la responsabilita` amministrativa e contabile alla luce degli ultimi

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LA RESPONSABILITA’ AMMINISTRATIVA E CONTABILE ALLA LUCE
DEGLI ULTIMI APPRODI DELLA GIURISPRUDENZA.
SOMMARIO: A. PROFILI SOSTANZIALI: 1. Quadro normativo di
riferimento. – 2. La giurisdizione della Corte dei Conti dal punto di vista
dell’Ente danneggiato. – 3. La responsabilità contabile in senso stretto. – 4. La
responsabilità amministrativa. – 5. Intrasmissibilità dell’obbligazione
risarcitoria. – 6. Natura della responsabilità. – 7. I due presupposti della
giurisdizione nell’ottica del soggetto agente. – 8. Gli elementi strutturali
dell’illecito. – 9. L’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. – 10.
Condotta e parziarietà dell’obbligazione risarcitoria. – 11. Il danno in generale e
particolari fattispecie di nocumento. – 12. Compensazione del vantaggio con il
danno. – 13. Esimente politica. – 14. Danno indiretto. – 15. Nesso causale. – 16.
L’elemento soggettivo. – 17. La prescrizione. – 18. La costituzione in mora del
presunto responsabile. – 19. L’obbligo di denuncia del danno. – 20. La ritenuta
cautelare ed il fermo amministrativo. B. PROFILI PROCESSUALI: 1. Potere
sindacatorio. – 2. Rapporti con altri giudizi. – 3. La competenza territoriale. – 4.
Istruttoria del Pubblico Ministero contabile. – 5. Invito a dedurre. – 6.
Procedimento monitorio. – 7. Il giudizio dibattimentale e la decisione. – 8. La
sospensione, l’interruzione, l’estinzione e l’abbandono del processo. – 9.
L’intervento. – 10. Potere riduttivo. – 11. Sequestro conservativo. – 12. Azione
revocatoria. – 13. I rimedi giurisdizionali contro le pronunce della Corte dei
Conti. – 14. Patteggiamento contabile. – 15. Rimborso delle spese legali. – 16.
Esecuzione delle Sentenze di condanna.
A. PROFILI SOSTANZIALI
1. Quadro normativo di riferimento
La responsabilità amministrativa e la responsabilità contabile si collocano nell’ambito
del “genus” della responsabilità patrimoniale dei pubblici dipendenti e dei soggetti
legati all’Ente pubblico dal rapporto di servizio, che comprende anche il profilo
attinente alla responsabilità civile degli agenti pubblici verso i terzi, la quale si
riverbera in modo automatico, tuttavia, sulla responsabilità amministrativa nell’ottica
del danno indiretto; alcuni autori utilizzano, al fine di definire la predetta categoria
generale, il termine di responsabilità gestoria, altri di responsabilità erariale, ma
indubbiamente la definizione più accreditata e storicamente consolidata risulta essere
quella di responsabilità patrimoniale.
La responsabilità amministrativa e quella contabile trovano la loro unitaria e
fondamentale disciplina, sostanziale e processuale, nel R.D. nr. 2440 del 1923, Legge
di contabilità generale dello Stato (articoli 81 e seguenti), nel relativo Regolamento,
approvato con R.D. nr. 827 del 1924, nel T.U. delle Leggi sulla Corte dei Conti, di
cui al R.D. nr. 1214 del 1934 (articoli 44 e seguenti), nel Regolamento sui giudizi
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dinanzi alla Corte dei Conti, di cui al R.D. nr. 1038 del 1933, nel T.U. delle
disposizioni concernenti lo Statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con
D.P.R. nr. 3 del 1957 (articoli 18 e seguenti), le cui previsioni in tema di
responsabilità patrimoniale dei pubblici dipendenti sono state mantenute ferme, anche
dopo la contrattualizzazione del rapporto di lavoro, dall’articolo 55 del Decreto
Legislativo nr. 165 del 2001, nonché nel D.L. nr. 453 del 1993, convertito dalla
Legge nr. 19 del 1994 e nella Legge nr. 20 del 1994, come modificati dal D.L. nr. 543
del 1996, convertito dalla Legge nr. 639 del 1996. L’articolo 93 del T.U. sugli Enti
locali di cui al Decreto Legislativo nr. 267 del 2000 e l’articolo 33 del Decreto
Legislativo nr. 76 del 2000, dichiarano applicabile la predetta disciplina attinente ai
dipendenti delle Amministrazioni statali, rispettivamente, al personale degli Enti
locali e delle Regioni; le medesime disposizioni riguardano anche i dipendenti degli
Enti pubblici istituzionali e degli altri Enti pubblici, con il precipitato che attualmente
tutti i dipendenti delle diverse categorie di Amministrazioni ed Enti pubblici sono
sottoposti alla stessa normativa.
2. La giurisdizione della Corte dei Conti dal punto di vista dell’Ente danneggiato
Occorre, tuttavia, considerare che il primo e più immediato referente normativo della
giurisdizione della Corte dei Conti è rappresentato dalla Costituzione, il cui articolo
103, comma 2, riconosce alla stessa Corte una competenza generale in tutte “le
materie di contabilità pubblica”.
Relativamente alla portata della menzionata fonte di rango costituzionale, nel
contesto della rilevante questione inerente al riparto di giurisdizione sul versante del
soggetto danneggiato, le stesse Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, sin
dalle Sentenze nr. 2616 del 1968 e nr. 363 del 1969, hanno riconosciuto
costantemente la giurisdizione della Corte dei Conti in materia di responsabilità degli
amministratori e dipendenti di Enti pubblici non economici, ancorandola alla
immediata efficacia precettiva del suddetto articolo 103, comma 2, della
Costituzione, nonché alla compresenza di due elementi, qualificanti la nozione di
contabilità pubblica: uno soggettivo, che attiene alla natura pubblica del soggetto al
quale l’agente sia legato da un rapporto di impiego o di servizio; l’altro oggettivo, che
riflette la qualificazione pubblica del denaro o del bene oggetto della gestione
nell’ambito della quale si è verificato l’evento, fonte di responsabilità.
Quanto agli Enti pubblici economici, le stesse Sezioni Unite in seno alla Corte di
legittimità, a partire dalla nota Ordinanza nr. 19667 del 2003, hanno espresso il
principio secondo il quale la Corte dei Conti ha giurisdizione nei confronti di
amministratori e dipendenti degli Enti in parola, anche per i danni cagionati
nell’esercizio di attività privatistica di natura imprenditoriale, superando, in tal modo,
il proprio precedente indirizzo risalente alla pronuncia nr. 1282 del 1982 e basato
sulla regola del cosiddetto “doppio binario”, incentrata sulla netta distinzione tra atti,
in concreto molto limitati, riconducibili a funzioni di rilievo pubblicistico di
autorganizzazione o svolgimento di poteri autoritativi in sostituzione di Enti pubblici
non economici, demandati alla cognizione, ai fini del correlato giudizio di
responsabilità, della Corte dei Conti, ed atti concernenti l’attività di gestione attuata
attraverso moduli procedimentali di matrice civilistica, di competenza del Giudice
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ordinario; la giurisdizione della Corte dei Conti in merito alla condotta di
amministratori e dipendenti di Enti pubblici economici, di conseguenza, per i fatti
commessi dopo l’entrata in vigore dell’articolo 1, ultimo comma, della Legge nr. 20
del 1994, si presenta attualmente piena ed esclusiva, estesa a tutte le tipologie di atti,
imprenditoriali o di rilievo pubblicistico, ove rappresentino fonte di pregiudizio
erariale, posti in essere da tali soggetti nell’esercizio della propria attività. Siffatta
conclusione appare intimamente connessa con il presupposto da cui prende l’abbrivo
l’iter motivazionale della Cassazione, ossia la constatazione, avallata in precedenza
anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Decisione nr. 4 del 1999), che
nell’attuale quadro normativo l’Amministrazione svolge attività amministrativa non
solo quando esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei
limiti consentiti dall’ordinamento, persegue le proprie finalità istituzionali mediante
un’attività disciplinata in tutto od in parte dal diritto privato. La giurisdizione piena
della Corte dei Conti nei confronti di amministratori e dipendenti di Enti pubblici
economici è stata confermata, in epoca più recente, dalle Sezioni Unite della
Cassazione nell’Ordinanza nr. 10973 del 2005 e nella Sentenza nr. 15458 del 2007, in
cui è stato ribadito il principio che individua l’elemento discretivo tra giurisdizione
ordinaria e quella contabile unicamente nella qualità del soggetto passivo e, quindi,
nella natura pubblica delle risorse finanziarie utilizzate, e, pertanto, è l’evento
verificatosi in danno di un Ente pubblico il dato essenziale dal quale scaturisce la
giurisdizione contabile e non il quadro di riferimento, diritto pubblico o privato, nel
quale si colloca la condotta produttiva del danno stesso.
Alcune recenti pronunce delle Sezioni Giurisdizionali Centrali e Regionali della
Corte dei Conti, infine, ripercorrendo l’impianto motivazionale delle mentovate
Ordinanze adottate dalla Suprema Corte, hanno statuito in ordine alla sussistenza
della giurisdizione del Giudice contabile anche nei confronti di amministratori e
dipendenti di società in mano pubblica (Sezione I Centrale, Sentenza nr. 356 del
2005, Sezione Giurisdizionale Lombardia, Ordinanza nr. 32 del 2005 e Sentenza nr.
114 del 2006, Sezione Giurisdizionale Marche, Sentenza nr. 492 del 2005, Sezione
Giurisdizionale Abruzzo, Sentenza nr. 67 del 2005, Sezione Giurisdizionale Trentino
Alto Adige, Trento, Sentenza nr. 58 del 2006, Sezione Giurisdizionale Campania,
Sentenza nr. 722 del 2006, Sezione Giurisdizionale Lombardia, Sentenza nr. 448 del
2007, Sezione Giurisdizionale Piemonte, Sentenza nr. 11 del 2008), qualora possano
essere qualificate come organismi di diritto pubblico, per i danni dagli stessi
cagionati, con il proprio comportamento doloso o gravemente colposo, al patrimonio
della compagine societaria, in base alla regola affermata dalle Sezioni Unite della
Cassazione nella Sentenza nr. 14101 del 2006, ovvero, secondo un diverso
orientamento, al patrimonio dell’Ente pubblico controllante; elementi significativi e
sintomatici, nella prospettiva di ampliamento della giurisdizione della Corte dei Conti
per quanto riguarda le società in mano pubblica, si rinvengono nelle Sentenze della
Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, nr. 3899 del 2004, sebbene la stessa abbia
risolto la citata questione, nella fattispecie concreta, alla luce del tradizionale criterio
del rapporto di servizio instauratosi tra il Comune e la società controllata dallo stesso
Ente civico, e nr. 9096 del 2005, che ha qualificato, in una vicenda non attinente alla
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responsabilità patrimoniale, una società per azioni interamente partecipata dall’Ente
locale come istituzione pubblica, trattandosi di Ente strumentale per la gestione di un
servizio pubblico finanziato con entrate di natura pubblicistica. Sul medesimo crinale
si pone anche la Sentenza della Corte Costituzionale nr. 29 del 2006, in cui la
Consulta, tra l’altro, ha propugnato il canone, con riferimento ad una questione in
tema di assunzione di personale di società a capitale interamente pubblico, secondo il
quale le predette società, ancorché formalmente private, possono essere assimilate, in
relazione al regime giuridico, ad Enti pubblici, confermando in tal modo
argomentazioni e principi ispirati ad una valutazione di tipo sostanziale, già espressi
in precedenza nelle pronunce nr. 35 del 1992, nr. 466 del 1993 e nr. 363 del 2003, in
linea con la normativa comunitaria. Anche il Giudice amministrativo, del resto, ha
rinvenuto una qualificazione sostanzialmente pubblica in ordine a società
formalmente private, laddove le stesse svolgano attività di natura funzionale rispetto
al conseguimento di finalità pubblicistiche e non siano dotate di una reale ed effettiva
autonomia gestionale, divenendo, in definitiva, strumento per l’esercizio in concreto
di poteri pubblicistici (ex multis Consiglio di Stato, VI Sezione, Decisione nr. 4711
del 2002, IV Sezione, Decisione nr. 308 del 2006). Al riguardo, sono stati enfatizzati
i profili della titolarità pubblica del capitale azionario e della specialità del regime
giuridico, rispetto alla disciplina societaria comune, allo scopo di creare una categoria
autonoma definita come “società pubblica”, attratta nella sfera pubblica; secondo
l’orientamento prevalente che riecheggia nell’ambito della giurisprudenza del
Giudice amministrativo (ex multis Consiglio di Stato, VI Sezione, Decisione nr. 1303
del 2002), una società è da considerarsi pubblica quando sussistano regole di
organizzazione e di funzionamento che, oltre a costituire una consistente alterazione
del modello societario tipico, comportando una significativa compressione
dell’autonomia funzionale e statutaria degli organismi societari, rivelino, al tempo
stesso, la completa attrazione nell’orbita pubblicistica degli Enti in parola. La
descritta configurazione, tuttavia, è destinata certamente ad una prossima revisione
per effetto della Sentenza della Corte di Giustizia del 06.12.2007, relativa ai
procedimenti C-463/04 e C-464/04, nella quale la Corte, in linea con la propria
giurisprudenza, ha dichiarato che l’articolo 2449 del Codice Civile, secondo cui lo
statuto di una s.p.a. può conferire allo Stato o ad un Ente pubblico che hanno
partecipazioni nel capitale sociale, la facoltà di nominare direttamente uno o più
amministratori, è contrario all’articolo 56 del Trattato, in quanto attribuisce agli stessi
un potere di controllo sproporzionato in relazione alla loro partecipazione nel capitale
della compagine societaria. Al riguardo, una prima risposta del legislatore nazionale
alle osservazioni della Corte di Giustizia è stata offerta, di recente, con l’articolo 13
della Legge nr. 34 del 2008 (Legge comunitaria 2007), il quale ha sostituito il
predetto articolo 2449 del Codice Civile.
Sul piano normativo occorre evidenziare che l’articolo 16 bis del D.L. nr. 248 del
2007, convertito dalla Legge nr. 31 del 2008, ha stabilito che per le società con azioni
quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di
altre Amministrazioni o di Enti pubblici, inferiore al 50 per cento, nonché per le loro
controllate, la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle
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norme del Diritto Civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla
giurisdizione del Giudice ordinario; la fonte in parola ha precisato che le disposizioni
di cui sopra non si applicano ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della
Legge di conversione del citato Decreto. L’intervento del legislatore in materia, che
ha lo scopo di escludere la giurisdizione della Corte dei Conti, peraltro solo in
prospettiva futura, nei confronti di amministratori e dipendenti delle pochissime
società attualmente rispondenti alle suddette particolari condizioni, appare di
notevole portata, sul rilievo che consacra in modo definitivo la giurisdizione del
Giudice contabile con riferimento a tutte le altre società in mano pubblica,
avvalorando un assunto che sino a questo momento non era mai stato espressamente e
direttamente affermato dalla Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali si erano
limitate a sviluppare ed integrare, nelle specifiche fattispecie esaminate, il
tradizionale criterio fondato sul rapporto di servizio.
L’innovativo principio ravvisato per gli Enti pubblici economici e per le società in
mano pubblica, ispirato alla considerazione preminente della pubblicità delle risorse e
delle finalità di interesse generale perseguite dal soggetto, qualunque sia la sua veste
giuridica, affinché lo si possa ritenere incluso nel perimetro soggettivo della
giurisdizione della Corte dei Conti dal punto di vista del soggetto danneggiato, ha
trovato applicazione anche in fattispecie diverse, come quella relativa ad
un’Associazione non riconosciuta priva di personalità giuridica pubblica quale
l’Unione delle Province del Friuli Venezia Giulia, esaminata dalla Sezione
Giurisdizionale della medesima Regione nella Sentenza nr. 417 del 2006; in tale
pronuncia, il Collegio, dopo aver provveduto alla ricostruzione della vicenda che, in
sede legislativa e giurisprudenziale, ha portato all’affermazione della concezione
“sostanzialista” dell’Ente pubblico che può essere soggetto attivo del diritto al
risarcimento, ha concluso la propria disamina esprimendo il canone secondo il quale
la giurisdizione della Corte dei Conti sussiste ogni qual volta vengano utilizzati beni e
denaro pubblici per la cura di pubblici interessi. Con queste parole dal significato
univoco, può ritenersi terminata l’articolata indagine sull’estensione soggettiva della
responsabilità amministrativa con riferimento al soggetto danneggiato. Dalla iniziale
limitazione alle Amministrazioni dello Stato, si è giunti successivamente agli Enti
pubblici territoriali e non economici, e più di recente agli Enti pubblici economici; il
salto di qualità è poi avvenuto con il progressivo ampliamento del citato ambito
soggettivo alle società in mano pubblica, per approdare, infine, all’attuale nozione
“sostanzialista”, che prescinde dalla qualità formale del soggetto, ammettendo che
l’azione di responsabilità possa essere esercitata dalla Procura Regionale della Corte
dei Conti in favore di qualunque soggetto che persegua finalità di rilievo
pubblicistico con l’impiego di risorse pubbliche, affermazione che incarna l’ultima
frontiera della secolare evoluzione al riguardo. Merita evidenziare, tuttavia, che i due
menzionati requisiti devono necessariamente coesistere, atteso che il solo
perseguimento di finalità pubbliche non attribuirebbe al soggetto anche la tutela
giurisdizionale pubblica davanti alla Corte dei Conti: un’estensione della
giurisdizione contabile così ampia, che legittimasse l’iniziativa della parte pubblica a
tutela di qualunque soggetto che persegua, con fondi propri, finalità di pubblico
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interesse, si porrebbe al di fuori del naturale settore di intervento della Corte dei
Conti, istituita a presidio e garanzia del pubblico erario; ma, d’altra parte, nemmeno
sarebbe sufficiente la sola provenienza pubblica dei mezzi finanziari, dovendosi
riscontrare anche il vincolo di scopo di natura pubblica per poter inserire, alla luce
dell’orientamento più accreditato, l’Ente destinatario nel novero dei soggetti aventi
titolo al risarcimento del danno attraverso l’istituto della responsabilità
amministrativa.
Nella stessa ottica, giova sottolineare che le Sezioni Unite della Cassazione, con la
Sentenza nr. 13702 del 2004, hanno stabilito che il Sindaco di un Comune, in
presenza di atti dannosi di cattiva gestione di una società per azioni a capitale
pubblico, ha l’obbligo di proporre l’azione sociale di responsabilità, ai sensi
dell’articolo 2393 del Codice Civile, nei confronti degli amministratori della società
ritenuti responsabili di tali atti, e ciò in adempimento di rigorosi doveri di tutela del
patrimonio dell’Ente civico; in altri termini, il menzionato orientamento chiarisce che
l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità costituisce per l’amministratore
pubblico un obbligo giuridico inderogabile, avendo la Corte di legittimità statuito che
tale omesso adempimento non può evidentemente rientrare nel contesto delle attività
discrezionali dell’Amministrazione, rimesse a valutazioni di merito, ma consiste in
una palese violazione di precisi obblighi di salvaguardia del patrimonio comunale,
conseguenti al prescelto modulo organizzativo dell’attività, ossia la società di diritto
commerciale a capitale pubblico. In considerazione della circostanza che sempre più
spesso le Amministrazioni locali ricorrono, prevalentemente per l’esercizio di servizi
pubblici, ma anche per talune attività istituzionali, a strumenti connotati dall’utilizzo
di moduli organizzativi di conio privatistico, appare utile ribadire che la scelta di
siffatti moduli impone agli amministratori, in ogni caso, pregnanti doveri di vigilanza
e di tutela del patrimonio dell’Ente locale, del quale ovviamente fanno parte azioni e
quote sociali. In tale direzione si colloca anche la recente Ordinanza delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione nr. 5083 del 2008, in cui la Corte di legittimità ha
precisato che è configurabile la responsabilità amministrativa, con conseguente
giurisdizione della Corte dei Conti, per i comportamenti dell’Assessore regionale
all’agricoltura, quale rappresentante della Regione azionista di maggioranza della
locale società del latte, consistenti nell’imporre alla compagine societaria indirizzi
incompatibili con il perseguimento di un risultato positivo di esercizio e nel non aver
adottato, ricorrendone i presupposti, utili iniziative volte ad impedire le perdite della
partecipata.
Sempre rimanendo nell’alveo della tematica relativa alla giurisdizione della Corte dei
Conti, merita richiamare, per l’assoluta novità della fattispecie scrutinata, la Sentenza
della Sezione Giurisdizionale Lombardia nr. 528 del 2004, nella quale è stato
sostenuto che sussiste la giurisdizione del Giudice contabile, in base all’articolo 1,
comma 4, della Legge nr. 20 del 1994, che riguarda il danno arrecato ad
Amministrazione diversa da quella di appartenenza, ed all’articolo 280 del Trattato
della Comunità Europea, che sancisce il canone dell’assimilazione, in caso di
pregiudizio cagionato da un amministratore di Ente locale alla Comunità Europea per
la percezione di finanziamenti comunitari da parte di un Comune, a fronte della
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mancanza di alcuni requisiti formali per poterne beneficiare; la novità della questione
affrontata dalla citata Sezione territoriale, rispetto ai numerosi precedenti
giurisprudenziali che avevano affermato la giurisdizione della Corte dei Conti nelle
ipotesi di cattivo utilizzo da parte di Enti pubblici di risorse di provenienza
comunitaria, risiede nella considerazione che, nel caso di specie, non si dibatteva di
un danno patito dall’Ente pubblico il quale, introitati i finanziamenti comunitari, li
avesse mal gestiti, ma di una ben diversa evenienza, ovvero dell’indebita erogazione
ad un Comune di fondi comunitari che non dovevano essere erogati dal finanziatore
per violazioni contrattuali commesse dal beneficiario: in altre parole, nell’ipotesi in
commento il soggetto pubblico danneggiato non è, come nei cennati precedenti
giurisprudenziali, il Comune preposto all’attuazione del progetto finanziato
dall’Unione Europea, ma la stessa Unione Europea finanziatrice del programma. Di
fronte alla descritta fattispecie, imperniata su un danno cagionato direttamente al
patrimonio dell’Unione Europea, la Sezione territoriale ha concluso la propria
disamina in via interpretativa propugnando la giurisdizione della Corte dei Conti per
due ordini di motivi: da una parte, la formulazione del prefato articolo 1, comma 4,
della Legge nr. 20 del 1994, che consente testualmente di annoverare nella nozione di
“Amministrazioni o Enti pubblici diversi da quelli di appartenenza” anche l’Unione
Europea, dall’altra, il precetto fissato dal menzionato articolo 280 del Trattato, il
quale dispone che gli Stati membri adottano, per combattere le frodi che minano gli
interessi finanziari della Comunità, le stesse misure emanate per contrastare le frodi
che ledono i loro interessi finanziari. L’argomento interno, rappresentato dalla
suddetta disposizione della Legge nr. 20 del 1994, ed il richiamo al predetto principio
di assimilazione di matrice comunitaria, in definitiva, costituiscono due elementi
decisivi che militano, secondo la pronuncia in questione della Sezione
Giurisdizionale Lombardia, a favore della giurisdizione della Corte dei Conti, anche
nel caso in cui il nocumento sia arrecato direttamente al patrimonio dell’Unione
Europea.
In merito alla tematica inerente alla giurisdizione della Corte dei Conti, infine, degna
di menzione si appalesa la riassegnazione al Giudice contabile, per effetto
dell’intervento diretto del legislatore, della cognizione delle fattispecie di danno
ambientale. A tal proposito, deve essere precisato che il danno ambientale non è da
confondere con il pregiudizio arrecato a singoli e ben determinati beni ambientali,
come un tratto di spiaggia deturpato, un fiume inquinato o una foresta abbattuta: il
danno ai singoli beni cui si è accennato, costituente nocumento patrimoniale in
relazione alla spesa necessaria per risanare il bene oggetto di aggressione, è sempre
rientrato nella tradizionale giurisdizione della Corte dei Conti; il danno ambientale,
invece, inteso come un di più, rappresentato dallo scadimento del valore naturalistico
ed ambientale del luogo, connotato da particolari e specifiche qualità naturali,
paesaggistiche, architettoniche, storiche od artistiche, come tale unitariamente
tutelato dall’ordinamento, dopo essere stato in certo qual modo “scoperto” e coltivato
dal Giudice contabile, era stato attribuito dall’articolo 18 della Legge nr. 349 del
1986 alla cognizione del Giudice ordinario. Orbene, con l’articolo 318, comma 2,
lettera a) del Decreto Legislativo nr. 152 del 2006, cosiddetto Codice dell’ambiente,
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siffatta disposizione è stata abrogata, mentre con l’articolo 313, comma 6, del citato
Decreto Legislativo, è stato fissato il principio in base al quale il Ministro
dell’ambiente, nel caso di danno provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione
della Corte dei Conti, anziché ingiungere, con propria Ordinanza immediatamente
esecutiva, ai sensi dell’articolo 313, commi 1 e 2, del prefato Codice dell’ambiente, il
ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica ovvero il pagamento
del risarcimento per equivalente patrimoniale, invia rapporto all’Ufficio della Procura
Regionale presso la Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti competente per
territorio.
Ciò premesso sul piano della cornice normativa di settore, e delle connesse questioni
di giurisdizione, preme evidenziare che le due Leggi citate del 1994 hanno apportato
significative innovazioni alla materia, nonché al funzionamento del Giudice
competente a conoscere di siffatte azioni, ovvero la Corte dei Conti; in dettaglio, tale
normativa ha unificato il differenziato regime sostanziale del menzionato comparto,
che in precedenza era caratterizzato dalla presenza di fonti contenute in testi distinti e
da regole parzialmente diverse, a seconda dell’appartenenza dei soggetti responsabili
del nocumento patrimoniale alle varie Amministrazioni pubbliche, con particolare
riferimento ai dipendenti degli Enti locali, ai quali, sino all’avvento della riforma del
1994-1996, si applicavano disposizioni proprie e peculiari, esplicitate dapprima nel
T.U. della Legge comunale e provinciale, approvato con R.D. nr. 383 del 1934, e
successivamente nell’abrogata Legge nr. 142 del 1990.
3. La responsabilità contabile in senso stretto
In via preliminare, è opportuno sottolineare, sul piano terminologico e concettuale, la
fondamentale distinzione tra responsabilità amministrativa e responsabilità contabile
dell’agente pubblico, le quali, sebbene presentino alcune essenziali diversità,
vengono sovente unificate unitariamente nella generica nozione di responsabilità
amministrativo-contabile.
In realtà, è preferibile tenere ben distinti i due tipi di responsabilità sopra richiamati,
sul rilievo che la responsabilità contabile è quella particolare responsabilità
patrimoniale in cui possono incorrere solo alcuni pubblici dipendenti, ovvero gli
agenti contabili, qualifica spettante, ai sensi dell’articolo 74 del R.D. nr. 2440 del
1923 e dell’articolo 178 del R.D. nr. 827 del 1924, ai soggetti che hanno il maneggio
di denaro o di altri valori dello Stato e, segnatamente: a) agli agenti della riscossione
o esattori, incaricati di riscuotere le entrate; b) agli agenti pagatori o tesorieri,
incaricati della custodia del denaro e dell’esecuzione dei pagamenti; c) agli agenti
consegnatari, incaricati della conservazione di generi, oggetti e materie appartenenti
alla P.A..
La qualifica di agente contabile, peraltro, compete non solo ai pubblici dipendenti ma
anche ai privati che abbiano il maneggio di pubblico denaro; la giurisprudenza della
Corte di legittimità, in particolare, ha chiarito che la qualità di agente contabile è
assolutamente indipendente dal titolo giuridico in forza del quale il soggetto,
pubblico o privato, ha maneggio di risorse pubbliche. Tale titolo può, infatti,
consistere in un atto amministrativo, in un contratto, o addirittura mancare del tutto;
essenziale è, invece, che in relazione al maneggio del denaro sia costituita una
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relazione tra Ente di pertinenza ed altro soggetto, anche privato, a seguito della quale
la percezione dei fondi pubblici avvenga, in base ad un titolo di diritto pubblico o
privato, in funzione della pertinenza di tale denaro all’Ente pubblico e secondo uno
schema procedimentale di tipo contabile (Cassazione Sezioni Unite Civili, Sentenze
nr. 9204 del 1994 e nr. 12367 del 2001).
Non è superfluo rammentare, inoltre, che la qualifica di agente contabile può essere
acquisita di diritto, in funzione di una espressa e formale investitura, ovvero di fatto,
attraverso la materiale ingerenza nella gestione di beni pubblici.
Gli agenti contabili, a mente degli articoli 33 e 194 del R.D. nr. 827 del 1924,
rispondono sotto l’aspetto patrimoniale per la mera discrasia esistente, per difetto, tra
la quantità di beni o denaro a proprio carico “di diritto” e la quantità realmente
esistente “di fatto”: la mera deficienza numerica o qualitativa dei beni o valori
custoditi o gestiti comporta la responsabilità dell’agente, la cui colpevolezza si
presume, e sul quale grava l’onere di dimostrare che la sottrazione o la perdita non è a
lui imputabile a titolo di dolo o colpa grave, o che si è verificata per caso fortuito o
forza maggiore, e che sono stati adottati tempestivamente i provvedimenti e le cautele
procedimentali necessari per la conservazione del denaro o dei beni avuti in
consegna.
In definitiva, la responsabilità contabile è disciplinata in modo più rigoroso rispetto
alla responsabilità amministrativa, in quanto nella prima la pubblica accusa non deve
dimostrare in giudizio la colpevolezza dell’agente contabile presunto autore del
danno, sul rilievo che quest’ultima si presume; il peculiare regime della
responsabilità contabile è stato da taluni ricondotto al meccanismo della “culpa in re
ipsa”, mentre altri autori parlano di mera inversione dell’onere della prova,
argomentando dal fatto che il contabile, che è presunto responsabile delle mancanze,
del deterioramento o della diminuzione delle cose a lui affidate, può ottenere il
discarico soltanto provando che il danno è causato da caso fortuito o forza maggiore
o naturale deperimento del bene oppure che lo stesso non è a lui imputabile per
negligenza, avendo egli posto in essere ogni idonea misura al fine di conservare la
“res” avuta in consegna ed evitarne il perimento o, comunque, il deterioramento, allo
scopo di adempiere all’obbligo di restituzione derivatogli dalla qualità di depositario.
Secondo altri studiosi, in realtà, non di inversione dell’onere della prova si tratterebbe
nella specie, ma di onere incombente sul depositario di dimostrare la non
imputabilità, con effetti liberatori dall’obbligazione, della perdita della detenzione, ai
sensi dell’articolo 1780 del Codice Civile, come obbligazione di carattere generale
cui sono tenuti tutti coloro che ricevano denaro o altri valori in custodia.
Siffatto obbligo di restituzione che nasce in capo all’agente contabile,
giustificherebbe, ad avviso della giurisprudenza assolutamente prevalente della Corte
dei Conti, l’impossibilità di fare applicazione del potere riduttivo dell’addebito nei
casi di responsabilità contabile.
Preme sottolineare, infine, che tutti gli agenti contabili sono sottoposti, in caso di
danni arrecati all’Ente pubblico nell’esercizio delle proprie funzioni, alla
responsabilità contabile, disciplinata secondo le particolari regole in precedenza
delineate, mentre la maggior parte degli stessi, tranne limitate eccezioni
9
tassativamente previste dalla Legge, come nell’ipotesi del funzionario delegato o del
consegnatario di beni mobili di ufficio per solo debito di vigilanza, sono soggetti
all’obbligo della presentazione del conto giudiziale presso le competenti Sezioni
Giurisdizionali della Corte dei Conti, ai fini dell’instaurazione del giudizio di conto;
trattasi, come affermato dalla Corte Costituzionale nella Sentenza nr. 292 del 2001, di
una procedura giudiziale, a carattere necessario, volta a verificare se chi ha avuto
maneggio di denaro o di altri valori pubblici, e dunque ha avuto in carico risorse
finanziarie o beni provenienti da bilanci pubblici, è in grado di rendere conto del
modo legale in cui li ha spesi, gestiti o conservati, e di conseguenza non risulta
gravato da obbligazioni di restituzione, potendosi adottare nei suoi confronti una
pronuncia di discarico. Tale tipo di giudizio, che si incardina per “fictio iuris” con la
semplice presentazione del conto presso i suddetti Uffici della Corte dei Conti, previa
parificazione dello stesso ad opera del competente organo dell’Amministrazione,
risulta attualmente disciplinato dagli articoli 27 e seguenti del R.D. nr. 1038 del 1933
e dagli articoli 44 e seguenti del R.D. nr. 1214 del 1934: al termine dell’attività
istruttoria svolta dal Magistrato incaricato, coadiuvato dai revisori dei conti,
compendiata nella relazione di cui all’articolo 29 del R.D. nr. 1038 del 1933, atto
contenente l’esposizione dei risultati dell’esame svolto e la propria proposta in ordine
alla definizione del giudizio, viene emanato dal Presidente della Sezione
Giurisdizionale senza celebrazione di alcuna Udienza, alla luce della risoluzione
favorevole del Magistrato istruttore e dopo l’acquisizione del parere in tal senso
dell’Ufficio Requirente, il decreto di discarico, il quale attesta la regolarità del conto
e della gestione in esso rappresentata, ovvero, in caso di non concordanza tra le
conclusioni del Magistrato in parola, del Presidente e del Procuratore Regionale, si
verifica l’automatica iscrizione nel ruolo di Udienza del conto per l’eventuale
pronuncia di condanna a carico del contabile a pagare la somma di cui risulti
debitore; in altri termini, l’adozione del decreto di discarico, che secondo una parte
della dottrina avrebbe natura non giurisdizionale ma amministrativa, è subordinata al
consenso prestato da tutti e tre i prefati organi monocratici che intervengono nella
fase necessaria del procedimento. Oltre al caso concernente la proposta di condanna
del contabile da parte del Magistrato istruttore, ovvero nell’ipotesi di dissenso del
Presidente o del Procuratore Regionale in ordine al discarico, il conto viene iscritto a
ruolo per il giudizio della Sezione anche quando la citata relazione di cui all’articolo
29 del R.D. nr. 1038 del 1933 concluda per la rettifica dei resti da riprendersi nel
conto successivo, o, infine, per i provvedimenti interlocutori che il Magistrato
istruttore medesimo giudichi opportuni; l’articolo 34 del prefato R.D. nr. 1038 del
1933 esplicita, inoltre, particolari tipi di conti che sono sempre iscritti a ruolo per la
discussione del giudizio.
Da quanto sopra tratteggiato, si evince che il giudizio per responsabilità contabile su
citazione del Procuratore Regionale costituisce, in sostanza, un’anticipazione del
giudizio di conto; i due menzionati giudizi, disciplinati in modo uniforme, quanto
all’assetto degli oneri probatori, una volta approdati nella fase contenziosa
dibattimentale, differiscono esclusivamente per la fonte di avvio, in quanto nel primo
caso l’innesco è realizzato dalla citazione del Procuratore Regionale che, prima
10
ancora della definizione del giudizio di conto, abbia avuto notizia di un ammanco,
mentre il secondo rappresenta svolgimento naturale del suddetto procedimento
giudiziale, a carattere necessario, che non si risolva con l’adozione del decreto di
discarico; dispone, infatti, l’articolo 54 del R.D. nr. 1214 del 1934, con formulazione
pressoché analoga a quella contenuta nell’articolo 85 del R.D. nr. 2440 del 1923, che
“nei casi di deficienza accertata dall’Amministrazione o di danni arrecati all’erario
per fatto o per omissione, imputabili a colpa o negligenza dei contabili e dei
funzionari od agenti contemplati dalla Legge sull’amministrazione del patrimonio e
sulla contabilità generale dello Stato, la Corte può pronunciarsi tanto contro di essi
quanto contro i loro fideiussori o cauzionanti anche prima del giudizio di conto”.
Giova sottolineare che nel giudizio per responsabilità contabile, in linea con quanto
avviene nel giudizio per responsabilità amministrativa, il Procuratore Regionale
assume la veste di parte in senso sostanziale ed attore, soggetto alle disposizioni
processuali previste, tra l’altro, dall’articolo 5 del D.L. nr. 453 del 1993, convertito
dalla Legge nr. 19 del 1994, mentre nel giudizio di conto che approda alla fase
dibattimentale, il rappresentante dell’Ufficio Requirente non ricopre tale posizione
bensì quella di Organo concludente che interviene all’Udienza fissata dal Presidente
della Sezione.
In ogni caso, non può essere sottaciuto che il giudizio di conto costituisce, comunque,
l’istituto organicamente previsto e disciplinato dall’ordinamento per conoscere non
solo delle tipiche responsabilità dei contabili, implicate dal maneggio di denaro e
degli altri valori pubblici, ma per introdurre, con funzione strumentale e qualora ne
ricorrano i presupposti, una ulteriore e più pregnante fase processuale, comportante la
“plenaria cognitio” delle eventuali responsabilità, di natura amministrativa, anche
degli organi che hanno effettuato la gestione dei negozi cui il conto si riferisce
deliberando la relativa spesa, nelle ipotesi ove queste responsabilità appaiano
connesse con quelle dei contabili, come previsto dall’articolo 44, primo periodo, del
Regolamento di procedura di cui al R.D. nr. 1038 del 1933, il quale consente la
riunione del giudizio di conto con quello di responsabilità, attivato dal Procuratore
Regionale attraverso lo strumento della citazione, dando luogo al cosiddetto processo
contabile; trattasi di figura ampia e composita, nel cui ambito il giudizio di conto
risulta assorbito, pur avendo giocato l’iniziale e rilevante ruolo di prima fase, o
momento generativo occasionale, che vede convenuti dinanzi al Giudice sia l’agente
contabile (mediante chiamata in causa officiosa) che altri soggetti, funzionari e
amministratori (che possono essere costituiti in giudizio solo tramite una formale
“vocatio”, ossia con atto di citazione della Procura), originando un processo
simultaneo in ordine a cause autonome, finalizzato all’accertamento contestuale della
responsabilità contabile e di quella amministrativa (ex multis Sezione Giurisdizionale
Lazio, Sentenza nr. 3008 del 2005).
Per quanto concerne la giurisprudenza più recente e significativa in materia di
giudizio di conto, si stima utile richiamare, da una parte, l’Ordinanza delle Sezioni
Unite Civili della Corte di Cassazione nr. 7390 del 2007, dall’altra, la Sentenza della
Sezione Giurisdizionale Piemonte nr. 10 del 2008. Con la citata pronuncia la Corte di
legittimità ha chiarito che la disposizione regolamentare contenuta nell’articolo 2,
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comma 1, lettera a), del D.P.R. nr. 254 del 2002, non può operare una restrizione
dell’area giurisdizionale assegnata alla Corte dei Conti, la quale trova fondamento
nella clausola generale esplicitata dall’articolo 103 della Costituzione; ne deriva che
l’attività di gestione afferente al maneggio di azioni e quote societarie rientra
certamente nel giudizio di conto demandato al Giudice contabile. Nella Sentenza
sopra indicata la Sezione territoriale ha precisato, invece, che il giudizio di conto può
concludersi con una dichiarazione di “irregolarità” della gestione contabile senza
contestuale condanna a carico dell’agente interessato, laddove le irregolarità
contabili, anche gravi, non abbiano comunque comportato un ammanco o l’ammanco
sia di importo trascurabile o, ancora, la natura delle irregolarità stesse non consenta di
accertare l’esistenza o meno di un debito del contabile. L’accertamento di tali diffuse
irregolarità, ha soggiunto la Sezione Giurisdizionale in parola, può costituire oggetto
di segnalazione alla Sezione Regionale di controllo della Corte dei Conti, ai fini
dell’adozione di eventuali provvedimenti correttivi di cui all’articolo 1, comma 168,
della Legge nr. 266 del 2005, nonché alla Procura Regionale in relazione a possibili
fattispecie di responsabilità amministrativa, anche sotto il profilo del danno non
patrimoniale.
Per completezza di esposizione, giova rammentare che, a mente dell’articolo 2 della
Legge nr. 20 del 1994, “decorsi cinque anni dal deposito del conto effettuato a norma
dell’articolo 27 del R.D. nr. 1038 del 1933, senza che sia stata depositata presso la
segreteria della Sezione la relazione prevista dall’articolo 29 dello stesso Decreto o
siano state elevate contestazioni a carico del tesoriere o del contabile da parte
dell’Amministrazione, degli organi di controllo o del Procuratore Regionale, il
giudizio sul conto si estingue, ferma restando l’eventuale responsabilità
amministrativa e contabile a carico dell’agente contabile”; il legislatore, quindi,
considerato l’elevatissimo numero di agenti contabili appartenenti alle
Amministrazioni statali e degli Enti locali tenuti alla presentazione annuale del conto,
ha sancito l’estinzione “ope legis” del relativo giudizio, laddove il conto non venga
esaminato entro cinque anni dalla data del deposito presso la segreteria della Sezione
Giurisdizionale della Corte dei Conti, la cui declaratoria, tuttavia, non pregiudica la
possibilità di promuovere, ricorrendone i presupposti, l’eventuale azione di
responsabilità amministrativa e contabile nei confronti dell’agente contabile.
