LO SPETTACOLO
"Son dell'uomo i primi diritti" canterà l'inno repubblicano ricostruito sugli estratti recuperati dall'allievo Stefano
Innamorati. Su consiglio dall'accidioso neoborbonico Nicola Forte, con lui nel palco, il critico Paolo Isotta,
giudicherà, nel suo articolo per il Corriere della Sera, volgare l'idea di cantarlo a luci accese, come volendo
strappare a forza degli applausi.
Alla biascicante voce inglese di Vanessa Redgrave, che sbracciandosi agitava le fronde della veste per danzare, io
stesso, pensai di applaudire, ma fra tanti giornalisti che mi conoscevano come neoborbonico, il timore di fare la
figura di chi non avesse capito il resto di niente, mi fece "ficcare" le mani in tasca!
Per quanto potesse apparire meraviglioso, l'allegro pezzo non era che uno dei tanti inni dedicati alla rivoluzione.
La finezza era di rappresentarlo con tale forza d'enfasi, che lontana dallo spirito necrofilo del resto dello spettacolo,
ricorderà la "Tosca" di Puccini.
La stessa eguale enfasi che coglie il pittore Cavaradossi, alla notizia delle vittorie di Napoleone, dinanzi al cattivo
Scarpia e le ancora più cattive guardie papali che lo hanno arrestato.
Vittoria! Vittoria!
L'alba vindice appar
che fa gli empi tremar
libertà sorge, crollan
tirannidi.
Tipica per i drammi dedicati agli idealisti, tale enfasi risulta a volte patetica, addirittura demenziale.
Ma al di là della valenza politica, nel caso della "Tosca " risorgimentale. seppur strumentalizzata, resta comunque
incredibilmente pregevole. Era andata trasmigrando perdendosi nel tempo da opere alte come la Tosca ad opere
leggere come il Rugantino di Garinei e Giovannini, sino a varcare l'oceano per partecipare ai musical di Broadway,
tratti dai drammoni europei alla "I Miserabili".
Oggi De Simone la riportava in un'alta rappresentazione.
Questo e molto più di questo era Eleonora.
Un oceano di suggestioni sul palco, i cui rivoli di salsedine, non potevano non sconvolgere come una piacevole
brezza la quieta battigia vellutata del pubblico sancarliano.
Spente le luci in sala per l'inizio dello spettacolo, scio e senza dita femminili da poter accarezzare, mi accoccolai
nella materia amniotica della poltronissima in modo da ritrovarmi rapito dalle immagini dello spettacolo come in
un estasi da polluzione notturna.
Come rivelerà poi la sequenza dell'inno ritrovato, l'autore propende maggiormente alla rielaborazione musicale.
Per quella sacra sindone che dovrà avvolgere il tutto, i suoi allievi compositori, terranno sempre presente il valore
della scuola napoletana nelle messe da Requiem, scegliendo proprio i brani da cui dovette maggiormente attingere
quel genio viennese che pur non avendolo neanche portato a termine, legò il suo nome al Requiem.
Ma questo è Mozart!, diranno in molti al suono di quelle musiche che in sala per quella sera rivivificheranno le
righe di quei pentagrammi che più di ogni moneta, unirono la capitale asburgica a quella borbonica, consuocere di
Ferdinando e Carolina.
Per quei salti di periodo storico, il volo da passato al presente, che non sarebbe piaciuto affatto allo scrittore La
Capria, si rispolvereranno per rimetterle a nuovo le vesti medioevali de "la sacra rappresentazione".
Un genere di spettacolo religioso che recitato in stile professionale sul sagrato delle chiese o nelle piazze principali,
gettò in realtà le basi del teatro moderno, come primo esempio di commistione culturale.
Dopo la musica l'architettura.
La polverosità lavica e tufacea della gotica scenografia di Rubertelli, ricorderà infatti i primordiali luoghi della
rappresentazione, pur restando chiusa e immobile nella sala.
L'orchestra disposta sul palco, come nelle opere sinfoniche, sarà nella gestica elettrica del suo direttore, l'uomo in
frac Anton Reck, il primo elemento metatemporale ad apparire in scena.
Tale valenza da arredo sacro, apparterrà a tutti gli orchestrali; in particolar modo i cantanti del coro in piedi su una
tribuna come composti tifosi allo stadio. Con le loro parrucche da giudici e gli abiti talari, disposti su un emiciclo
corale che li vuole da un lato vestiti di nero e dall'altro di bianco, strizzeranno, indifferentemente, l'occhio tanto ad
un apocalismo gotico, tipicamente medioevale quanto ad un futurismo postapocalittico da film fantasy.
Una sequenza del genere, era stata ideata dallo scrittore inglese Aldous Huxley nel romanzo "La scimmia e
l'essenza", dove egli ritrovava la sceneggiatura di un film su un vaticano di scimmie, così disposto in tribuna
semicircolare e recitante appunto una sorta d'oratorio.
Tale idea, dovette indubbiamente servire per la seconda puntata di quella saga hollywoodiana, ispiratasi negli anni
70 al romanzo francese di fantascienza firmato da Pierre Boulle "Il pianeta delle scimmie".
