SOMMARIO Tra gli ultimi rappresentanti della Scuola di Francoforte, Oskar Negt ricopre senz’altro un ruolo particolare per via del suo sforzo continuo di conversione della teoria in prassi politica; uno sforzo che ha riscontri diretti con la sua formazione teorica, maturatasi all’interno dei movimenti di protesta degli anni ’60 e confluita nella sua più recente attività sindacale. Ma ciò che segna decisamente l’esperienza intellettuale e l’impegno sociale di Negt in questi ultimi trent’anni è l’incontro con Alexander Kluge, figura emblematica dell’ultima generazione di registi tedeschi. Con l’intento di pensare il concetto di politico con «fantasia sociologica» come vien detto espressamente da entrambi - si apre la collaborazione di Negt con Kluge. Si tratta di una collaborazione profonda, radicale, tra due pensatori che nel lavoro teorico comune intorno al rapporto tra concetto e immagine trovano il naturale completamento delle proprie rispettive concezioni di pensiero e agire politico. Di questa collaborazione, che già annovera lavori come Öffentlichkeit und Erfahrung (Sfera pubblica ed esperienza, 1972) e Geschichte und Eigensinn (Storia e ostinazione, 1981), diamo qui un breve riscontro, riportando la “Prefazione” (pp. 9-11) con cui Negt e Kluge, nell’autunno del 1991, presentano il loro ultimo lavoro: Massverhältnisse des Politischen. 15 Vorschläge zum Unterscheidungsvermögen, (Fischer Taschenbuch Verlag, Francoforte s/M. 1993) si alimenta il politico si sottraggano in maniera sorprendente alla definizione. Essi evidenziano metamorfosi alterne, cioè ad essi è estraneo il “rapporto con la realtà”, che vale invece per la tecnica e per i rapporti di vicinanza umani. Nella misura in cui gli elementi e le fonti del politico si lasciano cogliere, hanno la loro forza soprattutto nelle “forme”. Le energie e le qualità politiche necessitano di “tempo”, di “luoghi riconoscibili”, di “capacità di autonomia dei soggetti”, incluso un felice collegamento tra spontaneità e durata; necessitano di un fronteggiarsi oggettivo (superficie di attrito), del libero alternarsi tra ripiegamento all’indietro (sonno, pausa, sgravio) e concentrazione delle forze (solidarietà, tutela, veglia), ed altre cose ancora. I parametri (le forme) si unificano nel politico in senso emancipatorio quando trovano una misura reciproca: si parla allora di “dimensioni del politico”. Anche “senza” questa misura, dunque in un modo privo di riguardi, si ha un risultato politico. Questo risultato, però, è quasi sempre indifferente rispetto alla questione dell’emancipazione, dell’autonomia soggettiva e non fonda una comunità. Non prendendo in considerazione le dimensioni del politico, si forma in ogni caso un ambito professionalizzato del politico, a cui mancano sistematicamente la dimensione storica della liberazione individuale e dell’organizzazione razionale della società. Chernobyl, come effetto a distanza che disintegra la sovranità dei paesi, “distrugge” le dimensioni. Lo Stato, che riceve la sua legittimazione dalla difesa dal pericolo, non riesce ad opporre, «politicamente», niente alla pioggia radioattiva. Se le si osserva, l’auto-dissoluzione del «socialimo realmente esistente» e la riunificazione tedesca contengono senz’altro in sé ricche dimensioni; ma l’evoluzione velocissima non ha lasciato a nessun elemento il “tempo necessario al suo sviluppo”. La crisi del Golfo è stata letteralmente una provocazione per la “dimensione visiva”: le immagini della CNN, la censura militare (le immagini sostitutive), la situazione storica distorta, il rifiuto della realtà, a prescindere dal fatto che si partecipasse alla cosa dall’interno dell’apparato militare del Vicino Oriente o standosene a casa, di fronte alla televisione, creavano una situazione confusa, che non poteva far altro che imbrogliare il giudizio pratico. Nessuno, in queste condizioni, può mantenere intatta la propria facoltà di discernimento. Questa e altre ancora sono sfide obiettive, sotto il cui effetto ci avviciniamo alla fine di questo secolo. Evidentemente esiste la necessità di una capacità di giudizio politico più acuta. Per questo l’analisi delle dimensioni del politico è istruttiva. Non è possibile aumentare o regolare le materie prime e i gradi di intensità del politico. Ma il fatto che essi trovino misure e forme, in cui si possono esternare pubblicamente, e dunque anche ritrovarsi reciprocamente, è la condizione della possibilità di ogni prassi. Allo scopo di preparare questa condizione, proponiamo una serie di contributi, variazioni, da punti di vista diversi, sullo stesso tema: le dimensioni del politico. Da trent’anni siamo abituati a muoverci attivamente all’interno del contesto politico e a concepire come politiche molte delle nostre attività. Non abbandoneremo questa abitudine. Il fatto che vi siano modi di comportamento politico che ci sembrano ovvi è uno dei motivi per cui non vediamo nessuna ragione di fare del “politico” l’oggetto di particolari riflessioni. In alcuni casi, abbiamo comunque notato, nell’ambito di analisi approfondite (della sfera pubblica, della forza lavoro, dell’organizzazione storica delle capacità di lavoro, ecc.), che appena l’attenzione si rivolgeva al politico, questo oggetto scompariva - il “politico” rimaneva soltanto una domanda e ciò che ufficialmente si intendeva con politica prendeva sempre più le caratteristiche di qualcosa di mutato e di falso. Dal 1972 abbiamo fatto, singolarmente ed in comune, tentativi di analisi di questo insieme distorto che chiamiamo “il politico”. Ci siamo affaticati a elaborare progetti e teorie per giungere ad una correzione delle distorsioni di questo concetto, che è evidentemente troppo compatto e al quale si richiede troppo dal punto di vista della teoria e troppo poco dal punto di vista della prassi. A seconda che si cerchi di definire una correzione delle distorsioni adottando i punti di vista di Carl Schmitt, Jürgen Habermas, Karl Korsch, Montesquieu, Clausewitz o Robert Musil, si ottengono tratti diversi del concetto. Ciò che è distorto si rispecchia in ognuno di questi tratti. Evidentemente questo non dipende dall’incapacità degli autori, da una mancanza di distanza o di vicinanza, ma dalla cosa stessa. Presumiamo che il politico, come “concetto sostanziale” dell’analisi, sia inaccessibile. Sempre più forte è divenuta l’impressione che anche gli elementi e le componenti di cui (Traduzione dal tedesco di Laura Troiero) 2 SOMMARIO 5 DIALOGO 5 La scuola di Francoforte 46 Sul rapporto tra Sartre e Merleau-Ponty 48 NOTIZIARIO 11 INTERVISTA 51 CONVEGNI E SEMINARI 11 Comunitarismo liberale 51 Le passioni di Simone Weil 17 AUTORI E IDEE 52 Sull’immaginazione in Kant 17 Il soggetto in gioco 52 Il mito di Edipo 18 Giustizia e morale 53 Hjelmslev oggi 20 Contro la filosofia 53 Biologia e cultura 20 del rovesciamento 54 Blumenberg: mito, metafora, modernità 21 In ricordo di Agazzi 56 Vico, nel 250° anniversario della morte 22 Pragmatismo americano: Rorty e Bernstein 58 Il ritorno del mito 23 Peirce 60 L’ultimo Merleau-Ponty 24 Sul progresso 61 Storia e metodo in Hegel 25 Caos e linguaggio in Hacking 61 Computer, parola, pensiero 27 Sull’etica in Francia 64 Interpretazioni dello storicismo 65 Capire la filosofia 66 Foucault: archeologia dei saperi 27 TENDENZE E DIBATTITI 28 La filosofia italiana in Francia 68 CALENDARIO 29 Politica e filosofia 31 Liberalismo e società moderna 32 Destra e sinistra 69 DIDATTICA 34 La razionalità dell’ermeneutica 69 Manuali di filosofia a confronto (III parte) 36 La lanterna magica dello storico 73 Interventi, proposte, ricerche 38 Realtà virtuale 74 STUDIO 39 Primo piano: Alle soglie della terza rivoluzione digitale 74 Filosofia in sei ore e un quarto 74 Le sei idee estetiche di Tatarkiewicz 41 PROSPETTIVE DI RICERCA 41 L’antropologia filosofica di Gehlen 76 RASSEGNA DELLE RIVISTE 42 Nuova traduzione della ‘Critica del Giudizio’ 42 L’empio Vanini 81 NOVITÀ IN LIBRERIA 43 Ernesto de Martino, filosofo 43 Husserl su Heidegger 44 L’estetica di Hegel ... in prospettiva 46 Etica e giustizia in Aristotele 3 DIALOGO Oskar Negt (foto di M. Totaro) 4 DIALOGO Nell’ambito di un ciclo d’incontri dedicato grammi e tecniche che servono a formare il ai pensatori tedeschi contemporanei e orga- profilo professionale di un individuo. Quenizzato dal Goethe-Institut di Milano in col- sto termine possiede però un significato più laborazione con il Dipartimento di Filosofia profondo, legato al momento di identificadell’Università degli Studi di Milano, il gior- zione dell’uomo come essere dotato di capano 11 maggio 1993 si è svolto un dialogo tra cità di plasmare se stesso nei confronti della Oskar Negt (Technische Hochschule di Han- natura, relativamente alla domanda su come nover) e Francesco Moiso (Università degli sia possibile ottenere dalla personalità umaStudi di Milano). na un carattere di totalità di formazione, Nella sua introduzione al dialogo, France- uguale e distinto dal carattere di totalità sco Moiso ha richiamato una considerazione ordinato che la natura rivela all’umanità di Theodor W. Adorno, posta all’inizio de moderna attraverso gli occhi dell’indagine La dialettica negativa (1966), secondo cui il scientifica. Questo concetto di Bildung ha bisogno della filosofia continua a sussistere però subìto successive semplificazioni, a perché la filosofia non si è ancora realizzata. mano a mano che il suo ideale è stato incarUna frase alquanto enigmatica, ha osservato nato dalla riforma humboldtiana dell’uniMoiso, che afferma e nega al tempo stesso versità, che pur ponendosi a servizio di queche la filosofia, oggi, possa rappresentare un sto ideale di formazione, ha lasciato che esso bisogno dell’umanità. Da un lato, infatti, si si frantumasse ad opera della specializzaziopropone un programma di realizzazione; ne (ad esempio con la scissione tra filosofia dall’altro se ne afferma la realizzazione come e scienze umane) e in virtù del processo di negazione del bisogno di continuare a filosofare. Da un lato Goethe-Institut s’ipotizza un “andare a termine” in collaborazione con del filosofare nell’attuale cultuUniversità degli Studi di Milano ra; dall’altro si delinea il tentativo di affrontare questa situazione e continuare a filosofare. Non si tratta, tuttavia, di una contraddizione sterile: la stessa Scuola di Francoforte può considerarsi di fatto un prodotto di tale contraddizione. La Scuola di Francoforte (si veda di Rolf Wiggershaus, La Scuola di Francoforte: storia, sviluppo un dialogo storico, significato politico, trad. tra Oskar Negt e Francesco Moiso it., Torino 1992) è un fenomeno complesso. Alla base vi è l’esperienza dell’Institut für Sozialforschung tra le due guerre, prima in Germania e poi in America, con l’esilio di Max Horkheimer. La Scuola si orientava verso ricerche sociologico-psicologiche nel contesto di riflessione a cura di Riccardo Ruschi di una “teoria critica della società”, con lo scopo di svelare il funzionamento tecnicizzazione della scienza. La Scuola di profondo delle strutture della società moder- Francoforte, ha osservato Moiso, nasce apna. In un secondo tempo, tuttavia, si delinea punto, storicamente, con la fondazione di un il legame della Scuola con l’esperienza del- istituto di sociologia, che significava non la critica marxista sia nel mondo culturale solo studio empirico del materiale proposto tedesco, che al di fuori di esso. Da questa dalla società, ma tentativo di cogliere da un complessità, ha fatto notare Moiso, nasco- punto di vista unitario ciò che rendeva l’uono due questioni, che sono caratterizzanti mo alienato e inautentico, dominato da ogdella vicenda della Scuola di Francoforte. getti, in una società sempre più alienata, nel La prima questione poneva la domanda se si proprio tentativo di specializzazione, e sempoteva parlare di una vera e propria “scuola” pre più dominata da una sorta di inautentiper tutto un gruppo di pensatori che si pone- cità dello specialismo, cioè dominata dal vano in una prospettiva di diversità e con- tecnicismo e dall’imposizione di bisogni, traddizione nei confronti della loro stessa dovuti all’induzione delle strutture politiappartenenza alla scuola. La risposta non co-tecnologiche. poteva che essere affermativa. Emergeva, La seconda questione, che caratterizza il infatti, una sorta di ethos filosofico comune fenomeno della Scuola di Francoforte, ria tutti questi pensatori, che consisteva, para- guarda l’incrociarsi di aspetti marxisti e teodossalmente, nel presentarsi come eredi di logici - ad esempio nelle concezioni di Benjauna grande tradizione tedesca, quella della min e Adorno - e si riconosce nel tentativo di costruire una teoria critica della società per Bildung, pur contrastandola. Il termine Bildung ha oggi acquisito il signi- recuperare un modo autentico di vivere e di ficato di istruzione, cioè l’insieme di pro- rapportarsi sia con la società, che con la La Scuola di Francoforte 5 natura. In questa prospettiva, ha fatto notare Moiso, elementi apparentemente disparati si trovano uniti in una paradossale e reale continuità con l’ideale della Bildung, in una situazione storica profondamente mutata. A questo proposito, ha ricordato Moiso, il programma della Scuola di Francoforte è intimamente connesso con i dibattiti politici del dopoguerra e con i movimenti degli anni ’60-’70: un’esperienza politica, e insieme necessariamente filosofica, a cui è legata, in particolare, proprio la vicenda intellettuale di Oskar Negt. Di fatto, nonostante il parziale ritorno di Adorno e le incertezze di Habermas, si era creata la necessità, per gli studenti, di liberarsi da una politica, ereditata dagli anni ’50, che era divenuta opprimente. Proprio questo tentativo si ricollegava alla natura della Scuola di Francoforte prima della guerra, vale a dire alla natura filosofico-politica della Scuola. Oskar Negt (Königsberg 1934) è uno dei più interessanti sociologi tedeschi del dopo-guerra, nonché rappresentante di punta di quella corrente di pensiero che si è venuta a connotare come Scuola di Francoforte. Allievo di Adorno negli anni ’55-’56 e assistente di Habermas per otto anni, Negt sviluppa la propria vicenda culturale all’interno del dibattito studentesco degli anni ’60 e in relazione alle discussioni avvenute in seno al movimento operaio dell’epoca. L’intento teorico e politico di Negt è sempre stato quello di dare un’applicazione “pratica” alla Teoria Critica della Società (nella versione di Adorno, Marcuse e Horkheimer), riprendendo la tradizione marxista da una parte e collaborando con le forze sindacali dall’altra. Tale progetto si è però andato sempre più distanziando dalle linee filosofiche tracciate dalla teoria dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas (con la nota distinzione fra lavoro e interazione). Dopo la morte di Adorno nel 1969, e la diaspora dei suoi vari studenti in diverse università, Negt scelse come sede accademica l’Università di Hannover, dove attualmente insegna. Fra i suoi vari lavori si ricordano: Soziologische Phantasie und explemplarische Lernen (1968; trad. it., Coscienza operaia nella società tecnologica, 1973); Hegel e Comte (1964, trad. it. 1975); Lebendige Arbeit, enteignete Zeit (1987); Modernisierung im Zeichen des Drachens (1988). In collaborazione con Alexander Kluge, uno dei maggiori scrittori e registi tedeschi contemporanei: Sfera pubblica ed esperienza (1972, trad.it. ridotta 1979); Geschichte und Eigensinn (1981); Mißverhältnisse des Politischen (1993). Sulla base di queste considerazioni introduttive ha preso avvio il dialogo tra Francesco Moiso e Oskar Negt, di cui riportiamo qui di seguito lo svolgimento. DIALOGO Moiso. Professor Negt, vorrebbe parlarci dell’evolu- dello stalinismo come prodotto del marxismo; infine l’avanzare di un movimento di pensiero, che presenta anche risvolti concreti e pratici, il positivismo, nel suo caratteristico limitarsi al punto di vista strettamente scientifico. La risposta della Scuola di Francoforte a queste provocazioni è che il mondo non deve essere suddiviso in compartimenti accademici, poiché la specializzazione accademica è espressione di una cattiva e falsa coscienza. Soltanto intraprendendo la strada della filosofia della società e della sociologia è possibile reintegrare il pensiero sociale e quello filosofico. Una sfida epocale, questa, che avrebbe portato ad un momento preciso, ad una risposta e ad una reazione tipicamente tedesche. Se è vero, infatti, che il fascismo è un fenomeno europeo, l’annientamento degli ebrei è un fenomeno solamente tedesco; l’antisemitismo, pur diffuso in altri paesi, raggiunge solo in Germania le dimensioni della persecuzione e del genocidio. Quest’ultima considerazione rimanda alla domanda sul significato che Auschwitz ha per il pensiero occidentale. Per Adorno e Horkheimer la “dialettica dell’illuminismo” è un tentativo di trovare una risposta a una tale domanda: il nazionalsocialismo tedesco non può essere spiegato isolatamente, ma solo in rapporto alla cultura nel suo complesso, compresa la cultura della Bildung definita da Thomas Mann come machtgeschützte Innerlichkeit, interiorità tutelata dal potere - che si spezza. Da questa tradizione politica tedesca, in cui la politica separa l’esteriorità dall’essenza, nasce ora la necessità di un “gergo dell’autenticità”, che lascia riecheggiare qualcosa di Heidegger; un Heidegger, che a proposito dei sociologi affermava che essi si arrampicano soltanto sulle facciate, che non hanno a che fare con l’essere. È una posizione lontana da quella di Adorno e Horkheimer, che invece sostenevano che la superficie è altrettanto importante quanto l’essere. La dialettica dell’essere e dell’apparire è centrale in questo pensiero. Ciò significa che vengono costruite categorie filosoficosociologiche del confronto con l’epoca, i cui effetti, secondo Horkheimer ed Adorno, è compito della filosofia scoprire. Ciò non significa che le loro affermazioni fossero legate soltanto al proprio tempo; bensì che la filosofia ammette e comprende una riflessione epocale. La filosofia sperimenta anche ciò che è comune ad una società, ad una cultura umana, all’antropologia; ed è proprio lo sprofondare nel dettaglio storico a riallacciarla ad affermazioni che hanno valore generale, universale. Non la generalizzazione, quale vi è stata da Aristotele fino ai nostri giorni, rappresenta per noi ciò che è rilevante e interessante: siamo immersi nel tempo, in una micrologia storica. L’analisi del dettaglio, come emerge dalla posizione di Benjamin e anche di Foucault, porta, in una certa misura, lo spirito del tempo a esprimersi, e con esso certamente porta a esprimersi anche un pezzo di pensiero filosofico universale. zione storica della Scuola di Francoforte e del posto che attualmente occupa questa evoluzione nel mutato panorama politico tedesco? Negt. Desidererei mettere in risalto alcuni aspetti di quel grande complesso che è la Scuola di Francoforte. Qualsiasi grande filosofia dà risposte al proprio tempo: nessuna filosofia è fuori dal proprio tempo, affermava Hegel e Fichte osservava che qualsiasi filosofia dipende dal tipo di uomo che si è. Filosofia è comprendere ciò che non sta alla superficie, ciò che è nascosto nelle strutture; di scoprire ciò che è reale. Hegel, ad esempio, formula l’equazione: razionale = reale e reale = razionale. Che cosa siano la realtà e la verità resta per la filosofia una questione centrale. La Scuola di Francoforte è in sé così differenziata perché è strettamente legata a figure di pensatori molto differenti. Tuttavia, essa presenta un contenuto di esperienza comune, che consiste nel fatto che uomini formatisi e venuti dalla cultura borghese della prima guerra mondiale si siano sforzati di cogliere e comprendere che cosa sia questo mondo, che cosa lo costituisca, e abbiano tentato di uscire dalla situazione di miseria in cui si trovavano. A questo proposito, nella Repubblica di Weimar assistiamo a un incredibile proliferare di sistemi filosofici, a molteplici tentativi, assai diversi tra di loro, di cercare delle risposte teoriche, come si può rilevare confrontando i tentativi di risposta filosofica di Adorno e Horkheimer con quelli di Heidegger (1927), e con il tentativo di Lukács di indagare la coscienza storica e di classe. Più o meno allo stesso periodo risalgono non solo il tentativo di Bloch di fissare lo “spirito dell’utopia”, ma anche quello di Wittgenstein: la Scuola di Vienna era totalmente impegnata nello sforzo di cogliere qualcosa di nuovo dalle rovine della catastrofe della cultura borghese. A Francoforte si forma un piccolo gruppo di persone caratterizzato, almeno in origine, da un’ampia e molteplice visuale politica, cui appartengono anche Karl Korsch e Lukács. Questo gruppo si trova a costruire una filosofia dell’età postmetafisica, una filosofia che considera ingannevoli tanto le sicurezze della vecchia ontologia, della dottrina dell’essere, quanto quelle dell’idealismo. Rifacendosi a Marx, al materialismo critico, si cerca, da un lato, di rinnovare determinati modi di pensare e, dall’altro, di riconquistare quanto è andato perduto, come ad esempio il pensiero dialettico, in quanto modo specifico del pensiero, nel quale le contraddizioni vengono contemporaneamente pensate e considerate come elementi attivi e produttivi nello sviluppo del pensiero: una evidente contrapposizione, questa, alle tendenze di pensiero degli anni ’20-’30. Di fatto, è in tal senso che viene costruendosi la struttura portante di quella che possiamo definire la “teoria critica della società”. Questo è ciò che la Scuola di Francoforte era negli anni ’20 e ’30. Vi sono, poi, tutta una serie di provocazioni alle quali la Scuola di Francoforte risponde: innanzitutto il sorgere di un nuovo irrazionalismo, che nel rivestimento e nella funzione politica del fascismo assume le dimensioni di fenomeno europeo, interessando l’Italia, la Francia, la Spagna, la Germania; in secondo luogo, la nascita Moiso. Vorrei parlare ora di qualcosa di più specifico. Negli ultimi anni dopo la morte dei vecchi della Scuola di Francoforte, il dibattito francofortese è stato dominato da due figure. Una, la pragmatica trascendentale di Apel, si è poi distanziata, ma non prima di avere contribuito 6 DIALOGO allo sviluppo della teoria critica di Habermas nel senso, di una teoria dell’agire comunicativo. Il problema che Habermas pone è quello di una società in cui la comunicazione è lineare, naturale, cioè non incontra una risposta inadeguata a causa dell’azione di “ossificate strutture comunicative”, legate alle strutture di potere della società. È da rilevare l’ottimismo di Habermas nel porre la questione: l’umanità possiede strumenti per una comunicazione completa, che tuttavia quasi mai si realizza totalmente per la presenza, comunque, di residui di rigidità all’interno della struttura sociale. La distanza di una tale concezione dal pessimismo della Scuola di Francoforte è evidente; anche se in Habermas non si può parlare di un semplice occultamento dell’intima tragicità della dialettica dell’illuminismo e della dialettica negativa di Horkheimer, di Adorno e anche di Benjamin. L’evoluzione della posizione di Habermas risiede, piuttosto, nell’ottimismo di poter controllare totalmente la difficile e suddivisa realtà della nostra società. Mi chiedo però se ciò non sia una sorta di banalizzazione del tentativo, che nei pensatori francofortesi aveva un carattere di estrema disperazione e tragicità, di riuscire a rendere il nostro rapporto con il mondo e la società capace di autenticità, di verità, anche se di una verità non metafisica, ma fatta di risposte sociali. Due, potremmo dire, sono gli indirizzi di sviluppo della Scuola di Francoforte: da un lato una teoria interdisciplinare, che permetta di riannodare le disperse strutture culturali del nostro tempo, come per certi aspetti si può rintracciare in Habermas; dall’altro un pensiero, che a partire dall’esperienza di Adorno, che è quella di un pensiero discontinuo, aforistico, fondato sulla paradossalità del nostro poter ancora accedere ad un rapporto di totalità con il nostro mondo, si mostra poco incline a porsi al centro di una totalità concepita come possibile. In questa tradizione di un pensiero più ellittico, non pensa, professor Negt, di collocarsi Lei stesso, pur essendo stato assistente di Habermas? D’altra parte, mi pare significativo che mentre Habermas, negli anni ’60-’70, insisteva sulla rilevanza eminentemente teorica del movimento politico, Lei cercava il collegamento con la prassi politica, mettendo in evidenza caratteri che, nella realtà, rompevano indubbiamente l’aspetto totalizzante della situazione. Non crede, dunque, che vi sia in Lei una significativa divergenza rispetto alla posizione teorica di Habermas, anche se in un ambito di dialogo e coappartenenza ad una medesima tradizione? stesso tempo, però, un che di utopico emerge in ogni frase dei Minima Moralia: l’attesa, la speranza, che attraverso il rischiaramento, il pensiero, l’autoriflessione, la “fatica del concetto” - così come l’ha definita Hegel, ripetutamente citato da Adorno -, l’uomo possa uscire da una condizione di minorità. Il principio kantiano: «Sapere aude», osa sapere, abbi il coraggio di servirtene, che imponeva all’uomo di uscire dalla propria condizione di fanciullezza e immaturità, di cui egli è il primo responsabile, è, in certo qual modo, il pathos illuministico presente fino alla fine nella filosofia di Adorno. Egli tuttavia non aveva, propriamente, un’idea di prassi politica che avrebbe potuto convertire questo programma di rischiaramento. Per i miei studenti, e in particolare per me, le cose stanno diversamente. Io traggo conseguenze dalle teorie di Adorno, Marcuse, Horkheimer; conseguenze che sono di stampo politico: la pura riflessione non unita alla prassi politica non produce alcuna funzione di rischiaramento. Queste conseguenze hanno significato per me il tentativo di tradurre nella prassi politica il pensiero della Scuola di Francoforte, prima con la militanza nello SDS (Sozialistischer Deutscher Studentenbund ), poi nei movimenti di protesta del ’68; nei sindacati, in seguito nel Partito Socialista e nel Comitato per la democrazia e i diritti dell’uomo, che ho contribuito a fondare negli anni ’80. Il modo di pensare della Scuola di Francoforte rappresenta per me un modello di emancipazione immensamente grande, in quanto a idee e conoscenze, un modello che ha bisogno di essere “convertito”. Ad un certo livello, Habermas ha tratto conseguenze simili; e là mi trovo d’accordo con lui. In Habermas ci sono, si può dire, due livelli di scritti. Da una parte i libri “spessi”, i classici, i capolavori, Die Theorie des kommunikativen Handelns (La teoria dell’agire comunicativo), Erkenntnis und Interesse (Conoscenza e interesse), il confronto con Luhman: si tratta di cose che mi sono estranee; alcune non le comprendo proprio, non le concepisco, anche nel loro significato, benché sia stato per otto anni suo assistente e mi renda conto dell’importanza di questi scritti. Ma Die Theorie des kommunikativen Handelns non è in sé un progetto filosofico; esso offre, piuttosto, le condizioni che rendono possibile la ricerca empirica. È, in un certo qual modo, un suggerimento che la sociologia dovrebbe perseguire per comprendere cosa debba essere la ricerca. Laddove, nella teoria dell’agire comunicativo, vi sono idee che sono politicamente convertibili, lì si tratta esclusivamente dell’idea di una azione orientata alla comprensione, di un agire orientato al consenso: la vecchia idea di comunità interpretante di Apel, secondo cui quando parlo, quando utilizzo la lingua, mi faccio coinvolgere strutturalmente in un dialogo con un secondo essere vivente, dotato di raziocinio, per cui, in certo qual modo - secondo la formulazione di trascendentale data da Kant - sono già coinvolto nell’interpretazione di questa comunità. È un pensiero di notevole portata, risalente addirittura ai dialoghi platonici: quando ottengo che Menone o Protagora entrino in dialogo con me - e devo spingerli a parlare con me - solo allora, solo se essi si lasciano spingere ad un tale dialogo, ho una possibilità di “illuminarli”, di comprenderli; solo Negt. Si c’è. Ma questo è naturale per un grosso com- plesso di teorie come la Scuola di Francoforte, in cui è ovvio che i suoi appartenenti, nel seguire strade loro proprie, abbiano tratto conseguenze altrettanto proprie dalle dottrine che sono andati elaborando. Habermas stesso ha d’altra parte chiarito in vario modo la propria posizione nei confronti della Scuola di Francoforte. Vorrei tuttavia riprendere la domanda così come mi è stata posta. Innanzitutto vorrei spendere alcune parole sullo sguardo pessimistico di Adorno e Horkheimer, cioè sulla valutazione di un mondo che inizia ad evolversi verso il bene solo con grande difficoltà. Questa valutazione del mondo è senz’altro presente in Adorno. Allo 7 DIALOGO Negt. La mia collaborazione con Kluge risale agli anni allora posso, come Platone in questi dialoghi, rendere loro comprensibile nello stesso tempo l’idea e la partecipazione all’idea. Il problema resta solo in che modo posso coinvolgerli nel dialogo. Se non riesco a coinvolgerli, ne nasce una comunicazione “lacerata”, nella quale non c’è alcuna possibilità di accedere alla verità, che viene frantumata, nascosta. Ciò che con questo intendo dire è che in Habermas il piano classicistico mi è estraneo, mentre mi è molto familiare il piano dell’intervento politico. Laddove egli interviene sull’unificazione tedesca, sul dissidio tra gli storici, vale a dire negli scritti politici, non si riscontrano differenze tra noi. In altre parole, credo che la differenza tra Habermas e me risieda nella mia riluttanza e incapacità a lasciarmi coinvolgere completamente dal discorso accademico. Ho preferito rivolgermi, piuttosto, all’ambito sindacale, al mondo fuori dell’Università. Insegno nell’Università in qualità di filosofo, di sociologo; ma né l’Università, né i miei colleghi, sono la mia patria. Preferisco cercare i miei interlocutori al di fuori dell’Università; mentre Habermas li cerca principalmente al suo interno. Egli ha un volume interpretativo completamente diverso per quanto concerne le varie correnti scientifiche ed una capacità geniale di mettere in comunicazione le culture e renderle reciprocamente traducibili. Habermas appartiene ai grandi filosofi europei che hanno procurato alla filosofia americana un concetto di sé che essa non possedeva, chiarendo agli americani che cosa significhino Dewey, Peirce e il pragmatismo americano; questo lo si poteva fare solo sullo sfondo della tradizione idealistica tedesca, dialetticamente interpretata. Così, attraverso Habermas, gli americani si sono stupiti del contenuto essenziale della loro filosofia, meravigliandosi altresì della portata dei loro filosofi. Questo è uno dei motivi per cui Habermas appartiene al curriculum della filosofia americana, nella misura in cui egli ha avviato un processo di traduzione, nel senso di un vero e proprio rischiaramento, all’interno della tradizione degli studi filosofici americani. È impressionante come Habermas sia giunto a questo; mentre, ad esempio, tra coloro che mi sono più vicini, Marcuse, che ha vissuto a lungo negli USA, non ha voluto, né è stato in grado di farlo. Anche negli USA, Marcuse è infatti rimasto fedele alla tradizione tedesca - Kant, Fichte, Hegel, Marx - e per quanto riguarda l’aspetto politico, come emerge in One Dimension Man (L’uomo a una dimensione), è andato verso un sistema chiuso, senza vie di uscita, molto vicino alla prassi del movimento di protesta di Berkley (1968) un’indizio ulteriore del fatto che il fare prassi non rientrava nel programma pratico della Scuola di Francoforte. 1978-79; un’amicizia che nasce all’interno del movimento di protesta. Kluge stesso è stato anche amico intimo di Adorno. Alcuni suoi film, come Abschied vom gestern, sono una chiara rielaborazione del passato. Un grosso movimento di avanguardia cinematografica, il gruppo di Oberhausen, è stato fortemente influenzato da Kluge. Compito del film è per Kluge rielaborare con materiale figurativo quanto è successo in Germania. Questo è stato per me uno dei motivi fondamentali del mio incontro con Kluge e della nostra collaborazione, confluita nel progetto di pubblicare insieme un libro a quattro mani, Öffentlichkeit und Erfahrung (Sfera pubblica e esperienza, 1972). Ciò che mi ha affascinato di Kluge è il modo in cui egli convertiva i concetti in immagini. All’inizio della mia conoscenza di Kluge sta il riconoscimento che il linguaggio figurativo non è muto, ma persegue, piuttosto, il medesimo senso di rischiaramento del concetto, vale a dire la dialettica di concetto e immagine. Öffentlichkeit und Erfahrung è proprio un tentativo di tradurre la dialettica negativa in relazione alla sfera pubblica, nella prospettiva di un cambiamento della sfera pubblica. Entrambi conoscevamo molto bene Adorno; ma non eravamo soddisfatti della conclusione di Adorno: nella miseria non basta vedere solo la miseria, bisogna anche vederne l’elemento esplosivo, come conseguente possibilità di uscire dalla miseria stessa. Questo è ciò che fino ad oggi Kluge ha ricercato nei suoi film. Oggi Kluge non fa più grandi film, perché il pubblico, come lui stesso afferma, non è più interessato ai suoi film. Oggi, in qualità di avvocato, egli si batte affinché nelle reti televisive private vengano garantiti posti di lavoro per intellettuali, artisti, produttori, riuscendo a ottenere da queste televisioni venti ore di trasmissione settimanali completamente libere dall’influenza degli organismi produttivi di queste stesse televisioni. Anche in questo caso Kluge si richiama a una considerazione presente in Öffentlichkeit und Erfahrung , in cui si dice che non esistono situazioni così miserabili nella storia della società da cui non sia possibile uscire. Ogni situazione ha una sua via d’uscita: bisogna solo usare la nostra ragione e il nostro intelletto per cercare queste vie d’uscita. La ricerca di vie d’uscita è ciò che in particolare mi ha legato a Kluge. Non vogliamo il privilegio di dimostrare o evocare l’impossibilità di risolvere una situazione: in questo non siamo filosofi postmoderni, ma, piuttosto, filosofi tradizionali, forse un po’ antiquati, che tuttavia si sforzano di tener fede alla responsabilità intellettuale, che in quanto uomini tutti possediamo, di creare vie d’uscita, di trovare soluzioni. La scimmia del racconto di Kafka, Die Rede eines Affens (Discorso di una scimmia), sostiene di non volere la libertà, di non sapere cosa sia la libertà, ma di voler cercare una via di uscita dalla gabbia in cui si trova. Questa produzione di vie d’uscita è ciò che noi ora, da vent’anni, facciamo. Talvolta lavoriamo due mesi insieme; ci sediamo a un tavolo l’uno di fronte all’altro; ognuno scrive le proprie frasi, che talvolta sono mezze frasi e vengono completate dall’altro. Con questo metodo abbiamo portato a compimento due o tre grossi lavori, Moiso. Vorrei ora accennare al Suo rapporto con Kluge, tra i registi della scuola di cinema tedesca degli ultimi anni il più conseguentemente legato a una problematica sottilmente politica. Non che Kluge abbia fatto film immediatamente politici; egli tuttavia ha indubbiamente cercato di sviluppare un linguaggio immediatamente capace di inserirsi all’interno della prassi. A tal proposito, quale è stato il senso del Suo sodalizio con Kluge e perché ha scelto proprio la collaborazione con un regista cinematografico? 8 DIALOGO in particolare il secondo, Geschichte und Eigensinn (Storia e ostinazione, 1981), che rappresenta il tentativo di rielaborazione della problematica tedesca con l’intento di fare un bilancio del movimento di protesta del ’68, di ciò che esso è divenuto. Questo rapporto di produzione con Kluge si fonda sul fatto che possediamo un carattere completamente diverso uno dall’altro e abbiamo imparato a riconoscere e utilizzare le nostre proprie caratteristiche: io non capisco niente di film, e dipendo dalle sue competenze; Kluge cerca di riflettere nel suo lavoro su ciò che significa la dialettica di concetto e immagine. tele e Platone, al pensiero antico, e non a un pensiero indipendente dalla dipendenza temporale. Per questo motivo uso il verbo umsetzen, convertire, riversare, piuttosto che übersetzen, tradurre, trasferire: tradurre (übersetzen) non è semplicemente convertire (umsetzen) le categorie della dialettica negativa nella prassi; sarebbe una terribile confusione. Piuttosto, la mediazione di teoria e prassi è, in sé, un problema filosofico e necessita di uno sforzo particolare di comprensione quanto il rapporto tra la filosofia del quotidiano e la grande filosofia. La ricezione della Scuola di Francoforte, del pensiero filosofico di Wittgenstein e di quello postmoderno è tanto importante quanto chiedersi che cosa la filosofia debba fare, perché esista la filosofia. Adorno ha una volta definito così la filosofia: di fronte ad Auschwitz e agli indicibili crimini che vengono compiuti in questo mondo, la filosofia in sé consiste nel cogliere ciò che propriamente non è concepibile, nel tentare di comprenderlo. La filosofia esiste in questo campo di tensione, in questo spazio oscuro. Carattere irrinunciabile della filosofia è l’ “ostinazione della teoria”, della produzione teoretica, di contro a tutti i tentativi di convertirla in prassi; dove l’ostinazione della filosofia di produrre teoria viene distrutta, con essa viene distrutta la teoria stessa, la filosofia. Ma la tensione tra la teoria e la prassi è per me insuperabile e resta un motivo decisivo della riflessione filosofica. Anche oggi, in un momento in cui la prassi è molto difficile e concetti e simboli del passato e della grande tradizione socialista rischiano di diventare tabù, come Marx e il marxismo. Moiso. In Adorno permangono l’interesse e il bisogno di filosofia, perché la filosofia non si è ancora realizzata. Lei ha usato spesso il termine umsetzen (tradurre, riversare, convertire) per esprimere nella prassi quella che è stata la visione filosofica dei francofortesi. Questo significa per Lei insieme un riflettere sul significato della storia tedesca, sul problema che la Germania è a se stessa e che è insieme un problema politico, ma anche culturale e filosofico. Cosa significa per Lei tradurre la filosofia nella prassi e cosa questo ha a che fare con il suo confrontarsi con il senso stesso dell’essere tedesco e di appartenere alla storia culturale e politica della Germania? Negt. Sarebbe un fraintendimento dire che il pensiero della Scuola di Francoforte deve essere tradotto nella prassi; lo ritengo impossibile. Ritengo l’orientamento del pensiero un aspetto molto importante nella Scuola di Francoforte. Adorno ha ragione quando dice - ed è l’undicesima tesi di Feuerbach su Marx - che «gli uomini hanno dato diverse interpretazioni del mondo: ora si tratta di cambiarlo». Questa tesi oggi non è più valida, dopo che gli uomini hanno trasformato il mondo fino a stravolgerlo, annientarlo, spezzarlo. Comte, rispondendo a questo desiderio sfrenato ed illusorio di trasformare il mondo, sosteneva che compito della filosofia è piuttosto quello di definire il ruolo dell’interpretazione e il significato della filosofia stessa. L’orientamento del pensiero è pertanto un punto importante di questa forma di costruzione della teoria. Contemporaneamente, però, per Kluge e per me, è anche importante il fatto che l’uomo comune, l’uomo della vita di tutti i giorni, si presenti come un potenziale pensatore teoretico. Non solo i filosofi pensano filosoficamente: nella letteratura americana, ad esempio, vi sono testi di filosofia per bambini. A ben guardare, anche in Platone e Aristotele compito della filosofia è occuparsi dell’intelletto quotidiano; vera filosofia è solo quella che ha a che fare con l’intelletto quotidiano, con ciò che gli uomini pensano di se stessi a partire da se stessi. Deve esserci sincronizzazione tra la logica del pensiero filosofico, come necessariamente viene sviluppata nel campo accademico, e la logica del pensiero filosofico quotidiano, che dal contenuto di verità delle grandi filosofie non deve mai essere separata, pena il suo essere svuotata di verità. Il contenuto di verità delle grandi filosofie deve incontrarsi con i problemi e le verità dell’uomo. L’uomo deve arrivare a spiegarsi che cosa vi è in lui. Questa tradizione non può essere superata. Nel mio pensiero, mi riferisco volentieri alla tradizione di Aristo- Moiso. A proposito della concezione micrologica da Lei sollevata citando Foucault, vorrei ancora chiederLe cosa significhi rivolgersi a una simile micrologia. Ha evidentemente a che fare con la tensione tra teoria e prassi. Ma in che modo Lei si riferisce a Foucault parlando di micrologia? Negt. La grandezza del pensiero di Foucault consiste nel suo aver compreso che i veri mutamenti nella storia si svolgono nella microstruttura, e non nell’intero. In Überwachen und Strafe (Sorvegliare e punire, 1975) Foucault dice che il dominio consiste nel fatto che gli uomini sono costretti a muoversi in un certo luogo in un determinato modo; nel fatto che la società sia una organizzazione dettagliata di spazi suddivisi, nei quali agli uomini è lecito o meno fermarsi. Lo stesso vale per il tempo: c’è un tempo in cui possono muoversi ed uno in cui non è loro permesso farlo. In questo libro Foucault ci offre una visione di ciò che succede a livello atomico-molecolare nella società, proprio come avviene in natura, laddove i veri movimenti avvengono a livello atomico-molecolare, nelle più piccole cellule. È un pensiero ricco di conseguenze: gli uomini non vengono determinati da concetti sintetici, dalla politica; ma è piuttosto nella vita quotidiana, in cui gli uomini si muovono, o non si muovono, che si definisce il loro spazio vitale di libertà. In questa struttura, gli elementi di spazio e di tempo contengono dominio. L’attività organizzata del dominio consiste nel fatto che c’è un guardiano che tutti osserva, senza essere visto da alcuno, cosic9 DIALOGO ché tutte le possibilità di movimento di ciascuno possano da lui essere conosciute e controllate. Questo è il modello del potere: il controllo del movimento. Del resto, in Geschichte und Eigensinn la tesi fondamentale è che il movimento della vita umana avviene nelle cellule, nell’organizzazione delle cellule e nel modo in cui sono organizzate: in questo consiste propriamente la vita. Da un’analisi dell’organizzazione cellulare derivano libertà e dominio. Naturalmente, nel suo libro, Foucault risale a Marx, che apre Il Capitale con la frase: «Il capitalismo è un’incredibile accumulo di merci; la singola merce ne è la forma cellulare». Marx stesso, dunque, nella sua opera era partito dall’analisi della forma cellulare della merce. Questa forma cellulare contiene in sé una contraddizione, cioè quella tra valore d’uso e valore di scambio delle merci. Questo pensiero è presente in Foucault, soprattutto nei primi scritti in cui si parla di microfisica del controllo. Si tratta di un pensiero filosofico nuovo e di grande rilevanza. giudizi, nelle indagini sulla nascita del nuovo radicalismo di destra, sulla xenofobia, sull’emarginazione forzata delle minoranze - non solo degli stranieri, ma anche, ad esempio degli handicappati, degli omosessuali -, dove l’ira contro le minoranze non è che una conseguenza dell’intera crisi tedesca, che non mostra in generale alcuna possibilità di soluzione e ricerca semplicemente dei capri espiatori. L’analisi di una tale situazione era già nei programmi della Scuola di Francoforte. La ricerca sui pregiudizi ha, del resto, orientato il grosso progetto di ricerca empirica sulla “personalità autoritaria”, intrapreso dalla Scuola di Francoforte durante l’emigrazione americana, che conteneva indagini specifiche sull’antisemitismo e sull’etnocentrismo. Dopo il ’45, la Scuola di Francoforte ha sistematicamente studiato in modo sperimentale e con precisi metodi empirici il costituirsi dei pregiudizi: non solo sono state fatte indagini d’opinione, ma anche ricerche sui condizionamenti della personalità trasmessi attraverso l’educazione familiare - ad esempio sul significato dell’ordine, della pulizia, degli stili educativi -, constatando un incredibile ritorno di antiche strutture di pregiudizio. Benché il fascismo sia stato un fenomeno europeo, la forma militante del fascismo, il nazionalsocialismo, con la sua negazione sistematica della fantasia è un fenomeno proprio della Germania, e ha condotto a una situazione per cui ancor oggi il pensiero filosofico, nella tradizione di Adorno, non può liberarsi della necessità di pensare al perché di quanto è successo. A tal proposito vorrei in conclusione accennare brevemente ad una posizione mia e di Habermas sulla questione dell’asilo agli immigrati in Germania. La Germania ha una colpa particolare, e dunque una particolare responsabilità nei confronti degli emigranti. In Europa, gli emigrati tedeschi sono sempre stati accolti; una buona parte di intellettuali tedeschi, anche prima della guerra, ha trovato asilo in molti paesi europei. Ciò non è accaduto in Germania, dove c’è bisogno di una legislatura equilibrata sull’immigrazione - non è giusto, ad esempio, che chi chiede asilo venga smembrato dalle comunità di provenienza. Non si tratta semplicemente di una questione di opinione politica. In quanto erede della Scuola di Francoforte e della sua filosofia, io penso che noi uomini, in quanto esseri dotati di raziocinio - Kant affermava che nessuno come l’uomo ha avuto un dono come la ragione e, dal momento che la natura non fa nulla gratuitamente, l’uomo ha il dovere di usarla - dobbiamo adoperarci per trovare, per concepire, con l’ausilio della ragione, delle vie di uscita, delle alternative alla situazione in cui viviamo. Moiso. Lei accennava alla difficoltà che si ha oggi in Germania di parlare anche soltanto di Marx, che pure ha significato molto per la Scuola di Francoforte. In una tale situazione d’imbarazzo, conseguenza anche del crollo dell’ortodossia marxista orientale, in che modo si può dire che la Scuola di Francoforte è ancora attuale e come questa attualità si collega con la difficoltà di parlare di Marx in Germania? Negt. La Scuola di Francoforte, nel suo sviluppo, ha sempre incontrato difficoltà, come emerge dal recente studio storico-critico di Wiggershaus, un grosso progetto analitico e storico sui presupposti e gli sviluppi della Scuola. Come esempio può valere la vicenda di Adorno, il quale in effetti non fu mai chiamato a ricoprire nessuna cattedra universitaria, sebbene egli sia oggi celebrato dal mondo accademico come un rappresentante di spicco del passato. Negli anni dal ’45 in poi, per gli intellettuali emigrati che fossero rientrati in Germania e manifestassero un evidente risentimento, una legge predisponeva per questi intellettuali cattedre di risarcimento. Similmente, nel momento di maggiore sviluppo del movimento studentesco, quando molte simpatie degli studenti andavano verso la RAF (Rote Armee Fraktion), tutti discriminavano la Scuola di Francoforte come causa del terrorismo, traendo spunto dalla critica radicale della società di Adorno ed Horkheimer, benché io stesso ed altri già da tempo avessimo apertamente preso le distanze da queste frange estremiste. Tale discriminazione della Scuola di Francoforte è collegata ad un problema squisitamente tedesco: il legame tra il materialismo critico di Marx e Freud, cioè tra una dimensione psicoanalitica della soggettività e l’analisi del capitalismo; questa connessione resta tutt’oggi una provocazione. Questa provocazione ha oggi come conseguenza che molti discendenti della Scuola, politicamente orientati, come Habermas e me e alcuni altri, tengano fede a questo pensiero, che oggi si dimostra nuovamente attuale: la Scuola di Francoforte rappresenta oggi in tal senso qualcosa di enormemente attuale nelle ricerche sui pre- (Trascrizione e traduzione dall’originale tedesco su nastro