su
quella cattedra vescovile sembrano esservi almeno due vescovi ed entrambi provenienti
dai mondi, che erano assai diversi e contrapposti, del francescanesimo.
E rimane indubitabilmente vero che quei “sexaginta heretici”, che, nel 1305 (v. il
documento già citato), erano stati condotti e tenuti prigionieri a “Rocca Maginolfi”,
provenivano tutti dalle montagne del medio Trigno ed erano gli stessi ‘fraticelli’, che,
divenuti sotto Celestino V i “pauperes eremite Domini Celestini”, dopo la rinuncia di
quest’ultimo e dopo la fase della obbligata fuga (1297) in Attica ed Acaia (perché la
direzione della Grecia?) dei loro maggiori rappresentanti (Angelo Clareno 673 e Liberato
da Fossombrone) e del ritorno (1303, dopo la morte di Bonifacio VIII) di questi che –
pura casualità? – scelgono di stabilirsi proprio sulle montagne molisane 674, “vengono di
nuovo perseguitati e trovano ultimo rifugio nel Molise, ove «quodam heroe Andrea de
Sergna (Andrea d’Isernia) obtinuerunt pauperculum locum in quodam deserto» (a), un
luogo in territorio di Frosolone o, come ritiene il Colozza, sulla montagna di Civitanova
del Sannio o nel casale di San Benedetto che era di proprietà di Andrea d’Isernia (b)”675.
Il processo, che si svolse, ad opera dell’inquisitore, il domenicano Fra’ Tommaso
d’Aversa, tra Frosolone, Trivento e Roccamandolfi (terre, tutte ‘circumvicine’ di quelle
“Eccesiae Romanae immediate subiectae”) si tenne durante la primavera, e, comunque,
prima del 12 luglio (data del documento citato), del 1305, cinquant’anni prima del rogo
(ma fu il solo?) del vescovo “non ufficiale” di Trivento, che, per essere stato vescovo,
sta proprio a dimostrare, oltre al coinvolgimento persino delle istituzioni, anche la
persistenza dello spiritualismo pauperistico sul territorio montano del frosolonese e del
672
A Giordano Curti (o Curzi), vescovo dal 1344 al 1348, succede dapprima (1348-1356) il francescano,
teologo scotista, Pietro dell’Aquila, che, continuando a risiedere a Trivento, muore nel 1361, e, dal 1356
sino al 1368, Guglielmo M. Farinerio, francescano conventuale ex Ministro Generale dell’ordine.
673
Per quanto riguarda lo specifico della sua formazione culturale (e, con essa, le radici motivazionali
delle scelte che andrà a compiere), nonostante il Clareno “est loin d’attribuer une supériorité quelconque à
l’Eglise grecque”, va registrato – e la circostanza assume grande significato anche per spiegare i rapporti
con Celestino – che “Angelo connait bien, mieux que beaucoups de ses contemporains, l’Eglise d’Orient.
Il a été, ou s’en souvient, un helléniste avant la lettre; … Il a traduit la Scala Paradisi de Jean Climaque et
la Régle de saint Basile. En bon joachimite il espère la réunion de l’Eglise d’Orient et de celle d’Occident”
(AUW [von] L., La vraie Eglise d’après les lettres d’Angelo Clareno, in L’attesa dell’età nuova nella
spiritualità della fine del medioevo, Atti del Convegno : 16-19 ottobre 1960, Todi 1962.
674
“In un Molise che era stato percorso da insegnamenti di povertà e di ascetismo e da fermenti
pauperistici che avevano portato anche ad accuse di eresie, i Pauperes papae Celestini vivono un periodo
di relativa tranquillità” (LALLI R., Vita e cultura del Molise: dal Medioevo ai tempi nostri, Campobasso
2003, pag. 31).
675
LALLI R., Vita e cultura … cit., pag. 31. Il Lalli riporta le seguenti note: (a) WADDING L., Annales
Minorum, in Ad claras aquas, p. 6; (b) COLOZZA M., Frosolone, Agnone 1931, p. 153.
Il coinvolgimento dello stesso Andrea d’Isernia lascia ben immaginare la grande diffusione del fenomeno.
Diffusione che, oltre alla localizzazione, si riesce a leggere nella bolla (v. Bullarium Diplomatum et
Privilegiorum Sanctorum Romanorum Pontificum, IV, Augustae Taurinorum MDCCCLIX), del 1336, di
papa Benedetto XII “contra Fraticellos, eorumque sequaces et fautores per Sedem Apostolicam
damnatos”, nella quale si riporta che: “quidam perniciosi homines et perversi se Fraticellos seu Fratres
de paupere Vita dicentes, quorum secta pestifera olim per Sedem Apostolicam damnata estitit, …, in
Urbe ac terris Ecclesiae Romanae immediate subiectis, circumvivinisque partibus commorantes, …”.
triventino.
Che esso, il movimento dei fraticelli, si sia diffuso e radicato negli ambiti molisani
sin dalle fasi iniziali lo sta a provare il fatto che della delegazione che si era recata
(1294) da Celestino676 ad Aquila facevano parte, oltre ad Angelo Clareno e Pietro da
Macerata, detto anche Fra’ Liberato delle Marche (o da Fossombrone), anche tutti gli
altri ‘capi’ del movimento stesso (di cui fa parte anche Jacopone da Todi), che erano:
Corrado da Offida, Pietro da Monticchio, Corrado da Spoleto ed il molisano Tommaso
da Trivento.
Quanto a Limosano, il segno diretto della presenza dello ‘spiritualismo’ anche nel
suo ambito di riferimento lo si può leggere nel fatto che suo santo ‘patrono’, portatovi
sicuramente dal francescanesimo, diventa da subito quel S. Ludovico d’Angiò 677, che era
676
“Essa chiede al Pontefice di separare il movimento ‘spirituale’ dai confratelli persecutori e lassisti,
specie in materia di vita nella povertà. Celestino secondò il loro desiderio-richiesta ed alla nuova
congregazione, staccatala dal francescanesimo, diede la denominazione di “Pauperes heremitae domini
Coelestini”, mettendola sotto la protezione del Card. Napoleone Orsini e dell’abate di S. Spirito di
Sulmona, Onofrio del Comino.
Accorsero allora in Abruzzo e nel Molise molti frati spirituali, stabilendosi in eremitaggi montuosi, dove
cercarono di persistere anche quando Bonifacio VIII, salito al trono, abrogò il privilegio di Celestino,
ingiungendo ai suoi inquisitori di ricercarli ovunque e costringerli a riunirsi all’Ordine, pena la
scomunica” (TOCCO F., Studi francescani, Napoli 1909, pag. 239).
Una storia minima del movimento, fa registrare, dopo le prime contrapposizioni all’interno dell’ordine
francescano, una ripresa del suo sviluppo autonomo nell’Italia centrale adriatica a partire indicativamente
dal 1274 (che è l’anno del secondo concilio di Lione). Dopo la breve uscita, con il papato di Celestino V,
dalla semiclandestinità, l’abolizione di ogni privilegio da parte di Bonifacio VIII costringe i ‘fratres’ a
riappropriarsi dei loro spazi più ristretti ed a condurre vita nascosta sino alla definitiva scomunica (1317)
da parte di papa Giovanni XXI. Dopo la scomunica, riuscirono ad organizzarsi, ispirati alla spiritualità del
francescanesimo più autentico ed originario, come ordine del tutto indipendente e, con Michele da Cesena
(che riesce a convocare un Capitolo generale per un pronunciamento a favore dell’assoluta povertà del
Cristo e degli apostoli e verrà scomunicato nel 1328), contestarono la legittimità dell’autorità papale, che,
nel 1323 con la bolla Cum inter nonnullos dichiarò eretica l’affermazione della povertà di Gesù e dei suoi
discepoli. Riuscirono, successivamente, anche ad esercitare discrete influenze in diverse città, come a
Firenze, dove tuttavia ebbero a soffrire (1381) un ordine di espulsione; nel susseguente clima persecutorio
si arrivò alla condanna al rogo (1389) di fra Michele da Calci. Nei successivi cento anni la lotta dei
fraticelli contro il papato e le strutture ufficiali della chiesa ebbe momenti di gloria e di persecuzione fino
alla energica campagna organizzata da papa Martino V (1417-1431), che, nel marasma della lotta contro
gli altri due antipapi, trovò il tempo di ordinare nel 1427-1428 un’azione fortemente repressiva nello
spoletino e nella marca anconetana, che portò alla distruzione di 36 villaggi dei fraticelli ed alla condanna
al rogo di alcuni di essi. La sentenza venne eseguita a Fabriano alla presenza dello stesso pontefice.
L’ultimo processo si tenne nel 1466 con la condanna all’ergastolo di quindici religiosi.
677
Sulla figura di S. Ludovico, si può utilmente, anche per una ricostruzione della bibliografia, vedere:
PASZTOR E., Per la storia di San Ludovico d’Angiò (1274-1297), Roma (Istituto Storico Italiano per il
medio evo, Studi Storici – Fasc. 10) 1955.
Quanto al forte rilievo che il santo (la cui festa era assimilata a quelle delle grandi festività religiose e
dell’Ordine), sin da subito, aveva nell’ordine francescano, lo si può desumere dalla bolla di Benedetto XII
del 28 novembre 1336 (v. Bullarium … cit.), con la quale si stabilivano le “Ordinationes et statuta pro
bono redimine ordinis fratrum Minorum de Assisio”. In essa si legge:
“[…]. § 7. Circa abstinentiam vero provide duximus ordinandum, quod in generali et provincialibus
capitulis, et etiam ubique in refectoriis dicti ordinis abstineatur ab usu carnium, quodque, ubi comode fieri
poterit, in quolibet conventu ordinis una magna pars ipsius conventus iuxta dispositionem guardiani ac
consiliariorum conventus omni die in refectorio comedat, et in domo, in qua alia pars conventus iuxta
stato ordinato sacerdote il 19 maggio del 1296 (lo stesso giorno della morte di Pietro de
Marone, già papa Celestino V, il quale, durante i pochi mesi in cui è papa, lo aveva
autorizzato a prendere i quattro ordini minori); che appartiene alla corrente degli
‘spirituali’ (in opposizione ai “fratres communi”) ed è in diretto contatto con il grande
teologo spiritualista Pietro di Giovanni Olivi; e che, da ultimo, viene canonizzato il 7
aprile 1317, presenti la madre ed il fratello Roberto (che è, dal 1309, re di Napoli), da
papa Giovanni XXI (o, anche, XXII).
Ma – occorre domandarsi – tra il crepitio e lo schioppettio di quel rogo di
Trivento, che arse, bruciò e consumò il corpo fisico del vescovo ‘fraticello’ 678, cos’altro
si andava a distruggere, a cancellare così da farne cenere? E, più ancora, quanti altri
roghi si erano consumati durante la prima metà del XIV secolo?
Risulta, specialmente con il riferimento alle cose molisane, assai difficile, se
proprio non impossibile, rispondere.
E’, comunque, assai certo che con la rinuncia alla caratterizzazione ‘sociale’ delle
aspirazioni al pauperismo, che, a differenza che altrove, affondava le sue profondissime
radici in quell’eremitismo ed in quell’anacoretismo che avevano potuto esprimere figure
gigantesche come quella di Pietro de Marone (e non si vuole affatto trascurare, non
meno grande, l’altra di Giovanni da Tufara), imputabile, per quanto attiene al meridione,
ai cambiamenti imposti dalla forzata, e nei confronti degli interessi della ‘ecclesia
carnalis’ assai compiacente e rispettosa, angioinizzazione, muore – va proprio a morire
definitivamente ed irrimediabilmente – l’utopia “d’una nuova società in cui la
comunione dei beni, propria dei monaci, si estendeva a tutti come possibilità di ricevere
sempre il necessario”679 per la sopravvivenza.
Muore il sogno teso alla realizzazione della ‘ecclesia spiritualis’. E finisce anche,
nell’immediato, l’attesa dell’era del Santo Spirito, la terza età vaticinata da Gioacchino
dispositionem dicti guardiani comederit, sicut in refectorio, ab omnibus silentium observetur, et in mensa
lectio habeatur. In festivitatibus autem Nativitatis, Resurrectionis et Ascensionis Dominicae, Pentecostes,
apostolorum Petri et Pauli, Assumptionis Virginia gloriosae, et Sancti Francisci, Sancti Antonii et Beati
Lodovici episcopi totus conventus in refectorio comedat. […]”.
678
“Per porre fine ai contrasti che da decenni travagliavano l’ordine dei frati Minori, sotto il pontificato di
Giovanni XXII le iniziative contro gli «spirituali» assunsero aspetti assai aspri e cruenti. Dopo averli
privati del sostegno di taluni potenti che, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia (nota: soprattutto re
Roberto), li proteggevano, gli «spirituali» vennero affidati alle cure degli inquisitori : la loro «eresia»
divenne una questione da risolvere attraverso il tribunale della fede. Alcuni frati furono imprigionati e
torturati, altri condannati al rogo, altri vinti e sfiduciati si ritirarono dalla lotta: ne sono testimonianza
drammatica, oltre che gli atti inquisitoriali, parti del Chronicon seu istoria septem tribolationum ordinis
Minorum dello «spirituale» Angelo Clareno. […]. Uno dei frati eminenti della dissidenza francescana,
Pietro di Giovanni Olivi, importante quasi come san Francesco, fu preso di mira in vita e in morte, al fine
di annullarne qualsiasi capacità di influenza e qualsiasi ricordo: la sua tomba venne fatta distruggere, le
sue ossa disperse, alcune sue opere condannate come eterodosse (i conventi e i frati non avrebbero più
potuto conservare copia dei suoi libri), i suoi seguaci … perseguiti con durezza a partire dal 1317: presto
si accendono i roghi che non si spengono per più di un decennio.” (MERLO G.G., Il cristianesimo latino
bassomedievale, in Storia del Cristianesimo (a cura di Filoramo G. e Menozzi D.), II, Bari 2001, pag.
282). Preme sottolineare, oltre ai sistemi ed ai metodi per le distruzioni e le cancellazioni, la sistematicità
dell’uso, anche negli ambienti meridionali, del rogo.
679
MANSELLI R., Studi sulle eresie del secolo XII, Roma (Istituto Storico Italiano per il medio evo, Studi
Storici – Fasc. 5) 1975 (seconda ediz.), pag. 286.
da Fiore in cui la società monastica si sarebbe definitivamente affermata e realizzata.
Cade, cioè, la spontaneità delle ‘contestazioni’, che, più razionalizzatesi, proseguiranno
per altre vie: sino a diventare ‘riforme’.
5.2 – Struttura ufficiale della Chiesa, scismi e posizioni antiIl complicato intreccio di contrapposte motivazioni tanto politiche (i normanni che
hanno da legittimare la conquista dei vertici del potere) quanto religiose (oltre alle
riforme in corso delle più elevate istituzioni della Chiesa, le difficoltà incontrate dalla
‘latinizzazione’ del mezzogiorno greco-bizantino) è all’origine dello scisma del 1130,
che portò alla contemporanea elezione di Anacleto II e di Innocenzo II (perché entrambi
‘secondo’?) e che “gravò pesantemente sull’Italia, che si vide divisa, religiosamente in
due parti: l’una, quella innocenziana, che, dopo una serie di oscillazioni e di variazioni
venne a comprendere quasi tutta l’Italia settentrionale e centrale, e l’anacletiana, che,
oltre al Lazio, ebbe l’appoggio del potentissimo stato normanno; e non a caso Ruggero
II, nel 1130, otteneva dall’antipapa Anacleto il titolo di Re”680.
Se ci si volge ad esaminare anche le condizioni dei ‘cambiamenti’, si vede che
nell’intreccio vanno ad inserirsi, e non poteva essere altrimenti, anche le ragioni delle
aspirazioni (ora e per la mancanza di un capace controllo da parte delle ufficialità, si
percorre ancora l’alveo della regolarità), che porta, quasi contemporaneamente alla
nascita dell’ordine dei Templari (circa il 1120), alle fondazioni monastiche – e ci si
limita a quelle di maggiore evidenza – di Montevergine (1124, con Guglielmo da
Vercelli) e di Pulsano (1129, con quel Giovanni da Matera, che ha iniziato la vita
religiosa, «pauperis habitu assumpto», presso monaci italo-greci nei pressi di
Taranto681).
Quanto alle ufficialità e nel momento delle riforme dei modi di essere all’interno
delle strutture monastiche, va registrato, il fatto di un papato che si fa, sempre più,
“monarchia ierocratica” con il conseguente formarsi della ‘curia’, rispetto ad una
‘ecclesia’ che è tradizionalmente popolare, ‘democratica’ e, pur se con tanti distinguo, di
tutti (gli ‘episcopi’ vengono ancora eletti dagli abitanti della ‘civitas’682). Processi che
maturano proprio in concomitanza con la fase della concentrazione umana e, in presenza
680
MANSELLI R., Studi … cit., pag. 276.
La povertà, o, meglio, il ‘sentimento’ della povertà, che pure era già latente nelle società, si avverte in
un momento, in cui l’inurbamento è già in atto e la penuria materiale, che nelle campagne era ancora
sopportabile, nelle città miete le proprie vittime. Così come quelli dei predicatori itineranti e del
sacerdozio femminile, il fenomeno, almeno come fatto sociale, della ricerca pauperistica pare essere nato
in ambiti culturali greco-meridionali e, è il caso di Stefano di Thiers, che, dopo un pellegrinaggio a S.