Li però. la situazione è rovesciata. Riprendendo quella tradizione cinematografica che vuole il barocco sposarsi al
fantasy, inaugurata proprio dalla madre Elsa Lancaster ne "la moglie di Frankenstein", Roddy Mc Dowell interpreta
Cornelius, uno scimpanzé intellettuale che si divide fra babbuini magistrati e gorilla militari un po' fascisti, mentre
gli uomini sono ridotti ad uno stadio primitivo.
Ne "L 'altra faccia del pianeta delle scimmie", nelle viscere di un luogo misconosciuto detto appunto "zona
proibita", probabilmente l'antro inferico delle metropolitane di New York, vivono gli ultimi rappresentanti della
razza umana.
Con abito talare, adorano in preghiera un'arma nucleare, che salirà dal basso al centro fra le loro tribune in forma
di missile, così come fra le tribune del coro dell'Eleonora si alzerà lo scorcio laterale della chiesa del Carmine in
piazza Mercato, tagliando il cielo come una mannaia all'inverso.
Avvolta in un cielo volutamente mai azzurro di Napoli, la raffigurazione dipinta, più che guardare l'aspetto
tradizionale di quella chiesa che fu testimone della fine tragica di tanti martiri, sembra incarnare invece una
mitologia fantascientifica quale il monolite di "2001 Odissea nello spazio" o la mano e la testa della statua della
libertà, che fuoriuscendo dalla sabbia daranno modo di capire agli spettatori dove in realtà si trovi l'astronauta
interpretato da Charlton Heston nel finale apocalittico del "Pianeta delle scimmie": paventando, appunto, il
mancato avverarsi delle intellettualiste visioni di tanti miei beniamini del cinema e della letteratura (la mancata
comparsa del monolite prevista per il 2001 da Kubrick, sconvolgerà, ne sono certo, i suoi aficionados, più di quanto
riuscirebbe a fare l'apparizione) ...ho sempre sognato di vivere nel passato.
Non solo in quello borbonico, che mi avrebbe concesso di conoscere nell'ex capitale i grandi musicisti ed
intellettuali sopraggiunti da ogni parte del mondo, potrei persino accontentarmi del dopoguerra, a patto però di
trasmigrare a Parigi per vivere il suo "ambiente intellettuale".
È una sofferenza l'idea di non aver potuto assistere alla rappresentazione francese di "Aspettando Godot" di
Beckett, scenografata dallo scultore elvetico Alberto Giacometti. '
Ma all'apparizione in scena di Vanessa Redgrave che assurgeva fino a quattro metri di altezza dinanzi lo scorcio
angolare del Carmine, per poi discendere fino in platea, ebbi subito l'impressione di essere stato esaudito da questo
spettacolo dei miei giorni napoletani.
Altissima e scompigliata nei capelli, quanto nella lunga tunica color del piperno, disegnata da Zaira De Vincentis,
la Redgrave, pareva identica a quelle statue lunghe e frastagliate con cui l'artista svizzero traduceva in senso
occidentale, traendone spunto, le statuine africane raffiguranti le loro divinità.
Come già l'uomo in frac Anton Reck e i polverosi corifei, l'attrice inglese diverrà quindi un " arredo sacrale "in
virtù di quei gusti cari ad intellettuali come Jean Paul Sartre, che nell'artista svizzero, salutò lo scultore dell'
esistenzialismo.
Negli spasmi elettrici che l'accompagneranno durante le letture e la vedranno muovere agitata un piede o mimare
la torsione del collo durante una impiccagione, ricorderà invece i dipinti di corpi nervosi ed in fibrillazione
dell'artista allievo di Klimt, Egon Schiele, morto a soli 27 anni, vittima di una logorante passione incestuosa per la
sorella.
A Napoli, per la fine di un secolo, si coniugava, così, nel corpo di un'attrice inglese, la scuola prebellica
dell'espressionismo austriaco, con il lato artistico della filosofia esistenzialista del dopoguerra francese.
Per quella "Via Crucis" richiestagli a piè fermo dai canoni della sacra rappresentazione, i recitativi dell'attrice
inglese, proseguiranno su quella strada di comunione culturale, attingendo alle più svariate forme eterogenee nella
ricerca di un'universalità di linguaggio, sperduta tra i vari brani martirologici firmati ora da Tolstoj e Majakosky,
ora da Brecht, Mann o Schiller.
Si depreca quindi l'idea di voler seguire una trama ben definita dall'inizio alla fine.
Spetta al tragico "Miserere" di Leonardo Leo, il più grande artista settecentesco sul fronte della tradizione spirituale
e liturgica, il compito di aprire le danze dei martiri morenti, mentre al musicista Giovanni Paisiello, tocca invece
chiudere con il "Te Deum", scritto per il ritorno delle maestà borboniche dopo i fatti repubblicani che, a Napoli, lo
videro coinvolto in alcuni componimenti.
Si sottolineerà quindi anche nel finale ed ovviamente per il pubblico più colto, in modo per far comprendere la
scelta del brano, il dovere di considerare lontane dalle diatribe cultural politiche, tutte le figure partecipi del mondo
creativo, esentandole quindi da ogni forma di "politically correct".