magnetico di Lucia Cavallo) 10 INTERVISTA Il comunitari- le istanze comunitarie non necessariamensmo nasce, tra te debbono contrastare con il “giudizio la fine degli razionale” e l’ “autonomia personale”, né anni Settanta e intendono ricostruire un’improbabile omol’inizio degli geneità di valori, ma piuttosto un’unità che anni Ottanta, mantenga aperta la tensione fra “autonocome critica al mia e integrazione”. liberalismo, in- Esiste allora un vero oggetto del contendere? teso come teo- A mio avviso esiste e giustifica l’asprezza ria filosofico- della polemica che talvolta oppone liberali e di Sandro Ferrara politica della comunitari. Si tratta di un’opposta valutaziodemocrazia, della giustizia, della persona e ne delle priorità all’interno di una comune della società. Tra gli autori più rappresenta- diagnosi della modernità. Per i liberali i tivi di questa prima stagione della critica processi di differenziazione, di riflessivizzacomunitarista al liberalismo si distinguono zione, di astrazione, di complessificazione Alaisdair MacIntyre, Michael Sandel, della vita sociale, della cultura e della sfera Charles Taylor, Robert Bellah e Philip politica, che caratterizzano la società moderSelznick. Ma le radici sono antiche. Basti na, non mettono a rischio la capacità di pensare a Burke e a De Maistre, che già ancoramento dell’individuo, bensì la sua criticavano gli effetti dirompenti dell’indivi- capacità di critica. Di socializzazione ce n’è dualismo sull’autorità delle tradizioni e de- sempre; va da sé, è ovvio che anche l’indivinunciavano l’astrattezza della nozione dei diritti “dell’uomo”; all’opposizione hegeliana fra Sittlichkeit e Moralität, alla critica marxiana alla falsa neutralità dell’ordinamento politico e giuridico borghese; ad autori come Carl Schmitt e Giovanni Gentile, in cui troviamo una denuncia dell’atomismo individualistico, dell’indifferenza liberale verso la comunità, della centralità dei diritti, della fuga liberale “dal politico”, dello scetticismo e del formalismo liberali, e dell’ipocrisia con un intervista a Martha C. Nussbaum, della neutralità delle leggi. Bernard Williams e Charles Taylor Rispetto a questi predecessori il comunitarismo di Sandel, Taylor, Bellah e compagnia si distingue per la sua moderazione, per la sua sostanziale continuità con il quadro di riferimento liberale stesso. In fondo nessuno degli autori citati rimette in discussioa cura di Marina Calloni ne, come gli antiliberali del passato, il catalogo dei diritti moderni, o l’idea di rule of law, o la democrazia duo delle società moderne e contemporanee rappresentativa, o lo stato sociale, o il valore continua a formare il proprio Sé apprendendella tolleranza. Nessuno rimette in discus- do ad assumere il ruolo dell’altro, guardansione il “fatto del pluralismo”, inteso come dosi prima di tutto con gli occhi di altri pluralizzazione degli universi di significato particolari a lui vicini. Ciò che non è scontapremoderni in una molteplicità di mondi to, e che necessita della massima attenzione, vitali, sottoculture, concezioni del bene, stili è lo sviluppo prima e poi della salvaguardia di vita che risultano impervi ad ogni tentati- della capacità dell’individuo di assumere vo di reductio ad unum. Nessuno rimette distanza critica da quello sguardo normatiseriamente in questione la differenziazione vo, ma provinciale, di giudicare riflessivadella sfere di valore; bensì un certo modo di mente la forma di vita che lo ha formato. interpretarne le conseguenze. Nessuno in- Questa è la capacità di cui la modernità porta tende proporre il ritorno ad un unico e indif- la promessa, ma che è sempre a rischio di ferenziato orizzonte di significati condivisi. essere soffocata. I diritti, la tolleranza, il Al contrario, gli stessi sostenitori della ne- pluralismo, la neutralità della giustizia, e via cessità di reiniettare un momento di tradizio- dicendo, sono tutti concetti che hanno come ne all’interno della nostra cultura sostengo- telos quello di preservare e proteggere queno la propria proposta, come MacIntyre, con sta preziosa risorsa. argomenti “critici” e moderni e niente affatto Il comunitarista assegna in ordine inverso le tradizionalistici; e i sostenitori della necessi- priorità. Quegli stessi processi di differentà di reintrodurre un’istanza comunitaria al- ziazione, di riflessivizzazione, di astrazione, l’interno della vita sociale contemporanea si di complessificazione della vita sociale, delpremurano di precisare, come Selznick, che la cultura e della sfera politica non mettono Il dibattito tra comunitari e liberali Comunitarismo liberale 11 a rischio la capacità di assumere una distanza critica dalle circostanze della propria esistenza. Non è certo la capacità di guardare la propria casa con gli occhi dello straniero che difetta all’individuo moderno, il quale, semmai, soffre del non potersi sentire a casa propria in alcun luogo. Ciò che questi processi rischiano di sommergere e portare ad estinzione è, al contrario, il senso di appartenere a qualcosa, a un luogo, a una cultura, a una terra, a una stirpe, a una cultura, a una qualunque entità che vada al di là dei bisogni del proprio Sé. E’ questo il rischio cui bisogna oggi porre rimedio. E il rimedio prospettato è una rivitalizzazione della dimensione comunitaria, la quale si colora di sfumature via via diverse: recupero di un orientamento verso il bene comune; ancoramento esistenziale; relativa omogeneità dei valori. Il liberalismo non si è chiuso a queste sollecitazioni. Al contrario, prova della sua vitalità è la straordinaria flessibilità con cui le ha fatte proprie, adattandole alla propria prospettiva, inglobandole. Negli anni Ottanta, autori come Rawls, Dworkin, Ackerman, Larmore e altri, hanno da un lato sfumato di molto le pretese universalistiche dei loro modelli di giustizia. Nessuno giustifica più i principi di giustizia o i diritti sulla base di modelli di razionalità morale puramente astratti; al contrario, la neutralità della giustizia viene ora ancorata alla sua capacità di cogliere i momenti di intersezione fra tradizioni concrete. E dall’altro lato si coglie negli scritti di Dworkin, di Ackerman e di altri uno sforzo genuino di inserire il valore dell’integrazione, o una dimensione comunitaria, intesa repubblicanamente come interesse per il bene comune, all’interno della concezione liberale della polity. Si discute oggi se questa svolta del pensiero liberale nell’ultimo decennio non abbia di fatto portato ad esaurimento la querelle con i comunitaristi. In realtà, pare averne solamente spostato i termini. Nessuno oggi contesta o si oppone al valore dell’integrazione sociale, così come nessuno mette seriamente in dubbio il fatto del pluralismo, o ne propugna l’eliminazione. Rimane però aperta la questione se il modo in cui autori liberali come Dworkin articolano all’interno della loro posizione il valore della comunità, dell’integrazione, e dell’appartenenza renda veramente giustizia alle nostre intuizioni in merito. Rimane il dubbio se il modo in cui essi tracciano la linea, ad esempio, fra ambiti di interesse pubblico, in cui certi diritti e interessi possono essere protetti per via legislativa e al limite costituzionale, ed ambiti di pertinenza strettamente privata, rispetto ai quali le leggi e la costituzione possono solo proteggere la libertà del singolo, sia in ultima analisi sensato e coerente. INTERVISTA Lo spirito del tempo si manifesta spesso attraverso quei temi comuni che avvolgono e contrastano la scena teorica, politica e culturale mondiale e che si articolano secondo un veloce scambio di vedute e di posizioni, che vengono a mutare antiche solidarietà, consolidati modi di pensare. Nel campo della filosofia e delle scienze sociali, negli ultimi decenni è stato questo il caso del dibattito su moderno e postmoderno, su critica dell’ideologia ed ermeneutica, sulla ricostruzione della ragion pratica e sui suoi limiti; ma è stato soprattutto il caso della polemica fra i cosiddetti sostenitori dell’etica antica e quelli della morale moderna, di Aristotele-Hegel o di Kant. Si tratta dell’ormai ventennale polemica (nata negli Stati Uniti all’indomani della pubblicazione, nel 1971, del libro di John Rawls, Una teoria della giustizia, a cui erano seguite forti critiche, soprattutto a partire dagli scritti di Michael Sandel e Alisdair MacIntyre), che ha visto schierarsi su rive opposte comunitaristi e liberali. Ma più che sulla diatriba teorica e politica in sé - di cui Alessandro Ferrara ha qui sopra delineato i tratti salienti - ciò che ci interessa qui indagare è piuttosto il punto a cui è oggi approdato il dibattito, sia per poter tracciare le attuali linee di tendenza, sia per poter superare la passata querelle (anche per via della pubblicazione del nuovo libro di Rawls, Political Liberalism, in cui questi fa tesoro di tutte le obiezioni mossegli contro in tutti questi decenni). Ne parliamo con tre autorevoli teorici, che ben rappresentano una “linea mediana” fra i comunitaristi e i liberali, dal momento che cercano di individuare nuove piste analitiche, al di là della spesso forzata linea di demarcazione fra le due correnti di pensiero. Per questo essi possono essere a buona ragione considerati come comunitaristi liberali. Ma come tutte le etichette, anche questa non riesce ad essere certo esaustiva della originalità teorica che caratterizza ciascuno dei nostri interlocutori. Diamo comunque la parola a questi tre filosofi anglo-americani, esponenti di spicco dell’attuale panorama filosofico internazionale. Si tratta di Martha Nussbaum, statunitense, docente di filosofia alla Brown University; Bernard Williams, inglese, docente al Corpus Christi College di Oxford; Charles Taylor, canadese, docente di scienze politiche e filosofia alla McGill University di Montreal. Nel ribattere alle obiezioni, essi colgono qui anche l’occasione per ricostruire i presupposti teorici del proprio discorso filosofico. Più che riproporre consumate polemiche, i nostri interlocutori mostrano la consapevolezza di aprire nuovi fronti di dibattito pubblico, soprattutto in relazione a quei gravosi compiti che la democrazia si trova oggi a dover affrontare in un tempo di grande “turbolenza” sociale, economica e politica. La teoria non può certo stare a guardare. Martha C. Nussbaum Bernard Williams Charles Taylor Martha C. Nussbaum Professoressa Nussbaum, nel Suo libro The Fragility of Goodness, Lei dà grande enfasi alla ricerca etica degli antichi piuttosto che alla morale formale dei moderni filosofi. E’ questa Sua analisi da intendersi anche come critica del Moderno? La Sua idea è dunque quella di mettere in luce la valenza contemporanea dell’etica antica; quasi che la struttura ontologica delle capacità umane rimanga immutata nel corso dei secoli. M.C.N. Si prenda la tragedia greca: si vive come cittadini, si è felici per l’amicizia di cui si gode, dell’amore che si dà e si riceve, e subito dopo si deve lasciare gli amici, i figli, ci si trova in guerra, schiave... Questo è il dibattito di cui mi occupo e che intende considerare ciò che è buono (goodness), ovvero comprendere in che cosa consista il bene umano. Così goodness non è da intendersi o da tradursi con “bontà” (che è una determinazione ideologica), bensì con “buono”, ovvero con “bene umano”, che si esplica secondo precise forme d’azione. L’interesse etico si sposta allora sulla comprensione di come tali azioni possano essere bloccate o di come, facendo ricorso ad esse, sia attuabile il bene. Tutti questi problemi sono composti da innumerevoli sfaccettature, che sono poi strettamente connesse fra di loro. M.C.N. Ciò che ho scoperto nel corso della mia ricerca è che i filosofi antichi hanno costruito il dibattito sull’etica in un modo molto simile a come la gente dibatte oggi intuitivamente di problemi morali. Sono domande su quali dovrebbero essere i contenuti per una vita umana buona; quale tipo di vita dovrebbe essere pienamente soddisfacente; quale sia il limite del rischio accettabile per la vita umana. Se ci si dedica a grandi progetti, all’attività politica, all’amicizia, all’amore, alla giustizia, allora in tutti questi casi ci si pone di fronte alla possibilità di essere danneggiati. Il pericolo nasce nell’area mediana delle relazioni che si stabiliscono con le altre persone. Ora per fragilità io intendo quella particolare suscettibilità dell’essere umano, che significa essere fermati, bloccati in qualsiasi momento della propria vita, che come tale diventa precaria e vulnerabile. Veniamo ora al neo-aristotelismo. In Germania Aristotele è stato riscoperto passando attraverso la lezione ermeneutica di Gadamer. Lei proviene invece da un’altra tradizione teorica e culturale, quella americana. Quale differenza esiste, tuttavia, fra la “riabilitazione della 12 INTERVISTA ragion pratica” attuata dal neo-aristotelismo tedesco e quella apportata dalla rilettura anglosassone? Cosa ne pensa del cortocircuito che spesso viene indotto tra neoaristotelismo, anti-kantismo, comunitarismo e neo-conservatorismo? Mi sembra che contro tale identificazione Lei cerchi piuttosto di mostrare la possibilità stessa di essere aristotelica e liberale ad un tempo. tico. Per questo l’aristotelismo rifiuta la classica distinzione liberale fra il bene e il giusto: la giustizia sarebbe una parte del bene. Ma come il liberalismo, esso insiste sull’importanza di dover attuare delle scelte comuni. Ciò a cui si mira nella pianificazione politica non è infatti la costituzione di una società di persone contente e appagate, ma la creazione delle condizioni necessarie affinché i soggetti possano scegliere ed esplicare le proprie capacità. Il che ci distanzia parecchio dall’utilitarismo, basato piuttosto sulla benevolenza e sulla soddisfazione rispetto a certi beni comuni. Secondo la teoria aristotelica esiste invece sempre una pluralità di beni, per cui ciò che bisogna chiedersi non è come massimizzare la quantità di ogni singolo bene, bensì come rendere capace il cittadino di agire nel contesto di beni differenti. M.C.N. A partire dal mio primo libro sul De motu animalium di Aristotele, mi sono a lungo occupata di confutare l’interpretazione che di Aristotele era stata data dalla tradizione cattolica, una tradizione indubbiamente importante e cospicua sotto il versante teorico e culturale, ma che però, sotto innumerevoli aspetti, dà di Aristotele una lettura che non è certo sempre coerente con gli assunti dell’autore. Tommaso d’Aquino è indubbiamente un grande filosofo, consapevole di fare una commistione fra aristotelismo e dottrina cattolica. Molti dei neo-aristotelici attuali, fra cui MacIntyre, lavorano proprio all’interno di questa tradizione e hanno indubbiamente una concezione della ragion pratica piuttosto conservatrice. Ma esiste anche una buona tradizione di studi che analizza le linee del dibattito al tempo di Aristotele, o che focalizza il proprio interesse sull’analisi filologica dei testi aristotelici. Non deve inoltre sorprendere il fatto che nella tradizione britannica le figure più eminenti di studiosi aristotelici come David Ross, T. Green, Ernest Parker, fossero proprio liberali socialisti. Non bisogna inoltre dimenticare che sono stati molti anche i marxisti che si sono occupati di Aristotele. A proposito di teoria politica, come intende Lei la possibilità di trovare un giusto equilibrio fra bene privato e bene pubblico? M.C.N. E’ un problema assai difficile, anche perché nel mondo antico non esisteva una reale distinzione fra il pubblico e il privato. Ritengo, tuttavia, che non esista in realtà neanche nel mondo moderno. Il che significa che la famiglia non è la sfera privata dell’amore, completamente estranea alle istituzioni politiche e alle leggi. Che ogni persona sia in grado di far funzionare le proprie capacità, implica anche di guardare all’interno della famiglia. Cosa, questa, che finora il liberalismo - nei suoi intenti politici - non ha voluto fare. Contro Rawls, Susan Moller Okin ha sostenuto che il principio di giustizia deve essere anche applicato all’interno della ridistribuzione dei beni e delle risorse in seno alla famiglia stessa. Si riferisce al tema del lavoro come potenzialità umana? M.C.N. Certo! Ma anche alla lotta di classe. E’ questo l’Aristotele di cui mi occupo e che penso sia anche più consono al ruolo da lui svolto ai sui tempi. Naturalmente esistono molti aspetti in Aristotele che sono difficilmente accettabili, come la schiavitù e la concezione della donna. Quando parla di donne, sembra ignorare completamente la coerente applicazione del proprio metodo, perché non dà corrette informazioni sulle capacità femminili che devono essere invece sviluppate. Aristotele avrebbe certamente potuto sostenere tale argomento etico, ma non potè farlo a causa dei molteplici pregiudizi che ancora lo attanagliavano. E’ questo del resto un fenomeno storico-culturale assai diffuso. Accadde la stessa cosa anche in America coi padri fondatori che parlavano dell’uguaglianza dei diritti fra esseri umani e nello stesso tempo permettevano la schiavitù. Ma non penso che ciò possa invalidare l’intera opera di Aristotele: gli esseri umani che creano buone teorie possono essere nel contempo uomini ciechi di fronte a molte questioni. Cosa pensa del femminismo neo-aristotelico? M.C.N. Quando si parla di femminismo aristotelico, si pensa subito, per lo più, a una cultura dell’amore, piuttosto che a una teoria dei diritti. Non sopporto però che si arrivi a fare certe distinzioni oppositive fra amore e diritti. Penso che sia una manovra insensata gettare via diritti come quello della libertà di espressione, di uguaglianza, di pari opportunità, del diritto alla privacy. Io stessa sono stata duramente attaccata da certe frange del movimento femminista di ispirazione aristotelica per il fatto di non ritenere di dover rinunciare ai diritti formali. Lei propone dunque di coniugare la lezione della modernità con quella dell’antichità? M.C.N. La tradizione greca mi ha insegnato a guardare in modo più profondo ai dilemmi della vita umana. La filosofia moderna, e in special modo la recente filosofia anglo-americana, non è stata in grado di mettere in relazione i problemi che sorgono dall’amore, dall’amicizia e delle passioni, con le conseguenze che essi hanno sulla giustizia e sulle leggi. Per questo lo studio dei filosofi antichi diventa per me la più stimolante occupazione che io possa avere come filosofa, ma soprattutto come essere umano. Quale compatibilità può esserci oggi fra aristotelismo e liberalismo? M.C.N. Penso che l’aristotelismo implichi una modifica del liberalismo. Il primo insiste infatti su una teoria generale del bene, tale da comprendere il dominio poli13 INTERVISTA Bernard Williams Professor Williams, come vede Lei oggi lo stato del dibattito fra liberali e comunitaristi? lata da idee etiche. Attualmente, gli unici che sembrano sostenere la tesi dell’identità fra etica e politica sono i reazionari, come i neo-straussiani elitisti. Ma a differenza del kantismo, la critica che rivolgo all’utilitarismo è di ben maggior portata: è di carattere tanto etico, quanto politico. Ciò che rifiuto è l’ingerenza di obiettivi politici all’interno della vita etica. Io non penso che la politica sia il luogo più adatto per la costruzione creativa e artistica della personalità individuale. Il politicante in senso stretto è molto più noioso di quanto le persone non lo siano normalmente. B.W. Penso che il confronto si sia spostato, e in qualche misura esteso, rispetto al passato, anche perché la parte liberale ha accettato alcune obiezioni mossele contro dai comunitaristi. Non è invece accaduto il contrario, perché ad eccezione di alcune posizioni palesemente conservatrici (si veda MacIntyre), le altre sono sempre state manifestamente liberali. Del resto la concezione illuministica dell’individualismo etico e politico è stata al centro di numerose polemiche, tanto in passato, quanto al giorno d’oggi. Nel recente dibattito, Lei è stato spesso indicato come un “comunitarista”. Leggo invece ora in un Suo dattiloscritto che Lei non si riconosce assolutamente come tale. B.W. Sono d’accordo con la critica hegeliana e posthegeliana a Kant: i soggetti non possono riferirsi a se stessi semplicemente come esseri astratti e razionali. L’agente razionale è invece sempre contingente. Ma rifiuto anche l’assunzione dei comunitaristi attuali, secondo cui i soggetti vengono costituiti interamente dalla società: c’è relazione, ma non identità. È sempre stato un sogno dei teorici dell’etica e della politica l’idealizzazione degli individui concreti che vivono in società. B.W. Infatti non lo sono. Ma in generale non mi sono mai compreso come un pensatore etico sistematico, poiché ritengo che l’etica filosofica non debba essere una produttrice sistematica di principi. Io sono piuttosto un pensatore scettico, nel senso moderno del termine. Se invece si vuole trovare un pensatore a cui sono più consono, anche se non certamente sotto il profilo politico, questo è Nietzsche. È stato lui, infatti, a porre in luce, per primo, quella problematica che io stesso cerco di trattare. Infatti non è certo pensabile una loro totale identificazione, altrimenti ci sarebbe una globale armonia: l’individuo sarebbe la semplice protuberanza della comunità. Il che escluderebbe il dissidio, i contrasti, la disubbidienza civile. A questo proposito, Isaiah Berlin ha scritto che il conflitto di valori non è una sorta di patologia sociale, bensì la sua stessa fisiologia. Tendenza attuale - soprattutto da parte dei neo-liberali - è dunque quella di ripensare i conflitti, ma anche di superare certe filosofie della storia, come quella hegeliana e marxiana, che indicavano le possibili modalità per giungere ad una società priva di conflitti. L’incommensurabilità dei valori e l’impossibile identità fra società e individuo portano però indubbiamente a conflitti socialmente devastanti. Come Lei interpreta il problema? Che è quella dell’autoriflessione del soggetto moderno... B.W. Innanzitutto la nostra epoca è alquanto diversa da tutte le altre: risolvere i suoi problemi non significa tornare ad Aristotele o a Kant. Esistono inoltre ragioni storiche e filosofiche che non sono più immediatamente identificabli con la religione, ma che sono le cause stesse del mutamento della filosofia. Ciò in cui dissento da Nietzsche riguarda piuttosto l’illuminismo, dal momento che proprio ciò a cui egli dà ragione, è nato propriamente in virtù dei risultati conseguiti dall’illuminismo. Secondariamente, la contingenza storica del mondo moderno impone la variabilità e la tollerabilità in politica, che non può che essere liberale. Io mi considero un liberale e una sorta di illuminista, anche se non credo che il liberalismo possa essere rifondato sugli assoluti presupposti razionalisti dell’etica kantiana. Penso piuttosto che Kant rimanga il più grande pensatore politico del Moderno, poiché basa la propria teoria sull’idea del tollerabile accordo fra esseri umani, considerati come eguali. Non esiste via di scampo a questa linea politica. B.W. Non possiedo risposte generali in proposito. Riferendomi all’attualità storica e politica, ritengo che laddove esistono conflitti di valore e devono essere trovati accomodamenti e modalità di soluzione, questi non vengono certo risolti da movimenti teoretici, bensì da aggiustamenti storici. Ciò che li promuove sono le argomentazioni effettive che fanno preferire e danno senso collettivo a certi problemi rispetto ad altri. Si pensi al caso dell’aborto e ai diversi modi di affrontarlo. Dunque la Sua è una posizione ambivalente rispetto all’Illuminismo: a favore della politica liberale; ma contro tutte le teorie etiche, dal kantismo all’utilitarismo. E’ del resto ciò che Lei ha cercato anche di argomentare nei suoi studi - per lo più tradotti anche in italiano -, come ad esempio Il problema del Sé, Sorte morale, ma soprattutto Etica e i limiti della filosofia. Ma questo caso mostra anche il difficile equilibrio tra il pubblico, l’interiorità e il privato... B.W. Ciò che io voglio mostrare è un problema, non certo una soluzione. Esso indica senza dubbio la necessità di riconcettualizzare il nesso fra pubblico e privato, come richiesto dal dibattito attuale. B.W. Io non credo nella traduzione immediata dell’etica in politica, anche se è necessario che questa venga rego- Sebbene da “filosofo morale” di professione, Lei ha 14 INTERVISTA parlato dei limiti della filosofia rispetto all’ambito etico, dello scetticismo e del relativismo etico (ma non epistemologico). Ma nello scrivere delle “difficoltà” dell’etica non si prefigge forse di conseguire certe finalità?. Il che assume una valenza normativa. Anche nei Suoi ultimi scritti su multiculturalismo e politiche del riconoscimento, Lei ritiene che per costituire una società civile cogente non sono certo sufficienti le sole istituzioni formali. Ma quale può esserne il collante sociale? B.W. Penso che il motivo per cui scrivo è quello di comprendere le mie reazioni di fronte a certi problemi; ma anche di comprendere i sistemi teorici di altri pensatori. Esistono in effetti in me due piani normativi. Da un lato mi interessa riflettere su forme di pensiero che si sono dedicate alla morale in modo falsificante e impoverente. Il che ha a che fare con la distorsione sociale: il livello della “falsità” teorica è infatti straordinariamente elevato rispetto a ciò che gli esseri umani sono e di fatto sono capaci di costruire. D’altro lato, l’aspetto normativo, che mi interessa, riguarda piuttosto la riflessione intorno come gli uomini dovrebbero, potrebbero vivere o essere. Ma ad esempio, essere onesti, non significa dare semplicemente ascolto alla filosofia: essa è infatti già di per sé un filtro, poiché mostra le cose come sembrano e non come realmente sono. C.T. Per una società civile liberale - nel senso della sua pluralità culturale - si richiede una particolare solidarietà, in cui esista una reciproca cura fra i suoi appartenenti; in caso contrario neppure i principi formali sarebbero giustificabili. È evidente che questo problema si viene a porre proprio in società come le nostre, che sono composte da comunità diverse, per cui la solidarietà si esprime principalmente all’interno delle unità di appartenenza. Ritengo infatti che per motivare certe mobilitazioni sociali o interessamenti collettivi non sia sufficiente il semplice riferimento ai principi formali universalistici. Devono esserci aspetti di vincolo reciproco, tali da permettere l’unità sociale. Lei non sembra essere un nostalgico di quei vecchi valori che indicavano inconfutabilmente la giusta strada da seguire. Ma nella mancanza di un’etica prescrittiva, come Lei vede oggi la possibilità o meno di sviluppare un processo autoriflessivo in grado di discernere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto? C.T. Certo, il caso americano è la controprova del fallimento di una determinata politica nazionale, non solidaristica, che ha portato agli scontri fra bianchi e neri. Il fatto preoccupante è che si cerca addirittura di trovare giustificazioni per poter spiegare tali episodi di violenza. I molti e ripetuti disordini razziali negli USA sono il tragico esempio della mancata coesione socio-politica. Ma per creare una certa coesione fra gruppi e istituzioni sociali sarebbe necessario un continuo processo di interscambio, ma anche di riconoscimento fra i diversi membri. B.W. E’ vero che per temperamento non sono nostalgico o un sentimentale; ma ugualmente non sono neppure un progressista radicale. Abbiamo certo proiezioni esistenzialistiche rivolte al futuro, anche se non possiedono alcuna destinazione utopica, che del resto come tale non può aver luogo. Mi sento solo di dire che vivo qui ed ora. Charles Taylor C.T. Bisogna accettare che una società liberale lavori anche per l’istituzione di una sua dimensione nazionale e per la ricomposizione delle iniquità socio-economiche. Lei è stato spesso considerato come un critico del liberalismo. In che senso? Professor Taylor, la controversia teorica fra liberali e comunitaristi sembra essersi ormai trasferita sul piano politico, per la necessità di comprendere l’articolata società multiculturale. Il concetto limitativo di “comunità” sembra così essersi trasformato in quello più ampio di “società civile”. C.T. Lo sono nel senso di una critica a certa tradizione liberale - anche kantiana -, dove il soggetto viene presentato come un puro essere formale, per cui non si riesce a comprendere da dove nascano le sue reali motivazioni. Questo vale anche per John Rawls. I soggetti di cui costoro parlano non sono mai esistiti nella storia. Lei dunque critica il formalismo, da una parte, mentre dall’altra è alla ricerca di quali possano essere quei fondamenti istituzionali adeguati, mediante cui i soggetti possano legittimamente riconoscersi nell’ambito della vita civile. C.T. Da alcuni anni si preferisce ormai parlare di società civile, piuttosto che di comunità. È stato più che altro un risultato della protesta sociale contro la presenza di istituzioni anonime e gerarchiche e a favore, piuttosto, di associazioni autonome e indipendenti dal regime statale, sviluppantesi nell’ambito civile. Ma il concetto è oggi estremamente complesso e non così chiaro come sembrerebbe. Ripercorre e segna, infatti, l’intera storia della civilizzazione occidentale, tanto nella formazione delle moderne democrazie liberali, quanto nella costituzione della stessa teoria marxista. Bisogna però evitare il rischio di cadere vittime dell’anelito verso una libertà prepolitica, contrapposta al potere burocratico. C.T. Ritengo che non ci potrà essere alcun futuro per la società liberale, se noi non ci appelliamo ad una forma di “patriottismo costituzionale” - secondo la nota formulazione datane da Habermas -, ovvero se non ci riferiamo all’insieme di una costituzione basata sui diritti umani e su istituzioni legittime, a cui si possa unire una comune cultura politica. Come ho già detto, i principi formali di per sé non bastano per 15 INTERVISTA coagulare la società civile. Sono altresì necessari principi di altro tipo, possano essi essere storici, culturali, religiosi, nazionali. dal regionalismo. Neppure il fascismo è riuscito a imporle una forte identità nazionale, neppure mediante il dominio sulle masse. Lei accetta i principi liberali, pur mantenendo saldi alcuni aspetti dell’ “eticità concreta” di Hegel, su cui ha del resto scritto un importante libro... Dalle identità collettive, come base della società civile nazionale, veniamo ora alla questione dell’identità individuale. Lei ha scritto un grosso volume dal titolo: Radici dell’Io, in cui tratteggia il processo di costituzione dell’identità moderna. La “scoperta” del Moderno consisterebbe nel riconoscimento dell’amore di sé da parte dell’individuo, nella sua “autenticità”, nel suo essere biograficamente irriducibile rispetto alla comunità. Come pensa di poter fare interagire questi due aspetti: irrinunciabilità liberale all’individualità e senso comunitaristico di appartenenza? C.T. Ogni società liberale e democratica può attingere il suo senso civile di solidarietà ricorrendo a principi comuni, dal momento che i suoi membri si sentono parte di un comune orizzonte politico e culturale. I cittadini non sono fra di loro uniti come individui isolati. Sono bensì attori che instaurano reciproche relazioni, che si curano del bene dell’unità sociale e che si prendono seriamente in considerazione. È questa del resto la storia delle democrazie occidentali. La democrazia non si basa solo su assunti formali, bensì anche su contenuti. L’eticità concreta, la Sittlickheit hegeliana, è il presupposto necessario non solo per la condivisione dei principi, ma anche per la connessione delle particolarità. C.T. Nel mio libro ho cercato di ricostruire e ridefinire due diverse strade che nella modernità hanno portato alla costruzione del Sé, passando attraverso molti conflitti e sensi di “mutilazione”: la prima è di tipo storico-tradizionale; la seconda si basa invece su principi. Per molti l’identità individuale rappresenta un misto fra queste due vie ed è anche questa la sua sfida. Ma non si possono dare regole generali in proposito. È chiaro che non può più esistere un’immediata identificazione tra identità personale e comunità di appartenenza. Del resto, molte persone legano la propria azione più a principi generali, piuttosto che ad un preciso senso della comunità. Ma com’è poi possibile estendere questa “solidarietà sostanzialistica”, per così dire “locale”, anche ai non appartenenti? C.T. Bisogna partire dalla consapevolezza di essere un popolo fra tanti altri: non esiste una sola nazione. Autonome possono solo essere certe forme distorte di nazionalismo violento. La solidarietà internazionale non può certo fondarsi su quella nazionale, bensì su più ampi principi, come per l’appunto i diritti umani. Le cose sono compatibili. Amare i propri figli non significa essere cattivi cittadini del mondo. Bisogna quindi sviluppare un’identità collettiva e nazionale che sia aperta all’internazionalità. La Germania mostra esemplarmente come i principi liberali non possano essere disgiunti dalle responsabilità nazionali. In un articolo apparso su «Inquiry», Quintin Skinner La prende addirittura ad esempio rappresentativo di certo comunitarismo confessionale... C.T. Sono un cattolico. Ma da qui a dire che l’intera mia ricostruzione storica e teorica sia finalizzata a mostrare come una moderna società liberale debba necessariamente basarsi su presupposizioni teistici, ne passa... Non ho mai detto, né voluto sostenere questo. Sono ben consapevole che le attuali società multiculturali sono composte da punti di vista eterogenei, per cui non possono essere raccolti sotto un’unica prospettiva confessionale. Non so proprio se dover attribuire questo grossolano errore d’interpretazione ad un malinteso ermeneutico, oppure a qualcosa d’altro. L’Italia può invece essere presa ad esempio di come sia difficile costruire una forte identità nazionale. C.T. Ma è anche l’epilogo della sua storia recente: da sempre governata da élite, è sempre stata caratterizzata Bibliografia Martha C. Nussbaum. The Fragility of Goodness, Cambridge 1986; Love’s Knowledge. Essays on Philosophy and Literature, New York-Oxford 1990; Aristotelian Social Democracy, in B. Douglass, G. M. Mara, H. S. Richardson (a cura di), Liberalism and the Good, New York-Londra 1990, pp. 202-251; M. C. Nussbaum, A. K. Sen (a cura di), The Quality of Life, Oxford 1993. Bernard Williams. Problem of the Self, Cambridge 1973 (tr.it., Problemi dell’io, Milano 1980); Morality: an Introduction to Ethics, Cambridge 1976; Descartes: the Project of Pure Enquiry, New York 1978; Moral Luck, Cambridge 1981 (tr.it., Sorte morale, Milano 1987); Ethics and the Limits of Philosophy, Londra 1985 (tr.it., Etica e i limiti della filosofia, Roma-Bari 1987); B. Williams, J. J. C. Smart (a cura di), Utilitarism: for and against, Cambridge 1973 (tr.it., Utilitarismo: un confronto, Napoli 1985); B. Williams, A. K. Sen (a cura di), Utilitarism and Beyond, Cambridge 1982 (tr.it., Utilitarismo e oltre, Milano 1984). Charles Taylor. The Explanation of Behaviour, Londra 1979; Hegel and Modern Society, Cambridge 1979 (tr.it., Hegel e la società moderna, Bologna 1984); Philo16 sophy and the Human Sciences, Cambridge 1985; Sources of the Self: the Making of the Modern Identity, Cambridge 1989 (tr.it., Radici dell’Io. La costruzione dell’identità moderna, Milano 1993) Cross-Purposes: The Liberal-Communitarian Debate, in N. L. Rosenblum (a cura di), Liberalism and the Moral Life, Cambridge 1989, pp. 159182; Multiculturalism and the “Politics of Recognition”, Princeton 1991 (tr.it., Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Milano 1993); The Ethics of Autenticity, Cambridge 1991, The Malaise of Modernity, 1991 (trad. it., Il disagio della modernità, Roma-Bari 1993). AUTORI E IDEE AUTORI E IDEE Il soggetto in gioco La questione della “messa in gioco” del soggetto e della sua identità, considerata anche attraverso il ricorso alla riflessione di Freud e Foucault, è ciò che accomuna, pur da prospettive diverse, la raccolta di scritti di Jacques Derrida, “ESSERE GIUSTI CON FREUD”. LA STORIA DELLA FOLLIA NELL’ETÀ DELLA PSICOANALISI (trad. it. di G. Scibilia, introd. di P. A. Rovatti, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994), e lo studio di Salvatore Natoli, L’INCESSANTE MERAVIGLIA. FILOSOFIA, ESPRESSIONE, VERITÀ (Lanfranchi, Milano 1993), a cui fa riscontro il volume di Alessandro Dal Lago e Pier Aldo Rovatti, PER GIOCO. PICCOLO MANUALE DI ESPERIENZA LUDICA (Raffaello Cortina Editore, Milano 1993). Come rileva Pier Aldo Rovatti nell’ “Introduzione” all’opera di Jacques Derrida “Essere giusti con Freud”. La storia della follia nell’età della psicoanalisi, la questione del visibile e dell’invisibile, di una presenza che si colloca nel gioco di un’oscillazione, quella del fort/da fra detto e non detto, è al centro della polemica fra Derrida e Foucault, intorno alla quale ruotano i due testi derridiani raccolti in questo volume. Il dibattito fra Derrida e Foucault era stato originato dalla diversa valutazione della figura di Cartesio: istitutore, cioè “autore”, “soggetto agente”, della follia, ovvero dell’esclusione dell’alterità dal soggetto, per Foucault; “luogo” di quella medesima istituzione, e quindi sede egli medesimo di un’ambiguità, di un “doppio registro”, per Derrida. Reagendo alla prassi decostruttiva derridiana, Foucault aveva sostenuto che proprio essa, nella sua «riduzione delle pratiche discorsive alle tracce testuali», nell’«elisione degli avvenimenti che si producono, per trattenere solo dei segni per una lettera», fosse l’ultima incarnazione di quell’ “istituzione dell’altro”, finalizzata alla sua esclusione, nella quale consiste il segno distintivo del sorgere dell’età moderna. Quando Derrida riprende il proposito foucaultiano di «essere giusti con Freud», i termini della questione appa- iono simili: dove collocare il padre della psicanalisi? “Dentro” o “fuori” dalla storia della follia? Secondo Derrida, nel momento in cui Freud viene, nell’analisi foucaultiana, separato e contrapposto a Nietzsche, «Freud non appartiene più allo spazio “a partire da cui” può scriversi la Storia della follia. Dipende, piuttosto, da quella storia della follia, di cui il libro fa a sua volta il proprio “oggetto”». E’ proprio questo ciò che Derrida intende contestare, nel tentativo di mostrare come la prospettiva pulsionale freudiana, esposta in Al di là del principio di piacere, prefiguri in realtà la rimozione dell’interpretazione “fondamentalistica”, cioè sostanzialista, del concetto di “principio”. Una messa in mora radicale, dunque, della nozione di soggetto e di quella di verità, che proprio Freud rende impraticabili, escludendo la possibilità, per il soggetto, di uno sguardo omnicomprensivo, cioè oggettivo, che ponga capo alla verità. Muovendo dalla riflessione genealogica di Foucault, anche Salvatore Natoli, ne L’incessante meraviglia. Filosofia, espressione, verità, intende porre la questione filologica fondamentale, quella della verità. Foucault appare infatti a Natoli come colui che mira, anzitutto, a delineare una “storia della verità” attraverso un’analisi dei “giochi di verità”, mediante i quali «l’essere si costituisce storicamente come esperienza, vale a dire come essere che può e che deve essere pensato». La questione della verità, nella prospettiva foucaultiana, si presenta come questione relativa alla “forma” del gioco di verità; relativa, cioè, alle regole che dirigono questo gioco. L’indagine assume necessariamente una dimensione storica, ovvero “archeologica”, in quanto, vertendo sulle regole del gioco di verità, riguarda la formazione della verità medesima, la sua “origine” genealogica, le modalità del suo accadere come effetto di pratiche che la costituiscono. L’impostazione genealogica individua dunque le pratiche, e non un soggetto, come momento e luogo di origine del gioco di verità; la stessa nozione di origine, in quanto legata, appunto, al concetto di 17 “momento” e a quello di “luogo”, risulta anzi problematica nella dinamica dislocatoria, avviata dalla considerazione delle pratiche. E’ questa stessa dinamica a mettere in scacco la nozione, cartesiana e kantiana, di soggetto: «il soggetto costituente si dissolve nell’ “oggettività” degli oggetti, si fa “a priori” storico». Con questo, si dissolve però la nozione di “a priori”, ovvero quella di trascendentale: «se l’ “a priori” è storico, non è più “a priori”, e se è “a priori”, non è più storico». Entra così in crisi la nozione di verità come rapporto del pensiero all’essere; la filosofia stessa viene a ridefinirsi, in primo luogo, come esercizio linguistico, dove la questione dell’essere si pone come questione della definizione del vero e del suo discernimento nei confronti del falso. Ma per quanto la verità risulti essere, dunque, affare di parola, “cosa del discorso”, il discorso veritativo istituito dalla filosofia pretende, tuttavia, di cogliere il vero in quanto identificazione con il reale; pretende, cioè, di rimuovere se stesso, in quanto diaframma tra sé e il reale, con uno sforzo che risulta del tutto simile a quello di chi tenti di sollevarsi da terra, sollevando la sedia su cui è seduto. Per questa via si giunge al tentativo di Heidegger di determinare la verità come aletheia, cioè come al di là, fondativo, del vero e del falso, come quel divino movimento la cui inafferrabilità dà luogo, appunto, a quell’ “incessante meraviglia” che è la filosofia. Una meraviglia che, iuxta le indicazioni platoniche circa il thaumazein, consiste in un uscir fuori di sé del soggetto, in una condizione “estatica” che, attuando una sorta di decentramento del soggetto medesimo, lo pone in scacco. Una radicale, e per molti versi simile, “messa in gioco” del soggetto appare quella insìta nella dimensione del gioco, della quale Alessandro Dal Lago e Pier Aldo Rovatti, autori di Per gioco. Piccolo manuale di esperienza ludica, svolgono un’accurata fenomenologia, a partire dal “gioco dei bambini”. Anche qui “entra in gioco” la psicoanalisi attraverso il paradigma del fort/da, che chiarisce la tessitura di presenze e assenze di cui è costituita la realtà, nonché le categorie che si vorrebbero, per essa, “fonda- AUTORI E IDEE mentali”: «è tutta una questione di buchi. La realtà è bucata, almeno quella che chiamiamo la realtà del soggetto». Come insegna il bambino di Freud, il problema consiste nel circoscrivere i buchi, nel bordeggiare l’assenza. D’altra parte, ciò che è importante in questa tesi non è tanto la verità espressa, quanto la modalità della sua espressione, che nega proprio il carattere tetico di tale verità. Quella relativa al carattere illusorio dell’io non consiste, infatti, in una “tesi”, bensì piuttosto in una “verità teatrale”; verità “di contesto”, emergente cioè dal gioco, fra sfondo e tematizzazione, che costituisce la genesi dell’Io. Quanto questo Io risulti, “fin da principio”, “bucato”, quanto cioè esso appaia, fin dalla sua istituzione, genealogicamente, illusorio, lo aveva denunciato Nietzsche, ed emerge in modo evidente dall’analisi che Dal Lago e Rovatti dedicano a quel “gioco della vita” che è l’avventura. Categoria paradigmatica, quest’ultima, della dialettica fra possibile e reale, che costituisce la trama del tessuto connettivo dell’esperienza, qualora ci si ponga nello sguardo prospettico proprio del soggetto “forte” cartesiano. In altri termini, la dissoluzione, l’ingovernabilità del reale, cui pone capo l’esperienza del soggetto nell’avventura, possono aver luogo solo a partire da una strategia pianificante, così come si presenta quella messa in atto dal soggetto dell’età moderna. Per questo la “fine dell’avventura” accade quando quest’ultimo viene destituito di fondamento; o almeno, quando si ha coscienza di tale destituzione. F.C. Giustizia e morale Intorno al tema della giustizia, considerata rispettivamente dal punto di vista della filosofia del diritto, della filosofia morale e della filosofia politica, ruotano tre recenti studi: MORAL UND VERNUNFT . BEITRÄGE ZU ETHIK , GERECHTIGHEITSTHEORIE UND NORMENLOGIK (Morale e ragione. Contributi di etica, teoria della giustizia e logica delle norme, Böhlau, Wien 1993), di Ota Weinberger; KRITIK DES KONSEQUENTIALISMUS (Critica del consequenzialismo, R. Oldenbourg, München 1993), di Julian Nida-Rümelin; POLITIK ALS PFLICHT. STUDIEN ZUR POLITISCHEN PHILOSOPHIE (Politica come dovere. Studi di filosofia politica, Suhrkamp, Frankfurt a/M. 1993), di Detlef Horster. In un medesimo contesto di riflessione si colloca l’opera di Richard M. Hare, SULLA MORALE POLITICA (trad. it. di R. Rini, Il Saggiatore, Milano 1994), in cui viene compiuta un’analisi dei principi che fondano l’agire morale e politico, ispirandosi al principio di equità, quale prassi morale giusta e rispettosa dei diritti umani. Con il declino della ragione oggettiva, la rinuncia alla fondazione di una teoria della giustizia ha condotto all’oscillazione tra i due poli convergenti del relativismo dei valori e dell’artificialismo morale, a cui tale esito condanna. Da qui l’esigenza di conferire alle norme di giustizia saldi criteri di certezza, senza con ciò abbandonarsi alla tentazione di una loro fondazione oggettivistica. Nella raccolta di saggi dal titolo: Moral und Vernunft, Ota Weinberger, nel far propria una visione relativistica dei valori, si propone, nello stesso tempo, di mantenere il potenziale di verità contenuto nel concetto tradizionale di giustizia. Se non possiamo determinare che cosa è giusto, osserva Weinberger, certamente possiamo però indicare che cosa non è giusto. Con ciò si evita la ricaduta nello schema normativo giusnaturalistico, che ha la pretesa di offrire un quadro di valori assoluti e di carattere autoevidente. Ma Weinberger non si accontenta neppure di una pura riproposizione di un positivismo giuridico in cui i valori siano del tutto fungibili sulla base degli interessi di volta in volta in gioco. Secondo Weinberger, il concetto di giustizia ha un suo solido campo ideale di sfondo, valido al di sopra della mutevolezza e delle particolari circostanze empiriche. Certo, se da questo mondo ideale di valori, in cui domina il principio di giustizia, gli uomini finora hanno derivato un ordine sociale “repressivo”, come passiva adeguazione ai suoi postulati, si tratta ora di mostrare, secondo Weinberger, come questo mondo non sia in contrasto con quelle strategie proprie dell’individuo moderno, che chiede di veder affermate le sue attese di realizzazione personale. Come ciò sia possibile resta tuttavia problematico, come problematiche si rivelano le altre soluzioni “armoniche” prospettate da Weinberger: l’idea che il principio del piacere, da cui l’individuo deve lasciarsi guidare, possa accordarsi con gli scopi della comunità; o che rigorismo kantiano e utilitarismo possono trovare un terreno comune d’incontro. Il saggio di Julien Nida-Rümelin, Kritik des Konsequentialismus, si propone invece di criticare quelle teorie “consequenzianzialiste” dell’agire, di cui l’utilitarismo offre il quadro d’insieme. Bersaglio delle critiche di Nida-Rümelin è quella concezione della razionalità secondo cui è razionale quel tipo di agire che si sceglie in relazione alle migliori attese di riuscita. In una tale concezione Nida-Rümelin vede l’affermarsi di un criterio di razionalità tipicamente economico, di cui si sono servite quasi tutte le discipline, dalla sociologia d’impronta individualistica alla teoria economica della politica, fino alla teoria dei giochi e della decisione. La concezione consequenzialistica si basa sul presupposto morale secondo cui è giusto ciò che porta alla massima felicità possibile. Da qui il rimando all’utilitarismo 18 che, rispetto a questo tipo di imperativo morale, ne costituisce la peculiare sistematizzazione filosofica. Nida-Rümelin imputa alla visione utilitaristica dell’agire