Sul versante del giudizio di conto merita evidenziare, per la sua natura accessoria e
strumentale, anche il giudizio per resa di conto, previsto dagli articoli 45 e 46 del
R.D. nr. 1214 del 1934 e dagli articoli 39, 40 e 41 del R.D. nr. 1038 del 1933 quale
procedura funzionale al tempestivo adempimento dell’obbligazione di rendiconto da
parte dell’agente contabile; siffatto giudizio per resa di conto può essere distinto in
due fasi, la seconda delle quali a carattere eventuale. La prima fase inizia con
l’istanza promossa dal Procuratore Regionale, al quale la normativa assegna
l’iniziativa in materia, iniziativa assunta d’ufficio, nei casi di diretta conoscenza del
verificarsi dei fatti che ne costituiscono il presupposto, anche a seguito di
comunicazione da parte dell’Amministrazione o degli Uffici di Ragioneria, ovvero in
relazione alla richiesta proveniente dalla stessa Corte nell’esercizio delle sue
attribuzioni contenziose o di controllo; presentata alla competente Sezione la
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domanda con cui si richiede di fissare un termine all’agente contabile che non ha
presentato il conto, il procedimento si svolge con rito sommario. La Sezione
Giurisdizionale in composizione collegiale, infatti, adotta in Camera di consiglio il
richiesto provvedimento con la forma del Decreto, notificato al contabile per il
tramite dell’Amministrazione, esplicitando il termine per la resa del conto;
l’accertamento sommario demandato alla Sezione riguarda la sussistenza dei
presupposti per l’emanazione di un provvedimento giudiziale e, cioè, che esista una
gestione pubblica che comporti l’obbligazione di conto, quale sia l’agente contabile
tenuto all’adempimento e che effettivamente il conto non risulti presentato. Come
chiarito in precedenza la seconda fase si appalesa meramente eventuale, in quanto se
a seguito dell’intimazione contenuta nel Decreto l’agente presenta il conto, si avrà il
giudizio di conto ordinario disciplinato dalle disposizioni sopra enucleate, mentre,
qualora il contabile non adempia, nel termine, all’ordine emanato dalla Sezione,
inizia una nuova procedura a carattere contenzioso che prende l’avvio con l’istanza
del Procuratore Regionale, sotto forma di citazione, ed ha per oggetto l’irrogazione di
una pena pecuniaria a carico dell’agente contabile, ai sensi dell’articolo 46 del R.D.
nr. 1214 del 1934. Essa comporta una pronuncia di condanna che trova il suo diretto
fondamento nella mora nell’adempimento dell’obbligazione di rendere il conto;
contemporaneamente alla richiesta di condanna, il Procuratore Regionale può
presentare istanza intesa all’emissione di un provvedimento giudiziale per la
compilazione d’ufficio del conto, a spese dell’agente, ma niente esclude che tale
domanda possa essere avanzata in un momento susseguente e, quindi, in sede
separata. Sull’istanza di compilazione del conto d’ufficio proposta dal Procuratore
Regionale la Sezione provvede con Decreto, tenendo conto che la condanna del
contabile al rimborso delle spese di compilazione del conto d’ufficio e di
notificazione del conto compilato viene pronunciata successivamente, nell’ambito
della decisione definitiva sul conto.
Sempre in tema di agenti contabili appare utile richiamare, nell’ambito dei referenti
normativi che disciplinano la materia, il citato D.P.R. nr. 254 del 2002 che approva il
Regolamento concernente le gestioni dei consegnatari e dei cassieri delle
Amministrazioni dello Stato; sul medesimo crinale, giova ribadire che, in base
all’articolo 32 del suddetto R.D. nr. 827 del 1924, i consegnatari dei beni mobili sono
sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti, alla quale devono alla fine di ogni
anno finanziario rendere il conto giudiziale della loro gestione, mentre non devono
presentare il citato conto giudiziale coloro che hanno in consegna mobili d’ufficio per
solo debito di vigilanza, o presso i quali si trovino stampe, registri od altri oggetti di
cui debba farsi uso per il servizio dell’ufficio cui il consegnatario è addetto.
4. La responsabilità amministrativa
Soffermandoci, invece, sulla nozione di responsabilità amministrativa, senza entrare
approfonditamente nel merito dell’antico dibattito, mai completamente sopito, in
ordine alla natura, pubblicistica o privatistica, della stessa e sulla funzione,
risarcitoria o sanzionatoria, della giurisdizione contabile, è sufficiente osservare, con
voluta genericità, che essa, dall’angolazione inerente al carattere di fattispecie non
tipizzata ed agli elementi strutturali, non differisce sostanzialmente dall’ordinaria
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responsabilità civile prevista dall’articolo 2043 del Codice Civile, se non per la
particolare qualificazione dell’autore del danno, pubblico dipendente o soggetto
privato legato all’Ente pubblico dal rapporto di servizio, e per la causazione del
pregiudizio nell’esercizio di pubbliche funzioni o in circostanze legate da
occasionalità necessaria con lo svolgimento di pubbliche funzioni; non può essere
negata, tuttavia, la circostanza che la riforma degli anni 1994-1996 ha accentuato in
modo evidente quel carattere pubblicistico e personale che ha sempre accompagnato
il ripristino del pregiudizio erariale arrecato da un pubblico dipendente o da chi è
legato all’Amministrazione dal rapporto di servizio, ripristino cui, come evidenziato
dalla giurisprudenza contabile, è anche legata la finalità di promuovere, attraverso il
perseguimento delle responsabilità, la correttezza, il buon andamento e l’imparzialità
dell’azione amministrativa, sanciti dall’articolo 97 della Costituzione. Non mancano
poi nel nostro ordinamento alcune specifiche ipotesi di diritto punitivo contabile,
affidate dal legislatore alla cognizione della Corte dei Conti, che presentano una
funzione esclusivamente sanzionatoria, tra le quali, giova rammentare quelle previste
dal già citato articolo 46 del R.D. nr. 1214 del 1934, inerente all’agente contabile in
mora nel deposito del conto, dall’articolo 248, comma 5, del Decreto Legislativo nr.
267 del 2000, afferente alla misura accessoria dell’ineleggibilità conseguente alla
dichiarazione di dissesto dell’Ente locale, dall’articolo 30, comma 15, della Legge nr.
289 del 2002, attinente all’indebitamento per spese non classificabili come
investimenti, dall’articolo 3, comma 44, della Legge nr. 244 del 2007, concernente il
superamento del tetto al compenso di incarichi conferiti da Amministrazioni dello
Stato, Enti pubblici e società a totale o prevalente partecipazione pubblica non
quotate in borsa e dall’articolo 3, comma 59, della suddetta Legge nr. 244 del 2007,
relativo alla nullità del contratto di assicurazione con il quale un Ente pubblico
assicuri propri amministratori per i rischi derivanti dall’espletamento dei compiti
istituzionali e riguardanti la responsabilità amministrativa e la responsabilità
contabile. In merito alla suddetta fattispecie contemplata dall’articolo 30, comma 15,
della Legge nr. 289 del 2002, giova evidenziare che, sulla specifica tematica, è
intervenuta recentemente la Sentenza delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti nr.
12/QM/2007. Con riferimento all’ipotesi prevista dal prefato articolo 3, comma 44,
della Legge nr. 244 del 2007, preme richiamare le Circolari della Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione Pubblica, nr. 1 del 24.01.2008 e
nr. 6 del 30.04.2008.
5. Intrasmissibilità dell’obbligazione risarcitoria
Una delle testimonianze tangibili di questa nuova conformazione della responsabilità
amministrativa e contabile, maggiormente protesa, rispetto al passato, verso il
raggiungimento di finalità di tipo sanzionatorio ed afflittivo accanto a quelle
eminentemente risarcitorie, in diretta connessione con il carattere personale
consacrato dall’articolo 1, comma 1, della Legge nr. 20 del 1994, è rappresentata
dalla regola che sancisce in linea generale, per effetto della novella di cui alla Legge
nr. 639 del 1996, l’intrasmissibilità dell’obbligazione risarcitoria agli eredi, tranne
nelle limitate ipotesi, che costituiscono eccezione al principio suddetto, di illecito
arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi
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stessi. A tal proposito, giova rammentare che, secondo un filone giurisprudenziale
che appare ormai sufficientemente consolidato (ex multis II Sezione Giurisdizionale
Centrale, Sentenza nr. 83 del 1998, I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr.
413 del 2005, Sezione Giurisdizionale Lazio, Sentenza nr. 3087 del 2002, Sezione
Giurisdizionale Emilia Romagna, Sentenza nr. 3 del 2006), in ipotesi di illecita
percezione di somme da parte del “de cuius” sussiste la legittimazione passiva degli
eredi che hanno accettato con beneficio d’inventario; ove, infatti, non fosse
riconosciuta tale legittimazione gli eredi beneficerebbero della situazione dopo
l’acquisizione dell’eredità residua, non decurtata delle somme costituenti illecita
locupletazione, conseguendo così quel vantaggio patrimoniale che la norma intende
assolutamente impedire. L’esigenza di recuperare, per quanto possibile, somme che
hanno indebitamente arricchito un soggetto, convince della tesi che la condanna nei
confronti degli eredi accettanti con beneficio d’inventario, presenta un carattere
meramente formale poiché colpito è, piuttosto, il solo patrimonio del “de cuius” a
mezzo del quale gli eredi soddisfano i creditori di esso, e nei cui limiti soltanto può
operare la condanna. Rimanendo sempre in tema di eredi, risulta più oscillante l’altro
orientamento giurisprudenziale che reputa sussistere una presunzione, non assoluta
ma relativa, di indebito arricchimento degli eredi in caso di illecito arricchimento del
proprio dante causa (ex multis II Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 394
del 2006), con conseguente inversione dell’onere della prova che non graverebbe sul
Procuratore Regionale bensì sui citati eredi, chiamati ad offrire, in giudizio, la prova
contraria attinente alla carenza di qualsiasi nesso di consequenzialità tra beni relitti e
gli illeciti compiuti dal “de cuius”. Vi è qualche accenno anche alla possibilità di
scorgere un arricchimento degli eredi nei vantaggi che gli stessi possano trarre mentre
il dante causa era ancora in vita (Sezione Giurisdizionale Puglia, Sentenza nr. 9 del
1998), ma si è poi negato valore alle avvenute regalie e liberalità in favore dei
congiunti del responsabile del danno, quali regali di nozze, somme per l’acquisto di
beni mobili, dazione di contanti o apertura di libretti di risparmio con modesti
accreditamenti (Sezione Giurisdizionale Puglia, Sentenza nr. 21 del 1999). Molto
interessante, per i riflessi sugli altri responsabili del nocumento nell’ipotesi di
obbligazione plurisoggettiva, appare il principio in base al quale la quota di danno
imputabile al dipendente deceduto il cui debito non sia trasmissibile agli eredi, come
nel caso ricorrente di rinuncia pura e semplice all’eredità, non può essere richiesta
agli altri condebitori e resta a carico dell’erario; in tale ottica, infatti, risulterebbe
oltremodo iniquo, laddove non si tenesse conto, in astratto, anche del comportamento
illecito del dipendente deceduto, l’accrescimento delle quote addebitabili agli altri
responsabili del pregiudizio con quella parte del danno imputabile direttamente al
primo, per effetto della morte dello stesso e della rinuncia pura e semplice al suo asse
ereditario da parte degli eredi (ex multis Sezione Giurisdizionale Piemonte, Sentenza
nr. 172 del 2006, Sezione Giurisdizionale Lazio, Sentenza nr. 2537 del 2006). Ciò a
meno che non si tratti di corresponsabili in via solidale, nel qual caso la quota del
condebitore deceduto deve essere ripartita fra gli altri, in proporzione al carico di
ciascuno, conformemente alla disciplina civilistica della solidarietà fissata
dall’articolo 1299 del Codice Civile, sia pure in relazione all’ipotesi dell’insolvenza,
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che individua un’unica ed indifferenziata prestazione a carico di tutti gli obbligati (ex
multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 16 del 2007). Pronunce
discordanti sono state emesse dal Giudice contabile in ordine alla trasmissibilità agli
eredi del debito derivante da responsabilità per danno all’immagine
dell’Amministrazione; a fronte di condanna degli eredi al pagamento di somme
all’Ente pubblico per il danno all’immagine recatogli dalla condotta del dante causa
(ex multis Sezione Giurisdizionale Lazio, Sentenza nr. 3087 del 2000), si registrano
Decisioni che ritengono intrasmissibile un debito siffatto perché il danno
all’immagine, pur costituendo una diminuzione suscettibile di valutazione economica
per il patrimonio dell’Amministrazione danneggiata, non si traduce in un
arricchimento per l’autore del fatto dannoso (ex multis II Sezione Giurisdizionale
Centrale, Sentenza nr. 78 del 2001, I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr.
358 del 2008, Sezione Giurisdizionale Lombardia, Sentenza nr. 371 del 2006).
6. Natura della responsabilità
Da un punto di vista storico la giurisdizione di responsabilità amministrativa è nata a
seguito della Legge nr. 5026 del 1869, in un periodo successivo rispetto alle
attribuzioni della Corte dei Conti nei confronti degli agenti contabili, e si è innestata
direttamente su quella esistente di conto, risalente alla Legge nr. 800 del 1862, di cui
ha assunto lo schema processuale e le varie caratteristiche, quali, ad esempio, la
titolarità dell’azione e l’officiosità, via via confermate e precisate dalle diverse Leggi
di contabilità generale dello Stato e dalle Leggi di settore, per poi giungere alla
riforma riassuntiva del 1933-1934 che è rimasta in vigore fino ai giorni nostri.
In un primo tempo, la giurisprudenza aveva ritenuto e costruito la responsabilità
amministrativa come una responsabilità appartenente all’area della responsabilità da
fatto illecito, contraddistinta dalla violazione del principio del “neminem laedere”:
diversamente, dopo l’entrata in vigore della Carta Costituzionale, anche per effetto
del precetto racchiuso nell’articolo 28, si è avuto un mutamento radicale degli
orientamenti giurisprudenziali, che, della complessiva vicenda del pregiudizio
erariale, del suo ripristino e delle correlative responsabilità, hanno colto due aspetti,
quello dell’esistenza di un rapporto di impiego o di servizio tra autore del danno ed
Amministrazione danneggiata e l’altro della inosservanza dei doveri di
comportamento derivanti proprio dal suddetto rapporto; ne è stata, quindi, affermata
la natura contrattuale come responsabilità da inadempimento di un obbligo
precostituito, valevole sia nella ipotesi di danno diretto che in quella di danno
indiretto, in cui il danno sopportato dall’erario discende dal risarcimento operato a
favore del terzo, per un fatto di un proprio dipendente, che grava
sull’Amministrazione la quale ne sopporta l’onere, salvo l’obbligo di esercitare la
rivalsa nei confronti del responsabile. L’approdo al carattere contrattuale della
responsabilità, consacrato in numerose pronunce della Consulta (ex multis Corte
Costituzionale, Sentenza nr. 24 del 1993), non riveste soltanto una valenza sul piano
teorico e dogmatico, ma origina alcune conseguenze concrete in merito
all’applicazione della disciplina di riferimento: è sufficiente osservare, al riguardo,
che dalla suddetta fisionomia contrattuale discende la possibilità di invocare l’articolo
1225 del Codice Civile, a mente del quale se l’inadempimento o il ritardo non
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dipende da dolo del debitore, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi
nel tempo in cui è sorta l’obbligazione. Trattasi di una disposizione in tema di
valutazione del danno che fissa un limite preciso a favore del soggetto non in dolo, la
quale, tuttavia, riguarda la sola responsabilità contrattuale, non essendo il menzionato
articolo 1225 espressamente richiamato dall’articolo 2056 del Codice Civile. Negli
ultimi anni, inoltre, si è consolidato uno specifico indirizzo che, muovendo dal nucleo
di natura contrattuale della responsabilità amministrativa, correlato alla violazione
degli obblighi di servizio, ha esteso la portata del menzionato assunto, propugnando il
principio secondo il quale tale responsabilità consegue a qualsiasi comportamento
antigiuridico (non “iure”) posto in essere, con dolo o colpa grave, da un
amministratore o dipendente pubblico, nell’esercizio delle proprie funzioni, che
cagioni direttamente o indirettamente danno all’Amministrazione di appartenenza o
ad Amministrazioni terze, connotandosi, pertanto, in termini di atipicità (ex multis
Sezione Giurisdizionale Puglia, Sentenza nr. 7 del 2007). In altri termini, e con
maggiore ampiezza esplicativa, secondo la richiamata concezione qualunque condotta
contraria all’ordinamento giuridico può, dunque, essere sussunta nella fattispecie di
responsabilità amministrativa come il fatto causativo del danno ingiusto inferto
all’Ente pubblico; ne discende, quale immediato corollario, che il contenuto della
responsabilità amministrativa non è identificato soltanto dalla violazione degli
obblighi di servizio in quanto tale, violazione che, peraltro, nella maggior parte dei
casi sussiste, ma anche da qualsiasi condotta antigiuridica che abbia determinato un
pregiudizio all’Amministrazione, alla cui entità è commisurato il risarcimento.
7. I due presupposti della giurisdizione nell’ottica del soggetto agente
Con tali premesse di carattere generale, si stima utile evidenziare che il rapporto di
impiego e quello di servizio, da una parte, e la causazione del danno nell’esercizio
delle proprie funzioni, anche nell’ottica del principio di occasionalità necessaria,
dall’altra, costituiscono i due indefettibili presupposti che radicano la giurisdizione
della Corte dei Conti nella visuale del soggetto danneggiante.
Al giudizio della Corte dei Conti per responsabilità amministrativa sono sottoposti, di
regola, i soli dipendenti civili e militari, intranei alla Pubblica Amministrazione,
legati cioè all’Ente pubblico da rapporto organico; in tempi recenti, tuttavia, il
Giudice contabile ha rivendicato la propria giurisdizione anche nei confronti di
soggetti estranei all’Amministrazione, laddove sia rinvenibile un rapporto di servizio,
che si configura quando una persona fisica, o anche giuridica (ad esempio banca
tesoriere di un Ente pubblico), venga inserita a qualsiasi titolo nell’apparato
organizzativo pubblico e venga investita, sia autoritativamente che
convenzionalmente, dello svolgimento in modo continuativo di un’attività retta da
prescrizioni di rilievo pubblicistico, così da essere partecipe dell’azione
amministrativa.
In altre parole, per la verifica della sussistenza del rapporto di servizio, non è
sufficiente addurre l’effettuazione da parte del soggetto privato di attività a vantaggio
o a beneficio dell’Ente pubblico, ma è necessario dimostrare l’inserimento di tale
soggetto, quanto meno funzionale, nell’apparato amministrativo, con affidamento di
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compiti specifici da esercitare per conto della P.A. e con l’osservanza delle regole
proprie di tale struttura.
Al riguardo, appare eloquente la massima contenuta nella Sentenza della Corte di
Cassazione, Sezioni Unite Civili, nr. 4060 del 1993, il cui valore paradigmatico
riecheggia in numerose altre pronunce successive (ex multis Corte di Cassazione,
Sezioni Unite Civili, Sentenza nr. 24002 del 2007, Ordinanza nr. 8409 del 2008),
nella quale si afferma che l’esistenza di una relazione funzionale tra l’autore
dell’illecito causativo di danno patrimoniale e l’Ente pubblico che il danno subisce,
quale presupposto per la formulazione di un addebito di responsabilità amministrativa
riservata alla cognizione della Corte dei Conti, è individuabile non solo quando tra i
due soggetti intercorra un rapporto di impiego in senso proprio e ristretto, ma anche
quando sia comunque individuabile un rapporto di servizio in senso lato, tale cioè da
collocare il soggetto preposto in posizione di compartecipe fattivo dell’attività
amministrativa dell’Ente pubblico preponente; ne discende che, per integrare il
prefato rapporto di servizio, al quale si collega la figura dell’agente della Pubblica
Amministrazione, occorre riscontrare la contestuale sussistenza di due elementi,
identificati dallo svolgimento di attività a favore dell’Amministrazione e
dall’inserimento funzionale del soggetto privato nel modulo procedimentale
amministrativo.
Passando dal piano teorico ed astratto alle fattispecie concrete sottoposte al vaglio
della giurisprudenza, non è superfluo rammentare, a titolo esemplificativo, alcune
figure private che sono state ritenute agenti dell’Amministrazione, in quanto legate
all’Ente pubblico dal rapporto di servizio, con il conseguente assoggettamento alla
giurisdizione della Corte dei Conti per i danni cagionati nell’esercizio della propria
attività: il concessionario di lavori pubblici, il direttore dei lavori, il collaudatore di
opera pubblica, il medico convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale per i fatti
connessi all’attività di certificazione, il farmacista privato limitatamente alla dispensa
di medicinali, le case di cura, le residenze sanitarie assistenziali e gli ambulatori
privati accreditati con il citato Servizio Sanitario Nazionale, il titolare della
ricevitoria del lotto, la società privata che gestisce corsi di formazione professionale
finanziati da Enti pubblici, la società privata che gestisce la delegazione ACI o lo
sportello telematico dell’automobilista, le federazioni sportive, il funzionario
putativo, i componenti di ufficio elettorale, il volontario della Croce Rossa, l’ufficiale
della riscossione, il commissario “ad acta”, il consulente tecnico ausiliario del
Giudice, il curatore fallimentare per citare le ipotesi più ricorrenti nei giudizi di
responsabilità. Al contrario, lo spedizioniere doganale (ex multis Sezione
Giurisdizionale Molise, Sentenza nr. 63 del 2004), il consulente
dell’Amministrazione incaricato di effettuare uno studio o esprimere un parere (ex
multis Sezione Giurisdizionale Lazio, Sentenza nr. 1792 del 2006), l’avvocato del
libero foro (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 171 del 1998)
ed il progettista privato di opera pubblica raffigurano casi di soggetti privati che non
sono stati reputati agenti dell’Ente per carenza del requisito dell’inserimento
funzionale nel modulo procedimentale amministrativo, con il corollario che gli stessi
rispondono per gli eventuali pregiudizi riconducibili allo svolgimento dei loro
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compiti davanti al Giudice ordinario. In dettaglio, relativamente al progettista privato
libero professionista, preme sottolineare che nell’ambito della giurisprudenza della
Corte dei Conti sullo specifico punto, non si registrava in passato un orientamento
uniforme e, non essendosi ancora pronunciata la Suprema Corte regolatrice della
giurisdizione, la soluzione adottata non era univoca, per cui alcune Sezioni Centrali e
Regionali si erano espresse in senso negativo (ex multis Sezione II Centrale, Sentenza
nr. 182 del 1999, Sezione III Centrale, Sentenza nr. 186 del 2001, Sezione
Giurisdizionale Toscana, Sentenza nr. 806 del 1999, Sezione Giurisdizionale Sicilia,
Sentenza nr. 225 del 1999), ed altre, invece, in senso favorevole al riconoscimento
della giurisdizione della Corte dei Conti (ex multis Sezione III Centrale, Sentenza nr.
63 del 2002, Sezione Giurisdizionale Molise, Sentenza nr. 194 del 1999, Sezione
Giurisdizionale Lombardia, Sentenza nr. 436 del 1999). Mentre permaneva tale
situazione di incertezza, agli inizi dell’anno 2003 è intervenuta la nota Ordinanza
delle Sezioni Unite della Cassazione nr. 340, nella quale è stato affermato, in sede di
regolamento preventivo di giurisdizione concernente un giudizio nei confronti di un
professionista privato, che “non è ravvisabile un rapporto di servizio tra la stazione
appaltante ed il progettista di un’opera pubblica, il cui elaborato deve essere fatto
proprio dall’Amministrazione mediante specifica approvazione; il rapporto tra il
progettista (o il calcolatore) e l’Amministrazione conferente è di natura meramente
privatistica e deriva da un contratto d’opera professionale, che non importa
l’inserimento del soggetto nell’organizzazione della stessa Amministrazione”. Cade
opportuno sottolineare che la fattispecie affrontata dalle Sezioni Unite riguardava, in
concreto, un professionista privato che aveva ricoperto, contestualmente, sia il ruolo
di progettista dell’opera che quello di direttore dei lavori, e la conclusione cui è
approdata la Corte di legittimità nella mentovata Ordinanza, è stata quella di
dichiarare la giurisdizione della Corte dei Conti in relazione alla domanda proposta
nei confronti del convenuto quale direttore dei lavori, e la giurisdizione del Giudice
ordinario in relazione alla domanda proposta nei confronti del medesimo soggetto a
titolo di progettista. Per completezza di esposizione, giova evidenziare che la
giurisdizione del Giudice ordinario nei confronti del progettista privato, nel caso in
cui il medesimo abbia svolto anche l’incarico di direttore dei lavori, è stata messa in
discussione dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, le quali, nell’Ordinanza nr.
7446 del 2008, hanno affermato la giurisdizione della Corte dei Conti qualora ricorra
la specifica fattispecie in parola.
Il richiamato indirizzo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione a favore del
Giudice ordinario, inaugurato con la suddetta Ordinanza nr. 340 del 2003 e ribadito
con la successiva pronuncia nr. 5781 del 2004, appare del tutto condivisibile e
persuasivo, in quanto la normativa sugli appalti pubblici di lavori contenuta nella
Legge nr. 109 del 1994 e successive modificazioni, attualmente trasfusa nel Codice
dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture di cui al Decreto Legislativo
nr. 163 del 2006, integrata dalle disposizioni regolamentari di cui al D.P.R. nr. 554
del 1999, prevede l’esame tecnico dei vari livelli di progettazione da parte del
responsabile del procedimento, il quale procede alla verifica del progetto preliminare
ed alla validazione del progetto definitivo. Ne discende che la prestazione del
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progettista privato acquista rilevanza pubblicistica esclusivamente in un momento
successivo alla predisposizione del progetto, momento che coincide con
l’approvazione dei relativi elaborati da parte dell’Amministrazione; sul piano
sostanziale, pertanto, non si instaura alcuna relazione funzionale tra il libero
professionista incaricato dell’attività di progettazione e l’Amministrazione
committente, atteso che il primo svolge la propria attività senza alcun vincolo o
legame, se non quelli aventi natura eminentemente privatistica e scaturenti dal
contratto d’opera professionale (ex multis Sezione Giurisdizionale Piemonte,
Sentenza nr. 197 del 2006).
La sussistenza del rapporto di servizio, con conseguente sottoposizione all’azione di
responsabilità amministrativa, è stata affermata dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione anche nei confronti dei Deputati delle Assemblee Parlamentari; a tal
proposito, merita richiamare la pronuncia della Suprema Corte, nr. 4582 del 2006,
nella quale è stato precisato che il Deputato, nella fattispecie Presidente di una
Commissione della Camera dei Deputati, quando esercita il proprio compito
istituzionale, agisce in funzione di un rapporto di servizio, speciale ed onorario, che
gli assicura le prerogative previste dall’articolo 68 della Costituzione, e non è
perseguibile in assoluto solo se c’è uno stretto legame funzionale tra opinioni
espresse, atti compiuti ed esercizio indipendente delle proprie attribuzioni. Tale
legame, soggiunge la Corte di legittimità, si interrompe evidentemente nell’ipotesi di
comportamenti illeciti, ovvero non attinenti né ad opinioni espresse, né ai voti dati
nell’esercizio delle sue attribuzioni. In merito alla posizione dei componenti delle
Assemblee Parlamentari, cade opportuno sottolineare che la Corte Costituzionale, con
la Sentenza nr. 46 del 2008, si è pronunciata per la piena legittimità delle disposizioni
di natura procedurale contenute nell’articolo 3, commi 3 e seguenti, della Legge nr.
140 del 2003, in relazione all’articolo 68, comma 1, della Carta, anche nell’ambito
del giudizio di responsabilità amministrativa, qualora nel corso dello stesso sia
rilevata o eccepita l’applicabilità della suddetta norma sostanziale contemplata dal
menzionato articolo 68 della Costituzione. La questione inerente all’immunità era
stata affrontata in precedenza con riferimento ai Consiglieri Regionali; a seguito di
una citazione emessa dal Procuratore contabile nei confronti del Presidente di un
Consiglio Regionale e dei componenti dell’Ufficio di Presidenza che avevano
approvato talune deliberazioni di spesa, fonti di danno, la Regione interessata aveva
sollevato conflitto di attribuzione. La Corte Costituzionale, nella Sentenza nr. 392 del
1999, ha deciso che l’adozione delle predette deliberazioni è coperta da immunità, la
quale non è limitata alle sole funzioni legislative, regolamentari, di indirizzo politico,
di controllo e di autorganizzazione, ma riguarda anche quelle di amministrazione
attiva che siano, ed in quanto siano, preordinate al corretto esercizio delle altre; per
tutte le rimanenti attività, che non abbiano attinenza con le funzioni legislative e
politiche, è pienamente configurabile la responsabilità amministrativa nei confronti
dei Consiglieri Regionali.
In ordine alla giurisdizione della Corte dei Conti sul piano del soggetto agente, giova
rammentare che, alla luce dell’orientamento consolidato della giurisprudenza (ex
multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 144 del 2007), non sussiste la
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competenza del Giudice contabile a giudicare della responsabilità amministrativa dei
Magistrati per il danno erariale conseguente all’esercizio di attività di natura
giurisdizionale o, comunque, strumentale ad essa, tenendo conto, tuttavia, che si
rilevano nella pratica interferenze funzionali per cui il Magistrato può essere
chiamato a svolgere mansioni di tipo amministrativo, a fronte delle quali può
incorrere anche nella predetta responsabilità amministrativa.
Volendo ulteriormente indugiare sul versante del rapporto di servizio, merita
focalizzare l’attenzione sulla circostanza che con la Legge nr. 20 del 1994 è stata
ammessa, per la prima volta sul piano legislativo, la possibilità che soggetti legati ad
una Amministrazione pubblica vengano chiamati a rispondere davanti al Giudice
contabile del danno cagionato ad Amministrazioni o Enti pubblici diversi da quelli di
appartenenza, mentre in precedenza dovevano essere citati davanti al Giudice
ordinario; è stata sancita, in definitiva, a seguito dell’introduzione della disposizione
di cui all’articolo 1, comma 4, della suddetta Legge, la giurisdizione della Corte dei
Conti anche in ordine alla responsabilità extracontrattuale degli agenti pubblici,
definita responsabilità obliqua, purché il danno sia stato arrecato ad Amministrazioni
o Enti pubblici, venendo, quindi, in rilievo, quale elemento discretivo, la qualità del
soggetto passivo, e, pertanto, la natura pubblica delle risorse di cui esso si avvale,
atteso che il legislatore del 1994 ha inteso tutelare più incisivamente il patrimonio di
Amministrazioni ed Enti pubblici, diversi da quelli cui appartiene il soggetto
responsabile del pregiudizio, con l’attribuzione della relativa giurisdizione alla
suddetta Corte, presso la quale è istituito l’Ufficio del Procuratore Regionale. Al
riguardo, preme evidenziare che le Sezioni Riunite della Corte dei Conti, con la
Sentenza nr. 2/QM/2001, hanno affermato che l’espressione “fatti commessi
successivamente alla data di entrata in vigore della presente Legge”, esplicitata dal
suddetto articolo 1, comma 4, della Legge nr. 20 del 1994, deve essere intesa come
riferita al “fatto comportamento”, cioè alla condotta omissiva o commissiva da cui sia
derivato il danno, e non già al “fatto dannoso”, comprensivo anche dell’evento
antigiuridico; tale assunto è stato giustificato con il richiamo alla diversa terminologia
rilevabile tra il testo della disposizione di cui all’articolo 1, comma 2, della Legge in
rassegna, nella quale, a proposito della decorrenza del termine di prescrizione per
l’esercizio dell’azione di responsabilità, si dispone che “il diritto al risarcimento del
danno si prescrive in ogni caso in cinque anni decorrenti dalla data in cui si è
verificato il fatto dannoso”, ed il testo contenuto nel menzionato articolo 1, comma 4,
dove invece, relativamente alla giurisdizione della Corte dei Conti nei confronti di
amministratori e dipendenti pubblici per i danni cagionati ad Amministrazioni o Enti
pubblici diversi da quelli di appartenenza, si parla di fatti commessi senza alcuna
ulteriore specificazione. Siffatta impostazione è stata superata, tuttavia, dalle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione, che, con la pronuncia nr. 14297 del 2007, hanno
chiarito che la responsabilità civile e la responsabilità amministrativa, a differenza
della responsabilità penale, si connotano per l’imputazione del danno, piuttosto che
del fatto dal quale il nocumento deriva. Secondo l’avviso della Corte di legittimità il
fatto illecito è costituito da tre elementi essenziali, rappresentati dalla condotta, dal
nesso causale e dall’evento lesivo; il danno oggetto dell’obbligazione risarcitoria è
21
esclusivamente il pregiudizio che appare conseguenza del fatto lesivo, con il
precipitato che, finché non sussiste l’evento lesivo, il fatto non si è ancora
perfezionato e, quindi, non può essere derivato alcun danno. Ne discende che la
questione inerente all’interpretazione della locuzione “fatti commessi
successivamente alla data di entrata in vigore della presente Legge”, formalizzata dal
predetto articolo 1, comma 4, deve essere risolta privilegiando l’orientamento che
postula il verificarsi dell’evento lesivo, individuando l’elemento discretivo nel
concetto di fatto dannoso ed ancorando, sotto il profilo temporale, l’applicabilità della
cennata disposizione al momento in cui si è concretizzato il nocumento.
La vasta latitudine del citato articolo 103 della Costituzione, secondo una parte della
dottrina e della giurisprudenza, giustificherebbe l’estensione della giurisdizione
contabile non solo alle ipotesi, del tutto pacifiche, di danno patrimoniale alle
pubbliche finanze nascenti nell’ambito del rapporto di servizio, in quanto collegate
alla violazione di obblighi di servizio, ma anche a tutte le altre fattispecie di
nocumento patrimoniale sopportato dall’erario e connesse ad ogni tipo di relazione
inerente al maneggio o all’utilizzo di pubblico denaro, da parte di soggetti privati,
indipendentemente dalla sussistenza del rapporto di servizio (Corte dei Conti, I
Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 125 del 2006, Sezione Giurisdizionale
Molise, Sentenza nr. 234 del 2002, Sezione Giurisdizionale Abruzzo, Sentenze nr.
735 del 2003 e nr. 32 del 2007).
Siffatta peculiare ed innovativa concezione, la quale postula, a prescindere dal
rapporto di servizio, ed in relazione a tutte le materie di contabilità pubblica
richiamate dal suddetto articolo 103, comma 2, della Costituzione, l’esistenza di un
tipo di responsabilità finanziaria, che si aggiunge a quella amministrativa tipica dei
dipendenti pubblici, a carico dei soggetti privati destinatari di sovvenzioni e
contributi pubblici, quale danno alle pubbliche finanze nascente dalla violazione degli
obblighi afferenti alla finalizzazione delle risorse pubbliche, appare suffragata dalla
recente Sentenza delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte nr. 4511 del 2006.
Nella suddetta pronuncia, incentrata su una fattispecie relativa a società privata che
aveva ottenuto un finanziamento pubblico per la realizzazione di un impianto per
l’innevamento programmato, la Corte di legittimità, prendendo le mosse dal
progressivo operare dell’Amministrazione tramite soggetti non organicamente inseriti
nella stessa, e del sempre più frequente operare di questa al di fuori degli schemi
tipici della contabilità di Stato, afferma che, ai fini del riconoscimento della
giurisdizione della Corte dei Conti, si appalesa del tutto irrilevante il titolo in base al
quale la gestione del pubblico denaro è svolta, potendo consistere in un rapporto di
pubblico impiego o di servizio, ma anche in una concessione amministrativa od in un
contratto privato; la Suprema Corte soggiunge che ormai il baricentro per
discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile si è spostato dalla qualità
del soggetto alla natura del danno e degli scopi perseguiti, cosicché ove il privato, per
sue scelte, incida negativamente sul modo d’essere del programma imposto dalla
Pubblica Amministrazione, alla cui realizzazione egli è chiamato a partecipare con
l’atto di concessione del contributo, e l’incidenza sia tale da poter determinare uno
sviamento dalle finalità perseguite, egli realizza un danno per l’Ente pubblico di cui
22
deve rispondere dinanzi al Giudice contabile, anche sotto il mero profilo di sottrarre
ad altre imprese il finanziamento che avrebbe potuto portare alla realizzazione del
piano così come concretizzato ed approvato dall’Ente pubblico con il concorso dello
stesso imprenditore. Nel contesto della menzionata responsabilità patrimoniale per
danno alle pubbliche finanze, assume un particolare rilievo la finalizzazione delle
risorse pubbliche assentite a favore del privato, e ciò in quanto proprio in relazione al
vincolo di scopo dei fondi pubblici, che solitamente è previsto o si ricava dalla Legge
istitutiva di un contributo, o di un finanziamento, o di un sussidio, vanno identificati
gli obblighi complessivi violando i quali il soggetto beneficiario delle somme
pubbliche può incorrere nel tipo di responsabilità sopra lumeggiata; in tal senso,
alcuni autori sostengono che il danno alle pubbliche finanze integra una sorta di
“eccesso di potere finanziario”, inteso come sviamento dell’impiego delle pubbliche
risorse dal fine tipico e dall’interesse generale fissato dalla Legge nel caso di specie.
D’altra parte, la nozione di contabilità pubblica cui si riferisce il prefato articolo 103
della Costituzione, come è stato autorevolmente affermato in diverse Sentenze
(attinenti a fattispecie diverse dalla responsabilità) sia della Consulta che della Corte
di Cassazione, non è statica e fissa nel tempo, ma tende a seguire l’evoluzione della
finanza pubblica e possiede una vocazione atta a comprendere tutti i rapporti relativi
al pubblico denaro.
Cade opportuno sottolineare, in tale prospettiva, che il superamento del requisito
afferente al rapporto di servizio riguarda esclusivamente quelle figure private a
beneficio delle quali vi è stata traslazione di risorse pubbliche, sotto forma di
sovvenzioni, contributi e finanziamenti concessi a vario titolo, con conseguente
maneggio e gestione dei predetti fondi rivenienti dall’erario, mentre in tutte le altre
ipotesi è comunque necessario dimostrare la sussistenza del menzionato legame
funzionale tra privato ed Ente pubblico, che costituisce uno dei due presupposti
indefettibili per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa dinanzi alla
Corte dei Conti, come illustrato approfonditamente in precedenza.
Relativamente al secondo presupposto necessario per radicare la giurisdizione della
Corte dei conti, con riferimento al canone inerente all’occasionalità necessaria, si
fronteggiano due essenziali indirizzi interpretativi: alla luce di una prima, prevalente
tesi (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 360 del 2007), la
giurisdizione in parola sussiste a fronte di danni cagionati da propri dipendenti, o da
soggetti legati da rapporto di servizio, anche al di fuori dell’esercizio delle normali
mansioni, purchè il fatto causativo del danno, non rispondente a fini istituzionali o
addirittura commesso abusando dei propri poteri o deviando dai propri doveri, trovi
nell’espletamento del servizio l’occasione necessaria, nel senso che lo svolgimento
delle attribuzioni afferenti all’incarico prestato abbia costituito “condicio sine qua
non” del fatto illecito produttivo del danno, quanto meno per averne grandemente
agevolato, ma pur sempre in maniera decisiva, la realizzazione; in altre parole, la
responsabilità del dipendente dinanzi alla Corte dei Conti, eventualmente connessa,
nel caso di danno indiretto, alla responsabilità civile dell’Amministrazione di
appartenenza nei confronti del terzo, può essere esclusa solo quando l’agente
pubblico agisca quale semplice privato per un fine strettamente personale, ed in
23
siffatto comportamento non sia ravvisabile alcun elemento proprio del fine
istituzionale dell’ufficio nel quale il soggetto è inquadrato, tenendo conto, inoltre, che
il dolo dell’agente nel compiere il fatto dannoso non determina, di per sé, la
mancanza del rapporto di occasionalità necessaria (ex multis Corte di Cassazione, III
Sezione, Sentenza nr. 12960 del 1991, I Sezione, Sentenza nr. 12786 del 1995, III
Sezione, Sentenza nr. 9984 del 1996). Secondo un orientamento del tutto minoritario,
ormai affidato ad alcune isolate Decisioni, invece, il danno erariale da cui sorge la
giurisdizione contabile è solo quello posto in essere dal dipendente che agisce quale
organo dell’Amministrazione. Prestando adesione a tale restrittiva concezione, in
caso di danno erariale cagionato da un pubblico dipendente travalicando i propri
compiti istituzionali, l’Ente danneggiato non potrebbe denunciare il fatto alla Corte
dei Conti, priva di giurisdizione, ma dovrebbe promuovere un giudizio risarcitorio
dinanzi al Giudice ordinario o costituirsi parte civile nel giudizio penale
eventualmente instaurato.
8. Gli elementi strutturali dell’illecito
Analizzati i due presupposti dell’azione di responsabilità amministrativa, occorre
procedere alla disamina degli elementi strutturali dell’illecito amministrativo,
costituiti dalla condotta, dal danno erariale, dal nesso causale e dall’elemento
psicologico.
Per quanto concerne la prima componente, deve essere sottolineata la circostanza che
la responsabilità amministrativa scaturisce da condotte illecite degli agenti pubblici e
non necessariamente da atti illegittimi posti in essere dagli stessi; ciò che assume
rilevanza, in siffatta prospettiva, è la violazione dei doveri di ufficio e
l’inadempimento di obblighi di gestione, da cui sia derivato un pregiudizio
patrimoniale a carico dell’Amministrazione.
La mera illegittimità dell’atto, per i danni correlati ad attività provvedimentale, non
rileva in quanto tale innanzi alla Corte dei Conti, ma rappresenta un semplice indice
sintomatico dell’illiceità della condotta dannosa. Merita richiamare, sullo specifico
punto, il principio espresso recentemente dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite
Civili, nella Sentenza nr. 21291 del 2005, secondo il quale l’illegittimità dell’atto
amministrativo, nel giudizio per danno erariale, costituisce uno degli elementi della
più complessa fattispecie di responsabilità, le quante volte il danno patrimoniale sia
stato cagionato con l’adozione di misure provvedimentali; di tale illegittimità, quindi,
il Giudice contabile conosce ai soli fini del giudizio per danno erariale, onde valutare,
unitamente agli altri elementi della fattispecie, la sussistenza della responsabilità
dell’agente, non certo ai fini dell’annullamento dell’atto, riservato ai poteri
dell’Amministrazione o del Giudice amministrativo. Di conseguenza, resta priva di
diretta rilevanza nel giudizio contabile persino la circostanza che l’atto sia stato
ritenuto legittimo in sede di controllo, o anche dallo stesso Giudice amministrativo,
non trattandosi neppure di un’ipotesi di disapplicazione dell’atto in senso stretto o
tecnico, ma di verifica di un elemento della fattispecie oggetto di cognizione, non in
via incidentale ma principale.
9. L’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali
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In tale ottica, cade opportuno rammentare anche i canoni che si sono affermati in
giurisprudenza relativamente alla possibilità, da parte del Giudice contabile, di
sindacare le valutazioni e le decisioni connotate dalla presenza di discrezionalità
amministrativa, considerando che la norma contenuta nell’articolo 1, comma 1, primo
periodo, della Legge nr. 20 del 1994, stabilisce che “la responsabilità dei soggetti
sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica è
personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo e colpa grave, ferma
restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”.
La disposizione in parola, per quanto chiarito dalla Corte di Cassazione (in tal senso:
Sezioni Unite Civili, Sentenze nr. 33 del 2001, nr. 6851 e nr. 14488 del 2003, nr.