Sulle musiche sacre da Requiem degli altri antichi rappresentanti della scuola napoletana rielaborate dai nuovi
allievi freschi diplomati del Conservatorio di S. Pietro a Majella, si muoveranno i ballerini con i mimi per
intervallare i brani scelti della Redgrave, vestendo si gli abiti di preti, lazzari, monatti e soldati francesi, ma anche
quelli dei discepoli di Gesù, convitati all'ultima cena e principalmente di militari sudamericani che tortureranno la
figura sensuale alla Nureyev del primo ballerino, già tradito, come Gesù nella precedente coreografia.
I militari, come a sottolineare l'esigenza dei martiri ,si bagneranno le mani in dei bacini tenuti da non ben definite
angeliche ancelle, per poi sporcare di vernice color rosso sangue la loro malcapitata vittima, la cui figura smilza
alla Don Chischotte, sarà poi sollevata ed adagiata sulla sedia a mo' di ronzino e gli sarà posta tra le mani una
lancia ed uno scudo.
E ultimo balletto, così come l'ultimo brano recitato dalla Redgrave, sarà : "Le litanie per nostro signore Don
Chisciotte".
"Re dei nobili cavalieri, signore dei tristi ...."Prega per noi, signore dei tristi, che dalla forza trai coraggio e di
sogni ti vesti, che dalla forza trai coraggio e di sogno ti vesti, cinto dall'aureo elmo dell'illusione, cinto dall' aureo
elmo dell'illusione, che nessuno ha potuto sconfiggere ancora, che nessuno ha potuto sconfiggere ancora, per lo
scudo al braccio, tutto fantasia, per lo scudo al braccio, e la lancia in resta, tutta cuore...."tutta fantasia, tutta
cuore,
Ora pronobis..."
"Da tante tristezze, da dolori tanti,
dai superuomini di Nietzsche, da canti
afoni, dalle ricette firmate da un dottore,
dalle epidemie, da orribili bestemmie,
dalle accademie, liberaci O Signore!.."
Dalla feccia che sazia
la sua canagliocrazia
prendendosi gioco della gloria, la vita, l'onore
dal pugnale di grazia
liberaci O Signore !"
Ma in realtà già dalla prima lettura della protagonista, in scena, si avrà questa sua trasposizione meta sessuale e
meta temporale:
"Eccomi a te con questo mio ultimo scritto prima di partire per la mia condanna.
Carissima Anna, io muoio contento di aver fatto il mio dovere da vero patriota. Il giorno 31, mi fu fatta la prima
tortura ed è questa: mi hanno strappato le / ciglia e le sopracciglia.
Il giorno 1, la seconda tortura: mi hanno strappato le unghie, le unghie delle mani e dei piedi e mi hanno messo
al sole: una sofferenza che non puoi immaginare, ma dalla mia bocca, non è uscita una parola di lamento. Il
giorno 2, la terza tortura: mi hanno messo ai piedi delle candele accese ed io mi trovai legato su una sedia, e mi
sono venuti tutti i capelli grigi, ma non ho parlato e tutto è passato.
Il giorno 4, fui portato in una sala dove c'era un tavolo sul quale mi hanno teso in un laccio al collo per 10 minuti
la corrente, alla fine mi dissero la mia condanna a morte ridendo sguaiatamente, come se avessero assistito ad
una scena comica, e dai miei occhi non usci una lacrima.
Ma quando fui portato di nuovo in cella, mi inginocchiai e mi misi a piangere, avevo nelle mie mani il tuo ritratto
che non si conosceva più la tua faccia, perle lacrime ed i baci che ti ho fatto.
Ma Dio paga non soltanto il Sabato, ma tutti i giorni..."
Nell'elencare le torture subite, vi è un chiaro segno di mistero liturgico che invece di traspositare in avanti nel
tempo l'eroina da martire del 1799 a vittima del fascismo, la riconduce invece ad una ben più antica voluttà mistica
e necrofila.
Invasata da sofferenze altrui di cui diviene la medium, cambiando voce, come la bambina del film horror
"l'esorcista" la protagonista Vanessa Redgrave mutua così l'essenzialità della martire della repubblica partenopea
nel martirio barocco della leggendaria santa napoletana Suor Orsola Benincasa, che nelle sue estasi mistiche patì
le precedenti sofferenze di tutti gli altri martiri cristiani poi santificati.
Tale iconologia di deismo barocco sarà evidenziato dalla già preannunciata presenza sul palco del santo patrono.
Come Eleonora, anche Gennaro nell'episodio che lo vide decapitare, fu capostipite di un nucleo di martiri,
prevalendone nel ricordo sociale giust'appunto per l'incisiva familiarità del nome ancor prima che con il miracolo.
Per la prima volta, nella storia del Teatro S. Carlo (e di S. Gennaro patrono) il suo busto tranciato con le ampolle
contenenti il sangue mirifico, figurerà per la rappresentazione del celebre miracolo e non solo.
Volendo rendere ancor più fantasmatico il tribunale borbonico, quasi un elemento accessorio da Pantheon deistico
per il grande Olimpo, fermo e viaggiante, che è la scena tutta, Io stesso busto, finirà dinanzi al giudice per essere
processato e condannato prima della Redgrave: "Voi, Gennaro, ex santo, patrono della città, siete accusato di
giacobinismo, e di aver liquefatto in segno di giubilo, il vostro sangue alla presenza dei traditori repubblicani.
