§ 1. Il diritto come fenomeno sociale
PARTE PRIMA
IL DIRITTO OGGETTIVO
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
§ 1. Il diritto come fenomeno sociale
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CAPITOLO 1
IL DIRITTO E L’ORDINAMENTO GIURIDICO
SOMMARIO: 1. Il diritto come fenomeno sociale. – 2. L’interesse. – 3. L’ordinamento giuridico interno e internazionale. – 4. Ordinamenti giuridici e norme di altra
natura. – 5. Ordinamento giuridico e diritto statuale. – 6. Diritto positivo e diritto
naturale. – 7. Lo Stato di diritto. – 8. Relazione tra diritto soggettivo e oggettivo. –
9. Diritto oggettivo, distinzioni. – 10. Diritto privato e diritto pubblico. – 11. L’oggetto del diritto privato.
1. Il diritto come fenomeno sociale.
Il naufrago che si trova da solo in un’isola deserta non ha bisogno del
diritto. La presenza di un altro essere umano sullo stesso territorio, tuttavia, pone già il problema della relazione fra i due soggetti.
All’origine tale relazione è determinata essenzialmente dai rapporti di
forza, che possono variare fra una situazione di assoluta supremazia dell’uno sull’altro – fino al limite della schiavitù – e una situazione di equilibrio tra soggetti di pari forza.
Il modo in cui si attua siffatto rapporto influenza direttamente la possibilità concreta di soddisfare gli interessi di ciascuno.
Si crea, in sostanza, una gerarchia di interessi che trovano maggiore o
minore protezione secondo quelle che sono le norme di relazione instaurate fra coloro che vengono a far parte del gruppo.
In un secondo momento la consapevolezza del rapporto esistente fra i
membri del gruppo, fondato sul potere conquistato da ciascuno e sulla capacità di farlo rispettare, porta, col tempo, ad un uso sistematico di regole
che stabiliscono, nelle singole ipotesi di conflitto, come deve comportarsi
un soggetto nei confronti di un altro.
Si può dire che in questo momento nasce un primo embrione di diritto,
inteso come insieme di regole conosciute e rispettate da tutti i consociati.
In questa prospettiva, il diritto appare innanzitutto come un fenomeno
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
sociale in quanto permette la convivenza tra più soggetti, portatori di interessi contrapposti, in un gruppo ordinato. L’uso della forza non viene eliminato del tutto, ma resta un rimedio estremo, da utilizzare allorquando le
regole di convivenza non vengono osservate. Anche l’applicazione della
sanzione sarà, pertanto, soggetta a regole determinate.
In una società primitiva le regole di comportamento riguardano inizialmente l’uso di determinati beni o del territorio, la vita o l’integrità fisica
della persona.
Man mano che la società diventa più complessa si producono regole che
guidano la vita dell’intera collettività oltre che i rapporti fra le singole persone. In tal modo si creano norme sulla scelta dei capi, norme che vietano
determinati comportamenti per il bene della società, fino alle norme che
indicano come creare ulteriori regole nuove.
L’attività che consiste nella scelta delle norme più opportune per il bene della collettività si chiama politica del diritto. Compito quanto mai delicato, in quanto richiede una precisa consapevolezza della distinzione fra gli
interessi dei singoli, dei gruppi e dell’intera società.
Il concetto di diritto sin qui accennato sottintende dunque un complesso di norme che regolano la convivenza di un gruppo sociale tutelando determinati interessi della collettività o di singoli individui e collocandoli in
un certo ordine di importanza fra loro.
Ad es., si stabilisce che tra due soggetti in conflitto per l’uso di una cosa, debba prevalere quello che per primo se ne è impossessato. Oppure, nel conflitto tra
l’interesse del singolo e l’interesse del gruppo sociale, in una determinata circostanza, ad es. quando è in gioco la difesa del gruppo, si stabilisce che debba prevalere quello della collettività anche a discapito della vita del singolo.
2. L’interesse.
L’uomo ha bisogno di soddisfare le necessità che si manifestano durante la sua vita. Si genera in tal modo una tensione verso determinate situazioni o determinati beni in quanto essi appaiono utili o addirittura indispensabili. Questo stato psicologico in cui si trova il soggetto, il quale si
raffigura una situazione utile, desiderando, al tempo stesso, di ottenerla
perché soddisfa una sua esigenza, viene chiamato interesse.
Come tutti sanno vi sono interessi concernenti la propria persona o la persona
umana in generale, interessi propri di un singolo soggetto o di un gruppo di sog-
§ 3. L’ordinamento giuridico interno e internazionale
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getti, interessi verso i beni materiali e interessi di altro genere, come quelli culturali (verso il mondo della natura o dello spirito umano), quelli religiosi (stabilire un
contatto mistico con la divinità attraverso la preghiera e gli atti di culto) e così via.
Il diritto presuppone, come si è detto, l’esistenza di una società, cioè di
un insieme di soggetti organizzati in un gruppo, sicché le regole di comportamento divengono necessarie perché un interesse è minacciato dall’esistenza di altri interessi in conflitto con il primo.
Si potrà manifestare, in taluni casi, la tutela prevalente del singolo o del
gruppo, considerato nella sua interezza, o di un sottogruppo soltanto. Presupposto essenziale, alla base del fenomeno giuridico, è dunque la possibilità di conflitto, che causa la compressione o minaccia il soddisfacimento di
un interesse rispetto a quello di altri soggetti. In caso contrario il diritto
non serve.
3. L’ordinamento giuridico interno e internazionale.
Il concetto di diritto cui si è accennato sinora, inteso come complesso di
regole di un gruppo organizzato, è ancora abbastanza generico e impreciso.
Un modo più significativo per indicare un complesso di norme giuridiche è dato dall’espressione: ordinamento giuridico.
Con questo termine si vuole indicare un insieme di norme giuridiche
della stessa specie e cioè che trovano la loro origine nella stessa fonte di
produzione e che si applicano entro un gruppo di soggetti ben delimitato.
Ad es. si può parlare di ordinamento internazionale, per indicare le regole che si sono venute a creare per consuetudine tra gli Stati o che sono
state pattuite mediante i trattati internazionali dai vari governi e che si applicano nei rapporti esterni dello Stato. Si può parlare, invece, di ordinamento interno con riferimento alle norme create dallo Stato nel suo territorio e valide per tutti coloro che vivono all’interno dei confini statali.
Una sottospecie dell’ordinamento interno può essere considerato, ad
es., l’ordinamento militare, che, come si intuisce, si rivolge soltanto ad una
parte dei cittadini dello Stato ed è diretto a disciplinare una particolare categoria di situazioni senza escludere che, per tutte le altre vicende da esso
non regolate, valga, invece, l’ordinamento civile. In questo esempio si assiste ad una sovrapposizione di ordinamenti diversi, provenienti da una stessa fonte, lo Stato, sicché saranno necessarie alcune regole di armonizzazione per evitare un conflitto fra i due ordinamenti e cioè un contrasto di
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
norme che, come si può intuire, appare assai probabile in tali casi.
Si possono ipotizzare comandi provenienti da fonti diverse diretti ad un
unico soggetto che, in quanto sottoposto a distinti ordinamenti, deve obbedire ad entrambi (ad es. l’ordinamento giuridico della Chiesa si rivolge
anche ai cittadini di uno Stato determinato che aderiscono a quella Chiesa
e alle sue regole).
4. Ordinamenti giuridici e norme di altra natura.
Ci si può chiedere, a questo punto, se è giuridico anche l’ordinamento
di un ordine cavalleresco, se sono “diritto” anche le leggi della massoneria,
le regole di un club privato o, paradossalmente, anche le regole di una associazione per delinquere come la mafia o la camorra.
Sarebbe sbagliato ritenere che il quesito proposto ci conduca ad una “verità
naturale”, come se scoprissimo una legge fisica o le proprietà di un metallo, ma
sarebbe altrettanto sbagliato pensare che la nozione di diritto che stiamo cercando
non riesca ad esprimere nessuna verità. Il giurista che si interroga in merito al diritto è come un filosofo che si chiede cosa sia la filosofia. Si tratta di concetti che
l’uomo stesso sta creando nel momento in cui osserva e descrive aspetti della realtà. Ebbene, la risposta che cerchiamo dipenderà dalle caratteristiche e dalla estensione che vogliamo attribuire al concetto di diritto.
Siamo dunque liberi di “riempire” tale nozione con qualsiasi contenuto? Fino
ad un certo punto. Il concetto di diritto dovrà esprimere la particolare connotazione di un insieme di regole, cercando di evitare confusioni con altre regole dotate di caratteristiche diverse: ad es. le regole della morale o le regole proprie di una
tecnica o di un’arte.
Una volta trovata una sufficiente individuazione di quell’aspetto della realtà
che ci interessa, dovremo poi tenere conto interamente e costantemente del significato attribuito alla parola “diritto” e adottarla in ogni altro caso in cui si ripetono le stesse caratteristiche. Questo sarà il criterio di verità delle nostre affermazioni, che è, prima di tutto, un criterio di coerenza. Con la cautela che queste premesse consigliano, possiamo affrontare la soluzione del problema di ciò che è giuridico da ciò che è extra giuridico.
Consideriamo alcuni elementi utili per la definizione di ciò che è diritto:
a) l’oggetto della prescrizione. Innanzitutto escluderemo dal campo della nostra indagine tutte quelle regole che impongono dei comportamenti
non destinati a risolvere conflitti di interesse fra entità sociali (usiamo que-
§ 4. Ordinamenti giuridici e norme di altra natura
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sta espressione, come abbiamo già accennato, per alludere a singole persone fisiche, ma anche a gruppi o sottogruppi). Appare allora estranea al fenomeno che abbiamo deciso di studiare la norma che impone un certo comportamento per soddisfare l’imperativo di una morale trascendente (se
vuoi salvare l’anima) o immanente (se vuoi essere un uomo giusto). È estranea al diritto anche la norma che impone di compiere determinate azioni per ottenere un risultato pratico utile (regole di mestieri, professioni,
arti, scienze, grammatica).
La caratteristica specifica che si vuole mettere in luce nel fenomeno
esaminato sta nel fatto che la regola giuridica serve per attuare una organizzazione della società attraverso la protezione degli interessi di singoli o
di gruppi (ivi compresa l’intera collettività), attribuendo loro un determinato ordine di importanza (gerarchia) che garantisce, di volta in volta, la
prevalenza di un interesse rispetto agli altri.
b) La conseguenza della violazione. Il diritto prevede, di solito, una conseguenza negativa a carico del soggetto che viola una regola di comportamento.
Questo evento sfavorevole previsto dal diritto, che è chiamato sanzione,
viene concepito secondo la concezione più tradizionale, che intende la norma giuridica come comando, quale punizione conseguente alla violazione
commessa (altre concezioni più moderne adottano una diversa prospettiva).
La sanzione mira a tutelare, direttamente o indirettamente, l’ordine violato.
Anche nel campo dei mestieri e delle professioni l’inosservanza della regola
porta a risultati negativi, ma qui la ragione sta nella necessità pratica di comportarsi in un certo modo per ottenere il risultato cercato. Nel campo del diritto invece la sanzione viene assegnata sul piano tipicamente giuridico, e cioè limitando
la sfera di libertà di taluno nell’interesse del soggetto offeso (la collettività, un
gruppo, un individuo). Ciò avviene non soltanto irrogando una sanzione che toglie o riduce la libertà personale, come nel diritto penale, ma anche facendo nascere un obbligo di riparare o di risarcire il danno, o statuendo l’inefficacia di un
atto di volontà del privato.
Ad es., si può costringere taluno ad abbattere una costruzione abusiva o a restituire il denaro dovuto; è chiaro che non sempre si è in grado di ottenere una
piena riparazione (anche chiudendo in carcere chi ha commesso un omicidio non
si può restituire la vita all’ucciso; chi ha distrutto in modo irreparabile una preziosa statua potrà, tutt’al più, essere obbligato a sborsare l’equivalente in denaro).
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
La sanzione irrogata dal diritto può essere di natura diversa, secondo il
tipo di ordinamento e di valori da esso tutelati, ad es. la Chiesa imporrà la
scomunica o la sospensione a divinis nei confronti della persona che ha trasgredito alle sue regole, la comunità internazionale potrà imporre un embargo a carico di uno Stato e così via.
In ogni caso l’applicazione della sanzione, comunque sia essa intesa,
presuppone sempre la possibilità di ricorrere all’uso della forza, allorquando è necessario costringere colui che ha violato una norma a subire le conseguenze imposte dalla organizzazione sociale.
Teniamo presente che la forza non è solo quella della comunità internazionale, che può fare ricorso ai mezzi militari per far fronte ad una grave
violazione dell’ordine fra gli Stati, o quella del singolo Stato, che può irrogare una pena detentiva nei confronti di chi ha commesso un reato, ma anche quella della Chiesa quando dispone, comunque, di mezzi idonei a far
rispettare le sue leggi nell’ambito in cui esse operano (si pensi, appunto, alle
sanzioni della scomunica, irrogata ad un fedele, o della sospensione a divinis di un sacerdote).
Riassumendo: i presupposti necessari affinché il diritto possa svolgere la
sua funzione specifica richiedono pertanto: l’esistenza di un gruppo sociale
composto da più soggetti, portatori di interessi in conflitto; l’esistenza di
regole di organizzazione rivolte alla generalità degli appartenenti al gruppo
stesso che prescrivono comportamenti dei singoli o del gruppo; la previsione di sanzioni per le violazioni di tali norme; l’esistenza di una forza effettiva che consente di attuare tali sanzioni.
