Casi giurisprudenziali in tema di procedure concorsuali

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA
TRE
Facoltà di Economia
CATTEDRA DI DIRITTO FALLIMENTARE
CASI GIURISPRUDENZIALI
IN TEMA DI
PROCEDURE CONCORSUALI
Roma - aprile 2007
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE
FACOLTÀ DI ECONOMIA
CATTEDRA DI DIRITTO FALLIMENTARE
Avvertenza
Questa raccolta di giurisprudenza, in tema di procedure concorsuali, è destinata agli studenti
del Corso di diritto fallimentare della Facoltà di Economia. Essa comprende talune sentenze
su questioni relative a profili essenzialmente di diritto sostanziale delle procedure concorsuali
giudiziarie e tiene conto delle più recenti pronunce relativamente ai profili di novità
introdotte nella disciplina dalla recente riforma della legge fallimentare (d.lgs. 9 gennaio 2006
n. 5, preceduta dal d.l. 14 marzo 2005 n. 35 conv. in l. 14 maggio 2005 n. 80 per quanto
riguarda la revocatoria fallimentare, il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione),
pur riproducendo alcune decisioni elaborate dalla giurisprudenza con riferimento al
previgente dettato normativo, i cui principi possono comunque ritenersi ancora attuali anche
alla stregua del nuovo testo della legge fallimentare.
Lo studio di queste sentenze può costituire un momento di approccio alla problematicità
delle soluzioni ed al metodo interpretativo. Cioè, senza alcuna pretesa di completezza, si
ritiene che il diretto contatto dello studente con la decisione giurisprudenziale possa
contribuire ad una migliore comprensione della tecnica giuridica ed a creare un rapporto
diretto e stimolante con il “fatto”, rispetto al quale è stata resa una certa decisione. A tal fine,
nell’ambito del Corso, talune delle sentenze saranno oggetto di specifico commento e
confronto tra docente e discenti.
La raccolta è preceduta da un elementare glossario dei termini più comuni relativi al processo,
onde agevolare la lettura per chi è a digiuno di nozioni di diritto processuale.
Roma, 10 aprile 2007
Michele Sandulli
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INDICE-SOMMARIO
GLOSSARIO
CAPITOLO I
IL PRESUPPOSTO SOGGETTIVO
I.1. Il piccolo imprenditore
I.1.1 Trib. Napoli, 6 dicembre 2006: “Lo status di picccolo imprenditore”. ……………………………….. 7
I.1.2 Trib. Torino, 11 gennaio 2007: “Fallimento, dichiarazione, società commerciale, superamento dei limiti
dimensio-nali, onere probatorio dell’interessato, mancata comparizione della debitrice, rinunzia tacita
all’eccezione”…………….................................................................................................................................. 8
I.2. Il fallimento di associazioni e fondazioni.
I.2.1. Cass. civ. 18 settembre 1993, n. 9589: “Fallimento di associazione non riconosciuta e dei relativi
associati (agenti)”……………………………………………………………………………….. ...13
I.3. Il fallimento delle società commerciali
I.3.1. Cass. civ. 4 novembre 1994, n. 9084: “Ai fini del fallimento delle società rileva l’oggetto statutario
(commerciale), piuttosto che l’attività (agricola) effettivamente svolta: una scelta formalistica”.........17
CAPITOLO II
IL PRESUPPOSTO OGGETTIVO
II.1. Lo stato d’insolvenza.
II.1.1. Cass. civ., 28 ottobre 1992, n. 11722: “Rilevanza obiettiva dello stato di insolvenza e “pactum de non
petendo” (con tutti o solo alcuni creditori)”. ................................................................................................20
II.2. Le società in liquidazione.
II.2.1. Cass. civ., 11 maggio 2001, n. 6550: “Esclusione dello stato d’insolvenza, rispetto a società in
liquidazione, qualora risulti una prevalenza dell’attivo sul passivo”..........................................................22
CAPITOLO III
GLI ATTI PREGIUDIZIEVOLI AI CREDITORI
III.1. Legittimazione del curatore alla prosecuzione del giudizio
III.1.1. Cass. civ. 19 luglio 2002 n. 10547: “Perdita di legittimazione del creditore nell’azione ex art. 2901
c.c.”……. .............................................................................................................................................................25
III.2. Natura dell’azione revocatoria
III.2.1. Cass. civ., sez. unite 28 marzo 2006, n. 7028: “Natura distributiva non indennitaria dell’azione
revocatoria fallimentare” ...................................................................................................................................27
CAPITOLO IV
LA CHIUSURA DEL FALLIMENTO
IV.1. La declaratoria di chiusura del fallimento
IV.1.1. Trib. Genova, 5 giugno 2002: “Effetto interruttivo della dichiarazione di fallimento”.........................32
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IV.2 Il concordato fallimentare
IV.2.1 Trib. Napoli, 15 novembre 2006: “Proposta concordataria presentata dal terzo”…. ............................ 34
IV.2.2 Trib. Napoli, 25 gennaio 2007, “Concordato fallimentare. La riapertura della procedura”….............. 35
CAPITOLO V
LA DISCIPLINA TRANSITORIA
V.1. La disciplina transitoria
V.1.1 Trib. di Vicenza, 13 ottobre 2006, "Disciplina dei ricorsi presentati prima del 16 luglio 2006"…........ 37
CAPITOLO VI
IL CONCORDATO PREVENTIVO
VI.1. L’ammissione alla procedura
VI.1.1 Trib. Palermo, 17 febbraio 2006, “Ammisssione alla procedura”… ......................................................... 39
VI.1.2 Trib. Torino, 20 dicembre 2006, “Il trattamento dei creditori privilegiati”… ......................................... 46
VI.2. L’omologazione del concordato preventivo
VI.2.1 Trib. Prato, 5 dicembre 2005: “I poteri del Tribunale”… ........................................................................... 52
CAPITOLO VII
GLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI
VII.1.Gli accordi di ristrutturazione dei debiti
VII.1.1 Trib. Roma, 4 ottobre 2006: “Il giudizio di omologazione”… ................................................................. 55
VII.1.2 Trib. Enna, 27 settembre 2006: “Omologazione. Opposizione. Termini”…. ....................................... 58
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GLOSSARIO
Appello. Mezzo di impugnazione che introduce il giudizio di secondo grado, concesso dalla
legge alla parte per chiedere la riforma totale o parziale di un provvedimento del giudice.
In particolare, l’appello si propone con atto di citazione, è un mezzo di impugnazione
ordinario, in quanto impedisce che la sentenza passi in giudicato, e devolutivo, in quanto
comporta un riesame della controversia relativamente alle parti impugnate, sicché il nuovo
provvedimento sostituisce quello precedente.
Giudice competente per l’appello è la Corte d’Appello (organo giurisdizionale di secondo
grado).
Attore. La parte processuale che ha dato vita al processo attraverso la proposizione della
domanda giudiziale (soggetto attivo della domanda).
Cassazione. La Corte di Cassazione si pone al vertice dell’organizzazione giudiziaria ed è unica
per tutto il territorio nazionale. La sua competenza è (di regola) limitata alle questioni di
diritto (giudizio di legalità), per cui non riesamina il merito della questione. In tal senso essa
giudica solo sui vizi della sentenza indicati tassativamente dalla legge.
La Cassazione si riunisce a Sezioni Unite per risolvere (o prevenire) contrasti interpretativi
insorti tra le sue stesse Sezioni e per decidere su questioni di particolare importanza.
Il giudizio innanzi alla Corte tende all’eventuale cassazione (cancellazione) della sentenza
impugnata, così di solito esaurendosi l’attività della Corte di Cassazione, per lasciare
l’eventuale giudizio di merito ad altro giudice, ossia il giudice di rinvio (Corte d’Appello);
invece solo eccezionalmente (ossia quando non sono necessari ulteriori accertamenti) la
Corte può decidere direttamente anche nel merito.
Controricorso. È la domanda con cui la parte contro la quale è promosso il ricorso contraddice
quanto in questo affermato. Si tratta di un atto scritto al pari del ricorso ed ha i medesimi
requisiti formali (corrisponde, in definitiva, alla comparsa di risposta nel giudizio di merito).
Il controricorso, in particolare, può avere solamente un contenuto difensivo e non censure
alla sentenza impugnata. La sua funzione, infatti, è quella di resistere al gravame avversario e,
quindi, il suo contenuto deve essere limitato alla esposizione delle ragioni giuridiche atte a
dimostrare la infondatezza delle censure del ricorrente.
Convenuto. La parte processuale contro la quale è proposta la domanda giudiziale (soggetto
passivo della domanda).
Dispositivo. Parte della sentenza in cui viene, in forma sintetica ed esauriente, enunciata la
decisione del giudice sulla domanda (o su parte di essa).
Giudizio di rinvio. E’ il giudizio conseguente alla “cassazione con rinvio” della sentenza
impugnata innanzi alla Corte di Cassazione.
Con il giudizio di rinvio, di cui è competente la Corte d’Appello, si tende a sostituire alla
sentenza cassata una nuova sentenza. Pertanto, il giudice di rinvio è investito di poteri
autonomi ed il processo si svolge secondo le norme ordinarie del processo di cognizione, di
primo o di secondo grado.
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La riassunzione della causa avviene, ad iniziativa delle parti, con atto di citazione. Nel
giudizio di rinvio l’esame del giudice è limitato alle parti della sentenza che sono state cassate.
Il giudice di rinvio è altresì vincolato all’osservanza del “principio di diritto” stabilito dalla
Corte di Cassazione.
Inammissibilità dell’impugnazione. Tale situazione si sostanzia in un ostacolo allo
svolgimento del giudizio di impugnazione, in quanto questo deve concludersi con una
pronunzia (non di merito, ma) di rito che, appunto, implica il sopravvenuto passaggio in
giudicato, escludendo la possibilità di riproporre l’impugnazione.
Cause di inammissibilità sono: il decorso del termine per proporre l’impugnazione; il difetto
di condizioni per l’impugnazione (esistenza di un provvedimento, interesse ad impugnare,
legittimazione ad impugnare, obiettiva impugnabilità del provvedimento). A queste cause
(generali) si aggiungono quelle specifiche relative a ciascun tipo di impugnazione (così, ad
esempio, con riguardo al ricorso in cassazione, la mancata indicazione dei motivi per i quali si
chiede la cassazione).
Motivazione della sentenza. Consiste nella rappresentazione e documentazione dell’iter logicoargomentativo seguito dal giudice per giungere alla decisione.
L’art. 111 della Costituzione sancisce l’obbligo per il giudice che emette una sentenza di
motivare la sua decisione: la norma costituzionale, da un lato delimita la responsabilità del
giudice e dall’altro garantisce la legittimità delle pronunzie, consentendo così un controllo più
penetrante in sede di impugnazione.
L’omissione, l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione, quando riguardino un
punto decisivo della controversia, sono di per sé motivo di impugnazione della sentenza (in
tal senso con riguardo al ricorso per Cassazione, si veda l’art. 360, n. 5, c.p.c.).
Ordinanza. E’ il provvedimento che il giudice emana nel corso del procedimento per regolarne
lo svolgimento e per risolvere le questioni procedurali che possono insorgere fra le parti.
Assolve, quindi, tipicamente ad una funzione ordinatoria del processo.
L’ordinanza (che può essere pronunziata in udienza o fuori udienza) deve essere
succintamente motivata; non pregiudica mai la decisione finale della causa; (di regola) è
modificabile e revocabile da parte del giudice che la ha emessa.
Resistente (in Cassazione). Parte contro cui è proposto il ricorso innanzi alla Corte di
Cassazione.
Ricorrente (in Cassazione). Parte che ha proposto il giudizio innanzi alla Corte di Cassazione.
Ricorso per cassazione. E’ un mezzo di impugnazione ordinario, nel senso che impedisce il
passaggio in giudicato, ma (a differenza dell’appello) non ha effetto devolutivo (cioè non
introduce una rinnovazione del giudizio).
Con esso si introduce un giudizio essenzialmente di diritto (controllo di legalità), in cui si
possono far valere soltanto errori nello svolgimento del giudizio (errores in procedendo) oppure
nell’applicazione di norme di diritto sostanziale o nell’iter logico che conduce a tale
applicazione (errores in judicando).
Il ricorso “straordinario” per cassazione, ossia per “violazione di legge” ex art. 111, 2°
comma, Cost., è proponibile non soltanto con riguardo ai provvedimenti che hanno forma di
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sentenza, ma anche avverso ogni altro provvedimento emesso in forma diversa dalla sentenza
(es. ordinanza), purché: a) incida su diritti soggettivi, b) abbia natura decisoria e c) non sia
altrimenti impugnabile.
Ricorso incidentale in cassazione. Se la parte che presenta il controricorso intende a sua volta
impugnare la sentenza, per motivi naturalmente diversi da quelli addotti dal ricorrente, può
proporre ricorso incidentale col medesimo atto contenente il controricorso.
Ricorso per Cassazione: ammissibilità. Alle condizioni e requisiti generalmente richiesti per
proporre impugnazione (rispetto dei termini, esistenza di un provvedimento, interesse ad
impugnare, legittimazione ad impugnare, obiettiva impugnabilità del provvedimento), si
aggiungono quelli specifici del ricorso in Cassazione, come, innanzitutto, la denunzia di un
determinato errore (o vizio) che rientri in una delle categorie espressamente e tassativamente
previste dalla legge (c.d. motivi di ricorso).
Ricorso per Cassazione: motivi. I motivi di ricorso per Cassazione, tassativamente indicati
nell’art. 360 c.p.c., sono: 1) motivi attinenti alla giurisdizione; 2) violazione delle norme sulla
competenza (quando non è prescritto il regolamento di competenza); 3) violazione o falsa
applicazione di una norma di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro; 4)
nullità della sentenza o del procedimento; 5) omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile
d’ufficio.
Sentenza. Provvedimento col quale il giudice assolve tipicamente alla sua funzione
giurisdizionale decisoria.
La sentenza può essere di mero accertamento, di condanna o costitutiva, a seconda che si
limiti ad accertare l’esistenza di una data situazione giuridica, che condanni una parte ad un
determinato comportamento, o che dia luogo ad una modificazione della situazione giuridica
preesistente.
A seconda, poi, che il giudice ritenga o meno fondata la domanda giudiziale, si distingue tra
sentenza d’accoglimento e sentenza di rigetto.
La sentenza passa in giudicato a seguito della decadenza dall’impugnazione (per decorrenza
dei termini, per acquiescenza) o per effetto dell’esaurimento delle impugnazioni stesse. Si
determina, in tal modo, l’“incontrovertibilità” della decisione del giudice, nel senso che la
sentenza diviene immodificabile (“giudicato formale” ex art. 324 c.p.c.) e, conseguentemente,
fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa (“giudicato sostanziale” ex art.
2909 c.c.).
Tribunale. È l’organo giurisdizionale competente, per materia e per territorio, a conoscere della
questione e ad emettere, al termine del procedimento, una sentenza che definisce il giudizio e
conclude quello che viene indicato come il primo grado del processo.
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CAPITOLO I
IL PRESUPPOSTO SOGGETTIVO
SOMMARIO: I.1. Il piccolo imprenditore. – I.2. Il fallimento di associazioni e fondazioni. – I.3. Il
fallimento delle società commerciali.
I.1 IL PICCOLO IMPRENDITORE1
I.1.1. Tribunale di Napoli, 6 dicembre 2006: “Lo status di piccolo imprenditore”
Il Tribunale affronta due temi di particolare rilievo: quello del presupposto
soggettivo, con particolare riferimento al piccolo imprenditore, e quello del
ridimensionamento dei poteri riconosciuti alla autorità giudiziaria. Sul primo profilo
la riforma è intervenuta individuando, all’art. 1 l.fall, una figura di piccolo
imprenditore rilevante ai soli fini delle procedure concorsuali, e distinta da quella
definita dall’art. 2083 c.c., così ampliando l’area dei soggetti esclusi dalla
applicazione delle procedure concorsuali e ricomprendendovi anche le piccole
società commerciali, stante l’espresso richiamo all’imprenditore collettivo. La norma
fornisce due criteri dimensionali: quello degli investimenti effettuati nell’azienda per
un determinato capitale, dovendosi considerare quelli che sin dall’origine siano stati
effettuati; e quello dei ricavi lordi. Il debitore che voglia, con ricorso, dare impulso al
procedimento prefallimentare, deve depositare la documentazione ex art. 14 l.fall.,
allegando i presupposti richiesti dalla legge per la dichiarazione di fallimento, in
considerazione della circostanza che il Tribunale non è più investito del potere di
procedere di ufficio. E’ da sottolineare che la pronuncia è stata resa con riferimento
ad una fattispecie nella quale il ricorso per la dichiarazione di fallimento era stato
presentato dallo stesso debitore (cd. autofallimento), ma il principio di diritto in esso
contenuto trova applicazione anche nella diversa ipotesi in cui il ricorso venga
proposto da uno più creditori.
“Il debitore che chieda la propria dichiarazione di fallimento ha l’onere di rappresentare di essere un
imprenditore non piccolo, e quindi assoggettabile alla procedura di fallimento, mentre la mancata allegazione
del presupposto, non potendo, a seguito della riforma della legge fallimentare, essere colmata d’ufficio dal
tribunale, è causa di nullità del ricorso”.
1
L’art. 1, d.lg. 9 gennaio 2006, n.5, ha sostituito l’art. 1 l.fall, con il seguente:
“1.Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una
attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori.
2.Ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori gli esercenti una attività commerciale in forma
individuale o collettiva che, anche alternativamente:
a) hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila;
b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio
dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila.
3.I limiti di cui alle lett. A) e b) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni, con decreto del
Ministro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le
famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento.
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Atteso che la legge fallimentare non prevede né esclude la necessità della difesa tecnica ai fini
della proposizione del ricorso di fallimento e del successivo procedimento c.d.
prefallimentare e che, tuttavia, l’art. 82 c.p.c. prevede, in linea generale, che, salvo che la legge
disponga altrimenti, innanzi al tribunale le parti devono stare in giudizio col ministero di un
procuratore legalmente esercente;
considerato che, secondo l’ormai consolidato orientamento della Suprema Corte
(recentissimamente confermato da Cass., Sez. I, 29 novembre 2006, n. 25366), tale regola
generale è applicabile sia agli ordinari giudizi contenziosi che ai procedimenti a struttura
camerale che abbiano ad oggetto la richiesta di emissione di un provvedimento, non importa
se corrispondente o meno alla richiesta dell’interessato, che incida su diritti fondamentali
della persona o su status, quale certamente è la sentenza di fallimento, che, anche dopo la
recente riforma di cui al d.lgs. 9 gennaio 2006, n.5, importa effetti imponenti sul patrimonio
del fallito e non marginali sulle sue libertà personali e sui suoi diritti fondamentali;
ritenuto, pertanto, che anche il ricorso di fallimento presentato dal debitore (o dal legale
rappresentante della società debitrice) debba essere sottoscritto da un avvocato a pena della
sua nullità (non sanabile ex tunc) e della conseguente improcedibilità della domanda giudiziale
in esso contenuta;
atteso, peraltro, che la ricorrente non ha rappresentato, nemmeno implicitamente, di essere
un imprenditore non piccolo e, peraltro, contravvenendo a quanto disposto dall’art. 14 l.fall.,
ha omesso di depositare in Cancelleria i documenti da tale accordo indicati;
considerato che la riforma della legge fallimentare portata dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n.5,
peraltro nell’ambito di un disegno complessivamente teso a ridurre la platea dei soggetti
fallibili, ha sottratto al tribunale il potere di avviare di ufficio il procedimento volto alla
verifica della sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento e, dunque, anche il
potere di integrare di ufficio le lacune assertive del ricorso dei creditori, del debitore o del
pubblico ministero che tale procedimento oggi può introdurre, tra cui quella concernente
quei presupposti solo sussistendo i quali il debitore può essere considerato un imprenditore
non piccolo;
ritenuto, pertanto, che la mancata allegazione da parte del ricorrente di tali presupposti
determina un deficit assertivo che, non potendo essere colmato per impulso ufficioso del
tribunale, è a sua volta causa di nullità del ricorso, in tal caso inidoneo a conseguire lo scopo,
certamente tenuto presente dal legislatore, di evitare il pericolo che siano avviate procedure
prefallimentari tese alla verifica della sussistenza di presupposti che nemmeno il ricorrente si
sente di affermare sussistenti.
(omissis)
I.1.2 Tribunale di Torino, 11 gennaio 2007: “Fallimento, dichiarazione, società
commerciale, superamento dei limiti dimensionali, onere probatorio dell’interessato,
mancata comparizione della debitrice, rinunzia tacita all’eccezione”.
Il Tribunale affronta il tema dell’onere della prova in punto di dichiarazione di
fallimento, con riguardo specifico al presupposto soggettivo, individuato dall’art. 1
l.fall., nell’imprenditore commerciale non piccolo. La sussistenza di tale status è stata
estesa dalla riforma all’imprenditore collettivo, ed è definita in negativo, attraverso
l’indicazione di due criteri: quello del valore del capitale investito nell’azienda, che
deve essere superiore ad euro trecentomila; e quello dell’ammontare dei ricavi lordi,
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calcolato sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio della attività de di durata
inferiore, che deve essere superiore a euro duecentomila. Tali criteri ridefiniscono la
nozione di piccolo imprenditore che deve essere considerata al fine di stabilire se in
capo all’imprenditore sussista il presupposto per la dichiarazione di fallimento. La
legge fallimentare non contiene previsioni espresse in ordine al soggetto sul quale
gravi l’onere di provare la sua ricorrenza. Il Tribunale si pronunzia richiamandosi ai
criteri di ripartizione generale dell’onere della prova, ed alla disposizione contenuta
nell’art. 15, comma 4 l.fall., la quale assume rilievo in relazione alla abrogazione del
potere del tribunale di procedere di ufficio, pur conservando quelli di accertamento e
di indagine ufficiosi.
“La qualifica di imprenditore non piccolo, per le società commerciali, deve presentarsi in quanto connotazione
naturale della tipologia societaria. L’eventuale mancato superamento dei limiti previsti dall’art.1 l.fall., deve
essere allegato e provato dalla parte interessata. Se la società debitrice non compare e omette di adempiere
all’obbligo di deposito dello stato patrimoniale aggiornato, ai sensi dell’art.15, comma 4 l.fall., la mancata
attivazione riveste il senso della rinuncia tacita a far valere l’eccezione”.
Si è provveduto alla convocazione della società debitrice e nessuno è comparso, in
rappresentanza di essa, all’udienza dinanzi al presidente relatore. Entrambe le notificazioni
delle istanze di fallimento e dei decreti di fissazione dell’udienza risultano perfezionate nei
confronti dell’amministratore unico e legale rappresentante G.R., alla sua residenza, ai sensi
dell’art.145, comma 1, ultima parte c.p.c. E’ risultato infruttuoso io tentativo di notifica
presso la sede legale, non risultata realmente esistente e reperibile all’indirizzo tuttora
risultante dalla misura camerale.
Lo stato di insolvenza risulta acclarato (…).
È ampiamente superato l’ammontare complessivo della esposizione debitoria previsto
dall’art.15, comma 9 l.fall., come soglia minima per la dichiarazione di fallimento.
Dalla visura camerale prodotta da A.p.I., e concernente L.A.R. s.r.l., risultano ricavi al 31
dicembre 2003 per euro 817.709. ciò fornisce almeno un principio di prova del superamento
della soglia dimensionale, prevista dall’art.1, comma 2 l.fall., perché l’imprenditore, in questo
caso collettivo, sia considerato non piccolo e come tale assoggettabile a fallimento.
L’ammontare medio dei ricavi dell’ultimo triennio non potrebbe infatti essere inferiore ad
euro 200.000, anche supponendo che negli esercizi 2004 e 2005 i ricavi siano stati pari a zero.
Ma al di là di questo dato, il tribunale, aderendo ad una autorevole e persuasiva dottrina,
ritiene che, almeno per le società commerciali, la qualifica di imprenditore non piccolo debba
presumersi, in quanto connotazione normale della tipologia societaria. L’eventuale mancato
superamento dei limiti previsti dalla citata norma della legge fallimentare deve essere allegato
e provato dalla parte interessata e cioè dal debitore in via di eccezione. Nel caso, la società
debitrice, non comparendo, ed omettendo di adempiere all’obbligo di depositare lo stato
patrimoniale aggiornato, ai sensi dell’art.15, comma 4 l.fall., nulla ha dedotto o eccepito in
proposito.
In assenza di una specifica disciplina della ripartizione dell’onere probatorio, soccorrono due
criteri, che inducono ad attribuire al debitore l’onere di eccepire e dimostrare il mancato
superamento dei limiti dimensionali, idoneo a qualificarlo piccolo imprenditore ai sensi
dell’art.1, comma 2 l.fall., e non al creditore procedente di provare il contrario.
Il primo, definibile come criterio della regola ed eccezione, fa leva sul carattere usuale,
normale, o no, che accompagna, secondo la comune esperienza, una determinata situazione,
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ed induce a qualificare come fatti costitutivi, da provare in via di azione, gli elementi che
integrano la situazione stessa, e come fatto impeditivo, da dedurre e provare in via di
eccezione, l’eventuale difetto, cui la legge attribuisca rilievo, di quelle connotazioni che
costituiscono il normale corredo della situazione data (si vedano, quali rationes decidendi che
fanno riferimento a questo criterio: Cass. 5159/04; Id. 3063/00; Id. 8958/91; Id. 455/86).