Che avete da rispondere?"
Nell'attesa di una risposta da parte dell'imbusto del santo patrono, la protagonista sibillina, come una vestale greca,
commenterà: il vento soffia dove vuole, dove crede.
E proprio come Eolo, il mitologico dio dei venti, l'incipriato Francesco Iavarone gonfierà le guance per soffiare
iroso la sua condanna, non mancando d'intromettere nella questione anche S. Antonio, che ruberà al vescovo di
Benevento il posto di santo patrono: "Non rispondete nulla ? Niente? E allora, vi sia tolto il titolo di cavaliere, il
grado di generale e di patrono, che le vostre immagini siano rimosse dalle porte della capitale e che al loro posto
sia collocata la statua di S. Antonio, vero paladino della giustizia regale."
Ma a statua intera, tenendosi con le mani il capo mozzato all'altezza del grembo, il vescovo decapitato di
Benevento, riapparirà per tormentare come un fantasma, la coscienza di Lino Vacca, il mimo che indossa i panni
del cardinale Ruffo.
Nel suo busto tranciato, l'erotico Schifano, vedeva il totem dello spirito androgino dei napoletani, e forse in tale
statuarietà atavica, è proprio il santo patrono a figurare come criptico alter ego della martire metatemporale dalla
sessualità inindividuabile. Più lui che Pulcinella, la maschera epitome della città, anche lei chiamata in causa sul
palco per la riuscita iconologia della "sacra rappresentazione".
Pulcinella, appare infatti come una forma in omaggio alle opere comiche napoletane del' 600 e del 700 cui tutti i
grandi della musica e della prosa non avevano saputo resistere parodiando così testi classici offrendogli il ruolo di
protagonista.
E nelle sue vesti più tipiche di maestro di beffe, piccoli divertimenti crudeli e buffonerie di ogni tipo che, Pulcinella
pare voglia occupare la scena dell'Eleonora.
Compare per la prima volta alle spalle della protagonista recitando con volgare gestualità le strofe de la
"Carmagnola" strappando da antico copione, una risata agli spettatori quando con una voce in falsetto mima il
ghigno da impiccato con strofe a lei riferite. Tenterà poi continuamente di farla cadere dallo sgabello.
È però l'unico che la protagonista, seppur vittima sempre fiera e quindi irosa, non riesce mai a guardare malevola
e quando nel finale vedremo Pulcinella affranto all'idea che ella debba morire, ci accorgeremo che il suo mitico
camicione bianco è in realtà dello stesso tessuto "strecciato" e dello stesso colore grigio piperno della tunica di
Eleonora.
II protagonista dell'opera buffa è quindi mutato in un coprotagonista di un oratorio drammatico.
È la marchesa Pimentel stavolta a parodiare il servo Cetrulo, beffandolo con la sua fine.
Seduti sullo stesso esile sgabello, spalla contro spalla come fossero duellanti, il Pulcinella di Mario Brancaccio,
disegnerà con l' Eleonora di Vanessa Redgrave, un magico Giano bifronte, rispondendo trasversalmente allo
studioso polacco Jan Kott che nel suo saggio su " Sogno di una notte di mezza estate", avvilito dal mancato
onirismo delle rappresentazioni, prese a chiedersi : "quando è che il teatro mostrerà realmente in Puck, il diavolo
e l'Arlecchino ?"
Riprendendo il provocatorio, intellettualistico e spiazzante ribaltamento dell'onirico rapporto fra cronaca e
fantasismo, il partenopeismo europeo del necrofilo oratorio, riuscirà a costruire anche la tradizionale maschera di
Pulcinella attorno un nuovo plot d'incastri.
Per dirla in breve, il napoletano doc diviene l'inglese Puck.
Un demone mitico da commedia rinascimentale come l' "arcidiavolo" di Machiavelli, né veramente buono, né
tantomeno cattivo!
Colorito e colorato servitore (il suo abito è grigio e non più bianco) di una nobile decaduta, come nella migliore
tradizione comica, si appresta a divenire martire come nella più drammatica delle tragedie.
Accompagnato per mano da quello Shakespeare, il cui fantasma pare voglia a forza albergare nel grande teatro
della nostra città, Pulcinella è magico quanto e più dell'elfo boschivo. Fantasma metropolitano, invisibile a tutti
meno che alla protagonista ed ovviamente al pubblico, cui si rivolge per recitare sibillino le amare strofe dell'inno
sanfedista.
Anche Vanessa Redgrave, recita le raccapriccianti strofe ma in senso epico, senza indulgere in nessun giudizio
critico, restando su di un livello cronacistico vernacolare che mescolerà al lirismo drammaturgico de "I giorni della
Comune di Brecht" : "la signora donna Leonora che cantava ncoppa o tiatro, mo' abballa miezo o mercato. Ma
chi sta solo, è perduto. L'importante è scegliere i fucili o le catene. Nessuno o tutti, tutto o niente." Tale epico
lirismo, sarà alla base anche dell'incontro della martire con la regina Maria Carolina, unica figura borbonica, fra
l'altro acquisita e per quanto antipaticamente ieratica nel suo altezzoso sdegno.