Se ci si limita a richiedere soltanto questi elementi, tuttavia, si dovrà
concludere che vi sono ordinamenti giuridici non solo nello Stato, nella
Chiesa o nella Comunità internazionale, ma anche in gruppi sociali più ristretti e particolari, come un ordine cavalleresco o un’associazione, purché
dotati di tutti gli elementi indicati, fino a comprendere perfino talune associazioni delittuose. È questo ciò che afferma, in sostanza, la teoria della
pluralità degli ordinamenti giuridici.
La descrizione della realtà, tuttavia, non è ancora completa perché ci
dice quali sono i connotati di una singola organizzazione sociale, e delle
sue regole interne, senza dirci quali sono i rapporti dei diversi ordinamenti
fra loro.
c) È necessario pertanto aggiungere un nuovo elemento a quelli già citati:
esso è costituito dalla sovranità dell’ordinamento. Osservando il modo in cui
§ 5. Ordinamento giuridico e diritto statuale
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un ordinamento considera le norme provenienti da altre fonti, con le quali
può entrare in conflitto, si dice che esso è sovrano quando non accetta regole
imposte dall’esterno. Solo l’ordinamento sovrano può porre norme giuridiche al suo interno, ed anche quando siano stati assunti impegni verso terzi,
ad es. con trattati internazionali, essi non saranno immediatamente efficaci
per la collettività senza una norma interna di attuazione del trattato.
La nascita dello stato moderno si è avuta, secondo la teoria più rigorosa,
soltanto quando una organizzazione politica territoriale (Regno, Principato)
per quanto già dotata di una certa autonomia, è diventata un ente “superiorem non recognoscens”, cioè totalmente svincolato da ogni subordinazione
all’Impero.
La base territoriale non è, tuttavia, un requisito essenziale della sovranità.
Oltre alle organizzazioni a base territoriale, come gli Stati, esistono anche
organizzazioni a base personale, come la Chiesa Cattolica o il Sovrano Militare Ordine di Malta, che operano soltanto nei confronti di coloro che aderiscono a tali organizzazioni, dovunque essi si trovino. Ciò che conta, ai fini
della sovranità è che la supremazia sia affermata nell’ambito specifico in cui
ciascun ordinamento intende operare. Solo così si può giustificare, ad es., la
soggezione, da parte delle stesse persone, in uno stesso momento, a due ordinamenti ugualmente sovrani, ciascuno nel proprio ambito, come lo Stato e
la Chiesa, là dove il primo si pone come istituzione politica, nel senso che ha
di mira la soddisfazione dell’interesse della collettività alla civile convivenza
e allo sviluppo delle condizioni di vita materiali e morali dei cittadini, mentre la seconda pone la sua supremazia sul piano spirituale e religioso.
5. Ordinamento giuridico e diritto statuale.
L’importanza dell’ordinamento dello Stato, in quanto complesso di norme prodotte da un ente sovrano, dotato di supremazia territoriale, con caratteristiche di organismo politico che copre tutti i campi della vita sociale,
ha indotto taluno a qualificare come “diritto” soltanto il complesso delle
norme poste dallo Stato e cioè a identificare il concetto di diritto con quella che è la nozione di diritto statuale.
Come si è detto nelle considerazioni svolte poc’anzi, non si può dire se
tale nozione sia, in sé, giusta o sbagliata, ma solo se rappresenta in modo
appropriato la realtà. Ora, l’aspetto che questa teoria giustamente mette in
luce sta nel fatto che l’uomo vive in gruppi sociali distribuiti sul territorio e
quindi necessariamente vi sarà, entro determinati confini, una ed una sola
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
organizzazione sovrana di natura territoriale che detiene la forza necessaria
per far rispettare le norme del proprio ordinamento. Sicché, per quanto
concerne le regole della vita e della convivenza civile, tutte vanno ricondotte a siffatto ordinamento perché, nell’ambito dei fini generali che esso si
propone, riesce a sovrapporsi a tutti gli altri.
Le norme di altri ordinamenti che operano nello stesso ambito possono
valere come norme giuridiche solo in quanto riconosciute o richiamate dalle norme dell’ordinamento statuale (un esempio importante: lo Stato riconosce il matrimonio concordatario come atto regolato dal diritto della
Chiesa, ma anche produttivo di effetti civili, se trascritto).
Viceversa altre norme di organizzazione di gruppi sociali minori non
ammesse o contrarie al diritto dello Stato risultano illecite e prive di qualsiasi efficacia giuridica nel territorio. I comportamenti che si ispirano a
quelle norme sono considerati contrari al bene della collettività e sanzionati dal diritto statuale.
6. Diritto positivo e diritto naturale.
La statualità del diritto, tuttavia, non basta, di per sé, a garantire la bontà
delle norme giuridiche, cioè la loro adeguatezza e l’idoneità a soddisfare
tutte le esigenze dell’uomo (a meno che non si parta dal presupposto che
pone lo Stato come supremo valore e, alla stregua di questo principio, si
sostenga che tutto ciò che fa lo Stato è buono).
La statualità del diritto è connessa solamente alla forza dello Stato e alla
capacità di imporre le sue regole, curandone l’attuazione.
Sicché il diritto posto dallo Stato con le sue leggi, che prende il nome di
diritto positivo, può essere tanto quello imposto da una dittatura che muove da una concezione materialistica e comprime le libertà dell’individuo,
quanto quello di uno Stato integralista religioso che si ispira rigidamente ai
dettami di una rivelazione, fino a quello di uno Stato liberale e democratico.
Il giudizio sulla bontà del diritto in vigore nello Stato dipende, pertanto, dalla concezione ideologica di colui che valuta tali regole.
Ciascuno di noi, preso individualmente, ma anche ciascun gruppo sociale
omogeneo, considerato in un determinato momento storico, ha un’idea di
ciò che è giusto per l’uomo, tenuto conto della sua natura, e dei problemi
che è opportuno risolvere per assicurare la migliore convivenza possibile.
Queste regole ideali, considerate come termine di paragone, frutto di una
§ 7. Lo Stato di diritto
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elaborazione razionale che è certamente mutevole, in quanto storicamente
ed ideologicamente condizionata, vengono chiamate, nel loro complesso,
diritto naturale.
È chiaro che il diritto dello Stato sarà tanto più giusto e adeguato alle esigenze dei cittadini quanto più il diritto positivo si avvicinerà al diritto naturale. Il fondamento e la giustificazione del diritto statuale riposeranno, in tal caso, sul consenso dei cittadini prima ancora che sulla
forza.
Bisogna tuttavia considerare che la concezione del diritto ideale varia
tra le classi e i gruppi sociali, secondo le esigenze materiali, le considerazioni ideologiche e, forse, le mode, anche nel corso della stessa epoca.
Vi sono delle correnti di pensiero largamente condivise, ora in sede nazionale, ora in sede internazionale, secondo le quali la tutela di determinati
valori viene considerata imprescindibile negli ordinamenti civili giunti ad
un determinato stadio di sviluppo. Si formano allora movimenti di opinione organizzati, attraverso i quali il diritto naturale esercita una influenza
sul diritto positivo, perché lo Stato è spinto dalla pressione della pubblica
opinione ad attuare le riforme necessarie per adattare l’ordinamento interno alle esigenze che appaiono prevalenti.
Di fronte ad una dichiarazione internazionale in cui si proclamano solennemente i diritti dell’uomo, ad es., o lo statuto dell’infanzia, uno Stato
che viola tali valori, mantenendo norme in contrasto con siffatti principi,
va incontro certamente ad un giudizio negativo dei propri cittadini e della
comunità internazionale, che saranno indotti a sollecitare le riforme necessarie.
La possibilità di attuare rapidamente le modifiche dell’ordinamento di
uno Stato sono condizionate da un elemento sostanziale ed uno formale: il
primo è costituito dagli equilibri di forza tra le diverse classi sociali e i gruppi
politici dominanti, il secondo dalla flessibilità o dalla rigidità dei singoli ordinamenti, cioè dalla maggiore o minore facilità di compiere modifiche legislative in base alle regole stesse del sistema.
7. Lo Stato di diritto.
Finora si è parlato di norme giuridiche, sottolineando il fatto che esse
sono destinate a regolare la vita sociale. Ciascun cittadino, ma anche ciascun gruppo organizzato o ente, deve fare i conti con il diritto e lo Stato
stesso trova nelle norme giuridiche un limite alla sua possibilità di azione.
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
In ciò si manifesta uno degli aspetti più importanti del diritto, soprattutto
nel momento in cui vengono introdotti i principi fondamentali che caratterizzano lo stesso modo di essere dello Stato.
Si ricordi, a tale proposito, la rilevanza storica fondamentale delle Carte costituzionali concesse nel periodo illuministico dal sovrano, vincolato
egli stesso, dopo tale evento, a rispettare i principi proclamati in tali atti.
Nasceva in questo modo il primo embrione dello Stato di diritto, anche
se poi la strada per il suo perfezionamento doveva risultare assai lunga e
difficile.
La conseguenza più rilevante era quella di assicurare – entro determinati
limiti – la certezza del diritto, in contrapposizione all’arbitrio del principe.
Lo Stato di diritto è quindi uno Stato in cui vi è la certezza – garantita
dalle norme giuridiche – dei comportamenti che il cittadino può tenere liberamente e di quelli vietati, di ciò che la pubblica amministrazione può
fare legittimamente senza violare i diritti di altri enti o di singoli individui;
vi è la precisa determinazione dei poteri dello Stato e dei suoi organi, legislativi, amministrativi e giurisdizionali, realizzata in modo tale da evitare
sconfinamenti, eccessi e contraddizioni.
Non è chi non veda come l’espressione “Stato di diritto” più che rappresentare una realtà compiuta, indichi, in sostanza, un modello di perfezione giuridica al quale il legislatore deve ispirarsi.
8. Relazione tra diritto soggettivo e oggettivo.
I cittadini, lo Stato e tutti gli enti intermedi, secondo quanto si è detto,
trovano un complesso di norme che, una volta entrate in vigore, regolano
in modo vincolante il loro agire. Questo complesso di norme, che costituisce l’organizzazione della società e forma oggetto di studio e di interpretazione da parte di chi è chiamato ad applicare la legge, prende il nome di
diritto in senso oggettivo (si può dire, in questo senso, “amo il diritto” o
“non capisco il diritto” o “il diritto presenta delle lacune”).
Quando invece si vuole alludere alla situazione in cui si trova un soggetto (persona fisica o ente) rispetto agli altri soggetti, con riferimento a quello che egli può fare per soddisfare un proprio interesse, si usa la parola diritto in un significato diverso, cioè in senso soggettivo. Le espressioni “ho
§ 9. Diritto oggettivo, distinzioni
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diritto di essere pagato per il mio lavoro”, oppure “ho diritto di usare il
bene che ho acquistato”, utilizzano, appunto, la parola diritto in questo secondo significato, ben diverso dal precedente.
È chiaro, comunque, che la tutela dell’interesse di un determinato soggetto dipenderà dalle norme giuridiche in vigore e pertanto vi è una relazione ... di causa ad effetto, se così si può dire, tra diritto oggettivo, come
norma regolatrice, e diritto soggettivo, come situazione regolata.
La semplice esistenza di un interesse non è, di per sé, indice dell’esistenza di
una tutela giuridica del soggetto. Come si vedrà fra breve, si potrà dire che un
soggetto ha un diritto solo quando vi sono strumenti giuridici mediante i quali il
titolare di un interesse può curarne l’attuazione con la forza della legge, prevalendo su altri soggetti.
9. Diritto oggettivo, distinzioni.
Le norme giuridiche di diritto comune sono dirette a regolare le situazioni e i rapporti che riguardano genericamente tutti i soggetti senza distinzioni (ad es., la legge definisce le caratteristiche del diritto di proprietà
e questo vale per tutti i proprietari, o disciplina la responsabilità del debitore, dettando norme destinate ad una generale applicazione).
Altre norme, chiamate di diritto speciale, sono rivolte a disciplinare solo una particolare categoria di rapporti o situazioni facenti capo a determinati soggetti (ad es., l’insolvenza dell’imprenditore commerciale viene disciplinata dalla legge fallimentare, il diritto penale militare sanziona reati
commessi dai militari in servizio e così via).
Nel diritto speciale e, a maggior ragione, nel diritto comune, gli interpreti sono in grado di evidenziare talune linee-guida fondamentali che
danno un carattere ben definito alla disciplina di determinati settori. Dalla
interpretazione e dalla comparazione dei diversi istituti si ricavano, in sostanza, determinati principi di diritto, che rappresentano delle regole costanti (ancorché possa essere più o meno esteso l’ambito in cui il principio
trova applicazione).
Vi sono tuttavia alcune norme che mal si inquadrano in tali principi,
perché anziché uniformarsi alle linee generali se ne discostano fino ad apparire in contrasto con la disciplina del settore ed appaiono giustificate solo
in relazione ad un caso particolare, diverso dagli altri. Si parla, in tal caso,
di diritto eccezionale (ad es. rispetto al principio di eguaglianza dei genito-
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
ri che esercitano la responsabilità genitoriale, appariva eccezionale la norma dell’art. 3164, dettata nella Riforma del 1975, che attribuiva al solo padre il potere di prendere i provvedimenti urgenti e indifferibili, in caso di
pericolo di grave pregiudizio per il figlio minore, norma ora abrogata dalla
Riforma del 2012-2013).
Il diritto transitorio è quello destinato a regolare situazioni o fatti che si
verificano entro un periodo di tempo limitato, in occasione di mutamenti
del regime legislativo di un istituto, segnando il passaggio da un sistema ad
un altro (cfr., ad es., il regime transitorio relativo ai rapporti patrimoniali
fra coniugi disciplinato dall’art. 228 della legge di riforma del diritto di famiglia del 1975).