Il secondo criterio attiene alla «vicinanza» delle parti rispetto al fatto da provare e suggerisce
di attribuire l’onere della prova, rispetto alla esistenza o non esistenza di un determinato
fatto, a quella delle parti che sia maggiormente in grado di fornire agevolmente la prova
richiesta (cfr. Cass. 3651/06; Id. 11488/04; Id. SS.UU. 13533/01).
Entrambi i criteri indicono ad onerare il debitore, quanto meno nel caso in cui si tratti di
società commerciale, della prova del mancato superamento dei limiti dimensionali previsti
dall’art.1, comma 2 l.fall., posto che, per tale tipologia di imprenditore collettivo è normale
che ci si organizzi secondo parametri economici ben superiori e che la prova dell’eventuale
sottodimensionamento può essere agevolmente fornita solo dal soggetto interessato, che può
produrre la documentazione contabile, mentre il creditore procedente può al massimo
disporre, e solo per le società personificate, dei bilanci resi pubblici attraverso il deposito
presso il registro delle Imprese.
La conclusione ha anche il pregio della coerenza rispetto ad una precisa previsione di legge
che, diversamente, risulterebbe eludibile senza alcuna conseguenza negativa. Si tratta della già
menzionata disposizione di cui all’art.15, comma 4 l.fall., che impone al debitore di
depositare, su invito del tribunale una situazione patrimoniale, economica e finanziaria
aggiornata, che può costituire la fase per ulteriori accertamenti.tale norma non risulta fornita
di sanzione diretta e, ove si onerasse il solo creditore o l’ufficio di svolgere accertamenti ed
acquisire e fornire dati, risulterebbe pleonastica, nessuna conseguenza negativa essendo
ricollegabile alla relativa inosservanza. Se inserita, invece, nel contesto della disciplina
dell’onere probatorio a cui il tribunale ritiene di pervenire, essa assume un ben preciso
significato, come strumento di impulso e sollecitazione, nell’intento generale di celerità che
caratterizza l’intera nuova disciplina, rispetto ad una attivazione che è onere della parte
obbligata di porre in essere. E corrobora la lettura secondo cui la mancata attivazione abbia
un significato ammissivo circa il superamento dei limiti, ovvero, più propriamente, rivesta il
senso della rinuncia tacita a far valere l’eccezione intesa configurare la non fallibilità per la
ricorrenza degli estremi della nozione giusfallientare di piccola impresa.
La linea interpretativa del tribunale pare anche coerente con la tecnica espressiva utilizzata
dal legislatore nella definizione fallimentare, ex art.1, comma 2 l.fall., del piccolo
imprenditore. Ci si riferisce alla formulazione adottata, la quale, anziché definire in positivo la
nozione di riferimento, lo fa in negativo. In altri termini, di predica del soggetto, cioè del
piccolo imprenditore, ai fini della legge fallimentare, non già ciò che esso è ma ciò che esso
non è.
Tra i primi commentatori non è mancata di affiorare la tesi, per vero pienamente in linea con
la lettera dell’enunciato normativo, che vi ravvisa solo la determinazione di un parametro
soglia, al di sopra del quale non sarà mai invocabile la ricorrenza della nozione in discorso,
ma al di sotto del quale, invece, conserva piena operatività la definizione di cui all’art.2083
c.c. logicamente e letteralmente, infatti, dire che non è piccolo imprenditore chi supera
determinati limiti dimensionali non significa dire chi ne è al di sotto sia piccolo imprenditore.
Mentre, se così invece si fosse inteso dire, sarebbe stato agevole farlo chiaramente, mediante
una definizione in positivo, semplicemente statuendo che è piccolo imprenditore chi non
supera i limiti in discorso.
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Si tratta per altro di una linea interpretativa sicuramente minoritaria in dottrina, alla cui piena
coerenza logica e semantica si contrappongono, in modo persuasivo, considerazioni
ermeneutiche proprie dell’argomentare giuridico, quali il criterio storico, che fa leva sulla
tradizionale autoreferenzialità in materia dalla legge fallimentare, ed il raffornto con la legge
delega, che tende alla chiarezza, alla semplificazione ed alla riduzione dell’area della fallibilità.
Ciò che soprattutto convince, in ogni caso, che il legislatore, pur espressosi con un tasso di
chiarezza molto modesto rispetto alle intenzioni ed alle aspettativa, abbia in realtà inteso
istituire una definizione autonoma, esaustiva e dirimente del piccolo imprenditore ai fini
fallimentari, è il rilievo che, diversamente, si sarebbe tradito ogni intento di chiarezza e di
effettiva innovazione in ordine al presupposto di assoggettabilità al fallimento. Lasciando
operare l’art. 2083 c.c. al di sotto della soglia, e limitando la portata innovativa della
affermazione, tra l’altro solo implicita, che detta norma debba essere estesa anche alle società
commerciali, è palese che si lascerebbe adito a tutta la difficile problematica interpretativa che
in precedenza poneva il raffronto tra la norma codicistica, dettata per l’impresa individuale, e
la complessa realtà del fenomeno societario.
Se si deve pertanto aderire alla lettura che attribuisce alla definizione dell’art.1, comma 2, per
quanto maldestramente enunciata, la portata di una effettiva ed esaustiva ridefinzione del
piccolo imprenditore, sia esso individuale o collettivo, ai fini giusfallimentari, la disciplina
dell’onere della prova a cui il tribunale perviene attribuisce una sorte di funzionalità alla
tecnica di definizione adottata, in negativo e non in positivo, dalla norma. La sottolineatura
non tanto del «dover essere» ma del «dovere non essere»,-contenuta tra l’altro nella norma
particolare che segue quella generale di cui al comma 1, che prevede l’esonero dalle
procedure concorsuali del piccolo imprenditore, preannunciando la ridefinzione della
nozione che subito segue, -può essere letta proprio come intesa a confermare che le
connotazioni in proposito enunciate sono di norma ricorrenti, sicché si attribuisce rilievo alla
loro assenza come elemento eccezionale, da dimostrare a cura della parte interessata.
L’attribuzione al tribunale di poteri di accertamento e di indagine ufficiosi non pare
sufficiente per contrastare le conclusioni tratte. La riforma ha inteso accentuare, in generale,
ma anche con particolare riferimento al procedimento c.d. prefallimentare, la natura di
processo di parti. Si pensi, in proposito, alla abrogazione dl potere di procedere d’ufficio,
come pure alla impugnabilità diretta in Corte d’appello della sentenza dichiarativa, che
accentua la natura di cognizione piena del procedimenti dinanzi al tribunale. E processo di
parti significa necessariamente distribuzione tra esse e non assorbimento delle connotazioni
inquisitorie correlate alla disciplina dell’istruttoriaa, dell’onere della prova. Sembra dunque
ragionevole e conforme al disegno generale della nuova disciplina ritenere che i poteri
istruttori d’ufficio, che pure devono ove possibile ed utile essere esercitati, non valgano ad
elidere gli oneri della prova a carico delle parti.
Si noti, del resto, come gli accertamenti d’ufficio circa i limiti dimensionali dell’impresa
debitrice possano al più spingersi alla acquisizione e alla produzione dei bilanci depositati,
limitatamente alle società personificate. Ma i meri dati bilanciatici, in quanto pur sempre di
provenienza del soggetto interessato, se possono certamente assumere un certo rilievo, non
sono di per sé dirimenti, se non sottoposti ad un vaglio critico.
Orbene, ogni approfondimento di indagine, che si ritenga necessario, non potrà che
consistere nell’esame diretto della contabilità e della corrispondenza del debitore, cosa che
non avrebbe alcun ragionevole senso effettuare e disporre in assenza della sua stessa
collaborazione e cioè andando a ricercare ciò che egli in realtà può agevolmente allegare e
produrre, mentre magari occulta.
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Non si può, infine, sottacere come la soluzione interpretativa a cui si perviene si presenti con
il pregio dell’equilibrio e del giusto contemperamento degli interessi regolati, criterio che
certamente non appare secondario nell’orientare l’interprete alle prese con testi normativi
connotati da margini di apertura, in quanto carenti di specifiche e chiare previsioni su punti
importanti della disciplina istituita.
Le diverse interpretazioni che si vanno delineando, infatti, tendono verso due poli entrambi
insoddisfacenti e forieri di possibili conseguenze contrarie al senso di giustizia.
Tale appare certamente la tendenza che pone rigorosamente a carico del creditore procedente
l’onere della prova, anche in ordine al superamento dei limiti dimensionali di cui all’art. 1,
comma 2, l.fall., finendo per imporgli, in molti casi, una probativo diabolica, ovvero finendo
per premiare- nel caso, molto spesso inevitabile, in cui ci si limiti a basarsi sui dati resi
pubblici attraverso il deposito obbligatorio dei bilanci della società debitrice- proprio coloro
che con maggiore spregiudicatezza violano il dovere di verità, chiarezza e precisione che
presiede alla redazione di detti documenti, o tengano addirittura in spregio gli obblighi
attinenti alla redazione, approvazione e deposito di essi.
Ma anche la tendenza che sposta l’accentuazione sugli accertamenti d’ufficio finisce per
avvicinarsi, sia pure in modo drastico, ad analoghi inconvenienti. Le indagini a cura della
Guardia di Finanza, per vero menzionate persino nella relazione illustrativa allo schema del
D.lgs. (cfr. ivi, sub art. 1, ove si fa cenno alle «informazioni richieste di prassi alla Guardia di
finanza»), sono di fatto impraticabili su larga scala ed è dubbio che esse siano rituali e
legittime, in quanto trovano il loro fondamento processuale solo nella disposizione di cui
all’art. 738, comma 3 c.p.c., inclusa nel richiamo ai procedimenti camerali di cui all’art.15,
comma 1 l.fall., secondo cui il giudice può assumere informazioni. Ma è quanto meno dubbio
che con ciò si intenda che si possono disporre vere e proprie indagini, ispezioni sui
documenti e sulla contabilità, circolarizzazione delle verifiche, ecc., e non ci si debba invece
limitare alla acquisizione di conoscenze già esistenti e formalizzate presso soggetti privati o
pubblici. Sicché, in definitiva, è illusorio pensare che il tribunale fallimentare possa disporre
di poteri di accertamento, tramite organi di polizia Giudiziaria, paragonabili, per entità e
livello di acquisizione conoscitiva, a quelli della A.G. penale. Con la conseguenza che anche
gli accertamenti in tal senso disposti finiranno per lo più per fermarsi ai dati esteriori, alle
dichiarazioni fiscali, ai risultati contabili quali desumibili, in ultima analisi dalle dichiarazioni
del soggetto interessato, siano esse già state formalizzate nei modelli fiscali o nella contabilità,
o si basino invece su acquisizioni solo apparentemente nuove, ma in realtà rimesse alla mera
labilità rinvenente da chi sia oggetto di indagine.
Entrambe le linee di tendenza finiscono per attenuare al di là del giusto e del ragionevole la
tutela del ceto creditorio, che resta pur sempre, se non lo scopo, almeno uno degli scopi
primari della procedura, e per propiziare un solo apparente recupero di efficienza del
giudiziario, che è connotazione da riferire alla risposta alla domanda di giustizia e non al tasso
di smaltimento burocratico delle pratiche.
Le considerazioni innanzi svolte confermano che, nella specie, posto che la società debitrice
non è comparsa e non ha ottemperato ai suoi oneri di allegazione, non vi è questione di
accertamento, dei limiti dimensionali dell’impresa..
Il curatore, nominato in dispositivo, è persona qualificata ai sensi dell’art. 28 l.fall., lett.a),
come risulta evidente dalla sua abilitazione professionale e dalla pregressa esperienza e
collaborazione quale curatore in altre procedure concorsuali.
(omissis)
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I.2 IL FALLIMENTO DI ASSOCIAZIONI E FONDAZIONI.
I.2.1 Cass. civ. 18 settembre 1993, n. 95892: “Fallimento di associazione non
riconosciuta e dei relativi associati (agenti)”.
La sentenza affronta il problema della assoggettabilità al fallimento delle associazioni
non riconosciute e della conseguente estensione della procedura agli associati che
siano illimitatamente responsabili. Preliminare rispetto alla assoggettabilità al
fallimento sono la valutazione e l’accertamento circa lo status di imprenditore
commerciale da queste eventualmente assunto.
L’indagine deve essere diretta a verificare l’esercizio diretto della attività di impressa,
ed il rapporto di questa con le altre attività eventualmente esercitate, sia sotto il
profilo sostanziale sia sotto il profilo formale. L’esercizio diretto di una attività
economica commerciale non si configura in capo alla associazione per il fatto che
essa sia indirizzata allo scopo comunque istituzionale dell’ente, se formalmente
imputabile ad una distinta società commerciale, ancorché alla associazione collegata
in modo intrinseco ed essenziale.
“La dichiarazione di fallimento di un’associazione non riconosciuta, avente lo status di imprenditore
commerciale comporta il fallimento degli associati che siano illimitatamente responsabili, secondo la disciplina
propria delle associazioni non riconosciute, ossia delle persone che hanno agito in nome e per conto dell’ente ai
sensi dell’art. 38, comma 1, ultima parte, c.c.”.
1. Ai fini dell’attribuzione ad un’associazione dello status di imprenditore commerciale con la
conseguente applicazione del relativo regime, rileva soltanto che l’ente abbia svolto un’attività
da imprenditore commerciale, e che l’esercizio di questa impresa esaurisca l’attività dell’ente,
ovvero risulti prevalente rispetto ad altre attività, sì da costituire l’oggetto escluso o principale
dell’associazione; ciò, anche quando l’associazione abbia soltanto scopi altruistici, o l’attività
di impresa realizzi in via diretta gli scopi istituzionali dell’ente e sia, perciò, finalizzata al
raggiungimento di scopi altruistici (Cass. 9 novembre 1979, n. 5770).
Ne discende, che ai fini della soluzione della questione se l’associazione Fondazione Pitagora
avesse assunto lo status di imprenditore commerciale non si doveva affatto risolvere il punto
se la stessa, avesse, o avesse acquisito, uno “scopo economico”; e che, pertanto, la Corte del
merito, nel procedere alla valutazione di siffatta questione, non è incorsa nel vizio di omesso
esame di un punto decisivo denunciato nel primo profilo del motivo.
Pertanto, la relativa censura è infondata e deve essere disattesa.
2. In funzione della disamina delle questioni poste col secondo profilo ed in correlazione alle
difese sviluppate dall’Amministrazione fallimentare resistente nel controricorso e nella
memoria ex art. 378 codice di procedura civile, occorre procedere, preliminarmente, alla
ricostruzione delle ragioni sulle quali la Corte palermitana ha fondato l’affermazione che
2
In Fall., 1994, 151, con nota di NAPOLEONI V., Il fallimento delle associazioni non riconosciute; in Giust. civ., 1994, I,
65, con nota di LO CASCIO G., La dichiarazione di fallimento dell’associazione non riconosciuta e degli associati; in Foro it.,
1994, I, 3503, con nota di PATANÉ G., Brevi note in tema di fallimento di associazione non riconosciuta; in Nuova giur. civ.,
1995, I, 309, con nota di PORRARI A., I requisiti per la dichiarazione di fallimento nell’ipotesi di enti collegati; in Riv. dir.
impr., 1996, 166, con nota di FIENGO C., Società e associazione.
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l’associazione Fondazione Pitagora aveva esercitato “direttamente” un’attività economica
commerciale.
In proposito emerge che il giudice del merito ha affermato, in fatto, che l’associazione
denominata Fondazione Pitagora, era un “ente soggettivamente distinto dalla s.r.l. Istituto
Pitagora”; che gli associati del primo ente erano soci dell’altro soggetto; che il Presidente
dell’una era l’amministratore unico dell’altra e, quindi, il “fiduciario dell’associazione” nella
società; che lo scopo istituzionale dell’associazione veniva realizzato attraverso “la gestione
dell’intera attività di assistenza ed educazione scolastica dei minori avviati all’associazione
stessa dagli enti pubblici o dalla stessa acquisiti con rapporti privatistici”, da parte della
società.
Ha affermato poi che gli elementi fin qui richiamati e la circostanza che l’associazione
conservava il potere di scegliere discrezionalmente i minori da assistere nella struttura gestita
dalla società, rendevano certo che “tra l’ente morale e la società commerciale” esisteva una
“stretta connessione ed un intimo collegamento”.
Infine, dalla sussistenza della connessione e del collegamento ha tratto sia che la società si
poneva quale “organo” dell’associazione e mero soggetto di comodo ed in questo senso
“fittizio”; e sia che, pur “tramite un ente soggettivamente distinto” la gestione dell’attività di
assistenza e di istruzione dei minori - costituente attività economica commerciale - veniva
svolta “direttamente” dall’associazione.
Quindi, secondo la Corte territoriale, l’associazione svolgeva direttamente un’attività
imprenditoriale commerciale, posto che quell’attività era il mezzo che le consentiva di
raggiungere il proprio scopo, ed era svolta da un soggetto distinto (cui era formalmente
imputabile) ma ad essa collegato in modo intrinseco ed essenziale.
Si deve escludere, allora, che, come sostiene invece l’Amministrazione fallimentare
controricorrente, la Corte palermitana abbia riportato lo status di imprenditore
dell’associazione per un verso, alla circostanza che questo ente esercitava concretamente
l’organizzazione dell’attività imprenditoriale per essere il soggetto che trattava con i soggetti
pubblici e privati per il ricovero e l’istruzione dei minori, ne riceveva il corrispettivo ed
affidava a terzi la sola gestione dell’attività materiale di assistenza e di istruzione; e, per altro
verso, al rilievo che è imprenditore anche chi non eserciti direttamente un’attività economica
di produzione di beni e servizi, ma ne curi solo l’organizzazione avvalendosi, a tal fine, della
collaborazione di soggetti giuridici distinti, come mediatori, commissionari, o altri
imprenditori collegati cui sono affidate una o più fasi del ciclo produttivo.
Ora, così puntualizzatane la ratio, la statuizione della Corte palermitana non può essere
condivisa.
Per vero, perché un soggetto possa acquistare lo status di imprenditore commerciale occorre
che l’attività oggettivamente economico-commerciale sia a lui direttamente imputabile, e a tal
fine, non è sufficiente la connessione, anche se stretta o il collegamento con altro soggetto
effettivamente imprenditore, ovvero, l’utilizzazione dell’attività formalmente imputabile a
questo soggetto per il conseguimento dei propri scopi, quando questa utilizzazione non si
realizzi attraverso un’attività intrinsecamente imprenditoriale.
Pertanto, un’associazione non diventa imprenditore commerciale ove, per raggiungere i
propri scopi altruistici si limiti ad utilizzare i proventi dell’attività imprenditoriale di un
soggetto soggettivamente distinto, anche se collegato o collaterale; perché ciò avvenga,
invece, occorre che ai fini dell’utilizzazione svolga, in via esclusiva o prevalente, un’attività
oggettivamente imprenditoriale, ed ad essa imputabile anche formalmente.
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Del resto, su questa conclusione conviene, sia pure implicitamente la stessa controricorrente
allorquando sostiene che l’associazione “Fondazione Pitagora” ha gestito un’impresa
commerciale una volta che l’autonoma attività da essa posta in essere ed a lei imputabile
anche formalmente (l’organizzazione e gestione del servizio scolastico privato con semplice
attribuzione della materiale esecuzione del servizio alla società a responsabilità limitata)
concretizza un’attività tipicamente imprenditoriale commerciale; e, - ma infondatamente
come s’è detto - che il giudice del merito ha fondato la propria statuizione su questa ragione.
Ne consegue che, effettivamente, la Corte territoriale è incorsa nel vizio denunciato nel
profilo, allorché ha affermato che, ai fini della soluzione del quesito sulla sussistenza dello
status di imprenditore commerciale dell’associazione “Fondazione Pitagora” si poteva far
riferimento all’attività svolta da un distinto soggetto giuridico; e, conseguentemente, ha
omesso di accertare se l’attività autonomamente svolta dall’associazione medesima realizzasse
di per se sola detto status.
In questo limite, pertanto, il profilo risulta fondato e deve essere accolto.
3. Il primo motivo, allora, deve essere accolto per quanto di ragione.
(omissis)
4. Il terzo motivo d’annullamento denuncia che la sentenza d’appello è viziata anche nel capo
in cui ha disatteso l’opposizione dei singoli associati alla dichiarazione del loro fallimento in
proprio, sulla base dei principi che “l’art. 1 legge fallimentare soggetta a fallimento gli
imprenditori che esercitano un’attività commerciale”; che “i soci illimitatamente responsabili
hanno la qualità di imprenditori”; che “l’art. 1 legge fallimentare [non è] una norma
applicabile solo a coloro che esercitano individualmente, ma è, invece, applicabile anche a
coloro che quali membri di un gruppo associato [esercitino] un’attività commerciale”; e che la
previsione dell’art. 1 legge fallimentare è, dunque, idonea a comprendere anche coloro che,
come i soci illimitatamente responsabili esercitano un’impresa commerciale: essa è, perciò,
astrattamente idonea a comprendere chiunque - anche in particolare gli associati
illimitatamente responsabili - sia imprenditore commerciale in ragione della qualità di
membro responsabile senza limite di un gruppo che eserciti un’impresa commerciale.
Infatti, lamentano i ricorrenti, in tal modo la Corte territoriale ha affermato che, per il solo
fatto d’essere tali, automaticamente, tutti indiscriminatamente gli associati di una associazione
non riconosciuta titolare di impresa commerciale e dichiarata fallita, devono essere dichiarati
falliti in proprio; e, di conseguenza, ha omesso di limitare la dichiarazione di fallimento ai soli
associati che abbiano svolto attività per l’associazione.
Con ciò, però:
a) ha violato e applicato falsamente: gli artt. 1 legge fallimentare; il principio, che scaturisce
dall’art. 147 legge fallimentare, secondo il quale solo i soci di una società di persone sono
assoggettabili al fallimento; il principio enucleabile da tutto il sistema positivo (e, in
particolare, dalla ratio degli artt. 2267 e 2304 codice civile) che i soci di una società di persone
non sono imprenditori commerciali; il principio che solo gli imprenditori commerciali
possono essere dichiarati falliti, salva l’ipotesi dell’art. 147 legge fallimentare che, peraltro,
non riguarda tutti i soci di una società di persone, ma solo quelli che siano illimitatamente
responsabili delle sue obbligazioni; la norma, infine, per cui nelle associazioni sono
illimitatamente responsabili solo le persone che hanno agito in nome e per conto dell’ente;
b) conseguentemente, è incorsa anche in vizio di motivazione, sia perché ha omesso di
ricercare se tutti indistintamente i componenti dell’associazione non riconosciuta
“Fondazione Pitagora” fossero illimitatamente responsabili per le obbligazioni dell’ente; e sia
perché, a tutto concedere, non ha spiegato le ragioni per cui il regime (eventualmente)
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previsto per i “soci illimitatamente responsabili” si possa estendere agli “associati
illimitatamente responsabili”.
L’argomentazione della Corte territoriale (in effetti non sempre immediatamente
comprensibile, tant’è che l’Amministrazione controricorrente ne propone una lettura diversa
da quella correttamente datane dai ricorrenti principali) si fonda e si sviluppa
sull’affermazione che i soci di una società di persone esercitante un’impresa commerciale
sono, per ciò solo, imprenditori commerciali in quanto partecipi dell’impresa fallita; che,
pertanto, la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento di quel tipo di
società comporta, automaticamente, la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di
fallimento di tutti i suoi soci: quindi, che il fallimento di questi viene dichiarato non già per
effetto dell’estensione normativa del fallimento della società, ma per effetto dell’autonoma
sussistenza, direttamente in capo ai soci, dei relativi presupposti. Da ciò, il corollario che
poiché l’associazione non riconosciuta che abbia lo status di imprenditore commerciale è
assoggettata al regime giuridico delle società di persone, per le anzidette ragioni, in presenza
del fallimento della associazione non si può non avere anche il fallimento di tutti gli associati.
I principi che costituiscono il presupposto dell’argomentazione della Corte palermitana non
possono essere condivisi.
I soci d’una società di persone non sono imprenditori commerciali neppure se, secondo le
regole proprie del tipo di società, siano illimitatamente responsabili per le sue obbligazioni:
difatti, anche in tali società, pur prive di personalità giuridica, la titolarità dell’impresa spetta
non ai singoli soci, ma alla società quale centro unitario di imputazione degli atti e delle
attività compiute dagli amministratori. In questo senso, infatti, è l’orientamento del tutto
consolidato di questa Corte Suprema, dal quale non vi sono ragioni di discostarsi (v. Cass. 3
aprile 1987, n. 3229; 12 aprile 1984, n. 2359; 22 dicembre 1972, n. 3658; 7 agosto 1972, n.
2369).
Correlativamente, i soci illimitatamente responsabili di una società di persone (e non tutti
indistintamente i soci di siffatte società, come mostra di ritenere la Corte palermitana che
tiene presente soltanto la figura della società in nome collettivo ed il disposto dell’art. 2991
codice civile) sono assoggettabili a fallimento non già ai sensi dell’art. 1 legge fallimentare in
quanto imprenditori, ma solo in applicazione dell’art. 147 legge fallimentare che, col disporre
che “la sentenza che dichiara il fallimento dei soci a responsabilità illimitata produce anche il
fallimento dei soci illimitatamente responsabili”, impone il fallimento dei detti soci
indipendentemente dalla loro qualità di imprenditori, e quale effetto autonomo della
pronuncia del fallimento della società, ponendosi, così, quale espressa deroga alla regola
generale prevista dall’art. 1 legge fallimentare per la quale sono assoggettati alle procedure
concorsuali solo i soggetti che abbiano qualità di imprenditore (v. Cass. 3 aprile 1987, n.
3229; 12 aprile 1984, n. 2359; 17 dicembre 1981, n. 5677; 7 agosto 1972, n. 2639).