Figurerà luttuosamente vestita di nero, come una martire piangente per la morte della ghigliottinata sorella, la
regina di Francia Maria Antonietta e, pertanto, anch'ella vittima predestinata della storia: " La mia scuola sia il
terrore di Robespierre, io non farò altro che applicare gli insegnamenti della repubblica francese".
Eleonora, chiede, infatti, la libertà di esiliare in Francia i suoi compagni, offrendosi lei come prigioniera cui
infliggere la pena capitale. Ma la regina Maria Carolina, privandola dei diritti nobiliari che la vedrebbero
decapitare, anziché condannata alla forca, si rifiuterà di concedere qualunque grazia.
Maria Carolina, in realtà, in quei tragici giorni, era ancora a Palermo e l'idea dell'incontro con la martire nacque
dalla fervida penna della scrittrice Maria Antonietta Macciocchi in "Cara Eleonora", per sottolineare gli opposti
animi delle due sorelle regine.
De Simone calcherà la mano sulla luttuosità di Maria Carolina, ottenendo che la senatrice del PDS Pagano anziché
Eleonora, trovi in Maria Carolina, la vera incarnazione della donna napoletana.
Attraverso il napoletanissimo Mario Brancaccio che infastidirà Lidia Kozlovich e l'inglese Vanessa Redgrave, il
grave fardello della città, sarà presente fra entrambe.
Se si decide di tener conto di quanto sostiene la senatrice del PDS, circa la napoletanità assoluta della regina
austriaca, bisogna tener ben presente la sua accidia nei confronti dei repubblicani. Espressa nello spazio dello
spettacolo a lei dedicato, quasi come un senso del dovere da parte di una donna che la storia ha voluto fosse regina,
quindi anche lei amaramente prostrata dinanzi sé stessa. Una figura scespiriana quindi nuovamente napoletana che
trova probabilmente il motivo della sua vendetta non nella luttuosità per la perdita della sorella, come sostengono
De Simone e la Macciocchi, bensì in altri eventi storici, magari più minimali e per nulla correlabili all'epos della
rivoluzione francese che la videro perdere i due figli più piccoli, nella tragica fuga in nave della corte napoletana
fino a Palermo durante il '99.
Proprio in virtù del suo ruolo materno, la figura della Madonna, ha una prevalenza assoluta nell'iconologico deismo
partenopeo. Anche Eleonora perse il figlio, e dedicò poi ad una sopravvenuta interruzione di gravidanza " L'ode
per un aborto".
La relazione con il più giovane Gennaro Serra di Cassano, per cui ancora oggi, all'insaputa dell'avvocato Marotta,
la criticano i discendenti del duca, prima che intellettuale o politica era, indubbiamente, di tipo filiare. Riferito ad
Eleonora, il tragico senso materno, sarà rappresentato dall'onirico corteo funebre che anticipando la processione di
S. Gennaro, seguirà una bara bianca come nella scena conclusiva de " L'oro di Napoli".
E poi con i commenti recitativi de "La madre" di Brecht.
"In questi ultimi momenti, scrivo a te, figlioletto adorato, perché non saprei a chi altri, se non a te, potrei scrivere.
A te, morto prima ancora di compiere un anno...la tua mamma morta."
Ancor oggi, nella Napoli rinascimentale di Antonio Bassolino, mantenendo un senso filiale di indubbia matrice
monarchica, con i caratteri dell'ex capitale borbonica del Regno delle due Sicilie, le napoletane, tra sorelle, vivono
una forte gelosia nel contendersi le attenzioni materne. Rivali in amore per la figura delle loro regine madri, le
sorelle di Napoli sembrano tutte augurarsi vicendevolmente la fine tragica della sventurata Maria Antonietta di
Francia.
Il pubblico colto sa bene che l'incontro fra la martire e la regina è un falso storico, per meglio dire una licenza
poetica dovuta all'ideale mitologia di maniera (non per dire male ma Bassolino e Napolitano che incontrai nel
foyer, criticando le scelte di simpatia, date dall'accidia della senatrice Pagano, non mi parvero tanto ferrati
sull'argomento) così come è risaputo che, contrariamente a quanto detto dall'attrice, le grazie per alcuni condannati,
in realtà, ci furono.
Le personalità più celebri fra i diversi scampati alla pena capitale del 1799, avvenuta anche grazie
all'interessamento delle corti estere che intercessero presso Ferdinando, sono indubbiamente i musicisti di fama
internazionale Cimarosa e Paisiello. Conquistando le capitali della musica barocca quali San Pietroburgo e Vienna,
i due musicisti napoletani, portarono, con Mozart, l'opera comica ad un livello di perfezione e maturità di grado
superiore.
Lidia Kozlovich nei panni della regina, salirà sul palco attraversando fra i suoi valletti la platea, a luci accese
proprio mentre la Redgrave intona l'inno repubblicano di Cimarosa, per la cui rielaborazione, l'allievo del
Conservatorio musicale di S. Pietro a Majella, Stefano Innamorati, aveva di certo notato l'assonanza del costrutto
musicale su cui poggia il verso "Son dell'uomo i primi diritti" con il brano mozartiano "Dove vai farfallone
amoroso".