Nicola di Bari durante il quale entra in contatto con eremiti italo-greci, proprio dal meridione d’Italia
viene esportato in Francia. Cosa che, per tanti versi, spiega anche il ‘ritorno’ di Brunone, al quale si deve
anche la ‘riforma’ nel cenobio limosanese di S. Illuminata, sulle montagne della Calabria.
682
Sembra opportuno segnare che un centro abitato, prima della attribuzione e della erezione a diocesi (v.,
ad esempio, una bolla del 1295 di Bonifacio VIII e l’altra del 1369 di Urbano V), veniva “nobilem et
insignem, multisque commoditatibus praeditum, ad Dei laudem et gloriam, ehaltationem catholicae fidei,
et divini cultus augmentum, de fratrum nostrorum consilio et assensu ac potestatis plenitudine supradictae,
in civitatem erigimus, et civitatis vocabolo insignimus, …”.
681
di un momento di forte crescita demografica, dell’urbanizzazione rispetto ad un passato
fatto di presenza diffusa sul territorio.
E, per molti versi, anche quelle aspirazioni al riformismo monastico furono, se non
proprio tutta, almeno parte della risposta alla ‘gerarchizzazione’ della Chiesa storica,
“identificata con la ecclesia carnalis nettamente diversa e contrapposta alla ecclesia
spiritualis che molti volevano ed attendevano”683; quasi che ci si viene a trovare davanti
a due distinte ‘vie’ che si scontrano tra di loro (ma che, talvolta, andranno anche a
combinarsi ed a confondersi) per raggiungere il ‘nuovo’: quella, ‘ufficiale’, ‘politica’ ed
elitaria, del formarsi di una secolare curia ‘clericalista’ e l’altra, diffusa, che va a
raccogliere le istanze della tradizione (che, nel meridione, ha una sua specificità
particolare nella matrice eremitica e ‘greca’) ‘monastica’ e ‘regolare’, che, a sua volta
(si pensi solo ai cambiamenti del concentrarsi umano nei centri abitati), è in forte
divenire a motivo dei cambiamenti sociali in atto. Andavano ad inserirsi ed a percorrere
questa seconda via sia l’appropriarsi, pur’esso nuovo, delle cose religiose da parte della
laicalità (“genus laicorum”) e, di esso conseguenza, il fenomeno di quei predicatori
itineranti684 (sognatori, visionari, vaticinatori, profeti che proliferano nella cattolicità
occidentale) che, con i loro spostamenti, fanno divulgazione a tutti delle corruzioni della
‘clericalità’ e del “genus clericorum”.
Il tutto, con l’ovvia conseguenza che, quando è in atto – ed accade, oltre che con
sistemi e modalità radicali, assai spesso ed a tutti i livelli – lo ‘scontro’, non solo viene
perseguito l’annullamento e la cancellazione di tutto ciò che è espressione dell’altro, ma
vengono ‘vissute’ la spaccatura e la separazione così che diventa nient’affatto casuale
l’uso spregiudicato, disinvolto e tutto medievale, della scomunica (= essere fuori da),
dell’anatema e dell’interdetto. Strumenti tutti che, per motivi assai diversi, provocano
l’eccitazione della folla di entrambe le parti di essa.
“Il cristianesimo latino del pieno e tardo medioevo, piaccia o non piaccia, è un
cristianesimo politico a seguito della grande svolta avvenuta nella seconda metà dell’XI
secolo”685 con lo scisma d’Oriente (o, a seconda del punto di vista, d’Occidente).
Gli stessi scismi, che, in precedenza e quando le influenze greco-orientali erano
state maggiori ed avevano ampiamente predominato, furono religiosi e frutto di
discussione dottrinal-teologica, da questo preciso momento iniziano a prendere una
connotazione sempre di più marcatamente politica e diventano espressioni di interessi.
Non solo; ma, a riprova della vivacità sociale (e del distacco delle ufficialità dal sentire
religioso), essi, gli scismi, a partire da quello del 1054 tra Oriente ed Occidente e sino
agli Svevi ed alle normalizzazioni di quella angioinizzazione che ha assoggettato a se il
papato romano, si moltiplicano ed, ai vertici, si fanno sempre più numerosi686.
683
MERLO G.G., Il cristianesimo … cit., pag. 290.
E’ significativo il fatto che, con la bolla “Ad abolendam” (1184), papa Lucio III va a scomunicare non
solo gli ‘eretici’, ma, ed a motivo stesso del loro vagare predicando e non certo per i contenuti della loro
‘vulgarizzazione’, i ‘predicatori itineranti’.
685
MERLO G.G., Il cristianesimo … cit., pag. 251.
686
Escludendo la figura di Pietro Pierleoni (antipapa dal 1130 al 1138 col nome di Anacleto II), di cui si
riferisce più ampiamente, prima della “cattività avignonese” (durante la quale si ha per antipapa a Roma
Pietro Rainalducci da Corbara, che, imposto, ma solo per il periodo dal 1328 al 1330, dall’imperatore
tedesco – ed anti-francese – Lodovico il Bavaro, prende il nome di Niccolò V), una serie, pur sommaria e
684
Ma, nelle realtà specifiche e particolari delle tante ‘civitas’, quante e quali furono
le posizioni prese dalle differenti gerarchie locali che andavano a condizionarle con il
loro contrapporsi? Da quale ‘fondo’ culturale provenivano tali aspirazioni? Ed, ancora di
maggiore interesse, a quali cause, gradi ed effetti di ‘cancellazioni’ manovrate portarono
l’essere state tali aspirazioni ‘politicizzate’ e l’essere divenute espressioni, se non
‘partitiche’, almeno di parte?
Tacciono, fatto salvo casi del tutto isolati e troppo sporadici, le storie ‘locali’ a tale
riguardo. Ma, quanto alla specificità di Limosano, è possibile pensare che la condizione
di ‘cattedrale’ per la chiesa di S. Stefano, che – è stato già visto – nel 1132 (e durante lo
scisma di papa Anacleto) ha il ‘molisianus’ Ugo come suo proprio ‘episcopus’
(schierato dalla parte di Innocenzo), potrebbe essere considerata proprio il frutto della
debizantinizzazione (e/o, se lo si vuole, di una latinizzazione che trova molti e seri
ostacoli) seguita allo scisma del 1054; cosa che andrebbe ben a spiegare la ‘reinscriptio’
da parte di papa Anacleto II, il quale sin dal 1130 riassegnava e “reintegrabat”687, con
caratteristiche più vicine alla tradizione bizantina, la diocesi limosanense (con sua
propria chiesa cattedrale a S. Maria) a quel vescovo Gregorio che gliene aveva fatta
specifica richiesta.
Alla fedeltà ed alla precisione di una ricostruzione storica puntuale altri problemi,
assai seri e nient’affatto trascurabili, li pongono, poi, le riappacificazioni seguite alle
rotture ed i superamenti degli scismi negli ambiti locali.
Ci sarebbe da interrogarsi, ma non rappresentò certamente un esempio isolato,
sugli effetti – iniziative e conseguenze – ‘locali’, significativamente concomitanti con
quelli provocati dalla angioinizzazione ancora in corso, della riunificazione, durata poco
meno di un decennio, tra le chiese di Occidente e di Oriente al concilio di Lione del
1274. E, come è stato osservato altrove688 riguardo allo specifico del personaggio di
di massima, degli antipapi, con relativi scismi, è la seguente:
• dal 1058 al 1059, Giovanni Mincio (Benedetto X);
• dal 1061 al 1064, Pietro Cadalo (Onorio II);
• nel 1080 e dal 1084 al 1100, Guiberto di Ravenna (Clemente III);
• dal 1100 al 1101, Teodorico;
• nel 1101, Adalberto;
• dal 1105 al 1111, Maginulfo (Silvestro IV);
• dal 1118 al 1121, Maurizio Burdano (Gregorio VIII);
• nel 1124, Tebaldo Buccapeco (Celestino II, papa legittimo ma sottomesso all’avversario Onorio
II e, solo in un secondo tempo, considerato antipapa);
• nel 1138, Gregorio Conti (Vittore IV, succeduto a Anacleto II);
• dal 1159 al 1164, Ottavio di Montecelio (Vittore IV, o V);
• dal 1164 al 1168, Guido da Crema (Pasquale III);
• dal 1168 al 1178, Giovanni di Struma (Callisto III);
• dal 1178 al 1180, Lanzo di Sezza (Innocenzo III).
687
Quella del “vescovato doppio” all’interno della stessa ‘civitas’ non è affatto una novità ed, al contrario,
era di antichissima tradizione, se è vero che “circa il 636 Paolo Diocono annotava (H.L., IV, 42): Huius
temporibus pene per omnes civitates regni eius (= di re Rotari) duo episcopi erant, unus catholicus et
alter arrianus” (CECCHELLI C., L’arianesimo e le chiese ariane d’Italia, in Le Chiese nei regni
dell’Europa occidentale e i loro rapporti con Roma sino all’800, VII settimana CISAM, Spoleto 1960, II,
pag. 753.
688
BOZZA F., Pietro … cit.
Celestino V, sembrerebbe che andarono a concretizzarsi, nel territorio del medio
Biferno, forti riviviscenze della grecità e della tradizione bizantina. Tanto che lo stesso
Pietro de’ Marone, proprio durante il suo breve (1276-1278) abbaziato a Faifoli (“in qua
functione”, dicono le fonti, e dove assai forte era la tradizione e la ritualità greca) al
quale era stato chiamato (o, meglio, imposto come contropartita della sua assoluzione
dalla scomunica) dall’arcivescovo Capoferro689, “novam Monachorum Eremitarum
Congregationem, titulo S. Damiani, sub Regula vero S. Benedicti, qua postea
Coelestinorum vocata est, instituit”. E tale nuova congregazione di monaci eremiti,
689
Quella dell’arcivescovo Romano Capoferro è una figura sicuramente assai controversa. Era stato eletto,
come allora era ancora costumanza, dal capitolo della chiesa metropolitana all’arcivescovato di Benevento
dal 1254 e non sempre con posizione chiara e coerente con la politica delle gerarchie ecclesiastiche; e,
dopo essere stato colpito da scomunica per aver partecipato alla messa solenne che seguì l’incoronazione
di Manfredi, riuscì ad ottenere l’assoluzione da papa Alessandro IV. Risultava ancora indagato il 22
gennaio 1268 [«de Beneventano electo reperies, nobis mittas, cum apud nos instetur assidue pro
expeditione ipsius»] dal cistercense Gottefrido, incaricato dal papa francese Clemente IV. Ottenuta (ma a
quale prezzo?) la definitiva assoluzione da Gregorio X subito dopo (18 agosto 1274) la chiusura del
concilio di Lione, morì nel 1280.
Ritenendola di sicuro interesse per i moltissimi particolari politici (come la partecipazione anche di “alios
prelatos dicti regni” alla incoronazione di Manfredi) e sul tipo della elezione in loco dei vescovi ancora
vigente in quel periodo, si riporta, prendendola da GUIRAUD J., Les Registres de Grégoire X, Paris 1892,
n. 403, il documento, col quale il 18 agosto 1274 papa Gregorio assolveva l’arcivescovo Capoferro dalle
precedenti censure cui era incorso:
“Capuferro electo Beneventano.
In nostra constitutus presentia repulisti quod cum quondam Manfredus, qui de facto regimini regni Sicilie
presidebat aspirans ad ipsius regale fastigium occupandum, te ac alios prelatos dicti regni ad civitatem
Panormitanam ubi hoc usurpare conceperat, vocari fecisset, tu crudelitatem eius metuens, illuc ad
vocationem huiusmodi accestisti, non tamen fuisti presene in capella regia Panormitana dum idem
Manfredus se presumpsit ibidem facere coronari, quamquam indutus capa serica interfuisses missarum
solempnis in Panormitana ecclesia. In prosecuzione quoque causarum quas super iuribus ecclesie tue in
curia ipsius Manfredi moverai contra quondam, tandem seguendo curiam dicto Manfredi , eius
officialibus ac etiam alias ipsis et quibusdam comitibus et alios fautoribus eiusdem Manfredi participians,
eis exhibuisti collectas, ipsosque interdiu exenniis onorasti, divina nichilominus officia celebrando.
Postmodum autem felicis recordationis Alexander papa predecessor noster, tua super premissis
confessione audita, ab excommunicationis sententiis quas propter hoc incurreras, per bone memorie H.
tituli S. Sabine presbiterum cardinalem, te fecit absolvi et super irregularitate quam inde contraxeras
dispensare. Tu vero post absolutionem huiusmodi dicto Manfredo reverentiam exhibens, partecipasti
modo simili tam sibi quam officialibus, comitibus et fautoribus supradictis et eadem divina officia
celebrasti. Demum frater Gottefridus, ordinis Cister, penitentiuarius et cappellanus felicis recordationis
C(lementis). pape predecessoris nostri, super excommunicationum sententiis in quas predictorum
occasione inciderai, tibi beneficium absolutionis impendit, quamquam super hiis non appareant aliqua
documenta. Nos igitur attendentes quod ad premissa que te asseris taliter commisisse, non tam spontanea
voluntas quam timoris coactio te induxit, ac per hoc tecum initius super hiis agere intendentes, super
irregularitate quam contraxisse dinosceris celebrando divina officia, sic ligatus, tecum auctoritate
apostolica dispensamus et nichilominus omnem maculam sive notam adversus te forsan ex tredictis
exortam ex potestatis plenitudinis abolemus.
Datum Lugduni XV kalendis septembris anno terbio”.
Il documento è anche riportato da ZAZO A., Echi in Benevento del pontificato di Celestino V, in Samnium
1966, pag. 1 e segg.
Dopo la morte del Capoferro, sulla cattedra metropolitana di Benevento, dopo due anni di contrasti e di
discordie tra gli esponenti del Capitolo, al quale spettava allora la nomina dell’arcivescovo, gli successe il
che è senza alcuna approvazione da parte occidentale ed è da tenere staccata da quella
abruzzese, regolarmente approvata da Roma, rimase cosa altra ed a se stante sino alla
unificazione con la bolla del 20 ottobre 1294690, con cui proprio un interessato papa
Celestino V univa a quello di S. Spirito di Sulmona il monastero di S. Giovanni in Piano,
presso Apricena, dove (e, viene da chiedersi, perché, in quel preciso momento storico,
non in Abruzzo?) aveva fatto trasferire i ‘monachi’ di Faifoli nel 1283, che fu l’anno nel
quale, per colpa del re Carlo I d’Angiò, saltavano gli accordi per la riunificazione e
riprendeva nuovamente lo scisma.
E situazioni di contrapposizione ed, assai probabilmente, di maggiore radicalità
dovettero essere vissute anche durante (e negli anni immediatamente successivi) i
concili691 ‘italiani’ che precedettero quello, il lionese II, del 1274 (che si occupò, oltre
che della questione di politica internazionale del trasferimento del papato in Francia,
della unificazione dell’ordine dei Templari a quello degli Ospedalieri e della unione con
discusso personaggio Giovanni de Castrocoelo, che, come mostra la non chiara vicenda della nomina a
cardinale proprio da parte di Celestino V, fu sicuramente favorevole agli angioini.
690
Perché di grande significato di conferma per la “nova congregatio” fondata a Faifoli, se ne riporta il
testo:
“Celestinus episcopus servus servorum dei. Dilectis filiis abbati et conventui monasterii sancti Spiritus
prope Sulmonam ordinis sancti Benedicti Valven. diocesis salutem et apostolicam benedictionem. Inter
cetera desideria cordis nostril illud existit precipuum, ut ecclesias preservemus a collapsibus et collapses
ad prospera spiritualiter et temporaliter reducamus. Attendentes itaque consideracione paterna et
confidentiale experimento probate tenentes, quod vestrum et monasterium sancti Iohannis in Plano ordiis
sancti Benedicti Lucerin. diocesis vinculo unionis coniuncta in spiritualibus et temporalibus plenius
elucescent, monasterium ipsum sancti Iohannis eidem monasterio vestro presentium auctoritate unimus
ipsumque monasterium sancti Iohannis cum omnibus membris, possessionibus, terries, vineis, piscariis,
villis, silvis et memoribus, honoribus, iurisdicionibus et ceteris iuribus, pertinenciis et bonis suis dicto
monasterio vestro incorporamus, subicimus et uniendo applicamus decernentes exnunc irritum et inane, si
secus super hoc a quoquam contigerit attemptari. Nulli ergo omnino hominum liceat hanc paginam nostre
unionis, incorporationis, applicationis et constitutionis infringere vel ei ausu temerario contraire. Si quis
autem hoc attemptare presumpserit, indignationem omnipotentis dei et beatorum Petri et Pauli
apostolorum eius se noverit incursurum. Dat. apud sanctum Germanum XIII kal. Decembris, pontificatus
nostri anno primo”.
Per l’errore nella datazione del documento si vedano sia la Moscati che lo HERDE (Coelestin V, Peter
von Morrone, der Engelpapst, Stuttgart 1981).