10. Diritto privato e diritto pubblico.
Ciascuna persona fisica, ciascun gruppo organizzato o ciascun ente che
opera nella società civile è dunque portatore di interessi concernenti la
propria esistenza e la propria attività. Il diritto è chiamato a comporre i potenziali conflitti, ponendo regole e determinando, come si è detto, una gerarchia di interessi.
Nel diritto privato queste regole si fondano su di una considerazione
paritaria di tutti i soggetti in quanto si tratta di proteggere interessi propri
e particolari di ciascuno.
Il diritto privato è dunque un diritto tra uguali.
Nel campo dei diritti disponibili ciascun soggetto potrà avere spazio per
modificare volontariamente la propria situazione in relazione ad altri soggetti (ad es. obbligandosi, alienando beni, ecc.) secondo le sue esigenze,
ma sempre su di un piano di uguaglianza con gli altri.
Le norme di diritto pubblico regolano invece l’attività di taluni soggetti,
svolta per raggiungere finalità di interesse generale. Dunque essi non vengono in considerazione in quanto portatori dei propri interessi individuali,
ma in quanto investiti di una funzione che concerne l’intera collettività.
In tale ambito predomina la tutela dell’interesse pubblico. I soggetti che
agiscono per realizzare tali finalità operano in regime di supremazia, rispetto ad altre persone fisiche o giuridiche, ed esercitano un potere che arriva
anche a pregiudicare le posizioni dei cittadini o degli enti privati (ad es.
esiste l’istituto della espropriazione per pubblico interesse), ma non sono
liberi nello svolgere tale attività dovendo rispettare in ogni caso le norme di
§ 11. L’oggetto del diritto privato
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azione (di comportamento) che garantiscono la tutela dell’interesse pubblico.
Perciò lo Stato, le Regioni, i Comuni, ma anche le Università, le Ulss e
così via, possano essere destinatari di due distinte categorie di norme giuridiche: quelle che li considerano come portatori del proprio interesse individuale (ad es. la Regione ordina una fornitura di computers per i suoi uffici, il Comune vende la legna ricavata dal taglio di un bosco), ed allora saranno trattati in posizione di parità con gli altri contraenti (di conseguenza
il contratto di fornitura e il contratto di vendita saranno due contratti regolati dal diritto privato, il credito sarà regolato dalle norme comuni sulle obbligazioni), e quelle che li considerano come soggetti che agiscono per realizzare finalità di pubblico interesse. Saranno regolati da norme di diritto
pubblico, ad es., gli atti di amministrazione (ogni delibera dovrà rispettare
norme di legge, regole di competenza e ragioni di opportunità per soddisfare il pubblico interesse), il procedimento di assunzione dei dipendenti
(si dovrà bandire un concorso); la scelta del miglior contraente nel caso di
appalti o contratti con un privato (si dovrà bandire una gara tra più interessati scegliendo quello che offre condizioni più favorevoli). Lo stesso credito per tributi gode di un regime speciale: la riscossione mediante ruoli.
11. L’oggetto del diritto privato.
Il campo del diritto privato è molto vasto. In questa sede ci limiteremo
a indicare sinteticamente i settori principali, secondo una tradizionale ripartizione:
– il diritto civile è costituito essenzialmente dalla disciplina contenuta
nel Codice civile per quanto concerne il diritto delle persone e della famiglia (Libro I); delle successioni e donazioni (Libro II); della proprietà e degli
altri diritti reali (Libro III); delle obbligazioni e dei contratti (Libro IV);
della tutela dei diritti (Libro VI), ma anche dalla disciplina contenuta in
molte leggi complementari al Codice (ad es. sul divorzio, sulla adozione,
sulle locazioni e così via);
– il diritto commerciale è costituito dalla disciplina dei titoli di credito,
della impresa e della azienda, delle società commerciali contenuta nel Codice civile (Libro IV e V), ma anche da quella contenuta in molte leggi ad esso collegate (come quella sulla cambiale e sull’assegno bancario, sul fallimento, sul diritto d’autore, sulla concorrenza e così via);
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
– il diritto del lavoro è disciplinato parzialmente nel Codice (Libro V)
ma sopratutto nelle molte leggi speciali (ad es. lo Statuto dei lavoratori, la
legge sul licenziamento, ecc.);
– il diritto della navigazione, marittima e aerea, è contenuto principalmente nel Codice della navigazione.
§ 2. Il catalogo attuale delle fonti
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CAPITOLO 2
LE FONTI DEL DIRITTO POSITIVO
SOMMARIO: 1. Le norme sulle fonti. – 2. Il catalogo attuale delle fonti.
1. Le norme sulle fonti.
Si è già detto che il diritto positivo è il diritto posto dallo Stato nell’esercizio del suo potere legislativo. Nel moderno Stato di diritto anche il
fenomeno della produzione delle norme giuridiche è previsto e disciplinato
da apposite regole.
Nel nostro ordinamento queste regole sono dettate:
– nella Costituzione, in cui si stabilisce, fra l’altro, quali soggetti sono
competenti a creare norme giuridiche secondo i principi di organizzazione
dello Stato, tenuto conto del principio della divisione dei poteri fra gli organi legislativi, esecutivi e giudiziari, e quali atti hanno forza di legge.
– nelle Disposizioni sulla legge in generale, comunemente chiamate anche disposizioni preliminari al codice civile o preleggi (che sono contenute
nel codice civile, in una parte preposta al primo libro, ma si applicano in
ogni campo del diritto, quindi anche in sede penale o amministrativa) dove
si elencano le fonti del diritto, indicando quali atti siano fonte di norme
giuridiche e quale ne sia la gerarchia.
– nelle Leggi di attuazione dei Trattati Europei, che lasciano aperta una
“finestra” nel nostro ordinamento attraverso la quale possono entrare con
immediata efficacia le norme contenute in determinati atti comunitari.
L’art. 1 delle disposizioni preliminari ha subìto, sino ad oggi, rilevanti modifiche. Come è noto, infatti, dopo la promulgazione del codice, nel 1942, si sono verificati importanti cambiamenti nel sistema giuridico italiano con la scomparsa
dell’ordinamento corporativo, soppresso nel 1943, e la promulgazione della Costituzione repubblicana. Perciò è venuta meno una delle fonti del diritto indicata
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Cap. 2. Le fonti del diritto positivo
nell’art. 1 delle Disposizioni sulla legge in generale, al punto 3, costituita dalle norme corporative, inoltre il punto 1 dello stesso articolo, che indica le leggi come prima fonte di diritto, deve essere modificato tenendo conto della Costituzione e delle leggi di attuazione dei Trattati comunitari.
Le norme successive delle preleggi, sulle quali ci soffermeremo in seguito, regolano l’efficacia delle norme giuridiche (entrata in vigore, abrogazione), nonché
l’interpretazione e l’applicazione della legge nel tempo e nello spazio.
2. Il catalogo attuale delle fonti.
La gerarchia delle fonti di diritto va dunque ricostruita nel modo seguente:
a) al primo posto stanno la Costituzione e le leggi costituzionali.
Come è noto la Costituzione rappresenta la legge fondamentale dello
Stato che ne riassume in modo essenziale e determinante l’assetto politico,
sociale, amministrativo, segnando in modo caratterizzante quelli che sono i
diritti essenziali dei singoli e dei gruppi, i rapporti dei cittadini fra loro e
nei confronti dello Stato, la conformazione degli organi supremi di questo,
le linee fondamentali dell’attività di politica del diritto e i principi fondamentali di amministrazione della cosa pubblica.
Per il suo carattere rigido (significa che la Costituzione italiana non può
essere cambiata se non attraverso uno speciale procedimento di revisione
costituzionale che richiede un largo consenso nel Parlamento e un iter
complesso) e soprattutto per il suo valore vincolante rispetto a tutte le altre
leggi, la Costituzione va certamente posta sul più alto gradino nella gerarchia delle leggi dello Stato. Accanto ad essa, sullo stesso piano, stanno le
leggi costituzionali, che si aggiungono alla Carta in tempi successivi.
I principi e le norme costituzionali costituiscono il riferimento essenziale per effettuare il controllo di legittimità delle leggi. Un apposito organo
dello Stato, la Corte costituzionale, è chiamato a giudicare la compatibilità
fra siffatti principi e le norme di legge ordinaria e può dichiarare la illegittimità costituzionale di una disposizione vigente, con la conseguenza che
tale disposizione, nella parte dichiarata illegittima, perde efficacia dalla data della pubblicazione della sentenza della Corte.
Il controllo non può, ovviamente, investire l’intera produzione legislativa, ma
viene provocato saltuariamente da una questione incidentale di costituzionalità,
cioè una questione sollevata in un determinato processo, svolto davanti al giudice
§ 2. Il catalogo attuale delle fonti
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ordinario o amministrativo. Durante uno di questi procedimenti può succedere
che un soggetto, pregiudicato in sede civile, penale o amministrativa dalla eventuale applicazione di una norma giuridica vigente, presenti ricorso sostenendo che
la disposizione è contraria in tutto o in parte ad una norma o ad un principio costituzionale. Il ricorso provoca un esame preliminare della questione da parte del
giudice del processo in corso (c.d. giudice a quo). Questi, se non respinge il ricorso, dichiarando la questione manifestamente infondata, deve sospendere il processo e inviare gli atti alla Corte costituzionale.
b) Gli atti della comunità europea, nelle materie previste dai Trattati (Roma, 1957, modificato nel 1987, Maastricht, 1992, Amsterdam, 1997, importante, da ultimo, il Trattato di Lisbona, del 13 dicembre 2007, in vigore dal 1
gennaio 2009, che modifica i Trattati fondamentali dell’Unione europea).
Mentre i trattati internazionali, normalmente, costituiscono solo un impegno verso altri stati senza dare luogo a norme applicabili, se non interviene di volta in volta una legge interna di attuazione, con i trattati dell’Unione europea si è voluto creare un sistema diverso, lasciando aperta la
possibilità di ingresso nell’ordinamento interno di norme provenienti dall’esterno (esclusivamente nei campi regolati dai singoli trattati).
Perciò sono fonte di diritto all’interno dello Stato, oltre che i Trattati anche i Regolamenti emanati dal Consiglio dell’Unione europea (che prevalgono sulle norme di legge ordinaria difformi) e le Direttive del Consiglio suscettibili di immediata applicazione (c.d. selfexecuting, cioè incondizionate e
sufficientemente precise), ancorché non ancora attuate dagli Stati membri.
Il Trattato di Lisbona riconosce innanzitutto i diritti, le libertà e i principi,
contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di
Nizza) attribuendole lo stesso valore giuridico dei Trattati. Ne deriva che una norma di legge interna che contrasta con una norma di tale carta potrà essere disapplicata dal giudice nazionale.
Per quanto concerne invece la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) il Trattato dice che l’Unione aderirà a tale Convenzione soggiungendo che i
diritti fondamentali in essa garantiti, “fanno parte del diritto dell’Unione in quanto
principi generali”. Gli interpreti discutono circa l’efficacia di tale richiamo.
Grande rilievo viene attribuito dalla stessa Corte costituzionale (nelle c.d. sentenze “gemelle” n. 348 e 349 del 2007) alla recente modifica dell’art. 117 della nostra Costituzione, che riconosce sul piano legislativo i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Per mezzo di tale rinvio la Corte ritiene che debbano essere
rispettati nel nostro ordinamento i diritti e i principi proclamati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo in quanto espressamente garantiti dal Trattato di
Lisbona. Nella gerarchia delle fonti, tuttavia, la Corte attribuisce a tale normativa
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Cap. 2. Le fonti del diritto positivo
il grado di legge ordinaria e non quello di norma costituzionale. La conseguenza
più rilevante sul piano pratico è che il giudice ordinario deve tener conto di tale
fonte per dare una “interpretazione orientata” delle norme giuridiche interne nei
limiti in cui lo consente il testo stesso della norma. Se ciò non fosse possibile (e
cioè si dovesse travisare completamente il testo) ovvero il giudice dubitasse della
compatibilità della norma interna con i principi e i diritti tutelati dalla Convenzione, egli dovrà investire della questione di legittimità della norma interna la Corte costituzionale.
Diversa è l’opinione dei giudici amministrativi (TAR del Lazio, Consiglio di
Stato) secondo i quali le norme della Convenzione sarebbero state “costituzionalizzate” dall’art. 117 Cost. con la conseguenza che il giudice interno potrebbe addirittura direttamente disapplicare le norme di legge ordinaria contrarie a tali
principi senza passare per il vaglio della Corte.
c) Le leggi ordinarie e gli atti con forza di legge. Le leggi ordinarie sono
il frutto dell’attività quotidiana del Parlamento nello svolgimento dei suoi
compiti istituzionali (art. 70 Cost.). Possiamo includere in questa categoria
non soltanto le singole leggi che hanno come oggetto determinati istituti
giuridici, come ad es. il divorzio e il fallimento, ma anche leggi organiche,
cioè dedicate alla disciplina di un intero campo della vita sociale. In tal caso esse prendono il nome di codici.
In senso proprio un codice è dunque una legge, sia pure complessa e articolata. Tali sono il Codice civile, di Procedura civile, Penale, di Procedura penale e il Codice della navigazione.
Spesso il termine “codice” è usato in senso diverso, con riferimento all’opera
pubblicata da una casa editrice che riunisce più leggi utili per chi opera in un determinato campo del diritto. Si parla allora, in senso non tecnico, di codice dell’ambiente, di codice amministrativo e così via.
Anche i testi unici (ad es. il T.U. di Pubblica sicurezza) appartengono
alla categoria delle leggi e rappresentano un rifacimento unitario di più testi di legge preesistenti con l’introduzione di alcune norme, la soppressione
di altre, il coordinamento o la fusione di vari testi.