Fra le tante affinità di Cimarosa con Mozart, vi è indubbiamente quella spiritualità d'arte ossimora, che li portò
entrambi a legare i loro nomi con egual disinvoltura, tanto alle comiche opere buffe, quanto alle necrofile messe
da requiem.
"Dove vai farfallone amoroso", infatti, appartiene all'opera in quattro atti che il musicista viennese ed il librettista
veneto Lorenzo Da Ponte, trassero dalla commedia francese di Beaumarchais " II matrimonio di Figaro".
II personaggio del celebre barbiere dallo spirito un po' volteriano, causò problemi allo stesso autore che proprio in
Francia, in virtù di un decreto regio, dovette attendere ben quattro anni, dal 1781 al 1784, prima di vedere
rappresentare pubblicamente alla "Comedie francaise" la stessa opera che sceglierà Mozart.
Dopo che questi divenne membro del "Comitato di salute pubblica" durante la rivoluzione francese, la figura di
Figaro, diverrà impraticabile anche per i musicisti delle corti europee che ne avevano subito il fascino. Mozart e
Paisiello, sino al più commerciale Rossini, hanno valicato le loro perplessità e vincendo la scommessa con l'
"ancien regime", che riteneva il "Barbiere di Siviglia "una figura rivoluzionaria, videro il loro successo perpetrarsi
in eterno.
Il motivo del farfallone in cui circola parodisticamente una vena di inquietante sensualità, sarà poi ripreso da
Mozart e Da Ponte nel "Don Giovanni" per essere suonato al pianoforte dal seduttore, dispettoso con il suo servo
moralista Leporello nella scena che anticipa l'arrivo della statua invitata per la cena del signor commendatore.
Eleonora, nel canto dell'inno, è invece sorpresa dalla regina in visita da lei, su quel palco che per l'occasione, senza
alcun cambiamento di scena, diviene, come per magia, un carcere.
Rediviva Poppea, tribade impura
D'imbecille tiranno empia consorte...
Al par di te muovè guerra e tempesta Sul franco oppresso la tua infame suora Finchè al suol rotò la indegna testa...
E. tu, chissà? Tardar ben può ma l'ora? Segnata è in ciel ed un sol filo arresta La scure appesa sul tuo capo
ancora.
Maria Carolina, la rimprovererà per l'ode scritta contro di lei e sarà l'unico testo firmato dal personaggio storico ad
essere declamato durante la "sacra rappresentazione", forse proprio in virtù del suo carattere metastasiano e
mitologico. La martire (inglese), cadrà ai piedi della regina, chiedendole la salvezza per gli altri martiri, la sequenza
cristologica fra la martire nobile e l'erodiana carnefice, è andata ormai già sfumando nel dialogo fra le due più
celebri regine che vanti la storia: Elisabetta d' Inghilterra e la cugina di Scozia Maria Stuarda del dramma
shilleriano.
Con lo stesso sdegno che un Don Giovanni potrebbe rivolgere al suo servo Leporello, pur nei panni di una martire,
Vanessa Redgrave, licenzierà la collega regina: " se regnasse giustizia, saresti tu Carolina davanti a me nella
polvere, perché io sono la tua regina."
Stando alla trasmissione televisiva di Rai 3, sul dietro le quinte De Simone, aveva pensato di far declamare in
platea il copione della regina. Sarebbe stato, a mio parere un'idea stupenda. Seduto all'estremità della fila avrei
potuto perpetuare per qualche intero minuto, la stessa sensazione provata al passaggio in sala della regina, per quei
pochi istanti che mi fu accanto.
Eroticamente trattenuta più a lungo, la magica sensazione di sensualità irradiata dall'attrice Lidia Kozlovich le
avrebbe consentito di ricoprire meglio il suo ruolo di regina del popolo, cavalcando la passività degli spettatori in
platea cui sarebbe stato concesso di recitare, più consapevolmente, il loro ruolo di "gente" semplicemente
rimanendo seduti.
Chissà perché per quelle serate al S. Carlo, tale particolare slancio di elegante teatro fra la gente, è stato poi
soppresso!
Probabilmente la fantascientifica "veste a parapallo" da regina nera, non avrebbe concesso all'interprete di potersi
muovere in libertà per raggiungere poi, nei ritmi serrati del dialogo, Eleonora sul palco.
Peraltro, slanci particolari in "Eleonora", abbondano grazie alla criticata geometria dei vivaci accostamenti di
opposti in cui si consuma la forza drammatica di malinconici addii che preludono alla matematica liturgia dei
requiem napoletani .
Cornice ideale per quelle dolorose simmetrie che da "il divino e l'umano" di Tolstoj, "La nuvola in pantaloni" di
Majakoskij, i "Giorni della Comune" e "la Madre" di Brecht, rimanderanno al dramma di elisabettiana
ambientazione "Maria Stuarda" di Shiller, o " Le litanie di nostro Signore Don Chisciotte" del nicaraguegno Ruben
Dario, che si dipaneranno, intrecciandosi, con i più specifici brani del "Diario napoletano" di De Nicola, o "La
lunga marcia del cardinale Ruffo" sino al "Cara Eleonora" di Maria Antonietta Macciocchi.