691
Relativamente al secondo millennio, i concili ‘ecumenici’, che ebbero a precedere i ‘lionesi’, ai quali
seguì quel concilio di Vienne che, dal 16 ottobre 1311 al 6 maggio 1312, si occupò della soppressione
dell’ordine dei Templari e della disputa sulla povertà francescana, sono:
1) il Lateranense I, il cui carattere di ecumenicità viene messo in dubbio da molti, si svolse dal 18 al 27
marzo (6 aprile?) 1123 contro l’investitura dei laici e per una riforma del clero;
2) il Lateranense II, iniziato il 4 aprile 1139 ed il cui carattere di ecumenicità risulta controverso, diede
fine allo scisma di papa Anacleto e condannò gli errori dei pietrobrusiani e di Arnaldo da Brescia;
3) il Lateranense III, svoltosi dal 5 al 19 marzo 1179 con la partecipazione di circa 300 prelati e di un
numero imprecisato di abati, servì ad affermare la ritrovata unità della Chiesa dopo diciotto anni di scisma
(1159-1177) e si occupò di fissare nuove regoli riguardo alle elezione del papa e dei vescovi;
4) il Lateranense IV, l’unico dei ‘lateranensi’ ad essere definito “generale concilium” dai canonisti del
XIII secolo, tenutosi dall’11 al 30 novembre 1215, “doveva occuparsi di tutti i grandi problemi del
momento, spirituali, pastorali e anche politici” ((PARAVICINI BAGLIANI A., Il trono di Pietro, Roma
1996, pag. 146) e prese decisioni contro l’eresia dei Catari, sulla transustanziazione eucaristica, riguardo al
giovane Federico II che era appena uscito dalla tutela di papa Innocenzo III.
la chiesa greca692).
Ci sarebbe da interrogarsi sulla qualità e sulla quantità della partecipazione dei
vescovi del regnum meridionale e, più propriamente, molisani a tali concili e, nello
specifico, a quello del 1245, il lionese I contro Federico II, se a distanza di pochi anni
ancora si registrava, con quella dell’arcivescovo Romano Capoferro, una significativa
partecipazione di diversi “alios prelatos dicti regni” alla incoronazione di Manfredi.
Questo episcopato, sicuramente ‘ghibellino’ e filo-svevo (ed, in ogni caso, sicuramente
anti-francese), aveva partecipato al concilio? Ed, in caso affermativo, quale posizione e
quali istanze della politica di allora avevano rappresentato?
E, sempre sulla qualità e sulla quantità della partecipazione ai concili da parte dei
vescovi ‘molisani’, domande di significato affatto minore bisogna porsi se ci si vuole
occupare delle questioni discusse nei concili ‘lateranensi’ e con particolare riferimento a
quello, il II, del 1139 per il superamento dello scisma anacletiano. Che fine fa, nello
specifico, il vescovo Gregorio (tale, ordinato per richiesta diretta ad Anacleto, dal 1130),
che è stato antagonista del vescovo Ugo a Limosano? Accetta le conclusioni e le
decisioni del concilio, se, come sembra essere stato probabile, si deve escludere (mentre
avrebbe dovuto – e potuto – parteciparvi l’antagonista Ugo) la sua partecipazione al
concilio stesso? E, in caso affermativo (che, però, mi sento proprio di escludere) in quale
misura le avrebbe accettate? Ed i suoi sostenitori come e quali comportamenti, sia dal
punto di vista religioso che da quello della fede ‘politica’, mettono – e potranno mettere
– sul campo della specificità sociale della ‘civitas’ di Limosano?
Neppure a queste domande danno risposta le storie ‘locali’, troppo condizionate da
quella a carattere ‘generale’, eccessivamente ‘unificata’ e che, come il fiume, la si
costringe a scorrere assai calma in un alveo piano e senza sussulti.
Altri elementi di divisione e del formarsi delle “posizioni socialmente anti-”
all’interno della ‘civitas’ furono – potrebbero essere state – le confraternite, la cui
organizzazione costituisce e rappresenta, se non la sola risposta, almeno una tra le tante
risposte693 ai fatti riconducibili all’eresia che, nel XII secolo, inizia a diventare fenomeno
di massa.
In una società, che era appena passata da quel sistema economico chiuso, che era
stato la ‘curtis’, ai primi traffici commerciali ed alla circolazione della moneta, seppur
lenta ed ancora primitiva; in una società, che, pur mantenendo ancora assai rigida la
divisione tra gli orantes (i professionisti del religioso), i pugnantes (gli specialisti nelle
armi) ed i laborantes (gli addetti alla produzione), vedeva con una tanto tacita quanto
692
Al concilio del 1274 parteciparono – e, quindi, ancora esistevano con tutta la loro influenza e le loro
tradizioni culturali e cultuoli – “vescovi e abati greci venuti dal Regno di Sicilia”.
Per eventuali approfondimenti, si vedano: FRANCHI A., Il concilio II di Lione (1274) secondo la
“Ordinatio concili generalis Lugdunensis”, Roma 1965; FRANCHI A., Il problema orientale al concilio
di Lione (1274) e le interferenze del Regno di Sicilia, in ‘O Theologos, V 1975, p. 15 e segg.
693
Al riguardo è significativo che proprio in questo periodo, l’ultimo trentennio del XII secolo, “maturava
la condanna delle dottrine eretiche, dei movimenti religiosi e delle pretese laicali, contenuta nella decretale
di papa Lucio III, emanata a Verona il 4 novembre 1184: Ad abolendam hereticam pravitatem”
(RUSCONI R., Gioacchino da Fiore tra Bernardo di Clairvaux e Innocenzo III, in Gioacchino da Fiore
tra Bernardo di Clairvaux e Innocenzo III, Atti del 5° Congresso internazionale di studi gioachimiti: San
Giovanni in Fiore, 16-21 settembre 1999, Roma 2001, pag. 332
solida compenetrazione tra le prime due categorie l’allontanamento della terza dalla
partecipazione alla ricchezza; in una società, che, dopo la commercializzazione degli
schiavi, cui non erano state estranee le grandi istituzioni religiose, ad ogni suo livello
sviluppava, prima grave disfunzione socio-economica, il fenomeno dell'usura; in tale
società, quella del XII secolo, caratterizzata nel bene e nel male, perciò, da evidenti
impulsi evolutivi (oltre che dal passaggio da una religiosità aristocratica, di aristocratici e
cavalleresca, ad una religiosità più popolare [si pensi solo al fenomeno dei ‘conversi’ e
degli ‘oblati’] col formarsi di una rete che viene ad assumere forti rilevanze, anche
economiche, nella città che sta definendo la sua nuova funzione nel rapporto con il
territorio circostante), Pantasia Abdenago, il quale era “di nobile famiglia originaria di
Limosani (Molise)”, meno di un decennio prima della decretale Ad abolendam
hereticam pravitatem di papa Lucio III (1184) contro le eresie e le “pretese laicali”,
fondava in Benevento “...nel 1177 una chiesa e una collegiata, quella di S. Spirito, e,
accanto ad essa, una confraternita laicale”694.
Essa, probabilmente la prima del genere, per essere ‘laicale’: 1) ha di innovativo la
tendenza a porsi in una posizione autonoma nei confronti del sistema ecclesiastico
ufficiale; 2) rappresenta la risposta, in forma comunitaria e nel momento in cui la
remunerazione del lavoro diventa esigenza sociale, alla domanda di mutualità solidale;
3) costituisce l’alternativa antagonista ai poteri forti tradizionali, finalizzata alla difesa,
specie nella sfera economico-sociale, nell’ambito di una “Terra”.
Quelle esperienze di primordiale associazionismo, che in una società in fase di
risveglio non potevano già di per sé non incontrare favore e che, non ostacolate dalla
politica federiciana per il loro essere espressione di laicità, si sviluppano quasi a macchia
d'olio, verranno ben presto anche ‘esportate’ dall’area beneventana e, ad essa collegata
con un cordone ombelicale, da quella limosanese, i cui ‘cittadini’ godevano della
cittadinanza beneventana.
E’ – potrebbe essere – il caso di Isernia, dove a distanza di oltre un secolo (era già
il 1289) “aliqui cives nec non et alii forenses in unum coniuncti glutino caritatis,...,
fratariam seu fraternitatem fecerunt”695, “opera et labore” di quel Pietro de’ Marone
originario – proprio non casualmente – della stessa area, quella limosanese, da dove
proveniva, con la specifica sua tradizione culturale, lo stesso Pantasia Abdenago.
Trovare, almeno sino a tutto il XV secolo, tracce della presenza di confraternite,
che pur dovette essere significativa e visibile, nella “terra” di Limosano, la quale,
694
ZAZO A., Dizionario Bio-Bibliografico del Sannio, Napoli 1973; voce ‘PANTASIA Abdenago’. E’,
anche in questo caso, necessario sottolineare il collegamento (che lo si ritroverà molto forte anche nella
interpretazione del personaggio e delle esperienze ‘culturali’ di Pietro de’ Marone) del limosanese
Pantasia Abdenago con le specificità – ancora presenti sul territorio? – della tradizione greca, per la
quale “l’insistance sur l’Esprit et la Trinité chez les iconoclastes serait ainsi le pendant de l’insistance,
chez les iconodoules, sur la personne du Christ, dont l’incarnation visible justifie la représentation, et sur
la Théotokos, sa mère humaine” (AUZEPY M.-F., les enjeux de l’iconoclasme, in Cristianità d’Occidente
e Cristianità d’Oriente, LI Settimana CISAM, Spoleto 2004, pag. 159. Applicato alle situazioni molisane,
quanto sostenuto dalla Auzépy porta diverse spiegazioni.
695
Dalla Bolla di Roberto, Vescovo di Isernia, che, nonostante sia pervenuta in copia non autentica del
‘600 e, perciò, affatto attendibile, molti isernisti ritengono documento principe a favore della loro ipotesi
sulla patria di Celestino V. “Alcuni cittadini residenti ed altri forestieri, uniti dal glutine della carità, per
l’opera ed il lavoro del religioso uomo Pietro de Morrone,... costituirono una frataria o (con)fraternita”.
nell’ultimo trentennio del XVI secolo, ne vedrà operanti ben sei contemporaneamente696,
risulta cosa assai difficile a motivo della cronica carenza di documentazione. La prima
notizia ‘certa’ da per sicuramente esistente “la Confraternita del SS.mo Sagramento
dall'anno 1500”697.
La assoluta coincidenza di tale data, tuttavia, con l’altra “dela consecratione de
l’altar majore (della Chiesa di S. Stefano), lo quale lo consacrò lo episcopo de trittivero,
nomine io: bap.ta nellanno 1510, a li quattro de aprile”, farebbe pensare a quel tipo di
‘fundatione’, che, come avverrà una seconda volta con la “Bolla spedita à 6: 9.mbre
dell'anno 1693” dall'Orsini, può far pensare ad un primo serio tentativo di portare quella
Confraternita nell’orbita ecclesiastica. Ma essa, nonostante tutto, manterrà gelosamente
una connotazione di assai forte ‘laicalità’698 almeno sino all'intervento orsiniano.
Più recente di quella, in quanto, oltre le indicazioni di fonti e di documenti, a farla
tale è il maggiore asservimento all’istituzione ecclesiastica fu la “Ven.bile Cappella del
SS.mo Rosario..., la quale per essere ecclesiastica, come si rileva dalla prima
fundazione di d.a Cappella fatta dall'Arcip.e di quel tempo alli venticinque Marzo
1583” e “dalla annessione all’Arciconfraternità di Santa Maria della Minerva di Roma al
696
A Limosano, da fonti archivistiche (v. ASC, Protocolli del Notaio Ramolo Nicolamaria) dell’ultimo
trentennio del XVI secolo, risulta documentata l’attività delle seguenti Confraternite sicuramente più
antiche:
- la Cappella (1571), che, nel 1589, è “Cappella con Confraternita” del SS.mo Corpo di Cristo o, nel
1598, del SS.mo Sacramento, in S.to Stefano nel 1591;
- la Cappella con Confraternita del SS.mo Rosario (1589), in S.ta Maria nel 1591;
- la Cappella con Confraternita del Nome di Giesù (1589), in S.ta Maria nel 1591;
- la Confraternita (1587), o, nel 1589, Cappella con Confraternita, della SS.ma Concezione, in S.
Francesco nel 1591;
- la Cappella con Confraternita del S.to Cordone di S. Francesco (1589);
- la Cappella con Confraternita di S. Martino (1580 e 1589);
697
ASC, Fondo Opere Pie, Limosano. Diverse notizie sulle Confraternite sono state ricavate da questo
fondo composto da quattro Buste, che, per evitare inutili appesantimenti, si eviterà per quanto possibile di
citare.
698
Quanto al carattere laicale ed alle costumanze amministrative, in uso prima della controriforma
orsiniana nelle Confraternite di Limosano, le notizie di maggior interesse vengono da una “Fides pub.ca
pro Mag.ca Universitate Terre li=Musanorum, super administratione Locorum Piorum Laicorum,
et Cappellarum eiusdem”, del 31 Gennaio 1740 (ASC, Protocolli notarili, Not. Amoroso F.Antonio di
Limosano, atto del 31 Gennaio 1740), con cui “in publico testimonio (si sono) constituiti Mercurio
Covatta di anni ottanta, il Mag.co Domenico Corvinelli d'anni settantasei, Ascanio Longo d'anni settanta,
e Pietro Santone d'anni settanta, come han detto, e dal loro aspetto apparisce, della sud.ta Terra, li quali
spontaneamente hanno asseriti avanti di noi, come prima di venire il fù Arcivescovo Orsini di Benevento,
le due Cappelle di questa sud.ta Terra, per essere laicali, e fondate con la carità de Cittadini, cioè del
Santis.mo Sagramento, e del Santis.mo Rosario, erano sempre amministrate da Laici del Paese, e si
eligevano economi delle medesime, sempre persone laiche, ancorche non fossero stati Confratelli; tanto
vero che detto Mag.co Domenico Corvinelli, secondo si va ricordando, fù eletto economo, verso l’anno
mille seicento ottantotto, et essercitò la sua economia, e non era Confratello, e lo detto Ascanio Longo è
stato varij anni economo, e non era Confratello, bensì ricevevano il giuramento di ben amministrare,
dall’Arciprete della Chiesa di San Stefano,..., e sanno benissimo, che quando doveva eligersi
l’Economo, si sceglieva una Persona più capace laica del Paese, e non potevano ricusare, per essere
cosa del Publico, e da che venne detto Arcivescovo Orsini, le dette Cappelle passarono in mano de Preti,
et ita juraverunt”.
primo di Decembre 1693”699 da parte dell'Orsini.
Delle altre, di tutte le altre, a parte qualche notizia in più per la confraternita del
“SS.mo nome di Giesù”, per la quale si riscontrano tracce ancora nel ‘700, più niente.
Che risulta essere veramente poco.
5.3 – Le ‘riforme’ e la controriforma
A conclusione del percorso (che, nonostante i limiti che le schematizzazioni
possano evidenziare, è possibile datare al periodo del “grande scisma d’Occidente”),
attraverso il quale si era avuto il passaggio dalla religiosità aristocratica (e cavalleresca)
ad una religiosità più popolare, deve essere registrata una inversione di tendenza
speculare e diametralmente opposta; così che da quella religiosità di tutti, per tutti ed a
tutti, che aveva caratterizzato i secoli dal XII al XIV, si passa a forme di devozione
aventi caratteristiche specificamente elitarie (si pensi al fenomeno delle ‘chiese’ private
all’interno dei palazzi della feudalità nobiliare) e, sotto tanti aspetti, specialistiche, che,
anch’esse, contribuiscono a mettere in crisi la ierocrazia. Anche il carattere della
contestazione, che non è più semplicemente romitica e/o, nel suo crescere, monastica
prima e, nella sua fase ultima, sociale (basterà pensare a quella che il Miccoli definisce
la “tradizione ereseologica del pauperismo”700, ma non solo ad essa), con il suo evolvere
assume sempre di più gli aspetti della ‘intellettualità’, smettendo quelli dello
spontaneismo sentimentale e del fideismo irrazionale. In tal modo anche lo scontro sulla
povertà (sempre più inteso, nel tempo, come elemento di caratterizzazione nella
contrapposizione politica) non lo si può – e non lo si deve – farlo prescindere e non
affiancarlo (e farlo alimentare) alla circolazione delle idee sullo Spirito Santo (riprese
dalla tradizione greca701) ed, ancor più, a quelle sulla verginità e sulla castità (originate,
probabilmente, dalla paura di una fase di crescita demografica incontrollabile).
Andavano, tali idee, a mettere le proprie radici ed a diffondersi negli strati più
bassi, emarginati dalle società ed, in certo qual modo, già ‘separati’.
Anche se qualche fonte, come “Amabile, data l’avvenimento nel 1242”, si ha che,
al più tardi e “già nel 1264, un castello pugliese aveva ospitato il vescovo Viviano di
Tolosa che, per sfuggire agli eccidi che infuriavano durante la crociata contro gli
Albigesi, abbandonata la Provenza, scelse di riparare nel sud d’Italia” 702, “in comunanza
di vita con altri «perfetti»”703.
699
ASC, Protocolli notarili, Not. Marone Saverio di S. Angelo Limosano, atto del 4 Febbraio 1766.
MICCOLI G., La tradizione ereseologica del pauperismo, in Storia della città, nn. 26/27 (1983 [ma
1984]).
701
Dopo un primo contatto tra il catarismo ed il mondo orientale e balcanico (1144), un più significativo
collegamento delle teorie eretiche del dualismo bogomilo con il mondo, e la provenienza, orientale lo si
riesce ad individuare nella partecipazione del “papàs Niceta” al concilio di St. Félix de Caravan (1167).
702
SACCO G., Gli eretici «oltremontani» dell’alto Fortore, in Riv. Storica del Sannio, 1995 (1), pag. 156.
703
GONNET G., Il grano e le zizzanie. Tra eresia e riforma (secoli XII-XVI), Soveria Mannelli 1989, pag.