Eccezionalmente talune norme di legge possono essere emanate non dal
Parlamento, ma dal Governo, il quale, come è noto, esercita ordinariamente la sua competenza nel campo della pubblica amministrazione (art. 77
Cost.). Si tratta di atti che, pur avendo forza di legge ordinaria, sono ammessi dalla Costituzione solo in casi limitati e con cautele tali da non incidere sulla esclusività della funzione legislativa che spetta al Parlamento.
§ 2. Il catalogo attuale delle fonti
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Essi sono, in primo luogo, i decreti legislativi delegati, in cui lo stesso
Parlamento delega al Governo per oggetti definiti, con l’indicazione di
principi e criteri direttivi e per un tempo limitato, la stesura di un testo di
legge. In tal caso si ha dunque l’attribuzione eccezionale di un potere limitato, quello di riempire, se così si può dire, il quadro fornito dalla legge di
delega, rispettandone le condizioni (art. 76 Cost.).
Ad es., recentemente il Parlamento ha delegato il Governo a formulare un testo legislativo che armonizza e riordina le normative concernenti i diritti dei consumatori ed i loro rapporti con i produttori e con i professionisti. Il d.lgs. n. 206
del 6 settembre 2005 contiene un testo organico denominato Codice del Consumo
destinato a sostituire tutta una serie di atti normativi precedenti. Vi si trova una
disciplina che dovrebbe regolare in modo armonico i principali aspetti del fenomeno, dai diritti dei consumatori, in generale, all’obbligo di informazione sui
prodotti, alla pubblicità, alle televendite, al credito al consumo. In particolare vi
vengono trasfuse le norme sulle clausole vessatorie, già inserite nel Codice civile, e
quelle di altri testi sparsi, ad es. sui contratti conclusi fuori dai locali commerciali,
sui contratti a distanza, sul commercio elettronico, sui servizi turistici, sulla sicurezza e qualità dei prodotti e sul danno da prodotti difettosi, fino alla vendita dei
beni di consumo e alla multiproprietà. Come si vede, non ostante la qualifica di
Codice, si tratta, in sostanza, di un testo unico che mira a fare chiarezza e a dare
una fonte normativa unitaria.
In secondo luogo vanno ricordati i cosiddetti decreti legge, che sono
previsti dalla Costituzione solo in casi straordinari di necessità e urgenza e,
pur essendo immediatamente efficaci come fonte del diritto, hanno tuttavia natura provvisoria in quanto devono essere immediatamente presentati
dal Governo al Parlamento per essere convertiti in legge ordinaria entro 60
giorni, sotto pena di decadenza (art. 77 Cost.). Nella nostra storia parlamentare, come si sa, si è fatto largo uso di questi decreti, forzando, talora, i
limiti di ammissibilità previsti dalla Carta costituzionale.
Hanno valore di legge ordinaria in un ambito territoriale più limitato
anche le leggi regionali nelle materie in cui il potere legislativo è demandato a tali enti.
d) I regolamenti sono atti emanati dal Governo o dalla Pubblica Amministrazione, quindi da chi detiene il potere esecutivo (art. 3 disp. prel.).
Si possono ricordare in proposito i regolamenti esecutivi, che danno applicazione ad una legge completandone le disposizioni attraverso regole più
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Cap. 2. Le fonti del diritto positivo
specifiche (come, ad es., il regolamento annesso al c.d. Codice della strada) e
i regolamenti autonomi, emessi da Enti amministrativi dotati appunto di autonomia, cioè del potere di disciplinare la propria attività interna (come i regolamenti di Ateneo, approvati dalle singole Università).
Mentre una legge, ancorché affetta da illegittimità costituzionale, non
cessa di produrre i suoi effetti se non interviene una pronunzia della Corte
costituzionale che la dichiara illegittima o se non viene abrogata, il regolamento presenta una minore forza nel quadro delle fonti, in quanto vincola
il personale dell’Amministrazione, ma può essere disapplicato dal giudice,
qualora sia contrario ad una norma di legge.
e) Gli usi o consuetudini sono dei comportamenti ripetuti nel tempo
che esprimono l’intenzione di obbedire ad una regola giuridica.
Non deve trattarsi, pertanto, di norme di galateo o di abitudini che
rientrano nel mero costume sociale, come quella di dare la mancia per gratificare qualcuno, ma di comportamenti che presuppongono un conflitto
d’interessi e la convinzione nei consociati che esista un dovere giuridico di
attenersi ad una certa norma (opinio juris seu necessitatis).
L’ambito sociale in cui si verifica tale fenomeno può essere più o meno
vasto, ad es. si conoscono usi locali, usi generali, usi propri di un singolo
mercato, e così la durata può variare secondo la natura dei rapporti interessati da siffatti comportamenti (ad es. gli usi commerciali si creano e si
modificano più rapidamente degli usi agricoli).
Gli usi costituiscono fonte di diritto quando sono espressamente richiamati dalla legge o da un regolamento (c.d. usi secundum legem). Si può dire
che in questi casi l’ordinamento, mediante una disposizione scritta (fonte
primaria), fa rinvio ad altre norme (fonte secondaria) che non sono scritte, ma
concretamente applicate attraverso una continua esecuzione spontanea (v.,
ad es., gli artt. 1182 e 1187, circa il tempo e il luogo dell’adempimento, gli
artt. 1326 e 1327, in tema di conclusione del contratto fra persone lontane).
Gli usi possono essere fonte di norme anche là dove si svolge una attività umana che è del tutto sprovvista di regole giuridiche (c.d. usi praeter
legem).
Non sono invece ammessi gli usi contrari al diritto (c.d. usi contra legem); la ripetuta violazione di una norma giuridica non ne determina l’abrogazione.
La prova dell’esistenza di una consuetudine può essere data con ogni
mezzo (la stessa regola vale per provare l’esistenza di qualsiasi norma giuridica), ma se è stata curata la raccolta degli usi vigenti da parte di un Ente
§ 2. Il catalogo attuale delle fonti
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autorizzato (ad es. le Camere di commercio) l’uso che risulta documentato
si presume esistente, salvo prova contraria (art. 9 disp. prel.). Non cambia,
comunque, per tale ragione, la natura propria dell’uso, di essere sempre
una norma non scritta.
f) Come fonte di diritto secondaria, cioè valida soltanto se espressamente richiamata da una disposizione di legge, va ricordata, infine, l’equità.
Secondo una antica definizione l’equità è la giustizia del caso concreto.
Ciò va inteso non già nel senso che il giudice debba prescindere dalle norme esistenti, ma nel senso che deve adattarle alla specifica controversia
cercando di contemperare gli interessi delle parti, creando la norma che
appare più adatta alla situazione.
Il pretore romano, cercando di risolvere le controversie in base all’equità, spesso ha sovvertito il diritto tradizionale, creando istituti che si
sono poi tramandati nei secoli. Nel diritto odierno il ricorso all’equità come fonte di norme è, tuttavia, eccezionale.
A volte il giudice è chiamato dalla stessa legge a decidere con una valutazione
equitativa, ad es. quando il danno da risarcire non può essere provato nel suo preciso ammontare (art. 1226) o quando il danno è provocato in stato di necessità
(art. 2045) o da un incapace (art. 2047). In questi casi si parla di equità integrativa
della fattispecie già delineata dalla legge. L’equità è richiamata dalla legge assieme
agli usi, anche per integrare gli effetti del contratto voluti dalle parti (art. 1374).
Altre applicazioni di questo strumento si trovano in tema di contratti speciali
(artt. 1733, 1736, 1755 2° comma, per non parlare del contratto di lavoro).
Il terzo arbitratore al quale può essere affidata la determinazione dell’oggetto
del contratto (art. 1349) normalmente deve procedere con equo apprezzamento
(eccezionalmente la determinazione può essere rimessa al suo mero arbitrio).
Si parla di equità correttiva allorquando si persegue lo scopo di ottenere un bilanciamento delle prestazioni: ad es. ove sia stata pattuita, in caso di inadempimento, una penale eccessivamente gravosa per il debitore, avuto riguardo all’interesse del creditore (art. 1384) il giudice, su richiesta di parte, può diminuire equamente la penale. In questo senso l’equità rappresenta un criterio per ristabilire l’equilibrio contrattuale attraverso la modifica del contratto, consentita da una norma
che si ritiene eccezionale.
La riduzione ad equità (reductio ad aequitatem) cioè un aggiustamento di tale
equilibrio, può essere offerta dalla parte che vuole salvare l’efficacia del contratto
di fronte alla impugnazione proposta dall’altro contraente (ad es. nella rescissione,
art. 1450 o nella risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, art. 1467). Altre
norme provvedono a conservare un certo equilibrio alterato da cause impreviste:
ad es. l’appaltatore ha diritto ad un equo compenso per difficoltà di esecuzione
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Cap. 2. Le fonti del diritto positivo
della propria prestazione derivanti da cause geologiche, idriche e simili non previste dalle parti (art. 1664, 2° comma).
Una recente legge sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (d.lgs.
n. 231 del 2002, art. 7) prevede che il giudice, anche d’ufficio, possa dichiarare la
nullità di un accordo “gravemente iniquo a danno del creditore” in quanto destinato a procurare al debitore una indebita liquidità o ad attribuirgli termini di pagamento troppo lunghi, senza una adeguata ragione oggettiva, e possa applicare i
termini legali di pagamento o ricondurre ad equità il contenuto dell’accordo. È
chiaro che qui il debitore viene considerato come il contraente “forte” in un
provvedimento che mira ad assicurare un rispetto sostanziale della concorrenza e
la certezza dei pagamenti regole del mercato
Esiste anche una equità interpretativa: il giudice, qualora non sia possibile chiarire il significato del contratto utilizzando le norme e i criteri indicati dalla legge
(artt. 1362-1370) dovrà interpretarlo “nel senso meno gravoso per l’obbligato, se è a
titolo gratuito, nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi se è a
titolo oneroso”. In questi casi, dunque, il bilanciamento richiede una valutazione da
effettuarsi all’interno della economia propria del contratto stesso (art. 1371).
Tutt’altro significato ha l’equità secondo cui il giudice di pace deve (equità necessaria) decidere la controversia di valore non superiore ad Euro millecento (art.
113, 2° comma, c.p.c.). La Cassazione la qualifica come equità formativa o sostitutiva della norma sostanziale (cfr. Cass. n. 4493 del 2009). In tal caso si ritiene che il
giudice debba decidere in modo intuitivo piuttosto che con i sillogismi di stretto diritto, salvo comunque il rispetto delle norme costituzionali, di quelle comunitarie di
rango superiore alle leggi ordinarie e dei principi informatori della materia (art. 339,
3° comma, c.p.c.) pena il ricorso in Cassazione per violazione di legge.
Altre volte, infine, sono le parti (equità facoltativa) che possono chiedere al giudice di decidere secondo equità, in materia di diritti disponibili (art. 114 c.p.c.).
Il ricorso all’equità assume poi un ruolo diverso in un’altra prospettiva: si possono distinguere le ipotesi in cui la legge formula un richiamo suppletivo, cioè ne
prevede l’utilizzo solo in mancanza di volontà delle parti o di disposizioni di legge, per completare una valutazione più ampia, come, ad es., nell’art. 1374, dalle
ipotesi in cui la legge formula un richiamo esclusivo e cioè in cui l’equità rappresenta il criterio di giudizio principale che deve essere formalmente utilizzato dal
giudice per la soluzione di un caso concreto. In tali casi (che rappresentano, ovviamente, delle eccezioni espressamente contemplate dalla legge) l’equità viene
richiamata dalla legge con riferimento a specifiche questioni: per determinare, ad
es., il giusto ammontare della clausola penale manifestamente eccessiva, art. 1384,
ovvero per assegnare un equo compenso a chi ha prestato la sua opera in un contratto rescisso ex art. 1447, o per liquidare il danno che non può essere valutato
nel suo preciso ammontare, art. 1226, e così via.
§ 1. Nozioni generali
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CAPITOLO 3
LA NORMA GIURIDICA E LA SUA APPLICAZIONE
SOMMARIO: 1. Nozioni generali. – 2. Norma e fattispecie. – 3. La vita delle norme
giuridiche nel tempo. – 4. L’interpretazione. – 5. L’analogia. – 6. La legge nello
spazio.
1. Nozioni generali.
La legge scritta, come tutte le espressioni dell’uomo che si valgono del
linguaggio, si compone di parole, collegate fra loro in proposizioni.
Attraverso le parole e le frasi possono essere introdotti nell’ordinamento
giuridico un comando, la definizione di un istituto, la qualificazione di un
fatto e così via.
L’espressione “istituto giuridico” è di uso molto comune e allude ad un complesso di regole giuridiche di una vicenda o di un fatto unitariamente considerato:
ad es. sono istituti privatistici il matrimonio, il contratto, il testamento, ma si usa la
stessa espressione anche con riferimento a singoli meccanismi giuridici che costituiscono soltanto una parte della disciplina di tali figure, ad es. sono istituti anche
la revoca del testamento, la risoluzione del contratto, la separazione dei coniugi.
Sono esempi di istituti pubblicistici il referendum abrogativo, il controllo di legittimità costituzionale, l’approvazione di un organo di controllo e così via. Nella
Storia del diritto si studiano gli istituti del diritto romano, del diritto medievale,
nel Diritto comparato si studiano gli istituti del diritto straniero.