1378 e nr. 7024 del 2006, nr. 8097 del 2007) non priva la Corte dei Conti della
possibilità di controllare la conformità dell’attività amministrativa alla Legge; in altri
termini, e con maggiore ampiezza esplicativa, l’attività discrezionale della Pubblica
Amministrazione, anche quella che presenta caratteri di maggiore estensione, è
sempre soggetta al rigoroso rispetto dei limiti interni dell’azione amministrativa,
intimamente connessi alla natura della funzione esercitata e rappresentati
dall’interesse pubblico, dalla causa del potere invocato e dai precetti di logica ed
imparzialità, e dei limiti esterni correlati al canone del buon andamento fissato
dall’articolo 97 della Costituzione, il quale costituisce un presidio immanente a tutela
e garanzia del principio della legalità sostanziale e risulta ulteriormente specificato,
dopo l’entrata in vigore della Legge nr. 241 del 1990, dai criteri di efficacia ed
economicità dell’azione amministrativa, con particolare riferimento a quest’ultimo
requisito che postula, come propugnato dalla Corte di legittimità, la sussistenza di un
ragionevole rapporto tra costi e benefici. In definitiva, la Cassazione ha stabilito che
le scelte discrezionali risultano subordinate non soltanto alla necessaria verifica del
collegamento teleologico con le finalità istituzionali dell’Ente pubblico, ma anche al
riscontro circa la proporzione tra i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti, sul
rilievo che, essendo ormai assunti tra i requisiti normativi che regolano l’attività
amministrativa anche i prefati criteri di efficacia ed economicità, deve ritenersi che
rientri tra i poteri della Corte dei Conti, nell’ambito del giudizio di responsabilità,
anche quello di appurare la sussistenza di un ragionevole rapporto tra costi e benefici,
dal momento che anche tale verifica è fondata su valutazioni di legittimità e non di
mera opportunità.
Nelle richiamate pronunce, tuttavia, la Suprema Corte individua un limite invalicabile
per il Giudice contabile, laddove statuisce che la Corte dei Conti, rispetto agli atti
discrezionali, può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i
fini pubblici dell’Ente, anche nell’ottica del principio dell’economicità, ma, una volta
accertata tale compatibilità, l’articolazione concreta e minuta dell’iniziativa intrapresa
dall’Amministrazione rientra nell’ambito delle scelte delle quali il legislatore ha
sancito l’insindacabilità, sempre che esse non manifestino un’assoluta ed
incontrovertibile estraneità rispetto ai fini dell’Ente, configurandosi, cioè, come
palesemente irrazionali; ciò che risulta sottratto al sindacato del Giudice contabile, in
definitiva, è il merito dell’attività amministrativa, che attiene alla scelta, alla stregua
di criteri di opportunità e, quindi, di parametri non giuridici, delle modalità di azione
25
dell’Amministrazione in vista della realizzazione degli interessi affidati dalla Legge
alle sue cure. Del resto, la posizione della Cassazione avalla quell’orientamento
emerso nella giurisprudenza della Corte dei Conti (ex multis I Sezione
Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 346 del 2008, Sezione Giurisdizionale
Abruzzo, Sentenza nr. 67 del 2005, Sezione Giurisdizionale Marche, Sentenza nr.
886 del 2004, Sezione Giurisdizionale Veneto, Sentenza nr. 938 del 2004) secondo il
quale il limite della insindacabilità non sussiste, e dunque non può essere invocato dal
presunto responsabile del danno, allorché le scelte discrezionali, da cui sia derivato il
nocumento patrimoniale, siano contrarie alla Legge o si rivelino gravemente
illogiche, arbitrarie, irrazionali o contraddittorie, atteso che la predetta insindacabilità
concerne la valutazione delle scelte tra più comportamenti legittimi attuati per il
soddisfacimento dell’interesse pubblico perseguito e non ricomprende, al contrario, le
scelte funzionalmente deviate rispetto al superiore e fondamentale principio del buon
andamento. Sulla specifica tematica, non è trascurabile rammentare che anche il
Giudice amministrativo ravvisa la possibilità di sindacare le scelte discrezionali ove
queste presentino palesi errori di fatto, aspetti di manifesta irrazionalità ovvero
evidenti contraddizioni logiche, oltre che nell’ipotesi del contrasto con le norme di
Legge (ex multis Consiglio di Stato, Sezione IV, Decisione nr. 4409 del 2003,
Sezione V, Decisione nr. 345 del 2000).
10. Condotta e parziarietà dell’obbligazione risarcitoria
La condotta dannosa che origina la responsabilità amministrativa può essere, al pari
di altre forme di responsabilità disciplinate dall’ordinamento, attiva od omissiva,
unipersonale o pluripersonale; per quanto riguarda i comportamenti omissivi da cui
scaturisce il pregiudizio erariale, giova evidenziare che viene costantemente invocato,
nella giurisprudenza della Corte dei Conti, il canone cristallizzato nell’articolo 40,
comma 2, del Codice Penale, in funzione del quale non impedire un evento, che si ha
l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. La posizione di garanzia, in
forza della quale il soggetto che ne è titolare deve attivarsi sollecitamente per
impedire un evento pregiudizievole, ai sensi del suddetto articolo 40, comma 2, del
Codice Penale, è riferibile, sotto il profilo funzionale, a due distinte categorie: la
posizione di garanzia cosiddetta di protezione, che impone di preservare il bene
protetto da tutti i rischi che possano minacciarne l’integrità, e quella cosiddetta di
controllo, la quale impone di neutralizzare le attività che determinano la lesione del
bene protetto generando il nocumento. Nel caso di un concorso di persone nella
causazione del danno, attualmente ciascuno risponde per la parte che vi ha preso,
tenuto conto delle attribuzioni e dei doveri del suo ufficio, tranne che dimostri di aver
agito per ordine superiore che era obbligato ad eseguire, ai sensi dell’articolo 82 del
R.D. nr. 2440 del 1923; nell’obbligazione risarcitoria plurisoggettiva, quindi,
l’intensità dell’elemento soggettivo e l’apporto causale di ciascuno dei coobbligati
alla produzione dell’evento dannoso rappresentano sicuri parametri di riferimento,
idonei a determinare la misura dell’addebito da porre a carico di ciascuno dei
responsabili.
In definiva, è stato definitivamente superato, per effetto della Legge nr. 639 del 1996,
il principio della solidarietà passiva mutuato dall’articolo 1294 del Codice Civile,
26
canone questo che la giurisprudenza prevalente della Corte dei Conti, pur in presenza
della norma contenuta nel citato articolo 82, aveva sempre invocato ed applicato,
ritenendo che la disposizione in parola del R.D. nr. 2440 del 1923 non escludesse la
solidarietà passiva di conio civilistico, ma imponesse esclusivamente, sul lato interno
inerente ai rapporti tra i coobbligati, l’individuazione delle singole responsabilità
secondo i rispettivi carichi legati al grado ed alle caratteristiche dell’apporto causale e
soggettivo ai fini dell’imputazione dei rispettivi addebiti, fermo restando che, sul
piano esterno, l’Ente danneggiato avrebbe potuto richiedere il risarcimento per intero
nei confronti di uno dei corresponsabili, il quale, una volta soddisfatta l’obbligazione
risarcitoria, avrebbe dovuto esercitare l’azione di regresso verso gli altri, secondo le
quote di danno specificate dalla Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti nella
Sentenza di condanna.
Il comma 1 quater dell’articolo 1 della Legge nr. 20 del 1994, come modificato dalla
mentovata Legge nr. 639 del 1996, stabilisce che “se il fatto dannoso è causato da più
persone, la Corte dei Conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per
la parte che vi ha preso”; il successivo comma 1 quinquies prevede che “nel caso di
cui al comma 1 quater i soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito
arricchimento o abbiano agito con dolo sono responsabili solidalmente”.
Al riguardo, preme sottolineare che la prevalente giurisprudenza della Corte dei Conti
(ex multis Sezione Giurisdizionale Emilia Romagna, Sentenza nr. 998 del 2007)
afferma, richiamando il principio propugnato costantemente dalla Corte di legittimità
(ex multis Corte di Cassazione nr. 7507 del 2001 e nr. 3812 del 2004), che in caso di
accertata responsabilità dolosa dei convenuti, seppure con condotte indipendenti, gli
stessi devono essere condannati al risarcimento del danno in via solidale, potendosi
fare applicazione della disposizione inerente alle obbligazioni da fatto illecito di cui
all’articolo 2055 del Codice Civile, atteso che il condebito risarcitorio non sorge in
ragione di una comunione di interessi o di una cooperazione effettiva, come nelle
obbligazioni da fatto lecito, ma i soggetti danneggianti possono concorrere alla
produzione del nocumento con condotte tra loro autonome ed anche del tutto
inconsapevolmente l’uno dagli altri; sufficiente a giustificare la solidarietà passiva
dell’obbligazione risulta essere, in tal senso, l’unicità del danno cagionato, anche a
causa di comportamenti plurimi ed indipendenti, con pluralità di titoli di
responsabilità e di norme giuridiche violate, mentre ciò che unicamente rileva è la
circostanza che le singole azioni od omissioni siano tutte causalmente efficienti,
anche se non coeve e pur se in misura diversa. Giova evidenziare, peraltro, il
consolidato orientamento (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr.
283 del 2008) secondo cui il Giudice contabile ha l’obbligo, nel decidere sulla
responsabilità dei soggetti convenuti in giudizio, di tenere conto degli eventuali
concorsi causali, nella produzione dell’evento dannoso, di altri soggetti, pur se non
direttamente evocati per mancanza di colpa grave o per prescrizione, a tal fine
provvedendo alla eventuale riduzione dell’addebito in favore delle parti in causa, nei
limiti delle quote corrispondenti all’effettiva rilevanza causale della loro condotta
singolarmente considerata.
27
La giurisprudenza della Corte dei Conti ha chiarito, inoltre, come devono essere
risolte, sotto il profilo correlato al soddisfacimento dell’obbligazione risarcitoria in
sede esecutiva, quelle fattispecie plurisoggettive in cui taluni compartecipi abbiano
agito con dolo mentre altri con colpa grave, individuando, laddove sussista siffatto
concorso, una obbligazione principale a carico dei primi ed una obbligazione
sussidiaria nei confronti dei secondi, con la precisazione che coloro che hanno agito
con colpa grave possono essere chiamati a rispondere soltanto fino a concorrenza
della somma, correlata alla quota del danno determinata in Sentenza, per cui sono
stati condannati e possono invocare, in caso di violazione del predetto meccanismo, il
“beneficium excussionis”.
Alla relazione, esistente tra obbligazione principale e obbligazione sussidiaria, è
strettamente e connaturalmente connesso l’obbligo per l’Amministrazione creditrice
di seguire un ordine di escussione determinato, che costituisce attuazione reciproca e
complementare del rafforzamento del vincolo obbligatorio a carico dell’obbligato
principale ed attenuazione di quello gravante sul debitore sussidiario; la pronuncia di
condanna, pertanto, deve essere eseguita prima nei confronti del debitore principale e,
poi, nei confronti del debitore sussidiario nei limiti dell’importo al cui pagamento
quest’ultimo è stato condannato, ma solo subordinatamente al tentativo, non portato a
buon fine dall’Amministrazione danneggiata, di realizzare il proprio credito (Sezioni
Riunite della Corte dei Conti, Sentenza nr. 4/QM/1999).
Le recenti innovazioni legislative hanno, quindi, enfatizzato il carattere personale
della complessiva disciplina della responsabilità amministrativa e contabile attribuita
alla cognizione della Corte dei Conti, introducendo in materia la regola ormai
generale della parziarietà dell’obbligazione nascente da danno erariale e prevedendo
soltanto in via residuale, eccezionale, il carattere solidale di tale obbligazione ogni
qual volta l’autore abbia conseguito, nel produrre il danno erariale, un illecito
arricchimento ovvero abbia comunque agito con dolo.
In tale prospettiva, con riferimento all’eventuale concorso di persone
nell’obbligazione risarcitoria, merita evidenziare che la recente Legge nr. 15 del 2005
ha modificato la lettera e) dell’articolo 6 della Legge nr. 241 del 1990; in dettaglio, la
novella ha previsto che nell’ipotesi in cui ricorra la scissione tra il soggetto che adotta
il provvedimento finale e quello che cura l’istruttoria, l’organo competente per
l’emanazione dell’atto finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può
discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta da quest’ultimo se non
indicandone la motivazione nel provvedimento finale. Premesso che ogni fattispecie
di responsabilità amministrativa deve essere vagliata in base agli elementi ed alle
circostanze del caso concreto, si può ragionevolmente ritenere che la responsabilità,
da considerarsi pressoché certa, del dipendente titolare dell’istruttoria per gli
eventuali danni derivanti dal procedimento, non esclude, di per sé, in presenza di
determinati presupposti, una concorrente responsabilità anche del soggetto
competente all’adozione del provvedimento finale, per omesso controllo ed
inadeguata vigilanza sull’attività posta in essere dal responsabile dell’istruttoria, sul
rilievo che la revisione inerente agli aspetti essenziali dell’istruttoria costituisce pur
sempre una delle funzioni istituzionali inderogabili assegnate alla figura che,
28
nell’ambito dell’organizzazione amministrativa, è chiamata ad emanare l’atto finale
del procedimento che assume rilevanza esterna.
Sempre rimanendo in tema di rapporti tra più dipendenti preposti allo svolgimento di
una determinata attività amministrativa, preme rammentare che, ai sensi del
combinato disposto dell’articolo 82 del R.D. nr. 2440 del 1923 e dell’articolo 18 del
D.P.R. nr. 3 del 1957, se l’impiegato ha agito per un ordine che era obbligato ad
eseguire va esente da responsabilità, salva la responsabilità del superiore che ha
impartito l’ordine; l’impiegato, invece, è responsabile se ha agito per delega del
superiore, sussistendo la possibilità, tuttavia, di imputare una quota del nocumento,
ricorrendone i presupposti, anche al soggetto delegante a titolo di concorso, per
omesso controllo o carente vigilanza sull’attività del proprio collaboratore.
Cade opportuno evidenziare, inoltre, che l’articolo 1, comma 1 ter, della Legge nr. 20
del 1994, prevede che “nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità
si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole”, con il
corollario che i soggetti i quali in sede di votazione decidono di astenersi non
possono essere chiamati a rispondere con l’azione di responsabilità amministrativa. In
ordine alla tematica afferente agli atti collegiali, la giurisprudenza ha chiarito che
l’aspetto unitario della deliberazione si riverbera esclusivamente verso l’esterno,
mentre nella sua struttura interna è il risultato del concorso di una pluralità di atti,
identificati dal voto relativo ai singoli componenti, collegati nell’ambito di un
procedimento amministrativo, provenienti da soggetti diversi, posti anche su piani
differenziati e nell’esercizio di funzioni diverse; e, pertanto, pur fondendosi in una
volontà comune verso l’esterno, ognuno di questi mantiene la sua autonoma rilevanza
anche ai fini delle responsabilità individuali, tra cui quella gestoria rimessa alla
giurisdizione del Giudice contabile (ex multis Sezioni Riunite della Corte dei Conti,
Sentenza nr. 15/1999/QM). Da tale assunto discende la conseguenza che, anche nelle
ipotesi di deliberazioni degli organi collegiali, sarà applicabile il principio della
parziarietà dell’obbligazione risarcitoria, tranne che per i componenti che abbiano
conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo; sul versante della
ripartizione dell’addebito, infine, occorre sottolineare che la quota da imputare a
ciascuno dei componenti dell’organo collegiale non deve essere necessariamente
paritetica, ma potrebbe configurarsi in modo diversificato in funzione delle rispettive
attribuzioni e della qualificazione personale dei vari concorrenti con riferimento alla
materia oggetto dell’atto.
11. Il danno in generale e particolari fattispecie di nocumento
Passando all’elemento del danno, che unitamente alla condotta integra il cosiddetto
fatto dannoso, occorre precisare che il pregiudizio arrecato al patrimonio dell’Ente
pubblico rappresenta un elemento indefettibile della fattispecie di responsabilità
amministrativa, essendo state abrogate, a partire dalla Legge nr. 142 del 1990, tutte
quelle ipotesi di responsabilità formale che prescindevano dal verificarsi di un danno
risarcibile, previste a carico dei dipendenti degli Enti locali dal citato T.U. della
Legge comunale e provinciale del 1934.
Il danno consiste, secondo una definizione pacificamente accolta dalla prevalente
dottrina, in un depauperamento del patrimonio che l’erario abbia sofferto a motivo
29
della condotta illecita del pubblico agente; il concetto di danno è stato ampliato dalla
giurisprudenza della Corte dei Conti, fino a ricomprendervi alcune tipologie di
interessi di carattere non strettamente patrimoniale, sebbene suscettibili di
valutazione economica, quali il danno all’immagine dell’Ente pubblico ed il danno da
disservizio.
In particolare, si stima utile analizzare la tematica del danno all’immagine dell’Ente
pubblico, considerato che tale forma di nocumento risarcibile ricorre sempre più
frequentemente nei giudizi di responsabilità amministrativa, accanto al danno
patrimoniale in senso stretto, e spesso l’importo del primo risulta decisamente
superiore all’ammontare del secondo; in base ai più recenti indirizzi della
giurisprudenza contabile, il concretizzarsi di tale pregiudizio, il quale può essere
contestato al responsabile anche indipendentemente dalla sussistenza del danno
patrimoniale, è legato alla lesione di quegli interessi “apatrimoniali” correlati alla
funzione pubblica esercitata e che traggono la loro tutela ed il loro immanente
presidio nell’articolo 97 della Costituzione, in diretta connessione con l’articolo 2
della citata fonte primaria. Da questo punto di vista, anzi, ben può affermarsi che la
specificazione del generale dovere che tutti i cittadini hanno di essere “fedeli alla
Repubblica e di osservarne le Leggi” in quello proprio, dei soli dipendenti pubblici,
di “adempiere le pubbliche funzioni con disciplina ed onore”, ex articolo 54 della
Costituzione, in larga parte è teleologicamente orientata alla tutela dell’immagine e
del prestigio della Pubblica Amministrazione.
Secondo la nota Sentenza delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti nr.
10/QM/2003, il citato danno all’immagine si presenta quale danno evento, il quale si
sostanzia non già in una “deminutio patrimonii” bensì nella violazione di diritti
costituzionalmente garantiti intestati all’Amministrazione nel suo complesso, ed ha
natura di danno esistenziale, riconducibile, alla luce dei più recenti indirizzi della
Corte di legittimità e della Consulta (Cassazione, III Sezione Civile, Sentenze nnrr.
8827 e 8828 del 2003, Corte Costituzionale, Sentenza nr. 233 del 2003), nell’alveo
del danno non patrimoniale ex articolo 2059 del Codice Civile, che inibisce il poteredovere dell’Ente pubblico di adoperarsi, nei modi e nelle procedure previsti dalla
Legge, per assumere la veste e la sostanza di una struttura sana, trasparente,
efficiente, corretta e rispettosa delle missioni di cui è attributaria.
Definizione che appare, peraltro, attualmente confermata da espressi canoni
normativi, ed ulteriormente valorizzata dall’obbligo per le Pubbliche
Amministrazioni, fissato dal legislatore con la Legge nr. 150 del 2000 sulla cd.
comunicazione istituzionale, di impegnarsi affinché il valore di un’Amministrazione
che presenti tutti i caratteri in precedenza illustrati si riverberi effettivamente
all’esterno, al fine di rappresentare un’immagine positiva e specchiata dell’Ente
pubblico nei confronti della collettività.
Ciò che costituisce un dovere per l’Amministrazione, nel senso di definire una
propria corretta immagine istituzionale, non può che configurare, di riflesso, un
diritto del quale non può non garantirsi l’integrità, o in altri termini un interesse ad
essa appartenente economicamente valutabile, protetto dall’ordinamento ai sensi del
prefato articolo 2 della Costituzione (ex multis Cassazione, I Sezione Civile,
30
Sentenze nr. 7642 del 1991 e nr. 12951 del 1992, III Sezione Civile, Sentenze nr.
2367 del 2000 e nr. 12929 del 2007, Consiglio di Stato, Sezione V, Decisione nr. 491
del 2008) e dell’articolo 10 del Codice Civile, disposizione ritenuta applicabile anche
alle persone giuridiche, e, dunque, meritevole di tutela, anche di tipo patrimoniale. E
quando sia accertato che la lesione di siffatto interesse, la quale deve essere connotata
da una significativa gravità dell’offesa, è stata perpetrata, dalla sponda interna, da un
soggetto legato all’Amministrazione da un rapporto d’impiego o di servizio, lo
schema applicabile rimane quello della responsabilità erariale avanti alla Corte dei
Conti, notoriamente connotato da piena autonomia rispetto al giudizio penale e civile;
la collocazione del danno all’immagine come sopra definito, rimane, quindi, interna
alla sfera del danno patrimoniale, nei termini di cui alle pronunce delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione nn.rr. 5668 del 1997, 744 del 1999, 98 del 2000, 10730 del
2003, 14990 del 2005, 4582 del 2006 e 14297 del 2007, ed alla suddetta Sentenza
delle Sezioni Riunite nr. 10/QM/2003, e cioè classificabile “apatrimoniale” solo
perché non cagionato ad un bene materiale, ma patrimoniale nel senso di essere
arrecato ad un interesse giuridicamente rilevante e suscettibile di valutazione
economica. Il menzionato assunto in ordine alla classificazione di tale voce di
pregiudizio patito dall’Ente pubblico quale danno esistenziale, in funzione dei canoni
esplicitati dagli articoli 2, 54 e 97 della Carta, risulta ulteriormente avvalorato dalla
recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nr. 26972 del 2008,
in cui la Corte di legittimità, con una visione prospettica diversa rispetto ai molteplici
indirizzi che si erano affermati in passato sullo specifico punto, ha chiarito che la
suddetta tipologia di nocumento, la quale certamente non rappresenta una
sottocategoria del danno non patrimoniale connotata dal carattere dell’atipicità, è
risarcibile solo entro il ristretto limite segnato dall’ingiustizia costituzionalmente
qualificata dell’evento di danno, con il corollario che, se non si riscontra la lesione di
diritti inviolabili della persona garantiti dalla Costituzione, non può riconoscersi la
tutela risarcitoria; nell’ipotesi del danno all’immagine ricorre indubbiamente la
descritta condizione, alla luce della puntuale ricostruzione giurisprudenziale in
precedenza delineata che trova il proprio diretto fondamento nei citati articoli della
Costituzione. In definitiva, il danno all’immagine dell’Ente pubblico può essere
certamente ricondotto nell’ambito della categoria del danno non patrimoniale di cui
all’articolo 2059 del Codice Civile, trattandosi di pregiudizio conseguente alla lesione
di fondamentali valori inerenti alla persona, anche giuridica, quali il diritto alla
reputazione, al nome, all’immagine, al prestigio, che rappresentano diritti inviolabili
della persona incisa nella sua dignità, preservata espressamente dalla Costituzione.
In tale prospettiva, cade opportuno sottolineare che la giurisprudenza prevalente della
Corte dei Conti (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenze nr. 251 del
2006 e nr. 198 del 2007, III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 529 del
2005, Sezione Giurisdizionale Lombardia, Sentenza nr. 681 del 2006, Sezione
Giurisdizionale Veneto, Sentenza nr. 927 del 2006, Sezione Giurisdizionale Lazio,
Sentenza nr. 373 del 2007) ha precisato che il danno all’immagine non si identifica o
si verifica soltanto quando, per ripristinarlo, l’Amministrazione pubblica sostiene
delle spese, sul rilievo che siffatto tipo di pregiudizio si configura e si concreta anche
31
nel caso in cui la rottura di quella aspettativa di legalità, imparzialità e correttezza che
il cittadino e gli appartenenti all’Ente pubblico si attendono dall’apparato, viene
spezzata da illecito comportamento dei suoi agenti. L’essenza ed il nucleo centrale di
detto danno, di conseguenza, non si palesano solo in stretta relazione alla sussistenza
di una spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso, in quanto la risarcibilità
di un simile pregiudizio non può rapportarsi, per la sua intrinseca lesione, come sopra
esposto, al ristoro della spesa che abbia inciso sul bilancio dell’Ente, ma deve essere
vista come lesione ideale, con valore da determinarsi secondo l’apprezzamento del
Giudice, ai sensi dell’articolo 1226 del Codice Civile. Deve ritenersi, infatti, che il
danno all’immagine dell’Amministrazione e gli esborsi sostenuti per il ripristino della
stessa si pongano su piani ben distinti, raffigurandosi, il primo, quale lesione di un
bene tutelato in via diretta ed immediata dall’ordinamento giuridico, e venendo in
evidenza, i secondi, sul mero piano probatorio, soltanto come uno dei mezzi di prova
utilizzabili dall’Ufficio Requirente a sostegno della domanda di risarcimento. In tale
ottica, d’altra parte, laddove si richiedesse ai fini della configurabilità di tale tipo di
pregiudizio la prova della spesa effettiva sopportata dall’Ente pubblico, si
perverrebbe alla situazione paradossale per cui l’Amministrazione sprovvista di
adeguati fondi in bilancio da utilizzare nell’assunzione di idonee iniziative volte al
ripristino del bene immagine, non potrebbe conseguire il risarcimento del nocumento
sofferto, non essendo in condizione di offrire la prova degli esborsi sostenuti; in ogni
caso, quale ulteriore elemento dirimente, un eventuale costo suppletivo potrebbe
essere sostenuto dall’Ente danneggiato soltanto dopo l’introito del risarcimento del
nocumento patito, e non certo prima del pagamento della somma, correlata alla
lesione del diritto all’immagine dell’Amministrazione, da parte del convenuto
condannato.
Il suddetto arresto delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti ha affermato, come in
precedenza delineato, che il danno all’immagine appartiene alla categoria concettuale
del danno evento, con il corollario che, ove adeguatamente comprovato, in base ai
requisiti oggettivi, soggettivi e sociali tratteggiati dalla giurisprudenza, ottiene
protezione automatica dall’ordinamento, identificandosi il nocumento, di per sé, nello
stesso fatto inerente alla violazione del diritto intestato all’Ente pubblico,
costituzionalmente garantito ai sensi del citato articolo 2 della Carta; su tale versante,
tuttavia, occorre evidenziare che la recente evoluzione degli orientamenti in materia
della Suprema Corte ha individuato nel danno all’immagine, al contrario, un tipico
danno conseguenza, rappresentato da un accadimento che si ricollega alla lesione
della situazione protetta sulla base di un nesso di causalità, i cui effetti
pregiudizievoli, comunque, possono essere dimostrati anche avvalendosi di
presunzioni (ex multis Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenze nr. 6572 del 2006 e
nr. 26972 del 2008, III Sezione Civile, Sentenza nr. 13546 del 2006).
Relativamente al danno da disservizio, la giurisprudenza della Corte dei Conti (ex
multis Sezione Giurisdizionale Umbria, Sentenze nr. 371 del 2004 e nr. 346 del 2005,
Sezione Giurisdizionale Piemonte, Sentenza nr. 138 del 2006) da tempo ha avuto
modo di precisare che i connotati del danno all’erario possono essere rinvenuti anche
nei casi di disservizio, sotto il profilo del disservizio da illecito esercizio di pubbliche
32
funzioni, ovvero del disservizio da mancata resa del servizio, ovvero del disservizio
da mancata resa della prestazione dovuta, causato da un amministratore, da un
dipendente o da un agente pubblico con una condotta dolosa o gravemente colposa
produttiva di effetti negativi sull’esercizio della pubblica funzione o sulla gestione di
un pubblico servizio, consistendo siffatto pregiudizio, in presenza di strutture
pubbliche con investimenti e costi di gestione giustificati dalle attese di utilità dei
previsti corrispondenti benefici da parte dei cittadini, nel mancato raggiungimento
delle utilità che erano state preventivate nella misura e qualità ordinariamente
ritraibile dalla quantità delle risorse, umane, strumentali e finanziarie, investite
dall’Amministrazione, e perciò nei maggiori costi dovuti a spreco di denaro pubblico
o nella mancata utilità ritraibile dalle somme spese. Il tratto comune unificante delle
varie fattispecie di danno da disservizio, in sostanza, risiede nell’effetto esiziale
cagionato all’organizzazione ed allo svolgimento dell’attività di una pubblica
Amministrazione, determinato dalla minore fecondità dei fattori economici e
produttivi profusi dal bilancio dell’Ente; limitata redditività, fonte del descritto
nocumento, ravvisabile sia nel mancato conseguimento della legalità dell’azione
amministrativa, sia nell’inefficacia e nell’inefficienza dell’attività pubblica. Il danno
da disservizio, sintetizzando i concetti espressi in precedenza, è identificato, quindi,
dai maggiori costi generali sopportati dall’Amministrazione pubblica in conseguenza
del mancato conseguimento della legalità, dell’efficienza, dell’efficacia,
dell’economicità e della produttività dell’azione amministrativa, tenuto conto che tali
canoni di buona gestione sono stati elevati, dalla legislazione intervenuta a partire
dalla Legge nr. 241 del 1990, a criteri fondamentali cui deve uniformarsi l’attività
pubblica, soggetta all’immanente vincolo di scopo rappresentato dalla tutela
dell’interesse generale, in aderenza al principio del buon andamento fissato
dall’articolo 97 della Costituzione.
A margine di quanto sopra illustrato, preme subito chiarire che, essendo considerate
le due figure di danno in questione come fattispecie di nocumento autonome rispetto
al pregiudizio patrimoniale in senso stretto, con il quale si cumulano ricorrendone i
presupposti, con il corollario che un medesimo fatto illecito può integrare un danno
patrimoniale, un danno all’immagine ed un danno da disservizio, occorre evitare il
rischio di ingiustificate duplicazioni nel risarcimento, ovvero di automatismi
generalizzati, dal momento che, evidentemente, non ogni ipotesi di responsabilità
comporta, quale diretta conseguenza, un danno all’immagine dell’Ente pubblico
ovvero un danno da disservizio; appare, quindi, ragionevole la tesi affacciatasi in
dottrina e giurisprudenza secondo la quale le suddette voci di danno sono da reputarsi
autonomamente risarcibili, per l’importo che solitamente viene determinato in via
equitativa, soltanto quando superano in modo significativo il livello di offensività che
normalmente consegue ad una fattispecie di responsabilità amministrativa o
contabile, della quale possano, eventualmente, essere ritenute un ulteriore effetto,
circostanza da dimostrare puntualmente in concreto da parte della Procura Regionale
alla luce dei diversi criteri che si sono consolidati in materia.
Volendo ulteriormente indugiare sull’elemento strutturale del danno, preme
evidenziare alcune figure peculiari di nocumento che sono state oggetto, negli ultimi
33
tempi, di numerose ed interessanti Decisioni del Giudice contabile: il danno da
tangente, il danno derivante dalla stipula di polizza assicurativa a beneficio di
amministratori e dipendenti pubblici, comprendente la copertura dei rischi da
responsabilità amministrativa e contabile per il pregiudizio erariale dagli stessi
cagionato, i cui oneri contrattuali vengono assunti dall’Amministrazione, il danno da
illegittimo affidamento di consulenze a soggetti esterni all’Ente conferente ed il
danno attinente alla omessa o ritardata adesione alle convenzioni stipulate dalla
Consip s.p.a..
In ordine alla prima fattispecie, si confrontano nella giurisprudenza della Corte dei
Conti due indirizzi interpretativi antitetici; secondo il primo orientamento, avallato
anche dalla Corte di Cassazione (Sezioni Unite Civili, Sentenza nr. 98 del 2000), in
materia di tangenti erogate da privati agli agenti pubblici, la somma illecitamente
promessa o corrisposta rappresenta certamente per i primi un costo del quale non
possono non tenere conto nel determinarsi al compimento della condotta delittuosa;
in altri termini, gli importi indebitamente percepiti dagli agenti pubblici costituiscono
danno erariale, sul rilievo che tali illecite prestazioni non possono assolutamente
configurarsi come atti di liberalità, avendo sicuramente come contropartita
favoritismi ed irregolarità che espongono l’Amministrazione a costi superiori rispetto
a quelli che si sarebbero potuti ottenere ovvero a minori entrate, che, in quanto tali,
rappresentano un minus valore causato all’erario che deve essere risarcito dal
soggetto legato all’Ente danneggiato dal rapporto d’impiego o di servizio. Ne
discende, quale diretto corollario, che una volta comprovata la dazione illecita, non
occorre dimostrare la sussistenza di uno specifico danno a carico
dell’Amministrazione riconducibile al comportamento delittuoso dell’agente
pubblico, atteso che il pregiudizio risulta automaticamente acclarato, di per sé, dal
pagamento della tangente, alla luce della delineata presunzione; siffatto assunto
appare avvalorato proprio dalla considerazione che il privato, il quale agisce secondo
la logica del profitto, non può che traslare sull’Amministrazione, in base ad un
principio di ragionevolezza, almeno il costo sostenuto per l’erogazione delle somme
illecite a favore degli agenti pubblici (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale,
Sentenze nr. 209 del 2003, nr. 100 del 2005, nr. 251 del 2006, nr. 129 del 2007 e nr.
209 del 2008, II Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 289 del 2006,
Sezione Giurisdizionale Liguria, Sentenza nr. 80 del 2003, Sezione Giurisdizionale
Sicilia, Sentenza nr. 1282 del 2003). Altro indirizzo, al contrario, sostiene che
nell’ipotesi di tangenti la dazione illecita costituisce un mero indizio del nocumento
patrimoniale patito dall’Amministrazione, pregiudizio che deve essere individuato e
verificato mediante idonei mezzi di prova, e non può essere quantificato con il
richiamo al fatto notorio o a valutazioni di natura equitativa; la tesi in parola, di
conseguenza, postula la necessità per l’Ufficio Requirente di comprovare, in ogni
caso, una concreta maggiorazione dei costi, una minore qualità dei beni o dei servizi
ricevuti dall’Amministrazione, ovvero una mancata percezione di entrate pubbliche
(ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 116 del 2003, Sezione
Giurisdizionale Lombardia, Sentenza nr. 608 del 2003, Sezione Giurisdizionale
Lazio, Sentenza nr. 469 del 2003 e nr. 671 del 2007).
34
Decisamente univoco si appalesa, invece, l’orientamento del Giudice contabile, sia in
sede di controllo (Sezione Centrale di controllo di legittimità su atti del Governo e
delle Amministrazione dello Stato, Deliberazioni nr. 29 del 2001 e nr. 1 del 2005), sia
in sede giurisdizionale (ex multis III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr.
509 del 2004, I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 394 del 2008, Sezione
Giurisdizionale Friuli Venezia Giulia, Sentenza nr. 519 del 2005, Sezione
Giurisdizionale Marche, Sentenza nr. 584 del 2005, Sezione Giurisdizionale Sicilia,
Sentenza nr. 3471 del 2005, Sezione Giurisdizionale Emilia Romagna, Sentenza nr.
895 del 2006, Sezione Giurisdizionale Sicilia, Sentenza nr. 734 del 2008), in merito
all’invalidità, sotto il profilo negoziale, ed all’illiceità, sul versante comportamentale
per i danni erariali arrecati, dei citati prodotti assicurativi stipulati a beneficio degli
amministratori e dei dipendenti pubblici, con oneri a carico dell’Amministrazione,
concernenti il rischio derivante dalla responsabilità amministrativa e contabile.
Prendendo l’abbrivo dalla constatazione che nell’ordinamento giuridico non esiste
alcuna fonte positiva che autorizza la stipula di tali polizze, e tenendo conto che
quelle specifiche disposizioni disciplinanti la materia, contenute in provvedimenti di
rango primario, come l’articolo 86 del Decreto Legislativo nr. 267 del 2000, e
regolamentare, ovvero nei Contratti collettivi nazionali di lavoro, riguardano
unicamente l’ipotesi della copertura assicurativa per i rischi da responsabilità civile
del dipendente e dell’Amministrazione verso i terzi, con espressa esclusione dei casi
di dolo e colpa grave, connessi all’espletamento delle proprie funzioni, senza, quindi,
alcuna possibilità di estensione implicita o esplicita alla responsabilità amministrativa
e contabile, è stato propugnato con decisione il principio secondo il quale la condotta
di coloro che sottoscrivono e autorizzano le predette polizze comprendenti anche
quest’ultimi rischi, integra un palese illecito, con conseguente responsabilità per il
pregiudizio arrecato, ponendosi siffatto comportamento in aperto contrasto con gli
articoli 3, 28, 97 e 103 della Costituzione e con l’articolo 1 della Legge nr. 20 del
1994, mentre i relativi contratti, dal punto di vista negoziale, possono essere
considerati affetti da nullità per causa illecita, in quanto contraria a norme imperative,
costituendo la copertura del rischio da Sentenza di condanna della Corte dei Conti un
modo per eludere il canone generale della responsabilità diretta e personale degli
amministratori e dei dipendenti pubblici, per i danni dagli stessi cagionati, consacrato
dalle prefate disposizioni di livello costituzionale e primario. In aderenza alla predetta
giurisprudenza si colloca il recente intervento del legislatore, esplicitato nell’articolo
3, comma 59, della Legge nr. 244 del 2007, il quale sancisce la nullità del contratto di
assicurazione con cui un Ente pubblico assicuri propri amministratori per i rischi
derivanti dall’espletamento dei compiti istituzionali e riguardanti la responsabilità
amministrativa e la responsabilità contabile; la norma in questione prevede che i
contratti di assicurazione in corso al 1° gennaio 2008 cessano di avere efficacia alla
data del 30 giugno 2008 e che, in caso di violazione della disposizione in parola,
l’amministratore che pone in essere o che proroga il contratto di assicurazione ed il
beneficiario della copertura assicurativa sono tenuti al rimborso, a titolo di danno
erariale, di una somma pari a dieci volte l’ammontare dei premi complessivamente
stabiliti nel contratto medesimo.
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Per quanto concerne il danno connesso all’affidamento di consulenze, relative
all’attribuzione di incarichi di studio, ricerca e redazione di pareri a soggetti esterni
all’Amministrazione conferente, consistente nello spreco di risorse e nella
svalutazione delle professionalità interne all’Ente pubblico, dopo gli interventi
restrittivi del legislatore previsti, unitamente all’individuazione di specifici tetti di
spesa, dall’articolo 1, commi 11 e 42, della Legge nr. 311 del 2004 e dall’articolo 1,
comma 173, della Legge nr. 266 del 2005, l’articolo 32 del D.L. nr. 223 del 2006,
convertito dalla Legge nr. 248 del 2006, riproduttivo del testo contenuto nell’articolo
13 del D.L. nr. 4 del 2006, poi soppresso in sede di conversione, ha formalizzato,
modificando il comma 6 dell’articolo 7 del Decreto Legislativo nr. 165 del 2001, le
condizioni già elaborate in precedenza dalla Corte dei Conti in sede di controllo
(Sezioni Riunite in sede di controllo, Deliberazione nr. 6 del 2005) ed in sede
giurisdizionale (ex multis Sezione Giurisdizionale Lazio, Sentenza nr. 1544 del 2000,
Sezione Giurisdizionale Umbria, Sentenza nr. 447 del 2005, Sezione Giurisdizionale
Puglia, Sentenza nr. 387 del 2005), che devono essere riscontrate cumulativamente
affinché la scelta di stipulare siffatti contratti, i quali rappresentano, insieme ai
contratti di collaborazione coordinata e continuativa ed ai contratti di lavoro a tempo
determinato, espressione tipica del fenomeno dell’esternalizzazione del rapporto di
lavoro, possa essere considerata pienamente legittima e, quindi, risultare immune da
censure sotto l’aspetto dell’azione di responsabilità per il pregiudizio erariale. Al
riguardo, giova rammentare i citati requisiti da vagliare in concreto che, per effetto
della descritta modifica normativa del 2006, riguardano attualmente sia le consulenze
di tipo occasionale, sia i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, istituti
da considerare assolutamente distinti sebbene entrambi riconducibili alla forma del
lavoro autonomo: rispondenza dell’incarico agli scopi ed all’utilità dell’Ente;
inesistenza, all’interno della propria organizzazione, delle risorse umane idonee allo
svolgimento dell’incarico, o per insufficienza numerica del personale in dotazione o
per mancanza della necessaria professionalità del personale disponibile, da accertare
per mezzo di una reale ed approfondita ricognizione; elevata qualificazione del
soggetto prescelto che deve essere dotato di particolare e comprovata
specializzazione universitaria; indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo
svolgimento dell’incarico; temporaneità dell’incarico con la preventiva fissazione
della sua durata, tenendo conto che l’eventuale rinnovo deve risultare sempre limitato
nel tempo ed ampiamente giustificato; proporzione tra il compenso corrisposto
all’incaricato e l’utilità conseguita dall’Amministrazione; adeguata e puntuale
motivazione del provvedimento di conferimento dell’incarico, al fine di consentire il
rigoroso accertamento di tutte le condizioni in parola. Il predetto comma 6
dell’articolo 7 del Decreto Legislativo nr. 165 del 2001, come modificato dal
suddetto articolo 32 del D.L. nr. 223 del 2006, e da ultimo dall’articolo 3, comma 76,
della Legge nr. 244 del 2007, è stato sostituito dall’articolo 46, comma 1, del D.L. nr.
112 del 2008, convertito dalla Legge nr. 133 del 2008; in particolare, la novella ha
previsto, quali elementi di novità rispetto alla precedente formulazione, da una parte,
che l’oggetto della prestazione, oltre a dover corrispondere indubbiamente alle
competenze attribuite dall’ordinamento all’Amministrazione conferente, nonché ad
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obiettivi e progetti specifici e determinati, deve risultare in ogni caso coerente con le
esigenze di funzionalità dell’Ente conferente, dall’altra, che è possibile prescindere
dal requisito della comprovata specializzazione universitaria nell’ipotesi di
stipulazione di contratti d’opera per attività che debbano essere svolte da
professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell’arte,
dello spettacolo o dei mestieri artigianali, rimanendo integra la necessità di accertare
la maturata esperienza nel settore. Se risulta facilmente individuabile la prima
categoria di soggetti per cui è ammessa la deroga, indefinito appare il secondo gruppo
di esperti, in quanto privi di una precisa definizione giuridica; sarà onere dell’Organo
che affida l’incarico dimostrare con adeguata motivazione che si sta operando nel
campo dell’arte o dello spettacolo ovvero si tratta di mestiere artigianale.
