Stagione Teatrale: Ditegli sempre di sì

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Stagione Teatrale: Ditegli sempre di sì
pubblicato il 19-03-2010 da Ufficio Stampa
Domenica 28 marzo 2010, ultimo appuntamento con la Stagione Teatrale. Alle ore 21.15, presso il
Palacongressi Comunale andrà in scena lo spettacolo DITEGLI SEMPRE DI SI di di Eduardo De Filippo con
GEPPY GLEJESES e con GENNARO CANNAVACCIUOLO, LORENZO GLEIJESES e la partecipazione
di GIGI DE LUCA
e con Felicia Del Prete, Gino De Luca, Antonio Ferrante, Gina Perna, Laura Amalfi, Ferruccio Ferrante,
Stefano Ariota. musiche a cura di Matteo D'Amico
light Designer Luigi Ascione regia di Geppy Glejeses L'unicità assoluta che troviamo in questo piccolo
capolavoro che è Ditegli sempre di sì è che Michele Murri, il protagonista, è un pazzo vero. Pirandello usava,
e Eduardo lo sapeva bene, la pazzia, come strumento suggerito o usato dal protagonista per lavare l'onta e la
vergogna del tradimento (Il berretto a sonagli), per rifugiarsi nel proprio microcosmo, impermeabili alle
tempeste dei sentimenti e alle sofferenze della vita (Enrico IV) o per insinuare il dubbio, un dubbio fatale e
corrosivo (Così è, se vi pare). Gli altri riferimenti eduardiani erano sè stesso e la tradizione sancarliniana.
Nelle 99 disgrazie di Pulcinella, di Pasquale Altavilla, poi di Carlo Guarini (io l'interpretai nel '74), la
maschera finisce in mezzo ai pazzi di un manicomio e ne Il medico dei pazzi Scarpetta pone a confronto un
ingenuo campagnolo con i clienti di un albergo che con il loro strano comportamento lo inducono a crederli
pazzi. E soprattutto la pazzia è utilizzata per sfuggire al castigo della legge o al giudizio della Società in Uomo
e galantuomo il primo dei grandi testi eduardiani (1922).
Ma qui ci troviamo davanti a un pazzo vero. La circostanza è dolorosa, fertile, straniante, esilarante e
pericolosa. Eduardo lo sapeva bene: affrontare la malattia mettendoci le mani dentro come autore e come
attore era una grande occasione e una scommessa. Non a caso tra modifiche, ripensamenti, variazioni
linguistiche e semantiche, ritroviamo più di dieci versioni, molto o a volte poco diverse tra loro.
Esiste in natura la pazzia di Michele Murri? Sì. La mia amica psichiatra, Angela Colucci, la definisce una
sindrome ossessiva derivata dall'assenza del "simbolico". Michele per rimanere agganciato a quella realtà che
gli sfugge da ogni lato rifiuta la metafora, la parafrasi, l'allegoria: le parole devono corrispondere a un dato
reale, a situazioni esistenti. Se un personaggio gli dice: "sono morto", egli invia subito al fratello un
telegramma di condoglianze, se una fanciulla non ha nè padre nè madre (è orfana) Michele si domanda "e chi
l'ha fatta?", se Luigi Strada finge di mostrargli soldi che non esistono, lui li vede subito materializzati. Michele
ci fa ridere tanto, ma noi ridiamo di una "vera disgrazia". E lo straniamento derivante dalla sua diversità, nella
mia interpretazione diventa tic linguistico, non balbuzie, ma disco rotto o incantato, ripetizione ossessiva,
inspirazione angosciante, non fissata a copione ma disseminata in modo jazzistico, quasi a ricordare che il
linguaggio di un folle rispecchia la sua angoscia e la sua sofferenza.
Tutto ciò avviene in un contesto storico di normalizzazione essenziale per la dittatura fascista che rifiutava ed
emarginava il diverso. Il "fool" non è più vicino a Dio, è solo un pericolo, da chiudere in un manicomio o nel
dolore di una casa e nella vergogna di una famiglia. Eduardo era sensibilissimo ai contesti sociali in cui
scriveva: quando nel '75 io misi in scena ed interpretai Chi è cchiù felice 'e me, instradandomi registicamente
(ero un ragazzo di 19 anni baciato dalla grazia della sua attenzione) egli mi rivelò: "guardate che nel '32 c'era
in nuce una vera rivoluzione femminile e Chi è cchiù felice 'e me! ne è il ritratto". Come non agganciare allora
Ditegli sempre di sì al contesto storico in cui vide la luce? Tanto più se Eduardo in quegli anni, costretto ad
annunciare alla fine di una recita la nascita dell'Impero, riferendosi al duce, raccomanda al pubblico: "Ditegli
sempre di sì"!?