Pertanto, la conclusione del giudice d’appello che il fallimento delle associazioni non
riconosciute aventi lo status di imprenditore commerciale produce il fallimento degli associati
illimitatamente responsabili (affermazione che in sé e per sé non è investita da censura,
essendo contestato, invece, solo l’ulteriore principio che il fallimento dell’associazione
produce quello di tutti indistintamente gli associati) non comporta affatto né che gli associati
di quell’ente siano imprenditori commerciali, né che il fallimento dell’associazione produca il
fallimento di tutti gli associati.
Si deve ritenere, invece, che tal effetto si produca solo nei riguardi degli associati che siano
illimitatamente responsabili secondo la disciplina propria delle associazioni non riconosciute,
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ossia, a norma dell’art. 38, primo comma, ultima parte, codice civile, le persone che hanno
agito in nome e per conto dell’associazione.
Ne consegue che la Corte palermitana che, distaccandosi da questo principio, ha dichiarato il
fallimento di tutti gli associati della “Fondazione Pitagora” senza accertare chi avesse agito
concretamente per l’associazione (non corrisponde al vero, infatti, come sostiene
l’Amministrazione fallimentare resistente al fine superare il vizio giuridico della sentenza, che
il giudice d’appello abbia comunque dato “atto del fatto che tutti i membri dell’associazione,
per quanto emerso dalle precedenti fasi del processo e risultante dagli atti, avevano preso
parte, ciascuno in forme diverse, all’attività dell’ente”) è incorsa anche nei vizi denunciati nel
motivo che ne occupa.
I.3 IL FALLIMENTO DELLE SOCIETÀ COMMERCIALI
I.3.1 Cass. civ. 4 novembre 1994, n. 90843: “Ai fini del fallimento delle società rileva
l’oggetto statutario (commerciale), piuttosto che l’attività (agricola) effettivamente
svolta: una scelta formalistica”.
La sentenza affronta il problema della difformità tra la natura della attività esercitata
e la forma adottata per il suo esercizio. In particolare la questio riguarda l’ipotesi
nella quale una società formalmente commerciale, stante la forma societaria assunta,
eserciti in fatto una attività non commerciale, in contrasto con lo statuto sociale. La
Corte riporta le diverse posizioni assunte dalla giurisprudenza in ordine alla rapporto
tra il principio della prevalenza della forma e quello della prevalenza della sostanza ed
afferma che occorre tenere in considerazione la relazione intercorrente tra la società
sorta con riferimento statutario espresso all’esercizio di attività commerciale e la
qualità di imprenditore commerciale
“Le società aventi ad oggetto attività commerciale acquistano la correlativa qualità imprenditoriale sin
dall’atto della loro costituzione e sono come tali soggette alla dichiarazione di fallimento, indipendentemente
dall’effettivo esercizio di una attività commerciale”.
La questione [riguarda] se ai fini della assoggettabilità al fallimento delle società costituite nelle
forme stabilite dall’art. 2249 c.c. per l’esercizio di attività commerciale (società in nome
collettivo in accomandita semplice, per azioni, in accomandita per azioni ed a responsabilità
limitata) e che abbiano oggetto commerciale sia o meno richiesto il requisito dell’effettivo
esercizio di attività commerciale.
La Corte di Catanzaro ha dato al quesito risposta negativa, adeguandosi al principio in tal
senso espresso dalle precedenti pronunzie n. 1921/65 e n. 2067/72 di questa Corte. E di ciò
appunto si dolgono ora i ricorrenti, sostenendo che i remoti precedenti, cui hanno prestato
ossequio i giudici di merito, risultino, in realtà, ormai superati dalla più recente giurisprudenza
- segnatamente dalla sentenza n. 8939 del 1987 - che avrebbe “confermato che anche per le
società di capitali può non aversi la qualifica di imprenditore commerciale, nonostante la
forma societaria assunta, qualora realmente l’oggetto e l’attività in concreto espletata non sia
quella economica e commerciale, così come indicata dall’art. 2195 c.c., ma trattasi di attività
3
In Giust. civ., 1995, I, 110.
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non commerciale sia pure in contrasto con lo statuto sociale”. E ciò - sempre a quanto si
sostiene dagli esponenti - in conformità a “l’orientamento sempre seguito dalla dottrina”.
a) In realtà - va detto per inciso - la posizione della dottrina sul problema che ne interessa è
estremamente variegata e non certo esprime quell’indirizzo monolitico che si prospetta dai
ricorrenti risultando, anzi, prevalente la tesi che ricollega l’elemento della professionalità delle
società in parola al fatto stesso della loro “costituzione per l’esercizio” di una attività
commerciale, indipendentemente da un effettivo ed attuale svolgimento dell’attività stessa.
A questo orientamento avevano del resto dichiaratamente fatto anche riferimento le
richiamate decisioni del 1965 e 1972. Non è poi esatto che con questa giurisprudenza si sia in
prosieguo posta in contrasto la sentenza 8939 del 1987. In quest’ultima decisione il criterio di
effettività è stato pur richiamato ma non già in relazione al contenuto ed alla natura
dell’attività imprenditoriale esercitata a fini qualificatori (come si pretende) dell’impresa,
sebbene unicamente per accertare - a monte - l’an stesso di un tale esercizio.
Si è affrontato, infatti, in quella occasione il problema (ben diverso da quello che ora ne
occupa) della simulabilità di un contratto costitutivo di s.p.a. pervenendosi alla soluzione che,
anche in detta ipotesi, la simulazione sia in tesi possibile quando risulti che le parti - contro
l’apparente enunciato negoziale – non abbiano in realtà voluto e non abbiano in concreto
svolto alcuna attività imprenditoriale, limitandosi a costituire e mantenere, sotto le mentite
spoglie societarie, una mera comunione di godimento. Né alcun elemento la stessa richiamata
sentenza fornisce che autorizzi il preteso trapianto del canone della effettività nella differente
sede problematica che qui ne interessa; che anzi, sul punto anche la sentenza n. 8939/87 cit.
significativamente ribadisce che, “fuori dal caso limite della simulazione dell’atto costitutivo,
lo scopo commerciale in questo indicato, “qualifica di per sé la società” e “non è necessario
l’attualità dell’esercizio dell’attività (in oggetto), a differenza che per l’impresa è
individuabile”.
b) Ciò precisato sul quadro di riferimento delle posizioni dottrinarie e dei precedenti
giurisprudenziali sul tema proposto, e dopo aver comunque questo rimediato alla luce delle
sollecitazioni argomentative della difesa dei ricorrenti, ritiene conclusivamente questo
Collegio di dover a sua volta mantenere ferma la riferita precedente giurisprudenza. Nei
ricordati arresti del 1965 e 1972, la superfluità dell’attuale e concreto esercizio dell’attività
commerciale, ai fini dell’assoggettamento al fallimento delle società costituite nelle forme
delle società commerciali ed aventi ad oggetto una siffatta attività, si fonda direttamente
sull’analisi testuale del dato normativo. Si osserva infatti che sia l’art. 2308, in tema di s.n.c.,
sia l’art. 2323 (che a quello rinvia) per le s.a.s., sia l’art. 2448 c.c. dettato per le s.p.a. ma
applicabile (ex artt. 2464, 2497) anche alle s.r.l. ed alle s.a.p.a. convergono nel collegare la
possibilità del fallimento di dette società all’unico presupposto della previsione dell’esercizio
di attività commerciale nel rispettivo atto costitutivo e non anche a quello del concreto
esercizio di tale attività. E si aggiunge che, parallelamente, anche l’art. 1 della l. f., che esclude
dal fallimento i piccoli imprenditori, con lo statuire che in nessun caso tali possono
considerarsi le società commerciali, ribadisce l’espressa volontà del legislatore di sottoporre
sempre a fallimento tali società in caso di insolvenza. Questi rilievi sono sicuramente
risolutivi sul piano del diritto positivo, relegando al piano delle valutazioni de iure condendo ogni
contrario giudizio sull’opportunità del fallimento di organismi non concretamente operativi
in termini di attività commerciale.
c) Le motivazioni della soluzione accolta possono per altro verificarsi anche in una
prospettiva ulteriormente avanzata, affrontando il nodo concettuale (non sciolto nei
precedenti richiamati) se le predette società assumano sin dalla loro costituzione la qualità di
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imprenditore commerciale ed in tal veste appunto falliscano ovvero il loro assoggettamento a
fallimento sia indipendente dall’acquisizione di una siffatta qualità. Si prescinde (perché
ultronea in questa sede) dalla questione teorica più complessa e generale del collegamento tra
i concetti di società e di imprenditore (dal problema cioè se sia vero, come da taluni
sostenuto - e da altri invece negato - che la società sia sempre e necessariamente destinata
all’esercizio dell’impresa), poiché il tema che ne interessa è quello, più specifico e circoscritto,
del rapporto intercorrente tra la società sorta, come nel nostro caso, con riferimento
statutario espresso all’esercizio di attività commerciale, e la qualità di imprenditore
commerciale. Al riguardo pare obbligata a questo Collegio la prima opzione interpretativa
che conduce appunto a spiegare l’assoggettamento a fallimento di siffatte società, in ragione
della loro qualità di imprenditore commerciale acquisita sin dall’atto della rispettiva
costituzione.
In via di prima approssimazione può senza contestazioni infatti affermarsi che il punto di
rilevanza ai fini dell’attribuzione dello status di imprenditore commerciale, sia in via generale,
vuoi per il soggetto individuale che per quello collettivo, legato al momento in cui questi
manifesti, in via definitiva (così segnando l’incidenza del suo porsi nell’ambiente sociale) la
propria intenzione di svolgere un’attività economica organizzata per la produzione e lo
scambio di beni o di servizi. Ora però - mentre per il soggetto fisico individuale la definitività
di una tale scelta (che rende attuale uno dei plurimi fini virtualmente perseguibili dall’agente)
si realizza solo con l’inizio del concreto esercizio dell’attività stessa (ben potendo, anche
dopo l’esteriorizzazione della volontà di intraprendere quell’attività, il soggetto mutare il
proprio programma operativo, senza essere vincolato dalla precedente sua esternazione),
onde appunto la qualità di imprenditore commerciale si acquisisce in questo caso solo in
termini di effettività - diversamente, con riguardo all’ente collettivo, l’irreversibilità della
scelta si realizza per definizione, in un momento anteriore. L’indicazione dello scopo di
esercizio di attività commerciale, nell’atto costitutivo di società, già sovrappone infatti alla
pluralità dei fini possibili l’attualità ed effettività di quel fine specifico, che connota la società
stessa già con il suo venir in essere. Né può replicarsi che una tale conclusione sia autorizzata
solo per le società di capitali, dotate di personalità giuridica e non lo sia invece anche per le
società di persone (cui si conviene nel non riconoscere una analoga premessa di soggettività).
Infatti, anche per quel che attiene a dette ultime società, la pluralità dei soci, se pur non si
risolve nell’unità di una diversa entità giuridica, comunque si manifesta, nelle relazioni
esterne, nei termini di un gruppo solidale ed inscindibile. E se esiste il gruppo come tale, per
ciò stesso (e quindi, pure in questo caso, dal momento della sua costituzione) resta del pari
dissolta la pluralità virtuale dei fini dei singoli soci, nella attualità dello scopo commerciale
unificante, da essi prescelto. Resta di conseguenza in ogni caso irrilevante l’eventuale
mancato esercizio dell’attività commerciale posta nell’atto costitutivo, una volta che la società
è sorta ed esiste (fino a modifica statutaria) per quel fine. Il che è quanto in buona sostanza
ritenuto anche dalla Corte di Ancona che, in coerenza a tale premessa appunto ha negato
ingresso alla chiesta prova su tale ininfluente circostanza, con decisione che si sottrae
pertanto, sul punto, a censura.
(omissis).
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CAPITOLO II
IL PRESUPPOSTO OGGETTIVO
SOMMARIO: II.1. Lo stato d’insolvenza – II.2. Le società in liquidazione
II.1. LO STATO D’INSOLVENZA.
II.1.1 Cass. civ., 28 ottobre 1992, n. 117224: “Rilevanza obiettiva dello stato di
insolvenza e “pactum de non petendo” (con tutti o solo alcuni creditori)”.
La sentenza affronta il problema del rapporto tra inadempimento ed insolvenza. In
particolar modo, si ribadisce che i due concetti non sono tra di loro equivalenti , ma
che il primo costituisce o può costituire un sintomo esteriore dell’esistenza del
secondo. Sotto tale profilo, assume particolare rilievo l’istituto del cd pactum de non
petendo, accordo con il quale i creditori si impegnano a concedere una dilazione del
pagamento dei propri crediti. La Corte si pronunzia in ordine alla possibilità di
considerare questo patto idoneo ad escludere la sussistenza dello stato di insolvenza,
ossia quella condizione di impotenza economica funzionale e non transitoria per la
quale l’imprenditore non è più in grado di far fronte regolarmente e con mezzi
normali alle proprie obbligazioni per il venir meno delle condizioni di liquidità e di
credito necessarie alla propria attività. In particolare, la Corte distingue l’ipotesi in
cui i creditori si impegnino a non chiedere per un certo periodo di tempo la
soddisfazione delle proprie pretese alla società, incidendo l’accordo direttamente
sull’adempimento e, quindi, sull’insolvenza, da quella in cui i creditori si impegnino
a pagare i debiti che la società abbia contratto con altri creditori, incidendo
indirettamente sull’adempimento.
“Al fine della dichiarazione di fallimento, mentre il pactum de non petendo tra tutti i creditori ed un
imprenditore societario, con cui i primi consentano una dilazione del pagamento dei loro crediti, incide
“direttamente” sull’inadempimento, escludendo l’insolvenza della società, l’accordo tra alcuni creditori e la
società, nel senso che tali creditori, oltre a consentire una dilazione dei propri crediti, provvedano a pagare i
debiti della società verso altri creditori, incide solo “indirettamente” sull’inadempimento, e non esclude
l’insolvenza della società nel caso in cui i creditori violino il patto nella parte relativa al pagamento dei debiti
degli altri creditori, atteso che lo stato di insolvenza deve essere valutato nella sua obiettività e che, pertanto, va
ritenuto sussistente anche se le cause che l’hanno determinato non siano imputabili all’imprenditore”.
Con i quattro motivi la ricorrente deduce che la Corte di appello è incorsa in violazione degli
artt. 5 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, 1453 e 2697 codice civile, 112 e 116 codice di
procedura civile nonché in vizio di motivazione, rispettivamente:
1) perché ha ritenuto che l’inadempimento all’accordo non poteva essere valutato quale causa
determinante dello stato di dissesto della società in quanto l’accordo - essendo stato stipulato
con il gruppo (di società), il quale aveva rilevanza meramente economica e non giuridica non aveva efficacia nei confronti delle singole società: senza rilevare che l’accordo, essendo
4
In Dir. fall., 1993, II, 352; in Fall.., 1993, 352.
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stato stipulato con i vari sotto-gruppi di società, doveva ritenersi vincolante nei confronti
delle singole società;
2) perché ha affermato che l’accordo era comunque irrilevante in quanto ad esso non aveva
partecipato l’intero ceto creditorio: senza rilevare che era stata sufficiente la partecipazione
delle banche sia perché solo il comportamento di queste aveva determinato lo stato di
dissesto sia perché l’accordo prevedeva (anche) che le banche avrebbero soddisfatto i
rimanenti creditori, e questi, pertanto, non avrebbero avuto interesse a contrastare l’accordo;
3) perché ha ritenuto che il Tribunale, il quale aveva dichiarato d’ufficio il fallimento, aveva
piena libertà di valutare la situazione nella quale versava la società: senza rilevare che la
mancata proposizione di istanze di fallimento evidenziava che i creditori avevano fiducia nel
proseguimento dell’attività e ciò escludeva che la società versasse in stato di insolvenza;
4) perché ha ritenuto ininfluente, e quindi inammissibile, la prova testimoniale: senza rilevare
che questa era intesa a dimostrare la conclusione e il contenuto dell’accordo, nonché la sua
efficacia nei confronti delle singole società, e, quindi, di essa ricorrente.
Il terzo motivo è infondato perché è inesatta la premessa da cui parte, e cioè che il fallimento
sia stato dichiarato di ufficio.
Come emerge dalla sentenza impugnata, difatti, il fallimento è stato dichiarato su istanza,
oltre che dell’Istituto di credito delle Casse di risparmio, della s.p.a. “Ponteggi Dalmine”: del
che, peraltro, costituisce riprova la ancora attuale partecipazione di tale società al giudizio.
I restanti motivi, che, in quanto connessi, possono essere esaminati congiuntamente, sono
anch’essi infondati.
Con le relative censure sostiene che la Corte di appello avrebbe dovuto ammettere la prova
sull’accordo, che questo era efficace nei confronti (delle singole società e quindi) della società
dichiarata fallita e che l’inadempimento allo stesso aveva causato lo stato di insolvenza.
L’accordo consisteva in un pactum de non petendo: le banche, cioè, si impegnavano a concedere
dilazione del pagamento dei loro crediti.
Ora questa Corte, pur ritenendo (Cass., 26 febbraio 1990, n. 1439) che il pactum de non petendo,
dilazionando la scadenza dei crediti, attiene all’adempimento delle obbligazioni, e, quindi
incide direttamente sull’insolvenza, ha precisato che ciò non esclude l’insolvenza, allorché,
nonostante il patto, essa persista o in virtù del dissesto patrimoniale atto a rendere comunque
definitiva l’impotenza finanziaria dell’imprenditore, o in considerazione di altre situazioni
debitorie, estranee al patto, a loro volta scadute e non soddisfatte a termine.
E la inidoneità del patto, nella specie, ad escludere di per sé l’insolvenza, è stata affermata,
sostanzialmente, dalla Corte di appello, la quale ha sottolineato il fermo totale dell’attività, la
proposizione di istanza di fallimento da parte di un creditore non partecipante al patto, il
mancato pagamento dei fornitori: circostanze, tutte, che evidenziano l’insolvenza
prescindendo dalla (ipotizzata) efficacia positiva del patto.
D’altronde l’onere di dimostrare che (in caso di rispetto del patto) non permanevano
condizioni di dissesto, incombeva alla ricorrente, la quale, invece, nulla ha dedotto sul punto.
L’unica (non deduzione, ma mera) considerazione che la ricorrente ha svolto al riguardo è
che il patto prevedeva che le banche avrebbero provveduto (anche) al pagamento dei
creditori diversi da esse.
Ma siffatta circostanza è, al fine in esame, irrilevante.
Infatti mentre l’accordo tra i creditori e la società nel senso che i primi consentano dilazione
del pagamento dei loro crediti incide “direttamente” sull’adempimento, e, quindi,
sull’insolvenza, l’accordo tra alcuni creditori e la società, nel senso che i primi provvederanno
(oltre a consentire dilazione ai propri crediti) a pagare i debiti della società verso altri
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creditori, si pone come un fatto che incide solo “indirettamente” sull’inadempimento, e,
quindi, sull’insolvenza, con la conseguenza che la violazione del patto costituisce, in ordine
all’indicata parte dell’accordo, circostanza irrilevante al fine della dichiarazione di fallimento,
poiché lo stato di insolvenza deve essere valutato nella sua obiettività, e va pertanto ritenuto
sussistente anche se le cause che l’hanno determinato non siano imputabili all’imprenditore
(Cass. 21 novembre 1986, n. 6856).
(omissis).
II.2 LE SOCIETÀ IN LIQUIDAZIONE.
II.2.1 Cass. civ., 11 maggio 2001, n. 65505: “Esclusione dello stato d’insolvenza,
rispetto a società in liquidazione, qualora risulti una prevalenza dell’attivo sul
passivo”.
La valutazione circa la ricorrenza dello stato di insolvenza dell’imprenditore assume
caratteri peculiari nella ipotesi in cui la società si trovi in stato di liquidazione, ovvero
quando allo scopo lucrativo si sia sostituito quello liquidatorio, funzionale al
soddisfacimento dei creditori sociali. L’accertamento in ordine alla sussistenza dello
stato di insolvenza deve quindi essere condotto con un criterio diverso da quello
usato in ipotesi di società in attività, ossia tenendo conto della capacità del
patrimonio sociale di estinguere l’esposizione debitoria e, quindi, della situazione
finanziaria statica. In particolare, in questo caso, lo stato di insolvenza si identifica
nella inferiorità dell’attivo patrimoniale rispetto all’ammontare dei debiti.
“Quando la società è in liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell’applicazione dell’art. 5 legge fall.,
deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare
l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto - non proponendosi l’impresa in
liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento
dei creditori sociali, previa realizzazione delle attività sociali, ed alla distribuzione dell’eventuale residuo tra i
soci - non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e
quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte. (Nella specie, la S.C., in applicazione
dell’enunciato principio, ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la sussistenza dello stato di
insolvenza di una società in liquidazione nella quale l’attivo patrimoniale risultante dal bilancio, benché
illiquido, era comunque superiore al passivo)”.
Con il primo motivo di ricorso il Fallimento ricorrente lamenta la violazione e falsa
applicazione dell’art. 5 L.F. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
Rileva che erroneamente la Corte territoriale ha escluso la sussistenza dello stato di
insolvenza di una società in liquidazione quando l’attivo patrimoniale, risultante dal bilancio,
benché illiquido, sia superiore al passivo, considerato che la società posta in liquidazione non
si propone di rimanere sul mercato.
Tale statuizione è sicuramente errata ed in contrasto con il concetto di insolvenza elaborato
dalla giurisprudenza di legittimità e di merito.
Con il secondo motivo assume che la statuizione della Corte distrettuale è certamente errata
in quanto
5
In Fall., 2001, 1029.
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a) qualora la società in liquidazione, già insolvente, non venisse espulsa dal mercato
verrebbe frustrata una delle ragioni che giustificano l’istituto stesso del fallimento, consistente
appunto nell’eliminazione dal mercato delle aziende non sane, sotto il profilo economico;
b) il mancato fallimento inoltre frustrerebbe il principio della par condicio in quanto
legittimerebbe pagamenti preferenziali e ritarderebbe la determinazione del periodo sospetto;
c) non è esatto che la società in liquidazione abbia limitata capacità di intraprendere posto
che il superamento di tale limite potrebbe sempre essere ratificato dall’assemblea e potrebbe
comunque dare luogo ad un vistoso volume di affari, pari a quello di una società in attività,
sia pure nel rispetto dell’art. 2449 c.c.;
d) la liquidazione è sempre revocabile dall’assemblea e ciò renderebbe la società stessa
arbitra del proprio fallimento.
Con il terzo motivo deduce che non sempre il valore finale dell’attivo corrisponde al valore
stimato talché qualora il valore finale si dimostrasse inferiore a quello stimato resterebbe il
solo risultato perverso di un aggravamento del dissesto, con ulteriore falcidia delle ragioni dei
creditori.
Nel caso in esame la Corte di merito ha inoltre ritenuto l’inesistenza dello stato passivo sulla
base di una consulenza prodotta dalla società fallenda e non contestata dal creditore istante,
senza considerare che qualora la consulenza fosse stata contestata avrebbe dovuto procedere
ad una consulenza estimativa d’ufficio, non ammissibile nel giudizio di opposizione alla
sentenza di fallimento, da tutti reputato come processo a prove costituite.
Con il quarto ed ultimo motivo assume che la sentenza della Corte di Cassazione n.
3321/1996 è stata fraintesa dal giudice di secondo grado.
Nel caso deciso con l’indicata sentenza la Corte Suprema ha affermato, con riferimento al
caso di specie, che non si poteva tenere conto delle prospettive dinamiche della società ma ci
si doveva attenere solo alla situazione finanziaria statica.
Pertanto per le società in liquidazione la Corte Suprema ha introdotto, al contrario di quanto
ritenuto dalla Corte territoriale, un criterio più rigido, posto che ha escluso si potesse tenere
conto del correttivo mitigatore della “crisi transeunte”.
Il ricorso è infondato e va pertanto respinto.
Invero riguardo al primo motivo si osserva che questa Corte Suprema ha già ritenuto che
l’insolvenza di una società in liquidazione, al contrario di quanto avviene per le società in
piena attività, deve escludersi ogni qual volta l’ammontare dell’attivo patrimoniale sia
superiore all’ammontare dei debiti e ciò perché la società in liquidazione non è più destinata
ad operare sul mercato, talché non è più necessario che disponga di credito e risorse, e quindi
di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni che via via contrae, dovendo solo
liquidare il proprio attivo, per estinguere prima le obbligazioni pendenti e quindi la società
stessa (Cass. civ. sez. I 10.4.1996 n. 3321).
A tale giurisprudenza si ritiene di dover dare continuità, non avendo il ricorrente dedotto
elementi di giudizio idonei a giustificare la modifica dell’indicata decisione.
Invero va ribadito e rilevato che, a seguito della delibera di messa in liquidazione della
società, si determina un mutamento dello scopo sociale nel senso che questo non consiste più
nel fine di lucro, che connota l’attività delle società commerciali, ma resta limitato solo alla
definizione dei rapporti pendenti, (Cass. civ. sez. I, 8.2.1974 n. 365) ed inoltre che ai
liquidatori ai sensi dell’art. 2279 c.c. è fatto divieto di intraprendere nuove attività, con
responsabilità personale ed illimitata, nell’ipotesi di violazione di tale divieto, peculiarità che
giustificano l’adozione di un criterio di qualificazione dello stato di insolvenza diverso da
quello valido per le società in piena attività.
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Il primo motivo va quindi respinto.
Parimenti infondato è altresì il secondo motivo articolato in più censure che vanno
partitamente esaminate.