due letali conseguenze: da un lato l’individuo viene svuotato e ridotto ad un’anonima funzione, regolata dalle leggi astratte e spersonalizzate di acquisizione della felicità sociale; dall’altro, la predominanza nell’agire del criterio strumentale comporta che i valori vengano considerati del tutto privi di autonoma consistenza e pienamente fungibili rispetto al calcolo dei vantaggi perseguiti. Nel contesto di un’etica consequenzialistica, i diritti individuali e le istituzioni morali perdono la loro autonomia normativa, trovando giustificazione solo all’interno delle strategie di massimizzazione dell’utile. In questa sistematizzazione utilitaristica, Nida-Rümelin individua il carattere autocontraddittorio della razionalità consequenzialistica, mostrando come i suoi criteri di decisione siano condannati a sfociare in risultati irrazionali sul piano complessivo, che rendono impossibile fondare una teoria della giustizia (nella misura in cui questa si occupa anche di una logica delle norme) sulla base di una impostazione teorica (e morale) di tipo consequenzialistico. Il confronto tra il problema dei criteri morali d’azione e quello riguardante lo statuto dell’agire politico figura al centro dei quindici saggi che compongono il volume di Detlef Horster, Politik als Pflicht (politica come dovere). Nella soluzione del tema morale della giustizia Horster individua l’ambito proprio della politica: «Ciò che è immorale - egli afferma - è oggi anche nonpolitico». Gli obiettivi di libertà e uguaglianza, con cui la politica deve caratterizzarsi, presuppongono che essa debba connotarsi come pratica della giustizia, a cui inoltre la stessa formulazione del diritto deve ancorarsi. Questa concezione di Horster si presenta come ricomposizione dei motivi tematici propri di una filosofia politica d’impronta democratica, di cui peraltro conserva le contraddizioni. Per Horster, che non a caso si richiama alla tradizione illuministica, la politica si definisce all’interno di un orizzonte di valori certi e dati come tali. Gli stessi criteri di giustizia appaiono come concetti chiari ed evidenti, che si tratta solo di tradurre in atto e che non vengono fondati dalla politica come pratica del contingente. Secondo Richard M. Hare è “il filosofo” che ha il preciso compito di far chiarezza su cosa sia giusto o meno. Hare muove da alcune convinzioni morali quasi universali, che vengono da lui designate come principi intuitivi. La morale hareniana ha di fatto una base intuizionistica e si riconosce come utilitarismo. Il bene, per Hare, è ciò che intuitivamente è utile in ugual misura a tutte le persone. Conseguentemente la morale riguarda diritti e doveri che devono essere indistintamente rispet- AUTORI E IDEE Pieter Bruegel, La giustizia (1559, particolare) 19 AUTORI E IDEE tati, laddove la giustizia è l’imparziale spartizione di interessi. Diritti e doveri sono categorie imprescindibili in una considerazione morale della prassi sociale-politica e nessuno può esserne esente. Le regole, i diritti sono uguali per tutti e il bene di ciascuno è autentico solo se viene messo sullo stesso piano di tutti gli altri. L’utilitarismo intuizionistico, osserva Hare, rivela tuttavia i suoi limiti, quando “i principi intuitivi” entrano in conflitto, non garantendo più una morale equa; a questo punto occorre servirsi di un pensiero critico di livello superiore a quello intuitivo. La posizione di Hare è stata in particolare oggetto di confronto con quella di due altri pensatori, J. L. Mackie e David Lyons, che seppure con motivazioni diverse difendono la validità del pensiero intuitivo nel discernere il giusto dall’ingiusto, il bene dal male. Mackie si distanzia ancor di più da Hare riconoscendo il ruolo di “pensatore prudenziale” a colui che stabilisce i precetti morali muovendosi su un terreno di interesse personale. Secondo Mackie, il peso dei diritti e dei doveri non è uguale per tutti nella stessa misura; la morale quindi diventa faccenda di prudenza, prudenza nel tutelare il proprio diritto e il proprio dovere. Per Hare invece rimane valido il principio di universalità dei diritti e dei doveri; egli riconosce a colui che stabilisce le norme politiche il ruolo di “pensatore morale”, il quale, guidato dal pensiero critico, è osservatore attento di una morale equa. Lyons, da parte sua, difende invece un pensiero morale fondato esclusivamente su principi intuitivi, negando la necessità del pensiero critico difeso da Hare; per di più, Lyons non ritiene l’utilitarismo garante di una forza morale dei diritti umani. G.B./D.M. Contro la filosofia del rovesciamento La rilettura della storia della filosofia, operata da Augusto Del Noce contro le categorie interpretative tradizionali, è l’argomento centrale delle riflessioni di vari autori raccolte nel volume FILOSOFIA E DEMOCRAZIA IN AUGUSTO DEL NOCE (a cura di G. Ceci e L. Cedroni, Cinque Lune, Roma 1993). Particolarmente rilevante, in questa rilettura, risulta essere l’aspetto religioso, come d’altra parte traspare quale motivo dominante nelle stesse analisi compiute da Del Noce nella monografia: DA CARTESIO A ROSMINI (a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè Editore, Milano 1992). Questa reinterpretazione della filosofia mostra poi il proprio carattere di filosofia della libertà in un’altra opera di Del Noce, FILOSOFI DELL’ESISTENZA E DELLA LIBERTÀ (a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè Editore, Milano 1992). Il nucleo centrale delle analisi raccolte in Filosofia e Democrazia in Augusto Del Noce è costituito dall’originale posizione filosofica, che Augusto Del Noce matura attraverso il continuo colloquio con la storia della filosofia. Questa raccolta di scritti mette in luce come la filosofia di Del Noce sia una “filosofia attraverso la storia”, che polemizza contro tutti i tentativi filosofici di combattere l’avversario rimanendo all’interno della sua filosofia e accettandone alcune categorie fondamentali. Nel suo contributo Andrea Paris sottolinea come Del Noce, presentando un nuovo modo di intendere il cartesianesimo, abbia prospettato un nuovo concetto di “moderno” e abbia stabilito una continuità filosofica tra autori che tradizionalmente venivano considerati come contrapposti. Si tratta di una linea teorica che individua un sostanziale collegamento tra Cartesio, Pascal, Malebranche, Vico e Rosmini per la fondazione di una autentica filosofia religiosa che si coniughi con la dimensione del moderno. Lorella Cedroni evidenzia invece, nel suo intervento, come per poter giungere a questa concezione sia necessario liberarsi dalla nozione comunemente accettata di modernità in quanto avanzamento progressivo della filosofia dell’immanenza attraverso il distacco dai valori religiosi e cattolici. Il tema di una nuova visione del moderno si ritrova anche nello scritto di Alfredo Omaggio, che sottolinea come la nuova storiografia filosofica presentata da Del Noce si opponga al taglio filosofico di tipo immanentistico che fa coincidere modernità con visione naturalistica, scientifica, avulsa dai valori della trascendenza. In quest’ottica, come rilevano Paris e Omaggio, Del Noce propone una rilettura di Cartesio come iniziatore della filosofia moderna. Si tratta di comprendere l’essenza della filosofia cartesiana contro la sua corrente identificazione con il razionalismo; identificazione che impedisce di cogliere la possibilità del cartesianesimo di svilupparsi pienamente all’interno di una filosofia religiosa realistica, che si coniughi con la storia. A questo proposito, nello scritto “Lo stato attuale degli studi cartesiani”, che compare nella monografia Da Cartesio a Rosmini, Del Noce delinea due tradizioni filosofiche che hanno prevalso nell’interpretazione del cartesianesimo: quella rinascimentale e quella scolastica, ritenendo invece che la possibilità di una diversa valutazione del cartesianesimo sia stata tracciata da filosofi come Jean Laporte, che in particolar modo ha definito la filosofia di Cartesio come filosofia della trascendenza. Questa nuova interpretazione permette di esplicare quella possibile via di sviluppo che attraverso filosofi come Pascal, Malebranche, Vico sfocia nella filosofia di Rosmini, che per Del Noce costituisce l’approdo naturale 20 della nuova ricostruzione metafisica. Ed è all’interno di questa linea direttiva che Del Noce affronta ora le tematiche principali di questi filosofi, mostrando come per esempio l’anelito religioso cartesiano abbia trovato una sua potenziale significazione nella filosofia di Pascal. Ciò che ha impedito a Cartesio di liberarsi da quella visione naturalistica che è un presupposto della sua teoria è il suo mancato riferimento alla storia, la sua visione apolitica; riferimento che si trova invece esplicitato in Vico. Il costante confronto con la storia è fondamentale in Del Noce, come mostra Pasquale Serra nel suo contributo alla raccolta Filosofia e Democrazia in Augusto Del Noce, in quanto consente la rivalutazione di una metafisica sottratta all’irrigidimento schematico di risposte cristallizzate, oggettivate, già risolte e valide per tutti. Si tratta di rapportarsi alla storia della filosofia in modo più aperto, più libero da schematismi consueti, capace di ridare alla metafisica tutta la sua potenzialità ermeneutica. La questione metafisica, osserva Del Noce, è ineludibile e pregnante nella vita umana e implica una soluzione personale, in rapporto alla continua novità della situazione storica. Secondo Serra, una tale considerazione è anche frutto dell’importanza che nella prospettiva teorica di Del Noce assume la filosofia di Pascal come scommessa per combattere quel nichilismo che solo in apparenza è l’unica risposta possibile alla crisi della cultura dominante. È la scommessa di chi si trova sull’orlo dell’abisso e sceglie di costruire su nuove basi una metafisica autentica. A questo proposito Lorella Cedroni mostra come nella teoria di Del Noce la democrazia autentica sia solo quella che sappia collegarsi con questa nuova metafisica. Solo così si può verificare l’apertura verso la democrazia contro totalitarismi d’ogni genere. I tentativi compiuti per combattere il totalitarismo in direzione democratica, osserva infatti Del Noce, si sono rivelati solo rovesciamenti dell’avversario. Sotto questo profilo le democrazie attuali hanno perduto il legame con la filosofia, trasformandosi in strumenti tecnici privi di contenuti etici e di valori metafisici, che finiscono col muoversi nella stessa orbita del totalitarismo in quanto suo rovesciamento e non vero superamento. Il pluralismo morale che le democrazie attuali difendono implica, per Del Noce, la “tirannide della maggioranza”, che obbliga i cittadini a subordinarsi e ad adattarsi a un sistema coercitivo che non è dissimile da quello totalitaristico. Per uscire da questo circolo vizioso è necessario, sottolinea Cedroni, riconoscere la democrazia come “valore in sé” contro quei surrogati attuali di democrazia che finiscono per essere strumenti di potere di una classe dirigente. Il tema politico della critica di Del Noce al AUTORI E IDEE totalitarismo viene affrontato anche da Gianni Dessì. Se per Del Noce la manifestazione più pura dell’essenza del totalitarismo risulta essere il fascismo, il comunismo, d’altra parte, non ha saputo contrapporsi ad esso se non nella forma consueta dell’ “anti”, realizzando nella storia una delle peggiori incarnazioni dello stesso totalitarismo. Anche le revisioni critiche compiute dal marxismo risultano inadeguate, in quanto non hanno saputo combattere l’essenza del totalitarismo, rimanendovi in qualche modo invischiate. Per Del Noce, fa notare Dessì, il fatto che Marx non sia stato adeguatamente superato è dovuto alla mancata comprensione della sua concezione antropologica, una concezione che definisce l’uomo in base alla sua appartenenza alla classe, al partito, alla società e che si traduce necessariamente in scontro diretto, ponendo il cambiamento sociale come condizione ineludibile della stessa ragion d’essere del marxismo. Dessì sottolinea in tal senso il carattere dell’antropologia platonico-agostiniana che Del Noce contrappone a quella marxista e che consiste nella valutazione dell’uomo “possibile” oltre l’uomo reale, non più appiattito nella dimensione di classe o in quella sociale. Questa posizione viene illustrata chiaramente da Del Noce nel suo Filosofi dell’esistenza e della libertà, in particolare nello scritto dedicato al dualismo di Benda. Egli sostiene che nella antropologia filosofica platonico-agostiniana viene affermata quell’idea di Dio che è la sola che possa fondare l’unità degli uomini e la loro libertà sconfiggendo la prassi della storia per dirigersi verso quella della persuasione, inconciliabile con i regimi totalitaristici. Attraverso l’analisi dei filosofi contemporanei più congeniali alla sua impostazione metafisica, Del Noce mostra la possibilità di una nuova valorizzazione del singolo non separato dalla realtà della comunità sociale, bensì deciso a realizzarsi all’interno di un’autentica democrazia. In alcuni filosofi, che in linea generale possono essere intesi come filosofi della libertà, tra i quali Leòn Chestov, Jean Lequier, Simone Weil, Julien Benda, Piero Martinetti e Carlo Mazzantini, Del Noce riscontra una volontà di affermare i valori della trascendenza contro le differenti forme di razionalismo. Tuttavia, secondo Del Noce, questa volontà non ha trovato una sua completa esplicazione dal momento che sono state usate le categorie ontologiche dell’avversario senza demolire fino in fondo i suoi principali presupposti. A questo proposito un esempio illuminante può essere rintracciato, secondo Del Noce, in Lequier, il quale ritiene impossibile l’accordo tra libertà e necessità, considerato come accordo con il peccato. In questo Lequier, osserva Del Noce, assume il razionalismo metafisico del suo avversario, secondo cui nel rapporto tra l’assoluto e il finito quanta realtà viene conferita all’assoluto altrettanta realtà deve essere tolta al finito. Questo atteggiamento filosofico, fa notare Del Noce, può anche sfociare in una forma di dualismo esasperato, come avviene nella filosofia di Martinetti. A questa impossibilità di liberarsi dalla vecchia metafisica, Del Noce oppone una metafisica religiosa che sia autenticamente libera dal razionalismo e dalle sue categorie, che affermi la trascendenza senza scavare un abisso con il finito, che sostenga la libertà senza contrapporla staticamente alla necessità, che colga l’accordo possibile tra questi termini, riconoscendo l’importanza della verità storica. Si tratta di una filosofia religiosa che non si lascia inquadrare nelle categorie opposte del misticismo e del panteismo immanente, dello spiritualismo e del materialismo, ma è in grado di coniugare l’infinito con il finito, l’interiorità con l’esteriorità; una filosofia religiosa che sia difesa del singolo contro l’impoverimento razionalistico dell’universale, senza decadere in posizioni solipsistiche; che sia difesa della libertà senza degenerare in un arbitrarismo umano e teologico. Una tale filosofia può essere definita realista, nella misura in cui si collega con la religione nella sua valenza di verità trascendente; una tale filosofia può essere definita metafisica, nella misura in cui rifiuta le categorie metafisiche tradizionali, e quindi rifiuta il razionalismo nella sua pretesa di spiegare ogni cosa: si tratta di una metafisica dentro la storia, una metafisica che difende il valore della verità, di una verità aperta al colloquio con la storia della filosofia. M.Mi. In ricordo di Agazzi Il 25 settembre 1991 si spegneva a Pavia Emilio Agazzi, per anni docente di Filosofia della storia presso l’Università degli Studi di Milano. A tre anni di distanza dalla sua scomparsa, la stessa Università, in collaborazione con il Dipartimento di Filosofia, ha patrocinato un volume di scritti e testimonianze di autori vari, L’IMPEGNO DELLA RAGIONE. PER EMILIO AGAZZI (Edizioni Unicopli, Milano 1994), a cura di Mario Cingoli, Marina Calloni e Antonio Ferraro. Una veloce scorsa all’indice del libro volume offre immediatamente al lettore l’idea di una pubblicazione non meramente celebrativa, bensì una riflessione, composita e articolata, di allievi, compagni e amici sull’opera politico-culturale di Emilio Agazzi, un pensatore che per tutti aveva segnato un percorso della loro vita. Il volume si articola in due sezioni principali: 21 gli “Studi”, saggi di contenuto autonomo; e gli “Incontri”, testimonianze di più diretto ricordo personale. Tra i primi si segnalano, fra i tanti, i saggi di A. Vigorelli, A. Burgio, S. Merli, L. Parinetto, M. Eldred; negli “Incontri”, molti dei quali riproducono gli interventi pronunciati alla Casa della Cultura di Milano il 23 gennaio 1992, sottolineamo i ricordi di B. Beccalli, C. Cases, N. Bobbio, M. Dal Pra, M. Cingoli, J. Habermas, M. Roth, G. Petrovic. Completano il volume le “Note bio-bibliografiche”, curate da Marina Calloni e Giovanni Libretti, e una “Appendice” contenente una “Presentazione” di se stesso e del suo percorso intellettuale e politico, scritto da Emilio Agazzi nel 1984. Infine, correda il volume un consistente e importante testo inedito del 1980, a cura di Antonio Ferraro, Linee fondamentali della recezione della teoria critica in Italia, che costituisce una delle pochissime, ampie ricostruzioni della “fortuna” della Scuola di Francoforte nel nostro paese. Gli interessi di Agazzi si incentrarono sulla filosofia italiana sin dalla tesi di laurea, sostenuta a Genova con M. F. Sciacca e dedicata alla filosofia di Piero Martinetti, sulla cui influenza si sofferma qui lo studio di Amedeo Vigorelli. Tra la fine degli anni Quaranta e il decennio successivo, probabilmente a seguito della pubblicazione dei Quaderni del carcere di Gramsci - e in particolare quello dedicato alla filosofia di Croce - Agazzi si era dedicato alla preparazione di un insieme di lavori e riflessioni sulla filosofia crociana, che in realtà si venivano configurando come un’indagine complessiva sulla storia del marxismo italiano e che confluiranno nel suo maggior lavoro d’insieme, Il giovane Croce e il marxismo, del 1962. Ad alcuni aspetti e autori del marxismo in Italia sono dedicati, nel volume commemorativo, i saggi di Marzio Zanantoni e Alberto Burgio. I contributi di Stefano Merli e Attilio Mangano ricostruiscono invece l’impegno più propriamente politico di Agazzi tra gli anni Cinquanta e Settanta, durante la sua aperta militanza nella sinistra minotaria ed extraparlamentare. Dagli anni Settanta sino agli ultimi momenti di lucidità, concessigli dalla dolorosa malattia, gli interessi intellettuali di Agazzi, a seguito anche di incontri decisivi con alcuni dei protagonisti francofortesi della “Teoria critica”, in primo luogo Habermas, mutarono in direzione di un approfondimento e di una trasposizione in Italia di quella linea di pensiero. Ad indagare tale percorso contribuiscono, nel volume, gli studi di Luciano Frasconi, Antonio Ferraro, Walter Privitera, Marina Calloni; mentre i lavori di Giovanni Dozzi, Michael Eldred e Luciano Parinetto analizzano aspetti diversi dell’indagine marxiana, anch’essa di continua frequentazione da parte di Agazzi. M.Z. AUTORI E IDEE Richard Rorty Pragmatismo americano: Rorty e Bernstein Con lo scopo di conciliare teorie ermeneutiche, da una parte, e filosofia analitica, dall’altra, la concezione neopragmatista di Richard Rorty si propone come soluzione, filosofica e linguistica, della fine della metafisica. Le sue tesi in proposito sono espresse da Rorty in SCRITTI FILOSOFICI II (trad. it. di B. Agnese, introd. di A. G. Gargani, Laterza, Roma-Bari 1994) e nella raccolta di saggi: LA SVOLTA LINGUISTICA (trad. di S. Velotti, introd. di D. Marconi, Garzanti, Milano 1994). Alla concezione di Rorty fa riscontro Richard Bernstein, rappresentante di rilievo della nuova ondata pragmatista negli Stati Uniti. Nella sua prima opera pubblicata in Italia, LA NUOVA COSTELLAZIONE (trad. it. di Feltrinelli, Milano 1994), Bernstein delinea con chiarezza le ragioni dell’attuale ricezione della più recente filosofia europea da parte della cultura filosofica statunitense, in virtù di una forte affinità di temi e problemi tra il classico pragmatismo americano e il pensiero “postmoderno”. Ricontestualizzare la filosofia post-moderna in un ambito realmente post-metafisico è lo scopo che si prefigge Richard Rorty nel secondo volume dei suoi Scritti filoso- fici. Una volta riconosciuto il tramonto delle categorie metafisiche, quali Verità, Giustizia o sommo Bene, riferite a quel contesto rappresentativo e platonico del quale Nietzsche è stato considerato il primo e autentico dissacratore, si tratta, secondo Rorty, di ripensare quelle stesse categorie, nel contesto della filosofia neo-pragmatista, dal punto di vista dell’utilità, dei bisogni, degli interessi e delle aspettative. L’elemento che, secondo Rorty, è in grado di ricontestualizzare le nozioni tradizionali nel nuovo orizzonte speculativo è la metafora applicata alla prassi. Infatti, una volta ammessa l’impossibilità di tradurre uno stesso termine in linguaggi diversi, occorre poter passare da un vocabolario ad un altro, mantenendo l’autonomia dei diversi contesti ontologici e linguistici. Il proposito di Rorty consiste, in tal senso, nel conciliare l’ermeneutica filosofica con la filosofia pragmatista, mediante un uso del linguaggio, e in particolare della metafora, come strumento a disposizione dell’individuo. Da questo punto di vista, il progetto di Rorty analizza, contestandole, le tesi di Heidegger e Derrida, che pur avendo il merito di aver riconosciuto la fine delle categorie metafisiche e della filosofia “essenzialistica”, non hanno saputo realmente uscirne. In particolare, Rorty contesta la critica heideggeriana della tecnica, considerata come responsabile del nichilismo, e che Rorty sembra invece apprezzare in 22 quanto fautrice del pragmatismo; l’uso del linguaggio, che Heidegger eleva quasi a “divinità” in grado di decidere del destino degli uomini; e, infine, l’ossessione heideggeriana per la ricerca di una Verità che sostituisca quella metafisica, senza riuscire effettivamente a oltrepassarla. In altre parole, osserva Rorty, da una parte Heidegger contesta la pretesa di universalità della metafisica, volendosene distanziare, dall’altra guarda «ad una qualche ascesi purificatoria», che possa fornire l’apertura all’essere e condurre in tal modo l’individuo verso un orizzonte originario e autentico. D’altra parte, fa notare Rorty, anche Derrida, pur avendo “decostruito” la tradizione metafisica, concepisce una diversa scrittura che pone tuttavia il testo e la traccia come il trascendentale del senso. La proposta di Rorty, al contrario, non si attribuisce alcuna pretesa fondativa. Su questa linea, grande importanza viene attribuita a romanzieri, come Kundera e Dickens; il primo per l’uso dello humour e per la descrizione dei suoi personaggi da molteplici punti di vista; il secondo per la rappresentazione di personaggi qualunque che sfuggono a qualsiasi classificazione e tipologia morale imposta. Il richiamo frequente all’uso della metafora e all’utilizzazione del linguaggio come strumento, introducono al tema specifico di una raccolta di tre saggi, La svolta linguistica, in cui Rorty esprime il suo parere sul rapporto filosofia-linguaggio. Il primo saggio, del 1967, verte sul progetto di Gustav Bergmann di fondare un “linguaggio ideale”. La proposta, poi sostenuta anche da Rudolf Carnap, è descritta da Rorty nella sua versione iniziale e nel suo fallimento conclusivo. L’idea di fondare un linguaggio in cui ogni proposizione possa essere trascritta secondo una logica estensionale, appunto un linguaggio ideale, si scontra, infatti, con quella del linguaggio ordinario, che sostiene di essere in grado di fare le veci di quello ideale. Col fallimento di un tale progetto fallisce anche, secondo Rorty, l’idea di un rapporto stretto tra filosofia e logica. Da qui la proposta, sostenuta anche in La filosofia e lo specchio della natura (trad. it., Milano 1986), di un’alternativa filosofica e linguistica, che sembra concretizzarsi, nel modo migliore, nelle ricerche poetiche del secondo Heidegger, nei giochi linguistici di Wittgenstein, e nella ricerca di nuovi modi di pensare e di nuovi vocabolari, perseguita dallo stesso Rorty. Il secondo saggio, del 1975, posto come introduzione ad un testo di Ian Hacking, rifiuta la concezione del linguaggio come interfaccia tra soggetto e realtà. Il rifiuto della teoria rappresentazionale, pur dichiarata nelle intenzioni, non trova tuttavia nel testo di Hacking un effettivo riscontro. In modo più netto, Rorty si propone, infatti, di uscire definitivamente dalla logica del significato e del linguaggio come medium tra io e mondo per sposare un’interpretazione AUTORI E IDEE che vede la filosofia come il “curiosare”, senza alcuna pretesa fondativa, tra gli oggetti della realtà. Ispirato, nelle sue tesi, dalla filosofia di Donald Davidson, che contro la teoria rappresentazionalistica suggerisce come il significato delle parole sia dato da ciò che le causa, nel terzo saggio, del 1990, Rorty assume una posizione ancor più radicale, contestando in toto anche la concettualizzazione del linguaggio e della filosofia come tali. In altre parole, Rorty si rifiuta di analizzare “il” linguaggio in quanto tale, che, non solo non si riferisce ad una teoria rappresentazionalistica, ma non corrisponde ad alcun concetto univoco sul quale si possa formalizzare una qualche teoria. Dalla posizione di Rorty differisce tuttavia quella di un altro importante rappresentante del pragmatismo americano contemporaneo, Richard Bernstein, che individua il fulcro dell’attuale dissidio tra moderno e postmoderno in una generale “collera contro la ragione”, il rifiuto di ciò che la razionalità è divenuta nel mondo contemporaneo a seguito di quel che Max Weber aveva chiamato il “paradosso della razionalizzazione”, ossia il suo causare al contempo emancipazione e reificazione nella vita dell’uomo. Come reazione a un tale sviluppo sono da considerare, secondo Bernstein, la concezione di Adorno e quella di Heidegger, pur così diverse, e in particolare il pensiero di Jürgen Habermas che, partendo criticamente da Weber, muove in direzione di un ideale di razionalità dialogica comunicativa, che lo avvicina molto al pragmatismo, non diversamente da un pensatore come Michel Foucault. Individuando il nucleo del pragmatismo nel rifiuto di ogni essenzialismo, e facendo coincidere l’essenzialismo con la riduzione dell’alterità al Medesimo, la visione pragmatista di Bernstein guarda in modo privilegiato al lavoro di Emmanuel Levinas e alla tematica dell’Altro, e non a quello di Jacques Derrida e al decostruzionismo o testualismo, come invece fa Rorty (non a caso in America Bernstein è uno degli autori di riferimento del politically correct, la teoria del rispetto linguistico di qualunque alterità). Derrida viene infatti ricondotto da Bernstein “all’ermeneutica ereticale ebraica”, riguardo alle Scritture, e la sua decostruzione presentata come un progetto edificante, un’etica e una politica postmetafisiche, volte a interrompere la “storia della violenza”. Tuttavia, proprio nella dialettica tra Habermas e Derrida, tra azione e razionalità comunicativa, da una parte, e discorso sulla violenza della “logica dell’identità” dall’altra, Bernstein individua “la nuova costellazione” che dà il titolo a quest’opera, incentrata a suo avviso sulla dinamica tra il pragmatismo “weberiano” di Habermas e “l’etica dell’indecidibilità” di Derrida come campo di forza da cui può scaturire un nuovo orizzonte etico-politico. F.E./.A.S. Peirce La figura e l’opera di Charles Sanders Peirce sono oggetto della biografia di Joseph Brent, CHARLES SANDERS PEIRCE (Indiana University Press, Bloomington 1993), prima ricognizione nella vita del filosofo americano che descrive la commistione tra la sua esistenza prodiga ed eccentrica e la sua grandezza teoretica. Lo studio di Carl R. Hausman, CHARLES PEIRCE’S EVOLUTIONARY PHILOSOPHY (La filosofia dell’evoluzione di Charles Peirce, Cambridge University Press, Cambridge 1993), è invece un’introduzione al pensiero metafisico di Peirce con particolare attenzione alla relazione tra la nozione di intelligibilità e quelle di spontaneità e creatività. Ripercorrendone l’affascinante vita, mescolanza di eccentricità e rigore, di estrema precarietà sociale ed economica e alto livello intellettuale, la biografia di Joseph Brent individua i “luoghi” e le cause esistenziali, nonché le “incarnazioni teoriche” del contributo di pensiero di Charles Sanders Peirce. Peirce nacque nel 1839 da una colta famiglia; dal padre, docente a Harvard, ereditò la grande abilità matematica, ma anche la litigiosità patologica e l’eccessiva sensibilità. La gioventù di Peirce fu ribelle e dissoluta, spesa tra ubriachezze, violenze e sperperi; i suoi studi ufficiali scarsi e stentati, sebbene conoscesse profondamente matematica, astronomia, filosofia e logica. Laureatosi, divenne ispettore dell’United States Coast Survey, ove era addetto alle rilevazione delle variazioni di gravità. Lo studio del grado d’influenza che la flessione del pendolo per le rilevazioni gravimetriche ha sulla sua misurazione lo convinse della validità del principio pragmatico: l’imprecisione dei sistemi di misurazione non rende indeterminata la scienza, dato che essa continua a funzionare; il significato di un concetto è dunque dato dalla somma di Charles Sanders Peirce 23 AUTORI E IDEE tutti gli effetti empirici che possiamo concepire. Solo quando tutte le possibili esperienze sono state fatte, abbiamo raggiunto il concetto; fino a quel momento la scienza può giungere solo a concezioni provvisorie e non a verità assolute; le sue leggi non sono fissate dall’inizio, ma sono vere fino a quando non possono essere migliorate; esse non sono altro che abiti mentali che vengono dal controllo con successo delle ipotesi passate e attualmente accettate dalla comunità scientifica, cioè, in termini popperiani, può essere falsificata. Il principio pragmatico porta Peirce a formulare una cosmogonia secondo cui l’universo si muove da uno stato caotico di potenzialità semplici verso una totale regolarità; tendenza che è rispecchiata nell’opera sistematizzatrice della mente umana: lo schema evolutivo lascia posto alla possibilità e all’indeterminazione creativa, pur nell’intelligibilità del mondo. Nel 1879 Peirce ottenne per breve tempo, a causa del suo comportamento litigioso, l’incarico di lettore di Logica alla John Hopkins University (unico impiego accademico della sua vita). Secondo Peirce, la logica - che egli sviluppò significativamente, continuando l’opera di G. Boole , intesa in senso formale come classificazione dei prodotti del pensiero, e non psicologico (come in J. S. Mill), è l’essenza della filosofia, in quanto ci permette di verificare le cause. Nella verifica della validità degli argomenti e delle inferenze, la logica è autonoma e indipendente. Alla John Hopkins University Peirce dette vita ad una scuola di giovani logici, a cui si deve la pubblicazione di Studies in Logic, che incarnava la convinzione che la costruzione del regno autonomo della logica non è frutto dello sforzo individuale, ma dell’opera di generazioni di filosofi: «la logica è radicata nel principio sociale» sosteneva Peirce. Il principio sociale è la prova dell’esistenza della realtà fuori di noi, dell’oggettività verso cui tutte le nostre esperienze convergono, al di là della diversità delle nostre esperienze soggettivamente determinate, e che spetta alla scienza chiarificare. In opposizione a Descartes, il reale, secondo Peirce, è definito da un accordo tra tutti coloro, le cui credenziali scientifiche sono tali da ottenere la nostra fiducia. Dal 1890 al 1905, Peirce fu impiegato come giornalista del Nation. Dal 1891 al 1893 scrive cinque saggi per la nuova rivista di filosofia «The Monist» - ora raccolti nel volume The essential Peirce (L’essenziale di Peirce, vol. I, a cura di N. Houser e C. Koesel, Bloomington 1992) - in cui espone il suo “idealismo obiettivo”, definendolo una versione realista dell’idealismo: la realtà è esterna a noi e alla nostra mente, osservava Peirce, ma è anche interna e mentale; egli così risolveva i rapporti tra mente e corpo, appellandosi ad una variazione della teoria dell’armonia prestabilita tra mente e natura, per cui la mate- ria è definita come mente non ancora regolata da abiti e leggi psicologiche e la mente come fontana dell’esistenza. Peirce completa la posizione dell’idealismo oggettivo in modo teistico, interpretando l’universo come il processo di pensiero di un Dio in evoluzione, la Suprema Ipotesi che solo il tempo può provare. Nei primi anni del 1900 Peirce fu chiamato ad Harvard dall’amico William James per tenere lezioni sul pragmatismo e sulla logica, che tuttavia rimasero oscure per l’uditorio. Delle numerose parole coniate da Peirce per descrivere la sua filosofia, l’unica sopravvissuta, osserva Brent, è la parola “semiotica”; e infatti, come semiotico Peirce deve essere considerato. La semiotica, o teoria generale del significato, è centrale e pervasiva, in quanto, secondo Peirce, «tutto il pensato è segno». Ciò comporta una continua attività di semiosi, cioè di interpretazione, della mente umana. L’essenza della semiotica è l’analisi della relazione segnica nelle sue tre componenti: il segno stesso, l’oggetto che determina il segno e l’effetto che il segno produce, chiamato da Peirce interpretant e solitamente significato. L’interpretant è un’inferenza affermata in parole, non qualche cosa di psicologico, e come tale è possesso obiettivo di una comunità. Esso, tuttavia, è a sua volta un pensiero; è un segno che produce un altro significato: ciò provoca un processo all’infinito, quello appunto della semiosi o interpretazione. Tra le biografie recenti dedicate a Peirce, vale la pena menzionare qui quella di Klaus Oehler, Charles Sanders Peirce (Beck, Monaco di Baviera 1993), una breve ma efficace ricostruzione della vita e dell’opera del filosofo americano, con particolare considerazione per le sue speculazioni di ordine cosmologico, spesso trascurate dalla letteratura critica, e anche per la sua concezione semiotica. Lo studio di Carl R. Hausman, Charles S. Peirce’s Evolutionary Philosophy, si propone invece di introdurre al pensiero di Peirce, fornendo un’interpretazione delle sue teorie metafisiche, con particolare riguardo al rapporto tra il concetto di intelligibilità dell’universo e quello di spontaneità e creatività del mondo. Per illustrare la concezione di Peirce, Hausman non utilizza i testi primari, che possono essere oggetto di controversie o confutazioni, ma solo fonti secondarie, come i commenti e le analisi di Richard Rorty, Donald Davidson e Hilary Putnam. Nel suo studio, Hausman fornisce inoltre una sistematica e coerente classificazione dei numerosi concetti che contrassegnano la teoria filosofica di Peirce, separando le tendenze realiste da quelle idealiste e indicando la chiave per la loro ricomposizione. Peirce considera la ricerca scientifica un processo, definito dalle regole del ragionamento, che muove dal dubbio e va verso lo stabilimento della credenza. A volte la scienza procede realmente in questo modo, 24 fa notare Hausman; spesso però le ricerche più importanti iniziano quando il ricercatore è convinto di una certa cosa, anche se manca l’evidenza di questa convinzione. In ogni caso, il dubbio non gioca qui nessun ruolo; e ciò che si deve raggiungere non è la verità di qualche ipotesi rilevante, bensì una evidenza adeguata, che permetta di accettarla. Dovremmo chiederci, allora, osserva Hausman, se la concezione di Peirce non sia un errore; o viceversa se essa non sia l’essenza di ogni concezione di ricerca scientifica al di là delle apparenze; oppure, da un altro punto di vista, quale sia in Peirce il significato preciso di parole come “dubbio” e “credenza”; e così via. M.G. Sul progresso Nello scritto: LE ILLUSIONI DEL PROGRESSO (Bollati Boringhieri, Torino 1993), Georges Sorel compie un’analisi delle conseguenze negative che a suo avviso l’ideologia del progresso ha determinato nella storia della civilizzazione. Un’originale riconsiderazione della tematica del progresso figura anche come motivo centrale in una serie di riflessioni e ricostruzioni critiche, che Paolo Vincieri dedica a Schopenhauer nel volume: DISCORDIA E DESTINO IN SCHOPENHAUER (Il Melangolo, Genova 1993). Ne Le illusioni del progresso, Georges Sorel esamina con precisione il sorgere dell’ideologia del progresso verso la fine del Seicento, nel momento in cui la borghesia esprime il suo desiderio di dominio del mondo; un’ideologia che si mantiene sostanzialmente tale, osserva Sorel, anche con l’ascesa delle classi operaie, pronte a inserirsi nella cultura borghese e a sostituirsi alla borghesia stessa. Ciò che in questa situazione porta a maturare tanta fiducia nel progresso è la convinzione che esso sia il nuovo dell’umanità; alleato del progresso è la scienza, che diventa la ragione della storia. Il mondo intero “cade” nelle mani della ragione, una ragione che tende a unificare sotto il suo potere la vita delle classi sociali e dell’umanità intera. Sorel si serve di proposito del termine “cadere” nelle mani di una ragione-potere, per dichiarare il suo disappunto nei confronti di una simile idea di progresso, che si presenta ai suoi occhi come “illusione”, tradimento nei confronti di una vera trasformazione del mondo, una trasformazione umana, oltre che tecnologica. Sorel attacca i responsabili di questa concezione del progresso e li accusa di aver stravolto la cultura originale della politica e della scienza, che debbono restare ambiti separati. Veri responsabili di una simile rivoluzione-involutiva sono, secondo Sorel, gli AUTORI E IDEE intellettuali, che da “giullari” della nobiltà sono diventati i portavoce del dominio borghese anche presso il proletariato, per costituirsi in una nuova classe politica dominante, che detta le leggi della scienza-progresso attraverso la conquista razionale dell’ignoto. In questa situazione il singolo diventa vittima di un’organizzazione sociale il cui scopo è proteggere gli interessi della nuova classe politica alle prese con gli affari, il potere e un illusorio progresso. Da una diversa prospettiva, osserva Paolo Vincieri nel suo studio: Discordia e destino in Schopenhauer, anche Schopenhauer rilevava che il dominio della volontà sull’intero universo invera l’hobbesiano homo homini lupus come un aspetto della «lotta universale che è presente in natura», conducendo a uno Stato forte, che tuttavia non elimina la dialettica tra noia e dolore in cui si dibatte l’esistenza umana. Schopenhauer - prosegue Vincieri - «non nega comunque che un progresso ci sia stato e sia ancora possibile, ma dato che non può contare sulla bontà dell’animo [...], egli non può che fondarlo sull’egoismo». In questo più vicino a Mandeville, che a Rousseau, quella di Schopenhauer, osserva ancora Vincieri, è «una prospettiva che si potrebbe definire materialistica, in quanto si innesta in quella corrente di pensiero che ritiene la scarsità dei beni come la causa fondamentale della discordia tra gli uomini». Una prospettiva, questa, che impone di superare la condanna pronunciata da Lukács, secondo il quale l’irrazionalismo pessimista di Schopenhauer, frustrando «ogni spinta rivoluzionaria e ogni progetto di radicale rinnovamento sociale», si tradurrebbe in «una “apologia indiretta” del capitalismo». Al contrario, fa notare Vincieri, nella filosofia di Schopenhauer «si trova anche un nucleo, che potremmo definire illuministico», alla luce del quale emerge la «portata antidogmatica e progressiva» del «mondo come rappresentazione». Del resto, in questa visione lucidamente pessimistica della realtà, in polemica con l’ottimismo metafisico di Hegel, risiede, secondo Vincieri, l’ “attualità di Schopenhauer”, quando osserva che l’uomo è un “animale metafisico”, le cui miserie sono state da sempre sfruttate dai vari sacerdoti della guerra a fini di potere politico; occorre invece trasformare l’egoismo che è connesso alla natura umana, «rendendolo funzionale all’interesse collettivo» (un’idea analoga alla “mano invisibile” di Adam Smith), senza con questo sacrificare l’individuale all’universale. Tali concezioni, unite all’«anelito per la giustizia, per un mondo migliore fondato sulla comune solidarietà», costituiscono per Vincieri “il ruolo di Schopenhauer nel pensiero di Horkheimer”, evitando «che l’utopia di Marx si trasformi in una ideologia pericolosa in mano ai suoi epigoni», come è avvenuto in Lukács e in altri che hanno letto Marx attraverso Hegel, giungendo all’apologia del totalitarismo. Coniugando il marxismo con il pensiero schopenhaueriano (il cui pessimismo non esclude la «critica nei confronti dell’ordine esistente»), il giovane Horkheimer arriva invece a sostenere la non definitività del “regno della libertà” preconizzato da Marx, in cui peraltro continuerà a esistere il dolore, contro il quale non sono possibili che compassione e solidarietà, uniche fonti di vera giustizia. G.C./D.M. Caos e linguaggio in Hacking L’importanza del linguaggio in rapporto alla filosofia e la funzione del caos all’interno dell’epistemologia sono rispettivamente oggetto di due studi di Ian Hacking, oggi disponibili in traduzione italiana: LINGUAGGIO E FILOSOFIA (trad. it. di B. Sassoli, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994), la cui edizione in lingua originale risale al 1975, e IL CASO DOMATO (a cura di S. Morini, Il Saggiatore, Milano 1994). Decisamente contrario a quelle teorie “massimaliste” che intendono spiegare il valore del linguaggio una volta per tutte, in Linguaggio e filosofia Ian Hacking contesta la possibilità di una teoria del linguaggio “in sé” che raggruppi tutte le varie teorie del linguaggio, dall’ermeneutica, alla linguistica strutturale, alla filosofia analitica. Al contrario, oggetto della ricerca di Hacking è la descrizione di diversi “casi esemplari” in cui il linguaggio è stato considerato il supporto essenziale della filosofia, partendo dalla teoria delle idee del ‘600, attraverso quella del significato dell’ ‘800, per concludersi con quella degli enunciati a noi contemporanea. Per quanto riguarda l’analisi delle idee, Hacking affronta sia il punto di vista empirista, sia quello idealista, per i quali il pensiero, inteso come discorso mentale, trova nel linguaggio la sua traduzione concreta. Da questo punto di vista la filosofia di Hobbes, come quella di Berkley, conducono alla medesima interpretazione delle idee come medium tra l’Ego e il mondo. Il tramonto della filosofia delle idee avviene quando ci si rende conto che la questione della comunicazione deve necessariamente affrontare un altro aspetto, quello del significato. La teoria del significato trova in Frege il suo massimo esponente. La distinzione tra Sinn e Bedeutung, la differenza cioè tra il significato comune e quello variabile e dipendente dai diversi vissuti, muta la prospettiva della filosofia del linguaggio. Ora l’oggetto non è più la semplice mediazione tra soggetto e realtà, ma l’interpretazione che una stessa parola può assumere a seconda dei diversi conte25 sti. A questo proposito Hacking affronta anche la teoria di Russel, che esclude il significato pubblico, e quella di Chomsky, che affronta il problema dell’innatismo. In ogni caso, l’analisi delle diverse interpretazioni del significato conduce al problema del verificazionismo, ovvero del problema di come sia possibile verificare la validità di una proposizione. L’ultima fase della filosofia del linguaggio ha dunque a che fare con la validità degli enunciati. Il riferimento storico è in tal senso Feyerabend, che ha affrontato il problema dell’inesistenza di asserti teorici universali e quindi dell’incommensurabilità degli enunciati. L’evoluzione della linguistica, e cioè il passaggio dalle idee ai significati e poi agli enunciati, testimonia, secondo Hacking, l’evoluzione, o meglio, il cambiamento di prospettiva negli elementi fondamentali della visione del mondo. In altre parole, l’evoluzione della filosofia del linguaggio, inteso sempre e comunque come il medio tra realtà e soggetto, rende conto dei cambiamenti costitutivi nella comprensione della realtà. Di tematiche più propriamente epistemologiche, in particolare dell’importanza del caos nella filosofia della scienza dall’Ottocento ai giorni nostri, si occupa, invece, un altro studio di Hacking, Il caso domato. Il punto di partenza è la considerazione di alcune teorie, come quella dell’effetto Butterfly, che sostengono il condizionamento imprevedibile, e nello stesso tempo determinante, da parte di fattori apparentemente ininfluenti nei confronti di fenomeni di ogni tipo. Per spiegare come le teorie epistemologiche siano potute passare da un rigido determinismo, tipico della rivoluzione scientifica, a questa sorta di casualismo, che sembra essere assolutamente antitetico alle posizioni della scienza del ‘600, Hacking utilizza, come in Linguaggio e filosofia, la chiave di lettura storica. In seguito alla rivoluzione scientifica e alla matematizzazione della natura, l’ordine e la regola hanno cominciato a costituire la trama interpretativa del mondo che, attraverso la meccanica classica, sembrava essere retto da una legalità assolutamente deterministica. Con l’avvento della meccanica quantistica la scena epistemologica cambia radicalmente: superati prevedibilità e determinismo, il caso diventa elemento determinante della scientificità attraverso la statistica. Da qui l’espressione di “caso domato”, che indica appunto la funzionalità del caso attraverso la statistica, come strumento di analisi e non più di disturbo dei fenomeni. A questo si riferisce ancora Hacking quando indica nella sociologia un tipico campo di applicazione della statistica. Grazie alle indagini probabilistiche la sociologia ha ottenuto quella capacità di intervento nei fenomeni che le ha permesso di lasciare il campo delle discipline teoriche per quello della prassi di intervento. A.S. TENDENZE E DIBATTITI Pieter Bruegel, La temperanza (1560) e La fortezza (1560) 26 TENDENZE E DIBATTITI TENDENZE E DIBATTITI Sull’etica in Francia In un’epoca di crisi dei fondamenti morali e di “congedo dal dovere”, non deve destare meraviglia la continua ripresa della problematica etica nel dibattito filosofico contemporaneo. É ora la volta della Francia, dove sono apparse recentemente, in rapida successione, nuove pubblicazioni sul tema. Per la collana «PHILOSOPHIE MORALE», si segnala MODERNITÉ ET MORALE (Modernità e morale, Puf, Parigi 1994), di Charles Larmore, e LA FAIBLESSE DE LA VOLONTÉ (La debolezza della volontà, Puf, Parigi 1994), di Ruwen Ogien. Un’ampia panoramica delle varie riflessioni sviluppate nell’ambito di questa disciplina è offerta da Jacqueline Russ nel suo LA PENSÉE ETHIQUE CONTEMPORAINE (Il pensiero etico contemporaneo, Puf, Parigi 1994). Tra le etiche dell’immanenza, Russ colloca il pensiero di Marcel Conche e di André Comte-Sponville. Di quest’ultimo si segnala lo studio: VALEUR ET VERITÉ (Valore e verità, Puf, Parigi 1994), in cui viene delineata, attraverso una nuova definizione del cinismo, una morale fondata sul desiderio che rifiuta la trascendenza dei valori. Di Conche è stata invece pubblicata la riedizione di LE FONDAMENT DE LA MORALE (Il fondamento della morale, Puf, Parigi 1994), in cui viene respinta l’idea che la caduta delle “grandi illusioni” (religione, socialismo reale, capitalismo, etc.) conduca alla scomparsa della morale. Una diversa proposta è quella del gesuita Paul Valadier, che in ÉLOGE DE LA CONSCIENCE (Elogio della coscienza, Seuil, Parigi 1994) suggerisce un ritorno alla coscienza come “riferimento fondamentale” della vita morale. Da segnalare infine, in questo contesto di riflessione, il volume curato da Jean-Pierre Changeux, FONDAMENTS NATURELS DE L’ETHIQUE (Fondamenti naturali dell’etica, Ed. Odile Jacob, Parigi 1994), viene affrontata la questione delle basi biologiche della coscienza morale. L’anti-umanismo di certe posizioni del marxismo (ancora Althusser riteneva la morale un prodotto della classe borghese); il rifiuto nietzscheano della morale corrente, scambiato per una condanna della morale tout court, sono tra i fattori che hanno portato ad una caduta dell’interesse per la questione morale. Ma la proclamata dissoluzione del soggetto, la crisi dei riferimenti tradizionali, il serpeggiante relativismo, rafforzato dal continuo insorgere di nuove tecnologie che rendono instabile ogni verità acquisita, lungi dal rappresentare l’ultima parola, hanno finito col divenire altrettante sfide per riflettere su quella moralità vissuta che presiede, al di là delle nostre prese di posizione, alle nostre azioni. In Modernité et morale, Charles Larmore da un lato sostiene, «contro una visione naturistica del mondo» che ammette solo fatti fisici o psicologici, l’esistenza di fatti irriducibilmente normativi; dall’altro distingue però la sua posizione da quella kantiana, ritenendo impossibile attenersi all’universalismo razionalista dei Lumi, e non rispondendo più gli imperativi morali ad alcun monismo o principio ultimo: «La razionalità in sé costituisce una base troppo tenue per giustificare la validità di una qualsiasi obbligazione morale». Si tratta piuttosto di capire come la ragione si eserciti sempre in seno a una tradizione e come l’universale si combini col particolare. Conseguenza della sua analisi è così l’abbandono di una fonte unica della morale a vantaggio della sua eterogeneità. Ruwen Ogien intende invece applicare alla vita morale il «principio del determinismo parziale “giuridico”», secondo cui nessuno, suo malgrado, compie azioni malvagie. Viene così scartata la soluzione intellettualistica data da Socrate al problema morale; infatti, se nessuno fa del male volontariamente, ma solo per ignoranza, è impossibile allora giustificare razionalmente l’esistenza di pene e punizioni. Anche ammettendo che il male venga compiuto per “debolezza della volontà”, in forza degli appetiti e dei desideri, Ogien invita a desistere dal cercare una garanzia di intelleggibilità nel male. Per capire razionalmente la possibilità di compiere il male, è necessario escludere un rapporto logico, causale tra le nostre motivazioni ad agire e le nostre azioni, per cui possiamo non fare quel che avevamo ritenuto bene fare, senza 27 essere illogici o perdere la responsabilità delle nostre azioni (e quindi la possibilità di poterle definire morali o immorali). Ripensando il rapporto tra filosofia e psicologia, Ogien denuncia gli effetti deresponsabilizzanti di quest’ultima in ambito etico, approdando a una sorta di moralizzazione della psicologia. Un’analisi dei principi su cui si basano le etiche contemporanee è contenuta nella seconda delle quattro sezioni di cui si costituisce lo studio di Jacqueline Russ, La pensée ethique contemporaine. Si tratta di principi classici, ripensati all’interno dell’attuale dissoluzione, “parziale “, del soggetto: «Conservato in vita dall’intera tradizione filosofica, il soggetto risorge ogni volta, sicché solo in modo sfumato si può accertare l’esaurimento del paradigma del soggetto e della coscienza, che sebbene talvolta detronizzati, si inscrivono tuttavia spesso nel quadro dell’etica contemporanea». Oltre al principio di responsabilità (considerato soprattutto nel pensiero di H. Jonas), Russ passa in rassegna il principio religioso (in E. Levinas), di affermatività (in R. Misrahi e G. Deleuze), di realtà (in P. Hadot e C. Rosset), di libertà, uguaglianza e differenza (in J. Rawls), di cura estetica di se stesso (M. Foucault, M. Onfray) e di autodeterminazione e rispetto per la vita, che sta alla base della bioetica. Nella prima sezione, dopo aver constatato come la nostra epoca avverta sia la crisi dell’etica che la sua necessità, Russ traccia per grandi linee il modo in cui Spinoza, Kant, Nietzsche, Wittgenstein e Heidegger hanno influenzato le diverse etiche del nostro tempo, classificate, nella terza sezione dell’opera, in nove tipi (mentre nella quarta sono presentate alcune etiche applicate - come la bioetica, l’etica dell’ambiente naturale, l’etica degli affari, l’etica dei mass media, l’etica della politica - considerate deontologie, più che etiche vere e proprie): 1) l’etica che si rifà all’appello di Apel per la fondazione di un’etica universale, in grado di far fronte alla scienza; 2) l’etica di Habermas, fondata sull’attività comunicativa, che si inscrive in una prospettiva universalistica e consensuale; 3) l’etica della civiltà tecnologica di Jonas, che si differenzia da quella di Apel perché è ontologica e si fonda su una responsabi- TENDENZE E DIBATTITI lità concepita come continua, volta al futuro e senza reciprocità; 4) le etiche influenzate dall’antichità greco-romana, secondo una prospettiva esistenziale estetica (Foucault), stoica (Hadot) o cinica (Onfray); 5) l’etica che si fonda sui dati delle neuroscienze di Jean Pierre Changeux; 6) l’etica politica di Rawls che, partendo da una critica dell’utilitarismo anglosassone e cercando il giusto prima del bene, propone un nuovo contratto sociale; 7) l’etica di Gilles Lipovetski, per il quale «le nostre società democratiche sarebbero entrate in una cultura del dopo-dovere, nell’al di là dell’imperativo» e ridefinisce la responsabilità come «l’anima della cultura postmoralista»; 8) l’etica della trascendenza religiosa di Levinas; 9) le etiche dell’immanenza, che resistono «alle sirene del Sacro, per volgersi al desiderio, alla felicità, alla gioia, alla realtà», in cui rientrano le posizioni di Deleuze, Guattari, Misrahi, Conche e Comte-Sponville. Nel suo ultimo lavoro, Valeur et verité, André Comte-Sponville indaga sulla possibilità di una morale nell’era della crisi dei fondamenti. I dodici saggi che compongono l’opera vertono infatti su una questione più volte dibattuta: «è possibile essere atei senza essere nichilisti?»; o detto altrimenti: aveva ragione Sartre quando affermava che «se Dio non esiste, tutto è lecito»? In realtà, per Comte-Sponville «la morale è necessaria alla vita umana»; il suo intento infatti è quello di proporre una morale che affondi le sue radici nel relativismo di Montaigne, riletto all’interno della tradizione cinica, opportunamente rivisitata: vengono infatti gettate le basi per un nuovo cinismo, che gli consente da un lato di condurre una critica radicale alla nozione di morale basata sulla trascendenza dei valori, dall’altro di svilupparne una fondata su volontà e desiderio. Marcel Conche, nel suo Le fondament de la morale, si pone invece la domanda: «esiste una giustificazione universale alla morale?». La risposta è che l’autonomia radicale della morale, l’indipendenza da qualsiasi religione o filosofia è la condizione della sua universalità. La morale per Conche è quella dei diritti dell’uomo; non è dunque né un’ideologia europea, né un codice contingente valido solo in un dato tempo e luogo: «Ogni uomo è in sé uguale a ogni altro, se si considera questa capacità essenziale, che ognuno possiede, di esprimere ciò che a lui si mostra come vero» - afferma Conche, sottolineando in questo il merito degli epicurei, degli stoici e dei cinici di aver scoperto l’uomo universale. Proprio questa possibilità di un dialogo razionale tra ogni uomo e il suo simile costituisce per Conche il fondamento della morale. Ripercorrendo, dai Vangeli fino ai nostri giorni, la storia della coscienza e dei suoi malintesi (passando, tra gli altri, per Tommaso, Pascal, Rousseau, Nietzsche), Paul Valadier propone un ritorno alla coscienza come “riferimento fondamentale” della morale. Se il momento centrale della vita morale è la decisione, osserva Valadier, su cosa deve poggiare quest’ultima se non su quella parte più intima di ogni individuo, sul quel «santuario dove l’uomo è solo davanti a Dio», come il Concilio Vaticano II ha definito la coscienza. L’invito di Valadier è allora quello di riappropriarsi del carattere operativo, attivo e contrastato della coscienza, contro la tendenza prevalente nella società contemporanea a ritenerla morta, soppiantata, come istanza decisionale, dai principi del piacere, dell’interesse o dell’alienazione (pubblicitaria, ideologica, sociale). In questo Valadier si mostra al riparo dal soggettivismo: la coscienza è vista come luogo di confronto del soggetto con la sua storia, la sua formazione e con le coscienze altrui. Sulla scorta di studi di neurofisiologia, Jean-Pierre Changeux, curatore del volume: Fondaments naturels de l’ethique, che raccoglie gli atti di un convegno omonimo, sostiene la presenza di “predisposizioni neuronali all’etica”, ovvero di una struttura biologica sensibile al progresso evolutivo, che produce comportamenti etici funzionali. Dodici i contributi, divisi in tre sezioni: “Etica e evoluzione”, “Etica, neuroscienze, psicologia”, “Etica e società”. Psicologi, antropologi, etnologi, giuristi, neurobiologi si esprimono su una questione tradizionalmente di competenza filosofica, inaugurando una sorta di “evoluzionismo” umanista: la morale sarebbe la trascrizione normativa di imperativi biologici diretti alla sopravvivenza dell’individuo e della specie. In questo quadro, suggerisce Marc Kirsch nell’ “Introduzione” al volume, si può reinterpretare l’altruismo, atteggiamento morale che procura un vantaggio ad altri a costo di un sacrificio personale, come strategia di sopravvivenza: «Accrescendo la capacità adattativa globale dell’individuo - sostiene Kirsch - questo modo di vita sociale garantisce all’individuo stesso una migliore probabilità di perpetuare il proprio patrimonio genetico». L’istanza morale viene così valutata né più né meno che come un organo funzionale e come tale risulta è ritenuta all’evoluzione. Bisogna rilevare, tuttavia, che la maggior parte degli interventi raccolti nel volume, sembrano orientati non tanto ad attribuire alla natura un valore normativo - posizione che tradirebbe un pericoloso riduzionismo - quanto a individuare la componente naturale dell’atteggiamento morale. Infatti la “disposizione etica”, per quanto situata nel cervello, è considerata come qualcosa di non puramente biologico, dal momento che si ammette un’influenza della cultura sul sistema nervoso stesso. Riaprendo i termini della perenne controversia tra natura e cultura, queste riflessioni, che provengono dall’ambito delle neuroscienze, costituiscono, in definitiva, un forte invito a tener conto anche del punto di vista scientifico in ambito morale. A.M./A.St. 28 La filosofia italiana in Francia La filosofia italiana, o più esattamente, le filosofie italiane sono in auge in Francia, dove due delle più prestigiose riviste di filosofia dedicano ampio spazio a questa tradizione di pensiero. La «REVUE DE MÉTAPHYSIQUE ET DE MORALE » (n. 101, 1994), con la direzione di Charles Alunni, mette in evidenza soprattutto il ruolo intermediario svolto dall’Italia tra le tradizioni filosofiche della Germania e della Francia; mentre i due numeri degli «ARCHIVES DE PHILOSOPHIE» (n. 4, 1993; n. 1, 1994), curati da Guy Petitdemange con l’ausilio di André Tosel e François Marty, presentano ampiamente, ai “cugini” francesi, le linee della filosofia italiana. L’interesse in Francia per la filosofia italiana è recente; complice forse la rivalutazione di alcuni pensatori italiani come Vico (si pensi ai due numeri dedicati a Vico dalla rivista «Archives de philosophie», nel 1977); o la recente fioritura di una stagione complessa del pensiero italiano (si veda il numero doppio della rivista Critique, apparso nel 1985 con il titolo: Les philosophes italiens par eux-mêmes); o anche il desiderio del pubblico francese di sottrarsi all’imponente tradizione tedesca. Dei diversi contributi raccolti negli «Archives de Philosophie» alcuni si occupano di tracciare i contorni di certe correnti di pensiero a partire da figure cardine: Fabio Minazzi e Jean Petitot presentano le ramificazioni del neo-illuminismo italiano a partire dall’opera di A. Banfi, G. Preti, L. Geymonat; Marco Ravera illustra il pensiero di L. Pareyson e della sua scuola; Gianfranco Dalmasso ripercorre le tappe della filosofia cristiana, ricordando, tra gli altri, G. Bontadini e E. Castelli. Altri contributi si concentrano invece su alcuni pensatori presenti nel dibattito contemporaneo: Francis Wybrands interviene su G. Agamben; Massimo Cacciari presenta A. Del Noce e Domenico Jervolino si occupa di Capograssi e Piovani. Un’altra serie di interventi punta direttamente ai grandi pensatori italiani del passato: Charles Alunni presenta uno studio interessante su T. Campanella; Bruno Pinchard fà un’analisi del carattere “cimiteriale” del pensiero di Vico. Altri contributi prediligono invece un approccio indiretto ad alcuni filosofi della recente tradizione italiana: André Tosel presenta Gentile attraverso la sua lettura di Marx; mentre Michele Ciliberto giunge al cuore della filosofia di Croce attraverso la problematica dell’autobiografia. L’influenza decisiva per l’Italia di opere di pensatori come Hegel, a cui si riferisce Livio Sichirollo, o come Marx, di cui si occupano André Tosel e Domenico Losurdo; o l’influenza delle correnti filosofiche francesi, su cui si sofferma Silvano Petrosino, permette di ricostruire in parte i retroscena di numerosi dibattiti filosofici in Italia. TENDENZE E DIBATTITI L’analisi di Livio Sichirollo sulla fortuna di Hegel dopo la morte di Labriola si presenta, in particolare, come una ricostruzione assai puntuale dei diversi approcci e interpretazioni d’una filosofia che ha appassionato più d’uno, da Banfi a Michelstaedter, a Papini, fino alle interpretazioni di Verra e Losurdo. La molteplicità degli approcci è sicuramente segno di apertura e duttilità dei curatori francesi nel presentare la filosofia italiana, permettendo al lettore di orientarsi nella tradizione di pensiero di un altro paese. Tuttavia, l’eterogeneità dei contributi implica necessariamente qualche sbilanciamento nell’equilibrio d’insieme delle argomentazioni. Il testo di Fabio Minazzi e Jean Petitot analizza chiaramente i punti salienti e le poste in gioco del complesso e diversificato “neo-illuminismo” italiano, proponendo preziose appendici concernenti i colloqui e l’evoluzione di questa scuola e una bibliografia accurata. Più “enciclopedico” appare invece l’articolo di Marco Ravera su Pareyson, che riprende in buona parte le considerazioni già svolte in altra occasione da Xavier Tillette, a cui si deve un interessante intervento su Sciacca. Alla filosofia politica è invece dedicato lo studio di Franco Sbarberi sulla formazione della teoria democratica di Norberto Bobbio, di cui viene sottolineata l’estraneità alla tradizione marxista e l’attenzione per l’idea di persona, suggeritagli da Jaspers. Al di là di alcune comunicazioni su pensatori già noti al pubblico francese Catherine Paoletti ripercorre il pensiero di A. Gargani; Italo Valent presenta E. Severino; Gianni Vattimo ritorna sul rapporto tra metafisica e violenza; Remo Bodei ripercorre vicende autobiografiche - i contributi raccolti nei due numeri degli «Archives de Philosophie» sembrano indirizzarsi verso due orizzonti filosofici alternativi: il pensiero dell’enigma e la riflessione sulla legittimità della ragione. In tal senso, vediamo da un lato profilarsi una linea di pensiero che tende a sottolineare l’ispirazione poetica, enigmatica, immaginifica della riflessione italiana: su questa linea si pongono gli interventi di Riccardo Pineri su Leopardi, dello scomparso Ferruccio Masini su Giorgio Colli e di Guy Petitdemange su Michelstaedter. Il senso di un fondo che si ritrae nell’impersonale nella poesia di Leopardi; la persuasione come vita “altra”, luce di una cometa lontana, in Michelstaedter; la saggezza dell’enigma in Colli, testimoniano di tentativi diversi di uscire dagli impacci di una tradizione consolidata per esplorare nuove forme del pensare. Altra è la strada del neo-illuminismo, percorsa da Banfi, Preti, Geymonat: l’originalità della scuola epistemologica italiana, sottolineano Minazzi e Petitot, consiste nell’ «aprirsi alla dimensione storica senza relativizzare le strutture della razionalità», proponendo una sintesi dialettica della verità delle scienze e della loro storicità, che individua nella stessa conoscenza oggettiva un valore storico e un principio regolatore. I problemi della conoscenza si raccolgono qui, in chiave kantiana o cassireriana, nel problema di attualizzare la logica trascendentale in una pluralità di scienze dai contenuti distinti e differenziati e soprattutto storicamente significativi; di pensare insieme la teoreticità, forte di un assetto oggettivo e non solamente formale, e la storicità delle differenti ontologie regionali; di tradurre o trasporre contenuti empirici in un’universalità retta da una legge trascendentale. Nella sua panoramica sulla filosofia italiana, la «Revue de métaphysique et de morale» s’interroga in particolare sulla “mediazione”, svolta dalla tradizione italiana, tra le due culture filosofiche, francese e tedesca. Ernesto Grassi e Luigi Pareyson, entrambi scomparsi, sono presenti con due testi relativi alla prima ricezione dell’esistenzialismo tedesco (1937-1941); mentre tre studi specifici si occupano della precocità con cui l’idealismo fu accolto in Italia, suscitando dibattiti e riflessioni personali. E’ noto come Taine riservi, nel suo Voyage en Italie, uno spazio privilegiato a A. Vera; ed è attraverso quest’autore, come ricorda Guido Oldrini, che Hegel viene recepito in Francia. Domenico Losurdo analizza invece l’influenza hegeliana nel contesto della rivoluzione del 1848; mentre Claudio Cesa studia in dettaglio l’interesse riscosso in Italia da Fichte e da Schelling nel periodo 1802-1862. Chiude la serie dei contributi Evandro Agazzi con un articolo sul realismo scientifico. Certo, se l’esame dei ritardi e delle deviazioni nella comunicazione filosofica europea spinge a riflettere sull’incomprensione e sui malintesi, o anche sulla reciproca ignoranza, tra culture filosofiche diverse, l’insieme di questi studi, dedicati alla filosofia italiana da parte di due autorevoli riviste francesi, avvia forse un cambiamento fondamentale di attitudine. F.M.Z./D.T. Politica e filosofia Nel suo recente saggio, NOVE PENSIERI SULLA POLITICA (Il Mulino, Bologna 1993), Roberto Esposito riflette sul difficile problema di una fondazione della filosofia della politica. Del medesimo problema fornisce una nuova chiave di lettura Thomas Nagel in LA POSSIBILITÀ DELL ’ALTRUISMO (trad. it. di R. Scognamiglio, Il Mulino, Bologna 1994), proponendo opinioni e soluzioni circa il rapporto fra filosofia e politica. Tracciare le linee fondamentali di una “nuova filosofia politica” è anche l’intento di un testo di Hannah Arendt, finora 29 inedito, tratto da una conferenza del 1954 dal titolo: “L’atto originario della filosofia politica è lo stupore”, e ora pubblicato, assieme a quello di un’intervista televisiva rilasciata da Arendt nel 1964, nel volume, a cura di Alessandro Dal Lago, LA LINGUA MATERNA . LA CONDIZIONE UMANA E IL PENSIERO PLURALE (Mimesis, Milano 1993). In Nove pensieri sulla politica, ideale continuazione de Le categorie dell’impolitico, pubblicate nel 1988, Roberto Esposito muove dal presupposto che esista un divario necessario tra pensiero filosofico e politica, insito nello stesso concetto di filosofia politica, che vorrebbe appunto trattare il suo oggetto specifico, la politica, nel linguaggio che gli è proprio, quello filosofico. Tale linguaggio, però, è per sua natura ordinato e consequenziale, per cui, fa notare Esposito, nel momento stesso in cui rappresenta la categoria della politica, deve anche negarne l’essenza ultima, che è costituita dal conflitto, dalla lotta per il potere; una lotta che porta in sé il dualismo di Bene-Male, di Giustizia-Diritto, di VeroFalso. Il linguaggio filosofico, prosegue Esposito, come organo della filosofia stessa, è un tentativo di ordine, di unificazione dei Molti nell’Uno; è l’ambizione di ridare una valenza trascendente al reale immanente. Per questa sua essenza, il linguaggio filosofico non riesce a rappresentare compiutamente la categoria della politica. Rimandando alla trascendenza, che è Unità, la filosofia non può strutturalmente rappresentare in modo adeguato il conflitto del molteplice immanente, insito nella politica e nella sua manifestazione, lo Stato, pena la perdita di entrambi. Sembra dunque impossibile, secondo Esposito, fondare una filosofia politica in grado di parlare del proprio oggetto, senza identificarlo con sè stessa. Al contrario, solo fuori dalle categorie e dal linguaggio filosofico si può cogliere l’essenza della politica, il conflitto per il potere, senza demonizzarla, tentandone una sintesi nell’Uno. Esempio eclatante in tal senso, osserva Esposito, è il pensiero di Nicolò Machiavelli, quale si trova esposto nelle Opere politiche. Per Machiavelli, sostiene Esposito, conta solo la realtà del fatto politico, il conflitto, e lo scopo per cui esso s’innesca, il potere. La coniugazione di questi due fattori non ha nulla a che vedere con una morale trascendente, come invece è presupposto dalla filosofia; è un semplice fatto, una realtà della prassi, a cui adeguarsi. Lo Stato, incarnazione pratica della categoria della politica, ha in sé il dualismo del conflitto, essendo costituito da una molteplicità conflittuale di individui, di cui adempie agli scopi. Se, fa notare Esposito, lo Stato tendesse all’Unità e vi giungesse, verrebbe meno alla sua funzione di Stato, di entità politica con compiti precisi. Ma questo, di fatto, non è lo scopo ultimo della TENDENZE E DIBATTITI politica, come fa notare Esposito, citando Aristotele, che nel II Libro della Politica afferma: «...è chiaro che se uno stato nel suo processo di unificazione diventa sempre più uno, non sarà più neppure uno stato, perché lo stato è per sua natura pluralità e diventando sempre più uno si ridurrà a famiglia da stato e a uomo da famiglia: in realtà dobbiamo ammettere che la famiglia è più una dello stato e l’individuo della famiglia: di conseguenza chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe lo stato». Ciò riconferma, secondo Esposito, che dall’esterno delle categorie filosofiche viene la possibilità autentica per una fondazione della filosofia politica, che sappia esprimere quell’antinomia “impolitica” e indescrivibile del conflitto che la costituisce. A queste considerazioni risponde, per certi aspetti, Thomas Nagel, che ne La possibilità dell’altruismo critica la separazione del discorso filosofico da quello politico in tema di morale, prendendo in questo le distanze dai fautori dello scetticismo etico. Secondo Nagel, le regole della morale non sono effimere e infondate, ma possono essere spiegate razionalmente; la filosofia dà risposte esaurienti per quanto riguarda la condotta sociale-politica, ponendone i fondamenti. Così filosofia e politica convergono, sono complementari dal punto di vista dei programmi socialipolitici, finalizzati al bene comune. Si tratta in tal senso, osserva Nagel, di porre le basi, in termini, potremmo dire, “kantiani”, per un fondamento pratico universale di quei principi di giustizia che da egoistici si trasformano in “morali”. Essere guidati da principi morali significa agire in rispetto di una certa continuità con gli altri, in vista di uno “Stato” unito e solidale. Da una politica individualista ed escludente, puntualizza Nagel, si passa, in tal modo, ad una aperta e altruista; un passaggio per il quale la motivazione che spinge a compiere un’azione non è guidata da un semplice desiderio personale, ma si basa sulla consapevolezza che un singolo atto individuale genera determinate conseguenze per gli interessi di tutti gli altri individui. Nagel chiama “prudenziali” quei comportamenti nei quali l’interesse dell’agente non è in questione ma, in quello stesso momento, vengono difesi i diritti del singolo; mentre per comportamento “altruista” viene inteso un modo di agire in campo sociale che genera armonia tra ragione soggettiva (del singolo) e oggettiva (collettiva). Più precisamente, l’agire secondo prudenza segue criteri spazio, temporali legati al presente; mentre l’agire secondo altruismo mette in primo piano una continuità di coscienze temporali e una concezione di persone temporalmente estese, capaci di proiettare nel futuro i successi e i fallimenti delle azioni. In un simile discorso, che considera il Nicolò Machiavelli 30 contesto politico e sociale con tutti i relativi diritti da tutelare, la politica diventa servizio sociale, lasciandosi alle spalle ogni logica di ricchezza-potere; il rapporto tra filosofia e politica si risolve, per Nagel, nel progetto di una funzionale filosofia della politica. Diversa la posizione di Hannah Arendt, che nei due scritti raccolti ne La lingua materna mostra come non sia affatto scontato, perlomeno dal punto di vista teoretico, l’interesse del filosofo per la politica. La concezione della scienza politica nel pensiero contemporaneo, che considera la politica come l’ambito proprio della vita degli uomini, in cui sorgono “anche” questioni di ordine filosofico, risulta incommensurabile con la prospettiva antica, medievale e, in parte, anche moderna, che vedono invece la politica, nell’insieme dello sviluppo della ragione umana, come una manifestazione settoriale, regolata, in quanto tale, da princìpi e norme provenienti da altri ambiti di esperienza. Secondo Arendt, la radice della moderna concezione della politica, che viene alla luce nell’idea hegeliana di filosofia come filosofia della storia, si colloca nel presupposto, accettato acriticamente, in base al quale l’uomo può conoscere solo ciò che egli stesso ha creato. Di qui, il presupposto carattere “originariamente” storico, e politico, della filosofia contemporanea, concezione di cui Hegel appare perciò come l’autorevole genitore. Di questa concezione, rileva Arendt, risulta un prodotto anche la stessa prospettiva nichilistica (che, pure, rigetta radicalmente l’idea di una ratio storica), in quanto intrinsecamente legata all’esperienza della storicità. Debitore all’impostazione hegeliana appare perfino il rifiuto della storicità, connesso con il ritorno alla tradizione dei filosofi confessionali, quali i neotomisti, che cadono in contraddizione, laddove intendano restaurare verità “tradizionali”, il cui valore risiede, tuttavia, proprio nel loro porsi, in quanto metastoriche, al di fuori della tradizione. Il limite politico, ma anche teoretico, contro cui si scontrano siffatte impostazioni, consiste, secondo Arendt, nel ritenere che occorra sostituire, a ideologie errate, ideologie “vere”, che ripropongano valori eterni. Affiora qui l’avversione arendtiana per l’ideologia, che trova la sua più profonda motivazione - come nota Alessandro Dal Lago, curatore del volume, nella sua ampia Introduzione - in un’esaltazione del common sense, che costituisce il nucleo del pensiero politico arendtiano. Tale esaltazione esprime una genuina valenza teoretica nel suo segnalare il fatto che lo scenario nel quale si muove il pensiero, cioè il “suo” mondo, non consiste in una sua proiezione, e l’esistenza “data” delle singole alterità storicamente determinate si pone come condizione per l’esperienza del mondo da parte del soggetto “politico”. L.B./F.C./D.M. TENDENZE E DIBATTITI Ambrogio Lorenzetti, Effetti del buon governo (1337-40, part.) Liberalismo e società moderna Tra i recenti interventi critici intorno al concetto di Stato moderno, alle sue origini e alle sue prospettive, segnaliamo, di Nicola Matteucci, il volume: LO STATO MODERNO : LESSICO E PERCORSI (Il Mulino, Bologna 1993), e la raccolta di saggi COMUNITARISMO E LIBERALISMO, a cura di Alessandro Ferrara (Editori Riuniti, Roma 1993), che annovera, tra gli altri, contributi di Charles Lamarmore, John Rawls, Ronald Dworkin, Michael J. Sandel, Charles Taylor. Le considerazioni critiche di Taylor sul liberalismo sono da questi riprese e sviluppate ne IL DISAGIO DELLA MODERNITÀ (trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Laterza, RomaBari 1994) e in MULTICULTURALISMO: LA POLITICA DEL RICONOSCIMENTO (trad. it. di G. Rigamonti, Anabasi, Milano 1993). Nicola Matteucci suddivide il suo studio in due parti: una prima parte, “Lessico”, in cui vengono esaminate nozioni, come quelle di Stato, sovranità, costituzionalismo e opinione pubblica, che fanno parte integrante del concetto di liberalismo; una seconda, “Percorsi”, in cui si tenta di definire la concezione attuale dello Stato. Secondo Matteucci, la civiltà occidentale degli ultimi secoli ha considerato lo Stato come una forma di potere istituzionalizzato, su base giuridica, che ha finito paradossalmente col trasformarsi nel “monopolio del politico”. La società civile, osserva Matteucci, ha ceduto i propri diritti naturali di governo ad una sola classe, rappresentativa dello Stato, ritirandosi in un ambito privato: gli attuali cambiamenti di governo in vari Stati occidentali sono espressione del tentativo della società civile di rico31 stituire le proprie prerogative. L’avvento dei sindacati, per esempio, ha restituito a rappresentanze della società civile poteri che sono appartenuti per secoli allo Stato. Ciò che di fatto entra in crisi, fa notare Matteucci, è il concetto fondamentale dello Stato, quello di sovranità. Lo Stato perde quella capacità di essere espressione di una volontà superiore, delegata dai cittadini, i quali, tramite organismi riconosciuti, lottano ora per riappropriarsi di ciò che hanno delegato. La questione del rapporto tra il concetto di Stato e quello di liberalismo viene affrontata in chiave storica da alcuni dei saggi raccolti in Comunitarismo e liberalismo. Nel suo intervento Charles Larmore rileva che dal XVI secolo in poi il pensiero liberale ha sempre cercato soluzioni per limitare moralmente i poteri del governo e far posto al proble- TENDENZE E DIBATTITI ma centrale della vita: definire le condizioni del “buon vivere”, cioè del modo migliore per gli individui di perseguire la felicità. Lo Stato, il cui compito è regolare la vita dei cittadini, si trova così obbligato a fare in modo che tra visioni diverse ne prevalga una sola. In virtù del principio di individualità e di autonomia, Kant e Mill sono per Larmore i principali oppositori all’obbligatorietà dello Stato: l’individuo, centro del sistema morale, deve poter dare un assenso contingente e non costitutivo a concezioni sostanziali del “buon vivere”; deve, cioè, trascendere i fatti storici mantenendo un atteggiamento critico e distaccato dalle circostanze empiriche, poiché l’esercizio della scelta è ciò che rende ogni uomo un singolo irripetibile e totalmente autonomo. Nell’attuale società, fa notare Larmore, è tuttavia necessario che il liberalismo fondi i propri presupposti sul principio di neutralità dello Stato rispetto a concezioni diverse del “buon vivere”. Il liberalismo, in tal senso, non deve possedere un ideale morale integrale per essere considerato una dottrina politica valida. I principi neutrali sono infatti quelli che si possono assumere senza dover ricorrere alle singole concezioni di vita a cui ogni aderente è vincolato. Larmore fonda il principio di neutralità su due norme: il dialogo razionale e l’uguale rispetto. Il dialogo razionale dovrebbe permettere a persone che discutono di vari problemi di potersi sempre confrontare su un terreno di principi comuni, che consentano un accordo globale. Questa norma, tuttavia, non sarebbe di per sé sufficiente se non in virtù del principio per cui tutti hanno diritto di essere rispettati in modo paritario per quello che sono. Di diverso avviso sono John Rawls e Michael J. Sandel, per i quali ciò che innanzitutto va salvaguardato è un’orizzonte di significato costituito da enti (gli individui) significanti e il valore che deve essere perseguito da Stato e cittadini è quello della giustizia e dell’equità. Ogni cittadino deve operare scelte morali, guidato da un atteggiamento riflessivo e solidaristico; a sua volta lo Stato deve garantire il bene di ogni singolo cittadino. In questo Rawls e Sandel mostrano di assumere il principio kantiano secondo il quale gli individui devono essere trattati come fini e non come mezzi. In tal senso la politica deve far emergere e mettere al servizio dei singoli quei principi morali che ha in sé. Da questo punto di vista il liberalismo, secondo Rawls e Sandel, tenderebbe invece a trascurare i valori dell’integrazione e della solidarietà, minando alla base il senso di responsabilità sociale. In posizione intermedia si situa Ronald Dworkin, che propone un liberalismo teso alla tolleranza e ai diritti politici dei cittadini, in cui compito dello Stato è quello di proteggere le capacità di tutti gli individui senza interferire nelle scelte. Sostenitore di concezione opposta al liberalismo è invece Charles Taylor, che ne Il disagio della modernità considera questa dottrina una grave minaccia per il riconoscimento delle particolarità culturali di vari gruppi sociali. Lo Stato moderno, con il suo principio di neutralità, non sembra in grado di garantire un pari riconoscimento etico e culturale a tutti gli individui. In nome dell’etica dell’autenticità è necessario dunque, secondo Taylor, opporsi a un sistema politico difensore dell’individualismo e del soggettivismo. Ogni cittadino ha il diritto e il dovere di essere fedele a se stesso, alla propria originalità, in modo da porsi in un confronto aperto e costruttivo con chi è diverso. Nella logica dell’autenticità la retorica della differenza e del multiculturalismo occupa, nella concezione di Taylor, un posto centrale, essendo l’unica che garantisce una forte collaborazione dell’individuo con la comunità politica. In Multiculturalismo Taylor riprende questi concetti, rilevando come nello Stato moderno e liberale, con il suo principio di neutralità, sia impossibile garantire un pari riconoscimento etico e culturale a modi di vita sociale distanti e spesso in conflitto tra loro, dato che per poter essere riconosciuti pari tra loro gli individui devono spogliarsi di quelle caratteristiche che ne fanno degli esseri unici e irripetibili. Ciò non significa che per Taylor le attuali società siano illiberali, ma solo che la soluzione del problema non è da ricercarsi in un principio universale come quello di neutralità. Il riconoscimento politico di gruppi minoritari all’interno di una società è compito specifico di ogni Stato che si consideri effettivamente liberale e che come tale persegua il fine di rendere tutti i cittadini uguali tra loro e di fronte allo Stato medesimo per ciò che sono in loro stessi. Per gruppi multietnici con culture particolari, ciò significa innanzitutto preservarne le caratteristiche culturali. Una soluzione a questo problema, Taylor la trova nella “politica del riconoscimento”, una forma di azione che tenga conto di due principi fondamentali: 1. gli esseri umani sono individui unici, artefici di se stessi e creativi; 2. ogni essere umano è “portatore di cultura”. L’identità umana si presenta dunque, per Taylor, come struttura essenzialmente dialogica, e il rispetto che in tal senso lo Stato deve garantire a tutti i cittadini è di due tipi: 1. rispetto dell’identità irripetibile di ogni individuo; 2. rispetto delle particolarità e delle peculiarità culturali che lo rendono irripetibile, anche a costo di proteggere diritti che non sono fondamentali per la collettività, ma solo per una minoranza. L.B./D.M. 32 Destra e sinistra Nel suo recente studio: DESTRA E SINISTRA. RAGIONI E SIGNIFICATI DI UNA DISTINZIONE POLITICA (Donzelli Editore, Roma 1994), Norberto Bobbio ripercorre le origini e le tappe storiche che hanno portato al costituirsi di questa distinzione nelle democrazie occidentali. Di poco precedente l’uscita di quest’opera di Bobbio è la pubblicazione di una nuova rivista mensile di teoria e cultura politica, «RESET» (n. 1, dicembre 1993, Donzelli Editore, Roma), che intende porsi, «nell’attaccamento al principio della libertà nella ricerca e a quello della responsabilità individuale», come luogo specifico di discussione, confronto e diffusione delle idee per un rinnovamento della politica e della società civile. Secondo Norberto Bobbio destra e sinistra non sono solo due schieramenti ideologici, ma presuppongono uno specifico modo di intendere il concetto di uguaglianza e di diseguaglianza da cui derivano posizioni, programmi, provvedimenti circa il vivere sociale, culturale, economico del paese. Non si tratta pertanto di aggrapparsi ad una verità piuttosto che ad un’altra, sostiene Bobbio, bisogna invece riconoscere la portata storica della destra e della sinistra. In tal senso dobbiamo constatare che un certo tipo di destra e un certo tipo di sinistra sono “morte”, restituite alla storia da fatti inoppugnabili. Nel suo saggio Bobbio si preoccupa principalmente di compiere un’analisi descrittiva e non valutativa della destra e della sinistra. Muovendo dal presupposto che tutti gli uomini sono uguali e disuguali allo stesso tempo (è la logica degli opposti che coabitano), secondo Bobbio la destra è quella forza che tende ad accentuare la natura diseguale degli individui, la sinistra quella uguale. Rousseau e Nietzsche sono in tal senso i testimoni per eccellenza di una tale concezione. Rousseau muove dal presupposto che gli uomini sono nati uguali, e che la società civile li abbia resi diseguali; Nietzsche, al contrario, presuppone che gli uomini sono per natura diseguali e solo la società li ha resi uguali. Laddove Rousseau vede diseguaglianze artificiali da combattere, Nietzsche vede un’uguaglianza artificiale e mira al recupero della diseguaglianza. Egualitarismo e disegualitarismo, osserva Bobbio, possono dar adito a interpretazioni tali da ribaltare valori o appropriarsi di giudizi categorici, etichettando ora la destra, ora la sinistra in modo del tutto positivo o negativo. Un esempio significativo può essere il fatto che la sinistra è stata interpretata negativamente come “livellamento”, con tutte le conseguenze sociali che esso comporta; così come alla destra è stato attribuito il torto di concepire gli uomini non come entità differenti, ma “di- TENDENZE E DIBATTITI seguali”, tanto da giustificare l’istituirsi di un certo tipo di gerarchia parassitaria, a scapito dei più deboli. Di fatto, fa notare Bobbio, destra e sinistra sono divenute depositarie di specifici valori, che si rivelano rappresentativi per ciascuno dei due schieramenti nel confronto politico. Con la differenza, però, che oggi non si parla più di destra e di sinistra al singolare, ma di destre e di sinistre, poiché la storia ci ha ormai consegnati ad un pluralismo e ad una vastità di ispirazioni irreversibile. In questa situazione, afferma Bobbio, «la cultura italiana deve riabituarsi al senso della distinzione, alla passione analitica, e deve perdere, invece, l’attitudine a firmar manifesti, a scendere in campo anche quando gli oggetti da contendere sono controversi e i dati a disposizione incerti». D.M. Queste considerazioni di Bobbio trovano uno spazio specifico di discussione e approfondimento teorico nei vari interventi d’autore, dibattiti e documenti che compaiono sulla rivista «Reset». Liliana Bossi ha rivolto alcune domande al suo fondatore e attuale direttore, Giancarlo Bosetti. Direttore, ciò che a prima vista colpisce di questa rivista è la presenza significativa di noti studiosi, come Habermas, Bobbio, Howe, che solitamente prediligono le riviste saggistiche. Qual’è lo scopo di questa presenza? Intendete proporre una rivista di formazione o vi siete accorti della necessità di soddisfare un’esigenza già presente nel lettore? L’idea è piuttosto questa seconda alternativa, che non quella della formazione. Non abbiamo un intenzione pedagogica. Questa rivista nasce proprio nella presunzione che ci sia un mercato maturo, che richiede un prodotto di questo genere. E’ una sorta di sondaggio, di canottaggio, che abbiamo voluto fare sul mercato italiano dell’editoria. Ci siamo detti: «Esiste oggi sul mercato italiano un periodico di cultura a larga diffusione, cioè non esclusivamente in ambito scientifico, come già avviene in altri paesi?». La risposta è stata che in Italia non esiste un periodico simile. In Germania, Francia, America circolano settimanali, periodici di cultura ad alta diffusione, non solo riviste accademiche, di comunità scientifiche. In Italia non ci sono riviste di questo tipo, sebbene i quotidiani facciano molta cultura ma manca questa cosa. Il nostro tentativo è di vedere se finalmente può nascere qualcosa del genere. Come mensile, la rivista contiene elementi di rischio imprenditoriale molto elevati. L’ambizione è che questo mensile si possa sviluppare; è un principio di incendio, quello che vogliamo proporre. Certo, è un dato di fatto significativo che in Italia non ci siano imprenditori che abbiamo creduto, o credano, in un’iniziativa del genere. Abbiamo dovuto far- Jean Jacques Rousseau e Friedrich Nietzsche cela da soli, come comunità di intellettuali: ci siamo creati uno spazio di iniziativa, attraverso una comune convinzione. Abbiamo versato ciascuno una piccola quota di capitale attorno ad un progetto, che io avevo elaborato nel corso di due anni. La rivista ha quindi innanzitutto un carattere imprenditoriale di base; poi anche caratteristiche culturali e politiche comuni. Quali sono gli aspetti politico-culturali privilegiati nella rivista? Già nel primo numero troviamo, ad esempio, un lungo articolo su Pascal, subito dopo un dossier sulla famiglia e i problemi causati dalla separazione dei coniugi e, infine, un’intervista a Habermas. Qual’è il comune denominatore cuturale che fonda una tale proposta di contributi? Quello che la rivista vuole mettere in comune al gruppo di intellettuali che l’hanno fondata, attorno al mio progetto, è qualcosa che non corrisponde ad una 33 specifica tendenza culturale. In politica, non è un partito; nel campo della filosofia del pensare sociale, non è una specifica tendenza. Quello che c’è in comune è il riconoscersi nella sinistra. E questa vuole essere una rivista di sinistra; le persone che la compongono sono di sinistra, si sentono di sinistra, vogliono essere progressisti, ritengono che queste parole abbiano un significato. Naturalmente si può essere di sinistra nei modi più vari e con diverse gradazioni e varie impronte politico-culturali. In questa rivista prevale l’impronta liberale, una concezione della sinistra di carattere liberale, fortemente tollerante, e animata da una grande curiosità e una grande apertura mentale. Ci rivolgiamo pertanto a lettori che sappiamo animati dalla stessa passione, e cioè la curiosità per le idee più avanzate nella ricerca nei campi del sociale, del pensare alla politica e all’economia. E, soprattutto, del pensare alla vita, altro elemento molto importante. TENDENZE E DIBATTITI Un altro aspetto che infatti colpisce in questa rivista è il tentativo di accostare la teoria alla prassi, alternando considerazioni puramente teoriche a esperienze concrete, documenti, cronache. In realtà, che la teoria superi la prassi è un rischio sempre presente. Per controllare questa situazione, pensate di fondere questi due elementi oppure di trattarli separatamente in dibattiti, che alternino queste due possibili visioni del mondo? La nostra ambizione è quella di fondere. Non vogliamo fare della teoria fine a se stessa e neanche della cronaca dei fatti politici. La cronaca in sé c’è già, ci sono i giornali; la pura teoria è inutile, è un esercizio accademico. Tutti noi, coinvolti in questo progetto, siamo tuttavia fortemente convinti che c’è bisogno di teoria dopo il diluvio culturale della fine degli anni Ottanta. C’è un forte bisogno di riorganizzazione della idee, di ripartire, di ricominciare, mettendo in ordine le cime, come in barca a vela dopo una tempesta, per poter ripartire. E’ un bisogno di teoria fortemente connesso ai compiti pratici:. c’è una forte curiosità teorica; c’è anche una forte passione teorica, sempre collegata ai problemi pratici. Dunque cercare di aiutare gli individui a riflettere, prima di agire... Altrimenti non si riesce ad agire. Come si fa, ad esempio, a capire i processi di cambiamento? La profondità dei cambiamenti che derivano dal modificarsi di fattori economici, dalla fine della guerra fredda o che derivano dal rigenerarsi, dal rimescolarsi degli schieramenti politici è tale da determinare sconcerto. Non è solo crisi di fiducia nei confronti del vecchio sistema politico; è crisi della capacità di comprendere. Si tratta, allora, di riorganizzare le idee: questo è il compito che ci aspetta. A questo proposito, pensate di approfondire determinati temi o di fare una rassegna dei molteplici ambiti problematici, in cui si svolge l’attuale dibattito politicoculturale? Pensiamo di fare entrambe le cose, in maniera anche un po’ opportunistica, da un punto di vista giornalistico e dottrinale. Pensiamo di approfittare della competenze degli autori e dei collaboratori in rapporto ai temi che l’attualità ci proporrà nel tempo. Cercheremo, però, di mantenere sempre ferma una certa attenzione ai problemi della vita quotidiana, come il lavoro, la carriera, la donna, il bambino, e ai momenti politici, economici e filosofici. Venendo ora alla struttura editoriale della rivista, si notano, all’interno degli articoli, specifici riquadri, denominati “schede”. Il contenuto di queste schede ha un carattere monografico, che denota un lavoro enciclopedico di redazione. Qual è la scelta programmatica che sta alla base di queste schede? Servono a facilitare l’accesso al lettore, affinché non trovi ostico l’inizio. Un difetto della riviste di cultura è proprio quello di dare per scontata una quantità di presupposti. Ma il lettore non è un membro di quella specifica comunità scientifica, che viene chiamata in causa da ogni singolo articolo, è un esterno. Noi desideriamo che l’ingresso sia facilitato, cerchiamo di semplificare il più possibile la comprensione, magari andando agli estremi, forzando... Si tratta di fornire strumenti di comprensione e di formazione... L’intenzione, ripeto, non è pedagogica; è, invece, di mettere tutti in condizioni di fruire di determinati contenuti, dando al lettore quegli elementi affinché, qualunque sia il tipo di cultura che ha alle spalle, possa accedere ai testi. Troppe riviste, in passato, sono naufragate, o non hanno raggiunto il loro obiettivo, perché i loro contenuti apparivano troppo difficili o incomprensibili a chi non era specialista. Una considerazione, per concludere, sul titolo della rivista, «Reset», che, in termini informatici, corrisponde al pulsante che si deve azionare quando si è in una situazione di stallo per ricominciare daccapo. Si potrebbe interpretare questo titolo come un gesto di rassegnazione: sembra quasi che la supremazia della tecnologia sul pensiero venga data in qualche modo per scontata. Per una rivista che ha l’ambizione di proporre il pensiero come forma di rigenerazione della vita umana non è un titolo un po’ riduttivo? No! É invece un titolo di grande ambizione. É un titolo presuntuoso. L’idea di ripartire, di ricominciare, di azzerare gli strumenti è, semmai, una grande ambizione. Non è rassegnazione l’uso del linguaggio informatico, perché ormai appartiene alla dimensione del lavoro quotidiano. La razionalità dell’ermeneutica L’annuario FILOSOFIA ‘92 (Laterza, Roma-Bari 1993), curato da Gianni Vattimo, affronta la questione della praticabilità della razionalità ermeneutica dal punto di vista dell’alleggerimento dalla responsabilità. Se la filosofia sia un sapere aperto o piuttosto un bagaglio di contenuti specialistici destinati a pochi è invece questo il tema intorno al quale ruotano i saggi contenuti in FILOSOFIA ‘93 (Laterza, Roma-Bari 1994), sempre a cura di Gianni Vattimo e con interventi, tra gli altri, di Maurizio Ferraris, Carlo Augusto Viano, Vincenzo Vitiello. 