1331. Dalla sintesi, proposta dal Gonnet (v. pag. 1330 e segg.), delle “varie tappe di questa molteplice
penetrazione dell’eresia nell’Italia meridionale”, oltre al dato, assai importante, che evidenzia “il diacono
cataro Ilario operante in Puglia” già “ante 1170”, ed oltre alla riportata, nel testo, esperienza del vescovo
albigese Viviano di Tolosa, emerge che, durante le prime fasi della angioinizzazione, si ha (e il Gonnet
700
Fu solo un caso unico ed isolato quello del vescovo, che, coinvolto con l’eresia
albigese e dopo aver lasciato l’ufficialità della chiesa, è costretto ad abbandonare la sua
importante diocesi ed a scegliere di mettere le sue radici in “un castello pugliese”? Dopo
essere riparato “nel sud d’Italia”, che, ancora svevo e ghibellino, gli doveva apparire (e,
nei fatti, essere) certamente più sicuro e più tollerante, rimase egli un ‘confinato’ e,
peggio, un emarginato ed isolato? O non è che, come pare essere più probabile (se
guardiamo alla “comunanza di vita con altri «perfetti»”), si mettesse egli a svolgere un
suo apostolato e ad iniziare la propria predicazione nella “terra” cui era approdato?
Seppur non in maniera diretta, le risposte a tali domande stanno, per tanti versi, nel
fatto che, “additato quindi come ideale luogo di rifugio, nel corso dei secoli XIII-XVI il
Mezzogiorno fu interessato a più riprese da successive migrazioni di valdesi provenienti
dalle valli alpine. Furono proprio colonie di valligiani a popolare sin dal 1385 alcune
«terre» tra il Principato Ultra, la Capitanata, …”704 ed il Molise.
E, diffusa assai più di quanto solo si riesca ad immaginare, la presenza degli
albigesi e dei valdesi (ma, come sta proprio a dimostrare quel testo, non solo) risulta
perfettamente compatibile con la condanna (si noti la quasi contemporaneità delle date)
di quel “Secundum Hugonis Guidardii Archiepiscopi Provinciale Concilium,
celebratum anno 1378” molto probabilmente a Limosano, del quale, completamente
sconosciuto (o volutamente nascosto?) alla ufficialità, già è stato riferito nel primo
paragrafo del presente capitolo.
A riprova della ampiezza del fenomeno (che, del tutto cancellato, allo stato delle
cose e nella quasi totalità dei casi rimane sconosciuto e dimenticato per la ricerca
storica), che sembra proprio possibile attribuire ad una simile diffusione delle ‘riforme’,
le quali erano venute a collocarsi nelle posizioni di marginalità sociale, sintomi di
profondo malessere e disagio prima e, poi, di contestazione silenziosa, sono sia la
persistenza di assai lungo periodo e sia la residualità documentate dalle numerose
‘conversioni’ che si registravano ancora nel ventennio conclusivo del XVIII secolo.
Relativamente allo specifico della realtà di Limosano e pur premettendo che
almeno alcuni dei cognomi delle persone a capo dei relativi loro nuclei familiari non
figurano tra quelli limosanesi ‘storici’ (per quale ragione? predicatori erranti che, di
provenienza esterna, girano per fare ‘proseliti’? o persone tenute ai margini della
società?), piace riportarne qualcuna705 di esse, che, con la loro diversa natura (calvinista,
luterana, ebrea), stanno a provarne una origine ed una tradizione assai diversificata e
riporta tutte le fonti) un forte e significativo spostamento, tutto da approfondire ed indagare, verso il
meridione di eretici. Tanto che nel “1268-1269: secondo due editti di Carlo I d’Angiò pubblicati dal
Vegezzi-Ruscalla, degli eretici sarebbero fuggiti dalla Lombardia per rifugiarsi in varie contrade del
Regno di Napoli” e nel periodo “1269-1274: due editti di Carlo I documentano che tra il 1269 (8 luglio) e
il 1274 (20 ottobre) l’angioino fece venire nella regione, nota sotto il nome di Capitanata, innanzi tutto dei
militari, poi le famiglie interessate, in provenienza non solo dalla Provenza, ma anche dal Delfinato, dalla
Savoia, dall’Ain e da altre province limitrofe”.
704
SACCO G., Gli eretici … cit., pag. 156.
705
ASCL, B. 2, f. 2, Registro de’ conti de’ Sindaci e Governanti dell’Università della Terra di
LIMOSANI, principiato in questo anno 1780.
Il ‘Registro’, consultato nel 2001, risultava tenuto in un pessimo (e colpevole) stato di conservazione,
tanto che molte registrazioni, oltre che consumate, risultavano già non più leggibili e/o interpretabili.
L’incuria e l’abbandono fanno sì che esso si deteriori ulteriormente e, purtroppo, irrimediabilmente.
multiforme:
- pag. 4r:
“al detto dì [17 agosto 1780] per carità a Pietr’antonio Ruffi calvinista
con sua famiglia venuti alla S. Fede”;
- nelle pagine successive seguono molte altre simili annotazioni;
- pag. 16v:
“… per carità ad Ant(oni).o Silvano ebreo …”;
- pag. 26r:
“… per carità a Giuseppe Scrigno luterano con famiglia …”,
“…”,
“… per carità a Pietrangelo Russo calvino con famiglia …”,
“… per carità a Franc(esc).o Pelone luterano con famiglia …”.
Ma occorrerebbe domandarsi se fu, quello delle importazioni e delle imposizioni
dall’esterno, il solo mezzo per il loro emergere, per il loro apparire e per il loro radicarsi
nelle varie realtà insediative. O, come sembra, non è più probabile che le manifestazioni
delle ‘riforme’ fossero anche il frutto di fenomeni, per così dire, ‘autoctoni’? Ed, in
caso affermativo, esse da dove avevano potuto prendere origine? Ed in quali ambienti
sociali avevano affondato le loro radici e, meglio, si erano sviluppate ed avevano potuto
mantenersi attive? Ed, infine, quali i collegamenti ed i legami tenuti da esse con le realtà
insediamentali diverse (viciniori e non) da quelle di residenza?
Le ‘cancellazioni’, sistematiche, di lungo periodo e continue nel tempo, da parte
della risposta radicalista della ‘contro-riforma’ (risulta significativo il fatto che quelle
‘conversioni’ – e la relativa registrazione – avvengono in un momento particolarmente
vivace della storia limosanese e precisamente durante il dibattito sulla ripartizione dei
corpi feudali appena ‘ricomprati’, subito dopo l’arrivo di “numerosi forestieri” e mentre
si ha una forte contestazione alle istituzioni, tutte, tenute dal clero) non favoriscono le
risposte ‘certe’ ed esaustive a tali domande.
Non riesce, tuttavia, difficile pensare che, prima della ‘contro-riforma’ (il periodo
di tempo che, attraversato e condizionato prima dal caos anarchico degli ultimi
‘angioini’ e, dopo le confuse, intricate e spesso difficilmente decifrabili vicende
riconducibili agli sviluppi del grande scisma d’occidente706, dalle tendenze riformatrici e
dalle ‘liberalizzazioni’, almeno in economia, dei sovrani ‘aragonesi’, può racchiudersi
tra l’inizio del grande scisma d’Occidente e la fase conclusiva del concilio di Trento), le
‘riforme’ ebbero assai larga diffusione, specialmente negli ambienti, come quelli
limosanesi, più predisposti e tenuti vivaci da attività economiche più o meno fiorenti. Ne
era alimentata la continuità, molto probabilmente707, dalle cellule di epigoni, largamente
diffuse sul territorio meridionale708, dei movimenti riferibili agli spiritualismi dei
706
E’ significativo il fatto che, durante (e, per un lasso di tempo certamente non breve, anche oltre) il
grande scisma, in molte diocesi si registrano serie di due o tre vescovi con seguaci, sia tra il clero che tra i
fedeli confusi, di contrapposte fazioni, alle quali, tuttavia, rimangono criticamente impermeabili quei
nuclei originari delle ‘riforme’, che inclinano a forme di religiosità più personali e più intimistiche
(MARTINA G., Storia della Chiesa: da Lutero ai nostri giorni, I: l’età della Riforma, Brescia 1993, pag.
84), e reclamano l’interpretazione individuale delle “Scritture”.
707
L’intreccio tra le aspirazioni politiche e la contestazione religiosa è dimostrata dal fatto che ad
accompagnare la spedizione (1327) di Ludovico il Bavaro, “figuravano esponenti del moto degli
«Spirituali» come Ubertino di Casale …” (ADRIANI M., La Cristianità e l’Occidente: dalla Chiesa
gregoriana alla vigilia della riforma, Roma 1973, pag. 440.
708
Da una bolla, del 1336, di Benedetto XII “contra Fraticellos, eorumque sequaces et fautores per Sedem
Apostolicam damnatos” sappiamo che “quidam perniciosi homines et perversi se Fraticellos seu Fratres de
fraticelli, un cui esponente (che sta a confermare l’esistenza della doppia e/o triplice
serie), vescovo, vedemmo bruciato ed arso vivo a Trivento poco dopo la metà del XIV
secolo (proprio mentre a Roma si consuma, anche lì con un rogo, l’avventura di Cola di
Rienzo). Proprio quando “nel 1355 Innocenzo VI si indignava per il numero di eretici
che, richiamati de diversis nacionibus, pullulavano in Calabria. <E> lo zelo missionario
dei valdesi raggiungeva tutte le regioni meridionali della penisola: infaticabili
predicatori itineranti …”. Tanto che rimane possibile registrare per oltre un secolo tracce
della loro attività confermate da (S.) Vincenzo Ferrer(i) nel 1403. Ed, ancora nel 1451,
abbiamo notizia di un barba proveniente da Manfredonia e Carlo VIII, nel 1494, faceva
addirittura impiccare un barba che era originario della Puglia709 (la quale allora
comprendeva quella Capitanata che arrivava sino a pochi chilometri da Campobasso),
dove, “già alla fine del XIV secolo, i barba venivano ordinati da un non ben specificato
supremo pontefice”710. E l’esistenza di una figura così istituzionalizzata fa pensare ad
una diffusione abbastanza diffusa e, oltre che assai capillarmente, in maniera molto
ampia.
Sembra, però, assai probabile che “nel secolo XV questo centro si sposterà verso il
Nord, all’Aquila e quindi nel territorio di Spoleto”711, se è vero che “nel 1488
l’inquisitore Cattaneo, …, localizzava la sede del loro capo a L’Aquila in Abruzzo. La
cosa è confermata dalle deposizioni fatte … nel 1492 dal barba Martino, alias Francesco
di Girundino, il quale, insieme con il collega Pietro di Jacopo d’Alviano, faceva parte di
un gruppo ben organizzato che aveva il suo centro a Spoleto”712.
Ma – verrebbe ancora da chiedersi – le contestazioni al papato, che per la
direzione della Francia ‘angioina’ si era allontanato da Roma, erano state proprio del
tutto estranee al posizionarsi “in Urbe ac terris Ecclesiae Romanae immediate subiectis,
circumvicinisque partibus”, che – ed è facile, a questo punto, pensare ad una non
improbabile larga diffusione sull’intero territorio del Molise medio e alto – resterebbero
tutte da individuare, ed “in Regno Siciliae”713 di quei “perniciosi homines et perversi”?
papere vita dicentes, quorum secta pestifera olim per Sedem Apostolicam damnata extitit, …, in Urbe ac
terris Ecclesiae Romanae immediate subiectis, circumvicinisque partibus commorantes, …”.
Quanto ad alcune delle loro ‘deviazioni’ ed oltre alla larga diffusione negli ambiti meridionali, sappiamo
da una bolla, del 1372, di Gregorio XI che esistevano “Fraticellorum, Dulcinorum et de Paupere Vita
haereticorum cineres in Regno Siciliae colentes, eisque altaria cum luminaribus erigentes, …”.
709
MOLNAR A., Storia dei Valdesi, I, Torino 1974, pag. 96. La ‘circolazione’, ampia e di lunghissimo
periodo, delle idee delle ‘riforme’ negli ambienti meridionali è provata dal fatto che sarà un barba
calabrese (di quella Calabria, che è ancora in contatto con le tradizioni greco-bizantine) a guidare la
delegazione che, dopo la sinodo tenuta al “Valone del Lauso in Val Elusone” (MIOLO H., Historia breve
e vera de gl’affari de i Valdesi delle Valli, 1587 [rist. Torino 1971], pag. 100), si recherà in Svizzera per
prendere i primi contatti con quella ‘riforma’ che si sta allargando a macchia d’olio (v. MOLNAR A., op.
cit., pag. 210).
710
SCARAMELLA P., L’inquisizione romana e i Valdesi di Calebria (1554-1703), Napoli 1999, pag. 26.
Scaramella, che cita da AMATI C. “Processus contra Valdenses in Lombardia superiori [] anno 1387”,
in Archivio Storico Italiano, s. 3 (1865), I/2, pp. 3-52 e II/1, pp. 3-61, precisa che “nel 1387 un valdese
dimorante a Barge affermò infatti, nei suoi costituti, che aveva conosciuto due barba provenienti dalla
Puglia, dove costoro avevano il loro pontefice”.
711
MOLNAR A, Storia … cit., pag. 97.
712
GONNET G., Il grano … cit., pag. 187 e seg.
713
V. nota 51.
E vi furono del tutto estranee, formatesi in seguito alla rinuncia da parte di Celestino V,
le posizioni di contestazione o di favore per il processo e per i tentativi circa la damnatio
memoriae di papa Bonifacio VIII714?
Era complessivamente una situazione che, se non proprio aggravata, veniva
alimentata dal fatto che “nel meridione d’Italia esistevano e prosperavano vere e proprie
chiese che, pur essendo cristiane, non seguivano né volevano assoggettarsi agli ordinari
latini. La politica di esenzioni tributarie a loro favore operata dai laici in quelle regioni,
sino alla metà del secolo XVI, aveva permesso il consolidamento di comunità
perfettamente autonome dalla Chiesa di Roma. Un sistema di maritaggi che non favoriva
i matrimoni misti, l’uso di un linguaggio proprio, la persistenza di una gerarchia
ecclesiastica distinta da quella romana: questi ed altri aspetti mettevano quelle
popolazioni, sia greche, sia albanesi, sia provenzali o piemontesi, nelle condizioni di
vivere all’interno del sistema sociale, restandone però per più di un aspetto separate,
impermeabili alla cultura dominante, fedeli al proprio credo tradizionale,
sostanzialmente refrattarie alle ingiunzioni di uniformità religiosa che iniziavano a farsi
vieppiù frequenti a partire dalla metà del secolo”715.
Relativamente, poi, al loro modo di essere presenti nelle diverse organizzazioni
delle società, la “comunanza di fede, la consapevolezza di essere minoranza etnica ed
anche religiosa, la capacità di dissimulazione, fecero sì che stringessero rapporti fra loro
isolandosi dalle comunità locali e mostrandosi come «homini de bene et apparenter
catholici»”, dando vita negli insediamenti in cui erano presenti quasi “ad una società
propria, peculiare, per dirla con il Cantimori, ad una «ecclesia peregrinantium»” 716,
anche se riuscivano facilmente a mimetizzarsi “perché non vestivano abiti particolari ed
esercitavano mestieri comuni quali, il cuoiaio, il ciabattino o il merciaio ambulante” e
quant’altro.
Sarebbe parecchio importante sapere, relativamente alle loro specificità, quali
fossero le pratiche cultuali, come venissero vissute ed, infine, quali fossero le credenze
delle minoranze con orientamenti religiosi (e culturali) propri all’interno della socialità
della (e nella) ‘Terra’. Purtroppo non risulta essere cosa assai semplice a farsi 717. Ma, “se
714
COSTE J., Boniface VIII en procès: Articles d’accusation et dépositions des témoins (1303-1311),
Roma 1995
715
SCARAMELLA P., L’inquisizione … cit., pag. 12 e seg. L'autore, del quale assai utilmente si può
vedere anche: “Con la croce al core”: Inquisizione ed Eresia in Terra di Lavoro (1551-1564), Napoli
1995, aggiunge (pag. 13) che “se si esclude il decennio 1554-1564, nel quale accuse di eresia vennero
formulate sia agli ultramontani che agli epiroti, la storia della repressione di queste due minoranze etniche
prese strade alquanto diverse, conoscendo la prima il regime imposto dai decreti della Congregazione
della Santa Inquisizione, venendo sottoposta la seconda alle decisioni della Congregazione per la Riforma
dei Greci in Italia prima e della Propaganda Fide poi. Una soluzione drastica e violenta ed una moderata e
conciliatrice segnarono i destini e la vita di quelle popolazioni che più o meno drammaticamente si
trovarono a fronteggiare i nuovi regimi di vita imposti”.
716
SACCO G., Gli eretici … cit., pag. 156.
717
Relativamente alle persistenze della presenza greca (e ci sono diversi elementi che porterebbero a
pensare che la “Terra, olim civitas,” di Limosano, la quale, come si vide, nel 1567 aveva ancora un suo
“episcopus Limusanensis”, potrebbe ancora essere vista in tale dimensione), il citato Scaramella riferisce
che “nel settembre del 1556 un breve di Papa Paolo IV fu spedito ai vescovi di Calabria e di Puglia «ut
procedant contra errores graecorum». Si trattava dei primi atti ufficiali della Chiesa di Roma che tentavano
di uniformare e controllare le minoranze greche d’Italia. Il problema, che affiorò con chiarezza già negli
si analizzano gli incartamenti di corrispondenze che dalle oltre 120 sedi vescovili per il
Regno venivano spedite alla Santa Inquisizione romana, il panorama concernente la
storia ereticale nel Regno di Napoli si fa immediatamente variegato, pieno di predicatori
riformati attivi in città e casali, conventicole o, addirittura, piccole comunità ben
strutturate”718, ivi comprese anche quelle monastiche.
Così che può dirsi che “il fenomeno ereticale era ormai esteso a tutto il Regno”719.