In ordine ai contratti a tempo determinato, fermo restando il rispetto degli altri
requisiti sopra menzionati, non risulta essenziale l’elemento inerente all’elevata
qualificazione del soggetto al quale viene conferito l’incarico, mentre, relativamente
ai soli incarichi di consulenza conferiti dai Ministri, soccorre anche la normativa di
dettaglio contenuta nel D.P.R. nr. 338 del 1994. Tornando alle significative
innovazioni introdotte dal prefato articolo 32 del D.L. nr. 223 del 2006, merita
segnalare che i commi 6 bis e 6 ter, aggiunti dalla predetta norma all’articolo 7 del
suddetto Decreto Legislativo nr. 165 del 2001, prevedono, rispettivamente, che le
Amministrazioni pubbliche sono tenute a disciplinare, secondo i propri ordinamenti,
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di consulenza e di
collaborazione coordinata e continuativa, superando, di conseguenza, il pressoché
generalizzato affidamento fiduciario, e che i Regolamenti di cui all’articolo 110,
comma 6, del Decreto Legislativo nr. 267 del 2000, altra specifica fonte normativa in
materia con riferimento agli Enti locali, si devono adeguare ai principi esplicitati dal
comma 6. L’articolo 3, comma 18, della Legge nr. 244 del 2007, ha previsto che i
contratti relativi a rapporti di consulenza con le Pubbliche Amministrazioni di cui
all’articolo 1, comma 2, del Decreto Legislativo nr. 165 del 2001, sono efficaci a
decorrere dalla data di pubblicazione del nominativo del consulente, dell’oggetto
dell’incarico e del relativo compenso sul sito istituzionale dell’Amministrazione
stipulante; il successivo comma 54 ha modificato il comma 127 dell’articolo 1 della
Legge nr. 662 del 1996, il quale, nella formulazione attuale, stabilisce che le
Pubbliche Amministrazioni che si avvalgono di collaboratori esterni o che affidano
incarichi di consulenza per i quali è previsto un compenso sono tenute a pubblicare
sul proprio sito web i relativi provvedimenti completi di indicazione dei soggetti
percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare erogato. In caso di omessa
pubblicazione, la liquidazione del corrispettivo per gli incarichi di collaborazione o
consulenza costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale del
dirigente preposto. Il comma 77 del suddetto articolo 3 ha aggiunto al prefato articolo
7 del Decreto Legislativo nr. 165 del 2001 il comma 6-quater, in base al quale le
disposizioni di cui ai commi 6, 6-bis e 6-ter non si applicano ai componenti degli
organismi di controllo interno e dei nuclei di valutazione, nonché degli organismi
operanti per le finalità di cui all’articolo 1, comma 5, della Legge nr. 144 del 1999.
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Nella medesima ottica di contenimento della spesa si collocano anche le Circolari nr.
5 del 21.12.2006 e nr. 2 dell’11.03.2008, emanate dal Dipartimento della Funzione
Pubblica, aventi ad oggetto le linee di indirizzo in tema di affidamento di incarichi
esterni e di collaborazione coordinata e continuativa, le quali, analizzando in chiave
diacronica l’evoluzione della normativa e della giurisprudenza, concludono la propria
disamina enfatizzando il carattere straordinario ed eccezionale dei menzionati
contratti.
La stessa Legge nr. 244 del 2007 ha introdotto, con l’articolo 3, commi 55, 56 e 57,
alcune significative novità sul versante degli Enti locali; in particolare, il legislatore
ha stabilito che l’affidamento da parte dei suddetti Enti di incarichi di studio o di
ricerca, ovvero di consulenze, a soggetti estranei all’Amministrazione può avvenire
solo nell’ambito di un programma approvato dal Consiglio ai sensi dell’articolo 42,
comma 2, lettera b), del Testo Unico di cui al Decreto Legislativo nr. 267 del 2000.
Con il Regolamento sull’ordinamento degli Uffici e dei Servizi emanato ai sensi
dell’articolo 89 del citato Testo Unico, sono fissati, in conformità alle disposizioni
vigenti, i limiti, i criteri e le modalità per l’affidamento di incarichi di collaborazione,
di studio o di ricerca, ovvero di consulenze, a soggetti estranei all’Amministrazione;
con il menzionato Regolamento è individuato il limite massimo della spesa annua per
gli incarichi e le consulenze. Il richiamato sistema riveniente dalla suddetta novella
contempla anche l’obbligo di trasmettere le predette disposizioni regolamentari, per
estratto, alla competente Sezione Regionale di controllo della Corte dei Conti entro
trenta giorni dalla loro adozione. I suddetti commi 55 e 56 dell’articolo 3 della Legge
nr. 244 del 2007 sono stati sostituiti, tuttavia, dal menzionato articolo 46, commi 2 e
3, del D.L. nr. 112 del 2008, convertito dalla Legge nr. 133 del 2008, il quale
richiama, rispetto al testo previgente, tutte le collaborazioni e non solo gli incarichi di
studio, di ricerca o consulenza; nell’attuale versione le due norme in parola
prevedono, rispettivamente, che gli Enti locali possono stipulare contratti di
collaborazione autonoma, indipendentemente dall’oggetto della prestazione, solo con
riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla Legge o contemplate nel
programma approvato dal Consiglio ai sensi dell’articolo 42, comma 2, del Decreto
Legislativo nr. 267 del 2000, e che, ferma restando la necessità per l’Ente locale di
disciplinare analiticamente la materia con il Regolamento di cui all’articolo 89 del
citato Decreto Legislativo nr. 267 del 2000, il limite massimo della spesa annua per
incarichi di collaborazione è fissato nel bilancio preventivo degli Enti territoriali.
Sullo specifico versante, giova sottolineare che la Sezione delle Autonomie della
Corte dei Conti ha indicato, nella Deliberazione nr. 6 del 2008, le linee di indirizzo ed
i criteri interpretativi della predetta normativa in materia di Regolamenti degli Enti
locali per l’affidamento di siffatti incarichi esterni.
In tema di consulenze merita rammentare, inoltre, la disposizione fissata dall’articolo
25 della Legge nr. 724 del 1994, la quale prevede, al fine di garantire la piena ed
effettiva trasparenza ed imparzialità dell’azione amministrativa, che al personale
delle Amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del Decreto Legislativo nr. 165
del 2001, che cessa volontariamente dal servizio pur non avendo il requisito stabilito
per il pensionamento di vecchiaia dai rispettivi ordinamenti previdenziali ma che ha,
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tuttavia, il requisito contributivo per l’ottenimento della pensione anticipata di
anzianità, non possono essere conferiti incarichi di consulenza, collaborazione, studio
e ricerca da parte dell’Amministrazione di provenienza o di Amministrazioni con le
quali ha avuto rapporti di lavoro o impiego nei cinque anni precedenti a quello della
cessazione dal servizio (ex multis Sezione Giurisdizionale Emilia Romagna, Sentenza
nr. 21 del 2008); in ordine alla prefata disciplina, la prevalente giurisprudenza della
Corte dei Conti (ex multis Sezione Giurisdizionale Emilia Romagna, Sentenza nr.
707 del 2003) ha chiarito che la stessa si applica anche a coloro che abbiano cessato
l’attività lavorativa con dette Amministrazioni prima dell’entrata in vigore della
norma in questione, nonostante la sua formulazione letterale, coniugata al presente,
possa far opinare per una valenza solamente con riferimento alle cessazioni
successive. Relativamente all’ambito oggettivo della suddetta disposizione,
l’orientamento del Giudice contabile non si appalesa univoco, atteso che, secondo un
primo filone interpretativo (ex multis Sezione Giurisdizionale Umbria, Sentenza nr.
235 del 2006), la portata del descritto divieto involgerebbe non solo le consulenze in
senso stretto ma anche qualsiasi incarico di collaborazione, compreso il lavoro
subordinato, mentre un secondo indirizzo, al contrario, propugna la tesi che esclude
dal campo operativo della menzionata previsione gli incarichi che rivestono i caratteri
sostanziali di quest’ultimo rapporto (ex multis Sezione Giurisdizionale Puglia,
Sentenza nr. 328 del 2005). Da ultimo, occorre richiamare una specifica ipotesi
derogatoria, rispetto ai tetti di spesa fissati in precedenza dal legislatore, introdotta
dall’articolo 1, comma 467, della Legge nr. 296 del 2006, secondo cui l’articolo 1,
comma 9, della Legge nr. 266 del 2005 e l’articolo 1, comma 11, della Legge nr. 311
del 2004, non si applicano agli incarichi di consulenza conferiti per lo svolgimento di
attività propedeutiche ai processi di dismissione di società partecipate dal Ministero
dell’Economia e delle Finanze, ovvero di analisi funzionali alla verifica della
sussistenza dei presupposti normativi e di mercato per l’attivazione dei suddetti
processi. Per quanto attiene all’obbligo di trasmissione dei provvedimenti di
affidamento di consulenze esterne, da parte delle Amministrazioni conferenti, alla
competente Sezione Regionale di controllo della Corte dei Conti per l’esercizio del
controllo sulla gestione, adempimento introdotto dall’articolo 1, commi 11 e 42, della
Legge nr. 311 del 2004, è intervenuto successivamente il comma 173 dell’articolo 1
della Legge nr. 266 del 2005, il quale ha parzialmente novellato le precedenti
disposizioni indicando la soglia minima di Euro 5.000; al riguardo, la Sezione delle
Autonomie della Corte dei Conti ha chiarito, tra l’altro, nella Deliberazione nr. 4 del
2006, che il citato obbligo di trasmissione fissato dal comma 173 in parola si applica
anche alle Regioni ed Enti locali, non essendo invocabile, in questo caso, la norma di
salvaguardia a beneficio degli Enti territoriali contenuta nei commi 12 e 64
dell’articolo 1 della prefata Legge nr. 266 del 2005, il cui valore precettivo si
esaurisce nell’esclusione di tetti e limiti alle spese in questione, che l’obbligo di invio
riguarda i provvedimenti di impegno o di autorizzazione e gli atti di spesa, e che il
descritto adempimento si estende anche ai Comuni con popolazione inferiore ai 5.000
abitanti, atteso che non è stata confermata l’esenzione stabilita originariamente dal
comma 42 dell’articolo 1 della suddetta Legge nr. 311 del 2004.
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Una particolare ipotesi di responsabilità erariale è stata delineata, di recente, dalla
giurisprudenza della Corte dei Conti, nel caso di mancata adesione a convenzione
stipulata dalla Centrale di committenza nazionale, identificata dalla Consip s.p.a., nel
settore dell’acquisizione di beni e servizi; con la Sentenza della Sezione
Giurisdizionale Valle d’Aosta nr. 14 del 2005 il Giudice contabile, per la prima volta,
ha accertato la sussistenza di un danno erariale derivante dall’omessa adesione ad una
convenzione della menzionata Consip, concretizzatosi in un mancato risparmio di
spesa per l’Amministrazione.
Il primo fondamento normativo della suddetta responsabilità è rappresentato
dall’articolo 26, comma 3, della Legge nr. 488 del 1999, successivamente modificato,
ma che, nella Sentenza citata, ha trovato applicazione nella sua formulazione
originaria, per effetto del noto principio “tempus regit actum”.
Tale articolo, al comma 1, stabilisce che il Ministero dell’Economia e delle Finanze,
al fine di contenere la spesa pubblica e di realizzare la semplificazione e la
trasparenza dei processi di acquisto, provvede a stipulare, tramite la Consip,
convenzioni quadro con le quali le imprese aggiudicatarie si impegnano ad accettare,
a condizioni e prezzi prestabiliti, ordinativi di fornitura, deliberati dalle Pubbliche
Amministrazioni, sino alla concorrenza di un quantitativo predeterminato.
La disposizione esplicitata dal comma 3 dell’articolo 26 contemplava, nella
formulazione originaria, l’obbligo di adesione alle convenzioni stipulate dalla Consip
per le sole Amministrazioni statali, centrali e periferiche, mentre per le rimanenti
Amministrazioni era soltanto prevista la facoltà di aderire alle convenzioni in parola;
in alternativa, queste ultime avrebbero dovuto utilizzare i parametri di qualità e di
prezzo rivenienti dalle convenzioni per l'acquisto di beni comparabili con quelli
oggetto delle stesse. Il diverso regime trovava giustificazione nella necessità di
tutelare l’autonomia delle Amministrazioni non statali garantendo, nel contempo, il
medesimo risultato economico, funzionalizzato alla cura del superiore interesse
pubblico; in altri termini, l’Ente pubblico diverso dall’Amministrazione statale
poteva decidere di non aderire alla convenzione stipulata dalla Consip ma doveva
sostenere, approvvigionandosi in modo diverso, una spesa quantitativamente uguale o
minore a quella derivante dall’applicazione dei parametri della citata convenzione
nazionale.
In tale contesto, si stima utile rammentare che l’articolo 59, comma 5, della Legge nr.
388 del 2000 aveva previsto che le Amministrazioni non statali avrebbero dovuto
motivare l’acquisto di beni e servizi a prezzi e condizioni meno vantaggiosi rispetto
ai parametri indicati dalle convenzioni; si richiama anche l’articolo 24, comma 6,
della Legge nr. 448 del 2001, con cui era stato stabilito che gli Enti locali, nel caso in
cui non avessero aderito alla convenzione, avrebbero dovuto adottare i prezzi della
convenzione stessa come base d’asta al ribasso.
L’ipotesi di responsabilità amministrativa in rassegna, derivante dalla mancata
osservanza della descritta normativa, già configurabile di per sé, mediante
l’applicazione dei principi generali in tema di danno risarcibile, è stata
successivamente tipizzata dal legislatore con l’articolo 24, comma 4, della Legge nr.
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289 del 2002, che ha sancito, peraltro, la nullità “ex lege” dei contratti stipulati in
violazione dell’obbligo di utilizzare le convenzioni quadro definite dalla Consip.
Dopo la breve parentesi tratteggiata dall’articolo 5 del D.L. nr. 143 del 2003,
convertito dalla Legge nr. 212 del medesimo anno, la tormentata vicenda attinente al
sistema di approvvigionamento in questione è proseguita con l’articolo 3, comma
166, della Legge nr. 350 del 2003 che ha abrogato quasi completamente il suddetto
articolo 24, ad eccezione dell’ultimo periodo del comma 3, nonché dei commi 6 bis e
7, rendendo facoltativo il ricorso alle prefate convenzioni ed ai parametri di prezzo e
qualità in esse contenuti. Con l’articolo 1, comma 4, del D.L. nr. 168 del 2004,
convertito dalla Legge nr. 191 del 2004, il legislatore è nuovamente intervenuto in
materia, modificando il comma 3 dell’articolo 26 della citata Legge nr. 488 del 1999
che, nell’attuale formulazione, prevede che le Amministrazioni Pubbliche possono
ricorrere alle convenzioni Consip, ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo e di
qualità, come limiti massimi, per l’acquisto di beni e servizi comparabili oggetto
delle stesse, anche utilizzando procedure telematiche di acquisizione ai sensi del
D.P.R. nr. 101 del 2002.
L’articolo 1, comma 449, della Legge nr. 296 del 2006, facendo seguito ad un primo
provvedimento restrittivo concernente unicamente le Amministrazioni pubbliche
diverse da Regioni, Province autonome, Enti locali ed Enti del Servizio Sanitario
nazionale, dalla natura, tuttavia, soltanto eventuale, esplicitato dall’articolo 1, comma
22, della Legge nr. 266 del 2005, ha ora introdotto in via generalizzata a carico delle
sole Amministrazioni statali centrali e periferiche, con l’esclusione degli Istituti e
Scuole di ogni ordine e grado, delle Istituzioni educative e delle Istituzioni
universitarie, l’obbligo di aderire alle suddette convenzioni quadro stipulate dalla
Consip, sebbene limitatamente a determinate tipologie di beni e servizi individuati,
entro il mese di gennaio di ogni anno, con Decreto del Ministro dell’Economia e delle
Finanze, tenuto conto delle caratteristiche del mercato e del grado di
standardizzazione dei prodotti. Le restanti Amministrazioni pubbliche di cui
all’articolo 1 del Decreto Legislativo nr. 165 del 2001, potranno ricorrere alle
convenzioni nazionali ed a quelle stipulate dalle Centrali di acquisto regionali
disciplinate dal successivo comma 456 del prefato articolo 1 della Legge nr. 296 del
2006, ovvero dovranno utilizzare i relativi parametri di prezzo e qualità come limiti
massimi per la stipula dei contratti al di fuori delle convenzioni.
Con l’entrata in vigore della Legge nr. 296 del 2006, si assiste, in definitiva, dopo la
stagione incentrata sull’applicazione di una disciplina uniforme per tutte le Pubbliche
Amministrazioni, riconosciuta dal citato articolo 1 del D.L. nr. 168 del 2004, ad un
nuovo sdoppiamento delle prescrizioni in tema di vincoli derivanti dalle convenzioni
stipulate dalla Centrale di committenza nazionale, in ordine al quale non appaiono
estranei i principi di tutela e garanzia dell’autonomia degli Enti territoriali, in
relazione alle singole voci di spesa, espressi nella nota Sentenza della Corte
Costituzionale nr. 417 del 2005; prendendo l’abbrivo dal canone generale, comunque
confermato, inerente alla necessità per tutti gli Enti pubblici di rispettare, in ogni
caso, i requisiti di prezzo e qualità correlati alle convenzioni stipulate dalla Consip e
dalle Centrali regionali come limiti massimi, il legislatore ha stabilito l’obbligo per le
41
sole Amministrazioni statali centrali e periferiche, con le tassative esclusioni in
precedenza enunciate, di aderire alle predette convenzioni nazionali, quantunque con
riferimento a determinate categorie di beni e servizi previamente specificate, mentre,
nei confronti delle altre Amministrazioni pubbliche, in particolare Regioni ed Enti
locali, viene ribadito, assicurando un maggior grado di duttilità, il triplice itinerario
alternativo già fissato dalla precedente normativa, atteso che le stesse possono aderire
alle convenzioni concluse dalla Consip, avvalersi delle convenzioni stipulate dalle
Centrali di committenza territoriali e procedere in modo autonomo, tenendo conto
che i parametri di prezzo e di qualità delle convenzioni nazionali e regionali
rappresentano, pur sempre, limiti assolutamente inderogabili nell’ambito della
valutazione discrezionale e del giusto procedimento finalizzato all’acquisizione dei
beni e servizi. Il descritto sistema di razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi
è stato sostanzialmente confermato, nelle sue linee portanti, dall’articolo 2, commi da
569 a 576, della Legge nr. 244 del 2007, la quale ha introdotto, tuttavia, alcune
interessanti novità; in dettaglio, il legislatore ha stabilito che le Amministrazioni
statali centrali e periferiche, ad esclusione degli Istituti e Scuole di ogni ordine e
grado, delle Istituzioni educative e delle Istituzioni universitarie, devono trasmettere
annualmente al Ministero dell’Economia e delle Finanze un prospetto previsionale
del proprio fabbisogno di beni e servizi, per il cui acquisto si applica il Codice dei
contratti pubblici. Il citato Dicastero, avvalendosi della Consip, individua gli
indicatori ed i parametri di spesa sostenibile per il soddisfacimento dei fabbisogni
collegati funzionalmente alle attività da svolgere, che costituiscono strumenti di
supporto e modelli di comportamento, secondo canoni correlati al rispetto del criterio
di efficienza, nell’attività di programmazione degli acquisti e di controllo di gestione.
Sicuramente significativa appare la disposizione secondo la quale il Ministero
dell’Economia e delle Finanze, in relazione ai parametri di prezzo e di qualità di cui
al predetto comma 3 dell’articolo 26 della Legge nr. 488 del 1999, predispone e mette
a disposizione delle Amministrazioni pubbliche, attraverso la Consip, gli strumenti di
supporto per la valutazione della comparabilità del bene e del servizio e per l’utilizzo
dei citati parametri, anche con indicazione di una misura minima e massima degli
stessi. Non è superfluo rammentare, inoltre, la norma che, con riferimento ai soli
acquisti di importo superiore alla soglia comunitaria, prevede che il Ministero
dell’Economia e delle Finanze debba stabilire entro il mese di marzo di ogni anno le
tipologie di beni e servizi, non oggetto di convenzioni Consip, per le quali le
Amministrazioni statali centrali e periferiche, ad esclusione degli Enti sopra
richiamati, sono tenute a ricorrere alla suddetta Centrale di committenza, in qualità di
stazione appaltante, ai fini dell’espletamento dell’appalto e dell’accordo quadro,
anche con l’ausilio dei sistemi telematici. Sul medesimo terreno, cade opportuno
rilevare che l’articolo 48, comma 1, del D.L. nr. 112 del 2008, convertito dalla Legge
nr. 133 del 2008, ha fissato il principio secondo cui le Amministrazioni pubbliche
statali sono tenute ad approvvigionarsi di combustibile da riscaldamento e dei relativi
servizi nonché di energia elettrica mediante le suddette convenzioni Consip o,
comunque, a prezzi inferiori o uguali a quelli praticati dalla Consip, mentre le altre
Amministrazioni pubbliche, ai sensi del comma 2 del prefato articolo 48, devono
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adottare misure di contenimento delle spese in questione in modo da ottenere
risparmi equivalenti.
Ripercorrendo la motivazione della citata Sentenza della Sezione Giurisdizionale
Valle d’Aosta, merita evidenziare che il Collegio ha affermato il principio in base al
quale non può essere qualificata come espressione di discrezionalità insindacabile di
un amministratore di Ente locale la scelta, fonte di pregiudizio patrimoniale per
l’Ente civico, di rimanere completamente inerte per diversi mesi, a fronte della
possibilità di aderire immediatamente ad una vantaggiosa convenzione Consip o,
quantomeno, nel valutare i suoi parametri di economicità, di esperire una tempestiva
ricerca di mercato per individuare eventuali condizioni contrattuali migliori, in grado,
comunque, di assicurare all’Amministrazione oggettivi risparmi di spesa.
Per effetto dell’attuale ordito normativo sin qui descritto, in definitiva, appare chiaro
che il margine di discrezionalità degli organi decisionali degli Enti pubblici, con
riferimento al sistema di acquisizione di beni e servizi imperniato sulle Centrali di
committenza, è limitato, in funzione della natura della singola Amministrazione, ad
una delle seguenti tre scelte: aderire alle convenzioni nazionali, aderire alle
convenzioni della Centrale di committenza regionale e procedere in modo autonomo
sulla base dei parametri di prezzo e di qualità rivenienti dalle convenzioni nazionali e
regionali; non rientra, invece, nel concetto di discrezionalità la semplice inerzia che si
appalesa, invero, come scelta certamente illegittima e dannosa per l’erario (ex multis
Sezione Giurisdizionale Umbria, Sentenza nr. 223 del 2007).
In tale contesto, si stima utile sottolineare che l’articolo 3, comma 15, della Legge nr.
244 del 2007, ha stabilito che le società pubbliche, tranne quelle quotate nei mercati
regolamentati, devono adottare, per la fornitura di beni e servizi, parametri di qualità
e di prezzo rapportati a quelli messi a disposizione delle Amministrazioni Pubbliche
dalla Consip, motivando espressamente le ragioni dell’eventuale scostamento da tali
parametri, con particolare riguardo ai casi in cui le società stesse siano soggette alla
normativa comunitaria sugli appalti pubblici.
In definitiva, appare evidente che l’attuale configurazione della nozione di danno
erariale deve essere correttamente intesa nel significato di “danno patrimoniale in
senso ampio”, per abbracciare in sé ogni forma di aggressione e lesione ad utilità
economicamente apprezzabile a carico dell’Amministrazione e delle pubbliche
finanze, purché tale riconosciuta dal diritto positivo in capo ai singoli soggetti
pubblici; siffatto assunto afferente al danno erariale è confortato anche dal contenuto
letterale delle norme riguardanti la responsabilità amministrativa, in quanto, sia
quelle tradizionali e generali, sia quelle recentemente intervenute per effetto della
riforma del 1994-1996, non prospettano alcuna ulteriore specificazione del tipo di
danno risarcibile, facendo univocamente riferimento soltanto al danno arrecato
all’Amministrazione pubblica o ai terzi. Nella fattispecie dannosa, inoltre, bisogna
tener conto della complessiva lesione economico-patrimoniale che il comportamento
illecito del responsabile produce, sia per quanto riguarda le perdite subite che
relativamente al mancato guadagno; in tale ottica è stata affermata negli ultimi anni,
mutuando la figura dall’omologo istituto del Diritto civile, la risarcibilità del danno
da perdita di “chance”, da intendersi come probabilità effettiva e congrua di
43
conseguire un risultato utile, da accertare secondo il calcolo delle probabilità o per
presunzioni (ex multis Sezione Giurisdizionale Lazio, Sentenza nr. 2338 del 2003,
Sezione Giurisdizionale Veneto, Sentenza nr. 957 del 2004, Sezione Giurisdizionale
Lazio, Sentenza nr. 2646 del 2005, Sezione Giurisdizionale Trentino Alto Adige,
Sentenza nr. 130 del 2006). Nella giurisprudenza della Corte dei Conti, tuttavia, non
manca qualche pronuncia che, prendendo le distanze dallo schema civilistico, nega
che sia ipotizzabile un danno da perdita di chance in quanto danno futuro, dal
momento che nel contesto dell’azione di responsabilità amministrativa il pregiudizio
economico è configurato come danno effettivo ed attuale (ex multis Sezione
Giurisdizionale Molise, Sentenza nr. 61 del 2007).
Il descritto nocumento, quindi, consiste nella perdita della possibilità sia di ottenere
un risultato economicamente più favorevole sotto l’aspetto delle entrate, sia di
conseguire un minore esborso; in entrambi i casi si verifica una lesione del diritto
all’integrità del patrimonio dell’Ente pubblico da accertare sulla base di elementi
frutto di un giudizio di tipo prognostico, secondo il calcolo delle probabilità. La Corte
di Cassazione ravvisa la perdita di “chance”, per un verso, nel venir meno di una
concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, sicché
non è assimilabile ad una mera aspettativa di fatto assumendo i caratteri di un’entità
patrimoniale a sé, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma
valutazione, per altro verso, nella privazione della possibilità di sviluppi o
progressioni tale da costituire un danno patrimoniale risarcibile qualora sussista un
pregiudizio certo, anche se non nel suo ammontare. Pregiudizio consistente non in un
lucro cessante bensì nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale laddove
si accerti, anche utilizzando elementi presuntivi, la ragionevole probabilità
dell’esistenza di detta “chance”, intesa come attitudine attuale; deve trattarsi, tuttavia,
di una situazione suscettibile di determinare un oggettivo affidamento circa il
conseguimento, secondo la disciplina applicabile alla fattispecie ed un criterio di
normalità, di un esito favorevole. Da quanto sopra esposto, si desume la necessità di
uno specifico onere di prova a carico di chi sostiene esservi stata la perdita di
“chance”; sul punto la Corte di legittimità è chiara quando precisa che, costituendo la
perdita stessa un’ipotesi di danno patrimoniale legata ad un momento futuro è, come
tale, risarcibile a condizione che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, ma
pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e regolarmente allegate, la
sussistenza di un valido nesso causale tra il pregiudizio e la ragionevole probabilità di
verificazione della “perdita” (ex multis Corte di Cassazione, Sezione III, nr. 9598 del
1998, Sezione Lavoro, nr. 13241 del 2006). Analogo contenuto hanno, in materia,
ulteriori pronunce della Suprema Corte secondo cui il danno per la perdita delle
asserite occasioni deve essere ancorato a positive regole di esperienza, nonché a
precise circostanze di fatto obiettivamente provate, pur se mediante un calcolo di
probabilità, in merito al raggiungimento del risultato sperato ma impedito dalla
condotta illecita, della quale il pregiudizio risarcibile deve atteggiarsi come
conseguenza immediata e diretta (ex multis Corte di Cassazione, Sezione III, nr.
10739 del 2002, nr. 18945 del 2003 e nr. 1752 del 2005).
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In via generale, peraltro, deve trattarsi sempre di un danno effettivo, concreto ed
attuale, con il corollario che un danno esclusivamente potenziale non può divenire
oggetto di un giudizio di responsabilità amministrativa, per carenza dei suddetti
requisiti indefettibili; in tale prospettiva, merita evidenziare che la giurisprudenza
della Corte dei Conti (ex multis II Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 79
del 2005) ha costantemente censurato, come correlata ad una condotta improntata ad
una grave superficialità e noncuranza, le quali originano la sottoposizione dei soggetti
agenti alla responsabilità amministrativa, l’inosservanza dell’obbligo, posto in diretta
connessione ad un principio cardine della contabilità pubblica, di reperire
preventivamente la copertura finanziaria della spesa, mediante l’assunzione
dell’apposito impegno sul competente capitolo di bilancio, impegno che, come noto,
determina l’accantonamento della somma da utilizzare per lo specifico fine previsto
e, quindi, l’indisponibilità del medesimo importo ad altri scopi. In sostanza,
l’ordinazione di una spesa, se deliberata senza alcun impegno di spesa in bilancio,
deve ritenersi illegittima, di tal che l’eventuale ritardo di pagamento da tale
irregolarità cagionato e la conseguente soccombenza in giudizio nei confronti del
creditore insoddisfatto, non possono non essere addebitati, a titolo di colpa grave, a
chi abbia in tal senso deliberato ed in tal modo cagionato all’Ente pubblico un danno
ingiusto corrispondente al pagamento di interessi e rivalutazione, nonché alla
rifusione delle spese legali al creditore.
In merito alla disamina inerente all’elemento strutturale del danno, giova sottolineare
che la giurisprudenza della Corte dei Conti è pacifica nell’escludere la sussistenza di
un collegamento diretto tra responsabilità dirigenziale e responsabilità amministrativa
(ex multis III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenze nr. 32 del 2005 e nr. 34 del
2006, Sezione Giurisdizionale Sicilia, Sentenza nr. 626 del 2007). In primo luogo,
infatti, è lo stesso articolo 21 del Decreto Legislativo nr. 165 del 2001, il quale
configura la predetta responsabilità dirigenziale, che sancisce gli effetti
pregiudizievoli a carico del dirigente in caso di mancato raggiungimento degli
obiettivi dovuto alla non corretta utilizzazione delle risorse umane e materiali, quale
espressione di inefficienza del relativo modulo organizzativo; in secondo luogo, le
pronunce del Giudice contabile hanno rimarcato le differenze sostanziali delle due
forme di responsabilità, sul rilievo che l’illecito amministrativo si fonda sulla
violazione di specifici obblighi di servizio in relazione ad una specifica condotta
dell’agente, fonte di danno per l’Ente pubblico in termini di patrimonialità o, quanto
meno, di economica valutabilità, mentre la responsabilità dirigenziale attiene al
mancato conseguimento dei risultati prefissati nell’ambito dell’attività di gestione.
12. Compensazione del vantaggio con il danno
Sempre sul crinale del danno, cade opportuno osservare che l’articolo 1, comma 1
bis, della Legge nr. 20 del 1994 fissa il canone secondo il quale, fermo restando il
potere di riduzione dell’addebito, deve tenersi conto dei vantaggi comunque
conseguiti dall’Amministrazione o dalla comunità amministrata in relazione al
comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di
responsabilità.
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Con l’introduzione di tale norma il legislatore ha inteso recepire principi già affermati
dalla giurisprudenza contabile, in linea con l’analogo istituto sviluppatosi nel “diritto
vivente” di matrice civilistica, al fine di considerare, nell’ottica della quantificazione
del danno e della correlativa definizione della misura dell’addebito, i vantaggi a
beneficio dell’Ente o della comunità amministrata da collocarsi in rapporto causale
con la condotta dei responsabili del nocumento. Il richiamo da parte della
disposizione in questione ai vantaggi non solo dell’Amministrazione, ma anche della
comunità è particolarmente significativo, perché riconosce nella comunità l’effettivo
titolare degli interessi protetti e la destinataria ultima delle norme che tutelano l’Ente
pubblico, cosicché può anche ritenersi totalmente assorbito dai vantaggi per la
comunità un pregiudizio economico sussistente per l’Amministrazione, laddove la
spesa sia stata sostenuta per finalità sociali e comunque nell’interesse della
collettività di riferimento (ex multis Sezione Giurisdizionale Campania, Sentenza nr.
129 del 2001, Sezione Giurisdizionale Sardegna, Sentenza nr. 55 del 2002, Sezione
Giurisdizionale Molise, Sentenza nr. 99 del 2005, Sezione Giurisdizionale Piemonte,
Sentenza nr. 320 del 2006). Siffatta “compensatio lucri cum damno” rientra nelle
specifiche attribuzioni del Giudice, per cui, da una parte, secondo la giurisprudenza
prevalente, può essere effettuata d’ufficio, anche in assenza di sollecitazione della
parte interessata, dall’altra, si presenta pienamente compatibile con il potere di
riduzione dell’addebito, sul rilievo che attiene ad un momento logico anteriore, a
quello cioè della determinazione del danno effettivo, riferendosi, invece, il secondo,
alla concreta individuazione del “quantum” da porre a carico del dipendente pubblico
a causa del suo comportamento illecito; nel panorama giurisprudenziale, tuttavia, si
registrano anche pronunce (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr.
304 del 2005) che prospettano un differente indirizzo, manifestando il canone
secondo cui la presenza di vantaggi derivati all’Ente danneggiato o alla comunità
amministrata, riconducibili all’attività causativa del pregiudizio, deve essere provata
dal presunto responsabile che li invochi in giudizio a sua discolpa, trattandosi di
eccezione in senso proprio e, quindi, non rilevabile d’ufficio. In ordine
all’applicazione della norma in parola, giova rammentare che i criteri cui il Giudice
deve attenersi sono sostanzialmente, alla luce di orientamenti consolidati (ex multis
III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 9 del 2003, Sezione
Giurisdizionale Campania, Sentenza nr. 129 del 2001), i medesimi che presiedono al
parallelo istituto di origine civilistica: accertamento dell’effettività dell’ “utilitas”
conseguita; stesso fatto generatore determinante sia il danno che il vantaggio in
relazione ai comportamenti tenuti; appropriazione dei risultati da parte
dell’Amministrazione che li riconosce; rispondenza della suddetta “utilitas” ai fini
istituzionali dell’Ente pubblico che li riceve.
13. Esimente politica
Altra disposizione speciale enucleata dall’articolo 1 della Legge nr. 20 del 1994,
meritevole di approfondimento, riguarda la cosiddetta esimente politica, prevista dal
comma 1 ter a beneficio degli organi politici che abbiano approvato o fatto eseguire
in buona fede atti ricompresi nella competenza degli uffici tecnico amministrativi; in
tale contesto, si stima utile richiamare la giurisprudenza prevalente che si è
46
pronunciata sulla descritta tematica, la quale, per un verso, ha affermato che la citata
scriminante non è applicabile nei casi in cui l’organo politico abbia esercitato
un’attribuzione propria, mentre i suddetti uffici abbiano espletato solo funzioni di
carattere istruttorio ovvero consultivo e, comunque, di mero supporto strumentale (ex
multis II Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 303 del 2003), per altro
verso, ha espresso il canone che la predetta esimente opera, in ogni caso,
esclusivamente quando la decisione da cui deriva il danno ingiusto sia stata assunta in
materie di particolare difficoltà tecnica e giuridica, dovendosi altrimenti ritenere che
l’evidenza dell’erroneità dell’atto sia tale da escludere la stessa buona fede dei titolari
dell’organo politico (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 282
del 2002, Sezione Giurisdizionale Sicilia, Sentenza nr. 1712 del 2005, Sezione
Giurisdizionale Lazio, Sentenza nr. 2087 del 2005, Sezione Giurisdizionale
Basilicata, Sentenza nr. 143 del 2007).
14. Danno indiretto
Nell’ambito della componente strutturale del danno la distinzione più rilevante è
quella tra danno diretto e danno indiretto; nel primo caso il nocumento è cagionato
direttamente al patrimonio dell’Ente pubblico, mentre nel secondo il pregiudizio è
inferto al privato, danneggiato dalla condotta del dipendente, cui segue il risarcimento
ad opera dell’Amministrazione che sopporta il relativo onere. In tale ottica, appare
utile sottolineare che la causazione del danno a terzi da parte di un pubblico
dipendente presenta, come è noto, un’importante peculiarità rispetto ai comuni
riflessi risarcitori della responsabilità aquiliana: difatti, in tale evenienza, la
responsabilità si estende anche all’Amministrazione di appartenenza dell’agente, in
virtù del precetto contenuto nell’articolo 28 della Costituzione che consacra il
principio della solidarietà passiva tra i due soggetti legati da rapporto organico.
In tale contesto, non è superfluo rammentare che l’evoluzione della dottrina e della
giurisprudenza in ordine alla natura della responsabilità dell’Amministrazione per
l’operato dei suoi dipendenti, risulta ormai approdata, in modo pressoché univoco,
verso la concezione della configurazione diretta della stessa, in virtù del suddetto
rapporto organico che si instaura tra i funzionari e l’Ente di appartenenza.
Il rapporto organico in forza del quale la Pubblica Amministrazione è obbligata a
rispondere dei danni arrecati ai terzi dai propri dipendenti, può ritenersi interrotto
soltanto quando il comportamento dell’agente non sia diretto al raggiungimento dei
fini istituzionali inerenti alla struttura presso cui è assegnato, ma sia determinato ed
orientato da motivi strettamente egoistici ed utilitaristici, idonei ad escludere qualsiasi
collegamento, anche sotto il profilo dell’occasionalità necessaria, tra le mansioni
svolte e l’attività produttiva di danno.
Acclarata la responsabilità solidale e diretta del dipendente e dell’Amministrazione,
in base al citato principio di immedesimazione organica, nella pratica il privato
preferisce citare in giudizio sempre l’Ente pubblico, sia perché quest’ultimo si
presenta comunque solvente ai fini del soddisfacimento dell’obbligazione risarcitoria,
rispetto al dipendente che potrebbe non essere in grado di far fronte al pagamento in
caso di condanna, sia perché il funzionario autore della violazione risponde nei
47
confronti del terzo danneggiato solo per dolo o colpa grave, mentre
l’Amministrazione è esposta anche per colpa lieve.
In tale ottica, infatti, giova sottolineare che secondo l’articolo 23 del D.P.R. nr. 3 del
1957, le cui previsioni del Capo II in materia di responsabilità, come già esplicitato in
premessa, sono state mantenute ferme, anche dopo la privatizzazione del pubblico
impiego, dall’articolo 55 del Decreto Legislativo nr. 165 del 2001, si considera danno
ingiusto quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l’impiegato abbia
commesso con dolo o per colpa grave; la richiamata limitazione si fonda
sull’esigenza di garantire al dipendente una precisa fascia di sicurezza, poiché la
preoccupazione di dover rispondere verso i terzi anche di una lieve negligenza
potrebbe paralizzare lo svolgimento dell’attività amministrativa.
Esistono, infine, altre due motivazioni di ordine processuale che spingono il privato
ad esperire l’azione giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione per ottenere il
risarcimento del danno: la prima è rappresentata dalla constatazione che il rapporto
giuridico si instaura normalmente tra l’Ente pubblico ed il terzo, e solo in rarissime
ipotesi, tassativamente fissate dalla Legge, direttamente con il dipendente persona
fisica, con il corollario che, decidendo di citare il funzionario che ha agito, la via
obbligata da seguire, tranne nelle ipotesi di responsabilità professionale da contatto
sociale qualificato, è costituita dalla responsabilità extracontrattuale di quest’ultimo
ai sensi dell’articolo 2043 del Codice Civile, con onere probatorio a carico
dell’attore, mentre quando la richiesta si incanala nella direzione
dell’Amministrazione, si appalesa la possibilità per il privato, ricorrendone i
presupposti, di invocare anche la responsabilità contrattuale di cui all’articolo 1218
del Codice Civile, il quale affranca il creditore dall’allegazione probatoria, sul rilievo
che il menzionato articolo stabilisce che il debitore che non esegue esattamente la
prestazione dovuta, deve provare che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato
da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
La seconda motivazione risiede nella circostanza che il funzionario deve essere
sempre citato davanti al Giudice ordinario, la cui giurisdizione presenta tre gradi di
giudizio, mentre l’Amministrazione danneggiante, laddove l’attività pregiudizievole
per il privato sia riconducibile all’esercizio di una potestà amministrativa secondo le
forme tipiche previste dall’ordinamento, deve essere citata davanti al Giudice
amministrativo, con due soli gradi di giudizio; al riguardo, le Sezioni Unite della
Corte di Cassazione, nell’Ordinanza nr. 13659 del 2006, hanno statuito che,
nell’ipotesi di azione esperita nei confronti della persona fisica, non rileva stabilire se
il dipendente abbia agito quale organo dell’Amministrazione, ovvero, a causa del
perseguimento di finalità private, si sia verificata la frattura del rapporto organico, in
quanto, nell’uno, come nell’altro caso, l’azione risarcitoria è proposta nei confronti
del funzionario in proprio, e, quindi, nei confronti di un soggetto privato, distinto
dall’Amministrazione, con conseguente giurisdizione del Giudice ordinario. Del
resto, le stesse Sezioni Unite avevano espresso il principio secondo il quale la
controversia avente ad oggetto la pretesa risarcitoria, avanzata dal privato, nei
confronti del funzionario cui era imputata l’adozione di provvedimento illegittimo,
deve essere devoluta alla giurisdizione del Giudice ordinario in quanto fondata sulla
48
deduzione di un fatto illecito extracontrattuale e intercorrente tra privati, non ostando
a ciò la proposizione della domanda anche nei confronti dell’Ente pubblico sotto il
profilo della responsabilità solidale dello stesso, ai sensi dell’articolo 28 della
Costituzione. Giova precisare, in linea generale, che la giurisdizione è inderogabile
per ragioni di connessione, salva diversa, specifica, previsione normativa, e che il
coordinamento tra le giurisdizioni su rapporti diversi ma interdipendenti, come quelli
che si instaurano tra il privato e, da una parte, l’Amministrazione danneggiante,
dall’altra, il funzionario agente, può trovare soluzione secondo le regole della
sospensione del procedimento pregiudicato (Cassazione Sezioni Unite nr. 3508 del
2003).