34 Come rilevano Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris nell’ “Introduzione” a Filosofia ‘92 , tanto la prospettiva fondazionalista della metafisica, quanto quella “critica”, propria delle impostazioni di stampo illuminista, offrono all’individuo procedure di risoluzione dei conflitti in termini di “responsabilità”. Proprio questa categoria risulta messa in discussione nella razionalità ermeneutica, a cui sarebbe da ascrivere una sorta di “leggerezza”, una levità che, a partire da Nietzsche, viene contrapposta allo “spirito di gravità”, che inerisce invece alla metafisica. Una tale contrapposizione viene però messa in dubbio da Mario Ruggenini, proprio a partire dal testo nietzscheano. La leggerezza costituirebbe, infatti, il sogno della metafisica, il suo vagheggiare un «alleggerimento del pensiero, capace di portare d’un balzo l’esistenza al di là di tutte le pene». Da una parte occorre infatti, secondo Ruggenini, praticare la “fedeltà alla terra”; occorre che la riflessione assuma su di sé l’onere della propria condizione di finitezza, approfondendola e radicalizzandola. Tale approfondimento, in quanto assunzione di un onere, non può che qualificarsi come “grave”, essendo radicato al limite proprio e costitutivo dell’essere dell’interrogante nel suo essere mortale. D’altra parte, nella scoperta della necessità di questo radicamento, nell’accettazione di questo essere vincolati all’esperienza di un’alterità, la riflessione dà prova di “leggerezza”, rivendicando la gravità attraverso un atteggiamento che Ruggenini definisce “ironia”. La questione della pesantezza viene tematizzata da Vincenzo Vitiello, che rintraccia, nella pesantezza dell’eterno ritorno dell’identico nietzscheano, il manifestarsi di quella concezione della verità, già propria della prospettiva metafisica tradizionale, da Aristotele fino a Kant. Da un lato il divenire, affermato nella sua necessità da Aristotele, Kant, Hegel e dallo stesso Heidegger, costituirebbe il tramite, annullato da Nietzsche, attraverso il quale si ripropone l’identità. Dall’altro, proprio tale necessità del divenire porterebbe nuovamente in primo piano, secondo Vitiello, il “peso più grande” dell’identità, e Kant come Nietzsche, e come tutta la metafisicasi troverebbe in questo modo costretto a ripercorrere i passi di Spinoza, dove la libertà si appiattisce sulla necessità. Unico punto di fuga, indicato da Nietzsche, unica possibile liberazione dal peso della verità, ovvero dalla necessità, risulta essere l’arte. Aldo Masullo ricorda però che la modernità, assolutizzando il tempo, e non l’eternità, sposta il baricentro della riflessione dalla nozione di necessità a quella di possibilità. Nella modernità, la categoria centrale della metafisica «registra la crisi della “ragione necessaria”, e comincia a pensare la “possibilità” non come, da sempre, già depurata di ogni “contingenza”». In altri termini, il mondo diventa il prodotto TENDENZE E DIBATTITI di legami che sussistono in forza di una necessità di fatto, e non di una necessità logica. Al fondo di questo processo, osserva Masullo, ciò che dilegua è la possibilità stessa del nesso causale tra passato, presente e futuro; resta solo la dimensione del presente, ovvero dell’istantaneità. D’altro canto, l’assolutizzazione della contingenza porta con sé la possibilità della libertà, che si manifesta, secondo Masullo, come coniugarsi del principio-speranza e di quello di responsabilità; si manifesta cioè come “grazia”, che chiama ciascuno alla responsabilità verso la propria speranza. Nel destino dell’opera d’arte nell’epoca contemporanea Gianni Carchia individua il paradigma della “perdita del mondo”, ovvero della responsabilità dell’azione nel suo radicarsi nel mondo. Ciò è dovuto, secondo Carchia, alla contrazione dell’autonomia dello spirituale, ossia al restringersi della funzione mediatrice dello spirito nei confronti dell’istanza della “socialità”, che tende a imporsi come omnipervasiva. In tal modo vien meno la dimensione dell’extravitale, dell’irriducibile all’esistente, che rappresenta invece l’essenza dell’opera d’arte, in quanto concrezione obiettivata dello spirito, trascendente nei confronti della dimensione dell’utilizzabilità, propria degli enti intramondani. Secondo Jean Francois Lyotard, nella società contemporanea il modus aestheticus del pensiero è espressione del nuovo oggetto verso il quale, caduta l’oggettività degli ideali, si indirizza la riflessione, ovvero il modo di rappresentare gli ideali medesimi. Sulla strada aperta da Kant, Lyotard rileva come l’estetica filosofica tenda a vedere nel modo di una “spontanea disposizione”, in cui l’anima è affetta dal sensibile, «il segno di un accordo originario del pensiero con il mondo». Nell’unità estetica, la modernità sottolinea non l’aspetto conciliativo, bensì la possibilità di salvazione del nichilismo dal nulla di senso. La “perdita di fondamento”, cui fa riferimento Aldo Giorgio Gargani, rappresenta, infatti, proprio ciò a cui potrebbe far fronte, dopo averla provocata, lo sguardo della filosofia, nel suo rendere trascendentale l’azione, distinguendo in essa intenzione, soggetto e risultato, e ponendo il valore dell’azione nel soddisfacimento dell’intenzione da parte del risultato. Questa corrispondenza rinvia a quella tra verità e significato, in quanto entrambe si fondano sul fatto che l’intenzione, che guida l’azione, si conformi a strutture assiologiche preesistenti all’estrinsecarsi dell’azione medesima, si conformi cioè ai “fondamenti” dell’azione. Per questa via si giunge, però, alla nullificazione del significato, cioè all’insensatezza del rapporto intenzionale, che può essere ricostruito solo a partire da un’analisi, qual è quella filosofica, che metta radicalmente in que- stione la “naturalità” della trascendentalizzazione dell’azione. Questa analisi risulta contrapposta alla ricerca del “proprio”, dell’ “autentico”, che Jacques Derrida pone alla base della lettura della finitezza, sottesa in Heidegger dalla categoria dell’ “essere per la morte”. A questo proposito, Derrida rileva un’aporia: l’esperienza “più propriamente autentica” del Dasein, ciò che lo fa giungere alla sua verità, ovvero la morte, è la possibilità di un poter non esserci più come Dasein, ma non l’impossibilità di un potere. In altri termini, la possibilità più propria del Dasein si rivela come la più impropria, la più espropriante. Scopo dichiarato di Derrida consiste qui nel mostrare che proprio «questa dimensione fondamentalista non può sostenersi, né tantomeno può aspirare a una qualche coerenza o specificità rigorosa», e corre il rischio della “ricaduta” in una prospettiva bio-antropo-tanato-teologica. Se la critica di Derrida al “fondazionalismo” heideggeriano intende comunque esercitarsi a partire dal terreno della filosofia, Gianni Vattimo si chiede allora che tipo di argomentazione sia quella di Derrida, dal momento che alla logica argomentativa di quest’ultimo è stato spesso contestato il fatto di non fornire “ragioni”. Vattimo rileva, anzitutto, che il diritto alla filosofia, rivendicato da Derrida, non è naturale, ma si pone sempre all’interno di una tradizione, condividendo in questo la prospettiva propria dell’ermeneutica. Tuttavia, il punto di vista decostruzionista, osserva Vattimo, non tiene fede all’intento ermeneutico, concependo infatti l’esercizio filosofico in modo “estetico”, laddove identifica il diritto alla filosofia come il diritto, da parte di un soggetto (“creatore” o “poeta”), a esprimersi «in una Weltanschauung il cui valore sarebbe garantito dal fatto di costituire un nuovo sistema di metafore per descrivere il (suo) mondo». Si torna con ciò alla questione del soggetto, ripresa da Jacques Rolland, che nei testi di Kafka rintraccia un soggetto “sfinito”, “diminuito”, ridotto fino alla scomparsa del nome e al suo tradursi in sigla anagrafica, espressione di quella passività con cui il soggetto, nella scomparsa, persiste come traccia. La questione della posizione del soggetto diventa dunque, nel saggio di Rolland, la «“messa in questione” della soggettività; allo stesso tempo, la sua messa in gioco e la sua rimessa in causa». Al di là di Kafka, Rolland guarda a Blanchot e, soprattutto, a Levinas, che pone la questione dell’Io in vista dell’uomo, e in questo si qualifica, secondo Rolland, come pensatore del “legame” che «nell’umano annoda l’altro all’uno». Alla questione del soggetto Pier Aldo Rovatti si avvicina invece con l’intento di delineare un’ “etica del linguaggio”, dove con “etica” Rovatti intende la “responsabilità” dell’assumere l’esperienza umana come luogo della contraddizione in atto. Il riferimento, tanto improprio, quanto ine35 vitabile, del termine “etica” al luogo di un problematico abitare intende qui indicare, in una prospettiva topologica, un possibile “oltre” della metafisica. La questione del soggetto riceve con ciò un proprio programma comportamentale, l’indicazione di una Haltung (un ethos, appunto), nella formula che Rovatti definisce come “abitare la distanza”. Ovvero, dimorare in quello scarto che, nell’inevitabile sdoppiamento dell’io in un soggetto costituentesi come scisso tra sé e se medesimo, consiste in un esercizio essenzialmente di parola. Uno degli aspetti che fin dalle origini hanno caratterizzato la filosofia è stato il suo continuo oscillare tra la pretesa di universalità dei suoi contenuti e l’esigenza di specializzazione di un pubblico ristretto. Il problema dell’universalità della filosofia è al centro degli interventi raccolti in Filosofia ‘93, in cui emergono in particolare due questioni principali. Per quanto riguarda i contenuti è noto che la filosofia intende occuparsi della vita, sia nella sua totalità, sia nei suoi aspetti particolari e, per questo, specialistici. Diverso è il problema della filosofia per ciò che ne concerne l’utenza: la filosofia è un sapere essoterico, ovvero aperto a tutti, o rappresenta, piuttosto, un serbatoio di contenuti esoterici, destinati a pochi privilegiati? In qualità di difensore dell’esoterismo della filosofia, Carlo Augusto Viano, nel suo saggio Scrittura e pubblico dei filosofi, dimostra che le pretese di universalismo del sapere filosofico, sorte con il pensiero platonico, crollano quando il soggetto trascendentale kantiano si distacca dal soggetto empirico e comincia a rappresentare la realtà in modo innaturale. Secondo Viano, la rivoluzione copernicana attuata da Kant riduce lo spettro universalistico teorizzato da Platone e apre un piccolo squarcio caratterizzato dal rigore scientifico e, per questo, non più universale. L’esoterismo filosofico viene in seguito rafforzato dal pensiero di Heidegger e Wittgenstein, che affrontano la parzialità del lógos filosofico, in grado di cogliere esclusivamente la cosalità dell’essere. Cosa resta, allora, alla filosofia? Secondo Viano, che dimostra la sua tesi attraverso una storia di eventi filosofici, resta soltanto, appunto, una storia della filosofia, un sapere specialistico che, toccando solo particolari tematiche, è riservato ad un pubblico di tecnici, che posseggono gli strumenti per comprenderlo. Di parere opposto è Maurizio Ferraris, che nel suo Kant e il problema della pubblicità difende l’essoterismo della filosofia. Il noto scritto kantiano, Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo, mostra chiaramente, secondo Ferraris, che per Kant la filosofia costituisce quel procedimento razionale in grado di universalizzare il sapere e di costituire un valido aiuto per il cosmopolitismo. La pubblicità diventa, così, l’esigenza primaria della filosofia, che attraverso il suo procedere TENDENZE E DIBATTITI discorsivo pone come dover essere la fratellanza universale. D’altra parte, osserva inoltre Ferraris, l’idea di noumeno più che costituire un limite all’universalismo kantiano, ne rappresenta un punto di forza. La separazione dell’intelletto dalla ragione e della scienza dalla metafisica forniscono, infatti, a Kant la possibilità di identificare realmente la filosofia con un sapere universale ben delimitato nei propri confini e di evitare la coincidenza dei propri contenuti con quel sapere entusiastico e totale che in Platone aveva già incontrato le contraddizioni descritte in apertura. Una mediazione tra queste posizioni è quella proposta da Gianni Vattimo nel suo intervento: Il paradigma e l’arcano. Convinto assertore dell’universalità della filosofia, Vattimo afferma la necessità, per il pensiero filosofico, di fornire quelle interpretazioni unitarie dell’esistenza che la rendono praticabile. La filosofia, infatti, offre quelle visioni complessive dell’esperienza che permettono di oltrepassare gli specialismi e di dare un senso, seppur fedele alla “debolezza” del pensiero, alla vita. L’analisi di Vattimo, che dunque propende per un essoterismo “debole” della filosofia, prende le mosse dall’ambiguo atteggiamento nietzscheano di fronte alla filosofia. Pur affermando l’esigenza del ridere della cosa in sé, e quindi contestando quegli aspetti esoterici della filosofia kantiana, Nietzsche considera il pensiero filosofico come privilegio di una casta sacerdotale. L’Oltreuomo è in tal senso quell’essere in grado di superare il livello medio della comunicabilità per raggiungere un nuovo tipo di verità. E` questo, secondo Vattimo, anche il messaggio di Heidegger, che intende ripensare l’essere al di là della sua semplice presenza. L’epoca della metafisica cosalizzante, culminata nel momento della tecnica, ha ridotto a comunicazione di massa la pretesa universalistica della filosofia: l’oltrepassamento di questo tipo di filosofia comporta, secondo Vattimo, l’uscita dall’omologazione e il raggiungimento della libertà. In questo modo una concezione diminutiva dell’essere, in grado di sopportare la fine del “fondamento” senza provare smarrimento, riesce a cogliere quella tensione verso il limite e il segreto, che costituisce l’esistenza fattuale della filosofia. In altre parole, la tesi di Vattimo capovolge i termini della questione: la tendenza all’essoterico universalizzante corrisponde ad una sorta di omologazione e livellamento conclusosi, ormai, con la fine della metafisica. Il suo oltrepassamento, comunque, non costituisce l’arcano e il mistero: nonostante resti sempre quel quid di indicibile che il pensiero, per i suoi limiti costituitivi, non riesce a cogliere; ciò non comporta una supremazia dell’esoterico, quanto una concezione della filosofia ridimensionata nei suoi limiti e comunque in grado di cogliere, debolmente, il senso complessivo dell’esistenza. M.Ce./A.S. La lanterna magica dello storico In occasione del centenario della pubblicazione dello scritto di Benedetto Croce, LA STORIA RIDOTTA SOTTO IL CONCETTO GENERALE DELL’ ARTE, cento lettori messinesi del filosofo hanno voluto dare alle stampe, a cura di Giuseppe Gembillo, una “riproduzione” di questa celebre “Memoria” crociana del 1893, che è stata presentata il 17 gennaio 1994 da Girolamo Cotroneo nell’Aula Magna dell’Università di Messina. Con l’intento di offrire uno spunto ulteriore alla rilettura di testi spesso citati, ma forse non altrettanto adeguatamente conosciuti, la “Memoria” crociana, LA STORIA RIDOTTA SOT TO IL CONCETTO GENERALE DELL ’ARTE , accompagnata dalla prima parte dello scritto di Pasquale Villari, che ne fornì lo spunto polemico: LA STORIA È UNA SCIENZA? (1891), è stata oggetto di un’altra riedizione dal titolo: CONTROVERSIE SULLA STORIA. 1891-1893 (Edizioni Unicopli, Milano 1993), a cura di Renata Viti Cavaliere, che ha inteso richiamare l’attualità dell’idea crociana di narrazione storica, con riferimento agli esiti più recenti del dibattito sulla epistemologia delle scienze storiche. Cento anni fa, nel 1893, appariva La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, la celebre “Memoria” con la quale Benedetto Croce, abbandonando i suoi precedenti lavori di natura storica e filologica e collocandosi sul terreno della riflessione, si presentava per la prima volta in veste di pensatore. Come ha precisato Giuseppe Gembillo nel corso della presentazione all’Università di Messina della riedizione messinese dell’opera, questo breve scritto rappresenta un evento degno di nota, perché in esso compaiono, sebbene in nuce e non ancora ben delineati, i motivi centrali della speculazione crociana, e anche perché con quel lavoro il giovanissimo pensatore, allora solo ventisettenne, si inseriva nel vivo del dibattito filosofico europeo. Proprio a collocare l’opera giovanile di Croce nel panorama delle correnti del pensiero europeo ha mirato l’intervento di Girolamo Cotroneo. Inserendo lo scritto nel contesto della polemica antipositivistica di fine secolo e accostandolo alla riflessione dei più significativi esponenti contemporanei dello storicismo tedesco, Cotroneo ha evidenziato come l’esordiente pensatore si incamminasse decisamente su una delle strade maestre della filosofia contemporanea. Croce non aveva ancora chiara nozione del movimento di rifiuto della cultura positivista, e rimaneva per certi versi all’interno di quest’ultima, continuando ad assegnare alla scienza il ruolo di unica conoscenza universalizzante e concettuale. Eppure, scegliendo di occuparsi della storia, e riducendola all’arte, 36 Croce impostava in maniera personale e innovativa il problema del rapporto tra ragione scientifica e ragione filosofica, che diverrà il nodo della filosofia del Novecento. Accingendosi alla composizione dell’opera, Croce era mosso dall’esigenza di chiarire la natura degli studi storici; scienza, arte e storia divennero così per la prima volta oggetto di riflessione sistematica di Croce, che già in quest’opera lasciava intravedere come la qualificazione, per la scienza, di conoscenza astraente e generalizzante, anche se non ancora connotata negativamente, preludesse già al giudizio della Logica; mentre la definizione dell’arte come “rappresentazione della realtà” e della forma estetica quale “proiezione del contenuto” fossero una chiara anticipazione delle sistemazioni più tarde. Nel contesto dell’opera, infatti, la storia, che Croce definisce «narrazione di ciò che è accaduto», esula dal piano dell’indagine scientifica e occupandosi dell’evento concreto e particolare lo ricostruisce tale e quale si è verificato, delineandolo nella sua irripetibile singolarità. Questa caratteristica peculiare del discorso storico, se induceva Croce a separarlo nettamente dalla scienza, non per questo ne comprometteva la specificità e il rigore. Come ha sottolineato Cotroneo, il tentativo crociano di differenziare la conoscenza storica dal pensiero scientifico, riservandole un ambito connotato dalle caratteristiche di extramondanità e originalità proprie dell’arte, ma contemporaneamente valido e rigoroso nel perseguire il suo scopo di ricostruzione fedele degli eventi passati, indica che Croce sceglieva un indirizzo di pensiero che sarebbe stato proprio di buona parte della filosofia del nostro secolo: basti pensare allo Husserl della Krisis, al Gadamer di Verità e metodo, fino ad arrivare a Perelman e Feyerabend. Proponendosi quale assertore di una razionalità duttile e aperta e rivendicando al pensiero un suo spazio e un suo proprio metodo, indipendente dalle pretese naturalistiche dello scientismo, Croce rappresenta, ha aggiunto Gembillo, uno dei “punti di svolta” della cultura europea nel momento del superamento del positivismo di fine secolo; da questo punto di vista Croce può essere considerato l’iniziatore dell’estetica come scienza filosofica non solo autonoma, ma anche “fondante”. Coerente con questa precoce intuizione, Croce ne approfondirà in seguito il significato, riservando all’ “espressione” e al linguaggio il ruolo di elemento basilare del momento teoretico dello spirito, secondo quella tendenza, tipica della filosofia del Novecento, a fare della riflessione sul linguaggio il punto di partenza della speculazione. Letta il 5 marzo 1893 all’Accademia Pontaniana di Napoli, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte conserva, ad un secolo di distanza, tutto il fascino e la TENDENZE E DIBATTITI Benedetto Croce. Frontespizio del primo numero della rivista “La critica” freschezza dell’esordio filosofico di Croce. E’ lo stesso Croce a descrivere, in una celebre intervista rilasciata a Luigi Ambrosini e pubblicata sul “Marzocco” nel 1908 (nella redazione finale dello stesso Ambrosini e di Renato Serra), il clima di autentico fervore filosofico in cui maturò quello scritto: «Mi giunse l’eco di una grossa questione, vivacemente dibattuta. Era mossa dal Villari: se la storia fosse arte o scienza. Io allora non potevo credere se non che la storia fosse scienza, e preparai una memoria per dimostrare che la storia è scienza. Lo scritto era già composto per la stampa, e io continuamente ci ripensavo sopra. Di giorno in giorno me ne sentivo meno soddisfatto, finché all’improvviso mi scoppiò nella mente la soluzione nuova del problema, in un lampo di luce. Non avevo capito niente! La storia non può essere scienza, ma deve essere arte; perché la scienza è dell’astratto, e la storia è, come l’arte, del concreto: individualista. La storia differisce dall’arte, solo in quanto l’arte rappresenta il possibile, la storia il reale. Corsi in tipografia. Scomponete! Era tutto il mio passato che scomponevo. Ma, per edificare, nulla è più necessario che distruggere. Per vedere nuove cose bisogna volgersi da un’altra parte.» Rileggendo quelle antiche pagine di Croce, viene spontaneo constatare come sia ancora lontana la prospettiva metafisica della posteriore “filosofia dello spirito”; mentre tuttora viva e presente, nel gusto tutto herbartiano per le nitide distinzioni concettuali, appare la lezione di Antonio Labriola. Altrettanto evidente, nel modo stesso di impostare i problemi e di argomentare, appare l’eredità che il secolo XIX - secolo “storico” per eccellenza - ha lasciato sul giovane filosofo ed erudito napoletano, anche per la mediazione di quel filone umanistico-storiografico del positivismo italiano, che ebbe in Pasquale Villari uno dei suoi più eminenti rappresentanti. «Innanzi a un obietto qualsiasi - a un personaggio, a un’azione, a un avvenimento - lo spirito umano non può compiere se non due operazioni diverse. Può domandarsi: che cosa è?, e può raffigurarsi quell’oggetto nella sua apparizione concreta. Può volere “intenderlo”, o semplicemente “vederlo”». In queste parole di Croce, tratte da Controversie sulla storia. 1891-1893, il “vedere” (che nelle edizioni successive della Memoria verrà sostituito da un “contemplare”) evoca in maniera diretta le pagine del saggio di Villari, là dove l’autore intesse, intorno alla figura di Augustin Thierry, un commosso elogio del secolo “storico” e delle sue idealità etiche e scientifiche. Vi è qualcosa di paradossale e di grandioso nella situazione del ricercatore, che si dedica con tanto accanimento alle proprie ricerche di archivio, da perdere completamente la vista, proprio 37 nel momento in cui si accinge a mettere per iscritto la sua narrazione. La professione di fede scientifica di questo grande studioso, che è divenuto cieco al solo scopo di restituire agli altri una più compiuta capacità di “visione”, e che scrive: «se dovessi ricominciare la mia strada, ripiglierei quella che m’ha condotto dove sono», diventa il simbolo dell’eroismo dell’intrapresa storica, a descrivere la quale Villari non trova metafora più appropriata di quella “ottica” della lanterna magica: «Quando noi mostriamo al fanciullo la lanterna magica, ed avviciniamo al muro la lente, esso non vi vede che un piccolo punto di luce bianca, uniforme. Allontaniamo a poco a poco la lente, e quel punto di luce s’allarga sempre più in un cerchio, che si decompone, svolgendo dal suo seno una moltitudine di fantastiche figure, in attitudini diverse e diversissimi colori. Tutte quelle figure erano in germe contenute in quel punto di luce bianca. Se infatti noi torniamo ad avvicinare la lente, il cerchio si restringe, le figure scompaiono, e riapparisce di nuovo il piccolo punto di luce uniforme. Immaginiamo un istante che esso sia un essere vivente, cosciente. Fino a che resta in tale stato, non potrà avere coscienza della svariata ricchezza di forme e colori nascosta nel proprio seno. Ma quando noi allontaniamo la lente, esso allora se ne dovrà avvedere. Qualche cosa di simile avviene con lo studio della storia. Il poeta ci rivela TENDENZE E DIBATTITI i molteplici elementi ideali della nostra natura, lo storico ci rivela invece tutti gli elementi reali, coi quali il nostro spirito s’è veramente, attraverso i secoli, andato formando.» Se per Villari la distinzione tra “reale” e “ideale” è sufficiente a discriminare fra loro scienza e arte, storia e poesia, e a fondare la prima come la “vera scienza dello spirito umano”, Croce - che si vanterà di non essere mai stato positivista o “sensista” - non può accettare un mero criterio fattuale, senza preliminarmente sottoporre i “fatti” (siano essi di natura psicologica, o altra) a una elaborazione concettuale e formale che li renda “espressivi”, o, con termine schilleriano, “parlanti”: «O si fa della “scienza”, dunque, o si fa dell’ “arte”. Sempre che si assume il particolare sotto il generale, si fa della scienza; sempre che si rappresenta il particolare come tale, si fa dell’arte.» Stabilita la natura non concettuale, e pertanto artistica, della storia, si tratta di fissarne la differenza rispetto alle forme della rappresentazione artistica in senso stretto. Escluso che una differenza si possa trovare dal lato del “modo” della rappresentazione, giacché la narrazione storica in quanto tale non forma un genere, ma può rientrare in generi diversi, Croce (seguendo le suggestioni dell’estetica dell’ “idealismo concreto” di Hegel e De Sanctis) la cerca dal lato del “contenuto” rappresentativo e la rintraccia nella categoria dell’ “interessante”: «La storia, rispetto alle altre produzioni dell’arte, si occupa dello “storicamente interessante”; ossia non di ciò che è possibile, ma di ciò che è “realmente accaduto”». Ritorna, dunque, l’elemento fattuale, o di contenuto, ma ritorna entro una cornice formale, di finalità narrativa, che ne muta radicalmente il significato. Ma che cosa comporta una autentica “narrazione” storica, e quale rapporto essa instaura con il lavoro più positivo della critica, dell’indagine, dell’interpretazione o comprensione storica, che Croce deve relegare nel ruolo di semplice lavoro preparatorio? «Prima condizione per avere storia vera (e quindi opera d’arte), è che sia possibile costruire una narrazione. Ma costruire una narrazione compiuta è cosa che capita di rado; e perciò la definizione che abbiam dato della storia, rappresenta un ideale, che ben di rado riesce allo storico di raggiungere. Nella maggior parte dei casi, non si possono offrire se non degli studi preparatori, o un’esposizione frammentaria, continuamente turbata da discussioni e da dubbi e da riserve. Si possono mostrare molte “pagine” di storia perfetta; ma poche, e forse nessuna opera ampia, di vera storia.» La conclusione del saggio è dunque alquanto paradossale: più di quanto la maggioranza degli studiosi di Croce, sia mai stata disposta ad ammettere. Nello stesso momento in cui perviene a definire concettualmente lo statuto epistemologico della storia (ridotta appunto, come si dice in conclusione, “sotto il concetto generale dell’arte”), Croce è indotto a concludere che forse di “vere” opere storiche non ne esiste nemmeno una, avvicinandosi pericolosamente alle tesi dello “scetticismo” storico di quel Schopenhauer, il cui nome ricorre più d’una volta in questa “Memoria”. Certo si tratta solo, per Croce, di una tentazione, che non ne infirma la generale fiducia in quel tipo di intrapresa, che egli condivide con il secolo “storico”. A ben vedere, anzi, il dubbio sull’esistenza di autentiche opere di storia discende da quello stesso ideale di alta disciplina scientifica e umanistica, che egli condivide in fondo con Villari e il suo storicismo positivistico. A.V./R.F. Realtà virtuale Il concetto di “realtà virtuale” si può esplicitare se si chiarisce il significato di “reale” e “virtuale”. Nel suo MONDI VIRTUALI (Bollati Boringhieri, Torino 1993), Benjamin Woolley spiega in tal senso come il concetto di “realtà” sia definibile in rapporto a quello di misurabilità; mentre quello di “virtualità” dipenda fondamentalmente da operazioni di calcolo. La matematica si presenta quindi come collegamento essenziale tra “reale” e “virtuale”. Questi argomenti ricorrono anche nella nuova rivista «VIRTUAL» (periodico mensile, Edizioni Wilson, n. 3, novembre 1993), che intende proporre la realtà virtuale sia come strumento tecnologico, sia come spunto per una riflessione filosofica. Che cos’è in fondo la “realtà virtuale” se non un bellissimo ossimoro? E` questa la definizione che Benjamin Woolley attribuisce a questo concetto. I due termini, “reale” e “virtuale”, sono infatti apparentemente contraddittori tra loro: ciò che è reale non può essere virtuale, e viceversa. Woolley mostra tuttavia come sia possibile superare la contraddizione attraverso quei nodi che collegano il concetto di realtà virtuale alle categorie fondamentali della filosofia. Il conflitto tra idealismo e realismo, ovvero il problema dell’autonomia ontologica della realtà dall’io; il contrasto tra empirismo e razionalismo, ovvero il problema della conoscibilità della realtà stessa, sono argomenti che sono già compresi nelle questioni concernenti la realtà virtuale. Il senso comune intende come reale tutto ciò che è provvisto di materialità: è reale tutto ciò che esiste materialmente, indipendentemente dall’osservatore. Già Tomàs Maldonado, nel suo Reale e virtuale (Feltrinelli, Milano 1992), aveva messo in guardia da una concezione del genere. Se la meccanica classica dipende 38 da un asserto di questo tipo, lo stesso non si può dire della meccanica quantistica: le particelle subatomiche dipendono in tutto e per tutto dal sistema di osservazione e non possono essere determinate in modo autonomo. Inoltre, il principio di indeterminazione di Heisenberg ha stabilito l’assurdità dell’indipendenza ontologica della materia. Ma se il carattere distintivo della realtà non può più individuarsi nel suo essere “cosa in sé”, che cosa rende “reale” un evento? La risposta di Woolley si colloca nella matematizzazione dello spazio di Cartesio. In fondo la res extensa è garantita nella sua esistenza e validità dalla matematica: un corpo esiste non in quanto percepibile, ma in quanto misurabile. Per la meccanica quantistica la strada intrapresa è la stessa: un evento atomico è reale quando entra in gioco il resto del mondo, quando, cioè, è misurabile. La misurabilità è dunque ciò che collega i due tipi di realtà; e la matematica, privata dai residui empirici, diventa la garanzia assoluta dell’esistenza della realtà, sia nella fisica classica sia in quella relativistica. Per quanto riguarda il termine “virtuale”, Woolley richiama la simulazione di un ambiente reale come viene percepito da un utente fornito di un’apposita apparecchiatura elettronica che sostituisce i suoi dati sensoriali. La percezione dell’utente simula qui una realtà ontologicamente inconsistente. Queste applicazioni di realtà virtuale, la cui prima apparecchiatura risale al 1968, con Ivan Sutherland e la sua Spada di Damocle, spaziano dalla medicina all’ingegneria civile e meccanica. Queste diverse applicazioni, ricorda Woolley, rischiano tuttavia di farci dimenticare l’essenza della realtà virtuale stessa e cioè la capacità di calcolo: le simulazioni sempre più “reali” della tecnologia virtuale dipendono sempre e comunque da operazioni informatiche di calcolo. Il linguaggio matematico è di fatto ciò che rende reale la virtualità, per cui, secondo Woolley, l’unica strada per “rendere reali” gli spazi virtuali della tecnologia informatica è quella di riportarli alla loro matrice originaria e cioè al calcolo matematico. Ma se, come abbiamo osservato in precedenza, la “realtà” propriamente detta è garantita dalla misurabilità e se il “virtuale” non è altro che il prodotto di un calcolo matematico, cosa separa ancora il reale dal virtuale? Se è vero, come diceva Galileo, che il libro della natura è scritto in simboli matematici, il calcolo diventa lo strumento necessario sia per la descrizione dell’universo sia per la simulazione dell’universo stesso. La realtà, allora, reale o virtuale che sia, non è altro che il prodotto di un calcolo matematico. Reale e virtuale non costituiscono allora alcuna contraddizione: realizzano due modalità diverse della stessa struttura. A.S. TENDENZE E DIBATTITI Primo piano: filosofia e computer Alle soglie della terza rivoluzione digitale Dopo una prima fase pionieristica, in cui solo alcuni scienziati erano ammessi a lavorare in batch (differita) su pochi grandi computer main frame mediante schede perforate, gli anni Ottanta hanno visto la diffusione del PC di massa. Alla fine del 1993 ne esistevano 176 milioni, per una potenziale domanda mondiale pari a 700 milioni. Durante questa seconda fase, la rapida evoluzione delle macchine a nostra disposizione ci ha portato a parlare di generazioni di computer sulla base della loro struttura hardware. Oggi, dopo quasi mezzo secolo di progressi, l’informatica ci suggerisce una nuova scala cronologica. Si parla ormai di “terza età” dell’informatica, una fase evolutiva caratterizzata dall’avvento dei network, delle banche dati, dei CD-roms e delle applicazioni multimediali. L’apertura di queste nuove prospettive ha riacceso l’interesse per la IT (Information Technology), creando una nuova situazione di richiesta di competenze nel mondo degli utenti. Negli ultimi cinque numeri di «Informazione Filosofica» abbiamo cercato di aggiornare la mappa degli strumenti oggi disponibili, anche nel tentativo di comprendere alcune delle trasformazioni che questo veloce avvicendarsi di generazioni di macchine ed età informatiche hanno comportato nel campo delle discipline filosofiche. Giunti al termine di questa panoramica, ci sembra opportuno ritornare brevemente su cinque questioni generali. “La rivoluzione binaria”. Alla radice delle recenti trasformazioni nel mondo dell’informatica e delle sue applicazioni alle discipline umanistiche vi è il passaggio dal modello analogico a quello digitale della codifica dei dati, unitamente alla possibilità di manipolare stringhe binarie alla velocità della luce sulla base di prestabiliti algoritmi. La binarizzazione del mondo delle idee ha infatti rappresentato la vera rivoluzione tecnologica, dopo l’avvento delle macchine. L’informatica è l’unica tra le tecnologie sorelle (telegrafo, telefono, televisione...) ad aver trasformato in modo radicale la natura stessa dell’oggetto, per poter esercitare su di esso il proprio potere gestionale. Si deve risalire a Guttenberg per rinvenire nel mondo del sapere una trasformazione tecnologica tanto influente e radicale quanto quella dell’avvento dell’informatica. “La crescita”. Il grande sviluppo che ha avuto l’informatica fino alla fine degli anni Ottanta - reso possibile dalla binarizazione del sapere - deve essere collegato sia alla crescita smisurata del sapere umano, sia al rapporto tra tecnologie dell’energia e tecnologie dell’informazione, entrambe volte al risparmio del tempo. L’impiego massiccio e continuativo di tecnologie energetiche “salvatempo” produce una sempre maggiore capitalizzazione di tempo. Ad un certo punto la quantità di ricchezza di tempo accumulato rende la società così complessa, e le tecnologie energetiche salvatempo diventano così raffinate, che la possibilità stessa di continuare a liberare tempo finisce per dipendere dalle tecnologie dedicate alla gestione dell’informazione, la linfa vitale del sistema. Quando la gestione delle informazioni diventa tanto essenziale quanto la produzione di energia, il sistema è maturo per passare dal modello industriale a quello del terziario avanzato. Il sopraggiungere del computer negli anni cinquanta ha rappresentato l’apparire della necessaria tecnologia al momento opportuno, ma bisogna ricordare che la sua “necessità economica” era insita da sempre nella stessa rivoluzione industriale - nell’accumulo di capitale e nella corrispondente crescita della complessità del mondo finanziario -, mentre la sua “necessità culturale” è stata una naturale conseguenza della crescita del sapere. “L’unificazione internet”. Una volta che la rivoluzione digitale, risolvendo problemi di memorizzazione, manipolazione ed accesso, ha permesso una massiccia codifica binaria dell’enciclopedia umana, è stato inevitabile che subentrasse una fase in cui crescita significasse unificazione in un unico network dei vari domini binari, creatisi fino ad allora. Questo processo di convergenza - in stadio avanzato negli Stati Uniti già lo scorso decennio alla fine degli anni Ottanta ha superato la sua fase critica ed oggi viaggia ad un ritmo serrato. Tra breve il dominio digitale, formatosi negli scorsi decenni a macchia di leopardo, sarà completamente ricomposto in un’unica rete internazionale. “L’ampliamento multimediale”. Il passaggio dal PC al network è frutto della crescita e quindi della ricomposizione del dominio binario. L’avvento della multimedialità è invece un fenomeno riconducibile alla dinamica di estensione qualitativa dello stesso dominio. I linguaggi sia 39 naturali che formali, più semplici da ricodificare, in quanto già discreti e strutturati, sono stati i primi ad essere assorbiti all’interno del mondo binario. Il passo successivo, tuttora in corso, è stata l’estensione della traduzione digitale al mondo delle immagini e dei suoni, cioè a quegli unici due generi di fenomeni all’interno del mondo delle realtà sensibili che possono essere prodotti in modo analogico e quindi a loro volta facilmente digitalizzabili. “Quantità vs. velocità”. I fenomeni di composizione e ampliamento del dominio digitale sono accomunati da un terzo fattore. Si tratta del rapporto tra estensione e viabilità di qualsiasi dominio enciclopedico; nel nostro caso di quell’universo che sarà il mondo dei bytes, unificato in un internet globale, ed esteso alla multimedialità. La quantità di informazioni già oggi disponibili in formato digitale è straordinaria. Ma che cosa accadrà quando avremo decine di migliaia di gophers da consultare; oppure intere letterature nazionali da scandagliare per una semplice richiesta di dati; o magari insiemi di enciclopedie di tutti i tempi da consultare online? Quanto tempo ci vorrà perchè il nostro computer ci fornisca una risposta? La multimedialità divora memoria. La realtà è che le tecnologie di riproduzione e archiviazione di dati, così come le applicazioni software e la quantità di informazioni ormai digitalizzate, sono in una fase evolutiva più avanzata delle tecnologie responsabili per la velocità con cui sono rinvenibili e recuperabili le informazioni e sono eseguibili i programmi software. La contrapposizione tra memoria e intelligenza, quantità e velocità, accumulo e accessibilità del sapere si è riprodotta anche all’interno del mondo informatico. “Tre previsioni”. Lo scenario appena abbozzato suggerisce che nei prossimi anni sarà sempre più raro non essere parte della comunità elettronica globale, o produrre informazioni di un qualche rilievo che non siano accessibili on line. Quando anche la fase di espansione del dominio del digitale sarà stata completata, la realtà virtuale sarà uno spazio interattivo, colorato e rumoroso, vivibile a 360 gradi, ma senza odori, sapori e sensazioni tattili all’altezza dei nostri sensi, visto che questi hanno bisogno di un diretto contatto con le cose. Percorrere il mondo digitale del sapere alla ricerca di ciò che ci interessa richiederà processori sempre più potenti e procedure di compressione-decompressione dei dati molto più efficienti di quelle fino ad oggi disponibili. Nel prossimo decennio assisteremo probabilmente a radicali trasformazioni tecnologiche. Per gente curiosa come i filosofi c’è di che stare con il fiato sospeso. L.F. PROSPETTIVE DI RICERCA Peter Fetthauer, Kopf im Profil (1991) 40 PROSPETTIVE DI RICERCA PROSPETTIVE DI RICERCA L’antropologia filosofica di Gehlen Alcuni recenti iniziative editoriali richiamano l’attenzione sulla figura di Arnold Gehlen, considerato, con Helmuth Plessner e Max Scheler, tra i fondatori e maestri dell’antropologia filosofica del Novecento. Mentre all’interno della «Gesamtausgabe» viene pubblicata in edizione critica l’opera DER MENSCH. SEINE NATUR UND SEINE STELLUNG IN DER WELT (L’uomo. La sua natura e la sua posizione nel mondo, «Gesamtausgabe», vol. 3, a cura di K.S. Rehberg, Klostermann, Frankfurt a.M. 1993), il volume collettivo ZUR GEISTESWISSENSCHAFTLICHEN BEDEUTUNG (Sul significato storico-culturale di Arnold Gehlen, a cura di H. Klages e H. Quaritsch, Duncker & Humblot, Berlin 1994) propone una conferenza inedita sul tema della Poststoria. Contemporaneamente, in Italia viene pubblicato di Gehlen LE ORIGINI DELL’UOMO E LA TARDA CULTURA (trad. it. di E. Tetamo, Il Saggiatore, Milano 1994). ARNOLD GEHLENS Con Plessner e Scheler, Arnold Gehlen è considerato il fondatore e uno dei maggiori esponenti dell’antropologia filosofica contemporanea, una corrente di pensiero che nella filosofia tedesca contemporanea si ricollega non solo ai risultati delle scienze empiriche, ma anche alla tradizione inaugurata da Herder e dal Kant dell’Antropologia prammatica. Allievo del biologo e filosofo vitalista Hans Driesch, Gehlen fu docente di filosofia e sociologia a Lipsia, Königsberg, Vienna, Spira, Aquisgrana. Filosofo, antropologo, sociologo e critico conservatore della cultura e della civiltà contemporanea, Gehlen tentò di connettere la riflessione filosofica con i risultati delle scienze empiriche dell’uomo, in vista della costituzione di una sintesi di materiali provenienti da diversi ambiti e tradizioni di ricerca. L’antropologia di Gehlen si riferisce così ai risultati delle scienze della natura e dell’uomo, ma è guidata da un interesse di fondo di carattere filosofico, in quanto il suo obiettivo resta quello di sviluppare delle categorie specifiche per la conoscenza dell’uomo nelle sue strutture di fondo. L’intento del gruppo di curatori della «Gesamtausgabe» di Gehlen, coordinati da Karl-Siegbert Rehberg, è di rendere accessibili nel loro insieme le diverse componenti teoriche che si intrecciano nel tessuto dell’antropologia gehleniana. Dei dieci volumi, in cui è articolata l’edizione critica, corredati da apparati di note, citazioni e varianti, oltre che da una postfazione dei curatori, ne sono stati pubblicati finora cinque: il primo e il secondo, Philosophische Schriften I-II; il terzo, Der Mensch; il quarto, Philosophische Anthropologie und Handlungslehre; e il settimo, Einblicke. L’interesse e l’utilità di questa iniziativa risalta se si prende in considerazione Der Mensch (L’uomo, trad. it., 1983), un’opera di Gehlen, che nell’antropologia filosofica contemporanea si situa accanto a testi come Die Stellung des Menschen im Kosmos (La posizione dell’uomo nel cosmo, 1927), di Scheler, e Die Stufen des Organischen und der Mensch (I livelli dell’organico e l’uomo, 1928) di Plessner. Dopo la sua prima apparizione nel 1940, l’opera ebbe ben quattordici nuove edizioni, nel corso delle quali non rimase immutata. Oltre ad alcuni mutamenti apportati da Gehlen al testo della terza edizione (1944), fu la quarta a presentare i cambiamenti di maggiore rilievo teorico, attraverso i quali Gehlen cercava di adeguare la propria opera ai risultati della ricerca scientifica contemporanea. Il testo critico presentato nell’edizione delle opere di Gehlen permette ora di seguire i mutamenti della concezione complessiva nello sviluppo della rielaborazione dell’opera. Oltre al testo dell’ultima edizione, vengono presentate, in un secondo tomo, le varianti del testo della prima edizione. Un apparato di note del curatore rende esplicita la letteratura utilizzata, ma non sempre citata esplicitamente, da Gehlen. In Der Mensch Gehlen espone la propria concezione di fondo dell’uomo come essere caratterizzato da una condizione di mancanza (Mangelwesen). Con ciò egli indica quella specificità dell’essere umano rispetto alle altre specie animali che era stata caratterizzata da Scheler come “posizione particolare dell’uomo nel cosmo” e da Plessner come “posizionalità eccentrica”: l’es41 sere umano è, per natura, un essere carente, a cui manca il corredo istintuale che rende possibile la sopravvivenza agli altri animali. Per sopravvivere l’uomo deve compensare le proprie carenze istintuali attraverso l’azione sul piano del lavoro, della cultura e delle sue strumentazioni tecniche. Per sua natura l’essere umano è un essere culturale. Questa posizione di Gehlen è stata ripetutamente accusata di “biologismo”, e questa accusa è stata connessa al suo legame politico con il nazionalsocialismo. Molti interpreti dell’opera di Gehlen negano però oggi che tale legame sia anche di natura ideologica e scientifica. Attraverso le varianti, l’edizione critica di Der Mensch permette comunque di indagare anche questo aspetto dell’opera di Gehlen. Dal punto di vista teorico l’antropologia di Gehlen sembra priva di rapporti con l’ideologia nazionalsocialista: manca, ad esempio, qualsiasi riferimento alle teorie della razza e dell’eredità e qualsiasi colorazione antisemita, così come si cercherebbero invano i concetti di “popolo” e “comunità” tanto cari ai teorici nazionalsocialisti, che guardavano con sospetto all’antropologia filosofica di Gehlen. D’altra parte, se la cultura appare in Gehlen, al di qua di ogni illusione o mistificazione di carattere spiritualistico, come una compensazione di carenze istintuali, questo stesso fatto mette in luce la sua opposizione a qualsiasi concezione “naturalistica” o “rousseauiana” dell’uomo. E’ la quarta edizione del 1950 ad apportare i mutamenti più rilevanti alla concezione complessiva di Der Mensch. In essa, in particolare, viene sottoposto a revisione il punto di partenza, troppo astratto, dell’individuo come essere isolato: prendendo le mosse da questa astrazione, afferma ora Gehlen, non si possono comprendere le forme più elevate della cultura (arte, religione, diritto, scienza, tecnica), che hanno un carattere sociale. E’ in Urmensch und Spätkultur (1956), di cui ora si dispone di una traduzione italiana, che Gehlen assegna alle istituzioni il ruolo di mediare il passaggio tra la dimensione naturale e quella sociale e culturale dell’essere umano, di realizzare la compensazione delle carenze naturali e istintuali dell’uomo. In quest’opera, definita da Romano Madera nella “Prefazione” come «il libro più ambizioso di PROSPETTIVE DI RICERCA Gehlen», si ritrovano i tratti caratteristici degli studi precedenti, ma ad essi si aggiunge la concezione dell’ «importanza straordinaria delle istituzioni per la comprensione che l’uomo ha di sé». Con la propria filosofia delle istituzioni - a cui appartiene una dimensione di indagine sulle origini arcaiche dell’uomo - Gehlen sviluppa anche una critica conservatrice della civiltà moderna, fondata su burocrazia, tecnica, scienza, industria: la decadenza delle istituzioni, che hanno il compito di plasmare e incanalare gli istinti umani e al tempo stesso di compensarne la debolezza, conduce a forme di soggettivismo estetizzante e a una ricaduta nel primitivo. Alcune linee fondamentali di questa critica - che ha trovato espressione, per quanto riguarda il ruolo dell’arte nella società moderna e contemporanea, nel saggio del 1960, Zeit-Bilder (trad. it., Quadri d’epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna, Napoli 1989) - si trovano nella conferenza tenuta a Wuppertal nel 1962, e ora pubblicata con il titolo Post-historie nel volume collettivo Zur geisteswissenschaftlichen Bedeutung Arnold Gehlens, che raccoglie relazioni e discussioni di un seminario di studio presso la Hochschule für Verwaltungswissenschaften di Spira. Interessante è il