In relazione alla prima censura si osserva, al contrario di quanto assunto dal ricorrente, che la
finalità principale della dichiarazione di fallimento è quella di assicurare ai creditori la par
condicio, nel senso che tutti devono concorrere al soddisfacimento del proprio credito in ugual
misura, tenuto conto dell’ammontare dell’attivo fallimentare, e che costituisce solo motivo
residuale l’espulsione delle società commerciali insolventi dal mercato.
L’indicata finalità principale non può ritenersi elusa, nelle ipotesi, quali quelle in esame, in cui
il giudice di merito abbia accertato, con valutazione in fatto, che l’attivo patrimoniale sia
sufficiente a consentire il pagamento di tutti i debiti, posto che in tal caso, e solo in tal caso,
la liquidazione della società assolve a finalità analoga a quella perseguita con la dichiarazione
di fallimento, consistente appunto nel garantire il pagamento di tutti i debiti, con uguale e
totale soddisfazione dei creditori. Nessuna violazione della par condicio può quindi ravvisarsi
nella decisione in esame. La liquidazione della società, soddisfatte ed estinte le obbligazioni
pendenti, porta inoltre allo scioglimento della società stessa, con conseguente sua
eliminazione dal mercato, così come sarebbe avvenuto nell’ipotesi di dichiarazione di
fallimento.
Né le esposte argomentazioni possono ritenersi scalfite dalla considerazione che ben
potrebbe l’assemblea dei soci revocare la decisione di liquidazione della società,
determinando una situazione di disparità fra i creditori soddisfatti ed i creditori rimasti esclusi
dai pagamenti.
Invero trattasi di una situazione non normalmente ricorrente, in relazione alla quale
l’ordinamento prevede dei correttivi, costituiti dall’immediato fallimento della società,
riprendendo vigore il tradizionale concetto di insolvenza, con possibilità di revoca dei
pagamenti effettuati, e dalla previsione di bancarotta preferenziale a carico dei liquidatori e
dei soci che abbiano agito in mala fede.
La prima articolata censura va quindi disattesa.
Irrilevante deve ritenersi poi la doglianza relativa alla possibilità che i liquidatori contraggano
rilevanti debiti nel periodo di durata della liquidazione.
Invero, come già detto, a seguito della delibera di liquidazione muta lo scopo sociale della
società talché i liquidatori, pena la responsabilità personale ed illimitata, possono contrarre
solo debiti necessari per il raggiungimento dello scopo residuo, consistente come più volte
precisato, nella definizione delle obbligazioni pendenti.
Pertanto l’argomento in questione si configura come una mera ipotesi che può concretizzarsi
solo nel caso di patologia del sistema e che pertanto non può assumere rilevanza in una
situazione di normalità giuridica.
Anche il secondo motivo va quindi respinto.
Inammissibile deve al contrario ritenersi il terzo motivo.
Invero il Fallimento ricorrente, con la doglianza contenuta nel motivo in esame, prospetta
una mera ipotesi non riferibile al caso di specie, avendo il giudice di merito accertato, con
valutazione in fatto, non censurabile nel giudizio di cassazione, che l’attivo della soc.
Meridionale Prefabbricati e della soc. Irpinia Sviluppo era abbondantemente sufficiente a
coprire tutti i debiti, circostanza questa fondamentale, come già precisato, ai fini
dell’applicabilità alle società in liquidazione del concetto di insolvenza in precedenza
enunciato.
(omissis)
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CAPITOLO III
GLI ATTI PREGIUDIZIEVOLI AI CREDITORI
SOMMARIO: III.1 Le legittimazione del curatore alla prosecuzione del giudizio - III.2. Natura
dell’azione revocatoria.
III.1 LEGITTIMAZIONE DEL CURATORE ALLA PROSECUZIONE DEL GIUDIZIO
III.1.1 Cass. civ. 19 luiglio 2002 n. 10547: “Perdita di legittimazione del creditore
nell’azione ex art. 2901 c.c.”
Il tema affrontato è quello della legittimazione attiva nell’ambito della azione
revocatoria, nella ipotesi in cui sopravvenga la dichiarazione di fallimento. L’art. 2901
c.c. prevede che anche il singolo creditore possa domandare che siano dichiarati
inefficaci gli atti dispositivi del patrimonio compiuti dal debitore, dai quali possa
derivare un pregiudizio alla garanzia del proprio credito. Qualora il creditore provi
che il titolo del credito sia sorto prima che il debitore abbia compiuto l’atto, che il
debitore sia stato consapevole di pregiudicare le pretese creditorie, che, in caso di
atto a titolo oneroso, anche il terzo sia stato consapevole del pregiudizio ed, infine, in
caso di atto compiuto prima della nascita del credito, che il debitore lo abbia
dolosamente preordinato all’offesa del ceto creditorio, il creditore beneficerà della
declaratoria di inefficacia dell’atto. Diversamente, nell’ambito della procedura di
fallimento, la legittimazione alla azione spetta in via esclusiva al curatore, in quanto
diretta a realizzare in concreto la garanzia patrimoniale del debitore, a favore della
totalità dei creditori, nel rispetto della par condicio creditorum.
“Sopravvenuto il fallimento del debitore, la legittimazione a proseguire il giudizio promosso dal creditore ex
art. 2901 c.c. spetta solo al curatore, trovando riscontro la perdita di legittimazione del creditore nel venir
meno del suo interesse all’azione”.
Il Tribunale di Ragusa, con sentenza pubblicata l'11 aprile 1997, accogliendo la domanda
proposta dalla società in nome collettivo C.E.I. di Giummarra e Fratelli Occhipinti (nelle
persone dei suoi amministratori Giovanni Giummarra e Giovanni Occhipinti) a norma
dell'art. 2901 C.C. nei confronti della debitrice società a r. l. Hotel Kastalia e della società a r.
l. Golf Kastalia (cui la stessa debitrice aveva conferito a norma dell'art. 2476 C.C. un ramo di
azienda comprendente un vasto terreno attrezzato a campo di golf), dichiarava inefficace nei
confronti della società attrice l'atto di conferimento 30 dicembre 1994 oggetto dell'azione
revocatoria e condannava le società convenute, in solido, al rimborso delle spese del giudizio.
La Corte d'appello di Catania, con sentenza 22 ottobre 1999, rigettava - nel merito l'impugnazione congiuntamente proposta dalla società a r. l. Hotel Kastalia - in
amministrazione controllata - e dalla società a r. l. Golf Kastalia, negando, preliminarmente,
che la sopravvenuta dichiarazione di fallimento della società debitrice (il giudizio perciò
interrotto era stato riassunto dal curatore della società a r. l. Golf Kastalia, pure essa nel
frattempo dichiarata fallita) avesse fatto venir meno l'interesse della creditrice ad agire in
revocatoria e conferito al curatore la legittimazione esclusiva alla prosecuzione del giudizio (il
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curatore della fallita società Hotel Kastalia era rimasto contumace nel giudizio conseguente
alla riassunzione).
Contro questa decisione il curatore del fallimento della società a r. l. Golf Kastalia ha
proposto ricorso per cassazione, argomentando due motivi di impugnazione. Ha resistito con
controricorso la società in r. l. C.E.I. di Giummarra e fratelli Occhipinti, che ha presentato
anche memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso il curatore del fallimento della società a r. l. Golf Kastalia
deduce la violazione degli artt. 43, 51 e 66 legge fallimentare, in relazione agli artt. 100 c.p.c. e
2901 C.C., invocando l'applicazione del principio anche di recente ribadito in sede di
giurisprudenza di legittimità e disatteso dalla Corte di merito, secondo cui, sopravvenuto il
fallimento del debitore, la legittimazione a proseguire il giudizio promosso dal creditore ex
art. 2901 C.C. spetta solo al curatore, trovando riscontro la perdita di legittimazione del
creditore nel venir meno del suo interesse all'azione. Sicché la Corte di merito, in luogo di
dichiarare l'improseguibilità del processo, erroneamente ha pronunciato sul merito
dell'appello (che ha rigettato, così confermando l'accoglimento della domanda deciso dal
Tribunale).
Il motivo è fondato.
1.1 Dalla considerazione dei profili fattuali della presente vicenda processuale (l'essere
intervenuta la dichiarazione del fallimento del debitore - convenuto in revocatoria - nel corso
del giudizio dì appello; l'avere i giudici di primo grado accolto la domanda del creditore; non
avere il curatore del fallimento del debitore "fatto" propria l'azione del creditore", né
esercitato autonomamente l'azione ex art. 66 l. f.) la sentenza impugnata trae la conseguenza innanzitutto - che non può dirsi venuto meno nel presente giudizio l'interesse del creditore a
persistere nell'azione individuale (giacché soltanto la iniziativa del curatore in sua sostituzione
o in sede autonoma varrebbe a vanificare quell'interesse): sicché non potrebbe alla specie
attagliarsi l'argomento (prospettato in linea generale nella giurisprudenza di legittimità: Cass.
7119/1998; 1292/1981, 3158/1976) secondo cui la perdita della legittimazione del creditore
originario attore trova riscontro nel venir meno del suo interesse all'azione.
La Corte di merito mostra per altro di aderire a quella dottrina che ha colto i profili che
differenziano - così nella causa petendi come nel petitum, oltre che per i profili soggettivi l'azione promossa dal creditore ex art. 2901 C.C. e quella esercitata dal curatore ex art. 66 l. f.;
e prospetta gli ostacoli che sembrano opporsi al "subentro" del curatore nella (diversa) azione
del creditore (e se si tratta di intervento principale, è inammissibile in appello), quando in
ogni caso nel giudizio in ipotesi proseguito dal curatore (in luogo del creditore) vien meno la
presenza del debitore, contraddittore necessario nella azione dal creditore promossa ex art.
2901. Critica infine la sentenza impugnata l'aver individuato la ragione della improseguibilità
dell'azione del creditore nel divieto posto dall'art. 51 l. f. (divieto di azioni esecutive
individuali), poiché la revocatoria - in sé azione non esecutiva - è per altro strumentale alla
esecuzione nei confronti dell'acquirente (e non già su bene "compreso nel fallimento") nei
modi "dell'espropriazione contro il terzo proprietario" secondo l'espressa previsione dell'art.
602 c.p.c..
1.2. Ebbene, a ragione il ricorrente contesta la rilevanza di tali argomenti che attengono ad un
problema non posto dalla presente controversia (dove il curatore del fallimento del debitore
non ha inteso avvalersi della iniziativa del creditore e ad esso sostituirsi), sicché non v'é
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ragione qui di pronunciarsi sulla ammissibilità - in linea generale di diritto - dell'intervento
"sostitutivo" del curatore; mentre deve rimaner fermo il principio che, dichiarato il
fallimento, ogni iniziativa diretta alla conservazione della garanzia patrimoniale del debitore
non può spettare che al curatore, unico legittimato - perciò - all'esercizio pure della azione
revocatoria ordinaria. Sicché, se penda l'azione ex art. 2901 C.C. all'atto della dichiarazione di
fallimento del debitore, il creditore che l'abbia promossa perde la legittimazione a proseguirla,
divenuta incompatibile con le funzioni del curatore e con la finalità della procedura esecutiva
collettiva, poiché dei mezzi di reintegrazione della garanzia patrimoniale deve
necessariamente profittare la generalità dei creditori (e nei confronti della generalità dei
creditori deve essere dichiarata la inefficacia dei singoli atti revocandi).
1.3. Se è vero, dunque, che l'argomento che tradizionalmente si suole fondare sull'art. 51 l. f. sul divieto cioé di azioni esecutive individuali - non è (letteralmente) appropriato, è pur vero
tuttavia che così la affermata improseguibilità dell'azione revocatoria proposta dal creditore,
come il divieto dell'art. 51, discendono dal comune principio fondante della procedura
concorsuale, la cui funzione, esercitata in via esclusiva dall'ufficio del curatore (sotto la
direzione del giudice delegato), consiste nella realizzazione in concreto della garanzia
patrimoniale del debitore a favore della totalità dei creditori e pur attraverso iniziative di
reintegrazione di quella garanzia. E la ragione decisiva e sufficiente per negare la
proseguibilità dell'azione revocatoria promossa dal creditore consiste dunque nella
incompatibilità di quella iniziativa individuale, e della legittimazione del creditore al riguardo,
rispetto alle funzioni proprie del curatore e alla sua legittimazione di necessità esclusiva,
mentre non può dirsi decisivo l'argomento fondato sull'asserito venir meno di ogni interesse
del creditore alla prosecuzione della sua azione; giacché nella ipotesi fattuale della inerzia del
curatore (benché sollecitato) - alla quale corrisponde la vicenda di specie - quell'interesse in
concreto permarrebbe.
E tuttavia un tale interesse non può trovare riconoscimento in costanza di fallimento, in
ragione appunto della incompatibilità funzionale della iniziativa individuale con la
sopravvenuta procedura concorsuale.
(omissis)
III.2 NATURA DELL’AZIONE REVOCATORIA
III.2.1 Cass. civ., sezioni unite, 28 marzo 2006, n. 7028: “Natura distributiva non
indennitaria dell’azione revocatoria fallimentare”
Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione sono state investite di risolvere
un conflitto insorto nella giurisprudenza tra chi riteneva che l’azione revocatoria
poteva essere esperita dal Curatore fallimentare solo se fosse provato che l’atto di
disposizione patrimoniale del quale si chiedeva dichiararsi l’inefficacia avesse
cagionato un danno alla massa dei creditori (teoria indennitaria) e chi, invece,
riteneva che il danno doveva ritenersi implicitamente verificato dall’avvenuta
fuoriuscita del bene dal patrimonio del fallito (teoria distributiva o antindennitaria).
La sentenza aderisce a tale secondo orientamento
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“L’azione revocatoria fallimentare non presuppone la dimostrazione di un danno patrimoniale, essendo
sufficiente che per effetto dell’atto oggetto di revoca sia alterata la par condicio creditorum ricollegabile, per
presunzione legale ed assoluta, alla uscita del bene dalla massa, conseguente all’atto di disposizione”.
La questione sottesa al primo motivo del ricorso e portata, come detto, all'esame di queste
Sezioni unite, è propriamente la seguente: se sia o meno oggettivamente revocabile, ai sensi
dell'art. 67 L. Fall., comma 2, la vendita eseguita dall'imprenditore - poi fallito entro un anno
- il quale abbia utilizzato parte del prezzo riscosso per il pagamento di credito privilegiato
(nella specie assistito da ipoteca gravante sullo stesso immobile oggetto della vendita).
1. Sul punto, risalente giurisprudenza si è effettivamente già pronunciata nel senso, come
ricordato dal ricorrente, della irrevocabilità di una siffatta vendita ove, e per la misura in cui,
si accerti che il denaro corrisposto a titolo di prezzo dall'acquirente sia stato destinato
all'estinzione di crediti privilegiati: così, appunto, Cass. 9 novembre 1956 n. 4211, 18 maggio
1971 n. 1472, 28 aprile 1975 n. 1626, 4 maggio 1983 n. 3050.
Ma sono rimasti al riguardo insuperati i rilievi formulati da autorevole dottrina in ordine
all'assenza di previsioni normative che autorizzino e rendano in concreto possibile
l'attuazione di una revoca parziale della vendita di un unico immobile.
Rilievi dei quali l'ultima delle citate sentenze (n. 3050/1983) si è pur mostrata avvertita, ma
dai quali ha ritenuto di poter prescindere per la ragione che, nella specie, il giudice del merito,
disposta la revoca, aveva condannato il terzo acquirente al rimborso di parte del valore del
bene, determinato in una somma di denaro, e sul punto non vi era stata censura.
Mentre da quella data (1983) nessun’altra pronuncia è più intervenuta sullo specifico tema della
parziale revocabilità, ex art. 67 L. Fall., della vendita di un unico immobile; nè la questione si
è mai prospettata con riguardo alla revocatoria ordinaria di cui all'art. 2901 c.c..
2. E però, comunque, sulla premessa della natura indennitaria della revocatoria fallimentare da cui appunto le sentenze su menzionate hanno desunto il corollario che gli effetti utili di
quella azione vadano “contenuti nei limiti del danno causato dall'atto impugnato” - che la
giurisprudenza successiva ha evidenziato quelle “dissonanze”, in ragione delle quali la Sezione
prima ha ritenuto opportuna la rimessione della questione a queste Sezioni unite.
Ed infatti, mentre un filone di pronunzie, tendenzialmente maggioritario, ha optato per una
configurazione distributiva, e non più indennitaria, della revocatoria di cui al comma secondo
dell'art. 67 L. Fall. - affermando che, in relazione alla stessa, il danno della massa è "in re
ipsa", ovvero presunto in via assoluta, e consiste nella pura e semplice lesione della "par
condicio creditorum" (cfr. Cass. 20 settembre 1991 n. 9853; 16 settembre 1992 n. 10570; 12
novembre 1996 n. 9908; 19 febbraio 1999 n. 1390; 12 gennaio 2001 n. 403; 14 novembre
2003 n. 17189) - altra serie di pronunzie, sia pur con riferimento alla diversa fattispecie del
pagamento infrannuale effettuato dall'imprenditore a creditore - privilegiato, ha ritenuto
subordinata la revoca di quell'atto alla effettiva ricorrenza di un danno, in concreto, per la
massa.
E ciò o appunto (in un primo tempo) sul presupposto del carattere solo relativo della
presunzione di danno ai creditori correlata all'atto in questione, vincibile attraverso la prova
contraria della sua insussistenza nel caso concreto (cfr. nn. 7649/1987; 5857/1988), ovvero
(in prosieguo) argomentando dal "difetto di interesse ad agire del curatore" nel caso in cui il
convenuto dimostri che l'eventuale accoglimento della domanda non arrechi alcuna utilità alla
massa)trattandosi di somma che, ove pur recuperata, dovrebbe, in sede di riparto, essere poi
comunque a lui attribuita, in quanto titolare di diritto di prelazione poziore rispetto a quello
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degli altri creditori (così, da ultimo, sent. n. 20005 del 14 ottobre 2005; e, in precedenza, n.
495 del 18 gennaio 1991; n. 2751 dell'8 marzo 1993;
n. 8096 del 28 aprile 2004; n. 12558 dell'8 luglio 2004; n. 5713 del 16 marzo 2005).
3. Tanto premesso e valutato, ritiene ora però il Collegio che, ai fini della soluzione del
quesito come sopra proposto, non venga in realtà in rilievo la circostanza che il prezzo della
vendita, eseguita dall'imprenditore poi fallito entro l’anno, sia stato da questi destinato solo in
parte al pagamento di un credito assistito da privilegio (e che resti di conseguenza assorbito il
problema di ammissibilità di una revoca parziale della vendita di un unico bene immobile),
dovendosi - a monte - escludere che una destinazione anche integrale, del prezzo ricavato da
una siffatta vendita, al pagamento di creditori privilegiati dell'imprenditore poi fallito, possa
assumere valenza ostativa all'esercizio dell'azione di cui al comma secondo dell'art. 67 L. Fall..
E ciò in ragione del carattere distributivo, e non indennitario, di detta azione, che va qui
riaffermato, in consonanza con l'indirizzo interpretativo aperto dalla citata sentenza n, 9853
del 1991 ed alla stregua di una lettura della norma in esame che univocamente si impone alla
stregua dei canoni dell'ermeneutica, letterale, teleologico e sistematico.
Avendo, per altro, riguardo, per quest'ultimo profilo, al coordinamento - che presuppone
l'enucleazione dei rispettivi tratti differenziali - della revoca, che qui ne occupa, degli atti a
titolo oneroso (e dei pagamenti) compiuti entro l'anno anteriore alla dichiarazione di
fallimento, rispetto, per un verso, alla revocatoria ordinaria di cui agli artt. 2901 cod. civ., e
ss., per altro verso, alla revocatoria fallimentare degli atti onerosi infrabiennali con "notevole
sproporzione" in danno dell'imprenditore, di cui all'art. 67 L. Fall., comma 1, n. 1.
Come è stato, infatti, anche di recente esattamente ribadito (da Cass. n. 17189/2003) il
fondamentale elemento di discrimine tra la revocatoria ordinaria (che anche il curatore è
legittimato ad esperire ex art. 66 L. Fall.) e quella fallimentare, sotto il profilo del danno, è
rappresentato dalla circostanza che la seconda si riferisce, per definizione, ad atti posti in
essere quando il debitore si trova in una situazione di insolvenza già inveratasi;
mentre, agli effetti della revocatoria ordinaria, l'atto di disposizione viene in rilievo in
correlazione ad una insolvenza solo potenziale, per cui appunto si richiede la dimostrazione
di un pregiudizio alle ragioni del creditore, costituito dalla insufficienza dei beni residui, ad
offrire la garanzia patrimoniale prevista dall'art. 2740 c.c. (e non da una semplice diminuzione
della stessa: cfr. n. 16915/03).
Ulteriore distinzione va poi, come detto, operata nell'ambito della stessa revocatoria
fallimentare.
E, per tal profilo, corretto è il rilievo, svolto nella sentenza capofila n. 9853/1991 e nelle
successive (già citate) conformi, per cui, mentre nella previsione dell'art. 67 L. Fall., comma 1,
n. 2, l'oggettivo danno al patrimonio della parte, poi fallita, riconducibile al requisito della
"notevole sproporzione" richiesto per la revoca dell'atto oneroso di disposizione da essa
compiuto, costituisce elemento da inglobare nel più ampio concetto di "eventus damni" per
la massa dei creditori, non così è nell'ipotesi del negozio oneroso infrannuale di cui al
successivo comma secondo, ove è assente il riferimento ad un analogo requisito di danno.
Emergendo così, anche dalla stessa diversa formulazione delle due regole giuridiche (pur)
contenute nel medesimo articolo, come, nel secondo caso (in prospettiva di una più incisiva
salvaguardia nei confronti degli atti compiuti dall'imprenditore commerciale nel periodo più
prossimo alla sua dichiarazione di fallimento), prema al legislatore non tanto il rapporto
commutativo del negozio quanto il recupero, comunque, di ciò che, uscendo dal patrimonio
del debitore nell'attualità di una situazione di insolvenza, sottragga il beneficiario alla
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posizione di creditore concorrente (perchè, in tal modo, già soddisfatto), con automatico
vulnus del principio della par condicio creditorum.
E spiegandosi pure, quindi, in tale prospettiva perchè la norma sancita nel capoverso dell'art.
67 L. Fall. accomuni, nella sua eccezionalità, alla sorte dei contraenti a titolo oneroso quella
dei creditori che abbiano (pur legittimamente secondo le regole civilistiche) ricevuto
dall'imprenditore, poi fallito, il pagamento di propri crediti liquidi ed esigibili.
Dal che la conclusione - coerentemente da tali premesse desunta dalla giurisprudenza che si
condivide (sent.ze nn. 9853/91; 10570/92; 11216/95; 9908/96; 1390/99; 403/01; 17189/03
citt.) - che il presupposto oggettivo della revocatoria degli atti di disposizione compiuti
dall'imprenditore nell'anno anteriore alla dichiarazione del suo fallimento si correli non alla
nozione di danno quale emerge dagli istituti ordinari dell’ordinamento bensì alla specialità del
sistema fallimentare, ispirato all'attuazione del principio della par condicio creditorum, per
cui il danno consista nel puro e semplice fatto della lesione di detto principio, ricollegata, con
presunzione legale assoluta, al compimento dell'atto vietato nel periodo indicato dal
legislatore.
3.1. Il contrario orientamento - che ritiene tale presunzione suscettibile viceversa di prova
contraria e, anche in prospettiva di una verifica dell'interesse ad agire da parte del curatore,
ammette il convenuto in revocatoria a dimostrare l'eventuale assenza in concreto di un danno
alla massa ricollegabile all'atto di disposizione vietato, in correlazione alla intervenuta
utilizzazione del prezzo che l'imprenditore abbia ricavato dalla vendita (e dalla destinazione
del pagamento da lui effettuato) in favore di un creditore assistito da privilegio - si scontra
inevitabilmente, infatti, con la considerazione che è solo nella fase finale di riparto dell'attivo,
e non anche quindi già anticipatamente nella fase dell'esercizio delle revocatorie, che è
possibile verificare se esistano o meno altri creditori privilegiati, di grado poziore o pari
rispetto a quello beneficiario del pagamento vietato, e se, in caso affermativo, sia possibile
l'integrale soddisfazione di tutti (come implicitamente ammesso anche da Cass. 9149/1997
cit.).
3.2. La natura distributiva della azione di cui al capoverso dell'art. 67 L. Fall. non è stata, del
resto, revocata in dubbio anche nel corso del dibattito e dei lavori che hanno preceduto la
recente riforma della legge fallimentare, essendosi talora proposta una rimodulazione di
quella norma in senso indennitario ovvero, alternativamente, anche auspicato un suo
ridimensionamento, con abrogazione della revocabilità dei pagamenti di debiti liquidi ed
esigibili.
Ma a questi indirizzi non si è poi dato seguito, essendo prevalsa la diversa scelta (in linea con
l'evoluzione della disciplina concorsuale dei principali paesi europei) di ridurre semplicemente
(dimezzandolo) il periodo sospetto per l'esercizio dell'azione in esame (art. 67 cpv., L. Fall.,
nuovo testo, come sostituito dal D.L. art. 35, n. 2, convertito in L. n. 80 del 2005), con
l'introduzione anche, per altro, di talune eccezioni alla regola (implicitamente confermative
quindi della stessa), come (per quel che più direttamente attiene alla fattispecie considerata)
quella di non revocabilità delle vendite a giusto prezzo di immobili ad uso abitativo destinati
a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti od affini entro il terzo
grado (art. 67 cit., comma 3, lett. c, nuovo testo).