Una volta erogata al privato danneggiato, a seguito della Sentenza di condanna
definitiva del Giudice ordinario o di quello amministrativo, la somma correlata al
risarcimento, l’Amministrazione, abituale convenuta in giudizio per i motivi sopra
lumeggiati, dovrà esercitare obbligatoriamente la rivalsa nei confronti del proprio
dipendente, ai sensi dell’articolo 22 del prefato D.P.R. nr. 3 del 1957 sugli impiegati
civili dello Stato, applicabile anche ai dipendenti degli Enti territoriali e degli altri
Enti pubblici in via analogica ed in quanto espressione di un principio generale (ex
multis Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza nr. 1890 del 2000), atteso il
richiamo diretto, inoltre, operato dall’articolo 93 del T.U. sugli Enti locali di cui al
Decreto Legislativo nr. 267 del 2000 e dall’articolo 33 del Decreto Legislativo nr. 76
del 2000, mediante trasmissione alla competente Procura della Corte dei Conti della
denuncia di danno a carico dell’autore dell’illecito, essendosi perfezionata una
fattispecie di danno indiretto.
Negli ultimi anni si registra un notevole incremento delle fattispecie di responsabilità
amministrativa per danno indiretto, conseguente ad un ampliamento delle ipotesi di
responsabilità civile dell’Amministrazione, come nel caso della risarcibilità
dell’interesse legittimo pretensivo, a seguito della nota Sentenza delle Sezioni Unite
della Cassazione nr. 500 del 1999 e della Legge nr. 205 del 2000, della violazione del
diritto comunitario, della disciplina dei pagamenti nelle transazioni commerciali di
cui al Decreto Legislativo nr. 231 del 2002, della violazione degli obblighi di
custodia dei beni demaniali e patrimoniali, ex articolo 2051 del Codice Civile (ex
multis Corte di Cassazione, III Sezione Civile, Sentenze nr. 19653 del 2004 e nr.
15384 del 2006, Ordinanza nr. 24881 del 2008), dell’attuale configurazione
dell’onere probatorio per i danni cagionati ai pazienti dall’attività del sanitario (ex
multis Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza nr. 577 del 2008, III
Sezione Civile, Sentenza nr. 10297 del 2004), del trattamento dei dati personali ai
sensi del Decreto Legislativo nr. 196 del 2003, e dei sempre più frequenti episodi di
“mobbing” che si verificano sul luogo di lavoro; intervenuta la condanna dell’Ente al
risarcimento del danno, ed esercitata obbligatoriamente la rivalsa, la successiva
azione di responsabilità amministrativa promossa dalla Corte dei Conti, laddove
dovesse essere appurato che la lesione della posizione giuridica soggettiva del privato
e la conseguente obbligazione risarcitoria siano riconducibili ad atti ed omissioni
commessi con dolo o colpa grave dal pubblico dipendente, si concluderebbe con una
condanna nei confronti di quest’ultimo per il danno indiretto arrecato al patrimonio
49
dell’Amministrazione, essendo il giudizio contabile, come in precedenza chiarito,
finalizzato non all’accertamento dell’illegittimità di uno o più atti amministrativi, ma
alla valutazione, nell’ottica dei criteri enucleati dall’articolo 1 della citata Legge nr.
20 del 1994, della illiceità di specifici comportamenti individuali in violazione degli
obblighi di servizio.
In tale contesto, tuttavia, si stima utile precisare che il Giudice contabile, per il
principio della separatezza ed autonomia dei giudizi, non è vincolato alle conclusioni
cui è pervenuto, con la Sentenza irrevocabile di condanna dell’Amministrazione, il
Giudice civile o quello amministrativo, sia per quanto attiene all’ “an” del
risarcimento a carico del dipendente, sia relativamente alla stessa quantificazione del
danno, con il precipitato che il funzionario, laddove la sua posizione non venga già
archiviata a monte dall’Ufficio Requirente, potrebbe essere assolto dagli addebiti
contestati dalla Procura Regionale all’esito del giudizio, per la mancanza di uno o più
degli elementi strutturali dell’illecito amministrativo, in particolare per difetto della
colpa grave, ovvero essere condannato ad una somma diversa da quella corrisposta al
privato dall’Amministrazione; obbligatorio risulta, come in precedenza delineato,
l’esercizio dell’azione di rivalsa, da parte dell’Ente pubblico che abbia risarcito il
terzo del danno cagionato dal proprio dipendente, contro quest’ultimo, autore
dell’illecito produttivo del pregiudizio nei confronti del privato, mediante
trasmissione degli atti alla Procura della Corte dei Conti.
15. Nesso causale
Affinché si configuri la responsabilità amministrativa per gli illeciti compiuti dai
dipendenti ed agenti pubblici, causativi di danno erariale, oltre all’elemento oggettivo
sopra descritto, identificato dal fatto dannoso, è necessaria la presenza del nesso di
causalità tra l’azione od omissione e l’evento lesivo; l’esistenza di un rapporto di
causalità tra la condotta e l’evento è condizione imprescindibile, seppur non
sufficiente, per l’attribuibilità di un fatto dannoso ad un soggetto, come risulta in
termini positivi nel nostro ordinamento dall’analisi degli articoli 40 e 41 del Codice
Penale e 1223 del Codice Civile. L’onere di provare il nesso di causalità, che
consenta di collegare ad un soggetto determinati effetti negativi sul patrimonio
pubblico, spetta naturalmente al Procuratore Regionale. In materia, semplificando un
tema ampiamente dibattuto in ambito civilistico, penalistico e contabile, può
ragionevolmente pervenirsi ad un paradigma metodologico, alla cui stregua condurre
la valutazione della fattispecie concreta, che consenta in via generale di ritenere un
comportamento, commissivo od omissivo, causa dell’evento di danno solo quando
quest’ultimo, al momento della condotta, potesse considerarsi prevedibile quale
conseguenza verosimile di essa secondo il quadro conoscitivo disponibile “ex ante”;
siffatto giudizio di prevedibilità, in sostanza, deve essere rapportato al momento, e
nella situazione concreta, della condotta riferibile al soggetto agente. Da quanto
precede può, pertanto, reputarsi esclusa la presenza del nesso di causalità allorquando
l’evento pregiudizievole non fosse da ritenersi “ex ante” probabile, ossia non
presentasse un significativo grado di possibilità di verificarsi; e questa ipotesi, alla
luce dell’orientamento più accreditato che tende a condensare gli effetti della teoria
della “conditio sine qua non” con quelli della causalità adeguata, ricorre sicuramente
50
nel caso in cui il nocumento si sia “ex post” dimostrato effettivamente correlato a
cause sopravvenute ed eccezionali, non rientranti ragionevolmente nell’ambito degli
accadimenti preventivabili al momento della condotta contestata, le quali sono state
da sole sufficienti a determinare l’evento. In tale contesto, si stima utile richiamare la
Sentenza della III Sezione Civile della Cassazione nr. 21619 del 2007, in cui la Corte
di legittimità ha affermato che i principi ricavabili dagli articoli 40 e 41 del Codice
Penale non possono essere ritenuti fondanti per la determinazione del concetto di
causalità in ambito civilistico, atteso che non vi è coincidenza tra il nesso eziologico
in sede penale e quello in sede civile; in particolare, la Suprema Corte ha chiarito, per
la prima volta, che nel campo civilistico la causalità giuridica risponde alla logica
della preponderanza dell’evidenza causale, ossia del canone del più probabile che non
e, quindi, obbedisce a criteri di maggiore flessibilità rispetto al settore penale. Il
suddetto orientamento è stato successivamente avvalorato anche dalla pronuncia delle
Sezioni Unite della Corte di legittimità nr. 581 del 2008.
16. L’elemento soggettivo
Residua, infine, la verifica in merito alla sussistenza dell’elemento soggettivo o
psichico rappresentato dalla volontà colpevole, cioè dalla colpevolezza,
atteggiamento antidoveroso della volontà, che si concreta nelle forme del dolo e della
colpa grave.
Il dolo consiste nella previsione e volontà dell’evento dannoso per l’erario, come
conseguenza della propria azione od omissione, cui la Legge ricollega l’obbligo di
risarcimento; la dottrina e la giurisprudenza ricomprendono nel concetto di dolo
anche quelle fattispecie nelle quali la volontà dell’agente, sebbene non sia diretta
specificamente alla realizzazione di un determinato evento, ciò nonostante lo accetta
e, pertanto, anche se indirettamente, lo vuole.
In tale configurazione il dolo consiste, quindi, nella previsione dell’eventualità del
verificarsi dell’evento dannoso e nell’accettazione del rischio; tale forma di dolo è
denominata dolo eventuale o indiretto e si distingue dal dolo intenzionale o diretto.
Negli ultimi anni la giurisprudenza della Corte dei Conti (ex multis Sezione
Giurisdizionale Lazio, Sentenza nr. 1015 del 1999, Sezione Giurisdizionale Umbria,
Sentenza nr. 390 del 2004, Sezione Giurisdizionale Emilia Romagna, Sentenza nr.
998 del 2007) ha individuato nel giudizio di responsabilità amministrativa, che
presenta un fondamento di natura contrattuale ed è caratterizzato dall’inadempimento
di preesistenti doveri ed obblighi nascenti dal rapporto di servizio, la possibilità di
contestare il dolo cosiddetto contrattuale o “in adimplendo”; quest’ultimo si
differenzia dal dolo penale, al quale è assimilabile il dolo extracontrattuale produttivo
di responsabilità aquiliana, in quanto attiene all’inadempimento di uno specifico
obbligo preesistente quale ne sia la sua fonte.
In altre parole, il dolo penale viene in rilievo come diretta e cosciente intenzione di
nuocere, ossia di agire ingiustamente a danno di altri da parte di persona imputabile,
mentre il dolo contrattuale consiste nel proposito consapevole di non adempiere
all’obbligo stesso, ossia di violare intenzionalmente i doveri di ufficio.
Le caratteristiche riprovevoli dell’attività dolosa, secondo la giurisprudenza
assolutamente prevalente della Corte dei Conti, militano a favore della tesi che
51
sostiene l’inapplicabilità del potere riduttivo nelle fattispecie connotate dalla presenza
di siffatto requisito soggettivo, in quanto nessun beneficio economico può essere
riconosciuto al soggetto che ha consapevolmente e deliberatamente violato i propri
doveri ed obblighi di servizio.
Relativamente al requisito soggettivo, non è superfluo rammentare che sino
all’entrata in vigore della Legge nr. 639 del 1996 la generalità dei dipendenti pubblici
era soggetta al regime della colpa lieve, con l’eccezione di alcune categorie che, in
funzione della particolarità del loro compito, erano tenute a rispondere soltanto per
colpa grave. La predetta Legge del 1996, che ha novellato l’articolo 1 della Legge nr.
20 del 1994, ha introdotto, al fine di rendere più snella l’azione amministrativa dei
pubblici dipendenti, affrancandola da rallentamenti ed inerzie e sollevando gli agenti
da apprensioni circa una valutazione troppo severa del loro operato da parte della
Corte dei Conti, una comune limitazione alla responsabilità amministrativa,
circoscrivendola, oltre che al dolo, alla sola colpa grave.
La Corte Costituzionale, con la Sentenza nr. 371 del 1998, ha rigettato le questioni di
illegittimità costituzionale prospettate da alcune Sezioni Giurisdizionali della Corte
dei Conti, per asserita violazione da parte della nuova normativa degli articoli 3, 97 e
103 della Carta, anche nell’ottica di una nuova conformazione dell’azione
amministrativa, più attenta ai risultati che alla mera legittimità dei suoi atti.
Allo scopo di verificare la sussistenza della colpa grave, fonte di responsabilità
amministrativa dei dipendenti ed agenti pubblici, la giurisprudenza prevalente,
abbandonando l’antica concezione psicologica della colpevolezza, identificata nel
nesso psichico tra il soggetto ed il fatto, privilegia la concezione normativa, che
propugna la tesi secondo la quale la colpevolezza è il giudizio di rimproverabilità per
l’atteggiamento antidoveroso della volontà che era possibile non assumere; essa è un
concetto normativo, che esprime il rapporto di contraddizione tra la volontà
dell’agente e le norme. Dall’accoglimento della concezione normativa della
colpevolezza, discende l’esigenza di valutare l’azione produttiva di un evento
dannoso, ai fini dello scrutinio circa la presenza della colpa grave, in relazione alle
circostanze di fatto ed alla condizione e capacità proprie dell’agente; in definitiva, la
forma di colpa alla quale ci si deve riferire è quella “in concreto”, accertata con
giudizio “ex ante” in base ai criteri della prevedibilità ed evitabilità della serie causale
produttiva del danno.
La colpa, da un punto di vista sostanziale, consiste nella negligenza, imprudenza,
imperizia, o inosservanza di Leggi, Regolamenti, ordini o discipline, e l’innalzamento
della soglia del requisito soggettivo, per quanto concerne la responsabilità
amministrativa, alla sola colpa grave trova la sua giustificazione nella molteplicità dei
doveri di ufficio incombenti sui pubblici dipendenti inseriti in una struttura
organizzativa complessa, la quale denota, a volte, manchevolezze e disfunzioni, con il
corollario che, essendo molto elevato lo sforzo di diligenza richiesto al pubblico
dipendente, le mancanze che gli si possono rimproverare sono soltanto quelle
particolarmente gravi; ciò chiarito, il vaglio sulla sussistenza o meno della colpa
grave, in parallelo con il carattere personale della responsabilità amministrativa,
enfatizzato dalla riforma del 1994-1996, deve essere condotto mediante una realistica
52
individualizzazione della colpevolezza del soggetto, cioè non con una valutazione
astratta ma “in concreto” ed “ex ante”, secondo le situazioni soggettive dell’agente e
quelle oggettive in cui lo stesso ha operato.
Nel contesto della generale disamina sull’elemento psicologico dell’illecito
amministrativo, una notevole valenza ha assunto la tematica della responsabilità degli
organi apicali dell’Amministrazione, dirigenti e funzionari, sia per “culpa in
eligendo”, relativa alla scelta erronea ed inescusabile di affidare un determinato
incarico al dipendente (ex multis Sezione Giurisdizionale Piemonte, Sentenza nr.
1079 del 2003), sia per “culpa in vigilando”, ovvero per omesso o inadeguato
controllo sulla condotta del personale addetto all’ufficio, tradottasi in un danno per
l’erario.
Premesso che per assumere la connotazione di una fattispecie di danno tale specifica
condotta omissiva, al pari di qualsiasi altro comportamento pregiudizievole per
l’erario, deve integrare almeno la soglia della colpa grave, deve essere posto
l’accento sulla circostanza che, in materia, la giurisprudenza si è di frequente
soffermata sul nodo centrale dell’ambito operativo di detta “culpa in vigilando”,
chiarendo che la responsabilità dei menzionati organi di vertice attiene all’andamento
dell’attività di gestione del servizio, ma non involge, di per sé, i singoli atti posti in
essere, oppure colposamente omessi, dai dipendenti preposti ai vari settori che sono
chiamati a rispondere direttamente. In particolare, è stato espresso il principio che, in
una situazione organizzativa che veda un ufficio regolato in base all’attribuzione di
un autonomo potere di definizione ai singoli impiegati, non può configurarsi, in via
presuntiva, responsabilità del dirigente per omessa vigilanza nel caso di illeciti
commessi dal personale dipendente; in estrema sintesi, occorre accertare in concreto,
caso per caso, se l’organo di vertice sia stato effettivamente in grado di poter
riscontrare l’illecito compiuto dal proprio subordinato.
In dettaglio, volendo evocare, pur con la necessaria prudenza sottesa alla natura di
semplici precedenti, alcune delle massime più ricorrenti nella giurisprudenza della
Corte dei Conti, preme evidenziare che la suddetta “culpa in vigilando” è stata
esclusa nelle seguenti fattispecie: a) qualora il dipendente tenuto al controllo sia stato
contemporaneamente investito della direzione di più uffici, venendosi così a trovare
in una situazione di obiettiva difficoltà per il cumulo di impieghi gravosi e cogenti,
cui assolvere con organici largamente incompleti ed inadeguati; b) qualora il
dirigente di un ufficio di grandi dimensioni non poteva avvedersi dell’errore
commesso dal proprio collaboratore se non attraverso una revisione, pratica per
pratica, del lavoro compiuto dall’intero ufficio; c) qualora la condotta del dipendente
subordinato dannosa per l’erario sia stata caratterizzata da una particolare callidità nei
meccanismi fraudolenti posti in essere, tale da non consentire un agevole riscontro da
parte del dirigente e da divenire, in tal modo, causa unica ed esclusiva dell’evento di
danno.
Nel contempo, è stato affermato che l’obbligo di vigilanza del dirigente si accentua in
modo significativo nell’ipotesi di utilizzo, non necessitato, di personale per lo
svolgimento di compiti o mansioni non coerenti con la propria esperienza e
qualificazione professionale; in ogni caso, anche qualora l’utilizzazione sia
53
necessitata, gravano sull’organo apicale particolari doveri di vigilanza ed attenzione,
in funzione del consolidato principio giurisprudenziale secondo il quale la frequenza
e la profondità dei controlli deve essere tanto maggiore quanto più basso è il livello di
professionalità degli addetti.
Per completezza di esposizione, merita sottolineare il già citato indirizzo
giurisprudenziale secondo cui, laddove si ritenga sussistere una concorrente
responsabilità dell’organo di vertice per “culpa in vigilando”, troverà applicazione il
canone del “beneficium excussionis”, che comporta la previa esecuzione della
Sentenza di condanna nei confronti del responsabile principale, ossia il dipendente
autore materiale dell’illecito, allorquando la sua condotta sia connotata dal dolo, e
solo in caso di incapienza patrimoniale di quest’ultimo anche nei confronti del
responsabile sussidiario, cioè il dirigente o superiore gerarchico che ha mal vigilato,
sebbene solo fino a concorrenza della quota di danno a suo carico individuata nella
pronuncia.
Non è superfluo evidenziare, infine, che, in sede di valutazione in ordine alla
presenza della colpa grave del dirigente o del dipendente, e, comunque, ai fini
dell’eventuale esercizio del potere riduttivo dell’addebito ad opera del Giudice
contabile, viene normalmente valutata adeguatamente l’esistenza di carenze e
disfunzioni organizzative, non imputabili ai soggetti sopra menzionati, parzialmente o
totalmente impeditive del regolare e tempestivo esercizio dei propri compiti connessi
alle missioni istituzionali demandate all’Amministrazione; in tale prospettiva, merita
sottolineare che negli ultimi anni si è consolidato un interessante filone
giurisprudenziale (ex multis III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 314
del 2001, nr. 601 del 2004 e nr. 424 del 2006, Sezione Giurisdizionale Lombardia,
Sentenza nr. 26 del 2006, Sezione Giurisdizionale Puglia, Sentenza nr. 544 del 2006,
Sentenza Giurisdizionale Sicilia, Sentenza nr. 26 del 2007), il quale propugna
l’esonero dalle responsabilità a fronte del danno erariale, per mancanza del requisito
della colpa grave, o quantomeno l’attenuazione della colpevolezza dell’agente per
concorso di colpa dell’Ente danneggiato, invocando l’applicazione del potere
riduttivo, in favore dei funzionari che abbiano operato in un contesto connotato dalla
presenza di carenze organizzative diffuse e di particolare gravità, direttamente
riconducibili all’insufficiente ed inefficace assetto strutturale e procedimentale
dell’Amministrazione, con la conseguenza che il nocumento non può essere
imputato, o, comunque, non interamente, al soggetto il quale ha materialmente posto
in essere l’ultimo comportamento in ordine di tempo della variegata catena causale
che ha generato l’evento dannoso, sul rilievo che il pregiudizio trova il suo
immediato antecedente nella oggettiva disfunzione amministrativa preesistente alla
condotta dell’agente e che lo stesso non ha contribuito a determinare. In definitiva, la
presenza di significative carenze organizzative e procedimentali ha condotto alcuni
autori, in linea con la suddetta giurisprudenza, a parlare di una sorta di “rischio di
impresa” che porta all’accollo di tutto, o anche di una parte soltanto del pregiudizio,
in capo all’Amministrazione per i danni cagionati da propri dipendenti in funzione di
circostanze non ascrivibili in via esclusiva a quest’ultimi. Specularmente, la mancata
o ritardata adozione di opportuni provvedimenti organizzativi, o la predisposizione di
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una mera apparenza di assetto organizzativo, privo di una specifica e formalizzata
disciplina di dettaglio, di una chiara ripartizione dei compiti e di efficaci canali di
controllo concomitanti e successivi, possono originare, con il concorso degli altri
elementi strutturali dell’illecito amministrativo, una responsabilità del dirigente e
degli altri organi apicali dell’Ente pubblico, in ragione delle rispettive competenze
nel caso concreto, qualora da tale cronica disorganizzazione, ovvero dalla palese
scarsità delle dotazioni di personale e strumentali, non sollecitamente segnalata e
rappresentata ai centri decisionali nei suoi aspetti sintomatici e forieri di conseguenze
esiziali, derivi una condizione della struttura che abbia consentito, o, comunque,
grandemente agevolato, la realizzazione di un danno a carico dell’Amministrazione
da parte del responsabile principale dell’illecito.
La descritta indagine in merito alla valutazione del requisito soggettivo non sarebbe,
tuttavia, completa se non accennassimo, in relazione al recente ampliamento della
giurisdizione della Corte dei Conti, alla tematica inerente alla sindacabilità degli atti
di gestione posti in essere “iure privatorum”, ed in particolare delle scelte
imprenditoriali compiute da amministratori e dipendenti di Enti pubblici economici e
di società in mano pubblica; in questi casi, infatti, non rileva l’esistenza di potere
discrezionale, e dunque l’attività privatistica non potrebbe essere vagliata alla luce
dell’interpretazione della norma sull’insindacabilità nel merito delle scelte
discrezionali. Nel contesto delle decisioni assunte dai predetti soggetti, si staglia la
sfera di autonomia imprenditoriale legata all’autonomia privata garantita dal Codice
Civile e, ancor prima, dagli articoli 2, 41 e 42 della Costituzione. In tale prospettiva,
la disamina del Giudice contabile in ordine alle scelte imprenditoriali compiute da
amministratori e dipendenti di Enti pubblici economici e di società in mano pubblica,
specie con riferimento all’elemento soggettivo della colpa grave, dovrebbe essere
effettuato, secondo la tesi prevalente in dottrina, in funzione dei principi elaborati nel
tempo dal Giudice ordinario in materia di responsabilità degli amministratori delle
società commerciali, tenendo conto che il rischio di risultati negativi si configura,
come appare evidente, come elemento fisiologico insito nel concetto stesso di attività
imprenditoriale. Al riguardo, si stima utile evidenziare che nell’ambito degli obblighi
che gravano sui citati amministratori e dalla cui violazione discende la responsabilità,
la Legge prevede due prescrizioni identificate attraverso clausole generali e cioè
l’obbligo di amministrare con diligenza e quello di assumere scelte informate, oltre,
naturalmente, all’obbligo di amministrare senza conflitto di interessi; trattandosi di
clausole generali, le norme non precisano la condotta che l’amministratore o il
dipendente deve tenere ed è, quindi, necessario stabilire di volta in volta, in relazione
alle circostanze del caso concreto, quando vi sia violazione. Chiarite tali coordinate
ermeneutiche, preme sottolineare che il Giudice contabile, come del resto il Giudice
ordinario, al di fuori delle ipotesi concernenti decisioni contrarie alle norme di Legge,
ovvero palesemente illogiche ed irragionevoli, non può sindacare la scelta in sé, ma
deve controllare il percorso attraverso il quale essa è stata preferita; in altre parole, il
discrimine deve essere individuato nel fatto che mentre la scelta tra il compiere o
meno un atto di gestione, ovvero di compierlo in un certo modo o in determinate
circostanze, non è suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità
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giuridica, al contrario la responsabilità può essere generata dall’eventuale omissione,
da parte dell’amministratore o del dipendente, di quelle cautele procedimentali, di
quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste prima di
procedere a quel tipo di scelta: in definitiva, il giudizio sulla diligenza non può
investire le scelte di gestione, ma il modo in cui sono compiute (ex multis Corte di
Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza nr. 5718 del 2004). La conclusione di questa
ricognizione avvalora l’orientamento che nega qualsiasi automatismo, nell’ottica dei
delineati canoni di valutazione, tra scelta imprenditoriale che ha determinato
conseguenze economiche negative e violazione dell’obbligo di diligenza che integra
il requisito della colpa grave ai fini della responsabilità amministrativa, sul rilievo che
il Giudice contabile deve scrutinare, con giudizio in concreto ed “ex ante”, non già la
scelta effettuata dall’amministratore o dal dipendente di Enti pubblici economici e di
società in mano pubblica, ma la sequenza del complesso itinerario, informato o meno,
attraverso il quale quella determinata decisione è stata preferita alle altre che si
prospettavano nel momento in cui la stessa è stata assunta, non trascurando di
considerare, peraltro, i risultati dei precedenti esercizi e le aspettative di ritorno degli
investimenti programmati, per come precisate nei documenti di pianificazione delle
relative attività di gestione.
17. La prescrizione
L’articolo 1, comma 2, della Legge n. 20 del 1994 prevede che il diritto al
risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data
in cui si è verificato il fatto dannoso; la giurisprudenza costante è nel senso che segna
l’inizio del periodo prescrizionale non il semplice compimento di condotta
trasgressiva degli obblighi di servizio, dalla quale non sia ancora scaturito alcun
nocumento patrimoniale all’Ente pubblico, ma il verificarsi del danno che, in uno con
la condotta illecita, va a costituire le due inscindibili componenti del fatto dannoso
cui ora fa esplicito riferimento la generale disciplina in tema di prescrizione
contenuta nella suddetta disposizione. Il termine iniziale deve essere individuato non
nel momento della conoscenza, ma in quello della conoscibilità obbiettiva dei fatti, da
parte non del Procuratore Regionale della Corte dei Conti titolare del potere di
azione, ma dell’organo dell’Amministrazione che abbia obbligo di denuncia; ciò in
conformità al principio generale che, con l’escludere la decorrenza della prescrizione
nel tempo in cui il diritto non può essere fatto valere, ai sensi dell’articolo 2935 del
Codice Civile, si riferisce solo alle cause giuridiche impeditive dell’esercizio di tale
diritto e non anche ai semplici ostacoli di fatto, tra i quali l’ignoranza, colpevole o
meno, del titolare in ordine alla sussistenza del diritto.
In effetti, è la conoscibilità in seno all’Amministrazione quella che ha rilievo per
individuare il momento di decorrenza del periodo prescrizionale. Il predetto
principio, peraltro, deve valutarsi nell’ottica del funzionamento dell’Amministrazione
che è organizzata, ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione, secondo disposizioni di
Legge al fine di assicurare il buon andamento e l’imparzialità; da ciò consegue che
nell’ipotesi di patologico funzionamento amministrativo, la conoscenza di un danno
può emergere, nell’ambito di uffici pubblici, solo a seguito di quegli adempimenti,
specifici e preordinati sulla base delle competenze degli uffici stessi, di verifica e di
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ispezione amministrativa che consentono di evidenziare puntualmente i fatti
pregiudizievoli. Se, infatti, sussistono nell’ordinamento procedure positivamente
previste per l’individuazione e l’accertamento di fenomeni dannosi, questi ultimi non
possono ritenersi altrimenti conoscibili prima che esse siano compiute, ma la mancata
conoscibilità, in questo caso, non è mero fatto, ma deriva dall’impedimento giuridico
costituito dalla incompleta attuazione dell’azione amministrativa disciplinata dalla
Legge (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 494 del 2007).
In ordine all’individuazione dell’esordio della prescrizione, giova rammentare
l’evoluzione giurisprudenziale nell’ipotesi di danni derivanti da alcune tipologie di
provvedimenti pregiudizievoli per l’erario, quali, ad esempio, Delibere illegittime di
inquadramento di personale in livelli retributivi superiori; premesso che in tale
evenienza il nocumento diviene concreto, effettivo ed attuale soltanto all’atto
dell’erogazione delle retribuzioni, le Sezioni Riunite della Corte dei Conti, nella
Sentenza nr. 7/2000/QM, ritenendo permanente la condotta illecita dei soggetti che
adottano la Delibera illegittima, avevano prospettato la soluzione, quanto al momento
di decorrenza del termine, di considerare la presenza di una pluralità di termini
prescrizionali relazionati a ciascun pagamento. Secondo la prefata concezione, in
sostanza, ciascun pagamento mensile della retribuzione maggiorata per effetto della
Delibera illegittima era legato ad un proprio termine di prescrizione. Siffatto approdo
ermeneutico è stato successivamente superato dalle stesse Sezioni Riunite, che, nella
Sentenza nr. 3/2003/QM, prendendo l’abbrivo dall’affermazione secondo la quale la
Delibera illegittima si configura come provvedimento istantaneo ad effetti
permanenti, hanno espresso il diverso principio per cui nel caso di illegittimo
inquadramento di personale il termine prescrizionale decorre dalla data del primo
pagamento di maggiori emolumenti, momento nel quale comincia a realizzarsi il
danno ed il diritto può essere fatto valere. Nel corpo della motivazione le Sezioni
Riunite hanno precisato che atti quali quelli di inquadramento, promozione,
attribuzione di trattamento economico si inseriscono nel rapporto di pubblico impiego
modificando lo stato giuridico ed economico del personale in un momento puntuale
nel tempo, che è quello dell’adozione del provvedimento, e proprio perché
modificano una posizione giuridica essi hanno effetti permanenti nel tempo sino a
quando non interviene un nuovo atto, contratto, provvedimento ulteriormente
modificativo di detta posizione; è necessaria, pertanto, l’emanazione di un atto di
secondo grado per caducare gli effetti dell’illegittimo provvedimento di
inquadramento. Ne discende, hanno soggiunto le Sezioni Riunite, che il
comportamento illecito dei soggetti agenti si è puntualizzato nell’adozione del
provvedimento modificativo della realtà giuridica, per paralizzare il quale è
necessario un nuovo e diverso atto; da queste modificazioni conseguono effetti sia sul
piano giuridico che su quello economico direttamente derivanti dal provvedimento
amministrativo caratterizzato dai canoni di esecutività e di presunzione di legittimità,
con la conseguenza evidente che, rispetto a tale situazione, non può predicarsi il
permanere di una condotta illecita dei soggetti che hanno adottato il provvedimento, i
cui effetti non si riferiscono al perdurare del comportamento illecito ma direttamente
alla forza ed efficacia dell’atto supposto illegittimo ma non caducato. Occorre
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registrare sulla specifica tematica, tuttavia, un nuovo intervento delle Sezioni Riunite
che, nella Sentenza nr. 5/2007/QM, hanno ribadito le conclusioni esplicitate nella
menzionata Sentenza nr. 7/2000/QM, con un ritorno al precedente indirizzo. La citata
Sentenza delle Sezioni Riunite nr. 3/2003/QM, infine, ha risolto un secondo contrasto
giurisprudenziale attinente alla decorrenza della prescrizione, sostenendo che
nell’ipotesi di danno indiretto il termine iniziale della stessa deve essere fissato alla
data in cui il debito dell’Amministrazione nei confronti del terzo danneggiato è
diventato certo, liquido ed esigibile per effetto del passaggio in giudicato della
Sentenza di condanna, indipendentemente dall’effettivo pagamento al privato della
somma a titolo di risarcimento.
Proseguendo nell’esame del prefato articolo 1, comma 2, della Legge nr. 20 del 1994,
occorre evidenziare, inoltre, che la medesima recepisce il principio di matrice
giurisprudenziale secondo cui, nel caso di occultamento doloso del danno, il termine
di prescrizione comincia a decorrere dalla data della sua scoperta, qualificabile come
momento della conoscenza effettiva; e, difatti, la cognizione di situazioni
pregiudizievoli per l’Amministrazione è l’effetto di una tipica attività di controllo, la
cui impossibilità di esplicarsi, per fatto doloso dell’autore del danno, comporta un
oggettivo impedimento ad agire, di carattere giuridico e non di mero fatto. Giova
precisare, tuttavia, su tale specifico versante, che alcune pronunce (ex multis III
Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenze nr. 32 del 2002 e nr. 474 del 2006,
Sezione Giurisdizionale Lombardia, Sentenza nr. 566 del 2003, Sezione
Giurisdizionale Veneto, Sentenza nr. 992 del 2005) hanno affermato il principio che
la condotta di occultamento doloso del fatto, ai fini della posticipazione dell’esordio
del termine prescrizionale al momento della scoperta del danno, implica il
compimento, da parte dei responsabili, di un “quid pluris” rispetto all’attività di
consumazione dell’illecito contabile, in quanto la volontà di celare il danno non si
identifica con il dolo inteso come elemento strutturale dell’illecito; l’ipotesi in parola
non ricorre, pertanto, quando il ritardo nella scoperta del pregiudizio è da attribuire a
disfunzioni dell’apparato amministrativo che non ha adottato, nelle diverse situazioni,
le misure di controllo interno idonee a far emergere gli effetti dannosi dell’attività
illecita. Con riferimento al decorso della prescrizione nelle ipotesi di fattispecie
penalmente rilevanti, la giurisprudenza prevalente ritiene che l’esordio della stessa
debba essere ancorato, ai fini dell’esercizio dell’azione di responsabilità, al momento
in cui interviene la richiesta di rinvio a giudizio da parte del Pubblico Ministero
penale (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 28 del 2002, III
Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 10 del 2002, I Sezione Giurisdizionale
Centrale, Sentenze nr. 45 e nr. 57 del 2007, Sezione Giurisdizionale Lazio, Sentenza
nr. 772 del 2003, Sezione Giurisdizionale Piemonte, Sentenza nr. 100 del 2005); al
riguardo, è rimasta in posizione minoritaria la concezione secondo la quale, in
funzione dell’articolo 2947, comma 3, del Codice Civile, la prescrizione decorrerebbe
dalla data di pubblicazione della Sentenza irrevocabile che definisce il giudizio
penale. Per quanto concerne l’esordio della prescrizione in ipotesi di appalto di opere
pubbliche, giova rammentare che le Sezioni Riunite, nella Sentenza nr. 2/2003/QM,
hanno chiarito che la prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui sia
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conoscibile o effettivamente conosciuto, da parte dell’Amministrazione appaltante, il
comportamento illecito del soggetto legato da rapporto di impiego o di servizio ed il
danno abbia assunto il carattere della certezza e dell’attualità. In ogni caso, hanno
precisato le Sezioni Riunite, siffatte condizioni esistono all’atto della conclusione del
procedimento di collaudo e salvo che non si siano verificate anteriormente con
conseguenti effetti in ordine all’esordio della prescrizione.
Non è superfluo rammentare che, secondo la giurisprudenza pacifica della Corte dei
Conti, nell’ipotesi di accertata responsabilità solidale per dolo o per illecito
arricchimento, l’eccezione di prescrizione sollevata soltanto da uno dei convenuti non
opera, trattandosi di eccezione a carattere personale, a favore degli altri condebitori
solidali (ex multis Sezione Giurisdizionale Emilia Romagna, Sentenza nr. 998 del
2007), mentre gli atti di interruzione della prescrizione hanno effetto nei confronti di
tutti i compartecipi in solido anche se compiuti con riferimento a qualcuno di essi, in
funzione del principio contemplato dall’articolo 1310, comma 1, del Codice Civile
(ex multis II Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 215 del 2004, I Sezione
Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 343 del 2008).
In merito all’interruzione della prescrizione dell’azione di responsabilità, inoltre,
giova sottolineare che, secondo pacifica giurisprudenza, la costituzione parte civile
dell’Amministrazione danneggiata nel procedimento penale, instaurato per gli stessi
fatti da cui origina il nocumento erariale, produce tale effetto sino alla definizione del
giudizio penale (ex multis Sezioni Riunite, Sentenza nr. 8/QM/2004, III Sezione
Giurisdizionale Centrale, Sentenze nr. 183 del 1997 e nr. 213 del 2006, I Sezione
Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 3 del 2006), mentre recentemente è stato
affermato il principio secondo il quale anche il fermo amministrativo, previsto
dall’articolo 69 del R.D. nr. 2440 del 1923 in materia di contabilità dello Stato, è
idoneo a determinare il medesimo risultato in modo permanente (Sezione
Giurisdizionale Lombardia, Sentenza nr. 248 del 2006). Non è superfluo rammentare,
infine, che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 2943 e 2945 del Codice
Civile, la prescrizione è interrotta dalla notificazione della citazione del Procuratore
Regionale, trattandosi dell’atto con il quale si inizia il giudizio, e, in tale evenienza, la
prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la Sentenza che
definisce la controversia.
18. La costituzione in mora del presunto responsabile
Sempre in tema di prescrizione, preme sottolineare, quale sfondo di carattere
generale, che si appalesa essenziale la tempestiva costituzione in mora da parte
dell’Amministrazione danneggiata nei confronti del presunto responsabile, con la
notifica di atto scritto di intimazione contenente l’espresso richiamo agli articoli 1219
e 2943 del Codice Civile, sul rilievo che soltanto l’atto in parola promanante
dall’Ente pubblico che ha subito il pregiudizio patrimoniale, unico titolare del diritto
sostanziale al risarcimento, è sicuramente in grado di interrompere il corso della
prescrizione, mentre, ad esempio, in ordine all’invito a dedurre notificato dal
Procuratore Regionale della Corte dei Conti permangono alcune incertezze
interpretative. Tale atto di costituzione in mora, adottato dall’Amministrazione
danneggiata, deve essere eventualmente rinnovato prima dello spirare del termine
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prescrizionale di cinque anni, qualora non sia stato avviato il procedimento di
responsabilità amministrativa da parte del Procuratore Regionale; nella medesima
visuale, merita evidenziare il canone secondo il quale deve essere riconosciuta
efficacia interruttiva della prescrizione all’atto di costituzione in mora che contenga,
da una parte, l’indicazione del fatto produttivo del danno, dall’altra, la non equivoca
manifestazione della volontà dell’Amministrazione creditrice di ottenere l’integrale
risarcimento in relazione alle singole voci di nocumento, non essendo, invece,
necessaria la precisa quantificazione dell’addebito che, al momento della
formulazione dell’atto, non è né può essere definito, atteso che la liquidazione del
pregiudizio è soggetta alle valutazioni da parte della Procura Regionale (ex multis
Sezione Giurisdizionale Lazio, Sentenza nr. 2348 del 2006).
19. L’obbligo di denuncia del danno
Sicuramente molto rilevante, nell’alveo della tematica afferente alla responsabilità
amministrativa e contabile, si appalesa l’argomento relativo all’obbligo di denuncia,
sia per le gravi conseguenze che possono scaturire, a carico dei pubblici dipendenti,
dall’omesso o ritardato adempimento di tale fondamentale prescrizione, sia perché
permangono, in materia, alcune aree di incertezza interpretativa.
I referenti normativi che disciplinano l’obbligo di denuncia si rinvengono
nell’articolo 83 del R.D. nr. 2440 del 1923, nell’articolo 53 del R.D. nr. 1214 del
1934, nell’articolo 20 del D.P.R. nr. 3 del 1957, con riferimento ai dipendenti statali,
e nell’articolo 1, comma 3, della Legge nr. 20 del 1994. Il suddetto articolo 20, norma
dalla portata generale, viene, altresì, in rilievo nei casi in cui il legislatore rinvia, nel
delineare l’ambito della giurisdizione della Corte dei Conti, alla disciplina vigente in
materia di responsabilità degli impiegati civili dello Stato, come nel caso di
amministratori e dipendenti delle strutture sanitarie pubbliche, ai sensi dell’articolo
28 del D.P.R. nr. 761 del 1979. Per gli amministratori ed i dipendenti delle Regioni
trova applicazione l’articolo 33 del Decreto Legislativo nr. 76 del 2000; per gli
amministratori, i dipendenti ed i revisori degli Enti locali si vedano gli articoli 93 e
239 del Decreto Legislativo nr. 267 del 2000; nel caso di danni accertati in sede di
procedura di risanamento, a seguito di dissesto finanziario di Enti locali, la denuncia
spetta all’Organo straordinario di liquidazione, in base all’articolo 252 del citato
Decreto Legislativo nr. 267 del 2000; per i vertici amministrativi degli Enti pubblici
istituzionali di cui alla Legge nr. 70 del 1975, si applica l’articolo 90 del D.P.R. nr.
97 del 2003; riguardo agli obblighi, in materia, degli amministratori e dei revisori
delle Camere di Commercio, si vedano gli articoli 33 e 34 del D.P.R. nr. 254 del
2005. Vi sono, inoltre, previsioni normative riferite ad ulteriori categorie di pubblici
dipendenti, come accade per gli appartenenti all’Esercito, ai sensi degli articoli 7 e 8
del D.P.R. nr. 167 del 2006; specifici obblighi di denuncia sono contenuti
nell’articolo 10, comma 2, della Legge nr. 724 del 1994, in materia sanitaria, e
nell’articolo 6 del Decreto Legislativo nr. 163 del 2006, a carico dell’Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Non è superfluo
rammentare anche l’articolo 23, comma 5, della Legge nr. 289 del 2002, il quale
prescrive che i provvedimenti di riconoscimento del debito, posti in essere dalle
Amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del Decreto Legislativo nr.
60
165 del 2001, devono essere trasmessi alla competente Procura Regionale presso il
Giudice contabile.
In via preliminare, occorre puntualizzare che la normativa vigente prescrive
l’obbligatorietà della denuncia di fatti che diano luogo a responsabilità, la quale deve
essere inoltrata all’Ufficio Requirente della Corte dei Conti in modo tempestivo; il
presupposto perché sorga l’obbligo di denuncia è quello stesso che comporta il
decorso del termine di prescrizione per i danni non occultati, attualmente pari a
cinque anni, entro il quale deve essere esercitata l’azione di responsabilità, ossia il
verificarsi di un fatto dannoso per la finanza pubblica.
Quanto al punto inerente all’individuazione dei soggetti tenuti alla trasmissione della
denuncia di danno alle competenti Procure della Corte dei Conti, si può tralasciare il
richiamo alle disposizioni più remote, atteso che la materia è stata disciplinata
complessivamente dall’articolo 20 del D.P.R. nr. 3 del 1957, norma dal contenuto
paradigmatico che esprime principi applicabili ai dipendenti di tutte le
Amministrazioni pubbliche, in assenza di specifiche disposizioni di dettaglio.