fatto qui che Gehlen rintracci le origini del concetto di “post-storia” (un termine che evoca le recenti discussioni sul problema della “fine della storia”) nel matematico ed economista francese Antoine Auguste Cournot, che vedeva come tratto caratteristico dell’epoca moderna l’avvento di una società razionalizzata in cui si sarebbero ridotte le differenze nazionali e sarebbero scomparse specificità locali e valori tradizionali (per esempio la solidarietà familiare e l’autorità dei modelli del passato). La civiltà burocratica-tecnica-industriale (post-storica) esige per Gehlen lo sviluppo di una nuova etica che richiede l’adattamento dell’individuo alle strutture di produzione e di distribuzione: un’etica che, secondo le parole di Cournot, «sarà soprattutto destinata a permettere il funzionamento del meccanismo sociale» e che si svilupperà così come una morale di carattere sociale, in antitesi alla vecchia morale individualistica europea. All’indagine di questa costellazione di problemi Gehlen ha dedicato i saggi Tradition und Fortschritt (Tradizione e progresso, 1959), Ueber kulturelle Kristallisation (Sulla cristallizzazione culturale, 1961), Die gesellschaftliche Kristallisation und die Möglichkeiten des Fortschritts (La cristallizzazione sociale e le possibilità del progresso, 1967) e Ende der Geschichte (Fine della storia, 1974), la cui pubblicazione è annunciata nel sesto volume della «Gesamtausgabe», che, con lo studio Die Seele im technischen Zeitalter (L’anima nell’età della tecnica, 1957), presenterà gli scritti di Gehlen di psicologia sociale, sociologia, analisi e critica della cultura. M.M. Nuova traduzione della ‘Critica del Giudizio’ É stata recentemente pubblicata una nuova traduzione italiana, dopo quella del 1906, della CRITICA DEL GIUDIZIO di Kant, a cura e con introduzione di Alberto Bosi (Utet, Torino 1993), che si inserisce in una linea di continuità e uniformità, concettuali e lessicali, con l’ormai classica traduzione della ‘Critica della ragion pura’, a cura di Pietro Chiodi. Mentre la prima e la seconda Critica di Immanuel Kant hanno conosciuto, in Italia, più di una traduzione, non è stato così per la Critica del Giudizio, la cui unica versione era finora quella di Alfredo Gargiulo, risalente al 1906 e rivista, nel 1960, da Valerio Verra. Questa edizione si inserisce in una linea di continuità con quella della Critica della ragion pura, curata da Pietro Chiodi. Tale continuità si realizza anzitutto sul piano lessicale, dove essa è motivata, come dichiara il curatore della nuova traduzione, Alberto Bosi, da considerazioni di uniformità editoriale ma, soprattutto, da adesione convinta a un’interpretazione, quella di Chiodi, che sottolinea l’organicità dell’opera critica di Kant. In questa prospettiva, il carattere sistematico della riflessione critica giustifica pienamente la sua ripartizione nelle tre Critiche, la terza delle quali rappresenta, a pieno titolo, il vertice e il coronamento del sistema. Citando Chiodi, Bosi si dice convinto che la motivazione profonda del criticismo consista non nel passaggio da un fondamento oggettivo a uno soggettivo del sapere, bensì nello spostamento del centro focale della riflessione «dal piano categoriale della realtà incondizionata a quello della possibilità di condizioni variabili d’uso». La questione della finitezza umana, il carattere di “limitatezza” dell’uomo, si collocano, dunque, al centro dell’interpretazione unitaria delle Critiche kantiane, che Bosi espone nell’ampia “Introduzione” a questa traduzione, corredata, peraltro, anche da un’analitica “Nota al testo” e da una “Nota lessicale”. Oltre Chiodi, però, e proprio facendo perno sull’esposizione della terza Critica, Bosi evidenzia la componente “ascensionale” della realtà umana, il carattere trascendente implicito nella finitezza propria dell’uomo. Ciò emerge nell’intento fondamentale della Critica del Giudizio, che insiste nel conciliare la causalità meccanicistica con quella della libertà. La prospettiva teleologica, che rappresenta, come è noto, l’esito di questo tentativo di conciliazione, costituisce appunto l’immanentizzazione della trascendenza; essa si compie attraverso la riaffermazione del carattere necessario, per la comprensione della relazione causale “in quanto tale” fra le parti, della loro comprensione “in quanto parti”, 42 ovvero in quanto elementi di una totalità. Ma la Critica del Giudizio, ricorda Bosi, rappresenta anche una sorta di cerniera fra il Settecento e l’Ottocento. La nozione kantiana di bello rinvia, infatti, alle conclusioni del dibattito settecentesco sul gusto; laddove la teoria del sublime e quella del genio aprono verso le prospettive del Romanticismo. E’ del resto noto come la terza Critica sia stata, nei decenni successivi alla scomparsa di Kant, il più amato dei suoi scritti, fornendo quegli strumenti - come il concetto di gioco, di ingegno, di sublime che altri, con altre finalità, avrebbero in seguito utilizzato. F.C. L’empio Vanini Il volumetto, recentemente pubblicato, di Giulio Cesare Vanini, CONFUTAZIONE DELLE RELIGIONI (a cura di A. Barcellona, trad. dal lat. di A. Vasta, pref. di M. Sgalambro, De Martinis, Catania 1993) costituisce una parte (i capitoli L-LX) dell’opera pubblicata nel 1616, dal titolo: DE ADMIRANDIS NATURAE REGINAE DEAEQUE MORTALIUM ARCANIS . Emergono in queste parti senso e scopo del naturalismo vaniniano, che non è fine a se stesso, bensì alla confutazione delle religioni. Confutazione delle religioni presenta, in traduzione italiana, i dialoghi L-LX dell’opera di Giulio Cesare Vanini De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis, pubblicata a Parigi nel 1616. Vengono in essa esposte le linee fondamentali del naturalismo vaniniano, che si nutre della filosofia della natura cinquecentesca, inquadrata in un orizzonte cosmologico mutuato dal copernicanesimo. Non è da sopravvalutare, a questo proposito, la valenza meccanicista della prospettiva vaniniana. La sua “teoria dell’urto” risulta, infatti, non disgiunta dalla ricerca, di ascendenza neoplatonica e naturalista, della radice delle cose. Quest’ultima può certo essere ricondotta a una considerazione della totalità della natura, alla quale fa gioco la rimozione copernicana della distinzione fra mondo celeste e mondo sublunare; con uguale, o forse maggiore, legittimità, essa può però essere riferita alle teorie che vagheggiavano l’unità animata del cosmo, ponendo la centralità della categoria dell’anima mundi, che pervade ogni cosa e che tiene unita la totalità degli enti, la vita organica e quella - apparentemente - inorganica. D’altro canto, come sostiene Manlio Sgalambro in Vanini e l’empietà, saggio introduttivo preposto ai dialoghi qui tradotti, il naturalismo vaniniano non risulta fine a se stesso, e va bensì rinviato alle posizioni di Vanini in campo religioso. In una ideale storia dell’empietà, a Vanini andrebbe senza dubbio assegnato un ruolo di primo PROSPETTIVE DI RICERCA piano, soprattutto perché la sua posizione chiarisce nettamente la differenza fra l’empietà e l’ateismo. «L’empio crede a Dio, non in Dio», sostiene Sgalambro; il “segreto” di Vanini consiste, “semplicemente”, nel rifiuto di amare Dio, che pure esiste e si identifica con la natura, che è, appunto, chiamata “dea”. A tale divinità l’esistenza umana, pregna di arcani, che devono essere spiegati attraverso la filosofia naturale, risulta vincolata; in Vanini non appare quel pessimismo che in Leopardi nasce dall’indifferenza della natura alle umane sorti, soprattutto perché, sulla scorta dell’affermata unità del cosmo, Vanini sottolinea che di essa l’uomo fa irrimediabilmente parte. Di qui l’assenza, nella concezione di Vanini, di qualunque traccia di titanismo: sulle possibilità dell’uomo di sfuggire al dominio della natura, o anche, soltanto, di levarsi contro di essa, si stende un velo di scetticismo ironico. La negazione dell’esistenza della libertà, nonché le caratteristiche del naturalismo da lui professato, portano Vanini a sottolineare il vincolo che intercorre tra la natura e l’uomo; un vincolo che è una maledizione, e che pertanto è moralmente giusto e doveroso denunciare come tale. In questa coloritura etica consiste l’originalità della concezione di Vanini nei confronti del movimento libertino, di cui pure essa è, per molti versi legittimamente, considerata una delle matrici più rilevanti; nel contempo, si possono qui rintracciare le motivazioni dell’interesse che essa suscitò nel periodo illuminista. Da quest’ultimo, Vanini resta tuttavia separato proprio a causa del proprio scetticismo, che lo porta a nutrire ben poche illusioni, e ancora minore fiducia, nelle potenzialità della ragione umana. Quest’ultima non va esaltata, né denigrata; essa è soltanto da accettare nel suo essere sottoposta alla maestà e alla divinità della natura, per l’ottima ragione in forza della quale non si può far altro che detestare, con la rabbia dell’impotenza, e con l’empietà del credente, la malignità del Dio che così ha voluto se stesso, la Natura. F.C. Ernesto de Martino, filosofo Una recente pubblicazione, SCRITTI MINORI SU RELIGIONE MARXISMO E PSICOANALISI , a (cura di R. Altamura e P. Ferretti, Nuove Edizioni Romane, Roma 1993), raccoglie quattordici scritti di Ernesto de Martino, tutti appartenenti, tranne gli ultimi due, al periodo 1933-1949. Si tratta di scritti poco noti, definiti “minori”, che tuttavia richiamano l’attenzione su un de Martino, solo marginalmente toccato dai percorsi della critica, data la sostanziale indifferenza della cultura italiana verso questo pensatore. Circa l’attualità di Ernesto de Martino, sorprende l’atteggiamento di radicale critica nei confronti del freudismo, che anticipa di oltre trent’anni le odierne dichiarazioni sulla morte di Freud, o il netto rifiuto, segnalato anche nell’ “Introduzione” di R. Altamura, della negazione heideggeriana e marxista della malattia mentale e della conseguente confusione tra sanità e follia. Ma ancor più sorprende quanto ciò che de Martino scrive sulla questione morale sollevata dal crollo del regime fascista sia riferibile all’odierna questione morale; o quanto sia attuale, rispetto al ruolo svolto dai mass media nelle elezioni del 1994, la sua analisi del risultato di quelle del 1948 come evento causato dall’ “ignoranza” della sinistra, ovvero dalla sua mancata elaborazione di un sapere da opporre alla manipolazione dell’immaginario compiuta dalla religione e dall’ “Alta cultura”. Per questi ed altri aspetti di attualità questa raccolta risulta funzionale ad intaccare l’indifferenza verso de Martino, spingendo a riconoscere il contenuto del suo pensiero. Dal punto di vista di questo riconoscimento, il contributo più importante della raccolta è senz’altro la pubblicazione di due scritti, uno del 1933 e l’altro del 1934, che insieme costituiscono l’essenziale della tesi di laurea di de Martino, sostenuta a Napoli nel 1932, ponendo di fronte a un pensatore di fatto sconosciuto. Sono ben note le pagine de Il mondo magico (Torino 1958), nelle quali de Martino indica il fine della propria ricerca nel superamento di quell’ideale di presenza umana denominato “razionalismo occidentale”, la cui massima espressione storica veniva individuata in Kant e nel suo concetto dell’Io. Quello che non era mai stato considerato, e che questa raccolta ora mostra, è il dato davvero essenziale della presenza di questa critica di Kant già nella tesi di laurea. La comparsa esplicita del nome di Kant e il ricorrere di tipiche espressioni kantiane concorrono con l’impostazione stessa del discorso ivi svolto a proporre il dato sorprendente di un diretto riferimento a Kant nel duplice senso dell’assumerlo come modello e, soprattutto, del rifiutarlo, discostandosene. Ciò è evidente nel porre la possibilità della scienza della religione sulla base della determinazione preliminare del dato di tale scienza, o nel fondare il superamento del dubbio scettico circa la possibilità di una tale determinazione sull’equivalenza di dogmatismo ed empirismo. Ma il modello kantiano della ricerca, utilizzato in prima istanza per superare la vanificazione scettica empiristica e dogmatica del dato, è posto, immediatamente dopo, accanto a queste correnti e all’irrazionalismo, nell’intento di disegnare una mappa degli orientamenti, dai quali bisogna astenersi per ottenere una ridefinizione del trascendentale che consenta di far emergere ed individuare il dato della scienza della religione nella “Weltanschauung della magia”. L’individuazione, nella tesi di laurea, di un 43 atteggiamento critico nei confronti di Kant è di importanza determinante per l’interpretazione e l’adeguata valutazione dell’immagine di de Martino, imponendo la revisione dell’approccio interpretativo al suo pensiero. Che le sopra citate pagine de Il mondo magico abbiano, appunto nella tesi del ’32, un precedente situato all’inizio stesso della formulazione del pensiero di de Martino non può non riflettersi sull’interpretazione del ruolo e del significato di queste pagine come essenziale, e cioè come costituente il punto dell’opera in cui questa enuncia il proprio significato, collegandosi al fondamentale e generale progetto di ricerca del suo autore. Si tratta di un progetto il cui significato è doppiamente filosofico. Lo è perché la ricerca, in cui si articola, si configura come confronto con la globalità strutturale e diacronica della cultura filosofica della tradizione; e lo è perché la detta connessione ben mostra come il progetto di ricerca di de Martino sia animato dall’intenzione, di natura prettamente teoretica, non solo di stabilire un rapporto di distanza rispetto alla realizzazione massima della tradizione filosofica, ma anche di cogliere un di più rispetto ad essa. La descritta constatazione dell’iniziale rapporto critico di de Martino con Kant impone inoltre, in modo perentorio, la revisione radicale di tutto quanto è stato fin qui scritto a proposito della sua ascendenza crociana e, in genere, del suo rapporto con Croce. E’ infatti indubbio che l’essersi la sua ricerca costruita sulla base di una critica a ciò che costituisce un punto di riferimento irrinunciabile della filosofia di Croce mal consente di ricostruire lo sviluppo del pensiero di de Martino in base ad un rapporto di ascendenza rispetto a tale filosofia, e mal consente di leggere, poi, la rottura con Croce sulla base di un’influenza marxista e la separazione dal marxismo come conseguenza dl residuato di tale ascendenza. L.A.A. Husserl su Heidegger L’edizione francese delle NOTES SUR HEIDEGGER (Note su Heidegger, Minuit, Parigi 1994) ripropone una questione che è stata oggetto, nella ricerca filosofica contemporanea, di innumerevoli dibattiti e discussioni sul rapporto tra l’ontologia fondamentale di Heidegger e la fenomenologia trascendentale di Husserl. Oltre alla trascrizione di annotazioni inedite, fatte da Husserl a margine di alcuni testi heideggeriani, il volume comprende il resoconto di una conferenza di Husserl del 1931, una lettera di Heidegger a Husserl e le due versioni dell’articolo che due pensatori dovevano redigere insieme per l’ ‘Enciclopedia Britannica’. PROSPETTIVE DI RICERCA Hieronymus Bosh, Cristo portacroce (1515-16, part.) La vicenda del rapporto tra Martin Heidegger e il suo maestro, Edmund Husserl, è divenuta sempre più, nel tempo, terreno di incontro-scontro tra i sostenitori della fenomenologia husserliana e i fautori dell’ontologia heideggeriana, contrassegnando il pensiero contemporaneo. Il volume Notes sur Heidegger raccoglie materiale prezioso sull’ambivalente relazione intellettuale tra i due pensatori: la trascrizione delle annotazioni che Husserl aveva fatto a matita a margine delle sue copie personali di Essere e tempo e Kant e il problema della metafisica di Heidegger; il resoconto di una conferenza tenuta da Husserl nel giugno 1931, dal titolo: “Phénomenologie et anthropologie”, in cui, pur senza nominare esplicitamente Heidegger, Husserl considera “ingenua” la filosofia del Dasein ; una lettera di Heidegger a Husserl dell’ottobre 1927; le due versioni dell’articolo La Fenomenologia, che Husserl e Heidegger dovevano redigere insieme, alla fine del ’27, per l’Enciclopedia Britannica e che è stato il primo aperto motivo di dissenso tra i due. Nel volume, i marginalia dedicati ad Essere e Tempo occupano una trentina di pagine, quelli riservati al testo su Kant, una ventina. La lettura di queste annotazioni non è agevole, per l’ovvia natura frammentaria che presentano e per la mancanza del testo di riferimento, di cui si rimanda all’edizione tedesca. In ogni caso, indubbio resta il loro interesse filosofico e storico di queste note. Husserl afferma qui che i risul- tati dell’ “analitica esistenziale” contenuta in Essere e tempo sono gli stessi di quelli della fenomenologia, ma sprovvisti del rigore che il metodo fenomenologico garantisce: «Quel che vien detto qui - scrive Husserl - è la mia stessa dottrina, semplicemente senza la sua fondazione più profonda», ovvero la teoria dell’intenzionalità. In realtà, per Husserl non si tratta di una omissione trascurabile, ma di una vera e propria deviazione dalla sua filosofia, se non di un suo tradimento. Questo nonostante le intenzioni dichiarate di Heidegger: è nota la dedica a Husserl che apre Essere e Tempo, come pure i vari apprezzamenti sul suo insegnamento, contenuti nell’opera, al punto da far suo il motto husserliano «alle cose stesse». D’altra parte, in una lettera a Jaspers del dicembre 1926, Heidegger afferma di aver scritto l’opera del 1927 contro Husserl. E’ in occasione della redazione a quattro mani dell’articolo sulla fenomenologia per l’Enciclopedia Britannica che i motivi di dissenso si manifestano apertamente: Heidegger ricolloca la fenomenologia nell’ambito della propria ontologia, mostrando che l’indagine della soggettività trascendentale ha senso solo se diretta verso la questione fondamentale e “dimenticata” dalla filosofia, la questione dell’essere. Husserl, contrario a identificare fenomenologia e ontologia, eliminerà il preambolo heideggeriano dalla versione definitiva dell’articolo, che compare nel volume assieme alla stesura originale. A.M. 44 L’estetica di Hegel ... in prospettiva Con il titolo: L’ESTETICA DI HEGEL E LE SUE CONSEGUENZE (Laterza, Roma-Bari 1994), Guido Oldrini ha raccolto quattro lezioni dedicate rispettivamente alla struttura logica dell’estetica hegeliana, ai contraccolpi che essa subì nell’età posthegeliana (soprattutto in Germania), ai suoi influssi nella cultura italiana precrociana e al suo confronto con l’estetica di Lukács. Un esempio significativo di ricezione hegeliana dello ‘Spätidealismus’ è l’opera di Karl Rosenkranz: ESTETICA DEL BRUTTO, di cui è recentemente apparsa una nuova edizione (a cura di S. Barbera, prefaz. di R. Bodei, Aesthetica Edizioni, Palermo 1994). La questione del retaggio della filosofia hegeliana costituisce un nodo rilevante per la storia della filosofia. La sua diffusione capillare, le sue ripercussioni, in una parola le sue “conseguenze”, sono di tale portata da poterne fornire solo esemplificazioni settoriali. Significativo, a questo riguardo, si presenta il saggio di Guido Oldrini, L’estetica di Hegel e le sue conseguenze, che propone una lettura in prospettiva della struttura logica presente nell’Estetica hegeliana. La teoria dell’arte, incentrata sul concetto di bello come “parvenza sensibile dell’idea”, non può PROSPETTIVE DI RICERCA fare a meno di un collegamento di principio con la “verità” della logica: «L’Estetica - osserva Oldrini - appare tanto incardinata nella sua struttura logica, che essa sta o crolla con quella». E’ infatti con la perdita del ruolo guida del metodo dialettico nel campo culturale che si assiste in Germania, dopo la morte di Hegel (1831), a un ripensamento e riformulazione dell’estetica hegeliana. Ciò che viene messo in dubbio è proprio la “struttura logica” a partire da una duplice insorgenza problematica. Quella, già messa in luce da Hegel, che riguarda l’arte nel suo “sviluppo” in direzione di una progressiva dissoluzione del bello, della perfezione della forma a vantaggio dell’ideale del pensiero; e quella che tocca il modo soggettivo, proprio di Hegel, di concepire il rapporto arte-realtà. Stigmatizzando la «sofistica della passione» (il male, la crudeltà, il repugnante) del romanticismo, Hegel pone indirettamente l’accento sulla categoria del “brutto”, destinato a diventare il tema chiave dell’estetica posthegeliana. In questo senso, sostiene Oldrini, è lo stesso modo hegeliano di concepire l’arte a «non essere più all’altezza del presente». Le trasformazioni sociali, intervenute a seguito del capitalismo, non si lasciano di fatto esprimere sotto la forma esclusiva del bello, secondo il modello della bellezza classica. Hegel «non riesce a trascendere il proprio tempo» restando coerente con la “struttura logica” presente nell’Estetica, che lo porta ad esempio a considerare Hoffmann un romantico piuttosto che un precursore del realismo. Traspaiono qui, per Oldrini, «le manchevolezze storicooggettive della filosofia di Hegel». Balza allora in primo piano, nelle estetiche sorte o derivate dalla scuola di Hegel, la disarmonia della vita moderna, che esprime l’insopprimibile disposizione realistica che l’arte porta con sé. Se questo implica un’indubbia trasformazione della sistematica hegeliana, non c’è però una netta presa di distanza dalle “costruzioni” idealistiche. Da Hermann Weisse, Arnold Ruge, Kuno Fischer, Friedrich Vischer, Karl Rosenkranz fino a Moriz Carriere si assiste al comune orientamento di scardinare l’estetica hegeliana dalla sua struttura logica e di riportarla alla concretezza dei fatti con una rivalutazione antihegeliana della bellezza naturale e delle categorie del sublime, del comico e del brutto. Rendere più “mobile” il concetto del bello, non significa però rinnegarne i principi fondamentali. Un esempio significativo a questo riguardo è l’opera di Karl Rosenkranz, Estetica del brutto, di cui Sandro Barbera ci propone una riedizione ampliata e accompagnata dalla prefazione di Remo Bodei. Se l’impianto strutturale dell’opera di Rosenkranz rimanda a Hegel, basta prestare attenzione all’interrogativo iniziale: «Un’estetica del brutto? E perché no?», per capire che la prospettiva è pro- fondamente cambiata. Dall’alto della costellazione categoriale dell’idea e dell’ideale, l’attenzione si è spostata verso il basso, al bello nel fenomeno, con uno spostamento dell’estetica dalla metafisica del bello al brutto. Rosenkranz critica Hegel per non aver sviluppato adeguatamente il concetto di bello, sussumendovi anche quelle determinazioni che contrastano apparentemente con il bello come idea. Il “brutto” non è però inteso semplicemente come prevalenza del sensibile sullo spirituale, ma è considerato un momento dialettico, correlato al bello e immanente al suo concetto. A questo riguardo, Oldrini sostiene tuttavia che nonostante i passi avanti compiuti rispetto a Hegel sul piano dei principi, gli esponenti dello Spätidealismus continuano complessivamente a muoversi nell’orizzonte del suo pensiero. Ne è un esempio lo «sconcerto di fronte al caso Hebbel», di cui Rosenkranz critica la Marie Magdalene come un dramma dai falsi contrasti: «il brutto è irrisolto, mancano nel dramma di un sostrato unitario». Nel panorama della riflessione estetica italiana del secolo scorso, Oldrini considera quella di Antonio Tari al centro del processo generale di dissoluzione dell’Idealismo che interessa l’intera Europa, per il quale il mantenimento delle matrici idealistiche implica un’evidente “correzione” in senso realistico. Ma è soprattutto De Santis che non si appaga della chiusura sistematica entro cui Hegel costringe la teoria della forma, ponendo così all’Estetica un duplice ordine di problemi, riguardanti il tema della cosiddetta “morte dell’arte” e del rapporto dell’idea con la forma artistica. Se in sostanza il contenuto artistico deve essere considerato in unità organica con la forma, ciò che “muore” non è l’arte in sé, ma solo una sua forma particolare. Anche qui, per Oldrini, siamo di fronte a un “superamento” dell’estetica hegeliana che non porta a una “dissoluzione” del suo insegnamento, ma ad una «Aufhebung (superamento) tesa ad un collegamento con l’avvenire». L’esigenza hegeliana di un’interconnessione profonda tra i due momenti, storico e sistematico, è presente nella grande Estetica del 1963 di Lukács: la peculiarità dell’ästhetische Setzung può di fatto venir studiata solo nel quadro delle connessioni che si determinano sul piano ontologico. Da questa premessa Oldrini analizza i rilievi critici mossi a Hegel: la deduzione dell’evoluzione storica dallo sviluppo interno dell’idea; l’indebita cristallizzazione gerarchico-sistematica delle categorie; lo stravolgimento idealistico del sistema delle arti. Con l’esigenza di partire non dall’alto, ma dal basso, cioè da come l’uomo vive la sua vita quotidiana, «cade anzitutto - scrive Oldrini - la possibilità di un trasferimento così diretto, immediato, condizionante delle categorie logiche nel qua- Georg Wilhelm Friedrich Hegel 45 PROSPETTIVE DI RICERCA dro dell’estetica», come lo stesso Lukács rileva a proposito della stessa categoria dell’«inerenza». Nonostante questo, Lukács fa uso di categorie e complessi categoriali hegeliani, che presuppongono una funzione e un senso diversi da quelli originari. Per esempio: quella che in Hegel è la serie “in sé-per sé-in sé e per sé”, diviene in Lukács la serie “in sé-per noiper sé”; mentre per Hegel c’è una corrispondenza reciproca di “in sé” e “per noi”, Lukács parla di un necessario trapasso l’una nell’altra. Per Oldrini, si rintracciano qui delle vere e proprie Aufhebungen nel senso hegeliano del termine - entro l’impalcatura dell’Estetica di Lukács: teorie e categorie hegeliane vi sono insieme negate, conservate e superate, in particolare nella categoria della “particolarità” e dell’opera d’arte come “ente per sé”. Anche in Lukács dunque, nessuno dei principi essenziali dell’estetica hegeliana va perduto o è abbandonato. Tuttavia, mutata la base di appoggio, anche l’insieme ne esce qualitativamente trasformato. M.C. Etica e giustizia in Aristotele Aristotele ha mai inteso parlare di una giustizia assoluta e universale, indipendente dal contesto politico effettuale? E la razionalità pratica in generale è interpretabile sul piano dell’esattezza scientifica? A queste questioni rispondono con un deciso “no” due studi recenti: quello di Gianfrancesco Zanetti, LA NOZIONE DI GIUSTIZIA IN ARISTOTELE (Il Mulino, Bologna 1994), e quello di Georgios Anagnostopoulos, ARISTOTLE ON THE GOALS AND EXACTNESS OF ETHICS (University of California Press, Berkeley 1994). Tema dello studio di Gianfrancesco Zanetti è il presunto giusnaturalismo di Aristotele. Attraverso l’analisi dell’Etica Nicomachea l’autore analizza il concetto di giustizia aristotelica in tutte le sue accezioni. Collocata all’interno delle virtù etiche, la giustizia assume la veste della medietas, di quel giusto mezzo che guida l’individuo nella vita etica. Per di più la giustizia viene associata all’amicizia, intesa come concordia e definita nei suoi caratteri dall’utilità. L’analisi di Zanetti verte principalmente sulla distinzione operata da Aristotele tra giusto naturale e giusto legale. La prima accezione riguarda quel giusto che vale dappertutto e che è indipendente dal giudizio degli uomini. La seconda, invece, indica quel giusto indifferente e che muta a seconda dei luoghi. Questa definizione della giustizia ha influenzato diverse interpretazioni che vedono Aristotele come il “padre” pro tempore del giusnaturalismo. In altre parole il “giusto naturale” corrisponderebbe a quel diritto naturale, teorizzato solo alla fine del ‘600, inteso come quel diritto della ragione che accomuna tutti gli uomini e precede il diritto positivo. Secondo Zanetti, al contrario, l’interpretazione aristotelica della giustizia costituisce “il giusto mezzo” tra quella dei sofisti e quella di Platone. Se, infatti, i primi consideravano la giustizia come dettata dall’arbitrio soggettivo che muta col mutare del luogo, delle tradizioni e dei degli uomini, Platone intendeva la giustizia come qualcosa di trascendente, universale e costante, su cui costruire la città perfetta. Aristotele interviene in questo dibattito, proponendo il concetto di una giustizia “secondo natura” che limiti l’arbitrio soggettivo, e che, nello stesso tempo, si identifichi in qualcosa di concreto e non derivi dal mondo delle idee. Per questo Aristotele precisa più volte che tale giustizia si realizza solo nella polis, intesa nella sua struttura e nelle sue categorie, a prescindere dalle diverse poleis che determinano, invece, il giusto legale. In questo modo Aristotele colloca la propria interpretazione della giustizia all’interno della teoria sulla natura sociale dell’uomo e dell’interpretazione della politica come completamento dell’etica. Per questo la giustizia aristoteica si presenta come quella virtù etica che, per giungere alla sua realizzazione, necessita di una manifestazione politica e sociale: la polis è appunto la manifestazione che “per natura” meglio rappresenta questo ideale. Un tipo di giustizia assoluta, osserva Gadamer commentando la concezione aristotelica, esiste «forse tra gli dei»; tra gli uomini il concetto di giustizia assume la veste della phronesis che, non essendo assoluta, è legata alla natura delle cose e in particolare alla natura della polis. Il carattere pratico è dunque ciò che caratterizza l’etica di Aristotele, e di conseguenza la politica, venendo meno quella dimensione di necessità e universalità che contraddistingue altre discipline. Questa tesi viene riproposta anche Georgios Anagnostopoulos, che in particolare si occupa del rapporto tra etica ed esattezza della conoscenza in Aristotele. Essendo l’etica contraddistinta da scopi pratici, la sua struttura categoriale deve fare a meno, necessariamente, di quell’esattezza e quella precisione che caratterizzano invece le discipline con scopi cognitivi. L’etica si occupa di persone e situazioni specifiche, di casi empirici, di realtà opache, che caratterizzano l’esistenza effettiva degli individui: per questo non può fornire principi morali generali e assoluti. Per dimostrare la sua tesi, Anagnostopoulos si serve di un metodo scientifico che analizza la terminologia usata da Aristotele nelle opere che trattano di etica e di politica, attraverso l’uso dell’elaboratore elettronico, riscontrando in tal modo il numero esatto delle volte in cui una parola è utilizzata nel testo. A.S. 46 Sul rapporto tra Sartre e Merleau-Ponty Nel numero 320 di «MAGAZINE LITTÉRAIRE» (aprile 1994) è apparso lo scambio epistolare che ripercorre le tappe della rottura tra Jean Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty. Si tratta di tre lunghe lettere che documentano come neanche la lunga e intensa amicizia che li legava riuscì a colmare la distanza aperta dalla questione dell’impegno politico dell’intellettuale. Nella presentazione di questi inediti troviamo scritto: «Queste lettere sono innanzitutto la testimonianza di una amicizia. Due esseri vi si liberano con la passione che mentre li unisce li separa. Questo merita rispetto». La logica dei blocchi contrapposti che caratterizzò il periodo della guerra fredda scosse il mondo intellettuale francese. Un caso esemplare è l’interruzione del quasi trentennale rapporto tra Jean-Paul Sartre, autore di Essere e il nulla, propenso a schierarsi col Partito Comunista, e Maurice Merleau-Ponty, filosofo della percezione, che riteneva forzata e limitante la polarizzazione Est-Ovest. I due si erano conosciuti negli anni ’20 all’Ecole Normale Superieure; durante l’occupazione avevano militato insieme nel movimento Socialismo e Libertà. Il comune interesse per la filosofia dell’esistenza e la fenomenologia consolidò la loro amicizia, e alla fine della guerra fondarono insieme la rivista «Les temps modernes».Ma questa comunione di intenti cominciò a incrinarsi quando, negli anni ’50, con la guerra di Corea, Sartre si avvicinò al Partito Comunista, mentre Merleau-Ponty preferì non prendere posizione. Una diversa concezione del rapporto tra filosofia e politica diede così il via a una serie di “sgarbi” e incomprensioni che minarono irreversibilmente la loro relazione: nel ’52 Sartre, senza mettere al corrente l’amico, pubblica su «Les temps modernes» un saggio, in cui sosteneva la necessità di difendere il Partito; successivamente vieta la pubblicazione di un testo politico di Merleau-Ponty senza neppure avvisarlo. Alla minaccia di dimissioni da parte di Merleau-Ponty , Sartres risponde con una lettera, che è la prima delle tre pubblicate da «Magazine Littéraire». Due i punti chiave della missiva: innanzitutto il rimprovero a Maurice per averlo criticato pubblicamente, per quanto in modo subdolo, in una conferenza, definendo un “impegno preoccupato” l’atteggiamento politico di Sartre; in secondo luogo la riconferma del rifiuto di pubblicare il pezzo, in cui Merleau-Ponty esprimeva le sue convinzioni politiche, con la motivazione: «Il filosofo oggi non può assumere un atteggiamento politico», ovvero, dall’ “alto” della filosofia non è ammissibile criticare PROSPETTIVE DI RICERCA chi rimane sul terreno della politica. Merleau-Ponty è accusato di abdicare alle sue responsabilità di «uomo, francese, cittadino e intellettuale», considerando la «filosofia come alibi». Sartre, da parte sua, concede che la propria posizione sia criticabile, ma a condizione che le critiche siano mosse da punti di vista politici e non «in nome dell’epoché fenomenologica». Alla pesante requisitoria di Sartre (attenuata, alla fine, dall’auspicio che il dissenso resti sul piano politico, senza intaccare la loro amicizia), Merleau-Ponty replica con una lunga lettera, a cui allega il resoconto della sua conferenza, al centro della polemica con Sartres. Smentisce di essersi ritirato dalla politica, negli anni ’50, per dedicarsi alla filosofia. Prende poi di mira la presunta opposizione tra la sua filosofia e la politica, proponendo un atteggiamento, più vicino alla politica, a suo giudizio, di quello sartriano dell’«impegno continuo», consistente in un ripetuto «vai e vieni tra l’avvenimento e la linea generale». Questo risulta essere al tempo stesso un atteggiamento autenticamente filosofico, in quanto la distanza istituita tra un fatto e il giudizio che se ne dà «disarma la trappola dell’avvenimento e ne lascia vedere chiaramente il senso». All’intransigenza dell’amico, MerleauPonty replica: «Anche se non sceglie tra comunismo e anticomunismo, la filosofia è un atteggiamento mondano, non un’astensione; non è riservata al filosofo di professione». I problemi politici, continua Merleau-Ponty, «io li considero a un livello dove non c’è necessità di essere comunisti o anticomunisti, nella speranza che queste due posizioni vengano superate dall’evoluzione della politica internazionale». Nella sua seconda lettera, Sartre non desiste tuttavia dal lanciare un nuovo attacco nei confronti di Merleau-Ponty: «Mi sono buttato in un’impresa: a torto o a ragione, in misura delle mie possibilità, vorrei incitare alcuni intellettuali a formare una sinistra alleata al comunismo. Il tuo atteggiamento sfruttato dalla destra agisce necessariamente su questi intellettuali che ti considerano come un freno... Ciò che conta è che tu agisci contro di me». Dopo questa lettera i due non si vedranno se non incidentalmente, alcuni anni dopo. Ma l’episodio, che questo aspro scambio epistolare testimonia, segnò profondamente i due pensatori: Merleau-Ponty vi ritornerà nella “Prefazione” a Segni; Sartre scriverà, alla morte dell’amico, un saggio a lui dedicato, in cui è ancora viva la domanda sull’accaduto. A.M. Jean Paul Sartre, Manifestazione studentesca a Parigi nel 1968 47 NOTIZIARIO In occasione del cinquantenario dalla liberazione di Roma e della formazione del primo governo democratico in Italia, il quotidiano «Repubblica» (14 giugno 1994) ha pubblicato uno scambio di LETTERE NOTIZIARIO TRA ALBERT EINSTEIN E BENEDETTO CROCE sui valori della filo- sofia in rapporto alla libertà e allo stato. La lettera di Einstein è una celebrazione della filosofia sia come mezzo, sia come fine del potere politico. Il sogno platonico di un governo di filosofi aveva infatti trovato nell’Italia di allora la sua attuazione: Croce era entrato a far parte del governo. Questo crea l’occasione della lettera di Einstein, in cui lo scienziato dichiara di considerare l’aristocrazia del sapere, e in particolare i filosofi, definiti nella lettera il “rifugio degli eletti”, come l’unica realtà capace di unire gli uomini al di là delle differenze temporali e di appartenenza. La cultura, in tal senso, appare decisamente superiore alla cosa pubblica, rappresentando per Einstein un veicolo capace di guidare la forza universale del sapere. La risposta di Croce manifesta un forte senso di praticità rispetto al tono intellettualistico che caratterizza la lettera di Einstein. Croce, infatti, rivendica l’eredità di Platone soprattutto in rapporto alla concezione della storia nel suo progredire verso la ragione e, quindi, verso il meglio. Croce, inoltre, non manca di notare come l’importanza della filosofia in politica dipende dalla sua capacità di istituire l’apertura all’azione. Più che Platone, allora, il punto di riferimento è Socrate, che intervenne, a costo della propria esistenza, negli affari politici di Atene. La lettera prosegue poi con la ferma condanna del fascismo, che ha distrutto i valori della pace e della libertà dei popoli. L’invito di Croce si rivolge a tutti gli uomini di governo affinché mantengano le condizioni di pace e impediscano il ripresentarsi di situazioni di stimolo alla guerra. Costituisce un manifesto per la pace e per la libertà anche la lettera che BERTRAND RUSSEL inviò al quotidiano «Indipendent» nel 1967 e pubblicata ora in esclusiva dal settimanale «L’Espresso» (19 dicembre 1993). Riferendosi, di fatto, al contesto della guerra fredda, Russel è consapevole del rischio mortale a cui sono sottoposti tutti i popoli dell’umanità, che vivono sospesi nelle mani delle grandi potenze. L’invito di Russel è rivolto, in primo luogo, agli Stati più potenti, che al di là delle opposizioni politiche e ideologiche, devono imparare che «la pace costituisce per tutti l’interesse supremo»; in secondo luogo, a tutti i semplici cittadini. Secondo Russel, infatti, ogni individuo dovrà mobilitarsi sia per insegnare agli uomini a non odiare coloro che appartengono a popoli diversi, sia per esaltare i successi umani nelle scienze e nelle arti. In definitiva, il messaggio di Russel è un’esaltazione della cooperazione tra gli uomini a scapito della competizione, responsabile del rischio di morte a cui tutti siamo esposti. A.S. A partire dal 1987 nella collana Garnier-Flammarion è iniziata la pubblicazione di un TUTTO PLATONE in più volumi (di norma uno per dialogo). Ad inaugurare la serie hanno provveduto Luc Brisson, con un’eccellente traduzione commentata delle Lettres, e Monique Canto, con un Gorgias (Gorgia), al quale la stessa autrice ha fatto seguire a breve un Ion (Ione), un Euthydème (Eutidemo) e un Ménon (Menone). Dal canto suo Brisson è venuto pubblicando un Phèdre (Fedro) nel 1989 e un Timéé/ Critias (Timeo/Crizia) nel 1992, mentre Monique Dixsaut ci ha dato un suo Phédon (Fedone) nel 1991. Con la pubblicazione del Sophiste (Sofista, a cura di Nestor-Luis Cordero, GFFlammarion, Parigi 1993) e del Théétète (Teeteto, Michel Narcy, GFFlammarion, Parigi 1993) siamo ora giunti al nono e decimo volume. La serie è connotata da un tentativo, sostanzialmente riuscito, di coniugare l’approfondimento e l’aggiornamento con la divulgazione. Ogni volume propone un’ampia introduzione, la traduzione, un vasto apparato di note non troppo tecniche, talora delle appendici dedicate all’approfondimento di alcuni temi, sempre una bibliografia piuttosto selettiva e un prospetto della cronologia, talora dei vasti indici. Del Sophiste curato da Cordero si segnala la tesi secondo cui il «nonessere» è «l’altro». A questo proposito, Cordero segnala un cospicuo non sequitur, salvo poi rimuovere la presa di distanza, come se il non sequitur appena rilevato non compromettesse, a suo avviso, l’attendibilità dell’edificio ulteriore. La reticenza permette a Cordero di individuare l’indifendibilità di un assunto fondamentale nell’economia del dialogo, senza troppo impensierire il lettore (un po’ distratto). Ma si deve considerare che l’assunto qui svolto da Platone viene solitamente presentato in positivo dai commentatori, ed è invece tale da marcare una vera e propria sconfitta del filosofo in quel confronto critico con Parmenide, che costituisce la struttura portante di questo dialogo. L’introduzione di Narcy al Théétète include, tra l’altro, lo svolgimento della tesi secondo cui, contrariamente ad un’opinione assai accreditata, la matematica di Teeteto e Teodoro non è affatto un sapere propedeutico alla dialettica, ma un insieme di “opinioni”, da ricondursi nell’alveo della cultura sofistica, dunque da accogliere con precise riserve. Interessante è anche, in questo dialogo, l’approccio al tema della scrittura. Il fatto che, verso l’inizio del dialogo, il narratore-redattore Euclide riferisca di aver ottenuto da Socrate in persona l’approvazione del suo resoconto scritto (che pretende essere la trascrizione completa di una conversazione effettiva), contrasta con l’aperto discredito che il Fedro getta invece sulla scrittura. Da questo inedito confronto tra Fedro e Teeteto Narcy ricava un pertinente indizio contro l’uso, attualmente diffuso, di erigere la critica alla scrittura a canone interpretativo (scuola di Tubinga e, in Italia, G. Reale e la sua scuola). L.R. Gli studi su ERACLITO hanno conosciuto un’accelerazione addirittura vertiginosa intorno al 1980, quando nell’arco di cinque o sei anni si pubblicarono non meno di venti volumi su Eraclito, senza contare un gran flusso di articoli e di altre opere anche ampie sui presocratici ( si veda: F. De Martino, L. Rossetti, P. P. Rosati, Eraclito. Bibliografia 1970-1984 e complementi 1621-1969, Napoli 1986). Dopo una breve pausa, compaiono tre altre edizioni dei frammenti: in Francia con M. Conche nel 1986; in Canada con Th. M. Robinson nel 1987; in Grecia con E. Roussos nel 1987. Da ultimo l’edizione di un saggio inedito del conte Yorck von Wartenberg, risalente al 1870 circa, Da Eraclito a Sofocle e altri scritti filosofici, a cura di F. Donadio (Napoli 1991). Nell’ambito di questa seconda ondata di pubblicazioni ha un posto di rilievo l’opera del russo S. N. Mouraviev, che nel 1991 ha messo mano alla pubblicazione, in più volumi, di una nuova, promettente edizione commentata delle fonti, incominciando con una stimolante Refectio libri Heracliti:, un tentativo di risalire dai frammenti al flusso continuo del discorso, così come è possibile ricostruirlo, sia pure a titolo congetturale, sulla base di frammenti, parafrasi ed echi d’ogni genere: Héraclite d’Ephèse, ‘Les muses’ ou ‘De la nature’ (Eraclito di Efeso, ‘Le muse’ o ‘Della natura’, a cura di Mouraviev, Myr- 48 mekia, Parigi - Mosca 1991). A quel primo fascicolo, che nel piano generale dell’opera non meno di dieci piccoli tomi si colloca verso la fine della serie, segue ora un fascicolo che si colloca invece in prossimità dell’inizio: Heraclite d’Ephèse, La tradition antique et médiévale, 1. D’Epicharme à Platon et Héraclide le Pontique (Eraclito di Efeso, La tradizione antica e medievale, 1. Da Epicarmo a Platone e Eraclide Pontico, Myrmekia, Parigi - Mosca 1993). In questa sua più recente fatica, Mouraviev ci offre, con tutti i crismi della filologia (e con traduzione francese a fronte), il prospetto delle evidenze sull’attenzione che venne riservata ad Eraclito da parte degli intellettuali a lui più vicini dal punto di vista cronologico: da Epicarmo, Melisso ed Euripide fino a Platone e due contemporanei di quest’ultimo: Eraclide Pontico e il poeta comico rodiese Antifane. A breve dovrebbe seguire la sezione su Aristotele, ed è verosimile che terrà conto, fra l’altro, di alcuni meditati contributi di Cr. Viano usciti nel frattempo (ricordo la sua dissertazione del 1986: Héraclite dans Aristote). L.R. Nel ventennio 1947-1967 MARIO UNTERSTEINER ebbe ad investire energie cospicue su quell’evento culturale che va sotto il nome di “sofistica”, proponendo l’idea che questi intellettuali furono autentici filosofi i cui apporti vanno debitamente approfonditi. Alcuni dei “filosofemi” che Untersteiner ha additato nelle opere dei sofisti sono stati, invero, lasciati cadere, ma altri si sono fatti largo e sono diventati elemento costitutivo della rappresentazione ora corrente della cultura sofistica. Soprattutto si è imposta l’attitudine a prendere questi intellettuali sul serio: una tale attitudine costituisce, anzi, lo specifico della ricerca di questi ultimi decenni, come è il caso degli studi di George B. Kerferd, che nella sua opera più nota, The Sophistic Movement (Cambridge, 1981; tr. it., Bologna 1988), spinge l’intuizione di Untersteiner alle estreme conseguenze, fino a presentare i sofisti come intellettuali presi da problemi teorici e solo molto marginalmente proiettati nell’azione. Il prestigio delle ricerche di Untersteiner risale a un’epoca in cui solo pochissimi specialisti del nostro paese godevano di consolidata notorietà internazionale. Vissuto tra il 1899 e il 1981, Untersteiner fu dapprima per molti anni professore di liceo, poi cattedratico di letteratura greca all’Università di Genova e, in un secondo momento, di Storia della Filosofia Antica all’Università degli Studi di Milano. Pur essendo assai noto anche per i suoi studi sulla tragedia attica e sulla scuola eleatica, il suo nome resta pur sempre legato in modo eminente al riesame del movimento sofistico del V secolo. Nel 1949, Untersteiner pubblicò una prima edizione de I sofisti, opera ben presto tradotta in inglese (Oxford 1954) e mise mano ad una fortunata raccolta delle testi- NOTIZIARIO monianze e dei frammenti relativi a questi pensatori, apparsa tra il 1949 e il 1962. Nel 1967 uscì una seconda edizione de I Sofisti, completamente rifusa: su questa seconda edizione è stata condotta la traduzione francese in due volumi con il titolo: Les Sophistes (trad. fr. di A. Tordesillas, pref. di G. Romeyer Dherbey, Vrin, Parigi 1993). In questa edizione, il traduttore, Alonso Tordesillas, che ha di recente curato anche un altro cospicuo volume: Aristote politique. Etudes sur la Politique D’Aristote (sotto la direzione di P. Aubenque, PUF, Parigi 1993), ci propone una pertinente introduzione, accurati indici e soprattutto una vasta bibliografia, che include sia i dati sull’intera opera di Untersteiner, sia un più vasto panorama della letteratura critica per il periodo posteriore all’uscita della seconda edizione italiana de I Sofisti. Correda il volume, a titolo di sapida prefazione, un colpo d’occhio sull’evento culturale rappresentato appunto dalla sofistica: in dieci pagine prende forma, per merito di Gilbert Romeyer Dherbey, un flash suggestivo e penetrante. L.R. E’ scomparso l’11 febbraio 1994, all’età di 61 anni, il filosofo CHRISTOPHER LASCH. Laureatosi a Harward nel 1954, si era dottorato in storia alla Columbia University e dal 1970 era docente di Storia intellettuale all’Università di Rochester. Uomo di sinistra moderata, ben voluto anche dalla destra americana, si oppose sempre contro ogni forma di estremismo e di protesta rivoluzionaria, contro ogni tipo di società che inneggiasse al comunismo. Come soluzione al male sociale propose il recupero dei valori più sacri della tradizione americana: la famiglia, le comunità locali, le parrocchie, l’autodisciplina, ispirandosi e praticando una morale basata sull’etica della rinuncia e opponendosi ad ogni forma di cultura edonistica epicurea, che considerava antieducativa per eccellenza. Per le sue qualità di intellettuale pacato