Una o più frasi collegate fra loro, che possono essere unitariamente considerate in quanto sono dirette a produrre un determinato effetto giuridico
costituiscono una disposizione legislativa (in senso analogo sono chiamate
disposizioni anche talune espressioni di volontà dei privati, pensiamo alle
disposizioni testamentarie di carattere patrimoniale o non patrimoniale,
art. 587 1 e 2). La disposizione contiene dunque la norma, cioè la regola, ma,
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Cap. 3. La norma giuridica e la sua applicazione
come si è già visto, non tutte le norme sono contenute in disposizioni di
legge, basti pensare alle norme non scritte che sono espresse da una consuetudine. Inoltre la norma non coincide con la disposizione per una ragione più sottile: essa è il risultato della interpretazione della disposizione.
Ogni testo di legge si compone di articoli, i quali possono contenere
una o più disposizioni. I paragrafi nei quali è suddiviso un articolo si chiamano commi. Il secondo comma di un articolo si chiama anche primo capoverso.
Il titolo (detto anche rubrica) dato dalla legge ad un articolo non fa parte del contenuto precettivo della disposizione (rubrica legis non est lex),
anche se può essere utilizzato ai fini interpretativi.
Il contenuto della norma può essere vario: talora essa qualifica un fatto
giuridicamente rilevante (ad es. l’accordo di due o più parti diretto a costituire, modificare o estinguere un rapporto patrimoniale viene definito un
contratto, art. 1321), o qualifica un soggetto in relazione ad altri soggetti (ad
es. due persone che discendono da uno stesso stipite sono parenti fra loro,
art. 74) o in relazione ad una attività da lui svolta (chi esercita professionalmente una attività economica organizzata … è imprenditore, art. 2082).
Tali qualifiche costituiscono il presupposto che consente poi di applicare
altre norme giuridiche (ad es. la disciplina del contratto in generale, la vocazione a succedere mortis causa dei parenti, il c.d. statuto dell’impresa).
Altre volte la previsione normativa è fonte immediata di una situazione
giuridica che tutela un soggetto (ad es. chi subisce un danno ingiusto ha
diritto al risarcimento del danno nei confronti del responsabile dell’illecito,
art. 2043), o regola gli effetti giuridici della attività dei privati (ad es. il contratto ha forza di legge tra le parti, art. 1372; è nulla ogni convenzione con
cui taluno dispone della propria successione, art. 458).
Nel campo dei precetti giuridici vale la distinzione tra: norme imperative
(quando la regola che viene dettata dalla legge non può essere derogata dai
privati, ad es. il credito alimentare non può essere ceduto, art. 447); norme
dispositive (quando la regola è destinata ad una applicazione generale, ma
ne è ammessa la modifica da parte degli interessati, ad es. la cessione del
credito non comprende i frutti scaduti, salvo patto contrario, art. 12633); e
norme suppletive (allorquando la legge prevede innanzitutto che la regola
sia creata dai privati e detta un comando che supplisce alla mancanza di un
atto di disposizione dell’interessato, ad es. non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria,
art. 4572).
§ 3. La vita delle norme giuridiche nel tempo
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2. Norma e fattispecie.
La norma è sempre costituita da una previsione generale ed astratta.
Il fatto o l’insieme di fatti previsti dalla norma come fonte di effetti giuridici si chiama fattispecie. Si parla di fattispecie astratta quando si considera l’ipotesi prevista dalla legge in via generale, mentre quando si passa
ad esaminare il caso singolo che si è realmente verificato e di cui si valutano le conseguenze giuridiche si parla, invece, di fattispecie concreta.
Si usano le espressioni “fattispecie semplice” o “fattispecie complessa” a
seconda che basti un solo fatto o che ne occorra più d’uno per produrre un
determinato effetto giuridico.
Ad es. la nascita di una persona è un fatto idoneo a far sorgere un nuovo soggetto di diritti e contemporaneamente sorgeranno a favore di tale soggetto i c.d. diritti
personalissimi (diritto al nome, all’onore, all’integrità fisica, ecc.). Il semplice fatto
della creazione intellettuale fa acquistare all’autore il diritto sull’opera letteraria o
musicale e così via. Altre volte è necessaria una sequenza di fatti collegati fra loro, ad
es. il ritrovamento di un oggetto smarrito ne fa acquistare la proprietà, ma solo dopo
che sia stata effettuata la consegna al sindaco, che sia stato pubblicato l’avviso del ritrovamento e che sia trascorso un anno (art. 927 ss.). L’allontanamento di un coniuge
dalla residenza familiare determina a suo carico la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale, ma solo se manca una giusta causa e se il coniuge che si è
allontanato, sollecitato dall’altro a ritornare, rifiuta (art. 146).
La fattispecie viene chiamata costitutiva quando crea una nuova situazione giuridica (ad es. il contratto con cui il proprietario di un bene immobile lo concede
in ipoteca, a garanzia di un debito), estintiva quando elimina una situazione preesistente (ad es. il pagamento del debito estingue l’obbligazione) e traslativa quando trasferisce un diritto o un obbligo da un soggetto ad un altro (ad es. la donazione o la cessione del credito).
3. La vita delle norme giuridiche nel tempo.
Di regola una legge diviene efficace il quindicesimo giorno dopo la sua
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ma il legislatore può disporre altrimenti, ad es. che la legge abbia efficacia immediata (si parla, in tal caso, di
leggi-catenaccio), o che abbia efficacia in tempo successivo. Vi è quindi un
periodo di vacanza della legge (vacatio legis) se questa è stata approvata e
promulgata, ma non è ancora entrata in vigore.
La efficacia della legge, in linea di principio, è rivolta al futuro: la legge,
28
Cap. 3. La norma giuridica e la sua applicazione
di norma, non può essere retroattiva, ma dispone per l’avvenire (art. 11 disp.
prel.).
Lo stesso principio è stabilito solennemente dalla Costituzione, ma con
riferimento alle sole leggi penali (art. 25 Cost.) e la spiegazione è chiara: il
cittadino non può essere punito se non per una legge entrata in vigore
prima del fatto da lui commesso. Lo esige il principio di certezza del diritto e ne va di mezzo la libertà stessa della persona.
Per quanto concerne le leggi civili e gli atti della P.A. il principio della
irretroattività della legge può sembrare spesso disatteso, perché tali atti,
pur non presentandosi formalmente come retroattivi, tuttavia toccano gli
effetti di situazioni pregresse o rapporti in via di svolgimento e quindi incidono sulle aspettative dei cittadini fondate su norme di diritto emanate in
precedenza. In tali casi l’interessato lamenta spesso la lesione dei c.d. diritti
quesiti, ma è bene ricordare che lo Stato considera veri diritti del cittadino
solo quelli compiutamente maturati, cioè quelli per i quali si è interamente
compiuto l’iter procedimentale che porta all’acquisto del diritto.
Ad es., ciascun lavoratore dovrà rivedere i propri calcoli circa l’ammontare
della futura pensione se, come è accaduto recentemente, si passa da un sistema
retributivo (pensione proporzionale alla retribuzione percepita) ad un sistema
contributivo (pensione proporzionale ai contributi versati). In realtà il vero diritto
alla pensione matura solo alla fine della carriera di ciascun lavoratore, il quale può
pretendere soltanto che per ciascun periodo di lavoro siano fatti correttamente i
calcoli e sia applicata la legge che, di volta in volta, era in vigore, ma non ha invece
diritto che resti immutato per il futuro lo stesso regime.
Le disposizioni di legge perdono efficacia, in primo luogo, se sono
emanate ad tempus, cioè per un periodo di tempo determinato, allorquando scade il termine prefissato.
Non va confuso con una legge temporanea il c.d. diritto transitorio (v.
sopra) che non è costituito da norme ad tempus, ma da norme (stabilmente) destinate a regolare fatti e situazioni giuridiche sorti in un determinato
periodo di tempo.
Al di là della ipotesi non frequente del diritto temporaneo, le norme di
legge cessano di produrre effetti, di regola, quando vengono abrogate dal
legislatore.
L’abrogazione può essere:
– espressa, mediante dichiarazione contenuta in una legge posteriore;
§ 4. L’interpretazione
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– tacita, per incompatibilità fra una nuova disposizione e quella precedente;
– tacita, per intera regolamentazione della materia da parte di nuove disposizioni.
Una disposizione, poi, può essere privata di efficacia se dichiarata costituzionalmente illegittima da una sentenza della Corte costituzionale. L’efficacia cessa dalla data di pubblicazione della decisione nella Gazzetta Ufficiale.
Infine una legge può essere resa totalmente o parzialmente inefficace da
un referendum abrogativo, art. 75 Cost. (escluso, tuttavia, per determinate
categorie di leggi: tributarie, di bilancio, amnistia, indulto e ratifica dei
trattati).
4. L’interpretazione.
Il primo criterio di interpretazione richiede necessariamente una comprensione delle parole nel significato loro proprio e secondo la connessione
di esse (art. 12 disp. prel.), perciò prende il nome di interpretazione letterale.
Il linguaggio, tuttavia, come si sa, è solo uno strumento di espressione
di un’idea e questo è il vero oggetto da scoprire, dietro le frasi usate dal legislatore. L’idea di cui parliamo è tradizionalmente chiamata ratio legis e
consiste nella specifica ragione per cui il legislatore ha creato una determinata disposizione. L’intenzione del legislatore rappresenta quindi la mèta
della seconda fase interpretativa, che prende il nome di interpretazione
logica (art. 12 disp. prel.).
L’interpretazione logica non si esaurisce, peraltro, nella interpretazione storica, cioè nell’appurare quale sia stato l’intento di chi ha formulato
quella legge, di chi ha presentato il disegno di legge o di chi la ha approvata (attività tanto più agevole quanto più sono documentati i lavori parlamentari), ma deve risalire alla intenzione attuale che risulta oggettivamente dall’esame di tutte le disposizioni in vigore al momento dell’applicazione della norma in questione, cioè alla volontà oggettivata nel sistema. Il valore e il significato attuale della disposizione vanno ricostruiti nel
quadro complessivo delle norme in vigore, anche prescindendo dal significato iniziale o dalla interpretazione che è stata data in precedenza. È
necessario, pertanto, che l’interpretazione logica diventi una interpreta-
30
Cap. 3. La norma giuridica e la sua applicazione
zione sistematica, cioè che tenga conto dei principi e delle norme che costituiscono l’ordinamento giuridico nel momento in cui si deve dare applicazione alla disposizione in esame.
Può succedere, ad es., che siano mutati dei principi fondamentali in conseguenza della introduzione di nuovi istituti – si pensi al divorzio, che ha sovvertito l’idea,
precedentemente accolta dall’ordinamento, della indissolubilità del matrimonio – o
può darsi che cada, perché dichiarata costituzionalmente illegittima, una norma che
prima avrebbe condizionato una certa interpretazione della materia. In questo continuo aggiornamento del sistema ha grande importanza l’attività della Corte costituzionale, la quale spesso emette sentenze interpretative vincolanti, nel senso che riconoscendo come incostituzionale non la disposizione in sé considerata, ma solo
una delle interpretazioni possibili di essa, induce ad interpretarla in altro senso.
Quanto alla fonte, si distingue la interpretazione autentica, cioè fornita
dallo stesso legislatore con una norma successiva (e quindi vincolante per
tutti), dottrinale, operata dagli studiosi (attraverso note, articoli scientifici,
monografie, trattati), giurisprudenziale, quale risulta attraverso i provvedimenti emessi dai giudici. Fra questi assumono grande importanza le sentenze emesse dalla Corte di Cassazione, seguite con attenzione nel mondo della
pratica, specialmente quando un orientamento interpretativo diviene costante (anche se sono sempre possibili delle inversioni di tendenza o, come si dice, revirement). In realtà, benché nel nostro ordinamento non sussista il
principio anglosassone dello stare decisis, cioè del precedente giudiziario vincolante, ogni avvocato sa che l’orientamento costante della Suprema Corte
determina sostanzialmente, anche se non formalmente, una coerente interpretazione di giudici e pertanto è opportuno adeguarvisi. Resta fermo, tuttavia, il principio che ciascun giudice è libero di dare la decisione che gli sembra corretta, purché questa rispetti il diritto e sia adeguatamente motivata.
Quanto ai risultati della interpretazione, si parla di interpretazione estensiva quando l’esito della interpretazione logica e sistematica porta a concludere che la legge ha detto meno di quanto avrebbe dovuto (minus dixit
quam voluit). In tali casi occorre ampliare il significato della norma fino ad
includere altre ipotesi non letteralmente comprese, ma pur sempre riconducibili alle categorie cui fa riferimento la disposizione, per una esigenza di
razionalità e di coerenza del sistema.
Dal lato opposto si parla di interpretazione restrittiva quando esigenze
logiche e sistematiche impongono di limitare il significato della disposizione escludendo alcune ipotesi che pur formalmente rientrerebbero nel det-
§ 5. L’analogia
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tato legislativo. Si dice che in tali casi la legge plus dixit quam voluit.
Se invece il significato che si deve accogliere è esattamente quello che
appare dalle parole e dalle espressioni usate, secondo il loro significato comune, si parla di interpretazione dichiarativa.
Prendiamo la parola “padre”, usata dal legislatore nel testo precedente
alla Riforma della filiazione. Secondo i casi poteva essere necessario intendere qualcosa di più: ad es., “colui che esercita la potestà”, quindi anche la
madre, attuando una interpretazione estensiva (art. 777, rimasto immutato); ovvero qualcosa di meno: ad es., non il “vero” padre , ma solo il “presunto” padre era legittimato a disconoscere la paternità (art. 235, oggi
abrogato; nel nuovo art. 244 si parla più correttamente della impugnazione
del “marito”); altre volte doveva essere inteso in senso letterale: il padre, a
preferenza della madre poteva adottare i provvedimenti urgenti di cui al
vecchio testo dell’art. 3164 (interpretazione dichiarativa o letterale).