Il predetto articolo 20 individua, quali figure tenute all’obbligo di denuncia, il
direttore generale o il capo servizio e, se il fatto dannoso sia a questi imputabile, il
Ministro; introduce poi il principio secondo il quale i soggetti titolari, per ufficio od
incarico, di funzioni ispettive danno adempimento diretto all’obbligo di denuncia,
non subordinatamente alla valutazione di Autorità sovraordinate ovvero che abbiano
conferito l’incarico.
Le disposizioni del T.U. del 1957 richiedono, evidentemente, un adattamento
interpretativo quando siano recepite, in virtù di rinvio, nella disciplina concernente le
moderne organizzazioni pubbliche, per determinare nelle diverse realtà
amministrative quali siano attualmente i soggetti tenuti ad assolvere l’obbligo di
denuncia. Questo adeguamento esegetico può essere, in definitiva, agevole e
sufficientemente chiaro ove si tenga conto del canone, desumibile dalla normativa di
base, che fa carico dell’obbligo in questione al soggetto organizzativo sovraordinato
all’autore del fatto dannoso. La circostanza oggettiva attinente alla preposizione ad
un ufficio, pertanto, a prescindere dalla diversa denominazione dell’incarico ricoperto
(ad esempio capo ufficio, capo servizio), comporta automaticamente il sorgere
dell’obbligo di denuncia dei fatti dannosi causati dal personale addetto all’ufficio
stesso; la posizione di sovraordinazione a questi uffici prevista dalle norme
ordinamentali dei singoli Enti, sia di organi individuali che collegiali, genera
l’obbligo di denuncia di fatti dannosi in cui siano coinvolti anche i titolari degli uffici
stessi. Preme sottolineare, comunque, che la giurisprudenza più recente ha integrato
ed ampliato il citato assunto, esprimendo il principio secondo cui, indipendentemente
da una posizione di sovraordinazione rispetto all’autore dell’illecito da cui deriva il
nocumento, sono obbligati a trasmettere la denuncia del danno tutti i soggetti che si
trovino in posizione apicale, i quali vengano in possesso, in ragione del loro ufficio,
degli elementi per l’accertamento della responsabilità e la quantificazione del
pregiudizio (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 344 del 2008).
Deve, inoltre, essere richiamata l’attenzione sul fatto che detto obbligo incombe,
sostanzialmente, ai soggetti che in virtù delle loro attribuzioni, cioè per ragioni di
61
ufficio, possono venire a conoscenza di fatti dannosi; ciò sia direttamente, sia a
seguito di rapporto cui sono tenuti i collaboratori addetti all’ufficio. Quest’ultima
precisazione, univocamente esplicitata nel suddetto articolo 20, fa sorgere un dovere
di collaborazione-segnalazione in capo a tutti i dipendenti addetti all’ufficio nei
confronti dei vertici tenuti alla denuncia, con possibile coinvolgimento dei primi nella
responsabilità per omissione.
Al riguardo, la giurisprudenza della Corte dei Conti ha chiarito che anche nel
rapporto di impiego contrattualizzato vi è sempre il dovere di fedeltà, che si traduce
nell’obbligo di un comportamento leale nei confronti dell’Amministrazione datrice di
lavoro, e ciò deve essere inteso sia in senso positivo, come dovere di operare
nell’esclusivo interesse dell’Ente, sia in senso negativo, come dovere di astenersi da
ogni attività o contegno lesivo degli interessi dell’Amministrazione; ne deriva che
tutti i comportamenti che, per natura e conseguenze, sono comunque lesivi della sfera
giuridica dell’Amministrazione, devono considerarsi attuati in violazione degli
obblighi di servizio.
Di conseguenza, l’impiegato che, nell’esercizio delle sue mansioni, sia venuto a
conoscenza di fattispecie dannose per l’Amministrazione riconducibili alla condotta
di altro personale addetto al suo stesso ufficio, o ad altri uffici della medesima
struttura, deve adoperarsi tempestivamente affinché tali danni siano eliminati o non
proseguano, ed ha l’obbligo personale di segnalare i fatti pregiudizievoli al soggetto
preposto all’ufficio, in modo che quest’ultimo possa procedere alla denuncia
obbligatoria alla Procura della Corte dei Conti (ex multis I Sezione Giurisdizionale
Centrale, Sentenza nr. 266 del 2005).
Per quanto riguarda, poi, gli organi di controllo e di revisione, siano essi interni o
appartenenti organizzativamente a diversa Amministrazione o anche di tipo misto, è
stata da sempre reputata sussistente la loro competenza alla denuncia di fatti dannosi
per la finanza pubblica; tali organi, in ultima analisi, se nell’esercitare le proprie
funzioni istituzionali rilevino un atto illecito produttivo di danno, hanno l’obbligo di
inviare alla Procura della Corte dei Conti la relativa denuncia, ove non sia già stata
trasmessa da parte degli organi amministrativi, anche se tale dovere non sia
formalmente esplicitato o previsto da un precetto, trattandosi di un principio di
carattere generale ormai consolidatosi nel “diritto vivente” (Sezioni Riunite della
Corte dei Conti, Sentenza nr. 743/A del 1992).
Giova richiamare l’attenzione sul fatto che i dirigenti responsabili delle strutture
amministrative erogatrici di fondi comunitari o degli organismi di controllo della loro
gestione sono tenuti, sulla base della normativa relativa all’obbligo in questione
applicabile ai soggetti operanti all’interno delle varie Amministrazioni interessate, a
denunciare al Pubblico Ministero contabile eventuali danni erariali connessi
all’utilizzo dei fondi in parola.
Occorre precisare, infine, che gli addetti alle strutture i quali, nell’ambito delle
Amministrazioni Pubbliche, effettuano il controllo di gestione, la valutazione dei
dirigenti ed il controllo strategico, sono esonerati dall’obbligo di denuncia ai sensi
dell’articolo 1, comma 6, del Decreto Legislativo nr. 286 del 1999; ciò non esclude,
tuttavia, in presenza dei relativi presupposti, la sussistenza di un obbligo di denuncia
62
di eventuali danni erariali in capo ai titolari degli uffici o organi destinatari delle
relazioni e dei referti attinenti alle menzionate tipologie di controllo.
In merito alle conseguenze che possono scaturire dall’omessa o ritardata denuncia del
danno erariale, la normativa si presenta alquanto severa e rigorosa: in tale contesto,
devono essere distinte due diverse ipotesi, nel senso che la prima prevede il concorso
nel giudizio di responsabilità amministrativa, instaurato a carico dell’autore
dell’illecito esiziale, del soggetto che ha omesso la denuncia, mentre la seconda
sancisce addirittura la sostituzione del responsabile principale del danno con il
dipendente che ha omesso o ritardato la denuncia; il discrimine tra le due
configurazioni normative è rappresentato dalla circostanza che l’azione nei confronti
del responsabile principale della fattispecie pregiudizievole risulti prescritta o meno.
La prima ipotesi descritta si ricollega al disposto degli articoli 83 del R.D. nr. 2440
del 1923, 53 del R.D. nr. 1214 del 1934 e 20 del D.P.R. nr. 3 del 1957, i quali, con
formulazione pressoché analoga, stabiliscono che ove in sede di giudizio si accerti
che la denuncia fu omessa per dolo o colpa grave, la Corte può condannare al
risarcimento anche i responsabili dell’omissione, sul presupposto che l’azione nei
confronti del responsabile principale non sia ancora prescritta; siamo, quindi, in
presenza di un concorso del soggetto che ha omesso la denuncia, il quale può essere
condannato a risarcire una quota del danno cagionato dal responsabile principale.
La seconda ipotesi, diversamente dalla prima, si fonda sulla previsione contenuta
nell’articolo 1, comma 3, della Legge nr. 20 del 1994, secondo cui qualora la
prescrizione del diritto al risarcimento sia maturata a causa di omissione o ritardo
della denuncia del fatto, rispondono del danno erariale i soggetti che hanno omesso o
ritardato la denuncia. In tali casi, l’azione è proponibile entro cinque anni dalla data
in cui la prescrizione è maturata; trattasi, chiaramente, di una vera e propria
surrogazione, ai fini del risarcimento, del responsabile principale del nocumento con
il soggetto che ha omesso o anche solo ritardato la denuncia.
Quest’ultima normativa, introdotta a partire dalla Legge nr. 20 del 1994, si appalesa
molto più gravosa della prima, sul rilievo che, una volta perfezionatasi la prescrizione
dell’azione nei confronti del responsabile principale, vi è una sostituzione completa
del soggetto tenuto al risarcimento dell’intero danno che diviene colui che ha omesso
o ritardato la denuncia, comincia a decorrere, inoltre, a carico di quest’ultimo un
nuovo periodo prescrizionale pari a cinque anni, ed, infine, la fattispecie risulta
integrata anche dal mero ritardo della denuncia, laddove nel caso del concorso il
riferimento è alla sola omissione; tale accentuato rigore testimonia, in via diretta ed
immediata, l’estrema rilevanza che il legislatore annette all’adempimento sollecito
dell’obbligo di denuncia, atteso che soltanto con la celere trasmissione della notizia
del danno alla Procura della Corte dei Conti, l’Ufficio Requirente può essere messo
in condizione di esercitare tempestivamente, senza esporsi all’eventuale declaratoria
di prescrizione, l’azione di responsabilità nei confronti dell’autore dell’illecito,
garantendo in tal modo il ripristino del pregiudizio patrimoniale subito dal pubblico
erario.
La disposizione dell’articolo 1, comma 3, della prefata Legge nr. 20 trova frequente
applicazione nei giudizi di responsabilità amministrativa, anche nell’ottica del danno
63
indiretto correlato alla soccombenza dell’Amministrazione nella controversia
instaurata dal privato per il risarcimento del danno; tra le più recenti Decisioni in
materia, merita richiamare la Sentenza della Sezione Giurisdizionale per la Regione
Veneto, nr. 1010 del 2005, la quale, tra l’altro, ha statuito che la responsabilità per
omessa denuncia di fatti dannosi alla Corte dei Conti ha natura subordinata e può
ritenersi sussistente solo quando venga accertata quella principale, anche con un
giudizio avente natura ipotetica, secondo il criterio noto alla scienza penalistica della
prognosi postuma; conseguentemente, soggiunge la pronuncia in parola, è necessario
accertare, in base agli elementi di prova forniti dalle parti, la sussistenza di tutti gli
elementi costitutivi della responsabilità amministrativa in capo all’autore dell’illecito
principale, non denunciato dall’autore dell’omissione o denunciato con un ritardo tale
da non consentire il tempestivo esercizio dell’azione da parte della Procura della
Corte dei Conti.
Necessaria al fine in discorso è anche la collaborazione di due nuovi organismi: da
una parte, l’Alto Commissario per la prevenzione ed il contrasto della corruzione e
delle altre forme di illecito all’interno della Pubblica Amministrazione, istituito con
la Legge nr. 3 del 2003, che è tenuto a denunciare al Pubblico Ministero contabile
possibili ipotesi di responsabilità amministrativa, che potrebbero emergere
nell’ambito di accertamenti diretti o delegati presso gli Enti pubblici, dall’altra,
l’Ispettorato operante presso il Dipartimento della Funzione pubblica, ai sensi
dell’articolo 60, comma 6, del Decreto Legislativo nr. 165 del 2001, le cui
competenze sono state, recentemente, ampliate dall’articolo 10 bis del D.L. nr. 203
del 2005, convertito dalla Legge nr. 248 del 2005, che ha previsto, tra l’altro, un
obbligo di denuncia da parte degli ispettori all’Ufficio Requirente presso la Corte dei
Conti, di irregolarità, ritardi ed inadempienze riscontrati nelle Amministrazioni
Pubbliche, anche a seguito di segnalazioni di privati cittadini o dipendenti pubblici,
dai quali possano derivare danni alle stesse. Al riguardo, preme evidenziare che
l’Alto Commissario per la prevenzione ed il contrasto della corruzione e delle altre
forme di illecito all’interno della Pubblica Amministrazione è stato soppresso per
effetto dell’articolo 68, comma 6, del D.L. nr. 112 del 2008, convertito dalla Legge
nr. 133 del 2008; le relative funzioni sono state trasferite al Ministro competente che
può delegare un Sottosegretario di Stato.
Non bisogna, poi, dimenticare l’indispensabile raccordo che deve sussistere tra
l’azione del Pubblico Ministero penale e quello presso il Giudice contabile, realizzato
attraverso l’informativa contemplata dall’articolo 129, comma 3, delle norme di
attuazione del Codice di Procedura Penale, da parte del primo in merito all’esercizio
dell’azione penale, nel caso di reati che hanno cagionato un danno all’erario; non
risolta sotto il profilo normativo appare, peraltro, la situazione connessa a
provvedimenti di archiviazione per fatti da cui risultino, comunque, figure di
nocumento erariale, per le quali, nella prassi, numerosi Pubblici Ministeri penali
inoltrano, in ogni caso, la predetta comunicazione alle Procure Regionali della Corte
dei Conti, e ciò nella prospettiva di una più efficace ed anticipata assunzione di
iniziative, anche di natura cautelare, da parte dell’Ufficio Requirente presso il
Giudice contabile. Degne di menzione si appalesano, infine, le disposizioni contenute
64
nell’articolo 6 della Legge nr. 97 del 2001 che prevede, nel caso di condanna di
dipendenti pubblici per i delitti di cui al capo I del titolo II del libro secondo del
Codice Penale, commessi ai fini patrimoniali, la trasmissione della Sentenza, anche
non definitiva, al Procuratore Generale della Corte dei Conti, che procede ad
accertamenti patrimoniali a carico del condannato, e nel successivo articolo 7 che
stabilisce la comunicazione della Sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei
confronti dei predetti dipendenti, per i delitti contro la Pubblica Amministrazione di
cui al capo sopra indicato, al competente Procuratore Regionale della Corte dei Conti
affinché promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per
danno erariale a carico del condannato.
Come già esposto in precedenza, a seguito dei ripetuti interventi negli ultimi anni
delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, e della norma contemplata dal citato
articolo 16 bis del D.L. nr. 248 del 2007, convertito dalla Legge nr. 31 del 2008,
risulta ormai sufficientemente consolidata l’affermazione che postula la giurisdizione
della Corte dei Conti in merito alla responsabilità di amministratori e dipendenti di
Enti pubblici economici e di società a partecipazione pubblica, per i danni cagionati
dai menzionati soggetti nell’esercizio delle loro funzioni; tale assunto pone, infine, la
necessità di individuare coloro che, all’interno di tali Enti, sono tenuti all’obbligo di
denuncia. Al riguardo, merita richiamare la recente circolare del Procuratore
Generale presso la Corte dei Conti, nr. 9434/2007/P del 02.08.2007, che ha operato
una pregevole ricostruzione complessiva della materia; secondo la predetta circolare,
nelle società regolate dal sistema tradizionale di amministrazione e controllo (articoli
2380 bis – 2409 septies del Codice Civile), è da ritenersi obbligato alle denunce in
parola, in primo luogo, il Consiglio di amministrazione, Organo al quale spetta, di
regola, in via esclusiva e con metodo collegiale, la gestione dell’impresa (salvo
deleghe, in tal caso il soggetto delegato è tenuto, ai sensi dell’articolo 2381, comma
5, del Codice Civile, a riferire al Consiglio almeno ogni sei mesi sull’andamento della
gestione e, perciò, anche riguardo a possibili fatti dannosi per la società). In
particolare, ai fini in discorso, viene in rilievo l’articolo 2392, comma 2, del Codice
Civile, che prevede la responsabilità degli amministratori “se essendo a conoscenza
di fatti pregiudizievoli non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento
o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”. Analogo obbligo di denuncia
spetta al Collegio sindacale, visti i doveri e poteri di vigilanza (articoli 2403 e 2403
bis del Codice Civile) e le connesse responsabilità (articolo 2407, comma 2, del
Codice Civile, che dispone nel senso che i sindaci “sono responsabili solidalmente
con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si
sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro
carica”), oltre che ai soggetti tenuti al controllo contabile (articolo 2409 bis del
Codice Civile), considerato il rinvio al regime della responsabilità dei sindaci
(articolo 2409 sexies del Codice Civile).
Nelle società rette dal sistema dualistico (articoli 2409 octies – 2409 quinquiesdecies
del Codice Civile) l’obbligo in questione può ritenersi gravante, in primo luogo, sul
Consiglio di gestione, che esercita, sostanzialmente, le funzioni di un Consiglio di
amministrazione. In particolare, per i componenti del Consiglio di gestione, il
65
legislatore richiama espressamente (articolo 2409 undecies del Codice Civile) il
regime della responsabilità degli amministratori delle società regolate dal sistema
tradizionale (articolo 2392 del Codice Civile). Sono, parimenti, obbligati i soggetti
addetti al controllo contabile (visto il rinvio operato dall’articolo 2409
quinquiesdecies del Codice Civile all’articolo 2409 sexies in materia di responsabilità
dei soggetti incaricati del controllo contabile nelle società governate dal sistema
tradizionale) ed il Consiglio di sorveglianza, che esercita, tra l’altro, funzioni di
vigilanza analoghe a quelle del Collegio sindacale (in dettaglio, è tenuto a denunciare
al Tribunale, ex articolo 2409 del Codice Civile, i casi di gravi irregolarità nella
gestione) e può promuovere azione di responsabilità nei confronti dei componenti del
Consiglio di gestione (articolo 2409 terdecies, comma 1, lettera d), del Codice
Civile). I componenti del Consiglio di sorveglianza sono soggetti ad una
responsabilità analoga a quella gravante sui sindaci (articolo 2409 terdecies, comma
3, del Codice Civile).
Nell’ipotesi di regime a sistema monistico (articoli 2409 sexiesdecies – 2409
noviesdecies del Codice Civile), sono tenuti all’obbligo di denuncia il Consiglio di
amministrazione (visto il rinvio al regime della responsabilità degli amministratori
delle società regolate dal sistema tradizionale, operato dall’articolo 2409
noviesdecies, comma 1, del Codice Civile), il Comitato per il controllo sulla gestione
(considerate le funzioni di vigilanza esercitate ai sensi dell’articolo 2409 octiesdecies,
comma 5, lettera b), del Codice Civile) ed i soggetti addetti al controllo contabile
(tenuto conto del rinvio, di cui all’articolo 2409 noviesdecies del Codice Civile, al
regime della responsabilità dei soggetti incaricati del controllo contabile nelle società
regolate dal sistema tradizionale).
Con riferimento agli Enti pubblici economici, l’obbligo in questione deve ritenersi
faccia capo ai titolari degli Organi che, secondo i rispettivi ordinamenti, esercitano
funzioni di amministrazione e controllo; ciò in quanto è implicito nel rapporto che
lega i titolari degli stessi all’Ente, il dovere di quest’ultimi (desumibile dall’articolo
2104 del Codice Civile) di agire per eliminare o attenuare gli effetti di comportamenti
dannosi sofferti dal soggetto nel cui interesse operano. Quanto detto vale anche per i
titolari degli Organi di amministrazione e controllo delle Aziende speciali ed
Istituzioni che fanno capo alle Regioni ed agli Enti locali.
20. La ritenuta cautelare ed il fermo amministrativo
In relazione al combinato disposto dell’articolo 73 del R.D. nr. 2440 del 1923 e
dell’articolo 1 del R.D.L. nr. 295 del 1939, l’Ente danneggiato, per il recupero dei
crediti derivanti da responsabilità dei funzionari, impiegati ed agenti dello Stato civili
e militari, compresi quelli dell’ordine giudiziario e quelli retribuiti da
Amministrazioni ad ordinamento autonomo, i quali, per il servizio loro affidato,
hanno gestione di pubblico denaro o di qualunque altro valore o materia, può
assoggettare a ritenuta, in base all’accertamento del danno in via amministrativa, nei
limiti del quinto, gli stipendi ed assegni equivalenti, le indennità di fine servizio
comunque denominate, le pensioni e le indennità una volta tanto che tengono luogo
di esse, dovuti ai predetti funzionari, impiegati ed agenti. Le ritenute in parola
cessano di avere effetto se, entro sei mesi dalla data di adozione del provvedimento
66
che le dispone, non sia iniziato il giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei
Conti o presentata richiesta da parte dell’Amministrazione alla Procura Regionale
della Corte stessa per il sequestro. La giurisdizione in materia, con riferimento alla
verifica di legittimità, ad iniziativa dell’interessato, in merito alle citate ritenute
cautelari, le quali possono essere applicate, come precisato dalla giurisprudenza
contabile, non solo nei confronti degli agenti contabili in senso stretto, ma anche nei
confronti di coloro cui vengono rivolti addebiti di responsabilità amministrativa (ex
multis Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza nr. 362 del 1999), spetta
pacificamente alla Corte dei Conti in base agli articoli 57 del R.D. nr. 1038 del 1933
e 58 del R.D. nr. 1214 del 1934.
In tale contesto, non è superfluo rammentare che la giurisprudenza prevalente della
Corte dei Conti ha ritenuto anche il vaglio di legittimità concernente il
provvedimento di fermo emesso dall’Amministrazione ai sensi dell’articolo 69,
comma 6, del R.D. nr. 2440 del 1923, qualora abbia ad oggetto esclusivamente i
suddetti emolumenti dovuti al dipendente, demandato alla giurisdizione del Giudice
contabile, essendo sostanzialmente assimilabile allo strumento della ritenuta cautelare
di cui al prefato articolo 1 del R.D.L. nr. 295 del 1939 (ex multis I Sezione
Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 329 del 2007, Sezione Giurisdizionale Emilia
Romagna, Sentenza nr. 2158 del 2003, Sezione Giurisdizionale Lombardia, Sentenze
nr. 1581 del 2004 e nr. 246 del 2006, Sezione Giurisdizionale Sicilia, Sentenza nr.
2757 del 2007); al riguardo, preme sottolineare che la richiamata assonanza di tale
tipologia di fermo amministrativo alla fattispecie in precedenza delineata, comporta
che la ritenuta in parola cesserà di avere effetto entro sei mesi dalla data di
emanazione del relativo provvedimento, ove non sia iniziato il giudizio di
responsabilità dinanzi alla Corte dei Conti o non sia stata presentata istanza di
sequestro. Non mancano, tuttavia, pronunce che negano la giurisdizione della Corte
dei Conti nell’ipotesi in cui la ritenuta cautelare sui diversi emolumenti sia disposta
con provvedimento di fermo amministrativo in senso proprio, adottato in base al
predetto articolo 69, comma 6, del R.D. nr. 2440 del 1923 (ex multis I Sezione
Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 19 del 2004).
B. PROFILI PROCESSUALI
1. Potere sindacatorio
Relativamente al giudizio di responsabilità amministrativa e contabile, occorre
premettere, in via preliminare, che trattasi di un procedimento ritenuto pacificamente
dalla dottrina di tipo tendenzialmente inquisitorio, in quanto la promozione
dell’azione è affidata ad un organo pubblico, il Pubblico Ministero, che ha l’obbligo
di esercitare l’azione di responsabilità, ricorrendone i presupposti, d’ufficio, con il
corollario che la stessa assume i caratteri dell’officialità, obbligatorietà,
indisponibilità, poiché finalizzata alla realizzazione del superiore interesse pubblico;
alla Sezione Giurisdizionale, inoltre, sebbene non siano mancate pronunce di
contrario avviso (ex multis III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenze nr. 300 del
2002 e nr. 554 del 2004) dopo l’entrata in vigore della Legge Costituzionale nr. 2 del
67
1999 che ha modificato l’articolo 111 della Carta, in tema di principi inerenti al
cosiddetto “giusto processo”, è riconosciuta la facoltà, secondo gli approdi della
giurisprudenza prevalente (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr.
1 del 2005, II Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenze nr. 64 e nr. 167 del 2003,
III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 244 del 2003, Sezione
Giurisdizionale Veneto, Sentenza nr. 1237 del 2004, Sezione Giurisdizionale
Lombardia, Sentenza nr. 168 del 2005) di verificare l’effettiva attuazione di detto
interesse, con ampi poteri di assunzione di mezzi di prova, integrazione del
contraddittorio, estensione ad altri soggetti del giudizio, che vengono ricondotti
unitariamente al tipico “potere sindacatorio” intestato al Giudice contabile, quale
delineato dall’articolo 73 del R.D. nr. 1214 del 1934 e dagli articoli 14, 15 e 47 del
R.D. nr. 1038 del 1933. Tutto ciò al di là di quanto dedotto nel processo dalle parti
che non dispongono, pertanto, del giudizio e non sono in grado di condizionarne lo
svolgimento, come avviene, invece, nel processo civile ove vige il diverso principio
dispositivo. Al riguardo, merita evidenziare che la Corte Costituzionale, con
l’Ordinanza nr. 68 del 2007, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della
questione di legittimità costituzionale del predetto articolo 14 del R.D. nr. 1038 del
1933, sollevata, con riferimento agli articoli 24 e 111 della Carta, dalla III Sezione
Giurisdizionale Centrale della Corte dei Conti.
Soffermandosi su alcuni aspetti specifici connessi con l’esercizio del potere
sindacatorio, preme rilevare che in base alla prevalente giurisprudenza (ex multis
Sezione Giurisdizionale Sicilia, Sentenza nr. 390 del 1999) il Giudice contabile, ai
sensi degli articoli 14 e 15 del R.D. nr. 1038 del 1933, ha soltanto il potere di
integrare la prova, che il Procuratore Regionale ha invece il dovere istituzionale di
fornire in maniera piena ed esaustiva, ovvero di dedurre almeno un principio di
prova, mentre non ha il compito di sostituirsi all’Ufficio Requirente
nell’adempimento del suo dovere d’ufficio, quando non vi provveda neanche dopo
l’espresso invito rivolto dal Collegio con apposita Ordinanza. Relativamente
all’ipotesi di mancata ottemperanza dell’ordine del Giudice contabile che abbia
disposto la chiamata in causa di litisconsorti facoltativi, consegue, secondo
l’orientamento più accreditato (ex multis III Sezione Giurisdizionale Centrale,
Sentenza nr. 177 del 2003), non l’estinzione del processo ai sensi dell’articolo 307
del Codice di Procedura Civile, ma, in applicazione dell’articolo 270, comma 2, del
suddetto Codice, la cancellazione della causa dal ruolo con successiva estinzione in
caso di mancata riassunzione entro un anno dalla comunicazione dell’Ordinanza in
questione, fermo restando che, nel caso in cui il processo prosegua, non si verifica
alcun vizio della Sentenza che definisce il processo, potendosi ritenere che il
provvedimento di chiamata in causa sia stato in tal modo revocato per “facta
concludentia”; non mancano, tuttavia, indirizzi interpretativi di contrario avviso (ex
multis III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 307 del 2001).
In definitiva, il descritto potere sindacatorio, prescindendo da alcune oggettive
criticità con specifico riferimento alla chiamata in causa del terzo per ordine del
Giudice ai sensi dell’articolo 47 del R.D. nr. 1038 del 1933, non solleva, secondo la
prevalente giurisprudenza e la dottrina più attenta, problemi di compatibilità con la
68
disciplina del “giusto processo” contemplata nell’articolo 111 della Costituzione,
purché si estrinsechi come intervento integrativo delle allegazioni di parte, tenendo
conto, peraltro, che i poteri istruttori del Giudice contabile sono sostanzialmente
coincidenti con quelli riconosciuti al Giudice civile dal Codice di Procedura Civile;
del resto, siffatto potere intestato al Giudice contabile può valorizzarsi anche come
strumento di attuazione del principio di piena proporzionalità nel giudizio di
responsabilità, connotato dalla presenza di una parte pubblica certamente dotata di
strumenti processuali più incisivi ed efficaci rispetto a quelli utilizzabili dal
convenuto. Fermo restando, pertanto, l’onere di allegazione della parte privata
convenuta in giudizio e l’obbligo della medesima di attivarsi tempestivamente nei
limiti della ragionevole esigibilità per rassegnare deduzioni difensive puntuali ed
analitiche, il Collegio può intervenire con il potere sindacatorio per superare
eventuali situazioni di disparità di trattamento del privato rispetto all’Ufficio
Requirente nei confronti dell’Amministrazione, integrando, con specifica attività
istruttoria disposta d’ufficio, le allegazioni difensive del convenuto, di cui questi
dimostri l’eccessiva onerosità o l’impossibilità a svilupparle autonomamente;
ovviamente, in aderenza al principio di parità delle parti, il menzionato potere
sindacatorio può essere esercitato anche per integrare elementi di accusa incompleti,
qualora l’incompletezza non sia imputabile a negligenza o inerzia della Procura
Regionale e laddove, comunque, la parte pubblica abbia fornito un reale e consistente
principio di prova. In tale ultima evenienza, tuttavia, il pericolo sempre presente di
violare i principi di terzietà ed imparzialità del Giudice dovrebbe indurre il Collegio
ad esercitare nel giudizio di responsabilità il proprio potere sindacatorio,
riconosciutogli espressamente dall’ordinamento vigente, con la massima prudenza e
ponderazione in funzione delle circostanze che connotano la fattispecie concreta.
2. Rapporti con altri giudizi
La questione dei rapporti tra il giudizio di responsabilità amministrativa e contabile
ed il giudizio penale o civile sui medesimi fatti fonti di danno erariale, si presenta
alquanto dibattuta ed anche il quadro giurisprudenziale denota notevoli oscillazioni
interpretative; i contrasti nascono in quanto, venuta meno la pregiudiziale penale con
l’entrata in vigore del nuovo Codice di Procedura Penale, si è affermato il principio di
autonomia e separatezza di ciascun giudizio. In tale direzione, giova rammentare il
canone espresso in numerose pronunce dalle Sezioni Unite Civili della Corte di
Cassazione (ex multis Ordinanza nr. 20343 del 2005, Sentenza nr. 28048 del 2008),
le quali hanno affermato in modo netto che giurisdizione penale e giurisdizione civile
per il risarcimento dei danni, da una parte, e giurisdizione contabile, dall’altra, sono
reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, anche quando investono uno
stesso fatto materiale, dal momento che l’interferenza può avvenire tra i giudizi ma
non tra le giurisdizioni. Del resto, le medesime Sezioni Unite, nell’Ordinanza nr.
4957 del 2005, hanno considerato inammissibile il ricorso con il quale si denunciava
la presunta consumazione dell’azione di responsabilità esercitata innanzi alla Corte
dei Conti in conseguenza dell’avvenuto esercizio, in altra sede, di analoga azione
esercitata dall’Amministrazione danneggiata, non rilevando la questione in termini di
riparto di giurisdizione, ma di limiti alla proponibilità della prima e, quindi,
69
concernendo la deduzione di pretesa violazione dei limiti interni della giurisdizione
stessa; la realizzazione del divieto del “ne bis in idem”, hanno concluso le Sezioni
Unite, compete in definitiva al Giudice di merito.
Ne discende che, laddove vi sia costituzione di parte civile dell’Ente pubblico nel
procedimento penale, per le fattispecie penalmente rilevanti, ovvero citazione, da
parte dell’Amministrazione danneggiata, del proprio agente dinanzi al Giudice
ordinario per responsabilità extracontrattuale, che si affianca all’esercizio dell’azione
di responsabilità promossa dal Procuratore della Corte dei Conti a seguito della
denuncia di danno, potrebbero delinearsi ipotesi di contrasto di giudicati o di doppia
condanna, nonché una possibile violazione del principio del “ne bis in idem”.
Premesso che, in ogni caso, deve essere ritenuto immanente nella fase esecutiva il
limite costituito dal divieto della doppia condanna, atteso che il responsabile del
nocumento è tenuto a risarcire il danno effettivamente cagionato nell’esercizio delle
proprie funzioni, ma non può essere chiamato a corrispondere somme superiori al
pregiudizio patito dall’Amministrazione pubblica, come definito dal Giudice
contabile, la giurisprudenza della Cassazione non ha ancora raggiunto, sullo specifico
punto concernente il rapporto tra giudizi diversi simultaneamente incardinati,
conclusioni convergenti e stabili; se, per un verso, la Corte di legittimità propugna in
alcune pronunce (Sezioni Unite Civili, Sentenze nr. 933 del 1999 e nr. 5288 del 2001)
l’esclusività della giurisdizione contabile, dichiarando che costituisce principio
pacifico che la giurisdizione della Corte dei Conti è tale, nel senso che è l’unico
Organo giudiziario che può decidere nelle materie devolute alla sua cognizione, con
la conseguenza che “va esclusa una concorrente giurisdizione del Giudice ordinario,
adito secondo le regole normali applicabili in tema di responsabilità e di rivalsa”, per
altro verso, la stessa Corte, in altre occasioni (Sezioni Unite Civili, Sentenza nr.
20476 del 2005), ha precisato che la giurisdizione della Corte dei Conti in materia di
responsabilità amministrativa, in base alla giurisprudenza della Corte Costituzionale,
è solo tendenzialmente generale, con la conseguenza che la giurisdizione in tema di
risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, da reato, spetta al Giudice ordinario,
ponendosi gli articoli 74 e seguenti del Codice di Procedura Penale in rapporto di
specie a genere rispetto alla disciplina della responsabilità amministrativa. Il vecchio
Codice di Procedura Penale prevedeva la citata pregiudizialità penale, che era un
modo per assicurare la prevalenza di una pronuncia giudiziale (quella del Giudice
penale) su tutte le altre; venuto meno siffatto principio, la parità delle giurisdizioni ha
portato alla conseguenza che, come riconosciuto dalla stessa Corte Costituzionale
nella Sentenza nr. 233 del 2003, perfino la possibilità di giudicati contrastanti in
relazione al medesimo fatto costituisce evenienza da considerarsi ormai fisiologica,
tenuto conto che il legislatore, introducendo il canone della separatezza dei giudizi,
avrebbe inteso privilegiare, secondo autorevole dottrina, la rapidità dei singoli
processi anche correndo il rischio della contraddittorietà dei giudicati. Nella cennata
cornice ricostruttiva, le uniche certezze che è possibile tratteggiare, all’esito della
descritta ricognizione, relativamente al problema dell’interferenza tra due differenti
giudizi eventualmente in corso per il medesimo fatto, riguardano l’efficacia della
Sentenza penale definitiva, di condanna o di assoluzione, resa a seguito del
70
dibattimento o del giudizio abbreviato, nel giudizio di responsabilità amministrativa e
contabile, ai sensi degli articoli 651 e 652 del Codice di Procedura Penale, nonché la
preclusione dell’azione di responsabilità in presenza del giudicato penale che abbia
liquidato il danno erariale, in base al chiaro assunto esplicitato nella Sentenza della
Corte Costituzionale nr. 773 del 1988 (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale,
Sentenza nr. 2 del 2003, III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenze nr. 392 del
2003 e nr. 183 del 2006, Sezione Giurisdizionale Basilicata, Sentenza nr. 49 del
2005), sul rilievo che la pronuncia irrevocabile del Giudice penale che abbia statuito
anche sul danno erariale, determinandone il suo esatto ammontare, comporta una
sopravvenuta carenza di interesse ad agire da parte del Procuratore della Corte dei
Conti laddove sia avvenuto l’effettivo ristoro di siffatto pregiudizio. Al riguardo,
merita evidenziare, tuttavia, il contenuto della Sentenza della Corte Costituzionale nr.
272 del 2007, nella quale la Consulta chiarisce, da una parte, che l’articolo 75 del
Codice di Procedura Penale si applica esclusivamente al giudizio civile, rimanendo
estraneo al giudizio dinanzi alla Corte dei Conti, con il corollario che nell’ambito di
quest’ultimo non si pongono questioni di sospensione laddove vi sia stata
costituzione di parte civile dell’Amministrazione danneggiata nel procedimento
penale, dall’altra, che in tali casi è possibile invocare, quale norma di raccordo tra
giurisdizione ordinaria e contabile, la disposizione di cui all’articolo 538, comma 2,
del suddetto Codice, in base alla quale il Giudice penale, se pronuncia condanna
dell’imputato al risarcimento del danno, provvede altresì alla liquidazione, salvo che
sia prevista la competenza di altro Giudice; la deroga contemplata dalla norma è
certamente riconducibile al giudizio contabile, per cui appare ragionevole ritenere che
la Corte Costituzionale, con il richiamo diretto al citato articolo 538, comma 2, abbia
inteso fissare il principio secondo cui la quantificazione del danno da imputare al
responsabile del nocumento compete esclusivamente alla Corte dei Conti.
Relativamente alle Sentenze di “patteggiamento” dinanzi al Giudice penale, giova
sottolineare che la giurisprudenza della Corte dei Conti, in linea con l’orientamento
della Corte di Cassazione, ha costantemente affermato negli ultimi tempi il canone in
base al quale alle suddette pronunce, rese ai sensi dell’articolo 444 del C.P.P., deve
essere attribuito l’effetto di provare, nel processo contabile, l’illiceità dei fatti e la
colpevolezza del presunto responsabile, che, di conseguenza, sarà tenuto a fornire gli
elementi probatori necessari a discolparsi (ex multis I Sezione Giurisdizionale
Centrale, Sentenze nr. 187 del 2003, nr. 149 del 2004, nr. 68 e nr. 109 del 2006); al
riguardo, appare eloquente la massima delle Sentenze della Corte di legittimità, V
Sezione civile, nr. 19251 del 2005 e III Sezione civile, nr. 10847 del 2007, dove il
Collegio ha evidenziato che la Sentenza penale di applicazione della pena su richiesta
delle parti costituisce indiscutibile elemento di prova per il Giudice di merito, il
quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le
ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il
Giudice penale avrebbe prestato fede a tale ammissione, con il corollario che siffatto
riconoscimento, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del
giudicato, ben può essere utilizzato dal Giudice per sostenere la colpevolezza, in altro
71
giudizio, del soggetto nei confronti del quale la Sentenza di “patteggiamento” è stata
pronunciata, anche in assenza di ulteriori riscontri.
Ciò detto, i principali referenti normativi attinenti al profilo processuale si
rinvengono nel T.U. approvato con R.D. nr. 1214 del 1934, nel Regolamento di
procedura di cui al R.D. nr. 1038 del 1933 e nel D.L. nr. 453 del 1993, convertito
dalla Legge nr. 19 del 1994, come modificato dal D.L. nr. 543 del 1996, convertito
dalla Legge nr. 639 del 1996; l’articolo 26 del predetto Regolamento, in particolare,
rinvia con una norma di chiusura di carattere generale alle disposizioni contenute nel
Codice di Procedura Civile, per tutti gli aspetti non disciplinati dalle richiamate fonti
specifiche.
3. La competenza territoriale
Preliminarmente occorre soffermarsi sulla questione inerente all’individuazione della
competenza territoriale delle Sezioni Giurisdizionali di primo grado, la quale assume
una rilevanza notevole nel giudizio di responsabilità amministrativa e contabile,
atteso che, essendo stata considerata di natura funzionale dalla giurisprudenza
assolutamente prevalente, la competenza per territorio del Giudice contabile non è
derogabile, con il corollario che l’incompetenza può essere dichiarata d’ufficio a
prescindere dalla rituale eccezione della parte convenuta (ex multis I Sezione
Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 219 del 2005). Il riparto di competenza tra le
varie Sezioni territoriali della Corte dei Conti è stato operato dalla suddetta Legge nr.
19 del 1994 attraverso il richiamo (articolo 1, comma 3, del D.L. nr. 453 del 1993)
all’articolo 2 della Legge nr. 658 del 1984, che ha istituito, in epoca antecedente al
complessivo decentramento del Giudice contabile avvenuto nel 1994, la Sezione
Giurisdizionale per la Regione Sardegna. La lettera a) del primo comma del
menzionato articolo 2 delinea un criterio di competenza soggettivo: sono attribuiti
alla Sezione territoriale i giudizi di conto e di responsabilità ed i giudizi ad istanza di
parte in materia di contabilità pubblica riguardanti i tesorieri e gli altri agenti
contabili, gli amministratori ed i funzionari ed agenti della Regione, delle Province,
dei Comuni e degli altri Enti locali, nonché degli Enti regionali; spettano alla Sezione
territoriale, pertanto, i giudizi in materia di contabilità pubblica attinenti ai soggetti
legati da rapporto d’impiego o di servizio (anche di fatto) con gli Enti rappresentativi
della collettività di quella Regione o con Enti regionali, ovviamente per l’attività
connessa allo svolgimento del rapporto d’impiego o di servizio. Più articolata è la
disposizione legislativa di cui alla lettera b) del primo comma del prefato articolo 2,
che riguarda il riparto di competenza, all’epoca tra la Sezione Giurisdizionale per la
Regione Sardegna e le Sezioni Centrali, ora tra le diverse Sezioni territoriali nelle
ipotesi in cui il soggetto agente sia legato da rapporto d’impiego o di servizio con lo
Stato o con altro Ente pubblico a carattere nazionale o sovraregionale. Anche la
prima parte di quest’ultima norma fissa un criterio di attribuzione di competenza alla
Sezione Regionale del tutto analogo a quello previsto dalla lettera a): appartengono
alla Sezione territoriale, infatti, i giudizi in materia di contabilità pubblica nei
confronti di agenti contabili, amministratori o funzionari, impiegati ed agenti di uffici
ed organi dello Stato e di Enti pubblici aventi sedi o uffici nella Regione. Appare
evidente dalla stessa lettura della norma che il criterio soggettivo di attribuzione della
72
competenza si radica, in sostanza, sull’incardinazione del soggetto agente in un
ufficio od organo avente sede nella Regione al quale viene imputata l’attività svolta
dal soggetto agente; già è incisivamente indicativo in tal senso il fatto che mentre
nella lettera a) del primo comma del mentovato articolo 2 della Legge nr. 658 del
1984 vengono enumerati i vari qualificati soggetti degli Enti territoriali, nella lettera
b) viene invece precisato che i soggetti sono agenti contabili, amministratori o
funzionari, impiegati ed agenti di uffici ed organi dello Stato. Questa circostanza
indica che ai fini del riparto di competenza non è sufficiente il generico rapporto
organico con lo Stato, ma è anche necessaria l’incardinazione nell’ufficio o
nell’organo avente sede nella Regione; considerazioni del tutto analoghe si possono
esprimere, nella medesima prospettiva, per gli Enti pubblici a carattere nazionale o
sovraregionale.