e rasserenante, il presidente Carter lo volle come consigliere nei suoi discorsi alla nazione. Secondo Lasch, la politica, per risanarsi, doveva partire da una rinascita morale. Il suo motto era utilizzare la coscienza morale quale elemento guida nelle scelte individuali e sociali; il bene di un paese si può costruire solo a partire dai valori di cui ognuno è portatore, in particolare quello della famiglia. D.M. La notte tra il 5 e 6 ottobre 1892, durante un furioso temporale, PAUL VALERY, ospite a Genova, mette in discussione la propria essenza di artista e letterato. Gli spaventosi lampi lo richiamano all’universale rapporto dell’uomo con se stesso, in “lotta” con la natura e l’esistente. Questo momento nodale dell’itinerario poetico di Valery, ha dato il titolo alla mostra: “La nuit de Gênes: l’universo poetico di Paul Valery”, allestita al Palazzo del Banco di Chiavari e della Riviera Ligure di Genova dal 27 maggio al 25 giugno 1994. Nella “notte di Genova” Valery «distrugge le sue grazie». Dimentica, per ventanni, la violenza mediterranea che nutrirà il fulgore solare del Cimetière marin. Per mezzo secolo si dedicherà, ogni mattina all’alba, a ridisegnare nei Cahiers la macchina intellettuale, nell’ipotesi che la mente sia un congegno di cui è possibile tradurre nitidamente le connessioni: un sistema che si identifica nelle sue intelaiature. Nella Méthode de Leonard de Vinci, in Monsieur Teste, nei Dialogues, Valery prosegue la visione delle relazioni geometriche. La mostra è come aperta su uno spazio astratto di oscurità dove sono presenti le rappresentazioni dei miti e dei grandi temi che affiancheranno per tutta la vita l’universo poetico di Valery. Oltre ai numerosi manoscritti: Narcisse parle, Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, Soirée avec Monsieur Teste, La Cimetiére marin, La Jeune Parque, Eupalinos, Mon Faust, e a ad alcune opere dei suoi contemporanei - À Rebours di Huysmans, testi e lettere di Gide, Mallarmé, Breton, Rilke - la mostra presenta opere (dipinti, disegni, incisioni) suggerite dai miti e grandi temi ricorrenti nella poetica di Valery: Narciso di Caravaggio; Les Anges voyageurs di Gustave Moreau; Orphée secourt Eurydice di Eugéne Delacroix; Leda, sanguigna di Leonardo da Vinci; Amor sacro e amor profano di Giudo Reni. L’aspetto più suggestivo dei Cahiers trova rapporti con dipinti di Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, Vassilij Kandinskij, Paul Klee, Francis Picabia e con le incisioni La malinconia di Dürer, Faust di Rembrant. Altri documenti restaurano la stagione eroica della Maison des Amis des Livres, libreria fondata da Adrienne Monnier al numero 7 di rue de l’Odeon, punto di riferimento del mondo letterario e artistico parigino tra le due guerre. Valery ne fu un assiduo frequentatore e vi tenne le letture pubbliche della Jeune Parque, che lo resero famoso. Troviamo esposti importanti documenti dell’attività letteraria della libreria: volumi e autografi di Breton, Claudel, Cocteau, Hemingway, Joyce, Larbaud, Paulam e Perce. La specifica volontà dei curatori della mostra, G. Marcenaro e P. Boragina, è stata quella di considerarla come un saggio letterario cum figuris, le cui parole sono i manoscritti e i dipinti e la sintassi il ritmo che all’andamento si è imposto. Nell’ imponente e preziosa rassegna di documenti, la mostra si presenta come un itinerario mentale, una cartografia del pensiero, un libro dove si entra dentro. M.C. (1883-1914) è stato uno dei maggiori esponenti dello “spirito europeo” primonovecentesco, paragonato da Hermann Hesse a quello che per la Francia è stato Romain Rolland. A Stadler la Staat-und Universitätsbibliothek Carl von Ossietzky di Amburgo ha dedicato una mostra itinerante, “Ernst Stadler und seine Freundeskreise: geistiges Europäertum zu Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts” (Ernst Stadler e la sua cerchia di amici: un carattere spirituale europeo all’inizio del XX secolo, catalogo a cura di N. Schneider, Kellner, Hamburg 1993). La mostra, ospitata dalla Deutsche Bibliothek di Francoforte sul Meno dal 10 febbraio al 9 aprile 1994, continuerà poi a girare per l’Europa (Bruxelles, Oxford, Strasburgo). Stadler, considerato accanto a Rilke e Trakl uno dei maggiori lirici dell’espressionismo tedesco, viene presentato nella sua veste di saggista, critico letterario, traduttore e docente universitario. Degno di nota che, in concomitanza con le beghe nazionaliste della “questione alsaziana”, Stadler si fa promotore a Strasburgo, luogo simbolico dell’unità europea, di un gruppo di giovani Stürmer - tra cui troviamo Hans Harp, René Schikele, Christian Schmitt, Friedrich Lienhard - ispirato all’ideale di un’ “Alsazia dello spirito” da opporre ad ogni forma di provincialismo e di Heimatkunst in nome della sintesi tra cultura francese e tedesca. L’utopia di Stadler non si limita ad una realtà di confine; né è un progetto puramente estetico basato sulla letteratura. Si tratta piuttosto di un modello primitivo di Europa, dell’idea di un’Europa unita progressivamente allargantesi a partire dall’unità tedesco-francese. Del resto Stadler ha indicato il cammino con la sua stessa biografia: i suoi studi e le sue conferenze all’università di Oxford; la docenza all’Università di Bruxelles a partire dal 1910. Con lo scoppio della guerra, vissuto come un trauma, il tenente di artiglieria Stadler comincia subito a riportare nel suo diario «l’orrore e la tragedia di questa guerra». Durante gli spostamenti della truppa, Stadler registra le sue sensazioni, descrive lo smarrimento suo e dei suoi compagni. Il 30 ottobre, durante la battaglia di Ypern, nei pressi di Zandvoorde, il suo corpo viene squarciato da una granata inglese. Come per un fatale presentimento, ai primi di ottobre del ’14, il poeta scriveva: «mi immagino e desidero per la mia vita un compito diverso da quello di farmi fare a pezzi da una granata». Il messaggio che ci ha lasciato Stadler, ricorda Adrien Fink nella sua introduzione al catalogo, è: «L’Europa non vive di solo pane. L’Europe a besoin des poètes». N.B. Presso la Facoltà di Filosofia dell’Ateneo Romano della Santa Croce, oltre ad una collana di manuali, «Filosofia e Realtà», pubblicata dalla casa editrice Le Monnier di Firenze (con il patrocinio della Fondazione Rui) e alla rivista semestrale «Acta Philosophica», nel 1992 ha preso il Tra le figure che, in questo secolo, maggiormente hanno contribuito al superamento delle barriere culturali, il poeta, traduttore e studioso di letteratura alsaziano ERNST STADLER 49 via una collana di monografie filosofiche dal titolo STUDI DI FILOSOFIA, pubblicata da Armando Editore. Nella collana sono già stati pubblicati quattro volumi: J. José Sanguineti, Scienza aristotelica e scienza moderna (1992); Francesco Russo, Esistenza e libertà. Il pensiero di Luigi Pareyson (1993); Gabriel Chalmeta (a cura di), Crisi di senso e pensiero metafisico (1993); Martin Rhonheimer, La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica (1994). I prossimi volumi, che usciranno tra la fine del 1994 e gli inizi del 1995, saranno: Antonio Malo, Certezza e volontà. Saggio sull’etica cartesiana; Rafael Martinez (a cura di), Unità e autonomia del sapere. Il dibattito del XIII secolo; Rafael Martinez (a cura di), La verità scientifica. La scienza difronte all’intelligibilità del reale. Nata a metà degli anni ’40 per volontà di alcuni studiosi dell’Università Cattolica, tra i quali Paolo Rotta, docente di storia della filosofia, e Mario Casotti, docente di Pedagogia, e da Vittorio Chizzolini, “anima” dell’Editrice La Scuola, la collana IL PENSIERO intese da subito offrire agli studenti dei licei e dei corsi universitari testi di filosofia e di pedagogia con autorevoli traduzioni, introduzioni e commenti curati da studiosi di fama (basti citare Bontadini, gli stessi Rotta e Casotti, Vanni Rovighi, Antiseri, Reale, Fabro, Severino, Mancini e tanti altri). La collana, ora completamente rinnovata e con una nuova veste grafica, si articola in diverse sezioni: pensiero filosofico, pedagogico, politico, religioso. Ecco alcuni dei titoli pubblicati: J. Jacques Rousseau, Emilio o dell’educazione (a cura di G. Roggerone, 1993); Anselmo d’Aosta, Prosiogion (a cura di G. Zuanazzi 1993); Immanuel Kant, Critica della ragion pura (estratti a cura di G. Bontadini 1994); Aristotele, Il motore immobile (a cura di G. Reale 1994); Schlick, Sul fondamento della conoscenza (a cura di E. Severino 1994). La casa editrice Routledge ha in programma la pubblicazione della ROUTLEDGE ENCYCLOPEDIA OF PHILOSOPHY , in dieci volumi, a cura di Edward Craig (Churchill College di Cambridge) e con il supporto di 30 specialisti del settore, tra i più eminenti filosofi del mondo. L’opera verrà pubblicata sia a stampa, che in versione elettronica, probabilmente entro il 1998. Trattando della filosofia di tutti i cinque continenti, della filosofia femminista e dei più recenti sviluppi nel campo della filosofia della mente, linguaggio e etica, quest’opera intende porsi come un aggiornamento, esteso fino alla fine del millennio, dell’Encyclopedia Philosophy di Paul Edward. Alcuni degli autori che hanno partecipato al progetto sono: R. Rorty, B. Williams, M. Nussbaum, J. Brunsching, C. Gillian, A. Walicki e M. Burnyeat. CONVEGNI E SEMINARI Simone Weil 50 CONVEGNI E SEMINARI CONVEGNI E SEMINARI Le passioni di Simone Weil Si è svolto a Torino, nei giorni 27 e 28 gennaio 1994, in occasione della messa in scena - con la regia di Luca Ronconi - di ‘Venezia salva’, di Simone Weil, il convegno: “LE PASSIONI DI SIMONE WEIL. POLITICA, CULTURA, RELIGIONE”, organizzato dal Centro studi del Teatro Stabile di Torino, dall’Assessorato per le Risorse Culturali e la Comunicazione della Città di Torino e dal dipartimento di Ermeneutica Filosofica dell’Università di Torino, in collaborazione con il Centre Culturel Francais di Torino e la Association pour l’Etude de la pensée de Simone Weil di Parigi. Come ha precisato Ugo Perone, aprendo i lavori del convegno, per Simone Weil i riferimenti del significato di passione potrebbero essere l’ “orso bianco”, immagine mutuata da Gustave Flaubert, e l’attenzione, nella misura in cui si patisce quella che potrebbe diventare la tentazione della dismissione dal reale - l’orso bianco appunto - e la si addomestica, la si corregge, la si maschera con l’attenzione, la quale si fissa su una cosa che sparisce, per far emergere l’essenziale. Dunque, innanzitutto, la passione della verità, il cui bisogno, come ha notato Andrè Devaux, è alla base dell’unità di vita e pensiero in Simone Weil. Una verità la cui passione fa sì che la vocazione di Weil sia essenzialmente filosofica, secondo due fondamentali vie d’accesso: quella dei grandi sistemi filosofici, come quello di Aristotele o di Hegel; e quella della interrogazione della realtà, secondo la lezione di Socrate o di Platone, ma anche di Descartes, di Kant e di Husserl, i soli che Simone annoveri tra i grandi pensatori. Ma poiché l’unico “metodo” filosofico consiste, per Weil, nel lasciarsi investire dalla verità, nella misura in cui la verità di Dio è la sua bontà - il suo essere il bene -, bisogno di verità e desiderio di Dio sono un’unica e medesima passione. Come già avvenne nel V secolo con Ipazia e il suo tentativo di superare la frattura tra cristianesimo e paganesimo, anche in Simone Weil, ha osservato Giancarlo Gaeta, il superamento della frattura tra Cristianesimo e vita sociale implica lo scontro tra due concezioni opposte della politica: quella, comune a Ipazia e Weil, che intende la verità e l’unità del sapere come trascendente la politica, e anche ogni adesione a un credo religioso; e quella opposta, che fonda la politica sul potere. La prima ritiene di dover tenere distinta la ricerca della verità dall’adesione a un credo politico, perché la ricerca della verità deve essere libera. Errore storico fondamentale, denuncia la Weil, è stato quello di separare la verità originaria tra sapere scientifico e religioso. Gli effetti di ciò furono devastanti per tutta la modernità, che si ispirò per questo all’identità ragione-forza, i cui esiti furono gli errori del marxismo, del nazismo e del liberismo economico. Di qui la critica di Weil a Marx e all’hitlerismo, ai sindacati e ai partiti, di cui fanno fede vari scritti, come le Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, lo scritto sulla civiltà occitanica, L’enracinement, o la nota sulla soppressione dei partiti politici negli Ecrits de Londres. Nel suo intervento, Pier Cesare Bori ha mostrato come l’universalismo proprio della Weil non consista nel perseguire una sintesi delle diverse religioni, ma nel prestare attenzione alla propria come se fosse la sola. A questo proposito, Bori ha proposto un confronto con il Wittgenstein delle Note sul ‘Ramo d’oro’ di Frazer, laddove sia Agostino, sia il santo buddista, sono accusati di essere in errore quando annunciano una teoria, o confessano religioni, che esprimono concezioni affatto diverse tra loro. In tal senso sarebbe impensabile, per Weil, una conversione intesa come cambiamento di religione; autentica conversione sarebbe invece quella che si orienta alla totalità della creazione e perciò all’universalismo. Così dunque non una sintesi, ma una apertura dal di dentro alla universalità da parte di ogni religione, a fortiori da parte del cristianesimo, agli occhi della Weil universale solamente de jure, ma non anche de facto. Il cristianesimo di Weil è un cristianesimo critico, segnato dalla necessità di elaborare una concezione della verità nella quale l’opposizione non sia tanto tra punti di vista differenti, ma tra verità ed errore. La relazione di Guglielmo Forni si è soffermata soprattutto sui rapporti tra filosofia e mistica, tra ebraismo e cristianesimo, a partire dalla centralità cristologica dell’opera di 51 Weil e dall’elaborazione filosofica di temi cristologici come quello della compassione, di matrice roussoiana, in quanto identificazione con la vita e con la sua sventura. Se la verità è Dio e Dio si è manifestato soprattutto nella passione di Cristo, partecipare alla sventura dell’umanità è partecipare alla verità, ossia partecipare a Dio. «Pensare insieme nella verità la sventura degli uomini, la perfezione di Dio e il rapporto fra le due», come scrive a Schumann (Ecrits de Londres et dernieres lettres, 1957), può a ragione essere considerato il senso di tutto l’itinerario di pensiero di Weil, opposto perciò al dolorismo cristologico, di cui parla Tilliette a proposito dello scritto di Weil Filosofi davanti a Cristo, e vicino piuttosto alle grandi metafisiche cristologiche di Blondel o di Teilhard de Chardin. Si può dire che quella di Weil sia una filosofia ispirata dalla fede, volta ad articolare in radice il rapporto tra credere e pensare: ci troviamo qui di fronte al tentativo di elaborare una razionalità soprannaturale, un progetto di rielaborazione del sapere a partire dalla singolarità e dalla universalità dell’evento cristologico. Il convegno si è concluso con una tavola rotonda, di cui segnaliamo, in particolare, l’intervento di Adriano Marchetti, centrato sul rapporto tra verità e poesia, uno di quegli ambiti in cui è possibile rintracciare un diverso tipo di razionalità, relativamente a una riconsiderazione del problema della verità a partire da una domanda che non sia semplicemente quella della ontoteologia o quella debole di un pensiero inevitabilmente postmetafisico. Proprio la poesia è uno dei luoghi in cui una correzione estetica al predominio della razionalità moderna consente di elaborare una forma di concettualità simbolica, potremmo dire, a partire dalla riconsiderazione dei grandi temi di Weil e della sua stessa scrittura: il bello, il vero, la lettura, il desiderio senza oggetto, l’azione non-agente, la bellezza e il malheur come metaxy. Ma questo rimane da fare. La poesia è infine verità in atto e proprio questo ci riporta al problema di Weil, che non è semplicemente quello di elaborare una teoria del sapere o di giustificare una prassi determinata, ma di collocarsi in quell’ambito teorico, e pratico insieme, irriducibile a ogni forma di riflessione che ne indaghi la verità e accessibile solo nell’atto della libertà. G.T. CONVEGNI E SEMINARI Sull’immaginazione in Kant Dal 17 al 21 gennaio, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, Maurizio Ferraris ha tenuto un seminario dal titolo: “CONGETTURE SULL’IMMAGINAZIONE TRASCENDENTALE IN KANT”, con la partecipazione di Vincenzo Vitiello, che ha coordinato l’incontro. Ponendo l’immaginazione in una posizione mediale tra finito e infinito, tra sensibilità e intelletto, Maurizio Ferraris ha articolato il suo seminario in tre momenti fondamentali: in primo luogo, quelli che si potrebbero definire i “prolegomeni teorici” al discorso sull’immaginazione trascendentale di Kant; in secondo luogo, i rapporti del discorso kantiano con Cartesio ed i cartesiani, da un lato, dall’altro con l’empirismo e la tradizione leibniz-wolfiana; in terzo luogo, il ruolo dell’immaginazione nell’opera kantiana e, in particolare, nell’Antropologia Pragmatica, nella Critica della Ragion pratica ed infine nella Critica della Ragion pura. Per quanto riguarda il nesso tra immaginazione e idealizzazione, Ferraris lo individua già nelle opere platoniche e aristoteliche. La vita sensibile non sarebbe che una “traccia” della vita ultrasensibile e nella tradizione ricorre l’attribuzione all’immaginazione di un ruolo mediativo: in Aristotele l’immaginazione predispone i sensi a passare all’idea; Wolf, nella Psicologia empirica, e Kant, nel 24 della Critica della Ragion pura, attribuiscono all’immaginazione la possibilità di intuire anche senza la presenza dell’oggetto. Il problema fondamentale, ha osservato Ferraris, consiste nel domandarsi come l’immaginazione, che è la ripetizione di una sensazione, la quale è a sua volta più passiva della passività, diventi attiva nell’esercizio della sua facoltà, che è quella di rendere presente anche ciò che è assente. Per superare la dimensione spazio-temporale dell’intuizione della cosa, è necessario che la cosa venga idealizzata attraverso l’immaginazione. Intuizione e immaginazione rappresentano entrambe la misura della presenza di un oggetto: la prima nello spazio e nel tempo; la seconda nell’intelletto, in quanto traccia. Si realizza, quindi, un passaggio dall’attività alla passività, nel momento in cui l’oggetto si rivela nella sua presenza, e dalla passività di nuovo all’attività, nel momento in cui quello stesso oggetto mostra la sua presenza non più in una dimensione spazio-temporale ma, piuttosto, in una intellettuale. Come veicolo di scambio tra sensibilità e intelletto, ha rilevato Ferraris, non si può non attribuire all’immaginazione una funzione prioritaria rispetto alle altre facoltà. Nel De anima di Aristotele tutte le attività che comportano una qualche funzione superiore si svolgono attraverso l’immagine. Cartesio ristabilisce il primato dell’intelletto e della volontà sull’immaginazione: l’attività del pensiero è, in quanto tale, senza immagini. Nonostante nella scuola wolfiana venga affermata una forte continuità tra sensibilità e intelletto, solo in Leibniz è possibile individuare il diretto antefatto di Kant, che pone da un lato l’intelletto come attività, dall’altro la sensibilità come passività e, tra le due sfere, l’immaginazione con il suo ruolo mediativo. La grande novità della trattazione kantiana dell’immaginazione, ha fatto notare Ferraris, consiste nell’aver sviluppato, nella Critica della Ragion pura, il nesso tra immaginazione e temporalità, nesso che era stato soltanto accennato nell’Antropologia pragmatica. La temporalità, ha sottolineato Ferraris, risulta costitutiva dell’immaginazione sia nella prima che nella seconda edizione della Critica della Ragion pura. L’immaginazione, come possibilità di trattenere, di memorizzare le esperienze sotto forma di schemi, è dominante in tutte e due le edizioni; gli schemi risultano essere nient’altro che determinazioni a priori del tempo e la temporalità alla quale l’immaginazione si riferisce è, dunque, una temporalità originaria. G.M. Il mito di Edipo Presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, dal 31 gennaio al 4 febbraio 1994 Guido Paduano ha tenuto un seminario su: “IL MITO DI EDIPO. FILOSOFIA, PSICOANALISI, DRAMMATURGIA”, con l’intento di mostrare quale rapporto possa intercorrere tra antropologia psicanalitica e drammaturgia alla luce dei due temi fondamentali che la tragedia di Edipo e la psicoanalisi hanno in comune: il parricidio e l’incesto. Guido Paduano ha esordito facendo notare come Freud si richiami esplicitamente, e più di una volta, a personaggi tragici come Edipo e Amleto per esemplificare concezioni fondamentali della psicoanalisi. Presupposto di un tale riferimento è che tutte le osservazioni psicologiche, che si possono evincere dalle vicende di questi personaggi, vanno predicate degli spettatori, non dei personaggi stessi. Nel caso di Edipo, l’uccisione di Laio, per sposare Giocasta, ignorando che si tratta dei suoi stessi genitori, soddisfa, nella sua dimensione fantastica, il desiderio inconscio di tutti gli spettatori che assistono alla tragedia. Analogamente l’oracolo, che svela a Edipo il suo tremendo destino, rappresenta per Freud la coscienza dell’eroe che covava, inconsciamente, il desiderio del parricidio e dell’incesto. Quest’ultima interpretazione, ha osservato Paduano, risulta tuttavia infondata in quanto presuppone una collusione tra umano e divino, che nella cultura greca del sec. V erano invece nettamente separati. D’altra parte, anche la tesi di James Hillman, secondo cui la tragedia di Edipo si svolgerebbe in un clima di generale violenza, che va a ricadere sull’eroe-capro espia52 torio, risulta, secondo Paduano, insostenibile; come pure l’interpretazione per cui Edipo e Laio sarebbero colpevoli di aver preso alla lettera il vaticinio solo simbolico dell’oracolo, esponendo le loro vite all’infanticidio, al parricidio, all’incesto. Al contrario, ha osservato Paduano, in quanto espressione della ragione umana, Edipo ha il compito di tradurre in simboli le grezze espressioni letterali dell’oracolo, che rappresenta il principio di realtà. Appurata l’insostenibilità dell’analisi di Freud, come pure di Hillman, non resta, ha osservato Paduano, che considerare parricidio e incesto, dal punto di vista repressivo, non più come trasgressioni, ma come punizioni; essi puniscono, reprimono una libido perfettamente adulta, conscia, affermativa dei codici morale, sociale, religioso. La repressione è qui rappresentata dell’irreversibilità del tempo lineare: l’essere re, giudice e detentore della ragione è ormai assolutamente impossibile per Edipo; il suo ostinato voler essere razionale è un’illusione tragica e patetica. Sofocle realizza così, ha fatto notare Paduano, la categoria dell’ironia tragica, ovvero la germinazione di due significati opposti, rispondenti a campi informazionali diversi per ampiezza, inerenti però a un unico significante. L’ironia tragica si può anche definire qui come un rapporto di potere tra chi sa e chi ignora: il potere risiede dunque nella conoscenza, per cui ogni parola pronunciata da Edipo come detentore di potere, lo rivela al pubblico in realtà come schiavo della sua ignoranza. Nella “tradizione edipica”, che annovera frequenti rifacimenti dell’Edipo re si può riscontrare, secondo Paduano, un crescente avvicinamento del protagonista a quelle che saranno connotazioni propriamente psicoanalitiche: l’oracolo come coscienza, ipotesi insostenibile in Sofocle, è culturalmente attendibile alle origini del Cristianesimo, con gli sviluppi dell’interiorità e dei rapporti con la divinità; pur non potendo ancora parlare di desideri inconsci, compare già il senso di colpa. L’Edipo di Corneille (1658) comincia ad avvertire confusamente di star commettendo parricidio e incesto. Ultima soglia della classicità, prima dell’avvento della psicoanalisi, l’Oedipe di Voltaire (1719) tende a contenere il tema dell’incesto, rafforzando invece quello del parricidio. Il primo testo della tradizione edipica postfreudiano, e già ultra-freudiano, è Edipo e la Sfinge di Hofmannsthal, del 1906, con l’identificazione tra sogno e desiderio, svelata dall’oracolo. La componente libidinale è finalmente esplosa, e sulla sua traccia si muoveranno i successivi rifacimenti: André Gide, Oedipe (1930), Jean Cocteau, La machine infernale (1934), Tawfiq al-Hakim (che rilegge le tematiche della libertà e del destino in chiave islamica). Ma l’episodio più stravagante in tal senso, ha rilevato Paduano, è costituito dal romanzo: Les gommes (1953), di Alan Robbe-Grillet, che rompendo con ogni tradizione, in particolare con quella umanista, abolisce CONVEGNI E SEMINARI ogni differenza tra realtà e immaginazione. Infine Paduano ha richiamato, della sterminata tradizione edipica, il film: Edipo re (1967), di Pier Paolo Pasolini che, in linea con la “rivoluzione freudiana”, arriva a sostenere il parricidio come legittima difesa contro l’autoritarismo paterno e l’incesto come quintessenza dell’amore. Nella rappresentazione teatrale: Edipo, ambigui presagi disadorni e senza profumo (1990), di Renzo Rosso, Freud è ormai completamente assorbito, se non superato: Edipo si riconosce “colpevole” di aver desiderato di uccidere il padre e amare la madre: colpevole quindi di desideri non seguiti da fatti, e di fatti non preceduti da desideri, Edipo si dichiara finalmente innocente e dunque finge soltanto di accecarsi, per una forma di rispetto alle convenzioni. M.G. Hjelmslev oggi Dal 12 al 14 ottobre 1993, presso il Centro Internazionale di Studi Semiotici e Cognitivi dell’Università di San Marino, si è svolto il convegno “HJELMSLEV OGGI”, un’occasione per celebrare il linguista danese a cinquant’anni dall’uscita della sua opera fondamentale, ‘Fondamenti della teoria del linguaggio’. Specialisti hjelmsleviani, provenienti da università italiane, francesi e danesi, hanno proposto analisi critiche dei vari aspetti della teoria di Hjelmslev e della teoria glossematica in generale, offrendo spunti per ulteriori discussioni. Il successo del convegno è stato in gran parte dovuto alla partecipazione di personaggi che hanno fatto la storia della linguistica e che nel contesto del convegno hanno rappresentato una sorta di memoria storica di valore inestimabile: ci riferiamo in particolare ad André Martinet e a Eli Fischer JØrgensen, che ha concluso il convegno ricordano la figura di Louis Hjelmslev con la passione di chi certe storie le ha vissute in prima persona. Dopo una breve introduzione di Alessandro Zinna, promotore del convegno, si sono succeduti gli interventi di André Martinet e di Claude Zilberberg. La rilettura di Hjelmslev proposta da Martinet è stata caratterizzata da motivi già presenti nel suo celebre Au sujet des fondements de la théorie linguistique de Louis Hjelmslev: il rapporto tra glossematica e sostanzialismo; il problema dell’analisi degli elementi di sostanza in quanto unità significative; la questione della riduzione dei tratti del piano del contenuto. Zilberberg si è invece soffermato sul problema delle continuità storiche - talvolta incerte - tra De Saussurre e Hjelmslev e tra Hjelmslev e Greimas, sottolineando, ad esempio, le difficoltà che si incontrano nel voler ricondurre il formalismo hjelmsleviano a quello saussuriano. L’intervento di Giorgio Graffi ha inteso invece ricostruire storicamente il rapporto tra Hjelmslev e i linguisti italiani, individuando quattro fasi, che vanno dall’ “estraneità” alla “simpatia”; mentre Michael Rasmussen si è soffermato sul rapporto tra Hjelmslev e il razionalismo. Il problema della riduzione delle categorie ad un numero limitato è stato oggetto dell’intervento di Massimo Prampolini, che ha affrontato la tematica a partire da una rilettura del breve, ma ricco di risorse, saggio di Hjelmslev: Per una semantica strutturale. Herman Parret ha invece proposto una rilettura storica della teoria hjelmsleviana dei casi, rilevando anche come l’ipotesi localista sia stata ampiamente sfruttata dalle grammatiche cognitive attuali. Una serie di ipotesi interessanti sulle basi formali ed ermeneutiche della semiotica è stata avanzata da François Rastier, che ha sottolineato quattro livelli della descrizione linguistica: il piano sintagmatico, il piano paradigmatico, il piano ermeneutico, il piano referenziale, proponendo inoltre la necessità di una teoria del contesto. Riutilizzando e rivedendo criticamente alcuni concetti della teoria glossematica, Per Aage Brandt ha invece presentato alcune osservazioni sui meccanismi della lingua. Infine Romeo Galassi ha indagato i rapporti tra la glossematica e l’analisi dei testi letterari e Eli Fischer Jørgensen ha presentato un resoconto molto personale sulla figura di Hjelmslev in rapporto al Circolo linguistico di Copenaghen. Nella discussione finale sulle carenze della teoria glossematica, dei suoi successi e dei suoi utilizzi nelle teorie semiotiche attuali, ha prevalso l’idea comune dell’enorme rilevanza dell’opera di Hjelmslev per la storia degli studi di linguistica. S.T. Biologia e cultura Con il titolo: “L’UOMO BIOLOGICO NEL MONDO PROGETTUALE”, Andrew Packard ha tenuto, dal 24 al 27 gennaio 1994, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, un seminario, il cui scopo è stato quello di esplorare lo spazio intermedio esistente tra cultura e patrimonio genetico, in particolare riguardo ad alcune risposte etofisiologiche dell’organismo umano alle stimolazioni imposte dalle grandi costruzioni della vita moderna. L’uomo di oggi, geneticamente, non è molto diverso dai nostri antenati del paleolitico: il patrimonio biologico umano, che consente all’individuo di crescere, adattarsi e realizzarsi nel mondo progettuale, è infatti rimasto più o meno lo stesso; egli si trova però in un ambiente culturale enormemente cambiato. E’ probabile allora, ha notato Andrew Packard, che le disfunzioni pato53 logiche del comportamento abbiano origine da tale situazione ambientale completamente stravolta rispetto alla programmazione genetica del comportamento. Un esempio in tal senso, rilevato a suo tempo dell’etologo Konrad Lorenz, è quello riguardante la ricerca dello zucchero come alimento che costituisce una ricca fonte di energia per l’organismo. Oggi, che tutta la nostra vita è assediata da quelli che gli etologi hanno chiamato stimoli “super-normali”, l’accentuata predilezione per questo alimento provoca in milioni di uomini l’obesità. Dobbiamo dunque chiederci, ha osservato Packard, se siamo veramente individui in pieno possesso delle nostre facoltà di libera scelta e di volontà o siamo mossi soltanto dalla superstimolazione che agisce sui nostri istinti. Se siamo portati tuttavia a fare certe cose invece di altre, non va sottovalutata, secondo Packard, l’importanza dell’ambiente e della cultura umana che intervengono pesantemente a modificare le nostre predisposizioni genetiche. Ad esempio, la nostra capacità di produrre strumenti che uccidono a lunga distanza vanifica totalmente quei meccanismi innati di difesa, di cui siamo forniti. Non vi sarebbe mai stata la guerra se il progresso continuo delle armi non avesse reso l’atto di uccidere talmente rapido e facile da permettere agli uomini di vincere la resistenza opposta dai loro sentimenti più umanitari. L’importanza dell’ambiente e della cultura è attestata, secondo Packard, anche dal caso dei bambini selvaggi, cresciuti fuori da ogni contatto con i membri della loro specie, che non hanno quasi niente di umano nel loro comportamento, incapaci come sono di qualsiasi forma di comunicazione. «V’è un modo drammatico - scrive l’etologo Danilo Mainardi ne L’animale culturale - per capire cos’è l’uomo: togliere all’uomo la sua cultura». Come nella specie umana i bambini costruiscono se stessi per buona parte attraverso l’apprendimento e l’imitazione sociale di modelli degli appartenenti al loro gruppo, così si è venuto a sapere che bambini-gazzella, bambinilupo o bambini-scimmia, avevano forgiato il loro comportamento in relazione alla specie modello. In tutti si manifestava, dopo la cattura, un totale rifiuto, o forse l’impossibilità, di un reinserimento tollerabile nell’ambiente sociale umano. Dunque, ha concluso Packard, nessun comportamento è programmato completamente dai geni senza alcuna influenza ambientale; né è dimostrabile l’estraneità dell’esperienza o di qualche forma di apprendimento alla formazione del carattere di un individuo; anzi l’ambiente costituisce uno dei fattori evolutivi più importanti. Non va dimenticato, tuttavia, che la stessa cultura e le influenze sociali sono rese impossibili dalla specifica costituzione bioevolutiva dell’uomo; la cultura umana, insomma, non è qualcosa che ha un’origine del tutto alternativa rispetto alle predisposizioni naturali, ma una risposta adattativa sviluppata dall’uomo nel corso della sua evoluzione. L.M. CONVEGNI E SEMINARI Odilon Redon, dall’album Hommage a Goya (1885) Blumenberg: mito, metafora, modernità La Fondazione Collegio San Carlo di Modena ha organizzato nel periodo gennaio-marzo 1994 un seminario di studio su “HANS BLUMENBERG: MITO, METAFORA, MODERNITÀ”, che ha visto interventi di Vincenzo Vitiello, Barnaba Maj, Michele Cometa e Bruno Accarino. A conclusione del seminario si è svolta il 16 maggio 1994 una giornata di studio con Remo Bodei, Gianni Carchia, Francesca Rigotti. Il seminario si è aperto con la lezione di Vincenzo Vitiello dal titolo: “Per una definizione topologica del moderno: Blumenberg, l’ermeneutica e il superamento della storia”, che ha preso le mosse dalla critica di Hans Blumenberg al concetto di seco- larizzazione. Se, da una parte, Hanna Arendt contesta l’idea che il moderno si configuri come una presa del mondo da parte dell’uomo, e dall’altra Karl Löwith afferma che la nascita della coscienza storica dell’età moderna dipende dalla secolarizzazione dell’escatologia cristiana, Blumenberg si schiera contro ogni visione continuista della secolarizzazione e, nel contempo, contro la Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) dell’ermeneutica, osservando che «l’illegittimità del risultato della secolarizzazione è che essa non può secolarizzare il processo da cui è sorta». Al posto di una visione del presente come effetto di un processo storico, Blumenberg privilegia l’attualismo di un presente che autolegittima se stesso. Secondo Vitiello, nella concezione di Blumenberg permane tuttavia il problema se il presente possa esaurire le fondamentali 54 domande di senso dell’umanità, come la questione dell’immortalità. Di fronte alla mancanza, in Blumenberg, di individuazione, all’interno del presente, di forze in contrasto tra loro, Vitiello rivendica il merito della topologia di evidenziare la compresenza dei topoi non storici che caratterizzano ogni storicità. La storia consiste per l’uomo nel reciproco movimento di produrre l’altro e di ritornare a se stesso. Ne segue -contrariamente alla impostazione di Blumenberg- la non identità tra mito e logos, e la concezione destinale della filosofia come parola seconda, mai fondativa e definitiva. Nella sua relazione, “Motivi metaforici, logico-politici e storici nella metaforologia di Hans Blumenberg”, Barnaba Maj ha definito la metaforologia come un programma di ricerca filosofico. Un precedente filosofico illustre, ha rilevato Maj, può CONVEGNI E SEMINARI essere individuato in Vico, sostenitore della presenza di una logica poetica” non solo nei primi stadi della civiltà e della vita individuale, ma nell’intero orizzonte socio-culturale dell’umanità. Tuttavia, Vico non intaccò, secondo Maj, il rigido divieto epistemologico della logica e della metafisica aristotelica di un’interazione della metafora con il discorso scientifico. A Blumenberg spetta il merito di aver teorizzato la metafora assoluta, in quanto articolazione autonoma e, nel contempo, partecipe del modello di spiegazione concettuale della scienza. Nelle opere successive a Paradigmi per una metaforologia (1969), ha fatto notare Maj, Blumenberg ha affrontato temi decisivi della filosofia e della teologia, dall’interpretazione del mito platonico della caverna fino al problema teologico del peccato originale, conferendo alla metaforologia il carattere di vero e proprio paradigma teorico. La lezione di Michele Cometa ,”Mitologie dell’oblio”, ha affrontato il tema del mito come uno dei punti focali del lavoro filosofico di Blumenberg e uno dei contributi più originali della riflessione contemporanea sull’argomento. Asse portante dell’analisi di Blumenberg è l’idea che se la filosofia è l’arte della “pensosità”, la mitologia è l’arte dell’oblio in quanto distacco dalla realtà originaria, abbandono alla pura “ricezione” attuale, messa-tra-parentesi della coscienza costruita sul mito. Questo approccio, ha osservato Cometa, è entrato di diritto nella cosiddetta “Mythos-Debatte” tedesca, cui hanno partecipato autori quali Frank, Kolakowski, Bohrer, Hubner ed altri ancora. Un’ulteriore comprensione dell’elaborazione del mito blumenberghiana, la si può ottenere, secondo Cometa, da un’analisi delle metafore assolute. Si configura in tal senso una costellazione concettuale che ha una matrice ben determinata: il fulminante apologo kafkiano del Prometheus. La moltiplicazione, in Kafka, delle versioni del mito di Prometeo finisce per avvolgerlo nell’oblio; la ricezione consuma interamente la storia; la verità del mito collima con la sua inspiegabilità. Il nucleo narrativo di Kafka si fonda su questo assunto: l’oblio del mito mostra, in filigrana, la mitologia dell’oblio. Nella sua lezione, “Antropologia e filosofia della storia in Hans Blumenberg”, Bruno Accarino ha analizzato le originali declinazioni che Blumenberg conferisce al tema classico dell’uomo biologicamente svantaggiato e, quindi, esposto alla natura preponderante, che caratterizza l’antropologia filosofica di Arnold Gehlen. Nell’elaborazione di Blumenberg emerge in primo luogo l’idea di un aumento della visibilità, conseguente all’emancipazione dell’uomo rispetto all’assolutismo della realtà, a partire dalla constatazione che ciò che ci è offerto di essa è solo una piccola parte della sua interezza. Un’ulteriore esplorazione dell’antropologia di Blumenberg, ha osservato Accarino, testimoniano la molteplicità dei “medicamenti anti-assolutistici”, come, ad esempio, la retorica. Assioma di ogni retorica è infatti il principium rationis insufficientis, ovvero la faticosa costruzione e determinazione di concordanze sullo sfondo di una strutturale mancanza di fondamenti del discorso. La retorica è una risorsa che si basa sulla funzionalità del disfunzionale, una tecnica che concede di prendere respiro dalla realtà. Altro medicamento, ha continuato Accarino, è costituito dall’immaginazione, tema introdotto dalla rivisitazione di Blumenberg del mito della caverna. Passando per la caverna, l’uomo divenne l’animale sognante e i figli della caverna inventarono il meccanismo della compensazione immaginativa. Con essa si accorda il nomadismo del pastore, al quale è propria l’arte della deviazione, la strategia di schivamento dell’assolutismo della realtà. La ricchezza e la varietà di questi spunti sono stati ripresi e ulteriormente approfonditi durante una giornata di studio, che ha visto confrontarsi alcuni tra i maggiori studiosi italiani del pensiero di Blumenberg. Gianni Carchia è intervenuto sul tema “Platonismo dell’immanenza. Fenomenologia e storia in Hans Blumenberg”, mostrando come nell’analisi di Blumenberg i fatti dello spirito si dispongano nella storia come all’interno di una supercoscienza monadica, in cui il tempo non è produttivo, ma è solo l’agente di un gioco infinito di variazioni. A questo proposito, ha osservato Carchia, il ricorso di Blumenberg all’ermeneutica ha lo scopo di mostrare, in chiave anti-ermeneutica, che la verità non si esaurisce nella storia; mentre la fenomenologia, con il suo implicito platonismo, ha la funzione di evidenziare i segni storici di una difettività costitutiva e di una irrimediabile lontananza dall’essenza. Di qui, il platonismo dell’immanenza, che pone la storia, anziché come incarnazione dell’assoluto, come luogo della finitudine: attraverso una sorta di “eterogenesi dei fini”, viene alla luce il doppio volto del platonismo, che con il suo scacco circoscrive i caratteri effettivi dell’uomo. Interessante è per Carchia la curvatura esistenzialistica di questa fenomenologia antistoricistica, che richiama il Dasein di Heidegger. Nel suo intervento, “Blumenberg e oltre Blumenberg: il linguaggio per immagini e metafore e la filosofia pratica”, Francesca Rigotti ha fatto notare che se nei primi scritti, risalenti agli anni ’50, prevale in Blumenberg la concezione dell’uomo come essere libero e, quindi, della libertà come principio etico, in quelli degli anni ’70 si fa strada l’idea di un’etica priva di fondamenti e costruita in base al consenso retorico degli uomini. Coerentemente con questa impostazione, la concezione dello stato moderno appare, in Blumenberg, orientata verso il nominalismo politico, per cui la politica è l’insieme degli atti verbali. Se la Odilon Redon, dall’album Songes (1891) 55 CONVEGNI E SEMINARI parola esorcizza e allontana la paura, la politica, basata sui verba, eredita e attualizza il mito: come l’uomo si riparava nella grotta, ora trova riparo nelle parole della politica. In questo Blumenberg, ha osservato Rigotti, difende il rapporto metaforico con la realtà e, più in generale, la retorica dall’accusa di fornire comportamenti infondati. Tuttavia, pur accettando il principium rationis insufficientis, non postula la rinuncia ai fondamenti, ma si tiene lontano dalla metodica del fondamento di ispirazione cartesiana. Così in Blumenberg, contro una teoria etica fondata su una presunta evidenza, si profila la possibilità di un’etica retorica, modellata da metafore e immagini che illustrano buone ragioni e legata ad una pragmatica delle convenzioni. Da ultimo è intervenuto Remo Bodei, che ha parlato di “Mito e metafora all’opera. Le basi del pensiero non-concettuale in Blumenberg”. I concetti di mito e metafora, ha rilevato Bodei, hanno in Blumenberg la funzione di rappresentare le retrovie del mondo della vita, mediante traslochi di senso su posizioni slegate da un senso originario e preesistente. Ma se mito e metafora sono un modo per arrivare a un senso, attraversando la paura di fronte all’ignoto, all’innominato, alla mancanza di forma, la loro forma, ha osservato Bodei, non è solo “simbolica”, in quanto tiene insieme i suoi materiali di costruzione, ma è anche “diabolica” - secondo l’etimologia del greco diaballein -, in quanto divide secondo modi particolari di articolazione del senso. Il mito in Blumenberg è legato all’indeterminatezza e al mutismo della natura ed è frutto di un’alchimia di dicibile ed indicibile. Lo svolgimento del mito di fronte alla contingenza è particolarmente efficace rispetto al futuro, terreno sul quale si gioca il calcolabile con l’incalcolabile, con la contingenza fatale. Da ciò si sviluppa la logica mitica della sopravvivenza e la ritualità che si associa al mito. Una particolare declinazione del mito è per Blumenberg individuabile in Vico, in cui agisce una sorta di teologia mitica come discesa dall’alto del senso: nelle foreste primigenee le genti maggiori, che contemplavano il cielo e vedevano dappertutto Zeus, imposero con la forza alla convivenza sociale i miti dell’ordine. La contingenza mitica si trasformò in stabilizzazione del mondo. Nel Menone platonico, invece, con il teorema dell’incommensurabilità della diagonale del quadrato, secondo cui dall’irrazionale si dà il razionale, il mito si trasforma in logos, lasciando tracce indelebili. Contro lo scientismo moderno, che pone il logos definitivamente al di là del mythos, Platone ci insegna, secondo Blumenberg, l’inesauribilità del mito, mostrandoci come la razionalità sia ricavabile dal mito, ma al contempo come si riproponga il problema di altre possibili spiegazioni, per cui lo sforzo di dare senso alle cose si rinnova indefinitamente attraverso racconti che dicono e non dicono. F.S. Vico, nel 250° anniversario della morte In occasione del 250° anniversario della scomparsa di Giambattista Vico (1744), nonché della pubblicazione della sua ultima ‘Scienza nuova’, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli ha organizzato, dall’ottobre 1993 al giugno 1994, una serie di “Seminari sul pensiero di Giambattista Vico” (si veda: «Informazione Filosofica», n. 11, 1993). Nel quadro di questo iniziativa, si è svolto a Lecce, dal 15 al 18 novembre 1993, un seminario dal titolo: “NUOVE PROSPETTIVE DEGLI STUDI VICHIANI”, in collaborazione con l’Istituto di Filosofia dell’Università di Lecce e col Centro di Ricerche sul Pensiero Filosofico e Scientifico dell’Italia Meridionale, con la partecipazione di Andrea Battistini, Mario Agrimi, Antonio Verri, Alain Pons. Tra le nuove prospettive d’interpretazione dell’opera di Vico segnaliamo le ricerche di Umberto Galeazzi, i cui risultati sono ora raccolti nel volume: ERMENEUTICA E STORIA IN VICO. MORALE, DIRITTO E SOCIETÀ DELLA ‘SCIENZA NUOVA’ (Japadre, L’Aquila-Roma 1993). Tra gli interventi al convegno leccese, Andrea Battistini, (curatore della recente edizione delle opere di Vico presso l’editore Mondadori), si è soffermato in modo specifico sull’Autobiografia vichiana, ricostruendone filologicamente l’origine, l’esatta datazione (fine 1723 e non 1725, come volevano Croce e Nicolini), i presupposti formali e stilistici e rilevandone tutta l’importanza speculativa in quanto opera nella quale agiscono quei medesimi principi gnoseologici e provvidenzialistici che caratterizzano il pensiero di Vico. Appartenente al genere letterario dell’autobiografia intellettuale, la Vita di Vico, secondo Battistini, si ispirerebbe ad un modello narrativo di tipo teleologico, che si manifesta nel tentativo di ricomprensione di tutti gli avvenimenti della propria esistenza alla luce di una meta finale, in nome della quale anche gli eventi negativi (trauma infantile, l’isolamento personale, l’avversa fortuna...), le deviazioni, le “cadute” diventano funzionali alla riuscita dell’impresa e rendono ancor più importante il risultato finale. Tale modello narrativo approderebbe tuttavia non al raggiungimento di una grazia salvifica e trascendente, ma alla riuscita personale come letterato, sicché l’approdo finale all’Autobiografia sarebbe la Scienza nuova, verso cui sembrerebbero tendere tutti i suoi sforzi. Ad una lettura ravvicinata della Scienza nuova prima, tesa ad evidenziarne l’originalità e l’indipendenza, si è indirizzata la relazione di Mario Agrimi, il quale ha insistito proprio sull’autonomia di quest’opera, che rappresenta un rilevante punto di arrivo della riflessione vichiana fino al 56 1725 e non semplicemente un lavoro preparatorio alle successive edizioni. Nella Scienza nuova del ’25 non compare, ad esempio, quella che Vico chiama la «Discoverta del vero Omero»; come non compare né la tavola cronologica sinottica, né la celebre “dipintura”, e ugualmente non v’è traccia della più nota dottrina vichiana, quella dei corsi e ricorsi delle nazioni. Ma ciò fa di quest’opera, ha osservato Agrimi, qualcosa di peculiare, in cui in una visione non ciclica e circolare, ma lineare e progressiva, appare persistente il motivo pratico e politico (in perfetta continuità con l’approccio pedagogico giovanile), che evidenzia l’intento “riformatore” vichiano di giovare all’umanità. Per questi motivi la Scienza nuova prima, secondo Agrimi, aprirebbe la strada ad una “semiotica politica”, ad un’accurata analisi dei segni che costituiscono la società e dei sintomi che la attraversano. La storia degli uomini e delle nazioni diviene in tal modo centrale nel pensiero vichiano; e poiché in essa avviene la certificazione del vero, la storia, ha rilevato Agrimi, si fa ontologia, diviene luogo dell’essere e del vero. Antonio Verri, promotore del