4. Il contrasto di indirizzi interpretativi sottostante alla questione in esame va
conclusivamente, quindi, risolto con l’affermazione del principio per cui, ai fini della revoca
della vendita di propri beni effettuata dall'imprenditore, poi fallito entro un anno, ai sensi
dell'art. 67 L. Fall., comma 2, l’eventus damni è “in re ipsa” e consiste nel fatto stesso della
lesione della par condicio creditorum, ricollegabile, per presunzione legale ed assoluta,
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all’uscita del bene dalla massa conseguente all'atto di disposizione. Per cui grava, in tal senso,
sul curatore il solo onere di provare la conoscenza dello stato di insolvenza da parte
dell'acquirente. Mentre la circostanza che il prezzo ricavato dalla vendita sia stato utilizzato
dall'imprenditore, poi fallito, per pagare un suo creditore privilegiato (eventualmente anche
garantito, come nella specie, da ipoteca gravante sull'immobile comprevenduto) non esclude
la possibile lesione della par condicio, nè fa venir meno l'interesse all’azione da parte del
curatore, poichè è solo in seguito alla ripartizione dell'attivo che potrà verificarsi se quel
pagamento non pregiudichi le ragioni di altri creditori privilegiati, che anche successivamente
all’esercizio dell'azione revocatoria potrebbero in tesi insinuarsi
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CAPITOLO IV
LA CHIUSURA DEL FALLIMENTO
SOMMARIO: V.1. La declaratoria di chiusura del fallimento. – V.2 Il concordato fallimentare
IV.1 LA DECLARATORIA DI CHIUSURA DEL FALLIMENTO.
IV.1.1 Trib. di Genova, 5 giugno 2002: “Effetto interruttivo della dichiarazione di
fallimento”.
Secondo l’art. 120, l.fall., la chiusura del fallimento produce la cessazione degli effetti
della procedura sul patrimonio del fallito e la decadenza degli organi ad essa
preposti, e tra questi il curatore, con il conseguente riacquisito della legittimazione
processuale da parte del debitore, e del diritto, da parte dei creditori, di agire verso
quest’ultimo per le pretese rimaste insoddisfatte. Il tribunale affronta il tema della
sorte della domanda di ammissione di un credito, nell’ipotesi di chiusura del
fallimento, rilevando, da un lato, il fatto interruttivo da questa integrato, e, dall’altro,
la sopravvivenza della controversia tra il debitore ed il creditore in ordine alla
all’accertamento dell’entità e della qualificazione giuridica del credito e della sua
soddisfazione.
“La chiusura del fallimento, comportando la cessazione degli effetti sul patrimonio del debitore e la decadenza
degli organi preposti, con la conseguente perdita di questi ultimi della legittimazione processuale, integra un
fatto interruttivo. E ciò anche, ad avviso del collegio, nell'ipotesi specifica, di pendenza della causa davanti al
collegio, con cristallizzazione della domanda della ricorrente nel senso dell'ammissione del suo credito allo stato
passivo del fallimento, non potendo certamente ritenersi improcedibile la domanda per l'inesistenza del
provvedimento richiesto”.
Il Tribunale (omissis)
In via preliminare, il collegio osserva come il fallimento Ma. Gia. s.r.l. sia stato chiuso da
questo tribunale, per insufficienza di attivo, ai sensi dell'art. 118 n. 4 legge fallimentare, con
decreto del 28 marzo 2002.
La circostanza, ancorché non risultante dal fascicolo processuale dell'odierno giudizio di
insinuazione tardiva, appartiene alla conoscenza del collegio per la presenza in esso, quale
relatore, del giudice delegato al fallimento. E tale elemento, al centro di ripetute censure di
costituzionalità, sia sotto il profilo della sua partecipazione al collegio decidente sul reclamo
endofallimentare, sia della commistione delle funzioni di giudice delegato e di giudice
istruttore nelle cause di opposizione allo stato passivo, sempre disattese dalla corte
costituzionale (così, tra le più recenti: Corte cost. 6 novembre 1998, n. 363 e Corte cost. 18
luglio 1998, n. 304, in Il fallimento 1999, 145; Corte cost. 23 maggio 2001, n. 167, ivi, 2001,
1083), è sempre stato valorizzato, al fine di escludere la violazione del principio, in
particolare, di imparzialità e di terzietà (in base ad una prevenzione cognitiva), anche alla luce
del novellato art. 111 Cost., sul rilievo della giustificazione della sua presenza nel collegio
decidente (e prima: come istruttore, consentita dalla difformità valutativa e decisoria
derivante da una prima cognizione sommaria e successivamente a rito ordinario con pienezza
di contraddittorio, con diversa efficacia preclusiva del provvedimento terminale dell'una e
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dell'altra), siccome garante della rapidità e della continuità delle fasi processuali, in virtù della
compiutezza "della sua conoscenza di fatti, rapporti e situazioni soggettive ed oggettive della
procedura": conoscenza tale da non poter andare dispersa, ma da doversi rapportare in modo
costante e diretto con il tribunale fallimentare (in tale senso, pressoché testuale: Corte cost. 6
novembre 1998, n. 363, cit., con richiamo di precedenti proprio sul punto).
Dalle superiori argomentazioni discende l'impossibilità per questo collegio giudicante di
ignorare l'intervenuta chiusura del fallimento.
Detto questo, occorre valutare quali conseguenze processuali un tale evento induca
nell'odierno giudizio, pervenuto alla fase della sua decisione.
Secondo il consolidato e condivisibile insegnamento giurisprudenziale, in particolare di
legittimità, la chiusura del fallimento, comportando la cessazione degli effetti sul patrimonio
del debitore e la decadenza degli organi preposti, con la conseguente perdita di questi ultimi
della legittimazione processuale, integra un fatto interruttivo. E ciò anche, ad avviso del
collegio, nell'ipotesi specifica, di pendenza della causa davanti al collegio, con cristallizzazione
della domanda della ricorrente nel senso dell'ammissione del suo credito allo stato passivo del
fallimento, non potendo certamente ritenersi improcedibile la domanda per l'inesistenza del
provvedimento richiesto (come invece opinato da Trib. Roma 22 maggio 1992, in Dir. fall.
1993, II, 512, per la mancanza delle condizioni per la dichiarazione di interruzione).
Al riguardo, giova sottolineare come di improseguibilità dell'opposizione allo stato passivo
(ed analogamente: della tardiva contestata) non sia corretto parlare, posto che, (ri)trasferita la
legittimazione processuale dal curatore fallimentare al debitore, non variano né il petitum né la
causa pretendi della domanda: tra le parti si continua, infatti, a controvertere in ordine
all'accertamento dell'entità e della qualificazione giuridica di un credito e della sua
realizzazione satisfattiva, attraverso la condanna al pagamento del debitore, piuttosto che
attraverso la richiesta di partecipazione al concorso, per il solo mutamento della situazione
giuridica determinato dalla chiusura del fallimento (in tale senso, in particolare: Cass. 6 marzo
1998, n. 2514, in Il fallimento 1999, 502).
Così ricondotta la fattispecie in esame ad una causa interruttiva, occorre peraltro dire che,
operando nell'odierno giudizio di cognizione ordinaria (con la sola peculiarità della fase
introduttiva, tuttavia riconciliata con le generali regole del codice di rito fin dalla successiva
fase di trattazione), essa deve essere trattata alla stregua dell'ordinaria disciplina.
Ed allora, l’evento interruttivo dipendente dalla perdita della capacità della parte costituita o,
come nel caso di specie, del contumace, deve risultare, per produrre effetti, esclusivamente
nelle forme previste dall'art. 300 (in particolare, nel caso di specie: quarto comma) codice di
procedura civile, per la tipicità dei mezzi di conoscenza previsti dalla disposizione, che non
consente né l'automaticità dell'interruzione, né il ricorso a mezzi equipollenti (così: Cass. 22
gennaio 1992, n. 782), salva qualche maggiore flessibilità nell'interpretare, come
inequivocabilmente volto a far constare l'evento interruttivo, il comportamento in tale senso
concludente del procuratore della parte interessata da tale evento (in tale senso: Cass. 15
marzo 1994, n. 2458, in Il fallimento 1994, 1004), pur sempre tuttavia necessario e non
surrogabile da altri canali di conoscenza.
Poiché nell'odierno giudizio l'evento interruttivo, pure a conoscenza del collegio, non è
risultato nelle forme tipiche previste dal codice di rito, né potendo diversamente, in via
officiosa, esserne dichiarata l'interruzione (come invece ritenuto, argomentando da un
supposto permanente principio inquisitorio regolante il giudizio, ai sensi dell'art. 101 legge
fallimentare, da: Trib. Roma 4 febbraio 1992, ord., in Dir. fall. 1993, II, 512), la causa deve
essere decisa nel merito, tenuto ovviamente conto, seppure non ai fini interruttivi in parola
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(per il difetto delle condizioni previste dalla legge), dell'avvenuta chiusura del fallimento,
comportante la conseguente cessazione del concorso. Il tribunale resta pertanto investito,
rispetto al duplice contenuto della domanda di insinuazione tardiva (accertamento del credito
e partecipazione al concorso), della sola parte riguardante l'accertamento del credito, ma non
anche di quella riguardante la richiesta di partecipazione al concorso, ormai inesistente
(neppure, tanto meno, potendo, in luogo di essa, essere resa una pronuncia di condanna nei
confronti della società fallita tornata in bonis , per la fin troppo evidente ragione della mancata
instaurazione di alcun contraddittorio nei suoi confronti nell'odierno giudizio, non potuto
interrompere per i motivi detti).
(omissis) .
IV.2 IL CONCORDATO FALLIMENTARE6
IV.2.1 Tribunale di Napoli, 15 novembre 2006: “Proposta concordataria presentata
dal terzo”.
Il tribunale si pronunzia sulla materia del concordato fallimentare, rivisitata dal d.lgs.
9 gennaio 2006 n.5, che ha organicamente riformato la legge fallimentare, ed, in
particolare, sulla innovativa disposizione che circoscrive alla ipotesi di proposta
presentata dal terzo la possibilità di limitare l’impegno concordatario ai solo creditori
ammessi al passivo, anche provvisoriamente, ed a quelli che hanno proposto
opposizione allo stato passivo medesimo o domanda di ammissione tardiva al tempo
della proposta, continuando a rispondere verso tutti gli altri creditori il fallito, a meno
che non ottenga l’esdebitazione.
6
L’art. 114, d.lg. 9 gennaio 2006, n.5, ha sostituito l’art. 124 con il seguente:
“1. La proposta di concordato può essere presentata da uno o più creditori o da un terzo, anche prima del decreto che rende
esecutivo lo stato passivo, purché i dati contabili e le altre notizie disponibili consentano al curatore di predisporre un elenco
provvisorio dei creditori del fallito da sottoporre all’approvazione del giudice delegato. Essa non può essere presentata dal
fallito, da società cui egli partecipi o da società sottoposte a comune controllo, se non dopo il decorso di sei mesi dalla
dichiarazione di fallimento e purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo.
2. La proposta può prevedere:
a) la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei;
b) trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse, indicando le ragioni dei trattamenti differenziati dei
medesimi;
c) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni,
accollo o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di
azioni, quote ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito.
3. La proposta può prevedere che i creditori muniti di diritto di prelazione non vengano soddisfatti integralmente, purché il
piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul
ricavato in caso di vendita, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile al cespite o al credito oggetto della garanzia
indicato nella relazione giurata di un esperto o di un revisore contabile o di una società di revisione designati dal tribunale. Il
trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione.
4. La proposta presentata da un terzo può prevedere la cessione, oltre che dei beni compresi nell’attivo fallimentare, anche
delle azioni di pertinenza della massa, purché autorizzate dal giudice delegato, con specifica indicazione dell’oggetto e del
fondamento della pretesa. Il terzo può limitare gli impegni assunti con il concordato ai soli creditori ammessi al passivo,
anche provvisoriamente, e a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al
tempo della proposta. In tale caso, verso gli altri creditori continua a rispondere il fallito, fermo quanto disposto dagli artt.
142 e seguenti in caso di esdebitazione”.
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“Nella ipotesi in cui il concordato fallimentare sia proposto dal fallito, la proposta deve essere rivolta non solo
ai creditori ammessi al passivo fallimentare ma anche a quelli non ammessi alla data di presentazione della
proposta.
La possibilità ex art. 124, comma 4, l.fall., di limitare gli impegni concordatari ai soli creditori ammessi al
passivo, anche provvisoriamente, ed a quelli che abbiano proposto opposizione allo stato passivo o domanda di
ammissione tardiva al tempo della proposta, è consentita nel solo caso di concordato fallimentare proposto da
un terzo”.
Atteso che, nella specie, stante quanto disposto dall’art. 150 d.lgs. 9 gennaio 2006 n.5, va fatta
applicazione della disciplina del concordato fallimentare di cui agli artt. 124 e ss. l.fall. come
modificata da tale decreto legislativo, che tra l’altro, all’art. 125, co.2, prevede che la proposta
concordataria che “contenga condizioni differenziate per singole classi di creditori…deve
essere sottoposta”, con i pareri del curatore e del comitato dei creditori, “al giudizio del
tribunale, che verifica il corretto utilizzo dei criteri di cui all’articolo 124, secondo comma
lettere a) e b), tenendo conto anche della relazione resa ai sensi dell’articolo 124, terzo
comma”; ritenuto che, nonostante la lettera dell’art. 125, co. 2, l.fall., il controllo che il
tribunale ha il potere-dovere di esercitare sulla proposta di concordato fallimentare che gli
venga sottoposta ai sensi di tale disposizione normativa non possa essere limitata alla verifica
del corretto utilizzo dei criteri di cui all’art. 124, co.2, lett. a) e b), l.fall., ma debba
necessariamente essere esteso alla preliminare verifica della legittimità della proposta, così
come, sotto il vigore della precedente disciplina, non si dubitava della sussistenza in capo al
giudice delegato, apparentemente investito del solo potere-dovere di verificare la convenienza
della proposta, anche del potere-dovere di verificarne la legittimità finalizzato ad impedire un
inutile prosieguo della procedura incidentale dalla medesima proposta avviata ed a evitare il
rischio di un inutile ritardo nelle operazioni di liquidazione dell’attivo fallimentare;
considerato che la proposta in esame prevede esplicitamente il pagamento integrale dell’unico
creditore privilegiato ammesso al passivo fallimentare della suddetta società e la suddivisione
dei tre creditori chirografari ammessi al passivo fallimentare della suddetta società in due
classi, la prima comprendente la solo F. S.p.a., la seconda comprendente la C. C. I. A.A. di
Napoli e la G.L. S.p.A., delle quali prevede il soddisfacimento nella percentuale del 60%;
ritenuto, tuttavia che siffatta proposta, essendo rivolta ai soli creditori ammessi al passivo
fallimentare della società proponente e, dunque, deve ritenersi, non anche ai creditori non
ancora ammessi al passivo fallimentare della società proponente alla data della sua
presentazione, è in palese contrasto con il quarto comma dell’art. 124, l.fall., che, prevedendo
per il solo caso del concordato fallimentare proposto da un terzo la possibilità di limitare gli
impegni concordatari “ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, e a quelli
che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al
tempo della proposta”, implicitamente esclude che il fallito possa introdurre analoghi o
maggiori limiti al concordato da lui proposto;
ritenuto, pertanto, che la proposta in esame vada dichiarata inammissibile
(omissis)
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V.2.2 Tribunale di Napoli, 25 gennaio 2007: “Concordato Fallimentare. Riapertura
della procedura”.
Il Tribunale affronta il tema della riapertura del fallimento. A seguito della chiusura
del fallimento, salva l’ipotesi in cui debitore ottenga il beneficio della esdebitazione, i
creditori che non siano stati integralmente soddisfatti in seno alla procedura, possono
far valere le proprie residuali pretese verso il debitore tornato in bonis. Qualora il
fallimento sia stato chiuso per la ripartizione finale dell’attivo, ovvero in ragione della
circostanza che la sua prosecuzione non consenta di soddisfare i creditori concorsuali, prededucibili, né le spese di procedura- esso può essere riaperto, con la
conseguente riapertura del concorso dei creditori, ex art. 121 l.fall.
Tale possibilità, in quanto derogatoria al generale principio di stabilità del
provvedimento di chiusura della procedura e degli effetti da questa prodotti, è
ammessa solo nella ipotesi in cui risulti la presenza di attivo, o sia offerta dal debitore
la garanzia in ordine al pagamento di almeno il dieci per cento ai creditori vecchi e
nuovi.
“Successivamente alla chiusura della procedura di fallimento con la sentenza di omologa del concordato
fallimentare proposto dalla società fallita, della stessa non si può procedere ad una nuova dichiarazione di
fallimento che sia fondata sulla emergenza di un passivo non accertato nelle forme concorsuali in seno al primo
procedimento”.
Rilevato che la fonte genetica del credito posto a base della iniziativa prefallimentare risale al
1998, come risulta dai contenuti delle iscrizioni a ruolo effettuate dall’ente creditore e
delegate alla G.L. S.p.a. (società competente per la riscossione dei tributi) per l’esazione;
Rilevato che la società resistente è stata dichiarata fallita da questo tribunale con sentenza
dell’anno 1999 e che la procedura si é chiusa in data 26/01/2006 con sentenza di omologa
del concordato, immediatamente passata in giudicato per acquiescenza prestata dagli aventi
diritto;
Ritenuto a prescindere da ogni ulteriore questione di merito - che la predetta società non
può essere dichiarata nuovamente fallita per un credito che doveva trovare ingresso e
soddisfazione nella predetta procedura fallimentare, come si ricava dagli effetti preclusivi
implicati nel combinato disposto degli art. 119 e 120 l.fall., per i quali la stabilità del
provvedimento di chiusura può essere derogata solo nelle ipotesi di riapertura della
procedura fondate sulla sopravvenienza di attivo e non anche sulla emergenza d un passivo
non accertato nelle forme concorsuali in seno al primo procedimento;
Considerato, in merito alle osservazioni contenute nel verbale di udienza del 24/01/2007,
che, per i fini che interessano, occorre tener conto del momento genetico del credito e non
anche del diverso momento in cui l’ente ha deciso di iscrivere la somma a ruolo e chiedere
all’esattore la riscossione;
Che, comunque, nel caso di specie l’iscrizione a ruolo dell’anno 2005 ha consentito
all’esattore di formulare domanda tardiva d’ammissione, non esitata per tempo a cagione
della suddetta chiusura;
Che, a tal riguardo, le conclusioni che precedono appaiono in linea con i principi generali in
tema di effetti delle domande tardive di credito;
Per questo motivo dichiara l’inammissibilità del ricorso di fallimento presentato da G.L.
S.p.a. nei confronti della società I. S.p.a.
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CAPITOLO V
LA DISCIPLINA TRANSITORIA
SOMMARIO: V.1. La disciplina transitoria
V.1 LA DICIPLINA TRANSITORIA7
V.1.1 Tribunale di Vicenza 13 ottobre 2006: “Disciplina dei ricorsi presentati prima
del 16 luglio 2006”
Il Tribunale di Vicenza affronta un problema di diritto transitorio, inerente cioè la
disciplina applicabile. Al riguardo, l’art. 150 d.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 stabilisce che
sia i ricorsi di fallimento sia le domande di concordato fallimentare, se,
rispettivamente, presentati e depositate prima del 16 luglio 2006, data di entrata in
vigore della riforma organica delle procedure concorsuali, sono disciplinati dalla
previgente normativa, ed alla medesima sono assoggettate anche le procedure già
aperte a quella data ed ancora pendenti. Richiamando le norme processuali generali,
ed in particolare quella secondo la quale alla sentenza deve essere applicata la
normativa vigente al momento della sua pronunzia, il tribunale fornisce una
interpretazione dell’art. 150, d.lgs. 9 gennaio 2006 n.5, rilevandone la apparenza
derogatoria.
“I fallimenti dichiarati all’esito di ricorsi già pendenti alla data del 16 luglio 2006 danno vita a procedure
interamente disciplinate (anche con riguardo al contenuto della sentenza) dal D.lgs. 9 gennaio 2006, n.5.”
La sentenza va pronunziata ai sensi del novellato art. 16, l.fall., benché il ricorso per la
dichiarazione di fallimento sia stato depositato anteriormente al 16 luglio 2006, data di entrata
in vigore della riforma della legge fallimentare.
Alle sentenze pronunciate successivamente al 16 luglio 2006, infatti, si devono applicare per
regola generale inerente le norme processuali, quelle vigenti al momento della pronuncia, e
così dicasi per tutto quanto riguarda il conseguente processo di fallimento e la sua gestione,
ivi comprese tutte le norme sostanziali (come quelle che regolano i contratti pendenti)
applicabili all’interno del processo fallimentare come diretta conseguenza della pendenza di
una procedura fallimentare retta dal nuovo rito.
Per espressa norma del diritto transitorio (v. l’art. 150 del D.Lgs. 9 gennaio 2006 n.5),
costituiscono un’eccezione, solo apparente, a questa regola (che riguarda infatti le sole nuove
dichiarazioni di fallimento e non quelle già pronunciate) sia le procedure prefallimentari
aperte sulla base dei ricorsi presentati prima del 16 luglio 2006, che devono essere definiti (i
ricorsi e le procedure) secondo la disciplina anteriore (in quanto è già pendente la fase
prefallimentare istruttoria, che quindi va conclusa in rito con l’applicazione delle norme
7
L’art. 150, rubricato Disciplina transitoria, del d.lgs. 9 gennaio 2006 n.5, dispone quanto segue:
1. “I ricorsi per la dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare depositate prima dell’entrata in vigore
del presente decreto, nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla stessa data, sono definiti
secondo la legge anteriore”.
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previgenti), sia le procedure di fallimento già pendenti alla data del 16 luglio 2006, per le quali
cioè sia stata già depositata e pubblicata la sentenza di fallimento.
In entrambe i casi, sia la fase istruttoria, che si conclude con la sentenza, sia la procedura di
fallimento, che si apre con la stessa sentenza, sono già pendenti al momento dell’entrata in
vigore della nuova normativa, e quindi è corretto che si applichi ad esse la precedente
disciplina: la norma transitoria fuga ogni possibile dubbio in materia.
Tutt’altro è a dirsi, invece, per le procedure aperte dopo il 16 luglio 2006, anche sulla base di
ricorsi anteriori, posto che la loro pendenza è determinata dalle sentenze successive a tale
data, quindi con applicazione della nuova normativa, in base ai principi generali.
Affermare come fa il legislatore che i ricorsi pendenti vanno definiti secondo le norme
anteriori non vuol certo necessariamente dire che anche le procedure fallimentari apertesi in
conseguenza di quei ricorsi (procedure non ancora pendenti al 16 luglio 2006) debbano
essere regolate dalle vecchie norme del processo di fallimento, che nulla hanno a che vedere
con la fase istruttoria prefallimentare.
Nulla vieta d’altronde di considerare lo stesso atto, la sentenza che ha dichiarato il fallimento,
sia come atto conclusivo della fase istruttoria, che va chiusa (cioè definita) secondo la
previgente normativa, sia come atto introduttivo della nuova procedura di fallimento, la quale
segue la nuova disciplina, cui, dopo il 16 luglio 2006, ci si deve attenere.
(omissis)
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CAPITOLO VI
IL CONCORDATO PREVENTIVO
SOMMARIO: VII.1. L’ammissione alla procedura. –VII.2 L’omologazione del concordato preventivo.
VI.1 L’AMMISIONE ALLA PROCEDURA8
VI.1.1 Tribunale di Palermo, 17 febbraio 2006: “Ammissione alla procedura”.
Il decreto affronta alcuni dei problemi interpretativi sollevati dalla nuova
formulazione delle norme dettate in materia di concordato preventivo, quali
introdotte dal d.l. n. 35 del 2005, convertito in legge n. 80 del 2005. La novella ha
disposto, tra l’altro, che il piano ed i documenti siano accompagnati dalla relazione di
8
L’art. 2, comma1, lett. d), d.l. n.35 del 2005 “…”, conv. in legge n. 80 del 2005, ha sostituito l’art.160 con il seguente:
“1. l’imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano che
può prevedere :
a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei
beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi
partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di
debito;
b) l’attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore; possono
costituirsi come assuntori anche i creditori o società da questi partecipate o da costituire nel corso della procedura,
le azioni delle quali siano destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato;
c) la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei;
d) trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse.
2.Ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”.
Il secondo comma è stato introdotto dall’art. 36 del d.l. n.273 del 2005, conv. in legge n. 51 del 2006
L’art. 2, comma 1, lett. e), d.l. n.35 del 2005, conv. in legge n.80 del 2005 ha sostituito l’art. 161 con il seguente:
“ 1. La domanda per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo è proposta con ricorso, sottoscritto dal debitore,
al tribunale del luogo in cui l’impresa ha la propria sede principale; il trasferimento della stessa intervenuto nell’anno
antecedente al deposito del ricorso non rileva ai fini della individuazione della competenza.
2. Il debitore deve presentare con il ricorso:
a) una aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale,economica e finanziaria dell’impresa;
b) uno stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi
crediti e delle cause di prelazione;
c) l’elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore;
d) il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili.
3. Il piano e la documentazione di cui ai commi precedenti devono essere accompagnati dalla relazione di un professionista
di cui all’articolo 28 che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo.
4. Per la società la domanda deve essere approvata e sottoscritta a norma dell’articolo 152”.
L’art. 2, comma 1, lett. f), d.l. n. 35 del 2005, con. In legge n. 80 del 2005, ha sostituito l’art. 163 con il seguente:
“ Il tribunale, verificata la completezza e la regolarità della documentazione, con decreto non soggetto a reclamo, dichiara
aperta la procedura di concordato preventivo: ove siano previste diverse classi di creditori, il tribunale provvede
analogamente previa valutazione della correttezza dei criteri di formazione delle classi.