La soluzione in precedenza tratteggiata è esaustiva nelle ipotesi in cui il danno sia
stato arrecato dal comportamento di uno o più soggetti incardinati nello stesso ufficio
o in uffici diversi siti nella medesima Regione; negli altri casi, laddove nella
fattispecie produttiva del nocumento abbiano concorso più comportamenti illeciti di
soggetti legati da rapporti d’impiego o di servizio con uffici od organi ubicati in
diverse Regioni, soccorre l’altro criterio, di natura oggettiva e complementare,
enucleato dalla seconda parte della richiamata lettera b) del primo comma
dell’articolo 2 in parola, incentrato sul momento di collegamento sussidiario che si
concretizza quando l’attività di gestione di beni pubblici si sia svolta nell’ambito del
territorio regionale, ovvero il fatto da cui deriva il danno si sia verificato nel territorio
della Regione. Si tratta delle ipotesi nelle quali il concorrere di più comportamenti
tenuti nel corso di un unico procedimento amministrativo, implica di necessità che
l’accertamento avvenga in un unico giudizio, in cui vengano singolarmente e
complessivamente valutati tutti gli elementi costitutivi della responsabilità.
Il principio che si riferisce alla territorialità dell’attività o del fatto causativo del
danno viene in rilievo, di conseguenza, quando nella produzione dell’evento di danno
confluiscano o concorrano più condotte tenute da soggetti incardinati in uffici siti in
più Regioni; in tale evenienza deve essere individuato, alla luce dell’atto introduttivo
del giudizio, quale tra le più condotte illecite sia stata quella che ha determinato
l’evento di danno, tenendo conto che il criterio discretivo, al riguardo, non può che
essere quello della resistenza o della sufficienza, sul rilievo che solo il
comportamento senza il quale il danno non si sarebbe in ogni caso verificato può
assurgere al rango di causa del nocumento.
Nei casi ora descritti, evidentemente, non è sufficiente il criterio di collegamento
soggettivo, ma nel concorrere di una pluralità di comportamenti illeciti, tutti correlati
alla fattispecie pregiudizievole, occorre invocare il canone oggettivo che radica
nell’attività o nel fatto ineliminabile ai fini dell’evento il momento di radicamento
della competenza, attribuita alla Sezione territoriale della Regione in cui è ubicato
l’ufficio, o la sede nella quale è incardinato il soggetto a cui è ascrivibile quella
specifica attività o fatto di per sé causativo del danno.
Siffatti essenziali principi in tema di competenza territoriale delle Sezioni
Giurisdizionali di primo grado, sono stati avallati anche dalle Sezioni Riunite della
73
Corte dei Conti, le quali, nella Sentenza nr. 4/QM/2002, hanno affermato, in
definitiva, che il criterio principale per l’attribuzione di competenza alle Sezioni
territoriali è costituito dall’incardinazione del pubblico amministratore o dipendente
supposto autore del comportamento illecito nella sede od ufficio ubicati nella
Regione; qualora nella produzione dell’evento dannoso concorrano o confluiscano
più comportamenti illeciti di soggetti incardinati presso uffici o sedi di diverse
Regioni, criterio ulteriore per stabilire il Giudice competente è rappresentato
dall’individuazione del fatto giuridico, o dell’attività gestoria, necessariamente
causativo del pregiudizio e la sua ascrizione al soggetto che lo ha posto in essere, in
forza dell’incardinazione presso una sede, un ufficio, un organo dello Stato o di un
Ente pubblico, con conseguenti effetti sulla competenza; in ipotesi di concentrazione
di più fattispecie di danno in un unico atto di citazione, infine, ove vengano
individuati più Giudici competenti, deve essere disposta la separazione delle cause,
che devono essere proposte autonomamente innanzi al Giudice competente,
considerata l’inderogabilità della competenza funzionale intestata alle Sezioni
Giurisdizionali di primo grado della Corte dei Conti.
4. Istruttoria del Pubblico Ministero contabile
Dopo questa ampia ed approfondita disamina sul crinale della competenza
territoriale, giustificata dalla centralità della tematica e dai suoi riflessi sul piano
processuale, preme sottolineare che il giudizio di responsabilità amministrativa e
contabile ha origine con la denuncia di danno, di cui il Procuratore Regionale venga a
conoscenza attraverso fonti ufficiali (segnalazioni delle Amministrazioni
danneggiate, rapporti delle Forze di Polizia, segnalazione degli Uffici di controllo
della stessa Corte dei Conti, informative di altri Organi Magistratuali tra i quali, come
in precedenza precisato, merita citare il Pubblico Ministero penale, ai sensi del
suddetto articolo 129, comma 3, delle norme di attuazione del Codice di Procedura
Penale) o informali (articoli di stampa, servizi televisivi, notizie di vario genere,
segnalazione di privati), in base alla quale sorge il suo potere-dovere di svolgere
accertamenti per appurare l’eventuale sussistenza di un pregiudizio patrimoniale ed
identificarne gli autori al fine di chiamarli a rispondere davanti al Giudice contabile,
per ottenerne la condanna al risarcimento del danno.
Nel corso delle istruttorie di sua competenza, il Procuratore Regionale può chiedere
in comunicazione, ai sensi dell’articolo 74 del R.D. nr 1214 del 1934, atti e
documenti in possesso di Autorità amministrative e giudiziarie e può, inoltre, disporre
accertamenti diretti; in base all’articolo 5, comma 6, del D.L. nr. 453 del 1993 può
ordinare l’esibizione di documenti, ispezioni ed accertamenti diretti presso
Amministrazioni Pubbliche ed i terzi contraenti o beneficiari di provvidenze
finanziarie a carico dei bilanci pubblici, nonché il sequestro dei documenti, audizioni
personali, perizie e consulenze. Altre fonti normative disciplinanti i poteri
dell’Ufficio Requirente nell’ambito dell’attività di accertamento dell’illecito erariale,
si rinvengono nell’articolo 2, comma 4, del prefato D.L. nr. 453 del 1993, in merito
alla possibilità di delegare adempimenti istruttori a funzionari delle Pubbliche
Amministrazioni e di avvalersi di consulenti tecnici, nel rispetto delle disposizioni di
cui all’articolo 73 del Decreto Legislativo nr. 271 del 1989, nonché nell’articolo 16,
74
comma 3, del D.L. nr. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, dalla Legge nr.
203 del 1991, il quale stabilisce che la Corte dei Conti nell’esercizio della sua attività
può disporre, anche a mezzo della Guardia di Finanza, ispezioni ed accertamenti
diretti presso le Pubbliche Amministrazioni ed i terzi contraenti o beneficiari di
provvidenze finanziarie a destinazione vincolata.
Le indagini del Pubblico Ministero si espletano su un piano di completa autonomia,
in quanto il potere-dovere del Procuratore Regionale trae origine in via immediata
dalla Legge e non può essere in alcun modo condizionato, né dai terzi né
dall’Amministrazione danneggiata; cosicché, ove, in ipotesi, quest’ultima non
dovesse ravvisare la presenza del danno erariale o la responsabilità del proprio
agente, l’Ufficio Requirente sarebbe libero, comunque, di verificare l’effettiva
situazione, formandosi il proprio convincimento circa l’esercizio o meno dell’azione
risarcitoria. A seguito di tale attività istruttoria, che si svolge su un piano antecedente
al processo, il Procuratore Regionale, in funzione degli elementi raccolti, può
decidere l’archiviazione della vertenza o l’avvio dell’azione di responsabilità
mediante atto di citazione a comparire davanti alla competente Sezione
Giurisdizionale.
L’attività del Pubblico Ministero contabile è mirata, specie negli ultimi anni, anche
alla tutela degli interessi dell’Unione Europea; un rilevante profilo di connessione
della funzione svolta dall’Ufficio Requirente con la sfera degli interessi di matrice
comunitaria è rappresentato dall’adozione, da parte della Commissione Europea,
della determinazione di recuperare direttamente a carico dello Stato membro gli
importi dei finanziamenti non andati a buon fine, o che hanno costituito oggetto di
frodi e di irregolarità. Ne discende che, oltre ad esigere che le frodi vengano
sollecitamente accertate e perseguite, l’Unione effettua il recupero dei relativi
importi, il che avviene attraverso trattenute sui successivi finanziamenti spettanti, allo
stesso titolo, allo Stato membro; si tratta, come appare evidente, di fattispecie che
meritano attenzione da parte del Pubblico Ministero contabile, nell’ottica del danno
erariale e della sua eventuale imputabilità. Ulteriori aspetti di attinenza dell’attività
dell’Ufficio Requirente agli interessi comunitari riguardano fatti, situazioni ed
evenienze riconducibili al paradigma dell’infrazione alle regole comunitarie; con
riferimento a siffatte violazioni, è opportuno evidenziare che la Corte di Giustizia
delle Comunità europee ha sollecitato in più occasioni la collaborazione dei Giudici
nazionali, e quindi dei sistemi di giustizia in cui essi operano, nell’individuazione dei
fenomeni di inosservanza del diritto comunitario e delle incertezze interpretative ed
applicative dello stesso. In conseguenza dell’accertamento dell’infrazione con
Sentenza della Corte di Giustizia, lo Stato può subire condanne pecuniarie ai sensi
dell’articolo 228 del Trattato, nonché subire condanne da parte di Giudici nazionali a
fronte di istanze risarcitorie di cittadini o imprese che, a causa della violazione,
abbiano visto ingiustamente compromessi i propri interessi. Questi due tipi di eventi,
implicando esborsi di denaro pubblico, integrano fattispecie di illeciti contabili, che
compete alla Corte dei Conti di accertare e perseguire nei riguardi degli
amministratori, funzionari ed agenti che, con il proprio comportamento, abbiano
determinato i presupposti dell’infrazione ovvero non l’abbiano impedita. La
75
menzionata Legge nr. 34 del 2008, dopo la parentesi costituita dai commi dal 1213 al
1223 della Legge nr. 296 del 2006, ora abrogati, ha previsto, inserendo il nuovo
articolo 16 bis nella Legge nr. 11 del 2005, un meccanismo innovativo di rivalsa
dello Stato nei confronti delle Regioni, delle Province Autonome, degli Enti locali e
degli altri Enti pubblici cui sia imputabile l’infrazione; ciò risolve il problema,
tuttavia, solo sul piano dei rapporti tra le diverse Istituzioni, ma non elimina
certamente il danno per le pubbliche finanze e per il cittadino contribuente, poiché
l’esborso dell’Ente pubblico finale rimane ingiusto rispetto all’obbligo della sana
gestione finanziaria, incombente sui pubblici operatori che agiscono per conto del
medesimo, con il precipitato che resta sempre salvo, di conseguenza, il principio della
doverosa e tempestiva individuazione dei responsabili tenuti al risarcimento del
nocumento.
5. Invito a dedurre
Nell’ambito delle varie fasi in cui si articola il procedimento di responsabilità, giova
porre l’accento, per i suoi notevoli riflessi prismatici e proteiformi, sull’innovativo
istituto dell’invito a dedurre. Prima della riforma del 1994 il Pubblico Ministero,
completata l’istruttoria, ove non avesse inteso disporre l’archiviazione, emetteva la
citazione “inaudita altera parte”, con la conseguenza che il convenuto non
partecipava minimamente alla fase istruttoria; ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del
D.L. nr. 453 del 1993, invece, prima di emettere l’atto di citazione in giudizio, il
Procuratore Regionale deve notificare al presunto responsabile del danno, a pena di
inammissibilità dell’azione, l’atto in parola con cui invita la parte privata a
depositare, entro un termine non inferiore a trenta giorni dalla notifica, le proprie
deduzioni ed eventuali documenti. Nello stesso termine il presunto responsabile può
chiedere di essere sentito personalmente. Il Procuratore Regionale emette l’atto di
citazione in giudizio entro centoventi giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle deduzioni da parte del presunto responsabile del danno. Eventuali
proroghe di quest’ultimo termine sono autorizzate dalla Sezione Giurisdizionale
competente, nella Camera di consiglio a tal fine convocata; la mancata autorizzazione
obbliga il Procuratore Regionale ad emettere l’atto di citazione ovvero a disporre
l’archiviazione entro i successivi quarantacinque giorni.
L’istituto dell’invito a dedurre ha formato oggetto di attenzione da parte della
giurisprudenza della Corte dei Conti, la quale ha elaborato nel corso degli anni, non
senza alcuni contrasti interpretativi poi sfociati nelle Decisioni delle Sezioni Riunite
in sede di risoluzione di questioni di massima, diversi principi basilari che meritano
di essere sottolineati: in primo luogo, il citato invito è stato definito (Sezioni Riunite,
Sentenze nr. 7/QM/1998 e nr. 14/QM/1998) atto procedimentale pre-processuale che
assolve alla duplice funzione di consentire all’invitato di svolgere le proprie
argomentazioni al fine di evitare la citazione in giudizio e di garantire, nel contempo,
la massima possibile completezza istruttoria, le esigenze di giustizia e di economia
processuale; e, pertanto, l’atto di citazione eventualmente proposto in carenza di tale
atto dovuto è inammissibile. Il Procuratore Regionale, soggiungono le prefate
Decisioni, non è obbligato a motivare, nell’atto di citazione, le ragioni per le quali
egli abbia, eventualmente anche in “toto”, disatteso le deduzioni fornite in risposta
76
all’invito a dedurre, atto che non determina l’insorgere di un improprio
contraddittorio pre-processuale che verrebbe a travalicare la funzione istituzionale di
acquisizione degli elementi probatori da sottoporre poi alla valutazione del Giudice,
potendo l’esame valutativo delle deduzioni dell’invitato essere espresso dal
Procuratore Regionale in modo sintetico od essere persino implicito. L’audizione
personale è inserita nel nuovo sistema procedimentale per soddisfare non solo ad
esigenze difensive dell’invitato, ma anche a quelle di una più consapevole ed
approfondita istruttoria, dovendosi considerare il diritto dell’invitato di chiarire
verbalmente la propria posizione in relazione agli addebiti contestati, non come
alternativo, ma congiunto a quello di presentare memorie scritte; e, pertanto, la
violazione di siffatto diritto comporta, al pari della mancanza dell’avviso a dedurre,
l’inammissibilità dell’atto di citazione. Attesa la duplice, concorrente funzione, di
garanzia e di istruttoria, da riconoscersi all’invito a dedurre, è da escludersi la
necessaria, piena e totale corrispondenza tra tale atto e la citazione, dovendo i nuovi
elementi di prova e di conoscenza acquisiti dal Procuratore Regionale in questa fase,
essere adeguatamente dallo stesso valutati ed essendo costituito il limite di variabilità
dell’atto di citazione unicamente dal quadro generale dell’ipotesi dannosa, che deve
essere rispettato nella sua essenza tipica, di modo che la citazione non decampi
totalmente dal nucleo essenziale della “causa petendi”e del “petitum” tipizzanti la
fattispecie contestata e sia pur sempre ricollegabile a quest’ultima. In secondo luogo,
è stato affermato (Sezioni Riunite, Sentenze nr. 14/QM/2000, nr. 6/QM/2003, nr.
1/QM/2004 e nr. 4/QM/2007) che il Pubblico Ministero contabile è legittimato
autonomamente a porre in essere atti di costituzione in mora nei confronti di presunti
responsabili di fattispecie di danno erariale devolute alla giurisdizione della Corte dei
Conti, considerato il ruolo dallo stesso rappresentato verso l’Amministrazione
danneggiata e l’ordinamento e, pertanto, deve essere riconosciuto l’effetto interruttivo
della prescrizione all’invito a dedurre, ove questo sia formulato in guisa da essere
dotato di tutti gli elementi richiesti per produrre tale effetto ai sensi degli articoli
1219 e 2943 del Codice Civile e, particolarmente, la manifesta intenzione della parte
pubblica di rammentare la vitalità e l’esistenza del suo diritto; al riguardo, preme
evidenziare, tuttavia, che siffatto canone manifestato dalle Sezioni Riunite, incentrato
sull’efficacia interruttiva della prescrizione riconosciuta all’invito a dedurre, non
sempre è stato osservato nelle pronunce delle Sezioni Giurisdizionali di primo e
secondo grado, sul rilievo che titolare del diritto sostanziale al risarcimento è l’Ente
pubblico danneggiato, il solo che, secondo i sostenitori di tale diversa concezione,
può procedere utilmente ad atti di costituzione in mora nei confronti del presunto
responsabile. In terzo luogo, dopo alcune oscillazioni giurisprudenziali, è stato
propugnato il canone (Sezioni Riunite, Sentenza nr. 7/QM/2003) secondo il quale al
termine di centoventi giorni attribuito al Procuratore Regionale per emettere la
citazione in giudizio, decorrenti dalla scadenza del periodo assegnato al presunto
responsabile per depositare le proprie deduzioni a seguito della notifica dell’invito a
dedurre, si applica la sospensione feriale di quarantacinque giorni di cui all’articolo 1
della Legge nr. 742 del 1969; nella medesima prospettiva, giova sottolineare che,
secondo una parte della giurisprudenza (ex multis Sezione Giurisdizionale Friuli
77
Venezia Giulia, Sentenza nr. 418 del 2006), il periodo attribuito con l’invito a
dedurre al convenuto, non inferiore a trenta giorni, per la presentazione delle proprie
deduzioni non è soggetto alla menzionata sospensione, sul rilievo che trattasi di
termine ancora strumentale all’attività di parte pubblica, in una fase che, pur collocata
alla fine dell’istruttoria, riveste la natura di accertamento extraprocessuale dei fatti e
delle responsabilità, totalmente nella disponibilità dell’Ufficio Requirente. In merito
all’applicabilità della sospensione feriale al suddetto termine per la presentazione
delle deduzioni da parte del responsabile del danno, cade opportuno sottolineare che
le Sezioni Riunite, con la Sentenza nr. 1/QM/2007, hanno preferito, richiamando le
argomentazioni prospettate nella Sentenza nr. 7/QM/2003, l’orientamento della
giurisprudenza più estensivo, esprimendo il principio che il termine in parola e quello
per l’emissione dell’atto di citazione partecipano della medesima natura propedeutica
del processo, essendo tra loro funzionalmente collegati in un rapporto di
pregiudizialità-dipendenza, tal che non può non valere, per il segmento temporale che
precede, la sospensione dei termini feriali valevole per il successivo. Quanto
all’inciso normativo “il Procuratore Regionale emette l’atto di citazione in giudizio
entro centoventi giorni”, di cui al suddetto articolo 5 del D.L. nr. 453 del 1993, lo
stesso deve essere correttamente inteso, per consolidata giurisprudenza (ex multis III
Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 503 del 2007, Sezione Giurisdizionale
Sicilia, Sentenza nr. 15 del 1998, Sezione Giurisdizionale Puglia, Sentenza nr. 22 del
1998, Sezione Giurisdizionale Friuli Venezia Giulia, Sentenza nr. 12 del 2001,
Sezione Giurisdizionale Basilicata, Sentenza nr. 147 del 2007), come riferito al
deposito della citazione nella Segreteria della Sezione Giurisdizionale, deposito che
attiva la fissazione dell’Udienza di discussione ad opera del Presidente della Sezione,
la quale viene successivamente notificata al convenuto, unitamente all’atto di
citazione, a cura della parte pubblica, e che costituisce pieno avvio del giudizio di
responsabilità da parte dell’Ufficio Requirente. Per completezza di esposizione in
ordine allo specifico argomento, merita evidenziare che in base ad alcune pronunce
l’eccezione di tardività nell’emissione della citazione non è rilevabile d’ufficio (ex
multis II Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 157 del 2000, Sezione
Giurisdizionale Campania, Sentenza nr. 974 del 2005), mentre altre Decisioni
propugnano il principio contrario (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale,
Sentenza nr. 26 del 2006), sostenendo che siffatta verifica attiene alla regolare
costituzione del rapporto processuale ed alla sussistenza di un imprescindibile
presupposto per il valido esercizio dell’azione di responsabilità, il cui scrutinio deve
essere compiuto in ogni stato e grado del processo contabile, con il solo limite della
formazione del giudicato; il predetto contrasto è stato risolto dalle Sezioni Riunite
che, nella prefata Sentenza nr. 1/QM/2007, hanno precisato che la violazione del
termine per l’adozione dell’atto di citazione comporta l’inammissibilità dell’azione,
ma tale inammissibilità non può essere dichiarata d’ufficio e deve essere eccepita
dall’interessato, sul rilievo decisivo che il termine in parola ha carattere ordinatorio
ma anche e soprattutto per la sua chiara finalizzazione alla sola tutela di un interesse
del convenuto. Si manifesta sufficientemente consolidato, inoltre, l’indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale la mera reiterazione, da parte del Procuratore
78
contabile, dell’invito a dedurre comporta l’elusione del termine di centoventi giorni
previsto per l’emissione della citazione, con la conseguenza che la stessa, in tal caso,
è affetta da inammissibilità (ex multis III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza
nr. 105 del 2006, Sezione Giurisdizionale Friuli Venezia Giulia, Sentenza nr. 686 del
2005). Non è superfluo rammentare, infine, il canone espresso dalle Sezioni Riunite,
le quali hanno stabilito, nella Sentenza nr. 1/QM/2005, che nell’ipotesi in cui una
pluralità di soggetti siano i presunti responsabili del danno erariale e nei loro
confronti venga emesso un contestuale invito a dedurre, il suddetto termine di
centoventi giorni per l’emissione dell’atto di citazione decorre dalla scadenza del
periodo fissato dall’Ufficio Requirente per il deposito delle controdeduzioni, indicato
nell’invito a dedurre notificato per ultimo; in tutte le altre ipotesi, quando la Procura
Regionale, in caso di concorso di persone nella fattispecie di danno, adotta gli inviti a
dedurre a carico dei presunti responsabili in tempi diversi, detto termine decorre
autonomamente per ciascun indagato dalla data di notifica dell’invito nei suoi
confronti, alla quale si collega il periodo per presentare le controdeduzioni il cui
decorso segna l’esordio dei predetti centoventi giorni per l’emissione dell’atto di
citazione. Concludendo la disamina in ordine all’istituto in parola, cade opportuno
evidenziare che, secondo una parte della giurisprudenza (ex multis I Sezione
Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 13 del 2001), il diniego opposto dal
Procuratore Regionale di visionare i documenti richiamati nell’invito determina la
violazione del diritto a controdedurre del presunto responsabile esclusivamente
nell’ipotesi in cui, dall’esame del fascicolo di causa, emerga che la conoscenza
integrale del contenuto degli atti non visionati avrebbe consentito al convenuto di
fornire all’Ufficio Requirente ulteriori e decisivi elementi di valutazione, di tale
rilevanza da far cadere, anche soltanto in parte, la tesi accusatoria; secondo un
diverso orientamento (ex multis III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr.
267 del 2000, Sezione Giurisdizionale Sardegna, Sentenza nr. 723 del 1998, Sezione
Giurisdizionale Friuli Venezia Giulia, Sentenza nr. 11 del 2000), invece, non solo
l’omissione dell’invito a dedurre, ma anche la grave irregolarità nello svolgimento
del relativo procedimento, si riflettono negativamente sul diritto del presunto
responsabile di controdedurre, originando l’inammissibilità della successiva citazione
in giudizio e, pertanto, la denegata visione degli atti istruttori impedisce l’esercizio
del diritto qualora si sia in presenza di documenti che integrino il contenuto minimo
essenziale dell’invito a dedurre. Non mancano, infine, pronunce che hanno affermato
il principio secondo il quale nessun obbligo di trasmettere documenti ai destinatari
dell’invito a dedurre è posto dalla Legge a carico del Procuratore Regionale (ex
multis Sezione Giurisdizionale Lombardia, Sentenza nr. 480 del 1999, Sezione
Giurisdizionale Basilicata, Sentenza nr. 237 del 2005, Sezione Giurisdizionale Puglia,
Sentenza nr. 1062 del 2006), con il precipitato che il diniego opposto dall’Ufficio
Requirente alla visione della documentazione richiamata nell’atto in parola e raccolta
nella fase istruttoria non determina l’inammissibilità della successiva citazione.
6. Procedimento monitorio
Degno di menzione, attesi i suoi caratteri peculiari, appare il procedimento monitorio,
finalizzato a ridurre il numero dei processi e a garantire, comunque, il principio di
79
economia processuale, che può essere applicato nell’ambito dei giudizi di
responsabilità aventi ad oggetto addebiti non superiori ad Euro 5.000, importo così
elevato per effetto dell’articolo 10 bis, comma 9, del D.L. nr. 203 del 2005,
convertito dalla Legge nr. 248 del 2005. In base all’articolo 55 del T.U. approvato
con R.D. nr. 1214 del 1934, il Presidente della competente Sezione Giurisdizionale o
un Consigliere da lui delegato, sentito il Procuratore Regionale sull’importo
dell’addebito, sia in materia di responsabilità amministrativa e contabile che di
giudizio di conto, possono determinare la somma da pagare all’erario, salvo il
giudizio della Corte nel caso di mancata accettazione del presunto responsabile. Sul
versante procedimentale, il Presidente o il Consigliere da lui delegato hanno il potere
discrezionale di ridurre l’addebito, considerati la natura ed il grado dell’elemento
soggettivo e l’efficienza causale della condotta del convenuto nella produzione del
pregiudizio, nonché l’entità delle eventuali circostanze di attenuazione della
responsabilità, determinando, sentito il Procuratore Regionale, la somma
comprensiva di rivalutazione monetaria ed interessi legali che il soggetto agente potrà
pagare, oltre alle spese di giudizio, a ristoro del danno arrecato all’Ente pubblico
danneggiato; la predetta determinazione viene apposta in calce all’atto di citazione o
sulla relazione sul conto anteriormente all’iscrizione a ruolo della causa, ed indica il
termine perentorio entro il quale il convenuto deve depositare, presso la Segreteria
della Sezione Giurisdizionale, la propria dichiarazione di accettazione dell’addebito.
Nell’ipotesi di accettazione dell’addebito così quantificato, il Presidente dispone, con
proprio Decreto, la cancellazione della causa dal ruolo e traduce in Ordinanza, avente
valore di titolo esecutivo, la sua precedente determinazione; in caso di mancata
accettazione il giudizio prosegue con la celebrazione dell’Udienza già fissata.
7. Il giudizio dibattimentale e la decisione
Conclusa la fase istruttoria intestata alla Procura Regionale, segue l’atto di citazione
in giudizio laddove l’Ufficio Requirente non si sia determinato per l’archiviazione
della vertenza; in tale ottica, preme evidenziare che dopo il deposito dell’atto di
citazione presso la Segreteria della Sezione Giurisdizionale, il Presidente della
Sezione in parola, con proprio Decreto in calce all’atto introduttivo del giudizio di
parte pubblica, fissa la data dell’Udienza di discussione, disponendo per la notifica al
convenuto della citazione e del suddetto Decreto ad opera della Procura Regionale,
entro un termine non inferiore a novanta giorni antecedenti la data stabilita per il
dibattimento ai sensi dell’articolo 163 bis del Codice di rito. La fase dibattimentale è
disciplinata dal Regolamento di procedura, di cui al citato R.D. nr. 1033 del 1938,
nonché dalle disposizioni del Codice di Procedura Civile, in quanto compatibili con il
processo contabile, in base alla norma di richiamo esplicitata dall’articolo 26 del
prefato Regolamento; nei giudizi di primo grado dinanzi alle Sezioni Giurisdizionali
territoriali, l’assistenza legale, ai sensi dell’articolo 1, comma 5 ter, del D.L. nr. 453
del 1993, convertito dalla Legge nr. 19 del 1994, è esercitata da Avvocati iscritti nei
relativi albi professionali, anche se non abilitati al patrocinio presso la Corte di
Cassazione.
Il Collegio giudicante, in primo grado, è formato da tre Magistrati compreso il
Presidente; nell’Udienza pubblica, alla quale assiste, ai sensi dell’articolo 18 del
80
Regolamento di procedura, il segretario del Collegio con il compito di redigere il
verbale, il relatore, precedentemente designato dal Presidente, viene invitato da
quest’ultimo a svolgere la relazione della causa, a norma del successivo articolo 19,
illustrando le domande dell’attore e le eccezioni prospettate dal convenuto. Il
Procuratore Regionale ed il legale del convenuto rassegnano, quindi, le rispettive
conclusioni, svolgendone i motivi; al termine della discussione, se la causa si
presenta matura per la definizione, il Collegio, in Camera di Consiglio, delibera la
decisione. La Sentenza, redatta a cura del Magistrato estensore, e firmata da questi e
dal Presidente, viene poi pubblicata mediante deposito presso la Segreteria della
Sezione.
Per quanto concerne la fase della deliberazione della decisione, merita sottolineare
alcuni profili relativi, da una parte, al regime delle preclusioni, dall’altra, all’ordine
gradato con cui affrontare le eventuali questioni pregiudiziali che il Collegio deve
farsi carico di esaminare prima di vagliare il merito della controversia.
In ordine al primo aspetto, occorre rilevare che l’articolo 167 del Codice di Procedura
Civile, nel testo introdotto dall’articolo 11 della Legge nr. 353 del 1990, stabiliva che
il convenuto dovesse proporre nella comparsa di risposta le eventuali domande
riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio a pena
di decadenza; il menzionato articolo 167 è stato in seguito sostituito dall’articolo 3
del D.L. nr. 432 del 1995, convertito dalla Legge nr. 534 del 1995, che ha mantenuto
siffatta preclusione solo per le domande riconvenzionali, con il corollario che il limite
per la proposizione delle suddette eccezioni si è spostato, ai sensi dell’articolo 180,
comma 2, del Codice, alla prima Udienza di trattazione, che segue alla prima Udienza
di comparizione. Quanto detto vale per i procedimenti instaurati anteriormente alla
data dell’01.03.2006, mentre per quelli introdotti successivamente si applica la
novella di cui all’articolo 2, comma 3, lettera c bis) del D.L. nr. 35 del 2005,
convertito dalla Legge nr. 80 del 2005 (si vedano per l’entrata in vigore l’articolo 2,
comma 3 quinquies, dello stesso provvedimento, come modificato dall’articolo 1,
comma 6, della Legge nr. 263 del 2005 e dall’articolo 39 quater del D.L. nr. 273 del
2005, convertito dalla Legge nr. 51 del 2006) che ha nuovamente anticipato
l’operatività delle preclusioni alla comparsa di risposta. A tal proposito, non è
superfluo rammentare che, nel giudizio contabile, la prima Udienza di trattazione, che
costituisce per i procedimenti instaurati anteriormente alla data dell’01.03.2006 il
termine ultimo per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio, si
identifica con la prima Udienza, che concentra in sé sia la fase della comparizione
delle parti che quella di trattazione della causa. Sullo specifico versante si registra la
consolidata giurisprudenza della Corte dei Conti, che ha sottolineato come la descritta
soluzione consenta di rendere compatibile con la struttura peculiare del processo
contabile il combinato disposto degli articoli 167 e 180 del Codice di Procedura
Civile. La finalità sottesa a tale disciplina risiede evidentemente nel principio di
economia processuale, tenuto conto che l’eventuale accoglimento delle eccezioni non
rilevabili d’ufficio potrebbe rendere del tutto superflua la prosecuzione nel merito del
giudizio (ex multis II Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 67 del 2006,
Sezione Giurisdizionale Calabria, Sentenza nr. 235 del 2003, Sezione Giurisdizionale
81
Sardegna, Sentenza nr. 264 del 2004, Sezione Giurisdizionale Friuli Venezia Giulia,
Sentenza nr. 434 del 2007). Si consideri, inoltre, che, come sostenuto dalla Corte di
legittimità, il regime delle preclusioni deve ritenersi posto a tutela non solo
dell’interesse di parte ma anche dell’interesse pubblico al corretto e celere andamento
del processo, con la conseguenza che la citata decadenza per il mancato rispetto, da
parte del convenuto, del termine perentorio fissato dal Codice per la proposizione
delle eccezioni processuali e di merito, deve essere rilevata d’ufficio dal Giudice,
prescindendo dall’atteggiamento processuale della controparte al riguardo (ex multis
Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza nr. 11318 del 2005).
In merito al secondo aspetto, è noto che l’articolo 276 del Codice di Procedura Civile,
disciplina il momento deliberativo in Camera di Consiglio, allorché il Collegio
assume la decisione in ordine alla causa precedentemente discussa; il comma 2 del
predetto articolo afferma che il Collegio decide gradatamente le questioni
pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio, e quindi il merito della causa.
Tale norma costituisce espressione di un canone logico, oltre che giuridico, in quanto
la decisione in senso positivo o negativo di una questione pregiudiziale può portare
all’assorbimento delle questioni pregiudiziali successive o di tutte o di alcune
questioni di merito, sia sotto il profilo dell’assorbimento inteso come preclusione, sia
dell’assorbimento inteso come rigetto, talché se una pregiudiziale non è definita, le
questioni da essa dipendenti non possono formare oggetto di decisione. Dunque i
temi che si presentano all’attenzione del Collegio non si trovano, evidentemente, tutti
sullo stesso piano, con il precipitato che il criterio di esame non può essere
considerato indifferente; al contrario, essi si trovano organizzati su livelli sovrapposti
al cui vertice si collocano le problematiche afferenti al merito del giudizio, che vanno
sempre affrontate per ultime. Immediatamente al di sotto di esse sono poste le
questioni preliminari di merito, come la prescrizione, e quindi le pregiudiziali di rito,
raggruppate al loro interno secondo la loro importanza. In tale prospettiva, la
giurisprudenza prevalente della Corte dei Conti, avallata anche dalle Sezioni Riunite
(Sentenza nr. 25/QM/1999), ha chiarito che la prima questione pregiudiziale da
risolvere è senz’altro quella attinente alla competenza territoriale del Giudice adito;
ogni Giudice, infatti, è sempre competente a decidere sulla propria competenza, in
quanto la sussistenza o meno del potere condiziona ogni ulteriore sua decisione di
carattere processuale o di merito. In seguito può pronunciare, se necessario, sulla
giurisdizione e, quindi, gradatamente sugli altri presupposti processuali, quali il
rispetto di eventuali termini e forme, la capacità delle parti, la regolare instaurazione
del giudizio, la validità della citazione, condizionanti la ricevibilità, l’ammissibilità o
la nullità della domanda introduttiva ovvero la procedibilità del giudizio stesso.
Ciò premesso, le decisioni che il Collegio può pronunciare sono, peraltro, di diverso
tipo, a seconda della valutazione che lo stesso dia sulla completezza o meno
dell’istruzione della causa; in concreto, possono verificarsi diverse fattispecie: il
Collegio adotta una Sentenza definitiva, cioè una decisione definitoria del giudizio e
conclusiva dello stesso, nel caso in cui accolga eventuali pregiudiziali o preliminari di
merito, senza passare all’esame del merito della controversia, ovvero nel caso in cui,
respinte le suddette eccezioni, proceda al vaglio del merito della causa; il Collegio
82
ritiene che la causa non sia sufficientemente istruita e, pertanto, emette Ordinanza
istruttoria con la quale dispone l’assunzione di nuove prove o l’integrazione di quelle
versate nel fascicolo processuale. In particolare, ai sensi dell’articolo 14 del
Regolamento di procedura, il Collegio, nell’esercizio del suo potere sindacatorio, può
richiedere all’Amministrazione ed ordinare alle parti di produrre i documenti che
ritiene necessari alla decisione della controversia e può ordinare al Procuratore
Regionale di disporre accertamenti diretti anche in contraddittorio delle parti,
sempreché tali accertamenti non consistano o possano risolversi in una operazione di
valutazione di parte della legittimità dell’operato della controparte, e porsi quindi in
contrasto con il principio di pariteticità tra attore e convenuto nel suo aspetto
sostanziale (ex multis Sezioni Riunite, Sentenza nr. 28/QM/1996). Il Collegio,
inoltre, a norma del successivo articolo 15, può disporre l’assunzione di testimoni ed
ammettere gli altri mezzi di prova che crederà del caso, stabilendo le modalità di
esecuzione ed applicando, per quanto possibile, le disposizioni del Codice di
Procedura Civile; il Collegio, pur ritenendo di non avere sufficienti elementi per
pronunciarsi in via definitiva sul giudizio, e, tuttavia, ravvisando la possibilità di
deliberare su una questione pregiudiziale o preliminare o sul capo di una domanda o
su una di più domande avanzate, decide di deliberare con Sentenza sulle questioni
mature, disponendo con Ordinanza il proseguimento del processo nell’ambito del
quale saranno esperiti gli ulteriori incombenti istruttori.
In conclusione, le Sentenze si distinguono in interlocutorie, se decidono soltanto sulle
questioni pregiudiziali o sulle preliminari o su alcuni capi o sulle domande ed
eccezioni proposte, mentre con separata Ordinanza è stabilita la continuazione del
processo, e definitive, di assoluzione o di condanna, se concludono il giudizio.
8. La sospensione, l’interruzione, l’estinzione e l’abbandono del processo
In base al rinvio dinamico alle norme del Codice di Procedura Civile, contenuto
nell’articolo 26 del Regolamento di procedura di cui al R.D. nr. 1038 del 1933,
trovano applicazione nel processo contabile le disposizioni contemplate dagli articoli
che vanno dal 295 al 310 del suddetto Codice.
La sospensione è l’effetto di un provvedimento del Giudice che apre una parentesi nel
processo durante la quale non possono essere compiuti atti del procedimento; al
processo contabile rimane estraneo l’istituto della sospensione chiesta
congiuntamente da tutte le parti, trattandosi di un giudizio che non procede su
impulso di parte, bensì in seguito ad azione pubblica di carattere obbligatorio, ma si
può verificare sia la sospensione necessaria che quella facoltativa. La sospensione
necessaria, prevista dall’articolo 295 del Codice di Procedura Civile, ricorre qualora
lo stesso Giudicante o altro Giudice debba risolvere una controversia dalla cui
definizione dipende la decisione della causa; è il caso della sospensione per effetto di
una questione di legittimità costituzionale o interpretativa del Diritto comunitario,
rimessa dal Giudice contabile, rispettivamente, alla Consulta o alla Corte di Giustizia
delle Comunità Europee. Altri casi di sospensione necessaria sono quelli inerenti: alle
questioni incidentali, riguardanti la falsità di documenti o relative allo stato e capacità
delle persone, che devono essere decise dal Giudice ordinario, secondo quanto
previsto dagli articoli 9-11 del Regolamento di procedura; ai conflitti di competenza
83
tra le diverse Sezioni territoriali della Corte dei Conti che, in funzione dell’articolo 48
del Codice di rito, devono essere rimessi alle Sezioni Riunite della stessa Corte, ai
sensi dell’articolo 1, comma 7, del D.L. nr. 453 del 1993, convertito dalla Legge nr.
19 del 1994; alla richiesta di regolamento preventivo di giurisdizione, a norma
dell’articolo 41 del Codice di Procedura Civile, con ricorso alle Sezioni Unite Civili
della Corte di Cassazione.Tipica ipotesi di sospensione facoltativa, molto frequente
nei giudizi di responsabilità amministrativa e contabile, è quella connessa alla
valutazione del Collegio in merito all’opportunità di attendere la conclusione del
procedimento penale, laddove vi sia identità soggettiva ed oggettiva. Non è superfluo
rammentare che se con il provvedimento di sospensione non è stata fissata l’Udienza
in cui il processo deve proseguire, le parti debbono chiederne la fissazione, ai sensi
dell’articolo 297 del Codice di rito, entro il termine perentorio di sei mesi dal
passaggio in giudicato della Sentenza che definisce la controversia civile o
amministrativa di cui all’articolo 295 o, comunque, dalla conoscenza legale della
cessazione della causa di sospensione. L’interruzione ha luogo nei casi di morte o
perdita della capacità di stare in giudizio del convenuto o del suo rappresentante
legale o di cessazione di tale rappresentanza, in base all’articolo 299 e seguenti del
Codice di Procedura Civile; al riguardo, preme sottolineare che, anche nella
fattispecie in parola, è necessaria, al fine di riavviare l’iter giudiziale, la riassunzione
delle parti, da eseguirsi, ai sensi dell’articolo 305 del Codice di rito, con atto
notificato alle altre parti nel termine di sei mesi dall’interruzione, a pena di
estinzione. La controversia si estingue, inoltre, per rinuncia agli atti del giudizio, che
può essere effettuata, a norma all’articolo 12 del Regolamento di procedura, in ogni
stato e grado della causa; la rinuncia diviene efficace soltanto in seguito
all’accettazione, nelle forme dovute, della controparte. Non è ammissibile, secondo
l’univoca giurisprudenza della Corte dei Conti, la rinuncia del Pubblico Ministero,
attese le caratteristiche di obbligatorietà, indisponibilità ed irretrattabilità della sua
azione a tutela dell’erario. Il giudizio si estingue, infine, per cessazione della materia
del contendere e, a mente dell’articolo 307 del Codice di Procedura Civile, per inerzia
processuale delle parti, che non compiono l’attività prevista, che cioè non proseguono
o riassumono il processo successivamente alla sospensione od all’interruzione dello
stesso, non riassumono la causa davanti al Giudice competente dopo che la causa sia
stata rimessa ad altro Giudice per ragioni di competenza, o non provvedono a
rinnovare la citazione irregolare; il richiamato articolo 307, ultimo comma, prevede
che l’estinzione operi di diritto, ma che debba essere eccepita dalla parte che vi abbia
interesse, in via pregiudiziale, prima di ogni altra difesa. Cade opportuno evidenziare
che, trascorso il termine per la riassunzione, tenendo conto che l’articolo 310 del
Codice di rito stabilisce il principio secondo cui l’estinzione del processo non
estingue l’azione, il Procuratore Regionale potrà sempre esercitare la propria azione
risarcitoria, previa notifica dell’invito al presunto responsabile del danno, anche dopo
l’eventuale estinzione del giudizio, purché non siano decorsi i termini di prescrizione.
L’articolo 75 del R.D. nr. 1214 del 1934 disciplina l’istituto peculiare
dell’abbandono, con la previsione che nei giudizi davanti alla Corte dei Conti si
considerano abbandonati, relativamente alla parte non ancora decisa, le istanze, i
84
ricorsi e gli appelli se, per il corso di un anno, non si sia presentata istanza di
fissazione di Udienza o non si sia compiuto alcun altro atto di procedura; al riguardo,
non è superfluo rammentare che le Sezioni Riunite della Corte dei Conti hanno
espresso il principio, nella Sentenza nr. 20/QM/1999, secondo cui l’istituto in parola
è da ritenersi vigente in ordine agli appelli, anche dopo l’entrata in vigore della Legge
nr. 639 del 1996, di conversione del D.L. nr. 543 del 1996.