Si deve considerare che l’interpretazione chiarisce il significato delle parole e delle frasi, attribuendo talora al legislatore un lessico tutto particolare e, a volte, addirittura improprio. Il “vero” significato della norma è pertanto quello che va d’accordo con la “logica” dell’intero sistema attualmente in vigore. Il procedimento di interpretazione non è dunque libero,
ma rigidamente vincolato da esigenze semantiche, logiche e sistematiche,
in modo tale che ogni decisione possa essere controllata anche sotto questo
aspetto dal giudice del gravame, cioè quello davanti al quale si può ricorrere per un grado successivo di giurisdizione.
5. L’analogia.
L’interpretazione estensiva arriva a colmare alcuni vuoti, facendo rientrare nella previsione legislativa delle ipotesi apparentemente non regolate
e mostrando come, in realtà, anch’esse siano ricomprese nel significato della norma.
Al di là di questo limite, dove l’interpretazione estensiva non può arrivare, esistono le lacune del diritto, cioè ipotesi non regolate dalla legge.
La realtà ha sempre maggior fantasia del legislatore e la vita di ogni
giorno presenta continuamente fatti che non sono stati previsti dalla legge,
ma richiedono la soluzione di una controversia.
Il problema delle lacune del diritto è risolto dall’art. 122 disp. prel., con
l’istituto dell’analogia.
32
Cap. 3. La norma giuridica e la sua applicazione
In primo luogo si ricorre alla analogia legis: «se una controversia non
può essere decisa con una precisa disposizione si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe».
I termini entro i quali può operare l’analogia sono dunque i seguenti:
– si accerta l’esistenza di una lacuna del diritto;
– si individua una norma che regola casi simili;
– si verifica l’esistenza della eadem ratio: infatti la regola giuridica del caso
previsto può essere utilizzata anche per il caso non previsto solo se sussiste
un elemento comune alle due ipotesi che giustifica proprio quella disciplina.
Quest’ultimo, in effetti, è il punto più delicato del procedimento analogico che
il giudice è chiamato quotidianamente a compiere, infatti è necessario inquadrare
ogni figura giuridica nel suo campo specifico onde poter individuare ciò che rappresenta la specialità della regola dettata dalla legge. Un esempio: la responsabilità
del vettore nel trasporto di cortesia per strada (quando si dà un passaggio ad un
amico o ad un conoscente che chiede un favore) non è regolata dal codice civile,
che si occupa espressamente del solo contratto di trasporto. Il codice della navigazione detta una norma che vale per il trasporto non contrattuale in nave o in aereo
(con una norma che alleggerisce la responsabilità del vettore rispetto a quella derivante da contratto). Si può applicare per analogia tale norma anche al trasporto
terrestre? Bisogna vedere se la riduzione della responsabilità del vettore sia riconducibile alla eadem ratio. Se si ritiene che la norma del codice della navigazione
non sia stata posta dalla legge in considerazione del particolare tipo di rapporto fra
vettore e passeggero (amichevole, non contrattuale), ma piuttosto in relazione al
particolare rischio del mezzo di trasporto (aereo o navale), non è consentita l’applicazione analogica della norma citata al trasporto terrestre, e questa sembra l’opinione consolidata della giurisprudenza.
In secondo luogo l’art. 12 disp. prel. prevede il ricorso alla c.d. analogia
juris: «se il caso rimane ancora dubbio si decide secondo i principi generali
dell’ordinamento giuridico».
Ma dove sono scritti? Purtroppo non esistono le tavole dei principi giuridici!
Essi sono nascosti tra le norme dei codici e delle leggi in vigore e non sono neppure immutabili, anche se godono di grande stabilità. Si tratta di scoprirli con un
attento lavoro di comparazione e di ricostruzione, dal particolare all’universale.
Ad es., trovando più volte ripetuta la regola che, in caso di invalidità del contratto
(ancorché dovuta a cause diverse), fa salvi i diritti del contraente che ha contrattato senza accorgersi (o potersi accorgere) di tale invalidità, siamo in grado di affermare che esiste un principio di tutela dell’affidamento.
L’ordinamento, come si è visto sinora, è un sistema di regole soggette ad un
§ 6. La legge nello spazio
33
continuo aggiornamento e quindi l’esistenza di un principio va desunta dall’interprete, di volta in volta, dal complesso di norme in vigore, tenendo conto non solo
delle variazioni apportate dal legislatore, ma anche del contributo interpretativo
di dottrina e giurisprudenza.
Non vanno invece confusi i principi generali, di cui si è detto, con le c.d. clausole generali che sono norme espresse dal legislatore caratterizzate da un contenuto di vasto respiro, che consente l’applicazione della regola ad una serie indefinita
di casi, grazie ad un adattamento che il giudice deve compiere di volta in volta.
Ad es., quando la legge dice che le parti della trattativa devono comportarsi secondo buona fede, cioè onestamente e lealmente, non specifica esattamente quale sia il
confine del lecito. Spetterà al giudice applicare la regola ai singoli casi sottoposti
al suo giudizio esaminando le circostanze concrete.
Diversamente dall’interpretazione, l’analogia serve per creare norme nuove, applicabili al caso concreto non disciplinato dalla legge: ecco perché
l’analogia è vietata nell’applicazione della legge penale (il cittadino deve sapere prima ciò che è lecito o illecito) e nell’applicazione della legge eccezionale (perché destinata a regolare situazioni particolari in modo specifico e
diversamente dai principi).
È invece consentita l’analogia nell’ambito del diritto speciale. Nulla impedisce di applicare norme e principi propri di un settore giuridico ad altri
casi non previsti dello stesso settore, entro i limiti del corretto procedimento analogico.
6. La legge nello spazio.
Quando sorge una controversia che implica elementi di estraneità, cioè
il riferimento a soggetti o ordinamenti stranieri, il giudice italiano ha bisogno di sapere, in primo luogo, se ha giurisdizione, cioè se ha il potere di
giudicare.
La nostra legislazione in questa materia, che tradizionalmente prende
il nome di diritto internazionale privato, è stata ampiamente riveduta di
recente con la l. n. 218 del 1995 “Riforma del sistema italiano di diritto
internazionale privato” (alla quale si riferiscono le citazioni che seguiranno in questo paragrafo), abrogando espressamente la normativa precedente formata dagli artt. 17-31 delle Disposizioni preliminari al codice
civile.
L’art. 3 definisce l’ambito della giurisdizione italiana: uno dei presupposti positivi è costituito, ad es., dal fatto che il convenuto sia domiciliato o
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Cap. 3. La norma giuridica e la sua applicazione
residente in Italia. Viene esclusa, invece, rispetto ad azioni reali aventi ad
oggetto beni immobili situati all’estero (art. 5).
Ove sia risolta positivamente la prima questione, il nostro giudice deve
sapere quale sia il diritto applicabile nei singoli casi.
Ad es. quale norma si applica se un automobilista tedesco deve risarcire a un
cittadino italiano i danni derivanti da un incidente causato in Francia? O se un
cittadino argentino ed uno britannico hanno stipulato in Italia un contratto di
fornitura da eseguire in Grecia?
I principali criteri di rinvio sono i seguenti:
a) si applica la legge nazionale della persona (lex personae). Ad es. «i
rapporti personali tra coniugi sono regolati dalla legge nazionale comune»
(art. 29); «la capacità di disporre per testamento è regolata dalla legge nazionale del disponente» (art. 47);
b) si applica la legge del luogo (lex loci). Ad es. «i rapporti personali tra
coniugi con diversa cittadinanza sono regolati dalla legge del luogo dove è
prevalentemente localizzata la vita matrimoniale» (art. 29); «il possesso, la
proprietà e gli altri diritti reali sono regolati dalla legge dello stato in cui i
beni si trovano» (art. 51);
c) si applica la legge scelta dai privati (lex voluntatis). Ad es., «il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti» (art. 43 della Convenzione di
Vienna richiamata dall’art. 57 della Riforma in tema di obbligazioni contrattuali). «La divisione ereditaria è regolata dalla legge applicabile alla
successione, salvo che i condividenti, d’accordo tra loro, abbiano designato
la legge del luogo d’apertura della successione o del luogo ove si trovano
uno o più beni ereditari» (art. 463).
§ 3. Le situazioni giuridiche soggettive
PARTE SECONDA
I DIRITTI SOGGETTIVI
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
§ 3. Le situazioni giuridiche soggettive
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CAPITOLO 4
LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE
SOMMARIO: 1. Nozione. – 2. Diritto soggettivo e interesse legittimo. – 3. Diritti
soggettivi assoluti e relativi. – 4. Considerazioni sul rapporto giuridico. – 5. Situazioni minori: facoltà, poteri. – 6. Diritto potestativo, potestà. – 7. Aspettativa. – 8.
Stato della persona (status). – 9. Situazioni passive: dovere, obbligo, onere. – 10. Le
obbligazioni “propter rem”. – 11. I c.d. oneri reali.
1. Nozione.
La posizione in cui si trova un soggetto, nel quadro delle norme di diritto privato, può essere di vario tipo. Talora una persona riceve piena tutela
di un proprio interesse (il proprietario può godere liberamente della cosa
che gli appartiene escludendo gli altri), in altri casi taluno è costretto ad
eseguire un determinato comportamento nell’interesse altrui (il debitore
deve adempiere la prestazione dovuta nei confronti del creditore) altre volte il soggetto si trova in uno stato di soggezione ad un potere altrui, senza
potersi difendere (ad es. il debitore inadempiente può vedere espropriato
il proprio patrimonio con l’esecuzione forzata).
Per indicare la posizione in cui una persona si trova, entro il campo dei
rapporti giuridici, nella relazione con altri soggetti, si usa il termine generico di situazione giuridica soggettiva.
Ciascuno di noi è titolare, contemporaneamente, di diverse situazioni
giuridiche. Il numero e il genere di queste dipende dalle vicende della vita
propria di ciascuno (ho diritto allo stato di cittadino, a pretendere i beni
che mi sono stati lasciati in eredità, ho l’obbligo di restituire un prestito ricevuto, ecc.) ma la tipologia di siffatte situazioni non è molto varia.
Esaminando le situazioni giuridiche soggettive configurate dalla legge
(soprattutto nel campo del diritto privato) vediamo che si può sintetizzare
il panorama offerto dalle diverse disposizioni riducendo tutto ad una decina di figure, comprensive di quelle attive, (in cui l’interesse del titolare del-
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
la situazione prevale perché viene tutelato) e di quelle passive (in cui l’interesse del titolare soccombe di fronte alla tutela di un interesse altrui).
2. Diritto soggettivo e interesse legittimo.
La situazione in cui la tutela dei soggetti è più forte e più diretta prende
il nome di diritto soggettivo.
Alla base vi è una idea unitaria: con il diritto soggettivo la legge vuole
tutelare direttamente un soggetto, attribuendo a costui uno o più strumenti
giuridici di attuazione e di difesa del suo interesse. Sicché il titolare del diritto può chiedere al giudice un provvedimento a lui favorevole dimostrando la lesione di questo interesse (ad es., se il debitore non mi paga o il
venditore non mi consegna la merce che ho acquistato posso chiedere che
il giudice lo condanni; se Tizio offende il mio onore, stampando una pubblicazione diffamatoria, posso chiedere al giudice che gli ordini innanzitutto la cessazione del comportamento lesivo, che proceda ad un sequestro,
che condanni il responsabile a pubblicare una smentita).
Non sempre, tuttavia, un interesse del soggetto è tutelato.
Esistono interessi che non sono tutelati in alcun modo. Ad es. l’interesse ad ereditare il patrimonio di un parente ricco (al di fuori dalla cerchia
degli stretti congiunti) non è protetto neppure a favore dei parenti prossimi, chiamati per legge. Infatti il titolare potrebbe disporre per testamento
a favore di estranei o potrebbe consumare il suo patrimonio senza lasciare
più nulla alla propria morte.
Non sempre, del resto, appare chiara la protezione accordata dalla legge. Prima della recente legge sul trattamento dei dati personali si è molto discusso se si
poteva parlare di un diritto soggettivo alla privacy, cioè alla riservatezza della persona, distinto ed autonomo rispetto al diritto all’immagine, o alla segretezza della
corrispondenza che risultavano certamente tutelati da norme apposite.
Talora l’interesse del privato riceve soltanto una tutela indiretta perché
alla legge sta a cuore, innanzitutto, la soddisfazione dell’interesse pubblico.
Ad es., il candidato che concorre per un pubblico impiego ha certamente un interesse a vincere il concorso, come ciascuno dei partecipanti, ma
questo interesse è subordinato all’interesse della collettività affinché sia
scelto il miglior concorrente. Colui che, alla fine della selezione, non riesce
vincitore potrà lamentarsi presso il giudice competente ma soltanto se sarà
in grado di dimostrare che, prima di tutto, la Commissione giudicante ha
§ 3. Diritti soggettivi assoluti e relativi
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violato le norme di buona amministrazione, e quindi l’interesse pubblico,
non rispettando la legge nello stilare la graduatoria.
Come conseguenza della illegittimità del comportamento della P.A. il
privato potrà lamentare la lesione del suo interesse personale, chiedendone
la tutela soltanto in modo consequenziale ed eventuale, rispetto alla protezione dell’interesse pubblico violato.
La possibilità di agire in giudizio concessa al cittadino dipende dal fatto
che il suo interesse coincide con l’interesse pubblico di cui la legge si preoccupa principalmente. Pertanto, nel nostro esempio, il candidato potrà
ottenere il riconoscimento che gli spetta, impugnando l’esito del concorso,
in modo che questo venga annullato e si rifaccia la graduatoria rispettando
la legge.
In questi casi non si parla di diritto soggettivo ma di interesse legittimo,
rispetto al quale è competente il giudice amministrativo (Tribunale Amministrativo Regionale o TAR; Consiglio di Stato), secondo una fondamentale
ripartizione della nostra giurisdizione che, di regola, riserva la tutela dei diritti soggettivi al giudice ordinario (Tribunale, Corte d’Appello, Corte di
Cassazione).