Con il provvedimento di cui al primo comma, il tribunale:
1) delega un giudice alla procedura di concordato;
2) ordina la convocazione dei creditori non oltre trenta giorni dalla data del provvedimento e stabilisce il termine per
la comunicazione di questo ai creditori;
3) nomina il commissario giudiziale osservate le disposizioni degli articoli 28 e 29;
4) stabilisce il termine non superiore a quindici giorni entro il quale il ricorrente deve depositare nella cancelleria del
tribunale la somma che si presume necessaria per l’intera procedura.
Qualora non sia eseguito il deposito prescritto, il commissario giudiziale provvede a norma dell’articolo 173, quarto
comma.
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un professionista, ex art. 161, comma 3, che ha un duplice contenuto. Uno
asseverativo della veridicità dei dati aziendali, l’altro prognostico della fattibilità del
piano. Il Tribunale non ha il potere di esprimere un giudizio di merito su questa
attestazione, ma ha il potere-dovere di controllare che essa sia rilasciata dal
professionista sulla base di una valutazione critica ed effettiva, atteso che su di essa si
formerà il convincimento dei creditori, dovendo quindi verificare che siano stati
considerati, con prudenza, tutti i dati disponibili ed altresì quelli diligentemente
acquisibili, e che il giudizio tecnico di fattibilità sia supportato da una adeguata
motivazione. Con riguardo al presupposto oggettivo, allo stato di insolvenza è stato
sostituito lo stato di crisi, ossia una condizione comprensiva di ogni malessere
economico-finanziario, ed anche dello stato di insolvenza, intendendo così il
legislatore anticipare l’accesso alla procedura di soluzione della crisi ad una fase in
cui essa non sia irreversibile, nell’ottica di una maggiore possibilità di recupero e
conservazione dei valori aziendali, a beneficio dell’imprenditore in difficoltà e dei
creditori medesimi. La lett. c) dell’art. 160 l.fall., introduce la suddivisione dei
creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei e la
lettera d) i trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse. Il
Tribunale si pronunzia sulla possibilità di inserire i creditori privilegiati in una classe
e, quindi, ammetterli al voto.
Con riferimento alla documentazione che il debitore deve presentare, l’art. 161 l.fall.,
diversamente dalla disciplina del 1942, contiene una individuazione analitica. La
aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria
dell’impresa, assolve ad una funzione informativa dei creditori, diretta cioè a
fotografare lo stato in cui versa l’impresa e, eventualmente, l’imprenditore persona
fisica, e rappresenta altresì l’elemento storico- materiale sul quale si fonda la
valutazione asseverativa e prognostica del professionista, ex art. 161, comma 3.
In ultimo, il Tribunale affronta altresì il problema della mancata abrogazione dell’art.
162 l.fall., che disciplina l’ipotesi di inammissibilità della domanda di concordato
preventivo, subordinando la relativa dichiarazione alla acquisizione del parere del
p.m., mentre non è a contrario prevista in caso di ammissione della domanda. Nella
vigenza della legge del 1942 tale audizione era comunque ritenuta obbligatoria,
configurando essa, in base al combinato disposto degli artt. 162 e 163 l.fall., una
ipotesi di intervento obbligatorio ai sensi dell’art. 70, comma 1, n.5, c.p.c.
“Ai fini della ammissibilità del debitore al concordato preventivo, il professionista incaricato di cui al terzo
comma dell’art. 161 l.fall., pur non essendo soggetto ad alcun sindacato di merito da parte del tribunale, deve
rendere manifesti, nel contesto della relazione, i criteri e le metodologie seguite nel procedimento di revisione
della contabilità della debitrice, destinato a sfociare nell’attestazione della veridicità dei dati aziendali.
Ai fini della ammissione al concordato preventivo, lo stato di crisi comprende l’insolvenza, ossia quella
situazione di impotenza economica funzionale e non transitoria che non consente all’imprenditore di far fronte
alle proprie obbligazioni con mezzi normali per il venire meno di quelle condizioni di liquidità e di credito
necessarie alla propria attività, ma può anche consistere in altre situazioni di minore gravità che sono
potenzialmente idonee a sfociare nella insolvenza medesima.
Nell’ambito di una proposta di ammissione al concordato preventivo, l’inserimento dei creditori assistiti da un
diritto di prelazione in una classe, implica necessariamente che questi abbiano rinunciato alla prelazione, sia
pure in parte mentre, se non vi è stata alcuna rinuncia, non può procedersi alla loro inclusione nella classe
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medesima, in quanto è necessario che prima della votazione si delinei il quorum dei creditori votanti ed il
calcolo della maggioranza necessaria per la approvazione del piano.
In relazione ad una proposta di ammissione al concordato preventivo, deve essere depositata unitamente alla
domanda ed alla ulteriore documentazione prescritta, la relazione sulla situazione patrimoniale economica e
finanziaria dell’impresa di cui all’art. 161, comma secondo, lettera a) l.fall., esplicativa dei dati di bilancio
prodotti ed idonea a rappresentare le condizioni dell’impresa ricorrente al momento della formulazione del
piano e tale documentazione non può essere unificata con quella che il professionista terzo rispetto alla
debitrice deve predisporre ai sensi del citato art. 161, terzo comma l.fall.
In sede di procedimento di ammissione al concordato preventivo, il tribunale deve acquisire il parere
obbligatorio del pubblico ministero, dovendo ritenersi che l’art. 162 l.fall. non sia stato abrogato e sussistendo
tra le attribuzioni di tale organo quella di richiedere la dichiarazione di fallimento”.
La A.M. S.a.s. ha proposto in data 18 novembre 2005 ricorso ex art.161 legge fallimentare
chiedendo l’apertura della procedura di concordato preventivo sulla base della attestazione di
uno stato di crisi reversibile dell’impresa e proponendo un piano che prevede, in buona
sostanza : 1) la vendita dell’unico cespite immobiliare di proprietà della società, valutato euro
1.335.035, 00; 2) il pagamento dei creditori secondo percentuali differenti a seconda delle
quattro classi nelle quali gli stessi vengono inseriti (fornitori, lavoratori, erario ed enti
previdenziali, enti creditizi); 3) la garanzia personale di un terzo assuntore fino alla
concorrenza della somma di euro 30.000, 00, garanzia subordinata al mancato realizzo
dell’integrale prezzo di stima del bene immobile.
Inoltre, poiché la società proponente ha manifestato l’intenzione di riprendere l’attività
commerciale (consistente essenzialmente nella realizzazione di prodotti grafici) una volta
eseguito il concordato, i beni mobili strumentali all’esercizio della medesima attività non sono
stati offerti a soddisfacimento delle ragioni dei creditori, salva eventuale loro liquidazione
subordinata ancora una volta alla mancata realizzazione del prezzo di stima dell’immobile.
Il Tribunale, che ha ritenuto di dovere acquisire il parere del P.M. e di sentire il socio
accomandatario in Camera di consiglio (non ritenendo che sia stato abrogato in parte qua- né
espressamente né implicitamente- l’art. 162 legge fallimentare ed essendo tale norma sul
punto ampiamente compatibile con la novella introdotta in materia dal D.L. n.35 del 14
marzo 2005, convertito nella l. 80 del 14 maggio 2005,anche in considerazione dei poteri di
richiedere il fallimento riconosciuti alla parte pubblica), deve preliminarmente pronunciarsi in
ordine alla ammissibilità della proposta e, quindi, in ordine alla sussistenza dei (nuovi)
requisiti previsti dalla legge al riguardo.
In particolare, vengono in rilievo in questa sede: 1) la qualità di imprenditore commerciale del
soggetto che ha proposto l’istanza di concordato, 2) la sussistenza di uno stato di crisi
dell’impresa; 3) la presentazione di un piano formulato ai sensi dell’art. 160 legge fallimentare;
4) la documentazione a corredo del piano medesimo e di cui all’art. 161, secondo comma,
legge fallimentare.
Con riferimento al requisito sub 1), non è dubbio che la A. M. S.a.s.- solo apparentemente in
attività, almeno da quanto risulta dalla visura camerale allegata al ricorso- rientri tra i soggetti
di cui all’art. 1 legge fallimentare nella formulazione attualmente vigente, cosicché la stessa- in
quanto soggetto fallibile- ha senz’altro i requisiti per accedere al concordato.
Circa, poi, il requisito sub 2), si osserva che la società riconduce l’esistenza dello stato di crisi
(reversibile) in cui si troverebbe alla sussistenza di una perdita di esercizio di euro 48.299, 64.
La legge non definisce che cosa possa intendersi per stato di crisi. Peraltro, preso atto che
l’art.36 D.L. n.273 del 30 dicembre 2005 chiarisce che «per stato di crisi si intende anche lo
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stato di insolvenza», ha trovato riconoscimento legislativo quella opinione dottrinaria
secondo la quale lo stato di crisi ricomprende senz’altro l’insolvenza (impotenza economica
funzionale e non transitoria per la quale l’imprenditore non è più in grado di far fronte
regolarmente e con mezzi normali alle proprie obbligazioni per il venir meno delle condizioni
di liquidità e di credito necessarie alla propria attività) ma può altresì atteggiarsi con connotati
di minore gravità, riguardando tutte quelle situazioni che sono potenzialmente idonee a
sfociare nella insolvenza medesima.
E nel caso di specie sembrerebbe - tenuto conto della rilevante esposizione debitoria
(complessivamente pari ad euro 1.902.589, 67), delle rilevanti perdite relative agli esercizi
precedenti (pari ad euro 623.904, 24) e della sostanziale inattività dell’impresa ( che ha
prodotto nell’ultimo scorcio di esercizio ricavi per soli euro 15.733,99) - che la società
ricorrente versi in una vera e propria situazione di insolvenza piuttosto che in una situazione
di semplice crisi, prodromica alla stessa.
Venendo al requisito sub 3), la società ricorrente ha proposto un piano di ristrutturazione dei
debiti che prevede essenzialmente (le ulteriori garanzie concesse sono, infatti, subordinate al
mancato realizzo del prezzo di stima) la cessione del bene strumentale di maggior pregio
dell’azienda,vale a dire l’immobile in cui è esercitata l’attività commerciale ( stimato euro
1.335.035, 00).
A fronte di tale cessione si prevede il soddisfacimento dei creditori, distinti per classi,
secondo le seguenti modalità:
Fornitori, con ragioni di credito integralmente chirografarie;
Lavoratori, con proposte di credito integralmente privilegiate;
Erario ed enti previdenziali, con ragioni di credito sia chirografarie che privilegiate;
Enti creditizi, con ragioni di credito sia chirografarie che privilegiate (rectius ipotecarie)
La proposta di concordato prevede il soddisfacimento in misura percentuale e non integrale
dei creditori privilegiati e la formazione di quattro classi di creditori, delle quali due suddivise
in ulteriori sottoclassi.
La prevalente giurisprudenza di merito espressasi sulle nuove norme in materia di concordato
preventivo (unitamente a gran parte della dottrina) ha ritenuto di dovere individuare un
requisito intrinseco di ammissibilità del concordato preventivo nella necessaria previsione del
soddisfacimento integrale dei creditori muniti di diritti di prelazione, analogamente a quanto
avveniva sotto la vigenza della normativa abrogata. E si è ritenuto, altresì, che il potere del
giudice di verificare la sussistenza di tale requisito ai fini della pronuncia del decreto di
ammissione alla procedura dovesse essere ricercata nella previsione dell’art. 163, primo
comma, legge fallimentare, laddove il legislatore impone una preventiva valutazione della
correttezza dei criteri di formazione delle classi.
Riassumendo le posizioni finora espresse, può dirsi che l’opinione largamente maggioritaria si
fonda essenzialmente su due argomenti, l’uno di carattere generale- sistematico, l’altro
letterale: a) le norme in materia di concordato preventivo non contengono alcuna deroga alle
norme previste dalla legge in materia di cause di prelazione dei crediti, cosicché in assenza di
una rinuncia espressa dei creditori prelatizi a tali norme non è possibile derogare; b) l’art. 177,
terzo comma, legge fallimentare, esclude dal voto i creditori prelatizi che non rinunciano al
loro diritto, cosicché non potendo questi esercitare il diritto di voto le loro ragioni di credito
non possono essere soggette a falcidia e devono necessariamente essere soddisfatte per
intero.
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Aderendo a tale impostazione, il concordato proposto dovrebbe essere ritenuto
inammissibile senza bisogno di ulteriori indagini in quanto si prevede il pagamento solo
parziale dei creditori privilegiati.
Osserva peraltro il Collegio che può essere prospettata anche una diversa interpretazione del
dato normativo che, da un lato, tenga conto delle fondate obiezioni dei fautori della tesi più
sopra (sommariamente) riassunta, e, dall’altro, tenda a conformarsi maggiormente alla ratio
legis, volta chiaramente a favorire la soluzione negoziale della crisi dell’impresa attribuendo un
rilievo preminente alla volontà delle parti rispetto all’intervento del giudice (come
testimoniato dalla scomparsa di ogni controllo di meritevolezza e convenienza ai fini della
ammissione alla procedura concordataria).
Il concordato preventivo così come oggi è formulato si struttura come un procedimento con
il quale il debitore mira ad ottenere il consenso dei creditori su un piano di ristrutturazione
dei debiti da lui formulato con la mediazione della autorità giudiziaria, consenso che deve
essere acquisito nel corso della procedura e non preventivamente.
La legge prevede anche l’ipotesi, del tutto differente, dell’accordo di ristrutturazione dei
debiti (art. 182 bis, legge fallimentare), in base al quale il debitore acquisisce il consenso
preventivo dei creditori che rappresentino almeno il sessanta per cento dei crediti, garantisce
il pagamento integrale dei creditori estranei e sottopone l’accordo alla omologazione del
tribunale.
Proprio la circostanza che nel concordato preventivo non è necessario il consenso dei
creditori manifestato antecedentemente alla proposta induce a ritenere che la rinuncia dei
creditori prelatizi al proprio diritto di prelazione- rinuncia la cui necessità è resa
imprescindibile dal loro stesso inserimento, ad opera del proponente, in classi prevedenti una
falcidia delle loro ragioni di credito- possa essere formulata in un momento successivo a
quello dell’ammissione del concordato e precedente all’esercizio del diritto di voto.
Qualora il debitore proponga un concordato che preveda il pagamento percentuale dei
creditori aventi diritti di prelazione, la domanda non sarà dunque inammissibile ab origine per
difetto della integrale soddisfazione di questi ultimi, ma sarà comunque necessario che essi
manifestino, prima dell’esercizio del diritto di voto, la loro intenzione di rinunciare o meno
(totalmente o parzialmente) al diritto di prelazione. Se rinunciano, saranno regolarmente
considerati nell’ambito dei creditori ammessi al voto di quella determinata classe nella quale
sono stati inseriti; qualora, invece, non rinunciano, non potranno più far parte di quella
determinata classe nella quale sono stati originariamente inseriti dal debitore e dovranno
essere soddisfatti integralmente.
Ovviamente, tale ultima circostanza (la necessità di dovere pagare integralmente i creditori
prelatizi non rinuncianti diversamente da quanto originariamente previsto nel piano) dovrà
essere valutata dal Collegio in sede di omologazione, incidendo all’evidenza sulla concreta
fattibilità del piano per come la stessa si è venuta configurando in epoca successiva alla sua
proposizione.
A ben vedere, l’inserimento de creditori aventi diritto di prelazione in una determinata classe
da parte del debitore proponente presuppone implicitamente una loro rinuncia, parziale o
totale, alla prelazione medesima. Invero, se non rinunciano alla prelazione non possono
votare (art. 177, terzo comma, legge fallimentare) e, dovendo essere soddisfatti comunque
integralmente (non essendo prevista alcuna deroga ai principi generali) non vi è ragione che
siano inseriti in una determinata classe (ed, infatti, ne saranno esclusi, formalmente o
sostanzialmente, non potendo essere conteggiati ai fini della formazione delle maggioranze).
Se, invece, rinunciano allora sono assimilabili (per la parte cui hanno rinunciato) ai creditori
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chirografari (art. 177, quarto comma, legge fallimentare) e possono votare all’interno della
classe in cui sono stati inseriti ed essere soddisfatti secondo la previsione originaria in caso di
omologazione (non più in quanto aventi diritto di prelazione, ma in quanto inseriti in quella
determinata classe).
L’impostazione proposta mira a favorire, nel solco della volontà del legislatore, le proposte
concordatarie rimettendo alla valutazione dei creditori ogni giudizio di convenienza sulla
proposta medesima, giudizio che passa anche per la rinuncia ad eventuali diritti di prelazione
(e che in concreto può essere condizionato da molteplici fattori: grado del diritto di
prelazione cui si avrebbe diritto rispetto alla effettiva capienza del patrimonio del debitore, i
tempi di soddisfacimento del diritto integrale..).
E, si noti, la rinuncia al diritto di prelazione ha effetto ai soli fini del concordato(art. 177,
quarto comma, legge fallimentare), così esplicandosi la finalità non già di derogare alla
normativa generale, ma di favorire la concreta praticabilità del concordato; e, mediatamente,
l’interesse pubblico (che spesso coincide anche con quello di singoli creditori) al «salvataggio»
dell’impresa.
Nel caso di specie, la A.M. S.a.s. ha proposto un pagamento solo percentuale di tutti i
creditori aventi dritto di prelazione; e non ha previsto che per la parte in cui i creditori
prelatizi non siano soddisfatti gli stessi vengano trattati alla stregua di creditori chirografari.
Ne consegue che il piano di ristrutturazione dei debiti proposto implica la necessaria integrale
rinuncia dei creditori prelatizi ai loro diritti di prelazione e la loro integrale partecipazione al
voto nelle classi in cui sono stati inseriti (diversamente, poteva ad esempio prevedersi che i
creditori prelatizi dovessero rinunciare solo in parte al privilegio, essere soddisfatti-senza
diritto di voto- per una parte del loro credito ed essere inseriti per la parte restante in una
specifica classe, con diritto di voto ma subendo la relativa falcidia).
Tale piano non può, peraltro, essere considerato fin d’ora inammissibile sotto il profilo
indicato. Appaiono, sotto diverso profilo, discutibili i criteri di formazione delle single classi
proposti dalla società ricorrente.
In proposito la legge lascia ampia libertà al proponente (si parla di posizione giuridica e di
interessi economici omogenei: art. 160, lett. c)), tanto che è stato altresì autorevolmente
osservato che «a meno che il debitore non faccia scelte completamente cervellotiche e
sganciate da qualsiasi riferimento ad un criterio economico (dividendo ad esempio i criteri
per razza, o secondo il colore dei capelli e così via), ogni altro criterio è corretto…».
Tuttavia nel caso di specie il proponente non giustifica in alcun modo- nonostante fosse stato
all’uopo richiesto di chiarimenti con il decreto del 20 gennaio 2006- la diversa soddisfazione
che riserva per talune categorie di creditori rispetto ad altre (e tale esplicazione deve ritenersi
dovuta, se non altro per consentire al Collegio l’unica valutazione effettivamente di merito
che oggi residua in sede di ammissibilità). A solo titolo esemplificativo, non è stata addotta
alcuna ragione giustificativa- soprattutto avuto conto dell’oggetto del concordato, limitato
alla vendita dell’immobile facente parte del patrimonio aziendale- della soddisfazione in
misura percentuale maggiore dei lavoratori anziché dei creditori ipotecari (ai primi
sicuramente preferiti dalla legge).
Peraltro, la ratio della scelta potrebbe essere ricercata, implicitamente, in una prognosi di più
facile rinuncia al diritto di prelazione da parte del creditore ipotecario rispetto al lavoratore
(garantito in ogni caso, sia pure parzialmente, dall’anticipazione effettuata dall’INPS in caso
di fallimento).
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Non è comunque necessario indulgere su questa ed altre aporie relative alla formazione delle
classi in quanto l’inammissibilità della proposta concordataria consegue all’evidenza dalla
carenza della documentazione di supporto (requisito di cui sub 4)).
In primo luogo, spicca l’assenza della relazione sulla situazione patrimoniale, economica e
finanziaria dell’impresa di cui all’art. 161, secondo comma, lett. a), legge fallimentare,
relazione che evidentemente deve essere esplicativa dei dati di bilancio prodotti ed idonea a
«fotografare» le condizioni dell’impresa proponente al momento della formulazione del
piano; o, meglio, sembrerebbe che tale relazione sia stata considerata unitariamente a quella
di cui all’art. 161, terzo comma, legge fallimentare, volta alla attestazione di veridicità dei dati
aziendali e di fattibilità del piano.
In realtà la prima delle due relazioni costituisce parte integrante del piano medesimo,
proviene dallo stesso soggetto che lo presenta (e, quindi, è redatta dall’organo amministrativo
ovvero dal professionista che assiste la società) e deve delineare la situazione in cui si è
venuta a trovare la società sotto tutti e tre i profili indicati (patrimoniale, economico e
finanziario), situazione determinativa dello stato di crisi che rende consigliabile la proposta
concordataria.
La relazione del professionista di cui all’art. 161, terzo comma, legge fallimentare è invece
redatta da un professionista «terzo» rispetto alla società (in questo senso deve intendersi il
richiamo ai requisiti di cui all’art. 28 legge fallimentare), la quale prende le mosse proprio
dalla relazione di cui sopra si è detto per compiere una integrale revisione dei dati contabili
(secondo le tecniche proprie di tali attività) allo scopo di attestarne la veridicità; e ponendosi,
successivamente, in una prospettiva dinamica, volta a suffragare la fattibilità del piano come
proposto.
L’omissione della relazione di cui si è detto incide inevitabilmente nella mancata effettiva
comprensibilità di talune voci del bilancio prodotto. A solo titolo esemplificativo, non si
comprende (e sul punto non sono stati mai forniti chiarimenti per iscritto, così come
richiesto dal collegio) l’appostamento tra le attività dello stato patrimoniale di un
prelevamento soci in conto utili per ben euro 400.583, 57 a fronte di considerevoli (e ben
superiori) perdite da parte della società.
La società proponente- nella prospettiva di rendere consapevole ai creditori l’esercizio del
diritto di voto- avrebbe dovuto chiarire (evidentemente nel contesto della relazione di cui si è
detto) se tale voce costituisca effettivamente un credito della società (non essendovi utili da
distribuire) e se tale credito sia concretamente recuperabile.
Inoltre, l’omissione della relazione rende incomprensibili le dinamiche societarie nel senso
che non è dato sapere come la società sia giunta nella situazione di crisi in cui allo stato si
trova. Né tale dato è evincibile dall’ulteriore documentazione prodotta, essendo stato
presentato unicamente l’ultimo bilancio (peraltro in forma scarsamente analitica), senza alcun
possibile raffronto quanto meno con quello dei due anni precedenti.
La riunione delle due relazioni in un solo atto potrebbe anche fare ritenere la mancanza del
requisito di terzietà in capo al professionista che la ha redatta. Anche tale importante
circostanza (la relazione del professionista è ormai l’unico elemento esterno all’impresa su cui
i creditori possono fondare il loro convincimento in ordine alla convenienza della proposta
concordataria) non è stata chiarita dalla società proponente.
In ogni caso, la relazione così come formulata è assolutamente carente, sia sotto il profilo
della attestazione di veridicità dei dati aziendali sia sotto il profilo della attestazione della
stessa fattibilità del piano.
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È vero che il tribunale non ha alcuna possibilità di sindacare il merito del giudizio del
professionista, cui la legge riconnette ogni responsabilità al riguardo. Peraltro, il
professionista deve rendere palesi, nel contesto della relazione, i criteri e le metodologie
seguite nel procedimento di revisione della contabilità della società destinato a sfociare nella
attestazione di veridicità dei dati aziendali.
Nulla di tutto ciò è stato fatto nel caso di specie, essendosi il rag. M. limitato ad affermarecome se fosse un postulato non bisognevole di dimostrazione alcuna- che «i dati di bilancio
(…) corrispondono alle scritture contabili obbligatorie della società» e a precisare
l’ammontare di alcune poste creditorie (peraltro senza valutare l’ammontare di eventuali
interessi per debiti scaduti, l’incidenza delle spese legali per debiti eventualmente in
contenzioso, il sovrapprezzo costituito dagli oneri fiscali).
Sotto il profilo della fattibilità, poi, il professionista incaricato si è limitato a prendere atto
della valutazione di stima dell’immobile, senza entrare nel merito delle modalità e dei costi
della sua liquidazione e del tempo alla stessa necessario (anche in considerazione delle
difficoltà che potrebbero incontrarsi nella vendita di un cespite di valore, nel quale sono
altresì conservati i residui beni mobili facenti parte dell’azienda e non rientranti nel
concordato). Si tratta di dati fondamentali per il giudizio di fattibilità del piano: basti pensare
ad esempio, alle conseguenze del decorso del tempo sulle poste creditorie, tenuto conto
dell’incremento delle stesse per interessi a maturare, ovvero ai costi da sostenere per la
liberazione dei locali.
Si noti che- indipendentemente dalla qualificazione della relazione del professionista quale
requisito di ammissibilità del concordato preventivo ovvero come requisito di mera
regolarità- nel caso di specie il rigetto del ricorso già nella presente fase preliminare si
giustifica pienamente a seguito della concessione di un termine congruo al proponente per
provvedere alla integrazione della documentazione prodotta, termine in ipotesi inutilmente
decorso.
(omissis)
VI.1.2 Tribunale di Torino, 20 dicembre 2006: “Concordato preventivo. Il trattamento
dei creditori privilegiati”.