Tutte raccolte nella poliedrica forza d'accento straniero della protagonista sferzante la platea, quanto uno schiocco
di frusta il destriero. Interpretando tante voci interconnesse, Vanessa Redgrave, itera l'identico, inchiodando
l'ingenuo spettatore al sempre uguale della sofferenza.
La scena, dotata della prometeica facoltà di mutare incessantemente aspetto, pur nella sua immobilità teatrale,
staccava drastica, la platea, dall'orizzonte limitato dalla mondanità entusiastica, tipica di una serata sancarliana per
offrire invece differenti prospettive su quelle logiche del potere che avevano portato l'umanità al metatemporale
scenario apocalittico dello spettacolo.
Con tali interconnessioni, l'opera di De Simone, appare un capolavoro da generazione Internet, capace di avvalersi
nella sua stesura pacifista dei più arcaici valori del cristianesimo: i migliori. Ancora esenti da
quell'internazionalismo sotteso alla guerra, assai caro alla Chiesa e strumentale al comunismo che proprio
condannando la religione come "l'oppio dei popoli", in realtà la ereditò nella religiosità politica dei suoi governi.
Che i meriti dei giacobini napoletani e le particolari colpe dei Borbone fossero tralasciate, pareva non avere oramai
alcuna importanza, poiché la ripulsa per tutte le tirannie così come l'amore per tutti i suoi martiri, era nell'eco,
quanto nell'umore incostante, solare e nostalgico dell'opera per intero.
Se non mimati dal virtuosismo di Vanessa Redgrave, parlando del condannato Svetoclub, del "II divino e l'umano"
di Tolstoj, in scena al S.Carlo per l'Eleonora, non vi sarà impiccato alcuno, né tantomeno attestazioni di malgoverno
forniti da documenti di propaganda risorgimentale.
Solamente alla liturgia musicale e alla drammaturgia dei grandi, sarà concesso il privilegio rappresentativo della
violenza e della necrofilia, occupato altrove dalla tradizione del conservatorismo cartaceo.
Dopo aver già rappresentato dei militari francesi che sotto l'appena piantato "albero della libertà", si faranno
lustrare le scarpe, e più tardi tradire una certa enfasi felice, nella scena che vedrà i lazzari, spezzare il suddetto
albero e gettare tutti i documenti della repubblica partenopea, dando una prospettiva da biblica "torre di Babele"
alla predominante immagine nella Chiesa del Carmine, il riscopritore de "la Carmagnola" e "l'Inno al re" di
Cimarosa, non resisterà a mettere in scena la fucilazione di tre insorgenti filoborbonici, da parte dei militari
francesi, rei di essersi opposti alla Repubblica. Una volta fucilati, saranno trasportati in un lenzuolo, da becchini
incappucciati come beati paoli che getteranno i loro corpi, come quello del Cristo, in un fossato.
Perché" sosterrà, intervistato, il giorno dopo "i liberatori divengono subito oppressori".
Con tal mossa, il riformatore de "La sacra rappresentazione" batte in breccia tutti i sospetti di prese di posizione
aprioristiche o partigiane. Un autentico schiaffo morale per entrambi i movimenti di "laudatores temporis acti".
I veterogiacobini, profeti disarmati dalla loro stessa faziosità che non poteva che suscitare scetticismo da parte
della gente, così come quei neoborbonici tanto incapaci di rapportarsi dottamente al gusto revanscista della città.
Su due palchetti collocati negli angoli opposti del proscenio, attorno ai tre malcapitati dinanzi al plotone di
esecuzione, per la sequenza più violenta dello spettacolo, vi sarà da un lato un tribuno che sparge retorica in nome
dell'opposizione, in maniera alquanto irriverente dato il suo accento snob e l'aria sofisticata, la stessa dei leader
progressisti presenti in sala, dall'altra parte la voce armata del potere che praticamente proscrive ciò che la retorica
proclama.
E un militare francese pallido e dalle schiocche rosse, come Pierrot, autentico angelo della morte.
Entrambi gli attori Edoardo Siravo e Alain Aubin, si rifaranno per il proclama, quanto per la condanna, a documenti
autentici dell'epoca:
Aubin:
"Napoli, il di 25 fiorile, anno 1 della Repubblica
napoletana, l'alta commissione militare condanna
alla pena della fucilazione Nicola Napoletano, Nunzio Raja, Santillo Schettini, Del Comune di Mugnano, rei
convenuti di aver, tutti e tre armati di fucile del secondo di ventoso del corrente anno, procurato di porsi alla testa
di un'insorgenza in Mugnano. I tre suddetti sono colpevoli di aver forzato quei cittadini a toglier le coccarde, a
prender le armi, ad aver procurato di recidere l'albero della libertà. Spargendo voci ingiuriose alla Repubblica,
quindi dannati alla fucilazione e ciò in forza delle leggi che condannano a morte i perturbatori dell'ordine
costituito e coloro che animano i popoli all'insurrezione."