E “la simpatia, se non la militanza attiva, di un ortodosso tra le file dei «devianti» non
rappresentava certo un’eccezione. D’altro canto, come riconosceva Tommaso Orfini
vescovo di Strangoli e poi di Foligno a conclusione della sua visita apostolica, nel Regno
di Napoli il clero era dedito alla «mala vita». E non dissimile era la testimonianza del
cardinale Ghislieri (nota: il futuro papa Pio V), che descriveva i curati amanti «del
comodo temporale [più] che [de] la salute dell’anima». Sorge tuttavia il sospetto che,
almeno in alcuni casi, le accuse di vita licenziosa celassero timori d’inquinamenti
dottrinali. Sono peraltro numerosi nelle fonti i nomi di chierici che avevano optato per
una religiosità eterodossa: Galiotto de Galiotti e Giavan Bernardino Calce di Volturino,
l’arciprete di Panni Giovanni de Romaneis, il canonico di S. Nicola di Bari Bernardino
de Bernardinis, il prete di Larino Angelo Martino. […]”720. Questa presenza, a Larino721,
sta proprio a dimostrare la grande diffusione, anche agli ambienti molisani, delle
‘riforme’. E, pur se a Venafro sembra (ma la cosa resta ancora tutta da verificare,
indagare e dimostrare) che “non vi erano giunti gli stimoli del rinnovamento riformista
di cui Juan de Valdés era stato animatore negli anni di sua permanenza a Napoli dal
anni cinquanta del secolo, non riguardava soltanto culti e credenze difformi, ma soprattutto l’esistenza di
una vera e propria Chiesa greca, con vescovi che venivano legittimati nella propria autorità dal Patriarca di
Costantinopoli e da gerarchie della «chiesa schismatica» d’oriente […]. La Suprema si interessò alle
popolazioni di rito greco sino al 1573, quando venne costituita la Congregazione per la riforma dei Greci
esistenti in Italia e dei monaci e dei monasteri dell’ordine di San Basilio, che fu diretta, sino al 1596, anno
della sua chiusura, da Giulio Antonio Santoro, poi cardinale di Santa Severina” (pag. 24 e seg.).
718
SCARAMELLA P., L’Inquisizione … cit., pag. 17 e seg.
719
SACCO G., Gli eretici … cit., pag. 160.
720
SACCO G., Gli eretici … cit., pag. 162. Il Sacco, che riporta la fonte, classica, di AMABILE L., Il
Santo Officio della Inquisizione in Napoli, Città di Castello 1892 (rist. anastatica Soneria Mondelli 1987),
vol. I, p. 229, n. 1, riporta, in nota, che “il vescovo [Orfini, o Orsini?] visitò dal 15 al 22 aprile la città di
Troia e dal 23 al 25 aprile 1566 quella di Ariano. La situazione del clero di queste città è descritta con
parole allarmanti e desolanti allo stesso tempo. Il vescovo di Ariano, Donato de Laurentiis è in lite con il
capitolo, dispensa largamente canonicati e benefici e appare assai negligente nel suo officio. Il clero di
quella città celebrava messa due o tre volte all’anno prediligendo il concubinato più che l’ottemperanza
dei propri doveri. L’arcidiacono di Ariano aveva tre figli «due maschi et una femina, la quale è maritata ad
uno pur figlio di prete, et uno delli figli quest’anno è stato fatto canonico della cathedrale et ammesso dal
vescovo senza replica alcuna con tutto che sia ignorante et che non possa secondo il sacro concilio esser
beneficiato nella medesima chiesa col padre. Col quale etiam abita in casa»”.
721
Che la situazione di Larino fosse assai grave lo dimostrano sia “la campagna che il vescovo di Larino
compì in quei casali della sua diocesi ed anche «fuora diocesi <dove> in certi altri lochi <gli eretici di
Serra Capriola> hanno certe loro intelligentie con alcuni altri»” e sia il fatto che “un cappuccino che venne
ripreso per questo modo assai particolare (nota: “le processioni che venivano fatte senza portare croci e
senza pronunciare litanie”) di esprimere il rituale religioso rispose, al vescovo che lo interrogava, che
«loro non havevano bisogno di altra croce, ma che li bastava Christo che portavano nel core, et la croce
che portavano sulle spalle», distendendo le braccia e dicendo «ecco la croce che io porto sulle spalle <et>
basta haver Christo Crucifisso nel core»” (v. SCARAMELLA P., op. cit., pag. 32 e seg.).
1534 al 1541”722, rimane, a dimostrare i forti fermenti ‘riformati’ in essere, il fatto che,
sempre a Venafro ed immediatamente dopo la conclusione del Concilio di Trento, vi
fossero, per ‘contro-riformare’ la situazione esistente, diversi preti forestieri e clero
provenienti “da Verona, da Perugia, dall’Abruzzo e perfino dalla Spagna”723.
In tal modo, non è difficile pensare, almeno sino al primo quarantennio del XVI
secolo, a modi di essere, per molti aspetti, poco contrastati e bene integrati e ad una vita
relativamente serena e tranquilla, che, però, “subì un inatteso quanto sconvolgente
mutamento allorché, alla metà del XVI secolo, le nuove idee dei riformatori protestanti
si stavano divulgando anche grazie alla stampa”724, provenienti dalle aree germaniche725.
Occorre interrogarsi, poi ed oltre che sul ruolo sociale e religioso svolto, sulla loro
continuità di lungo periodo che, adattandosi alle mutevoli, e mutate, esigenze dei tempi
e, in tal modo e combinandosi anche con le diffuse presenze sia di ebrei e sia di arabi 726,
diventando ‘riforme’727, sicuramente tennero – e mantennero – sino, ed oltre, alla loro
emarginazione da parte della ‘contro-riforma’, che, per gli ambiti napoletani (i quali
avevano precedentemente visto la diffusione dei circoli ‘spirituali’ del Valdés728 e la
presenza di quell’Ochino, che, il personaggio ‘riformato’ italiano di maggior spicco729,
da superiore generale dell’ordine francescano dei cappuccini, appena costituito – e
sarebbe da analizzare la coincidenza di date con quanto stava avvenendo in Germania730
722
MORRA G., Mezzo secolo di spirito tridentino nell’azione di alcuni vescovi di Venafro, in AA.VV., Il
Concilio di Trento nella vita spirituale e culturale del Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo, Atti del
Convegno di Maratea: 19-21 giugno 1986, Venosa 1988, pag. 428.
723
MORRA G., Mezzo secolo … cit., pag. 429
724
SACCO G., Gli eretici … cit., pag. 158.
725
E’ il caso di riportare che (v. PROSPERI A., Il Concilio di Trento: una ricostruzione storica, Torino
2001, pag. 99) che il siciliano Francesco Maurolico “registrava la novità della situazione: si dovevano
combattere non solo singoli eretici ma interi territori («magna oppida et ingentes provinciae»). E
osservava anche che fin negli Abruzzi si era diffusa la «peste» della lettura di Erasmo, Melantone, Zwingli
e di altri eretici tedeschi, da lui definiti veri e propri «antropophagi», presenti non solo con le loro opere
ma con prefazioni ed edizioni di testi altrui”.
726
Nel ‘regno’ meridionale molto rappresentativa (e sicuramente assai più di quelle di eretico-protestanti)
fu la conversione dalla religione e dalle credenze islamiche (v. TEDESCHI J., Il giudice e l’eretico,
Milano 1997 [trad. da The Prosecution of Heresy. Collected Studies on the Inquisition in Early Modern
Italy, New Jork 1991], pag. 73.
Per quanto concerne la conoscenza di un minimo di dato statistico, è possibile registrare (v. CANOSA R.,
Storia dell’Inquisizione in Italia, V (Napoli e Bologna), Roma 2003, pag. 41) che, nel viceregno
meridionale, “i processi per islamismo sono circa 180 e costituiscono, per quantità, il terzo gruppo tra
quelli conservati nell’Archivio storico diocesano di Napoli, dopo quelli su fattucheria e quelli per bigamia.
Quelli per ebraismo sono invece una cinquantina”, ma è da notare che si tratta sempre di “ritornati alla
loro religione di origine, e dei cristiani passati all’Islam”.
727
Giacomo della Marca (1394-1476) scrive il suo Dialogus (v. LASIC D. [ed.], Jacobus de Marchia,
Dialogus contra fraticellos, addita versione itala seculi XV, Falconara Marittima 1975) nel XV secolo.
728
Si veda, pur se per una conoscenza sommaria del personaggio (ma si possono sapere anche notizie sulle
altre figure dell’intero ‘riformismo’ italiano, come Giulia Gonzaga e Vittoria Colonna), CAPONETTO S.,
La riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino 1997 (seconda ediz.), pag. 81 e segg.
729
Per un primo approccio alla figura di Bernardino Tommasini (1487-1563) di Siena, detto Ochino, si
veda CAPONETTO S., La riforma… cit., pag. 123 e segg. e pag. 93.
730
Il citato Caponetto riesce a cogliere “la grande inquietudine della famiglia francescana, lacerata dalla
divisione fra conventuali e osservanti, sboccata in Spagna nell’illuminismo apocalittico e in Italia nella
costituzione dei cappuccini, in questi anni, laddove è più frequente il rapporto con i conventi svizzeri e
– dalla separazione dagli osservanti, sfocia nella ‘riforma’ calvinista), può farsi iniziare
con la bolla Licet ab inizio (luglio 1542)731, con cui il papato rifondava l’inquisizione
romana per combattere la diffusione del protestantesimo ‘riformato’732, la cui gravità già
da qualche anno era evidente, specie se riferita alle specificità delle situazioni locali.
Risulta ben individuata da Gian Pietro Carafa, vescovo di Chieti (e la circostanza sta a
dimostrare la capillarità della diffusione sul territorio), il quale “nel memoriale del ’32,
inviato al papa, chiedeva provvedimenti urgenti per il corpo malato della chiesa, dove
non pochi sacerdoti, ex frati, facevano «strazio del sangue di Cristo» e «mercato delli
Sacramenti (a li quali però non credono) e delle povere anime», dove i vescovi
abbandonavano la loro diocesi a un suffraganeo, «un Frate strazza la cappa», perché di
queste condizioni miserevoli di abbandono aveva approfittato «quella maledetta nidiata
di quei frati, li quali Iddio per sua bontà, fermando alcuni suoi servi, ha incominciato a
mettere in scompiglio».
La «nidiata» di quei frati erano i francescani conventuali”733 in prevalenza, anche
se – va specificato – la diffusione era tanto generalizzata ed estesa in tutti gli ambienti
monastici che persino “l’intera congregazione benedettina cassinese aveva assunto una
posizione molto vicina all’eresia”734.
La spiegazione, probabile, di una tale posizione sta nel fatto che i francescani, già
con G. d’Ockham, avevano indicato, contrapposta alla via antiqua del tomismo (e della
ragione), una via moderna che tendeva ad allontanarsi, sino alla rottura, dalla ragione in
favore della ‘arazionale’ fede.
La realtà, poi, era aggravata dalla abissale distanza, che era anche e soprattutto
sociale, tra l’alto clero (la “chiesa nobiliare”), provvisto di ricche prebende ed
tedeschi, inclino all’accettazione della protesta luterana” (pag. 58).
731
“Delle pene da infliggersi agli eretici, sono nominate in particolare il carcere e l’esecuzione capitale
con la immediata confisca dei beni dei puniti. Ampia la facoltà attribuita alla commissione cardinalizia
nell’eseguire tali condanne: oltre al diritto di nominare gli offitiali secolari ed ecclesiastici, essa attribuiva
la potestas di consegnare i colpevoli al braccio secolare a propria discrezione. Gli stessi offitiali potevano
condannare o assolvere, chiamare a deporre tutte le persone che ritenevano necessario sentire «de fide»,
così come potevano aumentare o diminuire le pene. Del resto anche sulla base di un labile indizio era
consentito arrestare, imprigionare, torturare, condannare senza alcun limite, neppure quello della morte
poiché i processi potevano avere come imputati anche i defunti con il conseguente rogo dei resti” (v.
SACCO G., Gli eretici … cit., pag. 159, in nota).
732
Per la storia della Inquisizione, si veda, già citato, AMABILE L., Il santo officio della Inquisizione in
Napoli, Città di Castello, 1892.
733
CAPONETTO S., La riforma… cit., pag. 58. Il Caponetto, il quale precisa che “nel dominio veneto
(nota: le cui influenze erano diffuse nelle zone adriatiche), a quanto ci è dato sapere, i primi propagandisti
della riforma luterana furono i francescani conventuali” (cosa che, come segnala il citato Scaramella sul
“francescano conventuale, Bernardino Franito di Castrovillari” [op. cit., pag. 22], si può riscontrare anche
in Calabria), cita: Joannes Petrus Carafa, De Lutheranorum haeresi reprimenda et ecc lesia reformanda
ad Clementem VII (4 ottobre 1532), in Concilium Tridentinum Diariorum, Actorum, Epistolarum,
Tractatuum nova collectio, in Goeress-Gesellschaft, Freiburg, 1901-1961, vol. XII (1930), pp. 67-77 e
particolarmente pp. 67-68.
Circa l’intreccio delle date, sembra opportuno indicare la coincidenza tra quella del memoriale del Carafa
con il periodo, dal 12 al 18 settembre 1532, del consilium generale valdese di Chanforan, nel quale, con la
partecipazione anche di barba pugliesi ed alla presenza anche di due monaci italiani “non nominati e non
ancora identificati” (Caponetto, op. cit., pag. 148), venne deciso di aggregarsi alla riforma calvinista.
734
CANOSA R., Storia … cit., pag. 93.
appannaggi (le cui residualità saranno nei ‘benefici’), ed il basso clero (la “chiesa
popolare”), al quale “mancava molto spesso una sufficiente sicurezza economica <e> vi
erano così cappellani che, all’inizio del XVI secolo, dovevano tirare avanti con un
quarto del salario di un garzone muratore”735.
Non si hanno elementi per tirare conclusioni definitive e certe, ma non può non
essere sottolineato che a Limosano (così come anche in quella Larino, che abbiamo visto
ammorbata di eresia) il convento francescano, com’è noto e risaputo, era proprio dei
frati ‘conventuali’. Di quell’ordine di ‘conventuali” nel quale aveva covato la «nidiata»
di frati seguaci delle idee ‘riformate’.
“Nella cristianità italiana del Cinquecento non vi erano le condizioni per un libero
dibattito interno. […].Un quarto di secolo dopo la protesta di Lutero, quando divenne
evidente che la penetrazione delle idee della Riforma non si arrestava, la gerarchia
cattolico-romana iniziò un’azione sistematica di arginamento e di riconquista delle
posizioni perdute”. Alla rifondazione ed alla riorganizzazione del « Santo Officio
dell’Inquisizione», “che, dalla centrale romana, diresse una controffensiva di inaudita
violenza, seguì un assiduo lavoro diplomatico e politico con la realizzazione di
numerose mini-riforme, che incrementarono la pietà popolare senza intaccare il potere
dell’istituzione ecclesiastica. Soprattutto fu determinate la convocazione del Concilio di
Trento (dal 1545), che fissò le dottrine romane in contrapposizione a quelle protestanti.
Dall’estate del 1542, al sentore delle prime avvisaglie repressive, si registrò una
massiccia fuga di coscienze e intelligenze che non si piegavano alla violenza. Al tempo
stesso, un uso sistematico del terrore, …, provvide a sradicare sistematicamente ogni
manifestazione di «eresia» dalla Penisola. […].
Della Riforma italiana venne distrutta non solo l’esistenza fisica, ma persino il
ricordo”736 con una ‘cancellazione’ completa di tutto quanto era stato precedentemente.
Iniziato nel 1542, il concilio di Trento, che, tra difficoltà e contrasti aspri, sino ad
arrivare anche a qualche periodica sospensione, tra le posizioni ‘riformiste’, disponibili
ad accettare compromesso e mediazione, e quelle più conservatrici, radicali ed
oltranziste, che finirono per prevalere, rappresentò la codifica della risposta da mettere
in atto ad ogni livello da parte della organizzazione ecclesiastica, durò fino al 1563.
Nel frattempo, però e già prima della sua conclusione, la sistematica repressione
dei movimenti ‘riformati’, con persino la distruzione dell’esistenza fisica, era diventata
cosa reale nelle società di quel periodo per opera di quell’Inquisizione rifondata già da
oltre un ventennio. Tanto che “nella Capitanata i primi provvedimenti furono presi dalla
Regia Udienza di Lucera nel 1552. <E> non si trattava però di semplici sospetti poiché
le carceri di quella Udienza già ospitavano alcuni prigionieri «inquisiti d’eresie».
Comunque il viceré investì di questo affare il vescovo di Troia Ferdinando de
Pandolfini, quale «giudice competente per simili cause», affinché procedesse «contro
detti inquisiti e altri, quando accaderà de simil cosa», attribuendogli inoltre la facoltà di
prendere le decisioni che ritenesse più opportune e senza perdersi in lungaggini
735
SCHORN-SCHUTTE L., La Riforma protestante, Bologna 1998 (trad. da Die Reformation
Vorgerschichte, …, Munchen 1996), pag. 13.
736
CAMPI E., Michelangelo e Vittoria Colonna: un dialogo artistico-teologico ispirato a Bernardino
Ochino, Torino 1994, pag. 176.
processuali, «ad esempio de altri»”737.
“A dir il vero, in Calabria, fu una vera e propria crociata, mentre nelle Puglie si
trattò piuttosto - … - di una «correzione cattolica», in virtù della quale «i sospetti della
fede sarebbero stati incatenati e torturati e magari trucidati», mentre «molti avrebbero
abiurato, ma furono sottoposti a dura penitenza», o «sarebbero finiti in isole
diverse»”738.