Il tribunale affronta il tema del soddisfacimento dei creditori privilegiati, disciplinato
dall’art. 177, comma 3, l.fall., a tenore del quale questi non possono partecipare alla
votazione se non rinunciano, anche parzialmente, al diritto di voto. Questa disposizione
vincola il debitore che si trova in stato di crisi a soddisfare integralmente il ceto dei
creditori privilegiati, e pone due problemi: i) se il creditore privilegiato debba essere
soddisfatto per l’intero valore nominale del credito, ovvero nei limiti del ricavato della
vendita o del valore di mercato del bene costituito in garanzia; ii) se sia ammissibile la
proposta di concordato che preveda il soddisfacimento solo parziale dei crediti
privilegiati. Il tribunale, movendo dalla accentuazione della natura contrattuale del
concordato quale accordo tra debitore e creditori strumentale alla soluzione della crisi,
ritiene che questa disposizione non possa più trovare integrale applicazione, e dà una
interpretazione sistematica delle norme. In particolare, richiama la disciplina della
transazione fiscale e quella del nuovo concordato fallimentare.
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“Stante la accentuazione del profilo contrattuale del concordato preventivo operata dalla riforma, la proposta
concordataria deve essere unitaria.
La maggiore incisività dei profili privatistici della novellata procedura attenua sensibilmente il principio della
par condicio creditorum e l’art. 177, comma 3, l.fall., nella parte in cui esclude, senza eccezione alcuna, il
diritto di voto dei creditori privilegiati che non rinuncino al privilegio, non può più trovare integrale
applicazione”.
L’ipotesi principale prevede 1) l’affitto e la successiva vendita (condizionata all’omologazione
del concordato e garantita da fideiussione) del complesso aziendale (che consentirebbero la
continuità dell’attività aziendale, con la conseguente salvaguardia dell’avviamento e la
prosecuzione dei rapporti di lavoro con tutti i dipendenti); 2) il pagamento dei creditori
sociali secondo percentuali differenti a seconda delle quattro classi nelle quali gli stessi
vengono inseriti (privilegiati, ceto bancario, fornitori di cellulosa e altri chirografari). In
questo caso i debiti (privilegiati) per TFR diventano oggetto di accollo liberatorio da parte
dell’affittuario—acquirente, rappresentando parte del prezzo pagato ed il credito verso U.B.I.
S.p.a., garantito da privilegio sugli impianti, viene riconosciuto come privilegiato solo nei
limiti del valore attribuito ai beni interessati dal privilegio, venendo collocato al chirografo
per la restante parte.
La secondo proposta si articola 1) nella cessazione della attività aziendale; 2) nella
liquidazione di tutti gli assets societari; 3) nella suddivisione tra creditori privilegiati e creditori
chirografari; 4) nel pagamento integrale dei creditori privilegiati, nel pagamento parziale della
U. (nei limiti del valore dei beni su cui insiste il privilegio), nel pagamento di una percentuale
pari a circa l’11% dei crediti chirografari.
Rilevato che la debitrice, che ha sede legale in Torino, via C. n. 1, ha, tra l’altro, allegato al
ricorso:
l) un’aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa;
2) uno stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei creditori, con
l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di
prelazione;
3) l’indicazione del valore dei beni;
4) relazione del dott. P.M. attestante la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano di
realizzazione del concordato preventivo.
Visto il parere negativo del P.M.
Viste le ulteriori precisazioni delle proposte e in particolare il miglioramento della offerta di
acquisto della azienda con pagamento anche dell’importo degli interessi sui crediti privilegiati
(stante il pagamento dilazionato previsto) e la previsione di un’apposita classe per la U.B.I.
S.p.a. (creditore privilegiato speciale).
Vista l’integrazione della relazione del professionista ex art. 161 l.fall.,
Osserva
1. La natura contrattuale del concordato, accentuata dalle recente novellazione, di cui al d.l.
35/05, alla legge 80/05 e al d. lvo 5/06 impone di ritenere, ad avviso del Tribunale, che la
proposta da sottoporre alla approvazione dei creditori non possa che essere unitaria.
Pertanto, le due proposte contenute nel ricorso devono intendersi l’una formulata in via
principale e la seconda in via subordinata. Il vaglio positivo della prima esclude -in questa
fase- la valutazione della seconda (che, se del caso, potrà eventualmente essere riformulata).
Ciò premesso e dato atto che:
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la società istante: ha integrato la sua proposta riconoscendo, in caso di pagamento
dilazionato, anche gli interessi sui crediti privilegiati;
- è espressamente prevista nel piano la rinuncia individuale dei singoli lavoratori alla
solidarietà del cedente ex art. 2112 c.c. (da prestarsi nelle forme previste dagli artt. 410
e 411 c.p.c.);
- le classi paiono correttamente formate, seppure con le precisazioni che seguiranno;
- la relazione del professionista può ritenersi conforme alla legge circa la veridicità dei
dati e la fattibilità del piano anche alla luce dei chiarimenti forniti dall’esperto
all’udienza;
- l’unico problema giuridico che si viene a creare con la presente proposta, in questa
fase della procedura, è quello dell’ammissibilità del soddisfacimento in misura
percentuale del creditore privilegiato speciale U.B.I.
2. Ritiene il Collegio che la tesi, in passato accolta, che considera il pagamento integrale del
privilegio una “condizione implicita di ammissibilità” del concordato preventivo, debba
essere rimediata, dopo l’entrata in vigore della riforma organica della legge fallimentare, di cui
al citato d. lvo n. 5/06.
Questo, invero, rende più incisivi gli “aspetti privatistici” della procedura ed attenua
sensibilmente, in varie norme, il concetto di “par condicio creditorum. Soprattutto, la riforma
contiene due istituti che spingono ad accentuare l’interpretazione sistematica delle norme sul
concordato preventivo.
Questi istituti sono:
- la transazione fiscale (art. 182 ter);
- il nuovo concordato fallimentare.
L’art. 182 ter rubricato “transazione fiscale”, nel suo primo comma, pur nella sua non felice
formulazione, consente -se interpretato letteralmente - il pagamento parziale dei crediti
tributari. Nella sua prima proposizione, il comma prende in considerazione il pagamento
parziale di detti crediti “limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria”. La
seconda proposizione tratta degli stessi crediti e si riferisce al pagamento dilazionato di essi.
La terza proposizione prevede il caso in cui detti crediti siano muniti di privilegio e stabilisce
che essi possano essere pagati in “percentuale” e che debbano essere soddisfatti in misura
non inferiore a quella dei crediti che abbiano un grado di privilegio inferiore o a quelli che
abbiano una posizione giuridica o interessi economici omogenei a quelli delle agenzie fiscali.
Quest’ultima previsione istituisce dunque una comparazione, il cui primo termine è costituito
dai crediti tributari privilegiati ed il secondo è costituto (trascurando, per semplicità i “crediti
che hanno una posizione giuridica o interessi economici omogenei a quelli delle agenzie
fiscali”) dai crediti che godono di un privilegio di grado inferiore a quello dei crediti tributari.
Ne consegue che viene inserito nel sistema il principio per cui devono esistere una o più
categorie di creditori privilegiati, diversi dal fisco, per cui è ammissibile la proposta di
soddisfacimento in misura non integrale.
Ciò basta, per far venire meno, come si diceva, l’assunto, pur in precedenza (prima della
entrata in vigore della novellazione organica) fondatamente accolto, secondo cui il
soddisfacimento integrale di tutti i privilegiati sarebbe una condizione di ammissibilità della
proposta concordataria.
Occorre tuttavia chiedersi quale sia la disciplina del diritto di voto nella adunanza dei
creditori privilegiati «falcidiati ».
L’art. 182 ter, dopo aver previsto la possibilità di un pagamento “in percentuale” dei crediti
privilegiati tributari e dei crediti di grado successivo, dispone (al terzo e quarto comma)
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espressamente che l’adesione o il diniego alla proposta di concordato da parte delle agenzie
fiscali avvenga con il voto in sede di adunanza dei creditori. Nulla è detto per gli altri
creditori privilegiati falcidiabili (il secondo termine del paragone di cui si diceva innanzi).
Appare allora chiaro che esiste un’aporia tra l’art. 177/3 co. l.fall., laddove si prevede che i
creditori privilegiati “.. hanno diritto aI voto” (se non rinunciano al diritto di prelazione), e
l‘art. 182 ter che, al contrario, prevede espressamente il diritto di voto solo per alcuni creditori
privilegiati falcidiabili e cioè per il Fisco.
Su queste premesse, risulta evidente che l’art. 177 co. 3 l.fall., nella parte in cui esclude senza
eccezione alcuna dal diritto di voto i creditori privilegiati non rinuncianti al privilegio, non
può più trovare integrale applicazione.
In prima approssimazione, e rimanendo ad un livello di esegesi meramente letterale, si
potrebbe ritenere che il principio permanga come regola generale (“nessun privilegiato vota
mai”), cui venga apportata la sola eccezione ora prevista per l’ipotesi della formazione di una
classe relativa ai crediti privilegiati del Fisco, per cui è previsto il voto adesivo nella adunanza
dei creditori ai sensi dell’art. 182 ter commi 3 e 4 l.fall., (“salvo il caso del concordato fiscale
in cui le Agenzie delle Entrate possono aderire esprimendo il loro voto”). Ma è evidente che
questa interpretazione, se può apparire corretta in termini lessicali, non è in realtà accettabile,
in quanto introduce una disparità di trattamento, quanto al diritto di voto, inammissibile tra
diverse categorie di creditori privilegiati. In altre parole, se si ammette, come per le innanzi
esposte ragioni si ammette, che l’introduzione dell’art. 182 ter l.fall. imponga di includere, nel
novero delle classi a cui il debitore può proporre un soddisfacimento non integrale (in breve:
classi falcidiabili), anche classi di creditori privilegiati non tributari, ancorché solo, in ipotesi,
con un grado di privilegio inferiore a quello (o quelli) del fisco, allora diviene giuridicamente
contraddittorio ed inaccettabile pervenire ad una lettura che attribuisca il diritto di voto nel
concordato preventivo, nell’ambito dei privilegiati soggetti a falcidia, solo al fisco e non
anche alle altre eventuali classi di privilegiati a cui si propone un analogo sacrificio.
Ma allora, se l’interpretazione meramente letterale del combinato
disposto degli artt. 177 co. 3 e 182 ter co 3 e co 4 l.fall., non è sostenibile, si deve
prendere atto che esiste nel sistema una contraddizione, - quella aporia di
cui già si è detto, - che impone di disapplicare una delle due disposizioni.
Considerata la successione nel tempo degli interventi riformatori, non può che prevalere l’art.
182 ter l.fall. Onde diviene giocoforza ricercare al di fuori della previsione dell’art. 177 co. 3
l.fall., la disciplina del voto, per le classi di privilegiati diversi dal fisco cui si proponga il
soddisfacimento parziale.
Il rinvio, analogico, non può che essere alle norme sul concordato fallimentare, quale istituto
affine.
Viene in particolare in rilievo l’art. 127 co. 2 l.fall., il quale appare quasi identico all’art. 177
co. 3, salvo precisare che sono in assoluto esclusi dal diritto di voto non già tutti i privilegiati,
ma i privilegiati “dei quali la proposta di concordato prevede l’integrate pagamento”. Donde
il principio, che esaudisce l’istanza di integrazione normativa da cui si sono prese le mosse,
secondo cui le classi di creditori a cui, pur trattandosi di privilegiati, sia prospettato un
parziale sacrificio delle loro ragioni, debbono partecipare al voto.
Il 4° comma dell’art. 127 l.fall., disciplina ulteriormente detto diritto di voto, precisando che
i privilegiati « falcidiabili», ossia dei quali è proposto il pagamento parziale “considerati
chirografi per la parte residua del credito”. Il che induce a ritenere che essi debbano esercitare
il diritto di voto non per l’intero del loro credito, ma per la parte di cui non viene offerta la
soddisfazione integrale.
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Gli artt. 128 e 129 l.fall., istituiscono, infine, le regole per la valutazione del voto, ai fini
dell’approvazione del concordato, in maniera identica rispetto a quanto previsto dagli artt.
177 co. 1 e 2 e 180 co. 4 l.fall., per il concordato preventivo, salvo aggiungere, all’art. 129 u.
co. L.fall., che le classi dei creditori privilegiati per i quali è previsto il pagamento integrale
(quindi non ammessi al voto) “sono considerate favorevoli ai soli fini del requisito della
maggioranza delle classi”.
Sembra dunque conseguire una razionale e completa disciplina secondo cui:
- debbono ammettersi classi di privilegiati falcidiabili;
- in tal caso, i relativi creditori hanno diritto di voto;
- essi votano solo per la parte di credito di cui non è previsto il soddisfacimento integrale,
e per la quale sono, appunto, assimilati ai chirografari;
- i soli creditori privilegiati di cui è previsto il soddisfacimento integrale sono
effettivamente esclusi dal voto; in tale classe sono inclusi i privilegiati falcidiabilì per la
parte di credito che viene soddisfatta integralmente;
- ai fini del computo della maggioranza delle classi, rilevante in caso di dissenso di una o
più classi votanti (art. 129 co. 7, art. 180 co. 4 l.fall.), la classe di cui al punto che precede,
che non viene considerata al fine del computo della maggioranza dei crediti, è valutata
come una classe consenziente.
3. Ci si deve a questo punto chiedere se il principio della falcidiabilità dei crediti privilegiati
debba essere esteso alla totalità di essi o solo ad alcune categorie.
Le disposizioni di cui all’art. 182 ter l.fall., chiave di volta della nuova lettura complessiva
dell’istituto del concordato preventivo, a rigore impongono la risposta affermativa solo per i
privilegiati di grado inferiore ai privilegi accordati dall’ordinamento ai crediti tributari. O più
precisamente, posto che i crediti del fisco sono caratterizzati da gradi diversi di privilegio, per
i privilegiati (non tributari) di grado inferiore al privilegio di grado più elevato che la legge
(codice civile, leggi speciali) riconosce al fisco.
Ma una retta considerazione delle norme sopra indicate, e soprattutto le ricordate novità
introdotte con la riforma fallimentare, portano a ritenere che il legislatore abbia inteso
consentire, oltre alla possibilità di pagamento parziale dei crediti privilegiati tributari e di
grado inferiore, almeno anche la possibilità di propone il pagamento parziale dei creditori
privilegiati speciali.
Invero, appare certo, stante il tenore letterale delle norme (cfr. in particolare artt. l24, 125,
127 l.fall.) che in sede di concordato fallimentare sia possibile il pagamento parziale dei
creditori privilegiati speciali nei limiti del valore del bene “vincolato”, cioè nei limiti del valore
“realizzabile” del bene su cui insiste il privilegio. Lo specifico riferimento, di cui all’art. 124
co. 2 l.fall., alla “soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della
collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di vendita”, non sembra in proposito lasciare
adito a dubbi.
Ed allora, nel momento in cui la sistematica ordinamentale autorizza, ed anzi impone, di
andare ermeneuticamente alla ricerca della definizione della categoria dei privilegiati
falcidiabili, la quale dimostratamente esiste, ma altrettanto chiaramente non viene definita in
termini positivi dalle norme, sembra ragionevole e conforme a diritto utilizzare l’analogia juris
con il concordato fallimentare anche per questa particolare ricerca, oltre che per la disciplina
del voto.
Va del resto sempre tenuta presente la previsione del «nuovo» art. 160 l.fall., che ridefinisce il
possibile contenuto della proposta concordataria in termini di tale ampiezza da rendere
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sproporzionato, rispetto alla carica innovatrice certamente presente nella mens legis, la lettura
necessariamente riduttiva che discendeva dalla limitazione della faicidiabilità.
La lettura che ora si adotta, sulla scorta della necessità di risolvere quella aporia di cui
ripetutamente si è detto, e di individuare una disciplina del voto dei privilegiati a cui si
proponga un trattamento non totalmente satisfattivo, consente di individuare e definire
l’esistenza della corrispondente categoria, in termini che appaiono in vero assai più coerenti
con la nuova impostazione generale dell’istituto, intesa ad accentuare al massimo l’aspetto
contrattuale ed a favorire l’accordo tra debitore e ceto creditorio in ordine al trattamento
dell’insolvenza.
Il riferimento analogico alla disciplina del concordato fallimentare, ed in particolare all’art.
124 co. 2 l.fall., consente allora di identificare, quali creditori privilegiati, cui sia lecito offrire
un trattamento non totalmente satisfattivo anche nel concordato preventivo, quanto meno in
quelli a cui, in una lettura minimale, fa sicuramente riferimento detta norma, e cioè quelli la
cui garanzia ha un oggetto determinato: in altre parole i creditori muniti di pegno, ipoteca o
privilegio speciale.
Per costoro, del resto, il diritto di preferenza si esercita unicamente sul ricavato del bene su
cui insiste il privilegio. Quindi in sede di “soddisfazione” dei crediti il privilegio, pur istituito
a garanzia dell’intero credito, opera solo nei limiti del valore di realizzo del bene.
In altri termini, per i creditori muniti di un titolo di prelazione speciale la mancata
soddisfazione si verifica ogni qualvolta il valore del bene oggetto della prelazione sia
insufficiente a consentire la soddisfazione dell’intero credito.
Come è stato giustamente osservato, la soddisfazione preferenziale ed
integrale del credito fornito di prelazione su uno specifico bene, mobile o
immobile, non potrà, infatti, realizzarsi oltre i confini stabiliti dall’art. 2808
c.c per l’ipoteca, degli artt, 2787 e 2798 c.c, per il pegno e dell’art. 2756, terzo comma c.c., per
i privilegi speciali (che rinvia alla disciplina sul pegno), in base ai quali, la soddisfazione con
prelazione è consentita solo limitatamente al prezzo ricavato dall’espropriazione ed entro i
rigorosi confini della capienza del bene oggetto della prelazione stessa. Ne consegue che, per
la parte residua, il creditore, non potendo più vantare alcuna prelazione, avrà un diritto alla
“soddisfazione” del tutto pari a quello degli altri creditori chirografari.
D’altro canto, se non si accedesse a questa impostazione, si arriverebbe all’incongruenza peraltro già rilevata con il “vecchio concordato preventivo” - che ai privilegiati speciali
sarebbe riservata (ai danni dei creditori chirografari) una situazione più vantaggiosa di quella
che sarebbe loro data nel caso in cui il debitore non venisse ammesso alla procedura di
concordato preventivo e fallisse.
Se così è, se cioè anche i creditori privilegiati speciali possono subire la falcidia concordataria
per la parte che eccede il valore del bene, si deve convenire che essi vanno collocati in una
classe e votano — come suggerisce l’art. 127 /4 co l.fall.- per la parte di credito proposta al
chirografo, mentre per la restante parte proposta al privilegio non votano e possono
influenzare l’esito del concordato solo ai ricordati fini di cui all’art. 1129 u.c. c.c.
4. Alla luce delle considerazioni svolte, sussistono nella fattispecie in esame tutte le
condizioni richieste dagli artt. 160, 161 e 163 l.fall.
La classe dei creditori di cui si propone il soddisfacimento integrale non cessa di essere tale
per la prospettata dilazione, la quale, opportunamente, prevede il pagamento degli interessi. Il
venir meno delle disposizioni in precedenza contenute nell’art. 160 comma 2 n.1 l.fall., circa
l’obbligo di effettuare il pagamento entro il termine di sei mesi dall’omologa del concordato,
consente di ritenere che, a differenza rispetto al passato, non è più posta dal legislatore alcuna
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limitazione in ordine ai tempi di pagamento dei creditori. Pertanto, opportunamente, il
riconoscimento degli interessi agisce quale correttivo della dilazione in questione.
I criteri di formazione delle classi appaiono dunque corretti. La documentazione appare
regolare e completa.
(omissis).
VI.2 IL GIUDIZIO DI OMLOGAZIONE9
VI.2.1 Tribunale di Prato, 5 dicembre 2005: “I poteri del Tribunale”
La riforma della procedura di concordato preventivo ha riconosciuto un ruolo
centrale alla fase del giudizio di omologazione, restituendo, in parte, alla autorità
giudiziaria il potere-dovere di entrare nel merito della proposta concordataria per
accertarne la convenienza e la adeguatezza, soprattutto con riguardo alla ipotesi di
formazione delle classi, dovendo il tribunale effettuare una valutazione prognostica di
opportunità della soluzione concordataria rispetto alle altre concretamente
praticabili, in caso di dissenso di una o più di esse. In particolare, con questo decreto
il tribunale affronta il tema del potere che alla autorità giudiziaria debba considerarsi
comunque riservato in sede di omologa, richiamandosi al controllo delle condizioni e
dei presupposti processuali della domanda, esercitabile di ufficio dal giudice.
“In sede di omologazione del concordato preventivo, il Tribunale deve verificare la sussistenza delle condizioni
di ammissibilità ed in particolare la qualità di imprenditore del proponente, l’esistenza dello stato di crisi,
l’articolazione di un piano di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti, la correttezza dei criteri
di formulazione delle eventuali classi di creditori e l’attendibilità e fattibilità del piano”.
L’art. 2,comma 1,lett. h) del d.l. n.35 del 2005, convertito,con modifiche, in legge n. 80 del 2005, ha sostituito l’art. 180 con
il seguente:
“ 1. Il tribunale fissa un’udienza in camera di consiglio per la comparizione del debitore e del commissario giudiziale.
Dispone che il provvedimento venga affisso all’albo del tribunale, e notificato, a cura del debitore, al commissario giudiziale
e agli eventuali creditori dissenzienti.
2. Il debitore, il commissario giudiziale, gli eventuali creditori dissenzienti e qualsiasi interessato devono costituirsi almeno
dieci giorni prima dell’udienza fissata, depositando memoria difensiva contenente le eccezioni processuali e di merito non
rilevabili d’ufficio, nonché l’indicazione dei mezzi istruttori e dei documenti prodotti. Nel medesimo termine il commissario
giudiziale deve depositare il proprio motivato parere.
3. Il tribunale, nel contraddittorio delle parti, assume anche d’ufficio tutte le informazioni e le prove necessarie,
eventualmente delegando uno dei componenti del collegio per l’espletamento dell’istruttoria.
4. Il tribunale, se la maggioranza di cui al primo comma dell’art. 177 è raggiunta, approva il concordato con decreto
motivato. Quando sono previste diverse classi di creditori, il tribunale, riscontrata in ogni caso la maggioranza di cui al
primo comma dell’art. 177, può approvare il concordato nonostante il dissenso di una o più classi di creditori, se la
maggioranza delle classi ha approvato la proposta di concordato e qualora ritenga che i creditori appartenenti alle classi
dissenzienti possano risultare soddisfatti dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente
praticabili.
5. Il decreto è comunicato al debitore ed al commissario giudiziale, che provvede a darne notizia ai creditori, ed è pubblicato
ed affisso a norma dell’art. 17.
6. Le somme spettanti ai creditori contestati, condizionali o irripetibili sono depositate nei modi stabiliti dal tribunale, che
fissa altresì le condizioni e le modalità per lo svincolo”.
L’art. 2, comma 1, lett. i) del d.l. n. 35 del 2005, convertito, con modifiche, in legge n. 80 del 2005, ha sostituito l’art. 181
con il seguente:
“ La procedura di concordato preventivo si chiude con il decreto di omologazione ai sensi dell’art. 180. l’omologazione deve
intervenire nel termine di sei mesi dalla presentazione del ricorso ai sensi dell’art. 161; il termine può essere prorogato per
una sola volta dal tribunale di sessanta giorni”.
9
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In via del tutto preliminare si osserva che il Tribunale ritiene che nonostante la nuova
formulazione degli artt. 180 e 181 legge fallimentare, al Collegio, in sede di omologazione,
competa in ogni caso e, senza la necessità di espresse eccezioni di parte, il controllo circa la
sussistenza delle condizioni di ammissibilità del concordato e della regolarità della procedura.
Si tratta, infatti, di valutare le condizioni ed i presupposti processuali della domanda, poteri
che nessuno dubita rientrino tra quelli esercitabili di ufficio dal Giudice (cfr. tra le altre Cass.
2 aprile 1999, n.3191).
Le eccezioni sollevate dai soggetti costituiti diventano necessarie solo per consentire al
Tribunale (come è avvenuto nel caso di specie, in relazione alla allegazioni E. S.p.a., di cui si
dirà ampiamente in prosieguo) di effettuare il suo giudizio tenendo conto anche di fatti
ulteriori e diversi rispetto a quelli risultanti dal fascicolo del concordato (cui invece il
Tribunale farebbe esclusivo riferimento in assenza di opposizioni).
Alla luce della nuova normativa le condizioni di ammissibilità del concordato sono:
- qualità di imprenditore commerciale, non piccolo, del ricorrente;
- stato di crisi dello stesso;
- esistenza di un piano di ristrutturazione dei debiti e soddisfazione dei crediti;
- correttezza della formazione di eventuali classi di creditori;
- attendibilità del piano;
- fattibilità dello stesso.