Siravo:
"Cittadini napoletani, ecco dopo l'epoca di tanti secoli il giorno tanto sospirato e felice, in cui la bella libertà, dal
cielo spedito in terra, sul carro trionfale della Repubblica francese, ha sostenere i diritti della nostra umanità e a
consolarci tutte le afflizioni, che tollerammo sotto l'orrendo giogo della trascorsa tirrannia borbonica. L'uomo
nacque libero. l'eguaglianza unisca sotto il suo albero il giapponese, l'ottentotto, il cannibale, il canadese,
l'europeo, l'asiano, l'americano, l'africano. Tutti siamo fratelli e tutti fummo sanzionati a caratteri indelebili della
madre natura. Siano maledette e proscritte tutte le inumane e crudeli istituzioni elaborate sotto il giogo della
abbattuta monarchia. Oh albero della libertà, che abbattuta la tirannia ritorni all'uomo oppresso dai primi diritti
e per mano della natura ne toccarono in sorte tra vagiti della culla! Oh berretto emblema della libertà! Oh
tricolorati vessilli geroglifico della nostra civiltà tanto più durevole, quanto meno soggetta ai colpi
dell'assolutismo e
delle persecuzioni politiche!
Ah, risorgano dalla tomba gli Omeri, i Virgili,
i Tassi, e proclamino con le epiche loro trombe i fasti luminosissimi, le imprese sorprendenti, la saviezza senza
pari, la pace universale. E noi corremmo, cittadini, liberi e franchi sul carro trionfale della gloria per un umano
governo di giustizia, di civiltà e di pacifica tolleranza."
Fuoco è l'unica parola inventata tra le voci alternate di Siravo e Aubin, che ricordano l'uno l'odierna enfasi per
l'Europa unita, l'altro i rimproveri mossi ai lavoratori socialmente utili.
Quello che doveva essere lo spettacolo ideale, per i moderni fautori della repubblica partenopea, la cosiddetta
"sinistra hegeliana" rimarrà dunque l'oratorio drammatico di Roberto De Simone.
Anziché celebrare, con enfasi, il bicentenario della Repubblica partenopea, ridente nel sedicente successo dei suoi
sedicenti eredi, lo spettacolo sembra luttuosamente guardare al bimillenario di nostro Signore, accompagnato ad
ogni volgere di nuovo secolo, ad uno scenario apocalittico.
Se, come sostiene padre Leonardo Zeccolella, parroco di quella chiesa al Centro Direzionale che i napoletani
chiamano la "chiesa di JeegRobot d'acciaio" per quell'aspetto futurista che ricorda le basi spaziali dei cartoon
giapponesi, la liturgia è spettacolo, lo spettacolo è liturgia.
Per l'ultima Pasqua del secondo millennio, dove pareva esser pronto un perfetto scenario per una giuridica
crocifissione del Cristo, ed alcun presupposto invece per una resurrezione morale dell'umanità che potesse
realmente prescindere da quella dovutamente miracolosa, avevo vagheggiato il sogno di uno sciopero di preti,
pronti a lasciare fuori dai portali della chiesa una folla furente di fedeli.
Padre Leonardo, tenne invece, la sua omelia pasquale e quando disse che non bisognava funestare i cuori per via
del conflitto bellico nel giorno della resurrezione di nostro Signore, dissentendo da lui non potei fare a meno di
immaginare la Redgrave trascinarsi lungo quel particolare corsetto da interno del "Millennium Falcon", l'astronave
di "Guerre stellari", per piazzarsi, poi, dinanzi allo spettacolare crocifisso di verde alabastro vorticoso dell'altare
postmoderno e lì ritta ed immobile in quell'abito costruitole da Zaira De Vincentis, che ricorda il tragico filo spinato
dei lager o muovendosi con i suoi spasmi nelle torsioni anguillesche da filo del telefono, recitare con il fascino da
messale latina del suo diverso accento, il Majakovskj, de "La nuvola in pantaloni":
È la rivoluzione!
Ognuno di noi
regge nelle sue cinque dita
le cinghie motrici dei mondi!
Ciò mi ha fatto salire
il Golgota di Madrid, di Napoli,
di Vienna, di Parigi,
ed uno non c'è stato
che
non urlasse
"crocifiggi
crocifiggila!"
Ma voi uomini,
anche quelli che m' offesero
mi siete più cari e vicini d' ogni cosa.
lo,
derisa dalla presente generazione,
come uno scandaloso
aneddoto scabroso, vedo venire per
le montagne del tempo
colui che a tutti rimane invisibile,
con la corona di spine delle rivoluzioni.
Tra voi io sono
il suo precursore,
un diverso,
e sono dovunque è il dolore.
Ormai non si può più perdonare.
Ho incendiato le anime dove si coltivava la tenerezza.
E questo è più difficile che prendere
migliaia e migliaia di bastiglie.
Quando
proclamando con la rivolta
Toglietevelo! lo me ne vado.
Solo l'idea di reincarnare questa figura concreta, transfigurale dell'onirica mitologia degli incubi da realtà storica
che il mondo va ancora vivendo, si poteva rendere veramente giustizia alla poetessa che salì sul patibolo,
declamando i versi di Virgilio: "forsan et haec olim meminisse juvabit"