Di recente è stata allargata, tuttavia, la giurisdizione del giudice amministrativo
in tema di danno arrecato al privato dalla attività illegittima della Pubblica Amministrazione (l. n. 205 del 2000).
3. Diritti soggettivi assoluti e relativi.
Gli interessi che vengono tutelati attraverso lo strumento del diritto
soggettivo si possono dividere in due categorie.
Da un lato vi è una situazione in cui il soggetto, per godere di un bene e
per trarre da esso tutta l’utilità che gli serve, non ha bisogno della collaborazione di alcuno. Anzi, al contrario, ha interesse che gli altri soggetti se ne
stiano alla larga, senza creare disturbo.
Pensiamo al bene rappresentato dall’integrità fisica, dal nome, da una cosa materiale che ci appartiene. Si può dire che la soddisfazione del soggetto,
in questo campo, prescinde da un comportamento attivo di collaborazione
altrui. Al contrario, si ha interesse che gli altri soggetti non interferiscano in
queste attività di godimento e si astengano da ogni possibile violazione.
La legge tutela questo tipo di interessi concedendo al titolare la possibilità di respingere ogni offesa, proveniente da qualunque parte, e di ripristinare, per quanto è possibile, la situazione preesistente. Ciò avviene attribuendo
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
al soggetto, ad es., le azioni petitorie, cioè poste a difesa della proprietà e le
altre azioni, inibitorie, risarcitorie e così via, poste a difesa dei singoli diritti.
Si parla, in questo caso, di diritti assoluti, ovvero di diritti tutelati “contro tutti” (jus erga omnes).
Si può trattare di diritti di natura morale, come il diritto all’onore, al
nome, ecc., ma anche di diritti di natura patrimoniale, come il diritto di
proprietà su di una cosa o il diritto di usufrutto, ecc.
Un diverso genere di tutela si richiede, invece, quando la soddisfazione
dell’interesse di un soggetto non può aversi senza l’attività di altre persone.
Anche i diritti di questo tipo possono concernere interessi di natura
personale come interessi di natura morale. Pensiamo al diritto del figlio in
giovane età di essere educato e mantenuto dal proprio genitore, o pensiamo
al diritto di fedeltà di ciascun coniuge nei confronti dell’altro, ma anche al
diritto alla restituzione della cosa che si è prestata ad un amico o di ricevere il pagamento come corrispettivo della merce venduta, ecc.
In tutti questi casi, poiché è necessaria la collaborazione altrui, la tutela
si attua obbligando un determinato soggetto a prestare la propria opera,
costringendolo, quindi (con mezzi legali, ovviamente, non con la forza fisica), a realizzare il comportamento idoneo a soddisfare il soggetto tutelato.
Si parlerà, in questi casi, di diritti relativi (jus in personam) tenendo
presente che il legame fra le posizioni dei due soggetti, così intimamente
correlate, prende il nome di rapporto giuridico (relazione fra soggetti determinati, regolata dal diritto).
La lesione del diritto (quanto meno, la più rilevante) è quella che deriva
dal comportamento del soggetto obbligato, qualora egli non compia ciò
che deve. La pretesa di ottenere il comportamento dovuto, che spetta al
soggetto tutelato (titolare della situazione soggettiva attiva o soggetto attivo
del rapporto), si rivolgerà infatti esclusivamente nei confronti dell’altro
soggetto (soggetto passivo del rapporto). Conseguentemente non si potrà
prospettare una violazione del diritto se non in quanto proveniente da un
atto di inadempimento del soggetto obbligato.
4. Considerazioni sul rapporto giuridico.
Taluno parla di rapporto giuridico anche a proposito di diritti assoluti,
ma l’uso di tale espressione non appare corretto.
In primo luogo non lo è se si vuole alludere alla relazione tra il soggetto
e il bene, perché i rapporti giuridici possono concepirsi soltanto nella rela-
§ 5. Situazioni minori: facoltà, poteri
41
zione di soggetti fra loro (nel rapporto giuridico viene infatti regolata la
subordinazione di un interesse ad un altro). In secondo luogo non sarebbe
opportuno usare tale espressione per riferirsi ai rapporti fra il titolare del
diritto assoluto e gli altri soggetti, perché appare eccessivo fingere l’esistenza di innumerevoli e indeterminati rapporti fra un soggetto e tutte le
altre persone, conosciute o sconosciute, che potrebbero offendere il bene
tutelato. Sarebbe come dire che ciascuno di noi è gravato da una serie indeterminata di obblighi di non danneggiare e di non ledere nei confronti
di chiunque sia il nostro prossimo.
Si consideri, ad esempio, l’azione con cui chiedo la restituzione di un bene di
mia proprietà detenuto da un altro soggetto: se il bene era stato consegnato ed era
stato goduto in base ad un precedente accordo (contratto di comodato, di locazione, di usufrutto, ecc.) ed è scaduto il termine entro cui era concesso il godimento,
l’azione si configura come una azione personale di restituzione, dove basterà provare che il precedente rapporto contrattuale è cessato e perciò non si giustifica più il
godimento altrui. Se invece, di fatto, altri gode di un bene di mia proprietà senza
che tra di noi sussistesse un precedente rapporto, l’azione si configura come
un’azione reale (rivendicazione) che tutela il mio diritto esclusivo sul bene, e qui
sarà necessario provare l’acquisto del titolo di proprietà che vale erga omnes, la c.d.
probatio diabolica, sulla quale v. infra, Cap. 37, par. 5 (Cass. n. 7305 del 2014).
Dobbiamo quindi riservare la nozione di rapporto giuridico soltanto al
campo dei diritti relativi.
Là dove esiste un diritto assoluto (cioè tutelato erga omnes), se interviene da parte di qualcuno una lesione dell’interesse tutelato può sorgere un
rapporto giuridico, ma soltanto come conseguenza della violazione del diritto stesso, in quanto il responsabile è obbligato dalla legge a cancellare –
per quanto è possibile – la lesione stessa o a risarcire il danneggiato.
Dunque, in tali casi, il rapporto giuridico non sorge contemporaneamente al diritto assoluto, ma solo come conseguenza della violazione di tale
diritto, procurata, in certe condizioni, da un soggetto determinato.
Potremmo sintetizzare dicendo che nei diritti assoluti il rapporto giuridico nasce dopo la violazione del diritto, mentre nei diritti relativi il rapporto giuridico sussiste necessariamente prima della violazione.
5. Situazioni minori: facoltà, poteri.
Se si esamina quello che potrebbe essere considerato il “contenuto” del
diritto soggettivo, ad es. per quanto riguarda il diritto di proprietà di un
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
terreno, si può osservare che il titolare del diritto può concretare il suo godimento svolgendo diverse attività di carattere materiale (ad es. costruendo
una recinzione, coltivando il fondo in vari modi, scavando il terreno, ecc.,
ovvero modificando la propria sfera di diritti e obblighi per quanto concerne il bene in questione, cioè costituendo una servitù di passaggio a favore del vicino, concludendo un contratto di locazione, spogliandosi addirittura del bene con un atto di alienazione).
Possiamo usare il termine facoltà per indicare la possibilità di tenere determinati comportamenti leciti che rappresentano atti di godimento di un
bene (o, più in generale, di una situazione materiale o giuridica) e il termine
potere per indicare l’attitudine ad esprimere atti di volontà che producono
determinati mutamenti giuridici nella sfera del soggetto stesso o di altri.
Se manca il potere, la volontà del soggetto non riesce a produrre gli effetti modificativi che interessano, e quindi l’atto sarà inefficace, se invece manca la facoltà
di tenere un certo comportamento si commette un illecito nei confronti del titolare di una situazione giuridica (che dovrà essere eventualmente risarcito) o nei confronti dell’ordinamento, che pone un divieto.
Vi sono tuttavia delle ipotesi in cui il soggetto, pur esercitando una facoltà
concessagli dalla legge, deve comunque indennizzare la controparte per le conseguenze negative che si ripercuotono su di essa. Si potrebbe parlare perciò di indennizzo da atto lecito, cfr., ad es. gli artt. 843, 1328, 2227.
Il termine “diritto soggettivo” assume allora un significato più pregnante in
quanto, dietro alla figura che si presenta come unitaria, si possono intravedere e
analizzare i diversi contenuti di cui abbiamo parlato.
Le facoltà e i poteri, che rappresentano il contenuto di un diritto, non godono
di una tutela autonoma (rispetto al diritto considerato unitariamente nel suo
complesso) e neppure si perdono autonomamente fin che dura il diritto.
Ad es., se Tizio ha una servitù di passaggio sul fondo del vicino, che gli consente di passare con qualunque mezzo, compresi quelli agricoli o commerciali, e
poi per venti anni egli non esercita alcun passaggio, perde il diritto di servitù per
prescrizione, ma se egli invece riduce il suo godimento passando solo con alcuni
mezzi o a piedi, questo “minore” utilizzo è pur sempre sufficiente per non far perdere a Tizio le altre facoltà che non sono state esercitate, sicché egli conserva integro l’intero diritto in quanto le singole facoltà non si prescrivono (in facultativis
non datur praescriptio).
Le facoltà e i poteri sono situazioni soggettive che meritano di essere
studiate distintamente rispetto al diritto. In primo luogo perché ne rappresentano una frazione ben identificabile al suo interno, che forma oggetto,
talora, di una disciplina speciale imposta dalla legge (si pensi, ad es., alla
§ 5. Situazioni minori: facoltà, poteri
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facoltà di edificare sul proprio terreno, che è sottoposta a concessioni o autorizzazioni statali) o voluta dal titolare stesso (si può rinunciare a esercitare una facoltà, ad es., Tizio si obbliga contrattualmente nei confronti del
vicino di casa a tenere il proprio terreno coltivato a prato). In secondo luogo perché possono esistere anche facoltà e poteri come situazioni giuridiche a sé stanti, svincolate da un diritto soggettivo o da un obbligo.
È immaginabile una facoltà “allo stato puro”, se così si può dire. Supponiamo, ad
es., che il proprietario di un parco conceda al proprio vicino il permesso di entrare e
passeggiare, pur senza impegnarsi a mantenere il permesso per un certo tempo, anzi
riservandosi di revocare ad nutum, cioè a suo arbitrio, tale autorizzazione. Così facendo egli rimuove un limite, cioè concede una possibilità di godimento, materiale,
in questo caso, e quindi una facoltà, che il vicino, prima, non aveva. Dopo tale autorizzazione, dunque, il vicino che entra nel fondo altrui compie un atto lecito, mentre
con lo stesso comportamento, compiuto prima del permesso, egli avrebbe violato il
diritto di proprietà altrui. Tuttavia nell’ipotesi immaginata non esiste un obbligo del
proprietario per il futuro, né un diritto dall’altra parte. Il permesso è precario e dura
fin che non verrà revocato liberamente il consenso dell’avente diritto.
D’altra parte si può creare anche un potere che non sia né oggetto di un diritto
né di un obbligo. Se una persona deve concludere un contratto fuori sede ed è
ammalato, potrebbe, ad es., chiedere ad un amico il favore di presentarsi al posto
suo per firmare il contratto. Contemporaneamente informerà la controparte dichiarando di nominare come suo rappresentante l’amico stesso. Questi, in tal modo, riceve il potere di agire in nome del rappresentato (che viene anche chiamato
dominus negotii) facendogli acquistare immediatamente e automaticamente gli
obblighi e i diritti che nascono dal negozio stipulato in suo nome e per suo conto.
Nella situazione che abbiamo immaginato il potere è stato attribuito all’amico per
mera comodità del dominus e dunque non corrisponde ad un diritto del rappresentante perché non è destinato a tutelare un suo interesse, d’altra parte se costui ha
offerto la propria collaborazione a titolo amichevole, senza assumersi un vero e
proprio impegno (dicendo, ad es.: “se posso ci vado volentieri”) non ha neppure
assunto un vero obbligo giuridico. Il rappresentante è dunque libero – giuridicamente – di svolgere o meno l’attività rappresentativa, e di utilizzare o meno il potere che gli è stato dato (ma sa che il suo comportamento verrà giudicato, eventualmente, sotto il profilo dei rapporti personali, in termini di lealtà e di amicizia).
Al di là di questo esempio, il potere di agire in nome e per conto di altri, nella
maggior parte dei casi, è collegato con un contratto vero e proprio attraverso il
quale un contraente si assume l’obbligo di agire come rappresentante (ad es. il
commesso di un negozio, in base ad un contratto di lavoro, è obbligato a vendere
merci ai clienti in nome del titolare; l’avvocato, in base ad un contratto d’opera
professionale, è obbligato a rappresentare il cliente in giudizio).
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
6. Diritto potestativo, potestà.
Talora uno speciale potere di agire viene concesso dalla legge appositamente perché il soggetto possa soddisfare un proprio interesse.
Il fatto singolare, in tale situazione, sta nella possibilità di influire anche
sulla sfera giuridica di altre persone, (facendo nascere obblighi o facendo
estinguere diritti, poteri, ecc. di cui altri sono titolari) senza che costoro
debbano o possano farci nulla, perché la modifica giuridica avviene per effetto della dichiarazione di volontà di una parte sola e, contrariamente a
ciò che avviene di solito, per produrre tale risultato basta un atto unilaterale dell’interessato, senza bisogno di ricorrere al giudice.