Ma, a parte la ribellione (con le rivolte popolari) napoletana finalizzata quasi ad
avere una Inquisizione più ‘nostrana’, oltre al metodo della strage tragica (che, e come,
con le contigue complicità tra potere civile e religioso venne messa in atto per le colonie
valdesi di Calabria, forse più circoscritte), oltre al sistema della ‘cattolicizzazione’
coercitiva (usato per i valdesi di Puglia ed Irpinia, sicuramente sparsi su territorio assai
ampio), deve essere presa in considerazione, certamente a motivo della sua minore
appariscenza (che non sta a significare che non ci sia stata, ma proprio l’esatto
contrario), una azione più di sistema e, per così dire, più governata per spiegare i fatti
accaduti – e che accadranno – nelle realtà più diverse.
Era, appunto, l’azione della “contro-riforma”.
Ma con la ‘contro-riforma’, che, a motivo del forte radicamento delle situazioni
precedenti, non potrà non impiegare che tempi lunghi ad affermarsi, gli esponenti delle
‘riforme’ come andranno a comportarsi? O, meglio, come furono costretti, nelle loro
reazioni, a comportarsi? E, più chiaramente, quale il controllo – e come veniva esercitato
– da parte degli esponenti delle gerarchie cattolico-romane sui ‘sopravvissuti’, cui
vennero sicuramente imposti condizionamenti per il loro regime di vita?
Anche a tali domande le successive ‘cancellazioni’ operate hanno impedito – ed
impediscono – ogni possibilità di risposta.
Ma, nonostante “su questo terreno le nostre conoscenze sono ancora incomplete”,
sappiamo, tuttavia, che, per riorganizzarsi e per ricondurre al controllo istituzionale
religioso sulla socialità, “i meccanismi messi in opera dalla Chiesa dopo il Concilio di
Trento furono tanti e diversi tra loro”739 e “spettò al governo diocesano e all’Inquisizione
sorvegliare le aree sospette ed impiantare le forme tridentine al posto di quelle sradicate.
<E>, nel mutato clima, l’azione capillare dei tribunali dell’Inquisizione si associò
all’opera di restauro e rafforzamento delle istituzioni parrocchiali e diocesane,
737
SACCO G., Gli eretici … cit., pag. 159.
GONNET G., Il grano … cit., pag. 1316 e seg. Riguardo alle stragi di Calabria (si veda, anche per la
bibliografia, il più volte citato Scaramella, il quale apre il suo lavoro proprio con la trascrizione di tale
fonte), piace riportare un documento, che, “pubblicato nel 1846”, recita: “Occorre dir come oggi [11
giugno 1561] a buon’hora si è ricominciato a far l’orrenda iustitia di questi luterani, che solo in pensarvi è
spaventevole. E così sono questi tali come una morte di castrati, li quali erano tutti serrati in una casa, e
veniva il boia e li pigliava a uno a uno, e gli legava una benda avanti agli occhi, e poi lo menava in un
luogo spatioso poco distante da quella casa, e lo faceva inginocchiare, e con un coltello gli tagliava la
gola, e lo lasciava così. Dipoi pigliava quella benda così insanguinata, e col coltello sanguinato ritornava
pigliar l’altro, e faceva il simile”. Per le vicende (e relativa bibliografia), poi, che ebbero ad interessare
“gli eretici «oltremontani» dell’alto Fortore”, si veda oltre che il citato Sacco: SCADUTO M., Tra
inquisitori e riformati. La missione dei Gesuiti tra i Valdesi della Calabria e della Puglia, in Archivum
Historicum Societas Iesu, XV, Roma 1966; e SCADUTO M., Cristoforo Rodriguez tra i Valdesi della
Capitanata e dell’Irpinia, 1563-1564, con nuovi documenti, ivi XXXV, Roma 1966.
739
PROSPERI A., Il Concilio … cit., pag.108.
738
approdando alla formazione di una rete capillare di controllo e di indottrinamento”740.
Va detto subito che “l’opera della commissione dell’Indice fu così radicale, che
oggidì non si trova più, anche a cercarne nella biblioteca più ricca, un solo esemplare di
certi libri che prima ogni famiglia possedeva. Gli effetti del rogo furono terribili; terribili
in specie per la vita intellettuale d’Italia che l’inquisizione minacciava come una spada
di Damocle”741. “La stessa produzione figurativa non tardò ad adeguarsi ai nuovi canoni
di decoro, ai nuovi scrupoli di ortodossia, ai nuovi compiti pastorali e pedagogici, alle
nuove finalità celebrative dell’età controriformistica. Ma non stupisce che nei due o tre
decenni precedenti anche scultori e pittori, architetti e musicisti, al pari di ogni altro
gruppo sociale, chierici e laici, intellettuali e artigiani, patrizi e mercanti, fossero
coinvolti nelle inquietudini religiose variamente scaturite dal confronto con le dottrine
d’oltralpe”742.
E tutte quelle figure professionali, più o meno numerose e pur se molto
‘artigianalizzate’, erano presenti nelle diverse realtà sociali ed insediamentali, anche in
quelle molisane.
Partendo dal basso e per quanto riguarda le espressioni della socialità, a chi vuol
cogliere il percorso di cambiamento applicato alle realtà medio-piccole dello specifico
molisano non può sfuggire una ripresa nella istituzione delle confraternite743 e dei monti
di pietà (nell’ultimo terzo del XVI secolo a Limosano, come già è stato annotato in
precedenza, vennero ad operare almeno sei di tali istituzioni, con alcune, sicuramente un
paio, legate alla chiesa del convento dei francescani conventuali; ed è certamente di quel
periodo la fondazione della confraternita del SS.mo Rosario).
E, mentre i vescovi, dove più e dove meno e, secondo coscienza e preparazione,
più o meno in linea con le disposizioni del recente concilio, prendevano: ad istituire i
seminari diocesani per la formazione culturale del clero (pare evidente che la situazione
precedente mostrasse una forte carenza nell’acculturazione dei preti che, non
infrequentemente, potevano risultare essere anche ‘illetterati’), secondo uno schema
comune e fisso, ad esercitare le loro visite di controllo sulle parrocchie della propria
diocesi, ad impartire disposizioni sulla istituzione e sulla tenuta dei registri parrocchiali
740
PROSPERI A., Il Concilio … cit., pag.109.
DROYSEN G., Storia della contro-riforma in Germania, Milano s.d. (ma 1893?), pag. 212.
742
FIRPO M., Artisti, gioielleri, eretici, Bari-Roma 2001, pag. VII. Il Firpo, tra i maggiori studiosi dei
movimenti riformatori ed ereticali del ‘500 (se ne veda, per la migliore conoscenza della materia, il
pregevolissimo Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari 1993), segnala (pag.
IX) che “è roto che la letteratura religiosa cinquecentesca conobbe numerosi casi di libri condannati dalla
Chiesa in quanto «eterodossi» che ebbero tuttavia una notevole circolazione devozionale in quanto
«ortodossi», sotto le mentite spoglie di un titolo cambiato o di un nome censurato: il che dovrebbe indurre
a ricostruire con cura i contesti diversi nello spazio e nel tempo della produzione e fruizione di quegli
scritti e non a discettazioni astratte”.
743
La loro “diffusione quasi capillare” rispecchiava “la volontà di arginare non solo l’eresia, ma di rendere
più cosciente e consapevole della propria fede il popolo” (CASILLI L., Clero e religiosità a Campolieto
dopo il Concilio di Trento, in Religiosità e territorio nell’appennino dei tratturi, Atti del Convegno del
20-21 Agosto 1996, s.l. (ma S. Croce del Sannio [BN]) 1997). Il Casilli cita da: “G. G. MEERSSEMAN –
P. PACINI, Le confraternite laicali in Italia dal ‘400 al ‘600, in AA. VV., Problemi di storia della chiesa
nei secc. XV-XVII, Napoli 1973, pag. 131.
741
(battesimi, cresime, matrimoni, morti e ‘stato delle anime’)744 ed, in una parola, ad
esercitare il ruolo di ‘pastori’, il clero locale, anch’esso dove più e dove meno, ma
sempre più con maggiore responsabilità, iniziava ad esercitare il controllo delle
istituzioni costituite nelle diverse realtà locali.
Per lo specifico dell’arcidiocesi beneventana, alla quale, come suo suffraganeo,
faceva ancora riferimento l’episcopus Limusanensis745 il quale, alla relativa conclusione,
ancora ne sottoscrive gli atti, “il concilio provinciale del cardinale Giacomo Savelli
(1567) imponeva ai parroci, sotto pena di scomunica, di consegnare ai loro vescovi tutte
le scritture relative ai luoghi pii, di curarne la gestione, di non nominare amministratori
«absque Episcopi consensu» e di non spendere i redditi delle confraternite in pranzi e
«crapulae», ma al massimo di tollerare le solite «recreationes» con le tasche dei confrati
e fuori dalle chiese (Vedasi Synodicum Beneventanensis Ecclesiae, pp. 366-367)”746.
Era, però, una condizione particolare (se ne intravvede un solidalismo
corporativistico che veniva da lontano) ed, allo stesso tempo, assai complessa, che
andava a determinare una situazione generale complessiva in cui “l’opposizione del
governo spagnolo di Napoli all’accentuata interferenza ecclesiastica post-tridentina nelle
istituzioni pie locali segnò una fase di forte frizione con il papato”747.
Di certo sta il fatto che, dopo poco più di trent’anni di cattolicizzazione posttridentina, la “Universitas civium” di Limosano, fortemente indebitata, si vede costretta,
il 19 Gennaio 1596, a vendere “in solutum e pro soluto a D. Ottavio di Capoa la parte
del Casale di Cascapera, la Selva delli Monti collo Vallo di Cicco, lo quarto della
Sala, lo quarto delle Cese e lo quarto della Foresta”, mentre, per parte sua, l’ultimo
erede dei ‘di Capua’748, forse già intenzionato a vendere, comprava sia per rientrare da
una esposizione creditizia fattasi poco sostenibile che, di più, per far lievitare il prezzo
del suo ‘feudo’ di Limosano. Infatti, dalla ‘ratifica’, avvenuta “die quarto decimo
mensis Julij none ind.is 1596 in Terra limosani” sempre per mano notarile749, dell’atto di
vendita “rogato nella Città di Napoli per mano del Notaio Ottavio Severino ‘esistente
nella Camera’ del Notaio Domenico Castaldo” si ha che il debito complessivo
ammontava a ben 7164 ducati, tarì 1 e grana 13, parte dei quali, per ducati 2813, tarì 3 e
grana 9, era stata (o doveva essere) corrisposta “corporibus introituum victualibus
bonis mobilibus et animalibus ut infra describendis et eidem donno Octavio in
744
Ad anni del periodo immediatamente successivo al concilio di Trento sono datati i primi registri che è
facile trovare negli archivi parrocchiali.
745
L’episcopus Limusanensis, molto probabilmente, come mostra l’iscrizione riportata in BOZZA F.,
Questioni … cit., Cap. II, aveva ancora, in questa fase storica, la sua sede nella chiesa di S. Stefano, che
nel 156… è “Ecclesia Episcopalis” ed è stata appena “aedificata” con finanziamenti della “URBIS
li=Musanorum”, “anche se «l'altar maggiore» era stato consacrato già da diverso tempo come lascia
pensare il fatto che «in essa chiesa sta la bulla dela consecratione de l'altar maggiore, lo quale lo
consacrò lo episcopo de trittivero, nomine io: bap.ta nellanno 1510, a li quattro de aprile»”.
746
CASILLI L., Clero … cit., pag. 309, in nota.
747
V., anche per le indicazioni delle fonti, la citazione nella nota precedente.
748
Piace annotare che dalla famiglia Di Capua, un cui esponente tenne la titolarità feudale di Limosano per
l’intero XVI secolo, veniva quell’ “arcivescovo di Otranto Pietro Antonio di Capua” che era stato tra i
discepoli di Juan de Valdès e ne aveva seguito gli insegnamenti.
749
ASC, Fondo Protocolli Notarili, Notaio SANTORO Francesco Antonio (nativo di Limosano) della
piazza di Fossalto.
solutum datis, et assignatis in satisfactione (vettovaglie, beni mobili ed animali)”. Che
tali somme fossero ingenti lo dimostra il fatto che i restanti 4350 ducati costituivano il
valore del corrispettivo totale dei cinque ‘corpi’ feudali venduti “cum pacto de
retrovendendo”.
Di un mondo (nel quale pure ancora “sopravviveva una religione folklorica dalle
ascendenze pagane”750) che veniva ‘cancellato, nei fatti751 rimaneva ben poco spazio alle
idealità e, di ogni tipo, ai sogni.
Così, mentre della contestazione e di tutto quanto era stato in precedenza ne viene
cancellata ogni traccia ed ogni esistenza, anche fisica, la riaffermazione uniformante ed
uniformatrice della ortodossia, più formale e/o di facciata che, rispetto a quanto era stato
in passato, reale, diventa esigenza qualitativa e quantitativa.
Ed anche quella ‘grecità’, che aveva caratterizzato, con intensità più o meno
evidente752 e da circa un millennio, le espressioni della religiosità meridionale e
molisana, è subito dopo il concilio di Trento che viene radicalmente cancellata753.
Può scorgersi sicuramente una traccia delle esperienze post-tridentine in una
lettera, della quale, se ne riporta, con fedeltà e, forse, per la prima volta, il testo:
“Molto Reverendo Monsignore,
La Santità di N. Santità à mia instantia si è contentata di far gratia della
chiesa di Boiano al Vescovo della Guardia, et perché fa bisogno ch’egli facci la
professione della fide, havendomi Sua Santità ordinato ch’io facci il processo,
et lo proponga in concistoro, ho pensato per comodità di detto Monsignore
ch’habbi a far ditta professione in mano di V.S. Pregola dunque sia contenta
farcila fare secondo la forma che li mando, et nel rimandarla in dietro facciano
V.S. à pie della professione far farsi fide publica qualmente ditto Monsignor
750
PROSPERI A., Il Concilio … cit., pag.110.
Per la conoscenza degli interventi di ‘clericalizzazione’ della realtà molisana, oltre al citato Morra, si
può utilmente vedere anche COLAPIETRA R., La ‘clericalizzazione’ della società molisana tra cinque e
seicento: il caso della diocesi di Boiano, in AA. VV., Il Concilio di Trento … cit.
752
Ancora nel 1439 si realizzava una “concordia Ecclesiae Graecae et Latinae, cum definitione quorundam
articulorum catholicae fidei in quibus dissidebant, primatusque Romani Pontifici set Ordinis patriarcalis”
(Bullarium, Bolla XXI di Eugenio IV), cui nel 1446 (14 dicembre) seguiva una “Approbatio ordinationum
in capitulo Romae acto praefinitorum, pro reformatione monacorum Graecorum S. Basilici in provinciis
Siciliane, Calabriae et Apuliae” (bolla XXX di Eugenio IV), dalla quale sappiamo che “… plurima
monasteria et loca monacorum Graecorum Ordinis sancti Basilici in regno Siciliane citra et ultra Farum
sunt, …”.
E, mentre papa Nicola V (Bolla II del 6 settembre 1448) “Catholicos Latini ritus ad Graecum transire non
posse decernit”, papa Callisto III (bolla del 3 settembre 1457) Presbyteros Graecos inter missarum
solemnia Rom. Pontificis nomen elata voce canere, integrumque Credo, iuxta Romanae Ecclesiae ritus,
dicere obligatos fore decernit”.
753
CESTARO A., L’applicazione del concilio di Trento nel mezzogiorno: l’area salernitano-lucana, in
AA. VV., Il Concilio di Trento … cit. Il Cestaio riporta (pag. 32) che “nel 1572 che il vescovo Spinelli
nella diocesi di Policastro ordina ai monaci greci di adottare, nel termine di un anno, il rito latino nella
messa e nella recitazione del breviario.
751
della Guardia l’ha fatta. Non occorrendomi altro, mi raccomando et offero a
V.S. con tutto il cuore, che Dio li doni ogni conforto.
Di Roma alli IX di Giugno del 1572
Di V.S. molto Reverendo
Come fratello amorevole
A. Card. Carafa”754.
Il documento, una ‘poco normale’ richiesta della “professione della fide” (affidata
al vescovo di Boiano? ed, in caso di risposta positiva, perché proprio al vescovo della
‘civitas’ matesina, che non ha nessuna giurisdizione sul collega “della Guardia”? quale
valore, poi, attribuire alla certificazione di ‘autenticità’ fatta dal vescovo di Trivento,
che, pure lui ed a sua volta, non ha una tale giurisdizione? ed, infine, perché non viene
seguita la normale via ‘gerarchica’ del suffraganeo che si rimette nelle mani del proprio
metropolita?) da parte del vescovo della diocesi di Guardialfiera, si presta almeno a due
proposte interpretative.
Ad una prima ipotesi, tanto bonaria quanto superficiale (perché, in tal caso, si
farebbe trascorrere un periodo di ben nove anni circa dai decreti conciliari, nel corso del
quale molte disposizioni, e di gran lunga di minore importanza, pure risultano già
applicate?), di una semplice “professio fidei” tridentina755, corrisponde l’altra, che,
proprio a motivo dell’ordine, evidente, che ne venga fatto “il processo, et lo proponga
in concistoro” (che appare circostanza del tutto fuori dalla ordinarietà e dalla normalità)
e dovendosi escludere ogni benché minimo sospetto di coperture familiari (il vescovo,
del quale si chiede la “professione della fide”, è Carolus Carafa, omonimo del cardinale
autore della lettera), lascerebbe intravvedere in quella richiesta, e nel connesso
‘processo’ preliminare informativo, il tentativo di ‘cattolicizzare’, almeno formalmente
riuscito, un esponente della gerarchia, forse in precedenza colluso con le eterodossie
delle ‘riforme’.