Accanto alla follia di Michele, c'è poi la diversità del giovane Luigi Strada, il suo specchio ustorio (non a caso
interpretato da mio figlio Lorenzo), un "pericolo per la Società", mezzo attore, medico, artista, letterato, un
eversivo irregimentabile, uno "stravagante", nell'epoca in cui la stravaganza era una minaccia per l'ordine
costituito. E la sorella di Luigi, Teresa, custode delle sue sofferenze, è descritta come "mancante di qualche
rotella" è al limite della normalità, maniaca dell'ordine e probabilmente asessuata, qui interpretata dal mio
compagno d'avventura Gennaro Cannavacciuolo senza il minimo ricorso al travestitismo, nel solco
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dell'astrattezza di un Alec Guinness. Quanto divertimento e quanto dolore in queste figurette gigantesche!
Agli occhi di Michele il mondo è tutto "a capa sotto", fuori dalle quattro mura che lo proteggono ho chiesto
letteralmente allo scenografo Paolo Calafiore di costruirmi un panorama rovesciato: dal balcone di casa Murri,
Michele vede una foto di Alinari tridimensionale, in cui il cielo è sotto le case rovesciate e il sole tramonta
salendo. Allo stesso modo ho voluto che il giardino di casa Gallucci, che vede desinare i nostri amici, fosse
minacciato da 150 enormi girasoli, piante carnivore che sotto un cielo scurissimo attendono l'epilogo di questa
piccola vicenda umana.
C'è un confine drammaturgico in Ditegli sempre di sì e noi abbiamo deciso di andare fino in fondo: dopo
un'ora e mezza di risate (a volte amare) e di segnali inquietanti, il testo vira e trascolora nel dramma. Da
quando Teresa di fronte al dilagare della pazzia del fratello è costretta a rivelare la vergogna della malattia, è
tutto un precipizio, l'alter ego Luigi Strada prima dello svelamento viene ritenuto pazzo, Michele si rispecchia
completamente in lui, lo chiama "Michele Murri", vuole convincerlo a liberare la gente normale dalla sua
presenza, lo impicca per i piedi e poi per salvarlo cerca di tagliargli la testa, origine di ogni male. Il sacrificio
viene interrotto da Teresa con un semplice richiamo e i due tornano a casa, che per loro, e lo sanno, sarà
l'eterna volontaria prigione, mentre tutti i personaggi scoprendo le giacche private dei bottoni, resteranno lì,
lasciando incuranti Luigi Strada appeso come un salame. Il grande teatro napoletano del secolo scorso, da
Eduardo a Viviani e poi da Ruccello a Moscato, funziona così. Si ride e si piange, passando da una scena
all'altra, a volte da una frase all'altra nella stessa battuta.
Ho avuto una Compagnia meravigliosa in cui ci sono attori di due o tre generazioni (e lo scambio di
esperienze ha dato frutti importanti) e confronti padri-figli, non solo io e Lorenzo ma anche Gigi De Luca
attore antico e modernissimo e suo figlio Gino. Con tutti loro e con i miei collaboratori abituali, i miei preziosi
tecnici, i miei assistenti, Luigi Ascione che dà luce ai miei sogni, Gabriella Campagna e Matteo D'Amico, ho
cercato di fuggire la convenzione non per snobismo ma perché Eduardo amava essere interpretato, mai
imitato. "La fine è il vero inizio" diceva. Abbiamo la sua eredità universale che ci vuole non falsari ma
autonomi creatori. Tutto cambia, per grazia di Dio, anche se i tesori ci restano dentro.
"L'attore quando muore deve morire. Basta! Deve sparire! Non deve lasciare quest'ombra, questa falsa vita. È
una cosa falsa. Io ho fatto pure il cinematografo ma perché mi servivano i quattrini; non l'ho fatto per piacere.
Solo il teatro mi ha dato gioia, sempre. E quello che mi ha dato contatto con il pubblico, possibilità di parlare,
di cambiare, di evadere... insomma per me la vita è passata in un attimo. Meno male!" Geppy Gleijeses
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