In questi casi, che sono, evidentemente, eccezionali, si parla di un diritto potestativo. Ad es. nella vendita con patto di riscatto il venditore ha il
potere di riscattare la cosa venduta, restituendo il prezzo e rimborsando le
spese, in modo da riacquistare la proprietà del bene; nella locazione l’inquilino può sciogliere il contratto di locazione inviando una disdetta al locatore con il preavviso stabilito dalla legge; il socio in una società di persone, nei casi previsti dalla legge o dall’atto costitutivo, può recedere ad una
data stabilita, senza che gli altri soci abbiano mezzi per impedirlo.
La situazione giuridica contrapposta, in cui si trovano coloro che devono subire tali modifiche, volute da altri, viene chiamata soggezione.
In altri casi un potere viene attribuito ad un soggetto non già per soddisfare un
suo proprio interesse, ma piuttosto per soddisfare un interesse altrui (ad es. ai genitori è attribuito il potere di rappresentanza da esercitare nell’interesse dei figli
durante la loro minore età, quindi un potere da utilizzare con prudenza, per compiere gli atti necessari e utili in nome e per conto dei minori).
In casi come questi si parla, di un potere-dovere, che viene chiamato potestà o
anche ufficio di diritto privato.
Tradizionalmente i poteri familiari cui erano soggetti i figli spettavano al padre e prendevano il nome di patria potestà. Con la riforma del diritto di famiglia
del 1975, venivano attribuiti congiuntamente ad entrambi i genitori – almeno in
linea di principio – e prendevano il nome di potestà dei genitori; oggi, con la Riforma della filiazione del 2012-2013, prendono il nome di responsabilità genitoriale.
Altri esempi di poteri vincolati da esercitare nell’interesse altrui possono essere
quelli del curatore dell’eredità giacente o del curatore fallimentare.
§ 8. Stato della persona (status)
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7. Aspettativa.
Ad una situazione di tutela di un soggetto si può anche arrivare per
gradi, nel senso che può essere necessaria una certa sequenza di fatti per
produrre l’acquisto del diritto. Se la serie di eventi previsti dalla legge non
è completa può darsi che non vi sia nessuna tutela, e si parla allora di
aspettativa di fatto, o che vi sia invece una tutela, ancorché provvisoria e
più limitata, e si parla allora di aspettativa di diritto.
Se lo zio d’America ha fatto un testamento in favore di un nipote, ma non è
ancora defunto, la persona che viene nominata nel testamento non avrà nessun
mezzo per tutelare questa sua aspettativa, perché, come si sa, il testamento può
essere sempre revocato liberamente dal testatore ovvero può darsi che il proprietario dilapidi le sue sostanze finché è ancora in vita. Ma se lo zio è già defunto e
nel suo testamento ha nominato erede il nipote a condizione che questo si laurei in
giurisprudenza, l’erede istituito non potrà ancora accettare finché non si avvera la
condizione (si dice che è sospesa la delazione, cioè l’offerta), però potrà godere di
azioni a tutela della sua aspettativa affinché sia conservato integro e sia protetto il
patrimonio che un giorno egli potrà acquistare.
Altro esempio: se Tizio si compra la casa in una città, sottoponendo il suo acquisto alla condizione di esservi trasferito dal proprio datore di lavoro, egli può
ben difendere le sue ragioni anche se non è ancora divenuto proprietario, chiedendo al giudice di emettere determinati provvedimenti (ad es. un sequestro) qualora, durante lo stato di pendenza, sia messa in pericolo la conservazione del bene
o l’acquisto del diritto.
8. Stato della persona (status).
Lo stato della persona o status è una qualifica del soggetto con particolare rilevanza giuridica nei confronti dell’ordinamento stesso. Dallo stato
della persona trae origine tutta una serie di situazioni giuridiche attive e
passive.
Si pensi allo stato di cittadino, che ha rilevanza eminentemente pubblicistica (obblighi di prestare il servizio militare o civile, diritti elettorali attivi e passivi, ecc.) e, nel campo del diritto privato, allo stato di coniuge, o a
quello, ormai unificato, di figlio, che generano rapporti non solo fra stretti
congiunti, ma anche fra parenti più lontani (il diritto a succedere nella vocazione legittima si estende fino al sesto grado di parentela).
Tali qualifiche, oltre che essere indisponibili da parte dei privati, sono
così importanti che il diritto civile ha previsto la possibilità di accertare o
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
di contestare lo stato della persona attraverso un giudizio autonomo e cioè
senza altre finalità che l’accertamento stesso. Tizio, ad es., se nato fuori del
matrimonio, può esercitare l’azione (imprescrittibile per lui) per farsi dichiarare figlio di Caio senza che ci sia bisogno di giustificare altrimenti
questa iniziativa (e cioè senza avanzare alcuna pretesa successoria o alimentare).
Esiste inoltre un sistema per far conoscere ai terzi lo stato della persona
attraverso pubblici registri (detti appunto di stato civile) dove si trascrivono gli atti che riguardano lo stato come gli atti di nascita, di matrimonio,
l’accertamento giudiziale dello stato di figlio o il riconoscimento del figlio
effettuato da ciascun genitore.
Si tenga presente che non tutte le qualifiche sono degli status. La qualità di parente, ad es., può essere giuridicamente rilevante ai fini della chiamata a succedere
(in mancanza di coniuge, figli, genitori, ascendenti o collaterali del defunto, se
non vi è testamento, la legge chiama a succedere i parenti fino al sesto grado), ma
tale qualifica non è suscettibile di accertamento autonomo. Essa diviene oggetto
di accertamento da parte del giudice solo in quanto costituisca un presupposto
necessario per accogliere una domanda specifica presentata dall’interessato (ad es.
qualora questi pretenda di ottenere l’eredità di Tizio dovrà dimostrare che ne è il
parente prossimo, in mancanza di più stretti congiunti).
9. Situazioni passive: dovere, obbligo, onere.
Là dove esiste un diritto assoluto in capo ad un soggetto, gli altri cittadini devono soltanto rispettare la situazione di godimento del bene in questione, senza turbare o interrompere questa attività.
Si parla allora di un generico dovere di non arrecare danno (alterum
non laedere). Generico, perché è indeterminata la persona di colui che deve adempiere e anche perché non è definito precisamente il comportamento dovuto, anche se invece è ben chiaro che cosa non si può fare.
Là dove, invece, esiste un diritto relativo vi sarà un soggetto che deve
tenere un determinato comportamento idoneo a soddisfare la controparte.
Se si vuole usare un linguaggio corretto si parlerà, in tal caso, di obbligo,
se il comportamento dovuto è prevalentemente di carattere personale o
morale (obbligo di educare i figli, obbligo di fedeltà fra coniugi) ovvero di
obbligazione, se il comportamento dovuto (che si chiama prestazione) ha
natura patrimoniale (ad es. l’obbligazione di pagare il prezzo di una merce
o di risarcire il danno da inadempimento).
§ 10. Le obbligazioni “propter rem”
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Nel linguaggio comune, tuttavia, si usa spesso (e impropriamente) il
termine obbligo al posto di obbligazione (ad es. gli obblighi dell’erede, del
conduttore).
Si parla invece di onere quando il soggetto deve tenere un determinato
comportamento non già per soddisfare un interesse altrui, ma nel proprio
interesse, per realizzare un requisito previsto dalla legge o da un contratto
al fine di ottenere un effetto vantaggioso (ad es., se il contraente intende
valersi della clausola risolutiva espressa, art. 14562, ha l’onere di dichiararlo
alla controparte, altrimenti il contratto non si scioglie; se vuole esprimere
validamente la volontà negoziale ha l’onere di adottare una determinata
forma, art. 1350).
Questo concetto di onere, come situazione soggettiva contrapposta all’obbligo,
non va confuso con la nozione di onere o modus quale elemento accidentale del
testamento o della donazione. Si tratta di un peso imposto dal testatore all’erede o
al legatario (ti lascio questa villa di famiglia, con l’onere di apporvi una lapide che
ricorda gli antichi proprietari; ti istituisco erede con l’onere di destinare ogni anno
una percentuale delle rendite a favore di un ente di beneficenza). Quando si accetta l’eredità o si acquista il legato si acquista anche l’onere, e cioè sorge una vera
e propria obbligazione in modo tale che chiunque vi ha interesse (basta anche un
interesse morale) può chiederne l’adempimento all’erede onerato.
10. Le obbligazioni “propter rem”.
Ben conosciute dal nostro codice sono le obbligazioni reali o “propter
rem”. Esse consistono in una prestazione di dare o di fare, che rappresenta
il contenuto di una obbligazione ambulatoria, cioè di una obbligazione in
cui la persona del debitore non è fissa, ma può cambiare in quanto viene
individuata, di volta in volta, nel soggetto che acquista il diritto di proprietà o altro diritto reale sopra un certo bene.
In tal modo il nuovo titolare della cosa assume automaticamente anche
la veste di debitore in un rapporto giuridico preesistente (in quanto proprietario diventa anche debitore).
Una volta individuato il nuovo debitore, questi risponde personalmente
con tutto il proprio patrimonio, secondo le regole generali delle obbligazioni (art. 2740). Poiché obbligata è la persona manca una vera garanzia
reale specificamente gravante sul bene.
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
L’obbligo matura quando si verifichino certi presupposti, che, in generale, possono ascriversi a due cause:
1. L’esigenza di conservare o rendere più comodo un diritto altrui su di un bene. Ad es., il proprietario del fondo servente può essere tenuto (eccezionalmente) a
compiere prestazioni accessorie in base al contratto costitutivo della servitù, per
rendere possibile l’esercizio della stessa (art. 1030) o per conservarla (art. 10692).
Se venisse alienato il fondo servente passerebbero anche tali obblighi al nuovo
proprietario.
2. L’esigenza di suddividere le spese per il godimento o la conservazione di un
bene (mobile o immobile) fra coloro che ne traggono vantaggio. Ciascun partecipante alla comunione deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione
e il godimento della cosa comune (art. 1104) e se il bene viene ceduto l’acquirente
diventa debitore di tali prestazioni in solido con il cedente. Le riparazioni del muro comune sono a carico di tutti quelli che vi hanno diritto (art. 882). Le spese per
la costruzione del muro di cinta gravano per metà sui due proprietari vicini (art.
886). In sostanza tali debiti competono a colui che ha il diritto reale sulla cosa.
11. I c.d. oneri reali.
È una figura giuridica non prevista dal codice civile attuale, e quindi è possibile descriverla soltanto facendo riferimento ad istituti antichi quali censi, livelli e decime, spesso risalenti nel tempo, fino a ricollegarsi all’ordinamento feudale. Non
si può tuttavia escludere che siano ancora in vigore (sia pure in misura quanto mai
limitata e sporadica) antichi oneri anteriori al codice del 1865, per i quali una apposita disposizione di attuazione di tale testo legislativo prevedeva appunto la
continuazione. Poiché col nuovo codice del 1942 nulla di nuovo è stato disposto
in proposito, si ritiene che tali rapporti si siano conservati. È consentita peraltro la
affrancazione da tali oneri, sulla base del principio che vede con disfavore l’esistenza di pesi perpetui sulla proprietà.
Le servitù, come è noto, non hanno per oggetto un comportamento attivo, cioè
un obbligo di fare, del titolare del fondo servente (servitus in faciendo consistere
nequit), ma questi è semplicemente costretto a sopportare il godimento del titolare
del fondo dominante. In contrapposizione con la servitù, l’onere reale consiste
invece in prestazioni di dare o fare periodiche, poste a carico del proprietario di
un fondo. Il comportamento è dunque quello proprio delle obbligazioni, ma si
dice che è gravato il fondo, sia perché la posizione di obbligato è ambulatoria, cioè
segue la titolarità del diritto reale sul bene (sarà obbligato colui che acquisterà il
bene, come nelle obbligazioni propter rem) sia perché il fondo garantisce, con il
suo valore, l’adempimento, in modo tale che il creditore può assoggettare all’esecuzione forzata il fondo, in caso di inadempimento, anche se nel frattempo questo
è stato alienato. Di conseguenza, il perimento del fondo (si pensi ad una frana o a
§ 11. I c.d. oneri reali
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una alluvione) fa cessare la garanzia ed impedisce il sorgere del tributo. Uguali
conseguenze produce l’abbandono del fondo (c.d. abbandono liberatorio).
Anche se il diritto di seguito e la garanzia fanno pensare all’ipoteca, nell’onere
reale si manifesta, tuttavia, una situazione diversa perché la garanzia è intimamente
connessa con l’obbligo, nascendo con esso dalla stessa fonte, mentre nell’ipoteca vi è
un debito principale (con una sua fonte) e l’eventuale garanzia non può che nascere
da un diverso titolo (legge, contratto) restando comunque un rapporto accessorio.
Proprio per l’aspetto della garanzia, fornita al creditore dal fondo stesso, non
si può ammettere oggi la creazione di tali situazioni da parte dell’autonomia privata, mediante contratto o testamento, dato che si determinerebbe una deroga non
consentita alle norme sui privilegi, inventando un diritto reale di garanzia di nuovo tipo. Si deve concludere, pertanto, che sono inammissibili oneri reali non previsti espressamente dalla legge (oneri atipici).
La giurisprudenza ha parlato recentemente di oneri reali in un senso
tutt’affatto diverso da quello tradizionale, per sottolineare che certi obblighi di fare o non fare, che gravano sul proprietario di un appartamento in
un condominio, in caso di vendita, si trasmettono anche al nuovo acquirente. Non ostante l’appellativo che è stato usato, questi obblighi rientrano
piuttosto nella nozione descritta nel paragrafo precedente di obbligazioni
propter rem. Analizzando le sentenze che hanno statuito in materia si scopre che la trasmissione si determina, per lo più, perché il nuovo proprietario accetta contrattualmente anche di subentrare in tali obblighi oppure
perché vi è stata trascrizione del peso imposto al proprietario nei registri
immobiliari.