9. L’intervento
L’intervento è un istituto processuale che consente l’ingresso nel giudizio di soggetti
diversi dalle parti originarie; nel processo civile l’articolo 105 del Codice di rito
disciplina l’intervento volontario, l’articolo 106 riguarda l’intervento ad istanza di
parte, mentre, a norma dell’articolo 107, il Giudice può ordinare l’intervento di un
terzo al quale la causa sia comune. Nel processo contabile l’intervento è contemplato
dall’articolo 47 del Regolamento di procedura di cui al R.D. nr. 1038 del 1933, il
quale prevede tre forme di intervento: quello per ordine del Giudice, quello su istanza
di parte e quello volontario. In linea generale, l’intervento volontario del terzo viene
qualificato principale, quando il terzo deduce un diritto connesso ma incompatibile
con quelli delle parti originarie, adesivo autonomo o litisconsortile, quando il terzo
prospetta un diritto connesso ma incompatibile con una delle parti, adesivo
dipendente, quando il terzo ha un interesse proprio e specifico a sostenere le ragioni
di una parte. Volendo scendere più in profondità nella disamina delle descritte figure,
giova rammentare che l’intervento principale si verifica quando l’interveniente
contrasta sia con l’attore, sia con il convenuto; l’interveniente principale propone una
domanda oggettivamente nuova, diretta a far valere un diritto in contrasto con
entrambe le parti ed introduce nel processo, quindi, una nuova causa. L’interveniente
litisconsortile o adesivo autonomo è, come l’interveniente principale, direttamente
legittimato ad agire o a contraddire, esercita un’azione autonoma, quando interviene
in veste di attore; ma assume una posizione uguale e parallela a quella di una delle
parti in causa e, conseguentemente, a differenza del caso precedente, contende non
con tutte le parti originarie, ma con alcune soltanto di esse. Anche l’interveniente
litisconsortile, tuttavia, estende i limiti oggettivi della controversia, perché il
medesimo, come sopra delineato, ha una posizione indipendente da quella delle parti
originarie, sebbene le sue domande o difese coincidano con quelle di una delle parti.
Può fare intervento adesivo dipendente, infine, il terzo che, pur non avendo autonoma
legittimazione ad agire o a contraddire, abbia interesse alla vittoria di una delle parti
in causa; l’interveniente in parola, il quale presenta una legittimazione secondaria ed
una posizione accessoria nei confronti della parte adiuvata, partecipa, dunque, al
giudizio per far valere il diritto di una delle parti, al fine di non subire gli effetti
riflessi di una Sentenza sfavorevole. L’ammissibilità delle varie forme di intervento
nel processo contabile è condizionata dalla specifica natura delle suddette tre
tipologie e dal ruolo svolto dal Procuratore Regionale; al riguardo, cade opportuno
evidenziare che l’Amministrazione danneggiata, titolare del diritto sostanziale al
risarcimento del danno, non può essere considerata terza rispetto all’azione esercitata
dal Pubblico Ministero, in quanto la pretesa risarcitoria è unica, benché esperibile
solo attraverso l’Ufficio Requirente.
85
Risulta evidente che un siffatto istituto è pienamente compatibile con un processo fra
parti private poste sullo stesso piano, finalizzato al componimento di una lite, quale si
appalesa il processo civile; appare, invece, necessario un suo adattamento operativo
nell’ambito di un processo, nel quale esiste la parte pubblica, titolare esclusiva
dell’azione, caratterizzato dall’esercizio del potere sindacatorio del Giudice e
finalizzato, in caso di accertamento di responsabilità, alla reintegrazione del danno
subito dall’Amministrazione.
In ogni processo la richiesta di intervento deve essere sottoposta ad un preliminare
esame di meritevolezza dell’interesse vantato alla luce del chiaro disposto
dell’articolo 100 del Codice di Procedura Civile, a norma del quale “per proporre una
domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”. Tale esame deve
essere integrato dalla conseguente valutazione in ordine all’esistenza di un diritto
autonomo del terzo o di un suo interesse, diretto o collegato al sostegno delle ragioni
di alcuna delle parti, secondo quanto stabilito dall’articolo 105 del Codice di rito e
dall’articolo 47 del R.D. nr. 1038 del 1933.
Secondo la giurisprudenza civilistica la legittimazione del terzo ad intervenire è
condizionata dall’esistenza di un interesse giuridico e non di mero fatto e da un
rapporto giuridico sostanziale, connesso con quello che riguarda le parti originarie del
processo o da questo dipendente, tale che l’interventore subirebbe un pregiudizio
dall’eventuale soccombenza della parte adiuvata (ex multis Cassazione, III Sezione
Civile nr. 1111 del 2003, II Sezione Civile nr. 181 del 2004). L’interesse sostanziale
dell’interventore, in altri termini, è quello di impedire che nella propria sfera
giuridica possano prodursi conseguenze dannose derivanti da un giudicato
sfavorevole alla parte adiuvata.
In base a tali principi anche il Giudice contabile deve, quindi, in fase preliminare,
verificare se l’interesse vantato dal terzo, nella sua richiesta di intervento, sia un
interesse giuridicamente rilevante e se rientri fra quelli tutelabili nel giudizio di
responsabilità; in dettaglio, la giurisprudenza prevalente ha chiarito che nel giudizio
davanti alla Corte dei Conti non sono ammissibili l’intervento principale e quello
adesivo autonomo, sul rilievo che in tali casi si introdurrebbe un elemento nuovo nel
giudizio, mentre si riconosce la possibilità di un intervento adesivo dipendente (ex
multis II Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenze nr. 191 del 1998 e nr. 87 del
2000, I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 103 del 2008, Sezione
Giurisdizionale Toscana, Sentenza nr. 558 del 1996, Sezione Giurisdizionale Veneto,
Sentenza nr. 439 del 1996, Sezione Giurisdizionale Lombardia, Sentenza nr. 817 del
2003, Sezione Giurisdizionale Marche, Sentenza nr. 203 del 2005, Sezione
Giurisdizionale Abruzzo, Sentenza nr. 97 del 2005, Sezione Giurisdizionale Lazio,
Sentenza nr. 1526 del 2007), volto a rafforzare e corroborare l’azione della parte
pubblica, purché non venga ampliato il “thema decidendum”. Non mancano, tuttavia,
decisioni di segno opposto che negano tale tipo di intervento sulla base dell’unicità
dell’interesse dell’Amministrazione e di quello sotteso all’azione del Procuratore
Regionale, la cui funzione deve ritenersi, alla luce del richiamato indirizzo, esclusiva
ed assorbente in ordine all’azionabilità di ogni pretesa risarcitoria concernente danni
alla pubblica finanza (ex multis II Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenze nr. 206
86
del 1991 e nr. 229 del 1999); secondo tale impostazione l’interesse, per il quale il
sistema prevede la tutela giurisdizionale di fronte alla Corte dei Conti, è quello
dell’Amministrazione lesa la quale, anziché poter procedere in autotutela, deve
affidare la reintegrazione della sua sfera (patrimoniale) giuridica all’organo del
Pubblico Ministero contabile, unico titolare dell’esercizio dell’azione processuale il
quale, in relazione alle varie ricostruzioni dottrinarie, è considerato rappresentante o
sostituto processuale della stessa Amministrazione. Si ritiene, peraltro, che l’Ente
danneggiato non possa intervenire nel processo a sostegno del proprio dipendente o
agente convenuto in giudizio dalla Procura Regionale, in quanto il diritto al
risarcimento non è disponibile da parte dell’Amministrazione.
Nell’ambito dell’istituto dell’intervento si pone la questione, di recente emersione,
riguardante la legittimazione ad intervenire nel processo contabile da parte di
Associazioni titolari di interessi diffusi o collettivi; sul punto occorre verificare la
natura dell’interesse vantato dai soggetti in parola. In tali casi, finora assai sporadici,
la valutazione della richiesta deve muovere dal riscontro di disposizioni normative
che, riconoscendo l’esistenza dell’Associazione e regolandone il perseguimento delle
finalità, qualifichino l’interesse vantato come giuridicamente rilevante e non di mero
fatto. E’ necessario, poi, che dall’esame delle norme statutarie sia evidente la
connessione dell’interesse vantato con quello della parte adiuvata il quale deve
essere, comunque, distinto da quello dell’Amministrazione danneggiata.
La giurisprudenza, finora, ha riconosciuto la legittimazione ad intervenire, in un
giudizio riguardante un danno arrecato al Servizio Sanitario Nazionale, ad
un’Associazione di consumatori nel cui statuto era stato indicato lo scopo di tutelare
il diritto alla salute dei consumatori (Sezione Giurisdizionale Umbria, Sentenza nr.
410 del 2006), nonché ad un Sindacato di medici, intervenuto “ad adiuvandum” di un
suo iscritto, convenuto per un nocumento erariale derivante da indebite prescrizioni
di farmaci a carico del Servizio Sanitario Nazionale (Sezione Giurisdizionale
Lombardia, Sentenza nr. 750 del 2007); sul medesimo versante si registra, infine, che
la Sezione Giurisdizionale Campania, nella Sentenza nr. 2515 del 2007, in sede di
giudizio di conto, ha affermato la legittimazione dell’intervento adesivo autonomo
dell’Autorità di Garanzia delle comunicazioni, a favore dei convenuti suoi
dipendenti, limitatamente alla tutela delle sue competenze istituzionali, ipotizzando
un interesse della stessa Autorità ad affermare il difetto di giurisdizione nei confronti
dei conti depositati dai propri agenti contabili.
La giurisprudenza contabile, inoltre, ha pacificamente espresso il principio secondo
cui esorbita dai limiti della giurisdizione di responsabilità amministrativa e contabile,
avente ad oggetto il risarcimento dei danni arrecati all’Amministrazione da soggetti a
questa legati da un rapporto di impiego o di servizio, la cognizione dell’autonomo
rapporto di garanzia intercorrente tra il convenuto in giudizio ed una società di
assicurazioni (ex multis Sezione Giurisdizionale Lazio, Sentenze nr. 92 del 2003, nr.
114 del 2006 e nr. 1616 del 2007); in tale prospettiva, infatti, sono legittimati a stare
in giudizio innanzi alla Corte dei Conti esclusivamente coloro che hanno un rapporto
di impiego o di servizio con la Pubblica Amministrazione, ovvero gli eredi del
convenuto nel caso di illecito arricchimento.
87
10. Potere riduttivo
Altra particolarità del giudizio di responsabilità si rinviene nella facoltà attribuita al
Giudice contabile di ridurre l’addebito, ai sensi dell’articolo 83 del R.D. nr. 2440 del
1923, dell’articolo 52 del R.D. nr. 1214 del 1934 e dell’articolo 19 del D.P.R. nr. 3
del 1957; siffatto potere riduttivo, che non rappresenta un atto di clemenza ma appare
finalizzato a ripartire in modo equo, una volta quantificato il pregiudizio arrecato
all’Ente secondo il principio di causalità materiale, il carico sociale del danno tra
dipendente ed Amministrazione, costituisce uno strumento tipico ed esclusivo
affidato ai Collegi giudicanti della Corte dei Conti, e consiste nella potestà di porre a
carico del soggetto condannato soltanto parte del danno accertato, alla luce di
elementi oggettivi, connessi al fatto dannoso, ovvero soggettivi, legati alla persona
del responsabile, che devono essere enunciati nel corpo della motivazione della
Sentenza.
11. Sequestro conservativo
Rimanendo nell’alveo processuale, si stima utile rammentare che l’articolo 5, commi
2, 3, 4 e 5, del predetto D.L. nr. 453 del 1993 ha disciplinato l’istituto del sequestro
conservativo dei beni mobili ed immobili appartenenti al presunto responsabile, a
garanzia del soddisfacimento dell’obbligazione risarcitoria in caso di condanna, che
può essere chiesto dal Procuratore Regionale anche contestualmente all’invito a
dedurre e, quindi, “ante causam”; per quanto non previsto dal menzionato articolo 5
si applicano le norme del Codice di Procedura Civile in materia di procedimenti
cautelari. Gli elementi necessari perché possa essere accolta l’istanza di sequestro
avanzata dall’Ufficio Requirente sono il “fumus boni iuris” ed il “periculum in
mora”; il primo requisito si ricollega alla ragionevole apparenza del diritto, mentre la
seconda condizione, in base alla prevalente giurisprudenza, è integrata, di per sé,
dalla circostanza che il danno contestato superi misure non proporzionali con i
recuperi possibili sui patrimoni degli agenti pubblici. Il requisito del “periculum in
mora”, inoltre, può essere desunto sia da elementi oggettivi, concernenti la capacità
patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del pregiudizio cagionato
all’Amministrazione creditrice, sia da elementi soggettivi, afferenti al comportamento
tenuto dal debitore, in base al quale sia possibile presumere che, al fine di sottrarsi
all’adempimento, possa porre in essere atti dispositivi pregiudizievoli per il creditore,
idonei a provocare l’eventuale deprezzamento del proprio patrimonio. Relativamente
al procedimento per la concessione del sequestro, il menzionato articolo 5, comma 3,
stabilisce che il Presidente della Sezione Giurisdizionale territoriale provvede con
Decreto motivato e procede, contestualmente, a fissare l’Udienza di comparizione
delle parti, entro un termine non superiore a quarantacinque giorni, innanzi al Giudice
designato e ad assegnare al Procuratore Regionale un termine perentorio, non
superiore a trenta giorni, per la notificazione della domanda e del Decreto.
L’indicazione normativa Giudice designato si presta a diverse interpretazioni ma le
Sezioni Riunite della Corte dei Conti, nelle Sentenze nr. 6/QM/1994 e nr.
4/QM/1996, hanno ritenuto che con tale formulazione il legislatore abbia inteso
riferirsi ad un Giudice singolo della Sezione Giurisdizionale. Alla predetta Udienza il
Giudice designato, con Ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti
88
emanati con il Decreto adottato dal Presidente; con l’Ordinanza di accoglimento, il
suddetto Giudice singolo, laddove la domanda sia stata proposta prima dell’inizio
della causa di merito, nell’ipotesi in cui l’istanza sia stata presentata contestualmente
all’invito a dedurre, fissa un termine non superiore a sessanta giorni per il deposito,
presso la segreteria della Sezione Giurisdizionale, dell’atto di citazione per il
correlativo giudizio, tenendo conto che il prefato termine decorre dalla data di
comunicazione del provvedimento all’ufficio del Procuratore Regionale. Avverso
l’Ordinanza emessa dal Giudice designato, di accoglimento o anche di rigetto, dopo
la Sentenza della Corte Costituzionale nr. 253 del 1994, è ammesso reclamo alla
stessa Sezione Giurisdizionale territoriale, in composizione collegiale, ai sensi
dell’articolo 669 terdecies del Codice di Procedura Civile, nel termine perentorio di
quindici giorni dalla comunicazione o dalla notificazione del provvedimento; del
Collegio giudicante sul reclamo, che si configura quale strumento impugnatorio o di
riesame della citata Ordinanza, non possono far parte, alla luce della prevalente
giurisprudenza (ex multis Sezione Giurisdizionale Sardegna, Ordinanza nr. 207 del
1995) e per intuibili motivi di opportunità, né il Presidente che ha provveduto con
Decreto sull’istanza di sequestro, né il Giudice designato che si è pronunciato nel
giudizio di convalida.
12. Azione revocatoria
Cade opportuno enfatizzare, inoltre, per la sua connotazione assolutamente
innovativa, la disposizione esplicitata dall’articolo 1, comma 174, della Legge nr. 266
del 2005, secondo la quale, al fine di realizzare una più efficace tutela dei crediti
erariali, l’articolo 26 del Regolamento di procedura di cui al R.D. nr. 1038 del 1933 si
interpreta nel senso che il Procuratore Regionale della Corte dei Conti dispone di
tutte le azioni a tutela delle ragioni del creditore previste dalla procedura civile, ivi
compresi i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale di cui al libro sesto,
titolo terzo, capo quinto del Codice Civile; in definitiva, la richiamata norma dalla
portata storica, poiché configura un presidio ulteriore ed incisivo a difesa delle
pubbliche finanze, attribuisce al Pubblico Ministero contabile il potere di esercitare
l’azione revocatoria e quella surrogatoria a garanzia del credito erariale, superando il
precedente quadro giuridico che consentiva di esperire siffatte azioni esclusivamente
all’Amministrazione danneggiata, quale soggetto intestatario del diritto sostanziale al
risarcimento. Con riferimento all’azione surrogatoria di cui all’articolo 2900 del
Codice Civile, che consente al Procuratore della Corte dei Conti di esercitare i diritti
e le azioni che spettano verso i terzi al presunto responsabile del danno e che questi
trascura di coltivare, ed all’azione revocatoria di cui agli articoli 2901 e seguenti
dello stesso Codice, che attribuisce al suddetto Ufficio Requirente la facoltà di
domandare, entro cinque anni dalla data dell’atto, che siano dichiarati inefficaci nei
confronti dell’erario gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il convenuto
rechi pregiudizio alle ragioni dell’Amministrazione creditrice, la questione
pregiudiziale più rilevante attiene al profilo della giurisdizione, ossia
all’individuazione del Giudice dinanzi al quale esercitare le richiamate azioni di
conservazione della garanzia patrimoniale, tenendo conto che il legislatore, nella
formulazione della predetta novella, non si è pronunciato espressamente su tale
89
specifico versante, lasciando all’interprete il compito di vagliare siffatto aspetto, in
base ai principi costituzionali di carattere generale attinenti al riparto di giurisdizione
tra Giudice ordinario e Giudice contabile; nell’ambito della giurisprudenza della
Corte dei Conti, i primi provvedimenti che si segnalano in materia (Sezione
Giurisdizionale Puglia, Ordinanza nr. 3 del 2006 e Sentenza nr. 615 del 2006,
Sezione Giurisdizionale Lombardia, Sentenza nr. 606 del 2006, Sezione
Giurisdizionale Lazio, Ordinanza nr. 246 del 2007 e Sentenza nr. 1560 del 2007,
Sezione Giurisdizionale Friuli Venezia Giulia, Sentenza nr. 151 del 2008), tutti in
materia di azione revocatoria, propendono per l’affermazione della giurisdizione del
Giudice contabile, ma occorre evidenziare, per completezza di trattazione, che si sono
manifestate in dottrina alcune voci critiche in merito a tale assunto, le quali hanno
propugnato con articolate argomentazioni, proprio in funzione dei suddetti canoni
consacrati nella Carta, che affondano le loro radici negli articoli 2 e 4 della Legge nr.
2248 del 1865, allegato E, tuttora vigenti, la giurisdizione del Giudice ordinario. Al
riguardo, preme sottolineare che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la
Sentenza nr. 22059 del 2007, hanno stabilito che la giurisdizione spetta alla Corte dei
Conti; secondo l’avviso della Corte di legittimità, infatti, la conclusione della
devoluzione alla giurisdizione del Giudice contabile delle controversie in argomento,
oltre che imposta dalla lettera dell’articolo 1, comma 174, della Legge nr. 266 del
2005, è anche coerente con il suo scopo, esplicitato nel “fine di realizzare una più
efficace tutela dei crediti erariali”: tutela che indubitabilmente compete alla Corte dei
Conti apprestare, per le azioni di accertamento e di condanna, e che ugualmente deve
ritenersi esserle stata affidata, soggiunge la Corte di Cassazione, per quelle “a tutela
delle ragioni del creditore” e per “i mezzi di conservazione della garanzia
patrimoniale”, in quanto rispetto alle prime hanno carattere accessorio e strumentale.
13. I rimedi contro le pronunce della Corte dei Conti
L’ordinamento prevede un articolato sistema di impugnazioni avverso le decisioni
della Corte dei Conti, che consistono: nell’appello, nel ricorso per revocazione, nel
ricorso alla Corte di Cassazione e nell’opposizione contabile; la materia è disciplinata
dalla normativa introdotta dal D.L. nr. 453 del 1993, convertito dalla Legge nr. 19 del
1994, per quanto concerne l’appello, dalle disposizioni del R.D. nr. 1214 del 1934,
articoli da 68 a 70, in ordine al ricorso per revocazione, dall’articolo 111 della
Costituzione per quanto riguarda il ricorso alla Suprema Corte e dal Regolamento di
procedura di cui al R.D. nr. 1038 del 1933, articoli dal 94 al 97, con riferimento
all’opposizione contabile. Occorre richiamare, inoltre, l’opposizione di terzo, prevista
dall’articolo 93 del citato Regolamento di procedura, che rinvia, tuttavia, al Codice di
Procedura Civile.
In tema di appello, appare opportuno rammentare che avverso le Sentenze di primo
grado delle Sezioni territoriali è prevista l’impugnazione, sia nell’ambito della
responsabilità amministrativa che contabile, dinanzi alle Sezioni Giurisdizionali
Centrali, che sono tre, hanno sede in Roma e giudicano con il Collegio composto da
cinque Magistrati; relativamente alle Sentenze emesse dalla Sezione Giurisdizionale
per la Regione Sicilia, l’appello viene presentato alla Sezione Giurisdizionale
Regionale d’Appello, istituita con il Decreto Legislativo nr. 200 del 1999. L’appello
90
può essere proposto dalle parti private, con l’assistenza di un legale abilitato al
patrocinio presso le giurisdizioni superiori, dal Procuratore Regionale territorialmente
competente o dal Procuratore Generale, ai sensi dell’articolo 1, comma 5 bis, del D.L.
nr. 453 del 1993, convertito dalla Legge nr. 19 del 1994, entro sessanta giorni dalla
notificazione della Sentenza di primo grado o, comunque, entro un anno dalla
pubblicazione; in base al successivo comma 5 ter, il ricorso alle Sezioni
Giurisdizionali Centrali sospende l’esecuzione della Sentenza impugnata, ma la
Sezione d’Appello, su istanza del Procuratore Regionale territorialmente competente
o del Procuratore Generale, quando vi siano ragioni fondate ed esplicitamente
motivate può disporre, con Ordinanza motivata, sentite le parti, che la Sentenza sia
provvisoriamente esecutiva. L’atto di appello deve contenere l’indicazione dei capi
della decisione oggetto di impugnazione e la specificazione dei motivi in fatto ed in
diritto; in tale contesto, si stima utile precisare che, in funzione dell’articolo 345 del
Codice di Procedura Civile, si applica il divieto dello “ius novorum”, con il
precipitato che non possono essere proposte in appello domande nuove rispetto a
quelle dedotte in primo grado, a pena di inammissibilità delle stesse che può essere
dichiarata d’ufficio dal Collegio. Per la fase dibattimentale del processo d’appello si
applicano le stesse regole del giudizio di primo grado, ove non sia diversamente
stabilito; preme evidenziare, infine, la possibilità, per l’appellato che in primo grado
sia rimasto solo parzialmente soccombente, di proporre appello incidentale, a norma
del combinato disposto degli articoli 65, 66 e 103 del Regolamento di procedura, nei
trenta giorni successivi al termine di scadenza di quindici giorni per il deposito
dell’appello principale.
Il ricorso per revocazione si fonda su circostanze tassative e non suscettibili di
interpretazione estensiva, esplicitate dall’articolo 68 del R.D. nr. 1214 del 1934, in
base al quale sia le parti che il Pubblico Ministero possono impugnare le Sentenze
con il rimedio in parola, nel termine di tre anni: quando vi sia stato errore di fatto o di
calcolo; per l’esame di altri conti o per altro modo si sia riconosciuta omissione o
altro impiego; nel caso si siano rinvenuti nuovi documenti dopo la pronuncia della
decisione; laddove il giudizio sia stato pronunciato sopra documenti falsi. Decorsi i
tre anni di cui al menzionato articolo 68, comma 1, salvo il caso di errore di fatto o di
calcolo, nelle restanti fattispecie il ricorso per revocazione dovrà essere prodotto
entro trenta giorni dal riconoscimento della omissione o doppio impiego, dalla
scoperta di nuovi documenti o dalla notizia pervenuta al ricorrente della dichiarazione
di falsità dei documenti, fermi gli effetti della prescrizione decennale. Cade
opportuno sottolineare che una parte della dottrina sostiene che le cause di
revocazione enumerate nel suddetto articolo 68, devono essere integrate con quelle
previste dall’articolo 395 del Codice di Procedura Civile, cioè il dolo di una delle
parti in danno dell’altra, il dolo del Giudice e la contrarietà della Sentenza emessa ad
altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata. Il ricorso per
revocazione deve essere presentato davanti allo stesso Giudice che ha pronunciato la
decisione, avverso Sentenze non più appellabili, ai sensi dell’articolo 106 del
Regolamento di procedura; merita porre in risalto, infatti, che il rimedio della
revocazione si appalesa alternativo rispetto a quello dell’appello, potendo i vizi sopra
91
elencati essere dedotti anche in sede di impugnazione ordinaria, con il corollario che,
fino a quando l’appello è proponibile, non si può ricorrere alla revocazione.
Per quanto riguarda il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, è
sufficiente richiamare l’articolo 111, ultimo comma, della Costituzione, il quale
sancisce il principio secondo cui, contro le decisioni della Corte dei Conti, il ricorso
presso la Corte di legittimità è ammesso per i soli motivi attinenti alla giurisdizione;
non è superfluo rammentare, inoltre, che la prevalente giurisprudenza ritiene
applicabile anche nei giudizi davanti al Giudice contabile l’istituto del regolamento
preventivo di giurisdizione, previsto dall’articolo 41 del Codice di Procedura Civile.
L’opposizione contabile non può essere definito come un vero e proprio mezzo di
impugnazione, ma rappresenta, in realtà, uno strumento per proseguire il giudizio di
conto non ancora definito; il contabile, al quale è notificata dall’Amministrazione la
decisione, ai sensi dell’articolo 51 del R.D. nr. 1214 del 1934, può proporre
opposizione entro trenta giorni alla stessa Sezione Giurisdizionale. L’appello
presentato avverso la Sentenza sui conti giudiziali importa rinuncia al diritto del
contabile di fare opposizione; ne deriva, conseguentemente, che opposizione
contabile ed appello sono due rimedi alternativi.
Rimanendo sul versante dei rimedi avverso le pronunce della Corte dei Conti, residua
la disamina afferente all’opposizione di terzo; in tale prospettiva, giova sottolineare
che l’efficacia della Sentenza è limitata normalmente alle parti del giudizio, sebbene,
in alcuni casi, il contenuto della decisione può incidere, indirettamente, sulla sfera
giuridica di terzi, legati in vario modo alle parti in causa. L’articolo 404 del Codice di
Procedura Civile contempla due ipotesi in cui il terzo, cioè colui che è rimasto
estraneo al giudizio, può presentare opposizione alla Sentenza: il primo comma del
prefato articolo riguarda il caso del terzo che è pregiudicato nei suoi diritti o interessi
dalla Sentenza passata in giudicato (opposizione semplice), mentre il secondo comma
attiene, invece, all’ipotesi in cui la Sentenza è il risultato di dolo o collusione a danno
degli aventi causa o creditori delle parti; il terzo vanta, quindi, un diritto nei confronti
della parte che ha perso la causa e, di riflesso, vede tale diritto in pericolo
(opposizione revocatoria). L’azione in questione, che si propone di fronte allo stesso
Giudice che ha pronunciato la Sentenza, presuppone una decisione già definitiva in
quanto, in corso di causa, il terzo può avvalersi del diverso istituto dell’intervento
volontario, disciplinato dall’articolo 105 del Codice di rito e dall’articolo 47 del R.D.
nr. 1038 del 1933.
14. Patteggiamento contabile
Altra rilevante innovazione recata dalla prefata Legge nr. 266 del 2005, riguarda il
cosiddetto “condono erariale” o “patteggiamento contabile” introdotto dall’articolo 1,
commi 231, 232 e 233; in dettaglio, il legislatore ha previsto che, con riferimento alle
Sentenze di primo grado pronunciate nei giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte
dei Conti per fatti commessi antecedentemente alla data di entrata in vigore della
Legge in parola, quindi entro il 31.12.2005, i soggetti nei cui confronti sia stata
emessa Sentenza di condanna possono chiedere alla competente Sezione di Appello,
in sede di impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento
di una somma non inferiore al 10% e non superiore al 20% del danno quantificato
92
nella Sentenza. La Sezione, con Decreto in Camera di consiglio, sentito il Procuratore
competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso di accoglimento, determina la
somma dovuta in misura non superiore al 30% del danno quantificato nella Sentenza
di primo grado, stabilendo il termine per il versamento. Il giudizio di appello si
intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso
la Segreteria della Sezione di Appello. In merito al descritto istituto è possibile
mettere in luce, in attesa che si consolidi la relativa giurisprudenza, alcuni aspetti
problematici connessi con l’interpretazione letterale di siffatta peculiare normativa:
nessun dubbio sulla circostanza che si tratta di una disposizione transitoria,
applicabile esclusivamente ai fatti commessi antecedentemente alla suddetta data; in
ordine alla locuzione “danno quantificato in Sentenza”, è noto che esso raramente
corrisponde alla somma posta in condanna, dato che il potere riduttivo è affidato al
Giudice contabile per determinare quanta parte del danno sia da porre a carico del
responsabile e quanta debba, invece, restare a carico dell’Ente danneggiato, con il
corollario che, stando alla lettera della norma, la percentuale offerta dovrebbe essere
parametrata non all’importo della condanna, ma a quello del danno; la richiesta del
condannato appellante non si risolve automaticamente nell’accoglimento dell’istanza,
essendo la correlata decisione demandata al Giudice di appello, sentito il Procuratore,
per cui, in definitiva, non fissando la Legge alcun requisito o criterio al riguardo, è da
ritenere che il Collegio goda di ampia discrezionalità, nei limiti della ragionevolezza
e con l’obbligo di puntuale motivazione; il Giudice di appello non potrà, comunque,
indicare una somma da pagare superiore al 30% del danno quantificato nell’appellata
Sentenza e, se non riterrà congruo l’importo contenuto in questo limite, non avrà altra
via che respingere la domanda e celebrare il giudizio di appello; nonostante il silenzio
della norma, è da ritenere che la richiesta di definizione in parola debba essere
avanzata preliminarmente e a prescindere da ogni altra deduzione (e non, quindi, in
via subordinata), ponendosi il citato istituto, evidentemente, come alternativo alla
celebrazione del giudizio. Ulteriori osservazioni sulla definizione agevolata delineata
dalla Legge nr. 266 del 2005, attengono, da una parte, alla constatazione che, in base
alle motivazioni dei primissimi Decreti adottati dalle tre Sezioni Giurisdizionali
Centrali della Corte dei Conti, l’istanza non potrebbe essere accolta nell’ipotesi di
comportamento doloso o di illecito arricchimento, dall’altra, alla valutazione critica
in ordine al tenore della disposizione in commento, la quale, nell’attuale
formulazione, potrebbe comportare un vantaggio per il soggetto che è stato
condannato in primo grado, mentre il convenuto assolto non avrebbe la possibilità di
accedere, all’esito di un’esegesi letterale della norma, al menzionato istituto,
determinando, in sostanza, una grave disparità di trattamento. In tale prospettiva,
giova sottolineare che la Sezione Giurisdizionale d’Appello per la Regione Sicilia,
con Ordinanza nr. 40 del 28.06.2006, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dei suddetti commi dell’articolo unico della Legge nr. 266 del 2005, in
relazione agli articoli 3, 97, 101 e 103 della Carta, ma la Corte Costituzionale, con la
Sentenza nr. 183 del 2007, ha dichiarato le predette questioni in parte infondate ed in
parte inammissibili. Al riguardo, la suddetta pronuncia della Consulta ha fornito
rilevanti elementi interpretativi in merito all’istituto in parola, idonei a delineare in
93
modo compiuto la sua configurazione; in particolare, il Giudice delle Leggi ha
affermato che le richiamate disposizioni non limitano il potere di cognizione del
Collegio in sede camerale al mero esame dei presupposti di ammissibilità dell’istanza
di definizione, ma richiedono che la Sezione Giurisdizionale Centrale stessa valuti
tutti gli elementi desumibili dall’accertamento dei fatti, già compiuto nella Sentenza
di primo grado (sussistenza del dolo, illecito arricchimento, gravità dei fatti, entità del
danno, grado di intensità della colpa, condizione patrimoniale del condannato), con il
corollario che alla definizione in appello non può accedersi in presenza di dolo o di
particolare gravità della condotta. In altri termini, soggiunge la Corte Costituzionale,
la predetta normativa non comporta alcuna deroga del sistema della responsabilità
amministrativa, in quanto, qualora il Giudice di appello si convinca, e ciò caso per
caso, che l’intensità della colpa e le altre circostanze della fattispecie vagliata rendano
equa e congrua una riduzione fino al 30% della condanna di primo grado, l’esito sarà
l’accoglimento dell’istanza, così come, nell’ipotesi contraria, vi sarà il rigetto della
domanda. Non vi è alcun ingiustificato ed automatico effetto premiale, conclude la
Consulta, essendo le citate disposizioni dirette a determinare, con un rito abbreviato,
quanto dovuto dai responsabili in base alle norme proprie del sistema della
responsabilità amministrativa, ed hanno una finalità di accelerazione dei giudizi e di
garanzia dell’incameramento certo ed immediato della relativa somma. In materia di
“patteggiamento contabile” merita richiamare anche la recente Sentenza delle Sezioni
Riunite della Corte dei Conti nr. 3/QM/2007. La pronuncia in parola afferma, tra
l’altro, che l’esame della definizione agevolata del giudizio d’appello richiesta dalla
parte privata appellante, in presenza di un contrapposto appello della parte pubblica,
non può essere precluso dalla proposizione dell’appello della parte pubblica ma che
tale esame non possa, a sua volta, precludere quello di detto appello; nel caso di
appelli contrapposti sulla quantificazione della somma dedotta nella Sentenza di
condanna, soggiungono le Sezioni Riunite, la definizione della richiesta se
previamente estesa dalla parte privata, in replica all’appello della parte pubblica,
all’eventuale successiva maggior condanna, avverrà dopo l’esame dei due appelli
riuniti. L’accertamento in giudizio di un maggior importo sarà oggetto della Sentenza
di condanna, eventualmente condizionata al mancato tempestivo pagamento della
minor somma determinata in applicazione della normativa agevolata in questione,
ove ne ricorrano i presupposti. Giova sottolineare, inoltre, che le Sezioni Unite della
Corte di legittimità, nella Sentenza nr. 20588 del 2008, hanno statuito che è da
considerarsi inammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso il Decreto
di rigetto dell’istanza di definizione del processo contabile adottato dalla Sezione
Giurisdizionale Centrale, non avendo il suddetto provvedimento i caratteri della
decisorietà e della definitività.
15. Rimborso delle spese legali
Non è superfluo evidenziare, inoltre, anche alla luce della novella contenuta
nell’articolo 2 del D.L. nr. 223 del 2006, convertito dalla Legge nr. 248 del 2006, che
ha abrogato le tariffe minime professionali, stabilendo, tuttavia, che il Giudice
provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in
caso di liquidazione giudiziale e di gratuito patrocinio, sulla base della tariffa
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professionale, la norma enucleata dall’articolo 10 bis, comma 10, del D.L. nr. 203 del
2005, convertito dalla Legge nr. 248 del 2005, in tema di rimborso delle spese legali
sostenute dai soggetti sottoposti al giudizio di responsabilità; secondo quest’ultimo
provvedimento le disposizioni dell’articolo 3, comma 2 bis, del D.L. nr. 543 del
1996, convertito dalla Legge nr. 639 del 1996, e dell’articolo 18, comma 1, del D.L.
nr. 67 del 1997, convertito dalla Legge nr. 135 del 1997, si interpretano nel senso che
il Giudice contabile, in caso di proscioglimento nel merito, e con la Sentenza che
definisce il giudizio, ai sensi e con le modalità di cui all’articolo 91 del Codice di
Procedura Civile, liquida l’ammontare degli onorari e diritti spettanti alla difesa del
prosciolto, fermo restando il parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato da
esprimere sulle richieste di rimborso avanzate all’Amministrazione di appartenenza.
In tale contesto, occorre rammentare che alcune pronunce della Corte dei Conti hanno
enunciato il principio in base al quale, nel caso di assoluzione per assenza di colpa
grave, non si verte in ipotesi di Sentenze completamente assolutorie, con il corollario
che non può trovare applicazione il citato articolo 3, comma 2 bis, del D.L. nr. 543
del 1996, convertito dalla Legge nr. 639 del 1996, e, dunque, non sussiste il diritto
del dipendente al rimborso delle spese legali da parte dell’Amministrazione (ex
multis II Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 17 del 2006, I Sezione
Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 203 del 2007, Sezione Giurisdizionale Liguria,
Sentenza nr. 1471 del 2005, Sezione Giurisdizionale Piemonte, Sentenza nr. 138 del
2006, Sezione Giurisdizionale Lazio, Sentenza nr. 1969 del 2006); anche la
declaratoria attinente alla prescrizione incide, secondo la prevalente giurisprudenza
(ex multis III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 452 del 2006, Sezione
Giurisdizionale Puglia, Sentenza nr. 899 del 2006, Sezione Giurisdizionale Basilicata,
Sentenza nr. 231 del 2006), su un momento preliminare all’accertamento del merito
della controversia, senza che sia vagliata la posizione sostanziale del convenuto, con
l’effetto che, in caso di mancato accoglimento della domanda introduttiva del
giudizio per intervenuta prescrizione, la liquidazione degli onorari e dei diritti
spettanti alla difesa dello stesso non può aver luogo, non essendo venuto a
maturazione il presupposto contemplato dalla Legge in ordine al proscioglimento nel
merito. Quest’ultimo orientamento in tema di prescrizione è stato confermato dalle
Sezioni Riunite della Corte dei Conti nella Sentenza nr. 3/QM/2008.
16. Esecuzione delle Sentenze di condanna
Residua, in conclusione, l’aspetto attinente alla fase esecutiva di una pronuncia di
condanna emessa dalla Corte dei Conti; l’esecuzione delle Sentenze di condanna, in
particolare, è disciplinata dall’articolo 76 del R.D. nr. 1214 del 1934, dall’articolo 24
del R.D. nr. 1038 del 1933 e dal D.P.R. nr. 260 del 1998. In materia, preme
sottolineare che l’appello proposto avverso la Sentenza delle Sezioni Regionali ne
produce la sospensione dell’esecuzione, salvo che la Sezione Giurisdizionale
Centrale, su istanza del Procuratore Regionale competente o del Procuratore
Generale, la dichiari provvisoriamente esecutiva con Ordinanza motivata.
Dalla normativa citata trova conferma il principio enunciato dall’articolo 76 del R.D.
nr. 1214 del 1934, secondo il quale l’esecuzione dei provvedimenti della Corte dei
Conti, siano essi Sentenze, Ordinanze o Decreti, compete alle Amministrazioni
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interessate, alle quali sono trasmessi a cura del Pubblico Ministero; in attuazione del
canone esposto in narrativa, l’articolo 24 del Regolamento di Procedura di cui al R.D.
nr. 1038 del 1933 dispone che le Sentenze di condanna, per l’esecuzione, “vengono
spedite in forma esecutiva a firma del Segretario del Collegio che le ha pronunciate e
trasmesse al Procuratore Generale o Regionale che ne cura l’invio alle
Amministrazioni interessate all’esecuzione e, per estratto, al Direttore Generale del
Tesoro”. La competenza a provvedere alla riscossione dei crediti liquidati con
Sentenza od Ordinanza esecutiva è attribuita, ai sensi del prefato D.P.R. nr. 260 del
1998, all’Amministrazione o Ente titolare del credito, che vi provvede mediante un
ufficio appositamente designato; il recupero è effettuato tramite ritenuta, entro i limiti
di Legge, sulle somme dovute in base al rapporto di lavoro, compresi i trattamenti di
fine rapporto e previdenziali, comunque denominati. Per gli importi non riscossi
mediante le procedure previste dal suddetto Regolamento del 1998, si procede alla
relativa iscrizione a ruolo.
Il titolare dell’ufficio che procede alla riscossione comunica al competente
Procuratore Regionale l’inizio della procedura, indicando il responsabile del
procedimento, e la sua conclusione, specificando le partite riscosse, quelle
assoggettate alla procedura di recupero di cui all’articolo 2, comma 1, del
Regolamento, e quelle assegnate al Concessionario della riscossione per l’iscrizione a
ruolo; qualora, in sede di esecuzione delle Sentenze di condanna, sorgano questioni in
ordine all’interpretazione della pronuncia, il Procuratore Regionale competente o il
responsabile dell’ufficio che procede alla riscossione possono proporre il giudizio di
interpretazione previsto dagli articoli 78 del R.D. nr. 1214 del 1934, 25 del R.D. nr.
1038 del 1933 e 6 del D.P.R. nr. 260 del 1998, il quale è limitato al chiarimento della
portata oggettiva della pronuncia resa dal Giudice nella Sentenza che s’intende
interpretare; in base alla prevalente giurisprudenza, la questione inerente
all’interpretazione della pronuncia può essere proposta anche dal soggetto
condannato nel giudizio di responsabilità, quale parte in causa interessata (ex multis
Sezione Giurisdizionale Veneto, Sentenza nr. 1258 del 2001, Sezione Giurisdizionale
Lombardia, Sentenza nr. 236 del 2007).
A prescindere dal giudizio di interpretazione, tutte le questioni che sorgono nella fase
esecutiva inerente alla Sentenza di condanna definitiva della Corte dei Conti, spettano
alla giurisdizione del Giudice ordinario; al riguardo, la giurisprudenza delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione è assolutamente univoca nell’enunciare il principio,
di carattere generale, secondo il quale la domanda di esecuzione di una Sentenza di
condanna pronunciata da un Giudice speciale, quale quello contabile, introduce
sempre una controversia di diritto soggettivo, la cui tutela, in fase esecutiva ed al fine
della decisione sulle opposizioni ivi proposte, non può che competere al Giudice
ordinario (ex multis Sezioni Unite civili, Sentenza nr. 1593 del 1994, Sentenza nr.
7578 del 2006). Il problema se esista o meno un titolo esecutivo e se il credito sia o
meno liquido ed esigibile, infatti, può riguardare soltanto la legittimità
dell’esecuzione e può essere fatto valere con l’opposizione all’esecuzione a norma
dell’articolo 615 del Codice di Procedura Civile, ma non riguarda affatto la
giurisdizione, la quale è sempre attribuita al Giudice ordinario, nell’esecuzione
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forzata per crediti di somme di denaro, qualunque sia l’origine dei suddetti crediti,
salve le eccezioni previste tassativamente, come nell’ipotesi di riscossione delle
imposte (ex multis Sezioni Unite Civili, Sentenze nr. 7632 e nr. 12060 del 1993).
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