Nel caso di specie le suddette condizioni sussistono.
a)Nessun dubbio può sussistere sulla qualità di imprenditore commerciale della ricorrente. Si
tratta infatti di una S.p.a. il cui oggetto sociale (prima dell’apertura della fase di liquidazione)
era «attività di filatura per conto proprio e per conto terzi, nonché commercio di filati ed altri prodotti tessili;
acquisto, costruzione e vendita immobili».
b)Lo stato di crisi risulta conclamato dalla lettura degli allegati al ricorso, dai quali emerge un
notevole squilibrio tra attivo e passivo.
c)La ricorrente ha proposto un piano che prevede la suddivisione dei creditor in due classi
omogenee: privilegiati e chirografari, con il pagamento integrale dei primi e nella misura del
50% dei secondi, attraverso la cessione di tutti i beni aziendali, costituiti da immobili, crediti,
partecipazioni societarie, disponibilità liquide e beni mobili, complessivamente valutati euro
13.586.188, 04 a fronte di un fabbisogno concordatario (comprese le spese di procedura)
valutato euro 11.741.302, 04.
d)Le classi risultano correttamente formate essendo la distinzione effettuata tra chirografari e
privilegiati basata sull’omogeneità delle posizioni giuridiche e degli interessi economici.
e)Il piano è da ritenersi attendibile. Infatti al di là di alcune correzioni effettuate dallo stesso
debitore (in via principale a seguito del riconoscimento del privilegio al creditore E. S.p.a.),
correzioni che hanno portato il costo del concordato a euro 12.966.968 e la valutazione
dell’attivo ad euro 14.027.719, 64, il commissario giudiziale ha verificato la sostanziale
rispondenza dei dati aziendali alle scritture contabili regolarmente tenute, la materiale
esistenza dei beni da cedere e la correttezza del calcolo del valore degli stessi. Nessuna
rilevanza circa la valutazione dell’attendibilità del piano riveste la circostanza che lo stesso
non preveda la soddisfazione dei crediti vantati da E. S.p.a. Emerge con chiarezza, dalla
stessa lettura dell’atto di opposizione redatto dalla difesa E. S.p.a., nonché dalla esaustiva
relazione depositata in atti dal Commissario giudiziale in data 24 settembre 2005, che i crediti
di cui trattasi oltre a non essere né liquidi, né esigibili, sono decisamente contestati dalla
debitrice e sono oggetto di accertamento giudiziale. Nessun appunto può dunque effettuarsi
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alla società ricorrente in ordine alla mancata indicazione dei suddetti crediti nel piano
presentato.
f)Quanto alla fattibilità del piano il Commissario giudiziale ha in più occasioni ribadito che,
tenuto conto anche delle integrazioni e modifiche effettuate dalla debitrice nel corso del
procedimento, il piano si fonda su basi realistiche ed i risultati previsti devono ritenersi
ragionevolmente conseguibili. Ciò in quanto: il rischio risulta molto frammentato, per la
presenza nell’attivo ceduto di beni di varie tipologie; l’eventualità di una mancata collocazione
sul mercato degli immobili (che costituiscono la parte più rilevante dell’attivo) risulta remota,
trattandosi nella maggior parte di immobili di pregio, alcuni di valore storico; i beni risultano
prudenzialmente stimati, ad un valore spesso inferiore a quello di mercato; esiste un fondo
rischi molto cospicuo (superiore a euro 1.000.000, 00).
(omissis)
I criteri di formazione delle classi appaino corretti, atteso che i creditori sono stati suddivisi
in due classi omogenee per posizione sia giuridica che economica.
Quanto alla regolarità della procedura si osserva che sono state raggiunte le maggioranze
previste dall’art. 177 legge fallimentare. Hanno infatti espresso voto favorevole al concordato
creditori chirografari portatori di crediti pari a euro 3.876.612, 15 su di un totale degli aventi
diritto al voto pari ad euro 5.106.260, 73.
La circostanza che non siano stati ammessi a votare E. S.p.a. titolare di un credito
chirografario di euro 3.600, 20 ed E. S.p.a. titolare di un credito pari a euro 489.337, 00 non
vale ad inficiare la validità della votazione atteso che un loro eventuale dissenso sarebbe stato
irrilevante ai fini dell’esito della votazione.
Il concordato deve, dunque, essere omologato.
Dal momento che il concordato in esame consta nella cessione dei beni ai creditori, a norma
dell’art. 182 legge fallimentare (che non è stato modificato) deve procedersi alla nomina di un
liquidatore e del comitato dei creditori.
Preso atto inoltre che la proposta concordataria non prevede alcuna modalità attuativa della
liquidazione dei beni, diversa dal prezzo minimo di vendita dei singoli beni è onere del
Tribunale, sempre a norma del citato art. 182 legge fallimentare disciplinare l’attività del
liquidatore.
(omissis).
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CAPITOLO VII
GLI ACCORRDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI
SOMMARIO: VII.1 Gli accordi di ristrutturazione dei debiti
VII.1 GLI ACORDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI10
VII.1.1 Tribunale di Roma, 16 ottobre 2006: “Il giudizio di omologazione”.
L’introduzione dell’istituto degli accordi di ristrutturazione dei debiti ad opera del
d.l. n. 35 del 2005, convertito, con modifiche, in legge n. 80 del 2005, è ispirata,
unitamente alla rivisitazione del concordato preventivo, di cui agli artt. 160 ss. l.fall.,
ed ai piani di risanamento di cui all’art. 67, comma 3, lett. d) l.fall., all’ intento di
aumentare il novero degli strumenti di soluzione della crisi alternativi al fallimento e
di agevolarne e velocizzarne la accessibilità da parte dell’imprenditore. Tra i problemi
sollevati da tale nuovo istituto rileva in particolare la sua collocazione sistematica,
essendo dubbio se esso vada considerato quale procedimento autonomo oppure
quale sottospecie particolare del concordato preventivo, dovendosi, in questo
secondo caso, ritenere applicabili agli accordi di ristrutturazione le norme dettate per
l’istituto del concordato attraverso un’opera di coordinamento dell’art. 182 bis l.fall.,
con gli artt. 160 ss, l.fall.
Il primo orientamento si fonda sulla natura negoziale degli accordi di ristrutturazione
e sulla conseguente assenza di effetti remissori per i creditori non aderenti, i quali
devono perciò essere soddisfatti regolarmente, sulla circostanza che l’art. 182 bis
richiama solo alcune delle norme dettate in materia di concordato e sul dato letterale
dell’uso, nell’art. 67, comma 3, lett. e), della congiunzione nonché tra le espressioni
«concordato preventivo» e «accordo omologato ai sensi dell’art. 182 bis», ma anche
della rubrica del titolo III della legge fallimentare - «Del concordato preventivo e
degli accordi di ristrutturazione» - e della rubrica del capo V del titolo III-
«dell’omologazione e dell’esecuzione del concordato preventivo. Degli accordi di
ristrutturazione».
A suffragio del secondo orientamento rileva la circostanza che anche secondo la
disciplina del concordato esiste una categoria di creditori, quella dei privilegiati, che
10 10
L’art. 2, comma 1, lett. l, del D.L. 14 marzo 2005, n.35, conv. in l. 14 maggio 2005, n.80, ha inserito il seguente articolo:
Art. 182 bis. Accordi di ristrutturazione dei debiti
1. Il debitore può depositare, con la dichiarazione e la documentazione di cui all’art. 161, un accordo di ristrutturazione dei
debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, unitamente ad una relazione redatta da
un esperto sull’attuabilità dell’accordo stesso, con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento
dei creditori estranei.
2. L’accordo è pubblicato nel registro delle imprese; i creditori d ogni altro interessato possono proporre opposizione entro
trenta giorni dalla pubblicazione.
3. Il tribunale, decise le opposizioni, procede all’omologazione in camera di consiglio con decreto motivato.
4. Il decreto del tribunale è reclamabile alla corte di appello ai sensi dell’art. 183, in quanto applicabile, entro quindici giorni
dalla sua pubblicazione nel registro delle imprese.
5. L’accordo acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione nel registro delle imprese.
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può rimanere estranea all’accordo e che tale nuovo istituto non è disciplinato da un
titolo autonomo, quale era, invece, l’amministrazione controllata.
“Il nuovo istituto degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.fall., non deve essere considerato
quale species del genus concordato preventivo, essendo rispetto a questo ontologicamente difforme. Diversamente
dal concordato preventivo, questo procedimento di natura pattizia non trova il suo presupposto nella ricorrenza
dello stato di crisi; non impedisce la prosecuzione delle procedure esecutive individuali intraprese; non vincola i
creditori che non aderiscano all’accordo, i quali devono quindi essere regolarmente pagati, ed acquista efficacia
dal giorno della sua pubblicazione nel Registro delle imprese”.
Prima di operare una valutazione in ordine alla accoglibilità della domanda volta ad ottenere
l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti occorre tracciare brevemente i
profili di un istituto del tutto innovativo nel panorama delle procedure concorsuali; giova
preliminarmente evidenziare che la previsione di siffatto istituto va collocata storicamente
nell’ottica di un tentativo del legislatore di attenuare i profili officiosi delle procedure
concorsuali privilegiando quelli pattizi (si consideri in proposito che è stata esclusa l’iniziativa
di ufficio del giudice ai fini della dichiarazione del fallimento, che il controllo del Collegio in
tema di autorizzazione alla apertura della procedura di concordato preventivo- secondo
l’indirizzo prevalente- è divenuto di minore pregnanza non essendo stata ribadita la
ricorrenza del requisito del controllo in ordine alla convenienza del concordato preventivo e
alla meritevolezza del debitore ai fini della concessione del predetto beneficio e, da ultimo,
che lo stesso accordo di ristrutturazione dei debiti rappresenta il trionfo dell’autonomia
privata in ambito concorsuale).
In altri termini pare di arguire che agli organi giurisdizionali non è più richiesto di tutelare in
via principale gli interessi dei soggetti coinvolti nella crisi di impresa- provvedendo a ricercare
l’esistenza di profili di insolvenza a carico degli imprenditori al fine di rendere “sano” il
mercato e di dirigere e vigilare sul buon andamento della gestione delle procedure
concorsuali- sebbene di erigersi a garanti del rispetto delle regole prescelte dai soggetti privati
decidendone gli eventuali conflitti.
Tanto precisato mette conto considerare che la collocazione sistematica della disposizione ex
art. 182 bis l. fall., nel titolo III (del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione)
e nel Capo V (dell’omologazione e dell’esecuzione del concordato preventivo. Degli accordi
di ristrutturazione dei debiti) potrebbe dar adito a perplessità esegetiche sino a ritenere che
l’accordo di ristrutturazione sia una species del genus concordato preventivo ovvero abbia
affinità notevoli con la procedura concorsuale da ultimo indicata.
Siffatta postulazione appare destituita di fondamento sol che si ponga attenzione al dettato
letterale dell’art. 182 bis che recita espressamente: “ il debitore può depositare, con la
dichiarazione e la documentazione di cui all’art. 161, un accordo di ristrutturazione dei debiti
stipulato con i creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti unitamente alla relazione
redatta da un esperto sull’attuabilità dell’accordo stesso, con particolare riferimento alla sua
idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. L’accordo è pubblicato nel
registro delle imprese; i creditori ed ogni altro interessato possono proporre opposizione
entro trenta giorni dalla pubblicazione. Il tribunale, decise le opposizioni, procede
all’omologazione in camera di consiglio con decreto motivato.
Il decreto del tribunale è reclamabile alla corte di appello ai sensi dell’art. 183, in quanto
applicabile, entro quindici giorni dalla sua pubblicazione nel registro delle imprese. L’accordo
acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione nel registro delle imprese”.
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La mera lettura del dettato normativo, interpretata secondo i consueti canoni ermeneutici,
rende palesi le peculiarità della procedura ex art. 182 bis rispetto a quella di concordato
preventivo ed infatti:
a)il concordato preventivo (e non anche l’accordo di ristrutturazione dei debiti) richiede quale
presupposto la ricorrenza dello stato di crisi imprenditoriale;
b)l’attivazione della procedura di concordato preventivo determina quale conseguenza la
sospensione delle azioni esecutive individuali proposte nonché la riunione (id est
l’assorbimento) al fascicolo della procedura minore di quelli recanti le istanze volte a invocare
la apertura della procedura fallimentare; diversamente la procedura ex art. 182 bis non
impedisce in alcun modo la prosecuzione delle procedure esecutive individuali intraprese, ha
un suo corso processuale autonomo e viene trattata separatamente e anche non
contestualmente e coevamente con le istanze di fallimento (essendo ben possibile che venga
omologato un accordo di ristrutturazione di debiti di un’impresa in bonis così come può
essere aperta la procedura fallimentare anche a seguito dell’omologazione dell’accordo d
ristrutturazione dei debiti);
c)la volontà della maggioranza votante (chirografari e privilegiati che abbiano optato per
l’esercizio del voto) nel concordato preventivo vincola la minoranza dissenziente mentre
nell’accordo di ristrutturazione dei debiti i non aderenti all’accordo hanno diritto di esser
pagati regolarmente e cioè in forma integrale e alla scadenza delle rispettive ragioni di credito;
d)il concordato preventivo trova attuazione a seguito dell’approvazione del ceto creditorio e
dell’omologazione da parte del Tribunale mentre l’accordo di ristrutturazione dei debiti
acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione nel registro della imprese essendo
risolutivamente condizionato all’esito favorevole delle opposizioni avverso l’accordo
medesimo e alla mancata omologazione;
e)la procedura di concordato preventivo è un beneficio accordato al debitore il quale, con
l’accordo della maggioranza qualificata dei creditori e con il controllo positivo del tribunale,
acconsente ad una definizione della propria esposizione debitoria anche a mezzo della
cessione dei propri beni (mobili ed immobili, crediti, partecipazioni..) mentre l’accordo di
ristrutturazione dei debiti, nell’ipotesi di mancata radicazione della procedura fallimentare,
costituisce una pattuizione in ordine alla riduzione e alla moratoria dei debiti laddove, una
volta intervenuta la procedura concorsuale maggiore, dà diritto alla esenzione dalla
evocazione giudiziale in sede di revocatoria dei crediti ai sensi della lettera e) dell’art. 67, 3°
comma, l. fall.
Operate siffatte precisazioni e chiarito, pertanto, che la procedura relativa all’accordo di
ristrutturazione dei debiti è ontologicamente difforme da quella del concordato preventivo,
mette conto verificare se, nel caso in esame, ricorrano i requisiti utili ai fini dell’omologazione
del cennato accordo; giova preliminarmente significare che la proposta posta all’attenzione
del Collegio risulta gravemente carente laddove non viene esplicitata la previsione di regolare
pagamento dei creditori non aderenti (intendendosi, a parere del Tribunale, per regolare
pagamento- si ribadisce- quello da effettuarsi alle scadenze concordate e in forma integrale);
ma ancor più la proposta formulata si palesa carente allorquando viene adottato l’erroneo
criterio (prescelto nella relazione ex art. 182 bis legge fallimentare, dall’esperto sulla attuabilità
dell’accordo medesimo) di ritenere che almeno il 60% dei creditori aderenti debba essere
rappresentato dal solo ceto creditorio munito di titolo esecutivo.
Contestata siffatta incongruenza, in camera di consiglio all’udienza collegiale del 4/7/06 è
stato concesso termine sino al 25/9/06 al fine di consentire al debitore e all’esperto “di
potere ridisegnare l’intera debitoria” ma all’udienza collegiale del 28/9/06 non è stata
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depositata documentazione utile ai fini invocati (al contrario essendo stato depositato lo stato
patrimoniale e il conto economico dall’1/1/05 al 28/12/05 palesanti passività correnti per
euro 648.200,52 a fronte della esposizione debitoria indicata nella relazione allegata al ricorso
ex art. 182 bis legge fallimentare pari a euro 144.194, 87.
Non essendo, pertanto, neppure previsto il pagamento dei creditori aderenti rappresentanti
almeno il 60% della esposizione debitoria, va, anche sotto questo ulteriore profilo negata
l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione con ogni conseguente provvedimento.
(omissis)
VII.1.2 Tribunale di Enna, 27 settembre 2006: “Omologazione, opposizioni, termini”
La facoltà di opporsi all’accordo di ristrutturazione dei debiti è riconosciuta sia ai
creditori che non vi abbiano aderito, sia ad ogni altro interessato, entro trenta giorni
dalla pubblicazione nel registro delle imprese. L’opposizione può avere ad oggetto i
profili attinenti le condizioni richieste dalla legge per la presentazione dell’istanza di
omologazione, e quelli attinenti la concreta attuabilità del piano, con particolare
riferimento alla sua idoneità a garantire l’integrale soddisfacimento dei creditori
estranei. Nonostante la formulazione letterale della norma, secondo l’orientamento
prevalente si deve ritenere che il tribunale sia chiamato ad emettere il decreto di
omologazione anche in assenza di opposizione, considerato che la non revocabilità
degli atti riconducibili all’accordo, ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett.e) l.fall., è
prevista con riguardo a quello che sia stato omologato dal tribunale.
Il rigetto della domanda di omologazione non determina la automatica dichiarazione
di fallimento, in quanto si ritiene che il presupposto oggettivo di questo istituto non
risieda nel solo stato di insolvenza ma nel più ampio stato di crisi. Sicché, ai fini della
dichiarazione di fallimento, occorrerà uno specifico ricorso e, quindi, la conseguente
istruttoria pre-fallimentare.
La questione esaminata dal Tribunale riguarda, poi, le modalità del calcolo del
termine per proporre l’opposizione, se cioè detto termine debba considerarsi sospeso
durante il periodo dall’1 agosto al 15 settembre (secondo la regola generale che
durante tale periodo sono sospesi tutti i termini processuali), ovvero se tale principio
generale sia inapplicabile agli accordi di ristrutturazione.
“Nel ricorso per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti il termine per proporre opposizioni
è soggetto a sospensione feriale rientrando nella previsione generale dell’art.1 della legge n.742 del 1969. Tale
termine di trenta giorni decorre dalla pubblicazione nel registro delle imprese”.
L’art. 182 bis, comma 2, l.fall., prevede la pubblicazione dell’accordi di ristrutturazione nel
registro delle imprese. Tale adempimento pubblicitario si concreta, più propriamente, nel
deposito dell’accordo e della relazione dell’esperto nel registro delle imprese e la formalità
dell’iscrizione riveste una funzione costitutiva, in quanto consente ai terzi interessati di avere
una conoscenza adeguata ed effettiva dell’accordo stipulato tra il debitore ed una parte dei
creditori, condizionando l’avvi0o del giudizio di omologazione. Nel caso di specie l’accordo è
stato depositato per l’iscrizione nel R.I. in data 9 agosto 2006, pertanto, il termine per
proporre le opposizioni è scaduto l’8 settembre 2006. sennonché il deposito è avvenuto
durante il periodo di sospensione dei termini processuali ai sensi dell’art. 1 della legge n.742
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del 1969. occorre, pertanto, esaminare le osservazioni depositate dal ricorrente e verificare se
sia effettivamente decorso il termine per proporre opposizione da parte dei terzi interessati
prima di valutare la omologabilità dell’accordo. A tal fine va precisato che ai sensi dell’art.3
della citata legge n.742 è esclusa la sospensione feriale per i procedimenti indicati nell’art. 92
dell’ord. giud. n.12 del 1941, tra i quali rientrano le dichiarazioni e la revoca dei fallimenti e in
genere quelli rispetto ai quali la ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle
parti. Esaminando la prima osservazione del ricorrente, avente ad oggetto il parallelismo
dell’accordo di ristrutturazione ed il concordato preventivo, questo Collegio ritiene di non
esaminare in questa fase la natura giuridica dell’accordo di ristrutturazione perché non
conducente. Secondo il Collegio, infatti, il nuovo modello di concordato preventivo, così
come riformulato dal D.L. n.35 del 2005, convertito con legge n.80 del 2005, muta i propri
tratti fisionomici, determinando la cessazione delle esigenze che hanno indotto la
giurisprudenza di legittimità a considerare inapplicabile la sospensione feriale. Va, infatti,
osservato che la Cassazione, mutando un precedente orientamento, ha ritenuto non operante
la sospensione dei termini processuali al procedimento di concordato preventivo perché “la
sentenza di rigetto della domanda di omologazione del concordato preventivo implica
necessariamente, ai sensi dell’art. 181, secondo comma, l.fall., la dichiarazione di fallimento
dell’imprenditore”. Ciò in quanto il concordato, in via secondaria, mirava a riscontrare la
sussistenza dei presupposti del fallimento dedotti dall’imprenditore, svolgendosi la procedura
appunto sul presupposto dell’esistenza oggettiva dello stato di insolvenza e della
consapevolezza dello stesso da parte dell’istante all’epoca della domanda di ammissione al
concordato(Cass.civ., sez.I, 4 marzo 1994, n.2139).
Avuto riguardo a questo elemento caratteristico della procedura, la Cassazione ha ritenuto
inapplicabile la sospensione feriale anche quando la sentenza di fallimento intervenga nella
fase che conclude il giudizio di omologazione, rigettando la relativa domanda. Nel momento
in cui mutano i presupposti dell’istituto del concordato preventivo e viene riformulato l’art.
181 l.fall., si deve prendere atto che la mancata omologa non comporta più la dichiarazione di
ufficio del debitore e, pertanto, cessa la medesima ratio legis, che ha consentito alla Corte di
Cassazione di interpretare estensivamente l’art. 92 ord. giudiziario, nella parte in cui prevede
la inapplicabilità del termine di sospensione feriale alla dichiarazione e alla revoca dei
fallimenti. A seguito della riforma D.lgs. 9 gennaio 2006 n.5, in vigore al momento del
deposito del presente ricorso, è cessata ogni residua possibile interpretazione estensiva
dell’art. 92 ord. giudiziario, all’istituto dell’accordo di ristrutturazione perché nel novellato art.
6 l.fall., non può essere dichiarato d’ufficio il fallimento. Ciò comporta che, in mancanza di
un’istanza di fallimento, la mancata omologazione dell’accordo di ristrutturazione non può
sfociare nella dichiarazione di fallimento.
Anche la seconda osservazione del ricorrente è destituita di fondamento. Va, infatti,
osservato che l’accordo di ristrutturazione è soggetto al vaglio dell’autorità giudiziaria
attraverso il procedimento di omologazione mentre il progetto di fusione societaria è
depositato, alla stregua dell’accordo di ristrutturazione, per l’iscrizione nel registro delle
imprese, ma la fusione è decisa da ciascuna delle società che vi partecipano mediante
approvazione del relativo progetto, ai sensi dell’art. 2502 c.c., e non già dal tribunale. A
riprova della non ammissibilità tra i due istituti va osservato che nel progetto di fusione si
può prescindere dal decorso del termine di sessanta giorni dalla pubblicazione nel registro
delle imprese tutte le volte in cui «consti il consenso dei creditori delle società che vi
partecipano anteriori all’iscrizione prevista nel terzo comma dell’art. 2501 ter c.c., o il
pagamento dei creditori che non hanno dato il consenso, ovvero il deposito delle somme
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE
FACOLTÀ DI ECONOMIA
CATTEDRA DI DIRITTO FALLIMENTARE
corrispondenti presso una banca, salvo che la relazione di cui all’art. 2501 sexies c.c., sia
redatta, per tutte e società partecipanti alla fusione, da un’unica società di revisione la quale
asseveri, sotto la propria responsabilità ai sensi del sesto comma dell’art. 2501 sexies c.c., che
la situazione patrimoniale e finanziaria delle società partecipanti alla fusione rende non
necessarie garanzie a tutela dei suddetti creditori.»; nell’accodo di ristrutturazione, invece,
anche nella ipotesi in cui l’accordo dovesse essere sottoscritto dalla totalità di creditori, non si
può procedere all’omologa dello stesso prima che decorra il termine per la pubblicazione sia
perché gli stessi creditori aderenti possono richiedere la risoluzione o l’annullamento
dell’accordo sia perché vi possono essere terzi interessati, diversi dai creditori, quali ad
esempio i fideiussori del debitore che continuano ad essere obbligati.
Da ultimo va osservato che l’opposizione dei creditori alla fusione costituisce un atto
potestativo recettizio proponibile in forma stragiudiziale oltre che in forma contenziosa,
mentre le opposizioni dei creditori nell’accordo di ristrutturazione possono essere proposte
soltanto in forma giudiziale e devono essere decise prima dell’accoglimento o del rigetto della
domanda di omologazione.
Va, infine, evidenziato che nella fattispecie il ricorrente si è limitato ad invocare
genericamente ragioni di grave pregiudizio, che legittimano la non operatività della
sospensione feriale, ma non ha corroborato tale situazione che, ad avviso del Collegio, non
può essere desunta dal contenuto del piano e dalla relazione del professionista perché tale
giudizio implicherebbe una valutazione che va oltre l’accertamento deferito al tribunale nello
stesso giudizio di omologazione.
Per queste ragioni va affermato che il termine per proporre opposizione è soggetto a
sospensione feriale. Va, inoltre, considerato che il giorno 16 settembre deve essere compreso
nel novero di quelli concessi dal termine, atteso che esso segna non già l’inizio di
quest’ultimo, bensì del suo decorso, in quanto «sarebbe contrario alla ratio dell’art. 155 c.p.c.,
lasciare fuori dal computo un giorno intero (16 settembre) in cui l’atto di riferimento non si è
verificato: giorno che si aggiungerebbe illogicamente a quelli interi del termine, allungandolo
senza giustificazione» (cfr. Cass. civ. sez. II, 16 gennaio 2006, n. 688; Cass. civ., Sez. Un., 28
marzo 1995,n.3668) e che il giorno 15 ottobre 2006 è giorno festivo. Il termine per proporre
le opposizioni, pertanto, verrà a scadere il 16 ottobre 2006.
Alla scadenza di detto termine va fissata l’udienza in camera di consiglio per consentire al
ricorrente di esporre le ragioni poste a fondamento del ricorso, per sentire, nel
contraddittorio, eventuali creditori opponenti e per svolgere l’istruttoria necessaria, anche
attraverso chiarimenti richiesti al professionista che ha redatto la relazione, o disporre
d’ufficio i mezzi istruttori che il Collegio riterrà necessari.
(omissis)
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