La qual cosa era, anch’essa, un frutto autentico dei metodi e dei sistemi di quella
‘contro-riforma’ venuta fuori e codificata dal concilio.
754
DE RUBERTIS Giovanni, Notaio della piazza di Trivento, in ASC, Fondo Protocolli Notarili, anno
1572. Risulta conservata in atti anche la copia del documento con cui “Ego Carolus Carrafa Episcopus
Guardiensis firma fide credo ac professo omnia et singula que continentur in simbulo fidei ...” fa la
sua professione di fede, raccolta e, come voleva la richiesta, certificata ‘autentica’ dal Vescovo di
Trivento.
755
“La Professio fidei era tridentina nel senso che riassumeva tutte le dottrine affermate dal concilio, ma
era anche romana perché si concludeva con la promessa di obbedienza alla sede romana e al papa. Nel
quadro delle confessioni di fede che caratterizzarono l’intera epoca - giustamente definita per questo «età
confessionale» - rappresentò la variante cattolica del nuovo modello di appartenenza religiosa ed
ecclesiastica” (PROSPERI A., op. cit., pag. 101), come quelle «augustana» e «riformata» o calvinista.
Essa, la Professio fidei, rientrava con l’Indice dei libri proibiti (per il controllo, con la censura intesa
proprio come strumento di lotta contro la diffusione delle idee protestanti, delle specificità culturali), con
la stesura del catechismo (per la formazione religiosa, specialmente dei bambini e dei giovani) e con la
riforma dei libri liturgici (per uniformare lo specifico della ritualità e della cultualità), si collocava nel
quadro delle iniziative conciliari.
5.4 – ‘Suor’ Giulia de Marco e le ‘normalizzazioni’
Solamente come il probabile – o un probabile – tentativo di insofferenza alle
imposizioni austere della contro-riforma (che, almeno nelle intenzioni degli esponenti
‘organizzatori’, sarebbe rimasto, per normale inerzia, nascosto – e resta tuttora ancora
troppo dimenticato756 – dietro le ‘nuove’ ricostruzioni assegnate alle istituzioni, che, si
diceva, erano più apparenti che reali) è possibile trovare le motivazioni della vicenda di
‘suor’ Giulia de Marco, originaria di Sepino e con quasi certe ascendenze arabe da parte
materna (si parla o di “una turca convertita al Cattolicesimo”757 o che la madre fosse
“figlia di una schiava turca, convertitasi al cattolicesimo”758), le cui ripercussioni nella
provincia rimangono tutte ancora da indagare.
Va subito precisato che l’intera vicenda di ‘suor’ Giulia non cancellò molto delle
situazioni precedenti, almeno – ma solo – apparentemente (specie se si considera la
criticità di lungo periodo nelle coscienze), ma, al contrario, fu subito messa a tacere e
divenne, nell’immediato, oggetto di ‘cancellazione’ e, se ancora rimane, lo si deve quasi
esclusivamente ad elementi di curiosa morbosità. Eppure pare che ebbe a condizionare
molto la storia, religiosa e non solo, del XVII secolo.
Ma chi fu Giulia de Marco? Per definirne personalità, seguito e riscontro sociale,
con le relative conseguenze, eccone i passaggi più significativi del suo percorso umano.
“Nacque in Sepino nel 1575 d’umile famiglia contadinesca; e divenuta orfana di
padre, la madre «remasta poverissima e carica de’ Figli» la pose in servizio”759, come
domestica, “nella casa di un negoziante di Cava, prima a Campobasso”760 e, dopo la
morte di questi, a Napoli, dove “la giovanetta seguì la padrona”761 rimasta vedova.
Quasi certamente dotata di fascino particolare e di grande bellezza, ma forse un
po’ ingenua, quella Giulia che, “trapiantata di balzo dall’ambiente ristretto e tranquillo
756
Come annota la NOVI CHAVARRIA E., Un’eretica alla corte del Conte di Lemos. Il caso di Suor
Giulia de Marco, in ASPN CXVI 1998, pag. 77 e segg., “la fonte principale al riguardo resta l’anonima
Historia e processo delle eresie di Suor Giulia di Marco e de’ suoi seguaci, con la forma della loro
abiuratione fatta in Roma l’anno 1615, con ogni probabilità opera del teatino Valerio Pagano, di cui
circolarono diverse copie manoscritte, alcune delle quali si conservano nella BNN (= Biblioteca Nazionale
Napoli), contrassegnate come mss., X B 54, X B 55, X B 56, X B 86; ms. S. Martino 62; ms. S. Martino
104, ff. 109r-124v”.
757
PALUMBO C., Giulia De Marco: una molisana tra i protagonisti del Quietismo a Napoli nella prima
metà del ‘600, in AM 1002, I, pag. 157.
758
NOVI CHAVARRIA E., Un’eretica … cit., pag. 84.
759
MASCIOTTA G.B., Il Molise dalle origini ai giorni nostri, II, Napoli 1915, pag. 361. Il Masciotta
annota che quello riportato “ed altri brani virgolati della presente biografia sono tolti da un opuscolo di
Bernardino Arcari di Sepino, …”. E prosegue: “… teniamo ad avvertire – essendo ciò poco noto – che il
manoscritto suddetto è copia fedelissima dell’originale anonimo (pur manoscritto in triplice copia)
esistente nella Biblioteca Nazionale di Napoli (…) col titolo «Storia di Suor Giulia di Marco, e della falsa
dottrina insegnata da lei, dal P. Aniello Arciero, e da Giuseppe de Vicariis ecc. ecc.»”.
760
PALUMBO C., Giulia … cit., pag. 157.
761
MASCIOTTA G.B., Il Molise … cit., pag. 362. Si precisa che, limitando al massimo di segnalare le
citazioni (per non appesantire la ricostruzione), si preferisce seguire la più schematica ‘biografia’ del
Masciotta, il quale, in precedenza, già l’aveva pubblicata “nel n. 36, Anno II (3 settembre 1914( del
giornale di Napoli «Vela Latina» diretta da Ferdinando Russo”.
della provincia in quello tumultuoso e pieno d’insidia della Capitale, cadde vittima delle
lusinghe di uno staffiere”, il quale, saputala incinta, scelse di abbandonarla per non aver
“fastidi e grattacapi”. La sua padrona, “edotta della disavventura capitata all’inesperta,
cercò – da donna di mondo – di coprire la cosa sia procurandole i mezzi di partorire
segretamente, sia privandola del neonato, che fece portare alla ruota dell’Annunziata.
Prossima poi a morire, le lasciò per testamento tutta la mobilia di casa, al pietoso intento
di sottrarla alle durezze della vita materiale ed ai pericoli inerenti all’età giovanile”.
In una società, quella dei primi anni del ‘600 (siamo al 1604 circa), che, non
avendo ancora fatto proprie ed assimilate le imposizioni culturali della contro-riforma
post-tridentina, guarda – non riesce a non farlo – più ad una spiritualità di facciata che di
sostanza, la de Marco, donna giovane e bella, così sola e, forse (se proprio non le si
vogliono attribuire le doti di intelligenza e della furba determinazione), interiormente
combattuta, “indossa il cingolo del terz’Ordine francescano; frequenta le chiese; e mena
in apparenza una vita così devota ed esemplare da venire volentieri «ammessa nelle case
de’ Benestanti, e sovvenuta ne’ suoi bisogni, con grandissimo suo utile».
Moriva frattanto il padre spirituale …, e l’interessante terziaria eleggeva a
<nuovo> confessore un religioso molto in voga nella Capitale: il padre D. Aniello
Arciero della Congregazione dei Ministri degli Infermi, detti comunemente Crociferi o
Padri delle Crocelle. Il giovane crocifero, nato a Gallipoli di famiglia siciliana, contava
allora trentuno anni; la penitente non ancora trenta; entrambi giovani e per ragion
naturale inclini alle gioie materiali della vita. Sorse fra loro una mutua simpatia, nacque
più tardi l’amore, e dall’amore l’unione che doveva condurli ad una tragica fine”762.
‘Suor’ Giulia, “sebbene con ciò caduta nel pervertimento, conservò le esteriorità
austere che le avevano procurata larga nomea di santità; e la fama, anzi, ebbe a
diffondersi pel trucco messo in atto di suggerire ai peccatori per confessore il padre
Aniello, e d’indovinar poi i loro più riposti sentimenti e pensieri come l’amico glieli
riferiva. La clientela della taumaturga si estese in tutte le classi sociali; e la brava donna,
avida di ritrarne più copiosi profitti, cominciò a porre la pratica fra i suoi stessi fedeli la
teoria ch’ella credeva o fingeva credere suggeritale dal Cielo. Fondò, infatti, una
congrega di devoti in numero di venti – dieci uomini e dieci donne – nella quale ella
catechizzava in disparte la «figliuolanza» d’ambo i sessi in argomento di carità carnale,
ed a sermone conchiuso, nascosti i lumi ed aperti gli usci di comunicazione «si
accoppiava ogni Uomo con quella Donna, che li veniva nelle mani»”.
Oltre a tutti gli aspetti di una contro-riforma non assimilata, specialmente nelle
responsabilità delle frange più alte di una società che se ne riteneva quasi esclusa e non
indirizzata ad essa, il fatto importante sta nel grande seguito sociale dell’iniziativa, se è
vero che nella casa di Suor Giulia “affluivano in gran numero gentiluomini e dame,
borghesi ed ecclesiastici, magistrati e militari; senonchè il mistico gineceo era riservato a
762
MASCIOTTA G.B., Il Molise … cit., pag. 362, passim. “Secondo affermarono entrambi nell’atto di
abiura, essi attraverso l’esile grata del confessionale divennero consenzienti nel concetto e nella teoria –
posta poi in pratica – che il contatto sessuale non fosse peccaminoso se celebrato fra riti sacri e consumato
all’intento della maggior glora di Dio, che col «Crescite et multiplicamini et replete terram» statuiva il
diritto umano alle libere nozze, senza le pastoie perpetue escogitate più tardi dai pontefici e dal legislatore
laico”.
pochi privilegiati, ed ignorato del tutto dalla folla degli accorrenti” 763, cui restava, nei
fatti, una funzione propagandistica e quasi di far da cassa di risonanza per la fama di
santità della ‘Suora’.
Che non rimase intaccata neppure dall’arresto, in seguito ad “ordini giunti da
Roma da lui stesso provocati”, da parte dell’inquisitore, Deodato Gentile vescovo di
Caserta, il quale, “dubitoso della santità di suor Giulia”, fece rinchiuderla in un paio di
monasteri a Napoli (dai quali, però, riusciva ancora a seguire il suo ‘movimento’),
mentre “il padre Arciero, chiamato dal S. Officio a Roma, era privato della facoltà di
confessare e confinato entro gli Stati della Chiesa”.
Più che ridimensionarla, “la disgrazia imprevista accrebbe la popolarità di suor
Giulia. Molte dame e cavalieri, partecipi della congrega epperò premurosi del buon esito
dell’inchiesta, le facevano pervenire consigli e danari, tenendola al corrente di quanto
potesse interessarla; lo scambio delle vietate comunicazioni divenne però così attivo ed
imprudente da indurre la Congregazione di Roma a disporre il trasloco dell’inquisita nel
monastero di Cerreto, e dopo altro tempo in quello di Nola.
Dovunque, peraltro, la persona e la santità di suor Giulia eran tenute in
venerazione grandissima; un pò perché la «figliuolanza» non si stancava di accreditarla
in ogni tempo, luogo e circostanza; e molto pel motivo che ella, la scaltra contadina,
sapeva sostenere il ‘ruolo’ con arte sottile e veramente ammirevole; onde, sopiti i
sospetti delle autorità ecclesiastiche, venne autorizzata nel 1610 a tornar libera nella
Capitale. Il proscioglimento fu un trionfo. La santa che per le vie di Cerreto e di Nola era
stata salutata al suono delle campane (chiesto a voce di popolo), non doveva applicarsi
alle faccende triviali della vita ordinaria: dovevano provvedere a ciò i fedeli, e molti
titolari le chiesero la degnazione d’averla ospite nel proprio palazzo d’abitazione.
Suor Giulia concesse un tanto onore ad uno dei più alti magistrati: don Alfonso
Suarez Luogotenente della R. Camera”764. Ma, “non potendo suor Giulia, in quel nobile
alloggio, svolgere la missione pratica e proficua che si era imposta, né celebrarvi i
misteriosi convegni ond’era pervenuta a quel fastigio, si licenziò dal Suarez, e prese in
fitto una casa fuori le porte della città, in contrada detta «Massaria di Fonseca» adatta
763
MASCIOTTA G.B., Il Molise … cit., pag. 362 e seg. “I seguaci di Giulia e del P. Arcieri si
distinguevano in due categorie: i nuovi affiliati e gli intimi. I nuovi affiliati, o novizi, venivano attratti e
resi costanti mediante un’apparente rettitudine di vita e santità. Gli altri, ormai assicurati al carro di Suor
Giulia, venivano gradatamente istradati nella via di una degenerazione morale” (PALUMBO C., Giulia …
cit., pag. 157).
764
MASCIOTTA G.B., Il Molise … cit., pag. 363. Il Masciotta, a questo punto, riporta proprio il testo del
‘suo’ manoscritto: “In questa Casa del Luogotenente dimorava immersa nei regali, ed ogni giorno era
visitata da infinite persone di qualità, con concorso incredibile di Personaggi illustri, e fin dall’istessa
Contessa di Lemos Viceregina; ed era tanto il gran credito di già acquistato con tutti, che non era possibile
averlo maggiore. Mostravasi ella a tutti in grandissimo grado di perfezione con parlare di cose alte; e
talvolta riduceva alcuno dalla cattiva alla buona strada, e li faceva lasciare i pubblici peccati: il che gli
giovava assai per mantenersi nella riputazione di santa; e perciò avea gran concorso di Signori e Signore
Titolate, Religiosi d’ogni qualità di Religione, Ministri ed Ufficiali Regii, ed altri de primi della Città: ma
pochi potevano essere ammessi alla sua udienza. Stava poi con siffatta gravità, che si faceva baciar la
mano fin da’ Sacerdoti Regolari, e Seculari; e beato si teneva quello, che a questo con qualche mezzo era
ammesso; e quando andava in alcuna Chiesa, o luogo, non ci andava se non in carrozza in compagnia di
molte signore, e con seguito di gran Popolo”.
benissimo per solitudine ed ampiezza alle esigenze delle orge falliche redivive”765, che
“presto ricominciarono con le riunioni serotine, nelle quali i congregati amavano
confessarsi a Suor Giulia, chiamandola mamma e conferendo con lei intorno ai loro
scrupoli e peccati”766.
Una situazione che andò avanti ed ebbe a protarsi per alcuni anni e fino a quando
(e ci sarebbe da approfondire la natura delle ‘denunce’ e, cioè, se esse fossero fatto
spontaneo o non, come più probabilmente fu, provocato dalle gelosie, da contro-riforma,
tra ordini religiosi diversi), nel 1614, “un prete secolare della «figliuolanza» di suor
Giulia – don Roberto de Roberti – stanco dell’osceno costume, o per altri motivi
scontento, si rivolse un giorno al P. Benedetto Maudino (rectius: Mandina) teatino del
convento di S. Paolo per confessargli le proprie peccata; e l’esempio fu seguito da altri
tre colleghi: Francesco Terracino, Vincenzo Negro, e Giuseppe Pepe”.
La risposta fu che “suor Giulia e il suo alter ego, avvocato Giuseppe de Vicariis,
venuti a conoscenza della cosa e temendo uno scandalo, pensarono di mettersi sotto la
protezione dei PP. Gesuiti, i quali accolsero con grande benevolenza la profferta, al
punto che andando il socio e suor Giulia «con seguito grande nella loro Chiesa della
Casa Professa, fù da quei PP. incontrata alla porta della loro Chiesa, né sdegnarono di
baciarle la mano, ringraziandola dell’onore fattogli»”767.
P. Benedetto Mandina (che diventerà vescovo di Caserta ed, a propria volta, anche
inquisitore per lo stato napoletano), però, “d’accordo con altri confratelli (P. Andrea
Castaldo, P. Gerolamo Toraldo, P. Ignazio D’Alois) e contro il parere del P. Generale, il
quale temeva l’odio e le persecuzioni dei potenti partigiani di Giulia e ignorava la
gravità dei fatti, riferì, a sua volta, al nuovo inquisitore Mons. Maranta, Vescovo di
Calvi e Vicario di Napoli; ma questi, se in un primo momento procedette con severità,
ben presto finì per cedere alle pressioni del Vicerè” 768 in persona, interessato, per motivi
di opportunità politica nelle relazioni con Roma, a non montare lo scandalo.
Dopo diversi mesi, durante i quali i buoni uffici del Vicerè fecero il possibile per
insabbiare il tutto e, per parte loro, le autorità inquisitoriali, provando a demandare ed a
rimettere ogni decisione al potere civile, tentarono in ogni modo di non fare emergere gli
evidenti coinvolgimenti delle istituzioni religiose769, “i Teatini comunicarono ogni cosa
765
MASCIOTTA G.B., Il Molise … cit., pag. 364.
PALUMBO C., Giulia … cit., pag. 157.
767
MASCIOTTA G.B., Il Molise … cit., pag. 364. “A spiegar la cosa, giova ricordare che in quel tempo i
Teatini erano in auge per aver accreditata la santità di suor Orsola Benincasa; e che nel convento di S.
Paolo affluiva molto denaro in omaggio della stessa. I Gesuiti, con suor Giulia, venivano ad avere
anch’essi uno strumento di lucri; onde la lotta di concorrenza era concretamente impostata fra i due Ordini
rivaleggianti. Potrà ciò non esser del tutto esatto, ma non è dubbio che i PP. si S. Paolo (i Teatini) –
incuranti dell’impopolarità e dei pericoli cui andavano incontro – furono i promotori tenaci dello scandalo,
circuendo ed attraendo ai propri fini una domestica di suor Giulia, ed obbligando i quattro preti delatori a
sporgere formale denunzia di quanto sapevano al S. Officio”.
768
PALUMBO C., Giulia … cit., pag. 157 e seg.
769
“La questione si faceva grossa. L’inquisitore, a tagliar corto, prese i verbali delle deposizioni raccolte e
li consegnò al Vicerè perché si disingannasse circa le asserite orditure dei Teatini contro l’orgiastra e il
complice. Fu il colmo dell’ingenuità. Il Vicerè, per darsi delle arie di neutralità, non volle neppure gettar
un’occhiata sul voluminoso incartamento; ma lo consegnò a Consiglieri di sua fiducia i quali – essendo
della «figliuolanza» - diedero una grande pubblicità alle risultanze, suscitarono l’opinione pubblica contro
766
direttamente a Roma”770. Quei teatini il cui superiore generale aveva manifestato parere
contrario alla denuncia presso le autorità della chiesa.
“La Congregazione del S. Officio deferì allora la causa al Nunzio a Napoli con un
breve nel quale il Pontefice diffidava formalmente il Vicerè a smettere i buoni uffici a
prò degli accusati, ed a non ingerirsi di cosa che riguardava il braccio ecclesiastico. Il
Vicerè per tema di complicazioni diplomatiche, fece buon viso al monito; ed avendo
ottenute garanzie formali che il processo non avrebbe investito altre persone fuor che la
de Marco, l’Arcieri e il de Vicariis, ordinò che fosse tolta la guardia d’onore posta alla
casa di suor Giulia.
Sgombro il campo della ingerenza secolare, Giuseppe de Vicariis venne tradotto
dalle carceri dell’Arcivescovado in quelle della Nunziatura, donde in una feluca del S.
Officio rimesso a Roma, e il padre Arcieri dal Monastero della Maddalena della stessa
città passò nelle carceri del S. Officio.
Suor Giulia era ancora libera; senonché, appena sguarnito di soldati l’uscio di casa,
andò a rifugiarsi nel palazzo del Suarez, dove credeva di essere al sicuro. Il Nunzio però,
profittando che il Luogotenente era con la famiglia ai bagni di Pozzuoli, fece nottetempo
catturare la peccatrice e condurla a Roma in carrozza, sotto buona scorta di armigeri.
La Congregazione del S. Officio sbrigò il processo in pochi mesi, e la sentenza
dichiarò eretici i tre soci condannandoli alla pubblica abiura ed al carcere perpetuo ed
alle «penitenze salutari» di due ore di orazioni mentali ogni giorno, di due giorni di
digiuno ogni settimana a pane ed acqua, e di confessarsi e comunicarsi una volta al
mese”771 “col confessore assegnato loro dalla Congregazione Cardinalizia”772.
Dopo tre giorni dalla chiusura del processo, con la suddetta sentenza, nel quale “i
tre imputati principali, Giulia de Marco, Aniello Arciero e Giuseppe de Vicariis, «parte
nelli tormenti e nella corda ch’hebbero, e parte volontariamente confessarono tutti
gl’errori et abominazioni»”773, il 12 luglio 1615, a Roma, “nella basilica di Santa Maria
sopra Minerva, alla presenza dell’intero Collegio dei Cardinali, degli esponenti dell’alta
nobiltà cittadina e di una folla di curiosi, il padre Aniello Arciero della Congregazione
dei Ministri degli Infermi, la terziaria francescana Giulia de Marco e l’avvocato
napoletano Giuseppe de Vicariis, vestiti dell’abito di panno giallo dei penitenti con una
grande croce rossa sul petto, fanno pubblica abiura delle loro «false dottrine»”774.
E, se è vero che poco, anzi più nulla, sappiamo di quei tre ‘disgraziati’, resta il
il convento di S. Paolo ed elessero avvocato per suor Giulia e il sodale, il dotto e valoroso giurista
Scipione Rovito. Si chiedeva intanto a gran voce il bando dal Regno dei Teatini; il vescovo di Calvi era
chiamato a Roma ed esonerato dalla missione; la città tumultuava in favore della taumaturga di Sepino e
dei Gesuiti” (MASCIOTTA G.B., Il Molise … cit., pag. 365).
770
PALUMBO C., Giulia … cit., pag. 158.
771
MASCIOTTA G.B., Il Molise … cit., pag. 365 e seg.
772
NOVI CHAVARRIA E., Un’eretica … cit., pag. 77.
773
NOVI CHAVARRIA E., Un’eretica … cit., pag. 103. Si noti l’accenno all’uso della tortura per
estorcere le confessioni.
774
NOVI CHAVARRIA E., Un’eretica … cit., pag. 77. Il Masciotta conclude che “ignoriamo quanti anni
penassero i disgraziati nelle tormentose prigioni del S. Officio, poiché le cronache del tempo
dimenticarono quei sepolti vivi”. Pur se il dubbio continuerà a rimanere, c’è, però, da chiedersi se quella
dimenticanza, che sa poco di compassione umana o religiosa, fu cosa voluta o meno.
Quanto a quelle ‘dottrine’, una prima e sommaria conoscenza è possibile trovarla nel citato Palumbo.
fatto che “la vicenda, oltre tutto, non si concluse con la condanna e le pubbliche abiure
dei rei confessi. L’eresia aveva messo, evidentemente, salde radici tra i devoti napoletani
con ramificazioni di cui il S. Uffizio non aveva tenuto debito conto. Strascichi delle
accese rivalità, che durante il processo avevano visto contrapposti i padri della
Compagnia di Gesù e quelli di S. Paolo Maggiore, si registrarono, infatti, ancora per un
bel po’ di tempo”.
Di tale rivalità il fatto più stupefacente fu che “ad agosto si verificò uno strano
incidente. Suor Francesca Jencara, la spia che il Mandina aveva infiltrato nel cenacolo
della de Marco ed una delle sue delatrici della prima ora, mentre camminava per le vie di
Napoli, fu colpita alla testa dal lancio di una pietra. Il colpevole rimase ignoto, coperto
dall’omertà dei vicini e la vita della bizzoca restò appesa ad un filo per diversi giorni”775.
Sin dalla prima indagine, quella del 1609 da parte dell’inquisitore mons. Gentile,
fu assai chiaro che le responsabilità o, se si vuole, le motivazioni vere della intera
vicenda, che, dal punto di vista culturale, andava ad inserirsi ed aveva “una chiara
matrice nell’alumbradismo spagnolo, la cui eco a Napoli non si era ancora spenta, e non
poche assonanze con le correnti di misticismo, le inquietudini e le aspirazioni ad un
allentamento dell’autorità della Chiesa”776, ben individuavano sia che la de Marco “non
era la sfortunata vittima di uno scaltro e licenzioso confessore, come pure accadeva in
altri contesti”, e sia che fu “assolutamente preminente il ruolo assunto dalla donna
rispetto all’Arciero, giudicato soltanto imprudente e privato per questo della facoltà di
impartire la confessione” (e che, sin da questa fase e sino alla definitiva condanna, viene
tenuto ‘segregato’ al monastero della Maddalena a Roma), mentre “sulla de Marco pesò,
invece, la ben più grave accusa di «affettata santità»”777.
Se non ci si vuole fermare solo alle apparenze e ad un semplice racconto dei fatti,
775
NOVI CHAVARRIA E., Un’eretica … cit., pag. 105 e seg.
NOVI CHAVARRIA E., Un’eretica … cit., pag. 82. Significativamente la Novi, in nota, registra – e
riconosce – che sono “ancora poco indagati i riflessi dell’alumbradismo spagnolo in Italia e a Napoli, in
particolare, dove la presenza del Valdés dovette giocare un ruolo significativo”.
Circa i contenuti, la Novi individua che, anche se “la sentenza di condanna enfatizzò principalmente la
promiscuità sessuale di cui i tre, tra cui – val la pena forse di ricordarlo – vi era anche un religioso, si
erano resi colpevoli per diversi anni. Una promiscuità nel cui resoconto i teatini indugiarono, poi, con non
poca maliziosità ed una certa prudérie e che, nella valutazione fortemente polemica che essi dettero di
tutta la vicenda, doveva evidentemente servire a coprire gli intrighi con cui avevano messo fine a quella
pericolosa setta”, resta il fatto che “l’aspetto più rilevante del «riassunto delle dottrine eretiche» risiede,
invece, a mio avviso, altrove. Esso è innanzitutto nel magistero religioso che Giulia aveva esercitato, per
anni, nei confronti di potenti uomini politici ed ecclesiastici eminenti, a dispetto di qualunque divieto fatto
ai laici, tanto più se donne, di farsi interpreti della parola di Dio. E, in luogo che definiamo secondario, ma
solo per ordine di esposizione, nel rifiuto della confessione e della condanna che la Chiesa post-tridentina
andava propagando nei confronti della sessualità”.
Ed è ancora più chiaro il giustizio, condivisibile e condivisa, della Novi, quando propone (v. pag. 107) la
‘considerazione’ finale, per cui “la de Marco aveva sostenuto e praticato tra i suoi più stretti seguaci
un’assoluta libertà dei comportamenti sessuali, svincolandoli dal vincolo della confessione, in evidente
alterità rispetto ai coevi insegnamenti della Chiesa post-tridentina”.
777
NOVI CHAVARRIA E., Un’eretica … cit., pag. 86, passim. Circa l’argomento della licenziosità nella
confessione, la Novi precisa, in nota, che “mi riferisco ai casi studiati da ROMEO, Esorcisti, confessori, e
sessualità femminile nell’Italia della Controriforma. A proposito di due casi modenesi del primo Seicento,
Le Lettere, Firenze 1998, che a mio avviso enfatizza troppo il ruolo totalmente passivo delle donne
succubi della sollicitatio ad turpia dei loro confessori”.
776
a questo punto, più che l’origine (con le cause e le motivazioni), gli sviluppi ed i
contenuti, della vicenda debbono interessare i coinvolgimenti (chi, quanti e di quale
estrazione furono le persone toccate) ed, ancor maggiormente, le sue ripercussioni sul
territorio del ‘regno’ (o, meglio, viceregno) meridionale, oltre alle conseguenze che la
conclusione ebbe a provocare nelle realtà locali.
Relativamente alla quantità ed alla qualità della partecipazione, occorre indicare
che “le reti di distribuzione del matronage spirituale della de Marco si allargarono ad un
gruppo di seguaci sempre più numerosi, reclutati per lo più – secondo le fonti ed
un’accertata tradizione storiografica – tra la nobiltà e gli ufficiali regii”778.
Ma vi è di più. “In realtà, la devozione si diffuse in un ambito sociologicamente e
geograficamente molto più vasto di quanto non sia stato dato finora di supporre, i cui
contorni furono tanti ampi quanto imbarazzanti da dover occultare poi, allorché la de
Marco cadde sotto le maglie dell’Inquisizione.
L’analisi puntuale dei nomi di quegli adepti, riportati nell’elenco dei «figlioli
spirituali» di suor Giulia, consente, infatti di individuare almeno 5 cardinali, 7 vescovi,
61 membri del clero regolare, 8 sacerdoti, 178 monache, più altre 25 che ebbero con lei
solo rapporti epistolari”779, del cui numero complessivo (che, per i motivi più svariati,
appare chiaramente sottostimato), però, le donne, tra cui era significativa la presenza
delle ‘monache’ (dato che, di per sé, pure si presterebbe a tante analisi e considerazioni),
“costituivano il 59% del suo uditorio”780.
Anche se, per i motivi più ovvi, non sono determinabili e quantificabili, neppure
778
NOVI CHAVARRIA E., Un’eretica … cit., pag. 89. La Novi, in nota, precisa che “il dato è riportato
anche da AMABILE, Il Santo Officio … cit., p. 24 e SALLMANN J.-M., Santi barocchi. Modelli di
santità, pratiche devozionali e comportamenti religiosi nel regno di Napoli dal 1540 al 1750, Argo, Lecce
1996, pp. 260.
779
NOVI CHAVARRIA E., Un’eretica … cit., pag. 89 e seg. Per chi voglia fare un minimo tentativo di
approfondimento, si rimanda all’articolo della Novi, che, dopo aver segnalato il richiamo alla nota in cui
registra che “considerata la natura della fonte, ritengo che si debba trattare di documentazione allegata
dalla difesa agli atti del processo inquisitoriale” e che “ad un «tomo grande di lettere mandate a suor
Giulia da diverse persone, copiate e accomodate da Giuseppe de Vicariis» si fa riferimento nella Nota dei
libri manoscritti concernenti suor Giulia e il de Vicariis che sono stati visti dai suoi figli spirituali, per cui
cfr. BNN, ms. S. Martino 104, f. 27r”, in ‘appendice’, pubblica “parte del documento che si conserva
presso l’Archivio per la Congregazione della dottrina della fede, I. 5. B, inc. 21, ff. n.n. Copia non del
tutto conforme di esso è in BAV, Vat. Lat., 12731, ff. 301r-329v”.
Circa la ‘qualità’ delle figure coinvolte nel fenomeno, va detto, a solo titolo di puro e semplice esempio,
che ‘sore’ Giulia “era in corrispondenza con il cardinale Federico Borromeo, le cui simpatie per le
mistiche ed i circoli di «spirituali» sono ben note e che il primo giugno del 1607 le inviò alcune reliquie
dello zio Carlo, a cui Giulia era particolarmente devota, in risposta ad una lettera e alle orazioni che la
«Madre» faceva per lui, dopo che il suo segretario, che l’aveva conosciuta nel corso di un suo breve
soggiorno a Napoli, gliel’aveva calorosamente raccomandata. Lo stesso anno scrisse anche a Camillo de
Lellis, fondatore e superiore generale della Congregazione dei ministri degli infermi, per ringraziarla delle
preghiere che ella faceva di continuo per lui ed il suo Ordine. Se per il de Lellis il rapporto epistolare con
la «Madre» non rappresentò un ostacolo lungo la strada che, un secolo dopo, lo porterà all’onore degli
altari, non è escluso che l’episodio abbia avuto, invece, esiti diversi per il cardinal Federigo, la cui
accertata sensibilità per il misticismo femminile pesò come un macigno sulla richiesta di beatificazione,
incautamente ed inutilmente avanzata dai suoi sostenitori a fine secolo, in piena polemica anti-quietista”
(NOVI CHAVARRIA E., Un’eretica … cit., pag. 85 e seg.).
780
NOVI CHAVARRIA E., Un’eretica … cit., pag. 108.
solo indicativamente, le ripercussioni della vicenda sul territorio, che, come appena più
sopra si riferiva, fu – piace ripeterlo e sottolinearlo – “geograficamente molto più vasto
di quanto non sia stato dato finora di supporre, i cui contorni furono tanto ampi
quanto imbarazzanti da dover occultare poi, allorché la de Marco cadde sotto le
maglie dell’Inquisizione”, andarono a coinvolgere, oltre a gran parte dei rappresentanti
della feudalità locale (che, però, è indicata sono in quella minima parte che non fu
proprio possibile ‘occultare’ e/o ‘cancellare’)781, “un numero esorbitante di religiosi e
religiose del territorio campano e pugliese”782 e, più generale, del mezzogiorno, se
“possibili tracce della setta saranno rinvenute ancora, nel territorio talentino, nel 1624”783
e, pertanto (e questo va a provare tutte le forti persistenze ‘locali’ dell’intera vicenda),
quasi un decennio dopo la fine del processo.
Di certo, la massima parte del ‘vissuto’ di quella vicenda è stata ‘cancellata’.
Ed a Limosano?
Già in altri lavori784, col proporre la soluzione possibile alla ‘questione’ del luogo di
nascita di Pietro de Marone (poi, papa Celestino V), si rilevava che le ragioni tutte, che
portarono alla Riforma protestante, le cui radici affondavano in un passato lungo di secoli
e che, come la Controriforma, durerà, tra resistenze e difese di interessi più o meno
nascosti, ben oltre il Concilio di Trento e certamente per tutto il secolo XVII, si vissero
anche (ma non solo, se, al contrario, fu fatto proprio assai generalizzato) dai Celestini e
pure nello specifico molisano.
E, se non proprio in misura maggiore, come quelli delle altre osservanze, anche i
monachi della Religione dei Celestini dovettero risultare coinvolti in sconcezze, in
sregolatezze ed in dissolutezze785 di tale gravità da consigliare ai Superiori della
781
Quanto alla feudalità molisana coinvolta, gli elenchi riportano, oltre a “Don Pompeo Monforte, dottore
di legge”, ed a “il Marchese di Coglioniso con sua moglie”, non altrimenti meglio identificati, anche “il
Principe della Riccia con la Principessa sua moglie”, esponente di uno dei “due ceppi dei di Capua”,
entrambi nel Gotha della nobiltà partenopea ed entrambi ‘affiliati’ di suor Giulia, ad uno dei quali era
appartenuta Limosano sino al 1596.
782
NOVI CHAVARRIA E., Un