convegno, ha invece indagato il significato dell’opera retorica vichiana nel pensiero contemporaneo, soffermandosi in particolare sulle Istitutiones oratoriae, il manuale di retorica approntato dall’allora docente di eloquenza Giambattista Vico (che insegnò tale materia per oltre quarant’anni), di cui solo da qualche anno è apparsa un’edizione critica, che rende finalmente giustizia anche di questo aspetto dell’opera vichiana. Oggi infatti esistono per Verri le condizioni per guardare alla retorica vichiana con occhi nuovi, individuando in essa la possibilità di un ripensamento della riflessione contemporanea. Significativa appare in quest’ottica la ripresa di Vico in quel contesto che va sotto il nome di “nuova retorica”, come pure nella riflessione più ,marcatamente filosofica di Ernesto Grassi, che negli ultimi anni ha sempre più rivolto il proprio interesse al pensiero vichiano. Verri ha infine ricordato come in tempi in cui si insiste sulla scissione delle culture, sulla divisione e frammentazione dei saperi, la retorica vichiana, ammonisca ogni pretesa unilaterale del pensiero logico-razionale, suggerendo una ricomprensione unitaria ed integrale del sapere. Il principale risultato della ricerca su Vico svolta da Umberto Galeazzi si raccoglie nella giustificazione analitica di un’affermazione di Eugenio Garin, contenuta nell’ “Introduzione” allo studio di A. Child, Fare e conoscere in Hobbes, Vico e Dewey (1970): «La novità della scienza vichiana consiste nello sforzo di...scoprire il disegno segreto attraverso il quale la provvidenza si rivela nella vicenda temporale». Muovendo dalla constatazione che la base delle considerazioni di Vico è costituita da una verità riconosciuta come tale, in quanto indubitabile in se stessa, Galeazzi inten- CONVEGNI E SEMINARI Frontespizio e particolari di illustrazioni tratti da Principi di scienza nuova di G. B. Vico (ediz. napoletana del 1744) de fondare l’affermazione di Vico: «la divina Provvidenza ella è l’architetta di questo mondo delle nazioni». Ciò implica, innanzitutto, «di rinnovare l’interpretazione del filosofo napoletano, mettendo radicalmente in discussione tutte le letture più o meno condizionate da quella crociana». La proposta interpretativa di Galeazzi si sofferma sul Vico che contesta il metodo cartesiano, soprattutto laddove Cartesio pretende di estendere il metodo geometrico ad ogni tipo di sapere e in particolare ai fatti umani, che non sono dominati dalla necessità. L’uomo infatti si realizza, per Vico, in quella che possiamo chiamare “una logica della scoperta” ed è fatto a immagine della libertà divina. In tal senso, la dottrina centrale del verum ipsum factum trae la sua origine, in Vico, dalla “metafisica della creazione” e si esprime anche nella “metafora della luce”, che ha un ruolo di protago- nista, pur tenendo conto che la peculiarità della visione vichiana della storia e dell’uomo è dovuta alla considerazione filosofica non solo dell’uomo “quale deve essere”, ma anche dell’uomo “qual’è”, con i suoi vizi, la sua ferocia, la sua avarizia. Solo che per Vico il “divagamento ferino” dell’uomo deriva, oltre che dalla “vita empia”, dal seguire la logica dell’utile egoistico, anche dalla rinuncia alla vera religione. Sicché, osserva Galeazzi, «Solo in quanto l’uomo è condotto, ad opera della regìa provvidenziale, a rispettare un certo ordine morale-giuridico, anziché seguire la propria volontà asservita all’utile egoistico, può arrivare a celebrare l’umana società e a conseguire il giusto». Una “teologia civile ragionata della Provvidenza divina”, una ricostruzione teonomica della genesi del diritto, dell’etica e della società, costituiscono dunque, per 57 Galeazzi, la questione decisiva per capire il discorso della Scienza nuova. Certo, accanto al principio della divina Provvidenza è posto quello del libero arbitrio, ad esso “consentaneo”, che confuta ogni interpretazione immanentistica della Provvidenza, pur essendo sempre considerata da Vico il fondamento dell’umana e civile convivenza e quindi del diritto naturale delle genti. Il disegno provvidenziale, fa notare Galeazzi, vuole l’uomo, quale essere intelligente e libero, protagonista dell’incivilimento, anche se l’uomo stesso, in quanto limitato, richiede l’aiuto della Provvidenza, che tuttavia non si sostituisce alla responsabilità dell’azione umana. In tal senso, afferma Galeazzi, la nozione di “storia ideale eterna” deve essere avvicinata a quella di “diritto eterno che corre in tempo”; un rapporto che, a prima vista, potrebbe apparire contraddittorio, dato che ciò che è storico CONVEGNI E SEMINARI non è eterno, ma che invece permette a Vico di trovare “la chiave della nuova scienza del mondo umano». L’iter genetico della storia, osserva ora Galeazzi, procede dalle cause agli effetti: chi possiede tutte le cause (Dio) ha una scienza perfetta. L’iter conoscitivo proprio dell’uomo procede invece dagli effetti alle cause: «Attraverso il fare umano... si scopre (non si produce) un disegno superiore. Ecco, quindi, che l’indagine vichiana sulla storia è un lavoro ermeneutico»; e questo perché la storia è frutto non solo dell’arbitrio umano, ma soprattutto dell’intelligenza creatrice e provvidente di Dio. G.P./G.R. Il ritorno del mito A cura del Goethe-Institut e del Dipartimento di Filosofia della III Università degli Studi di Roma, si è tenuto dal 24 al 25 marzo 1994, presso la sede romana del Goethe-Institut, un convegno internazionale dal titolo: “IL RITORNO DEL MITO NELLA SOCIETÀ E NELLA CULTURA DEL NOVECENTO”. Introducendo i lavori, Franco Bianco ha sottolineato come negli ultimi decenni la riflessione filosofica sia entrata in una fase in cui non si sente tanto il bisogno di “smitizzare”, quanto piuttosto di “rimitizzare”, di dare forma alle proprie scelte di valore. In quanto “non-definibile”, essenza proteiforme da ordinare e possibilmente spiegare, il mito, come ha ricordato Alfred Schmidt (“Modelli della critica illuministica del mito”), ha suscitato l’interesse della critica illuministica . Nel suo itinerario “dal mito al logos”, il concetto di critica illuministica, secondo Schmidt, si estende dalla nascita della filosofia in Grecia alla Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno, passando - cautamente - per Vico (alla storia eterna fa da contrappeso una storia degli uomini) e per Diderot (con l’accento posto sulla rivelazione naturale di contro a quella sovrannaturale). In questa prospettiva generale è necessario, ha osservato Schmidt, un chiarimento non solo logico o estetico del mito, ma anche genetico e funzionale, che sappia risalire, con gli strumenti di un’antropologia materialistica e sulle orme di Feuerbach, ad una lettura del sacro, dell’esperienza mistica e culturale, «per capire come gli dei incarnino i desideri degli uomini», i loro timori, la mancanza di conoscenza delle cause dei fenomeni. Sergio Givone (“Mito e poesia) ha riportato il discorso sul piano del tutto estetico dell’incontro tra mito e poesia. In tal senso è indispensabile per Givone il riferimento a Nietzsche, «crocevia» di una doppia tradizione. La sua critica alla concezione illuministica del mito, ha fatto notare Givone, si articola, infatti, “con” e “contro” i ro- mantici: con i romantici, laddove il mito è qualcosa di originariamente poetico; contro i romantici, nell’ironizzare sul fatto che il problema della verità venga affidato , unicamente alla poesia: «Ecco come il mondo è diventato favola!» - constata Nietzsche, parafrasando Novalis. Una constatazione che contiene un preciso invito, quello di abbandonare ogni possibile verità-fondamento, per riconoscere che non vi è più verità, ma solo interpretazione. In questa radicalizzazione e rovesciamento della posizione romantica emerge, secondo Givone, come per Nietzsche sia centrale non il momento utopico o politico, ma quello “tragico” del mito. É questo il luogo di una sospensione del tempo e della contraddizione, che nella trasgressione della norma apre ad una dimensione estetica: quella dell’artista che, quasi posseduto da un demone, fa di sé un’opera d’arte come volontà di potenza. Un ulteriore approfondimento della tematica del ritorno del mito è stata offerta dall’intervento di Reyes Mate (“Polimitismo, filosofia, religione”). Muovendo dall’assunto di «un patto con il mito che la ragione, più o meno esplicitamente, deve stringere», Mate ha sottolineato, in accordo con la posizione di Hans Blumenberg, l’inconstistenza dell’opposizione logosmito in favore di una loro complicità, in linea con le conclusioni della Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno: il mito è già illuminismo, laddove cerca immagini per gli aspetti oscuri dell’esistenza, o per la sua complessità, come nel caso del polimitismo; l’illuminismo finisce per diventare mito, come nell’odierna tendenza della filosofia a divenire racconto. Dunque, secondo Mate, non la categoria del logos può costituire una sfida al mito, ma piuttosto la categoria della “religione” (monoteistica), in quanto fa leva sulla nozione centrale di colpa. Nella Bibbia, ha ricordato Mate, è a partire da Geremia ed Ezechiele che si rompe il maleficio mitico della colpa genealogica, che lasciava ai singoli larghi margini di discolpa. Da questo momento la colpa si radicalizza, si individua nei singoli, permette il riconoscimento della storicità dell’ingiustizia e della responsabilità dell’uomo. Un esplicito richiamo a riflettere sul fatto che il mito non torna da solo, ma deve essere mobilitato, messo in movimento da precise esigenze, è venuto da Hans Robert Jauss (“Miti dell’inizio. Una nostalgia segreta dell’Illuminismo”). Secondo Jauss, il rinnovato interesse nei confronti del mito non è di tipo dialettico, ma testimonia il fatto che il mito è sentito di nuovo come «condizione della leggibilità del mondo». In quest’ottica, ha osservato Jauss, Voltaire ha utilizzato nella sua Apologia della favola i miti dell’antichità come un travestimento per smascherare il dominio e i difetti dell’assolutismo; Hume e Fontenelle si sono schierati a favore del politeismo; Vico ha proposto il ritorno ad una storia genetica, ad un pensiero teleologico. 58 Tra i miti del «nuovo inizio», ha ricordato Jauss, acquista particolare rilevanza l’ultimo mito dell’epoca illuministica, quello del «calendario rivoluzionario», che nella ricerca di un inizio assoluto tenta di tradurre lo spirito razionale della nuova repubblica nella vita di tutti i giorni. Seguono, nell’ ‘800, i nuovi miti dell’identità nazionale, dell’evoluzione; ma soprattutto il mito della decadenza, che porteranno ad un nuovo mito di primo Novecento: quello per cui solo l’arte (e non la storia) può istituire un nuovo inizio. Un motivo centrale per l’avanguardismo artistico, che tra le due guerre tenderà a superare la divisione tra estetico e politico. E proprio qui, ha notato Jauss, prende piede il «mito moderno dell’inizio», che trova il suo paradigma nell’idea di «fusione di tutte le arti»: solo ora la ricerca del mito viene a coincidere con la ricerca della «forza immaginativa» dell’uomo. In un quadro d’epoca, tra l’ironico e il grottesco, si è condensata la proposta di Marino Freschi (“Il risveglio di Odino. Neopaganesimo nella letteratura tedesca degli anni ’30"). Riallacciandosi ad un giudizio di Thomas Mann, che giudicò il fascismo tedesco una forma di «paganesimo etnico» e di «barbarie romantica», Freschi ha rilevato come in quel preciso momento storico in Germania la volontà di ricorrere al mito fosse motivata dalla ricerca di qualcosa di “creativo”, più che di vero o di autenticamente originario. Wothan (nome tedesco per lo scandinavo Odino) si prestava perfettamente a soddisfare le esigenze di mitizzazione del nazismo con la sua duplice natura di dio della guerra e della caccia, ma anche della magia e della poesia. Su questa base, dunque, si può parlare, secondo Freschi, della persistenza di una “falda pagana” nella cultura dei germani. Nel suo intervento, Winfried Menninghaus (“Caos - Mitologia nel Romanticismo e nel Moderno”) ha collegato la ripresa del concetto di mito negli ultimi quindici anni al ritorno di una concezione delle nazionalità e dei gruppi, parallelamente alla necessità di pensare la differenza di “proprio” ed “estraneo”. Un’esigenza radicale di differenziazione, che presuppone però, secondo Menninghaus, uno stretto rapporto con un concetto di caos inteso come potenzialità, oltre che come indistinzione. É il primo Romanticismo a teorizzare, per voce di Friedrich Schlegel e di Novalis, «una nuova miscela di caos e di ordine». Quando infatti Schlegel parla della necessità che il sistema non sia assoluto, perché «l’unità assoluta sarebbe un caos di sistemi», esprime, ha rilevato Menninghaus, un vero e proprio interesse critico-conoscitivo, parla a favore di una «distruzione e interruzione positiva». Due esempi paradigmatici in questo senso sono la teoria dinamica della società di Norbert Bolz e la decostruzione di Jacques Derrida. In quest’ultimo, ha fatto notare Menninghaus, l’accento posto sull’evento testuale porta avanti il progetto romantico nel dislocare CONVEGNI E SEMINARI Caspar David Friedrich, Tempio di Giunone ad Agrigento (1828-30, part.) ogni identità in tendenze caotico-centrifughe: è l’effetto differenziale che nel procedimento decostruttivo dà vita all’accadimento testuale. Infine, nel campo delle ideologie politico-sociali, così come nelle scienze naturali, con l’«enorme incremento di globalizzazione degli ordini» (politici, economici, ecc.), il caos, secondo Menninghaus, ha acquisito una precisa funzione compensatoria di opposizione all’uniformità: imprevedibilità e turbolenza diventano portatori di un nuovo modello di comprensione. Per Giacomo Marramao (“Il mito dello Stato: una ridefinizione del tema”), è necessario oggi indagare sulla “mitologia” più che sul “mito”, ormai soggetto ad una rarefazione semantica che ne ha fatto perdere il primitivo significato greco di narrazione sacra. Da questo punto di vista, il mito dello Stato, ha notato Marramao, non è tanto l’effetto o il derivato di ideologie, quanto effetto di una «commistione indebita» del momento estetico con quello politico. Marramao ha quindi sottolineato l’indissociabilità di “mito” e “rito”, che soddisfa l’elemento raffigurativo, iconico del mito, oltre a garantirgli una durata e una ricorrenza. Per il mito dello Stato resta infatti fondamentale il ruolo del rito di iniziazione, costitutivo dell’ordine in quanto tale; ma anche il rituale del “potere”, in quanto «eccedenza di senso che deve di volta in volta tradursi in un sistema determinato di segni». In una democrazia, ha concluso Marramao, si tratta di liberare il mito come energia mito-poietica legata ai singoli: il potere buono è solo il potere limitato. Karl Heinz Bohrer (“Progetti del Moderno, tabù del Moderno. Le condizioni di una possibile attualizzazione del mito”) ha proposto di mettere in parallelo il concetto di 59 Friedrich Schlegel di una «nuova mitologia» con quello nietzscheano di “dionisiaco” e con l’idea elaborata da Louis Aragon di una “mitologia moderna”, allo scopo di definire i tratti di una possibile mitologia non più legata ad un’immagine assolutistica del mondo. Il filo di connessione che secondo Bohrer lega i tre tentativi di rimitizzazione è un progetto estetico, che mira a configurare un nuovo modo di pensare attraverso una presa di distanze poeticoestetica rispetto al razionale. Così in Schlegel la “nuova mitologia” non è ricostruzione di un pensiero mitico, ma produzione, in proprio, di nuove immagini. D’altro canto il «dionisiaco» di Nietzsche definisce il modello di un’esperienza estetica che non guarda in realtà al dionisiaco barbarico, ma alla distruzione del principium individuationis da parte del fenomeno artistico. Dello stesso segno, ha notato Bohrer, è anche CONVEGNI E SEMINARI il procedimento di “enigmaticizzazione” degli oggetti di percezione, che si produce nella prospettiva surrealista di Louis Aragon, dove il “brivido” dell’ignoto contamina proprio i momenti e i luoghi consueti del vivere e dell’abitare: il “meraviglioso”, frutto di un’operazione poetica e soggettiva, diventa “meraviglioso quotidiano”. Una mitologia moderna, ha ribadito Bohrer, non può dunque che avere carattere soggettivo e proiettivo, dove l’epifania è demandata al linguaggio e allo stile in cui si pongono in opera le produzioni dell’immaginazione. L’intervento di Paolo De Nardis (“Le nuove mitologie nella coscienza sociologica del Novecento”) ha messo in rilievo il fatto che la sociologia, scienza empirica per eccellenza, si radica molto spesso sul mito della società come “totalità”. Passando in rassegna il discorso sociologico attraverso i classici della sociologia, De Nardis trova forse nella teoria strutturale e funzionalistica di Parsons quel modello di sistema che fa aprioristicamente ricorso all’idea di un orine sociale “totale”. Parsons propone infatti, ha precisato De Nardis, una “cristallizzazione” della teoria dell’azione sociale di derivazione weberiana, e si serve del motivo, di una “coscienza collettiva” realizzata nell’integrazione sociale per irrigidirlo in un ipotetico schema di valori metatemporali. Ne consegue una ipostatizzazione della “struttura”, che finisce per essere sostanzializzata e ontologizzata, mostrando una spiccata tendenza ad una “autopoiesi” dal carattere extrastorico e dallo spessore mitico: il sistema produce e riproduce incessantemente se stesso. Unico antidoto a questa endemica tendenza della sociologia a fare ricorso al mito della totalità è rappresentato, secondo De Nardis, dall’idea guida (popperiana) di una “costruzione relazionale”, che preveda, per ogni sistema, il ruolo “variabile” delle parti così come del tutto. Sulla possibilità di leggere il mito e il suo “ritorno” in chiave psicoanalitica si è pronunciato Rolf Vogt (“Teoria e metodo dell’interpretazione psicoanalitica dei miti”), che ha fatto notare come il “sogno” (sorta di compromesso tra desiderio e rinuncia) costituisca il primo modello freudiano di comprensione del mito. Tuttavia, la descrizione che ne Il poeta e la fantasia (1908) Freud dà dei miti come “sogni secolari» di un’umanità intesa come soggetto collettivo resta, secondo Vogt, difficile da sottoscrivere, anche se alcuni spunti presenti in Totem e tabù (1913) possono rivelarsi ancora efficaci. É il caso dell’interpretazione dei miti come “fantasie inconsce tramandate”, lette da Freud sulla base di costanti antropologiche come il complesso di Edipo. Nonostante la mancanza di riferimenti storici ai miti e soprattutto di un soggetto collettivo che possa “parlare” in proprio di fronte all’analista, secondo Vogt si può tentare di guardare con occhio psicoanalitico alla forma negativa, ovvero ideologica, del mito. Il caso attuale delle ripercus- sioni psicologiche del nazismo in Germania offre a Vogt un esempio paradigmatico di come l’inconscia identificazione con la propria nazione profili un “inconscio etnico”, secondo l’espressione di George Devereux, tendente a degenerare in una sorta di “malattia” etnica, che per il popolo tedesco si configura come intreccio di senso di colpa (per lo sterminio degli ebrei) e desiderio di discolpa. Alla coscienza tedesca, pur nella disparità delle posizioni rispetto alla storia recente, sembra mancare una vera “connessione” tra contenuti rappresentativi coscienti e i rispettivi sentimenti, che restano inaccessibili e inconsci. Con un ampio panorama di riferimenti tra “demitizzazione” (a partire dalla stagione illuministica fino agli esiti della “morte di Dio” in Nietzsche) e “rimitizzazione” (attraverso i fondamentali contributi di Jung, Kerényi e Blumenberg), Aldo Carotenuto (“La realtà psicologica del mito”) si è soffermato sulle “ragioni profonde” del ritorno del mito nel nostro tempo. L’ipotesi centrale è stata quella di riconoscere al mito una «relazione intrinseca, necessaria, ultimativa» con l’immaginazione, che affonda le sue radici in «precise esigenze esistenziali» e più precisamente nel bisogno di «differenziarsi dal terreno della sola realtà». In questo senso gli “universali fantastici” di Vico hanno colto il nucleo del problema: il mito diventa linguaggio necessario per ciò di cui non si hanno (ancora) concetti e che pure hanno una loro consistenza nella «base poetica della mente». Di qui, ha proseguito Carotenuto, è possibile valutare il grado di “realtà” del mito, nei suoi effetti sulla vita degli uomini, come è dimostrato dalla teoria e pratica psicoanalitica. A questo proposito, ha osservato Carotenuto, si può convenire con Rollo May (Il richiamo del mito) quando elenca, tra le funzioni del mito, quelle di rispondere ai bisogni di identità, di appartenenza ad un gruppo, di moralità, di creatività, e con Hans Blumenberg (Elaborazione del mito), quando mette in evidenza lo statuto di perpetua interrogazione del mito in quanto un dispositivo per affrancare l’uomo dall’assolutismo della realtà. E.T. L’ultimo Merleau-Ponty In occasione della presentazione del volume che raccoglie alcuni scritti dedicati a Maurice Merleau-Ponty, NEGLI SPECCHI DELL’ ESSERE . SAGGI SULLA FILOSOFIA DI MERLEAU - PONTY (a cura di M. Carbone e C. Fontana, Hestia, Milano 1993) si è svolto il 17 marzo del 1993, alla Sala Incontri dell’ISU di Milano, un dibattito sul tema: “IL PENSIERO DELL ’ ULTIMO MERLEAU - PONTY”. Oltre a Mauro Carbone, hanno partecipato all’incontro Elio Franzini, Pier Aldo Rovatti, Carlo Sini. 60 Mauro Carbone ha esordito negando la legittimità della tesi di una “svolta” in Maurice Merleau-Ponty tra due fasi di pensiero, e ribadendo il carattere unitario della sua riflessione. I saggi critici, che accompagnano testi di Merleau-Ponty raccolti nel volume, mettono in evidenza l’intersecarsi del suo pensiero con quello di Husserl, Cassirer, Hegel. In tal senso Elio Franzini ha messo in rilievo, in MerleauPonty, il rapporto fra il pensiero di Husserl e il concetto di natura. Il carattere unitario della riflessione di Merleau-Ponty consiste, secondo Franzini, nell’intento di «inserirsi nell’ombra di Husserl», a cui viene attribuita l’intenzione di dare scacco alla filosofia riflessiva, sulla base di una visione doxastica. A partire dalla nozione di “intenzionalità fungente”, misurata sul terreno paradigmatico dell’arte figurativa, Merleau-Ponty intende prendere le distanze dal tentativo husserliano di pervenire a una costituzione della realtà vicina all’atteggiamento “naturale”. Per Franzini, tuttavia, il filosofo francese non sottolinea a sufficienza il passaggio dall’intenzionalità fungente a quella d’atto, dal risveglio “selvaggio” del senso al mondo del significato. Dal punto di vista del metodo fenomenologico, ha osservato Franzini, ciò porta a confondere la modalità di apprensione del fondamento veritativo con il fondamento veritativo medesimo, senza scorgere il fatto che l’intenzionalità d’atto è implicata, per quanto fondata su di essa, dall’intenzionalità fungente; con il rischio di una caduta nell’ “anonimìa selvaggia”, da un lato, nel descrittivismo empirista, dall’altro. Pier Aldo Rovatti ha fatto notare come in Merleau Ponty la crisi della nozione di visibilità, e la sua messa in questione, rinviino alla crisi e alla messa in questione della nozione di riflessione, che si coniuga con la questione dell’ascolto. Per MerleauPonty, il visibile si pone in un’inestricabile connessione con l’invisibile, il cui luogo si situa nella “piega” del visibile. A questo proposito, ha osservato Rovatti, tra il 1960 e il 1966 si può rilevare l’influenza di Merleau-Ponty su Lacan e Foucault. Si danno però in Merleau-Ponty, ha sottolineato Rovatti, due tipologie di invisibilità: quella della piega, e quella del decentrarsi del visibile, del suo margine. Si pone qui, secondo Rovatti, la questione dello sguardo e quella del punctum caecum, ovvero della peculiare “cecità” dello sguardo in rapporto alla visione. Quando MerleauPonty esemplifica la sindrome cartesiana del pensiero moderno nello specchio in cui esso non vede se stesso, bensì quella struttura proiettiva che esso medesimo vi ha posto, occorre chiedersi, secondo Rovatti, che cosa pretenda allora di vedere lo sguardo di Merleau-Ponty. Il se stesso, che costituisce la risposta a questa domanda, consiste in un qualcosa che, a parere di Rovatti, è molto simile al nulla, alla morte, al punctum caecum. Carlo Sini ha ricordato il contesto della CONVEGNI E SEMINARI ricezione italiana di Merleau-Ponty attraverso l’opera di Enzo Paci, ribadendo la tesi dell’influenza decisiva della riflessione di Merleau-Ponty sulla filosofia contemporanea, in particolare in merito alla questione della visibilità. Quest’ultima rappresenta uno snodo fondamentale della filosofia occidentale nel suo rinviare alla questione della verità attraverso la nozione di theorein. In tal senso Sini ha confermato la validità di accostare le riflessioni di Merleau-Ponty sul rapporto tra essere e pensiero a quelle di Parmenide e Hegel. Per quanto riguarda il rapporto tra io e mondo, Merleau-Ponty opta decisamente per la “sintesi passiva” di Husserl. Nondimeno, a parere di Sini, Merleau-Ponty si rende conto dell’intrinseca problematicità del concetto di “attività passiva”, al quale rinvia quello di “sintesi passiva”. Tale concetto risulta, d’altra parte, decisivo per fondare, nella prospettiva di MerleauPonty, la categoria di soggetto. A questo propos it o, Sini ha ip oti zzat o che Merleau-Ponty, impegnato nella polemica contro il coscienzialismo, non avesse sufficientemente chiaro come il proprio progetto di ontologia rappresentasse un passo indietro sulla strada della riflessione metafisica, rispetto al punto in cui era giunto Husserl. F.C. Storia e metodo in Hegel Dal 31 gennaio al 3 febbraio 1994, Girolamo Cotroneo ha tenuto presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli un seminario su “IL METODO STORICO E I SUOI PROBLEMI. HEGEL E I ‘ TIPI DELLA CONSIDERAZIONE STORICA’ “. Oggetto del seminario sono state le pagine dello scritto sui ‘Tipi della considerazione storica’, posto come “Introduzione speciale” alle ‘Lezioni di filosofia della storia’, in cui Hegel espone il suo punto di vista sulla storiografia esistente sino a lui, interrogandosi sul rapporto tra filosofia e storia, sulla possibilità di una storia universale e sul modo in cui è possibile scrivere una storia del mondo. Il programma filosofico della nuova storiografia hegeliana intendeva cogliere lo scopo generale della Ragione nella storia. La vera storiografia, che Hegel vuole fondare, è la storiografia filosofica, ossia la considerazione pensante della storia, quella che mostra la razionalità presente nella storia. Alla critica mossa a Hegel di voler giustificare anche il male nella storia con la frase: «Tutto ciò che è razionale è reale, e tutto ciò che è reale è razionale», Girolamo Cotroneo obietta che Hegel, nell’aggiunta del 1827 alla seconda edizione dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, spiega che con reale si deve intendere non ciò che è semplicemente esistito, ma, come è indicato nella Logica, ciò che non poteva non essere, che ha il carattere della necessità e che per questo è reale in senso forte. Il problema presente nello scritto sui Tipi della considerazione storica, ha fatto notare Cotroneo, è quello di una considerazione storiografica che colga filosoficamente, in quel particolare irripetibile che la storia mostra, anche l’universale ad esso sotteso, mostrando degli avvenimenti il senso razionale in essi racchiuso. A questo riguardo, Hegel individua tre tipi di considerazione storica, non legati da una gerarchia temporale: la storia organica, la storia riflettente e la storia filosofica. Per Hegel, ha osservato Cotroneo, la storia nasce, quando a guidare l’azione è non più la natura, ma la Ragione, e si generano categorie come bene, male, libertà, leggi, stato: la storia come res gestae nasce dunque contestualmente all’historia rerum gestarum. La storia organica è quella concepita da coloro che sono più vicini ai fatti narrati e che quindi li vivono in prima persona, attraverso un’esperienza vissuta e immediata. E’ la storiografia che più delle altre è quindi immersa nel particolare e nel “dato”; ad essa appartengono, oltre ai racconti degli storici antichi come Erodoto o Tucidide, anche le autobiografie e le biografie di uomini illustri, o le storie di guerre e battaglie riportate da capitani o uomini di stato. Storia riflettente è invece quella in cui si raccontano avvenimenti che non appartengono al presente, facendo uso di elementi concettuali che distolgono dal dato: i fatti sono collegati tra loro secondo un ordine e una successione che mira a restituire un orizzonte storico più ampio, in cui inserire gli avvenimenti. In questo secondo tipo di storia Hegel ritrova la storia generale di un popolo o di un ambito geografico, che deve far uso di astrazione e tipi concettuali per selezionare e concettualizzare il dato. Oltre alla storia generale, della storiografia riflettente fa parte anche la storia prammatica: Croce, ha osservato Cotroneo, dirà che tutta la storia è per questo storia contemporanea, nel senso che la guida sempre il bisogno pratico. Ma l’idea di trarre insegnamenti morali dalla storia non appartiene a Hegel, secondo il quale non può esservi giudizio morale sulla storia in quanto ogni evento storico è irripetibile e unico. Altra specie di storia riflettente, che Hegel individua, è la storia critica, che si sofferma a fare una storia della storia, riflettendo sulle categorie storiografiche e sui modi in cui si applicano al dato. Ultima specie di storia riflettente è la storia speciale, ossia la storia di un determinato settore o aspetto della vita di un popolo, che pur non investendo l’universale in sé, pure si occupa di un determinato universale, occupandosi delle manifestazioni dello spirito ogget61 tivo di un popolo e dei suoi legami con la vita complessiva di quel popolo. Il terzo tipo di considerazione storica è quello filosofico, che ha per oggetto lo spirito del mondo e per scopo la storia del mondo, della quale Hegel può solo mostrare la logica interna. Questa tipo di considerazione storica presuppone dialetticamente le altre due, che supera inverandole: la sua necessità consiste nel presentare degli avvenimenti solo l’essenziale, il senso nascosto che è insito in essi e che si lascia cogliere solo dallo sguardo filosofico, dallo sguardo del concetto. Essa presuppone nel lettore la conoscenza degli avvenimenti stessi, anche se poi essa se ne distacca in modo evidente nel restituire degli avvenimenti la logica interna, la ragione sottesa, l’universale eternamente presente. L’oggetto della storia è lo spirito, che essa coglie non in universali determinati, ma nell’universale che in sé tutto racchiude. L’accusa mossa a Hegel di voler scrivere una storia a priori, applicando ai fatti uno schema filosofico preordinato è per lui, ha osservato Cotroneo, senza fondamento: la massima oggettività consiste proprio nel cogliere il razionale nella storia come sviluppo dello spirito, che nel farsi si conosce e che non può non farsi, non può non divenire nella storia. Lo storico pensante, nel coglierne la razionalità interna, mostra il divenire dello spirito nella storia, che ha un senso e uno scopo che non possono essere conosciuti a priori, proprio perché lo spirito si fa, si attua nella storia, che è appunto la storia dello spirito. Lo scopo del vero storico, dello storico pensante, è perciò quello di mostrare l’universale nel particolare. Da qui, ha fatto notare Cotroneo, l’accusa a Hegel di non tenere nella giusta considerazione il ruolo dell’individuo nella storia come motore dell’azione. Questo fraintendimento scompare, secondo Cotroneo, se si considera che per Hegel la libertà dell’individuo può esservi solo nello Stato, ossia in una società governata dalle leggi e dal diritto, e non nella condizione naturale, dato che per Hegel la libertà è solo la libertà razionale, consapevole del diritto e delle leggi. S.S. Computer, parola, pensiero Per celebrare la figura e l’opera di padre Roberto Busa e in occasione dell’inaugurazione della Scuola di Lessicografia ed Ermeneutica presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, si è tenuto a Roma il 17 e 18 marzo 1994 un convegno dal titolo: “COMPUTER , PAROLA, PENSIERO”. Al convegno hanno partecipato: Carlo Huber, Georges Cottier, Jacqueline Hamesse, Ugo Berni Canani, Luigi Dadda, Jacques Berleur e Giorgio Salvini. CONVEGNI E SEMINARI Roberto Busa, padre gesuita, docente di filosofia all’Università Cattolica di Milano e fondatore della linguistica computazionale, ha dedicato la vita intera alle ricerche nel campo dell’informatica applicata alle discipline umanistiche. Precursore del “Computer in humanities”, ha aperto la strada all’impiego dell’automazione in linguistica ancora nel 1946, quando i calcolatori erano appena al loro nascere. A lui si deve la realizzazione del monumentale Index Thomisticus, ovvero la computerizzazione di tutte le opere di San Tommaso, stampata in 56 grossi volumi, comprendenti gli indici lessicali e statistici e la concordanza per forme e lemmi dei testi. In apertura del convegno, padre Busa ha presentato gli ultimi risultati della sua pluriennale attività di ricerca computerizzata sul lessico di San Tommaso (il che ha permesso ad esempio di smentire la pretesa “barbarità” del latino di Tommaso), indicando il progetto di un Lessico biculturale, che traduca cioè il vocabolario di Tommaso non solo nelle principali lingue di oggi, ma soprattutto nella cultura odierna. Infine, padre Busa ha accennato ai risultati di due sue ultime ricerche lessicologiche: in primo luogo la classificazione delle parole di Tommaso secondo il loro “tipo e grado di semanticità” (ad esempio, parole “deittiche”, nomi propri di individui, parole che si riferiscono ad oggetti comuni, azioni o aspetti degli oggetti, parole che esprimono concetti astratti e realtà spirituali...); e in secondo luogo l’analisi della loro “struttura morfotematica” (ad esempio: “incommunicabilis” = “-in-” + “_commun-” + “ic-” + “-a-” + “-bil-” + “-is”), per cui i quasi undici milioni di parole dell’Index Thomisticus possono essere ricondotti a poche centinaia di segmenti originari. Parlando da scienziato, Giorgio Salvini ha rilevato come il pregio maggiore dell’opera di padre Busa sia stato quello di attualizzare l’opera di San Tommaso: l’analisi lessicale e la corretta traduzione di alcuni termini “scientifici” adoperati da Tommaso ce lo presentano infatti molto vicino a noi e attuale. Entrando invece nello specifico della ricerca filologica, Alberto Bartòla ha esaminato i lemmi integumentum e involucrum (in connessione a fabula) nella tradizione latina medievale, e in particolare in Alano di Lilla. Grazie al CD-ROM dei Padri latini, elaborato dal CETEDOC di Lovanio, è possibile osservare come queste parole (a prima vista poco rilevanti) esprimano l’atteggiamento dei cristiani nei confronti della cultura e della poesia pagana, bella di fuori, ma povera dentro, a differenza della Scrittura, che disadorna esteriormente è però interiormente dolce. Alla ricerca lessicale e dottrinale su communico, communicatio e gli altri lemmi della famiglia in Tommaso, Andrea Di Maio ha affidato il compito di illustrare il metodo e il procedimento della lessicografia filosofica computerizzata. Il grosso problema della ricostruzione del- le fonti degli autori medievali è stato affrontato da Enzo Portalupi. Distinguendo di ogni parola l’appartenenza al discorso proprio dell’autore, alla citazione letterale o al senso, oppure l’ubicazione, l’Index Thomisticus è uno strumento valido per determinare almeno sommariamente le fonti esplicite ed implicite di Tommaso. Il problema maggiore rimane sempre quello delle citazioni implicite e a senso, per il riconoscimento delle quali si richiederebbe un particolare software in grado di confrontare le somiglianze fra testi. Tra le elaborazioni elettroniche di testi medievali presentate al convegno, Riccardo Quinto ha realizzato un data-base elettronico del catalogo delle questioni teologiche di Stefano Langton: l’uso di particolari codici facilita in questo caso la catalogazione e il riordino delle questioni. Don Tiziano Sterli ha presentato un progetto di correzione, aggiornamento ed elaborazione elettronica della Tabula Aurea di Pietro da Bergamo, il celebre indice delle opere di Tommaso elaborato nel Quattrocento, che, a differenza dell’Index Thomisticus, è concettuale e selettivo, il che ne fa uno strumento di uso immediato, complementare all’Index. Nell’ambito, infine, dell’informatica testuale vera e propria, Franco Antonacci ha annunciato, tra le nuove realizzazioni, la possibilità di realizzare informaticamente un breve estratto significativo di un testo esteso. Anna Labella ha presentato invece i primi risultati ottenuti da un gruppo di lavoro interdisciplinare per l’analisi e la generazione del testo musicale. A titolo di esempio: le diverse “follie di Spagna” composte nel Cinque e Seicento possono essere considerate come derivate da un unico motivo fondamentale (che si comporta come assioma). stituiscono il vertice della piramide. Contro ogni tentazione nominalistica, padre Busa ribadisce che ogni parola ha un significato primo, che poi si allarga in cerchi concentrici, un po’ come se fosse il vertice di un cono. Capire bene il senso di una parola è fondamentale non solo per interpretare e tradurre correttamente un testo, specialmente se molto distante cronologicamente e culturalmente da noi, ma anche per penetrare davvero nei concetti e nel pensiero di un autore. Ad esempio, alcuni ipotizzavano che “comunicare” per Tommaso significasse fondamentalmente “far sapere”; oppure, in altri casi, “dare” o “donare”. Ebbene, analizzando sistematicamente a computer tutte le volte che Tommaso usa il verbo “comunicare”, è stato possibile definirne in maniera davvero induttiva il significato, smentendo quelle ipotesi iniziali, che in realtà proiettavano su Tommaso le nostre moderne precomprensioni. Così troviamo in Tommaso affermazioni interessantissime: ad esempio, che «l’uomo e l’asino comunicano l’animalità» - e in questo caso “comunicare” evidentemente significa “avere in comune”; oppure che «chi dà qualcosa la perde, ma chi comunica qualcosa la mantiene» - e in questo caso “comunicare” vuol dire “rendere comune”, o anche “mettere in comune”. A.Di M. Consulente del governo tunisino per la Concordanza del Corano e di quello norvegese per il regesto della letteratura orale del popolo esquimese, Roberto Busa è l’autore della Thomae Aquinatis Opera Omnia cum Hypertestibus, l’ipertesto su CD-rom in cui è stato riversato l’Index Thomisticus, il censimento lessicologico dell’intera opera di San Tommaso: settantamila pagine, oltre dieci milioni di voci, assemblate in 56 volumi che contengono più di venti milioni di righe. La grandezza dell’impresa di padre Busa sta nell’aver computerizzato quantità enormi di testo in maniera intelligente, fornendo cioè al computer quelle informazioni linguistiche, che nella lettura dei testi vengono presupposte. Con l’aiuto del computer, padre Busa ha “lemmatizzato” e “segmentato” tutte le parole presenti nelle opere di Tommaso (e di qualche altro autore medievale). Da una base di dieci milioni e mezzo di parole, riconducibili a circa centocinquantamila forme diverse, è stato possibile risalire a soli ventimila lemmi, che a loro volta si riducono a poche centinaia di segmenti elementari ed originari, che co- Padre Busa, da cosa è nato il suo interesse per l’informatica? Che cosa l’ha spinta, Lei filosofo e teologo, ad occuparsi di computer? L’interesse è sorto innanzitutto da un’esigenza di carattere pratico e strumentale, legato al lavoro di verifica puntuale e integrale del lessico di San Tommaso. La logica del computer è la stessa dei censimenti e della statistica e quindi si dimostrava perfettamente funzionale alle nostre esigenze. Nel campo della filologia, prima della nascita dei calcolatori, bisognava accontentarsi di campionature; oggi il computer permette censimenti integrali non solo di parole, ma di caratteri, interpunzioni e di qualsiasi altro segno e delle loro distribuzioni combinatorie. Potrei, ad esempio, sapere quante volte tra le 230.000 parole che compongono i Promessi Sposi sono presenti voci con due “zz” consecutive, come gazza, mazza, tazza. Il computer esige e permette un approfondimento delle conoscenze linguistiche, grammaticali e discorsive, ossia una nuova filologia, finora impensabile; quindi un utilizzo intelli- 62 L’impresa dell’informatizzazione dell’opera di San Tommaso è iniziata più di quarant’anni fa. Padre Busa ottenne allora di poter accedere all’elaboratore della prima generazione IBM e di poterlo usare per studiare il linguaggio di San Tommaso. Da quel 1949, non c’è stata generazione di supporto informatico al quale padre Busa non abbia sottoposto la sua opera. Su questa impresa Eddy Carli ha intervistato padre Roberto Busa. CONVEGNI E SEMINARI San Tommaso d’Acquino 63 CONVEGNI E SEMINARI gente della macchina non deve limitarsi a velocizzare le operazioni, ma portare ad approfondire ed estendere metodi e conoscenze; non diminuisce la quantità di lavoro umano, ma lo esalta. Se da un lato il mio rapporto con le macchine è strumentale, vi è tuttavia un legame profondo con la filosofia. Il punto di contatto è questo: se per filosofia intendiamo l’andare a fondo delle radici del pensare, per conoscere come pensiamo dobbiamo analizzare come parliamo, perché nessuna scienza può essere fondata sull’introspezione personale individuale, ma va fondata su una introspezione sociale, collettiva, controllabile. Questo significa che per studiare il pensiero bisogna studiare il linguaggio nella comunicazione sociale: in questo il computer è uno strumento fondamentale, poiché consente di investire le energie intellettuali in operazioni sofisticate, a livello decisionale. Il rapporto con il calcolatore implica poi il rapporto con la matematica, con il numero, da sempre elemento essenziale della realtà. Il riassunto della teologia trinitaria cattolica si riassume in questi cinque numeri: 1. natura; 2. generationes (o processiones); 3. personae; 4. relationes; 5. notiones. Gran parte del Suo lavoro di ricerca è incentrato sulle concordanze linguistiche. La Sua vastissima catalogazione del lessico di San Tommaso è basata sulle concordanze. Ci può dire di che cosa si tratta? Noi parliamo prima con frasi, che con parole; l’unità elementare del discorso è la frase e non la singola parola. Le parole assumono vari significati o livelli di significato a seconda della frase. Se io dico: «La vecchia porta», non so ancora se intendo il vecchio uscio o invece che la vecchierella arreca. Se aggiungo: «La vecchia porta di casa»; oppure, «La vecchia porta in casa le bottiglie del latte» il significato muta completamente. Ogni parola singola acquista significati diversi se inserita in una frase. La concordanza è una parola che ha vari significati: in grammatica è la concordanza dei generi delle persone; in filologia è un documento di studio. Per esempio, nella Divina Commedia posso dare di ogni diversa parola, uno dopo l’altro, tutti i versi che concordano nel contenerla: ogni verso rappresenta un abito diverso della parola. Le concordanze hanno cominciato ad essere eseguite su schede, ancor prima dell’invenzione della stampa, e richiedevano anni di lavoro paziente. Oggi, con il computer, sono “relativamente” facili, sicuramente più veloci, ma non meno complesse. Qual è la Sua posizione riguardo all’attuale dibattito sull’intelligenza artificiale? Che cosa ne pensa dei tentativi di creare macchine capaci di pensare, di avere coscienza e sentimenti? Sono un entusiasta dell’Intelligenza artificiale; intesa però come settore specifico dell’informatica e non come progettazio- ne di cervelli e menti fantascientifici. Parto semplicemente dal rilievo che il rapporto uomo-macchina è il rapporto autoreopera: la macchina è espressione dell’uomo. L’autore è quello a cui è venuta l’idea nella sua mente; tale idea viene poi sviluppata passando dalla prima intuizione macroscopica all’analisi dettagliata di tutti i suoi componenti e passaggi esecutivi. Nel caso dell’intelligenza artificiale, per delegare alla macchina una parte delle proprie funzioni, l’uomo deve prima di tutto conoscere come esegue queste sue proprie funzioni; le deve analizzare passo passo, formalizzarle in algoritmi per computer e quindi “bytizzarle”. Ossia, per far funzionare il computer in modo veramente intelligente, l’uomo deve prima conoscere se stesso. Io personalmente considero questa parte dell’informatica, l’intelligenza artificiale, un nuovo settore di interiorità e di umanesimo: è l’uomo che mette in pratica ciò che era scritto sul tempio di Delfi, «Conosci te stesso!». Riguardo all’Intelligenza artificiale, il problema è solamente un problema di uso delle parole: intenzionalità, coscienza, interiorità sono termini che si equivalgono, e riferirli alla macchina è semplicemente assurdo. Sono caratteristiche umane; e porre la questione di un’intelligenza originaria del calcolatore non ha senso; sarebbe come dire che un figlio mette al mondo il proprio padre. La macchina è opera dell’uomo per definizione; ciò che non è opera dell’uomo sono i segni dell’uomo. Proprio perché è un’opera umana altamente sofisticata, il calcolatore, per essere ottimizzato nelle sue funzioni, richiede una conoscenza adeguata. Più la macchina è sofisticata, maggiori sono le conoscenze di cui dobbiamo disporre. Sembra che i computer facciano tutto da soli; ma è affatto diverso. Interpretazioni dello storicismo Definire criticamente oggetto e metodologia dello storicismo, individuandone le intersezioni teoriche con altre regioni filosofiche, è stato il tema di un incontro, presieduto da Hans Georg Gadamer, svoltosi a Napoli il 22 febbraio 1994 nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici con la partecipazione di Franco Bianco, Aldo Masullo, Giuliano Marini, Fulvio Tessitore. Occasione dell’incontro è stata la presentazione di due recenti studi: STORICISMO PROBLEMATICO E METO DO CRITICO (Guida Editore, Napoli 1993), di Giuseppe Cacciatore, e L’ECCEDENZA DEL PASSATO. PER UNO STORICISMO ESISTENZIALE (Morano, Napoli 1993), di Giuseppe Cantillo. Introducendo alla discussione, Hans Georg Gadamer ha sottolineato la conti64 guità teorica e problematica della filosofia napoletana con lo storicismo tedesco. A sua volta Franco Bianco, nel puntualizzare questo aspetto comune, ha fatto riferimento alla tradizione napoletana da Vico a Croce, sino alla riflessione contemporanea di Piovani. Proprio a quest’ultimo, ha osservato Bianco, è fedele Giuseppe Cantillo, che nel suo L’eccedenza del passato sperimenta il tentativo di raccordare i temi della riflessione storicista a Jaspers e all’Exsistenz-philosophie attraverso la figura di Ernst Troeltsch. La problematicità dello storicismo, il suo valore critico non conclusivo è del resto il nucleo fondamentale anche della lettura di Giuseppe Cacciatore, che in Storicismo problematico e metodo critico, pone l’accento sull’inesauribilità della vita, sull’ultima incompresibilità della stessa, delineando così un panorama aporetico della ricerca. Lo studio di Cacciatore intende dare concreta oggettivazione teorica a quel lavoro di «ripensamento della Weltanschauung storicistica in chiave critico-problematica» che «pur (...) senza altisonanti movenze, ha segnato un momento non secondario della cultura filosofica e storiografica di questa seconda metà di secolo e che ha trovato a Napoli e nella sua facoltà filosofica il maggior punto di irradiamento e radicamento». S’intende quello storicismo «nato dal tronco del cosiddetto kantismo “eterodosso”, forgiatosi nell’antropologia storica di Humboldt e nell’etica ermeneutica di Schleiermacher, sviluppatosi nella filosofia e gnoseologia diltheyana delle scienze dello spirito, autocriticamente ripensato e riformulato nella “logica materiale della storia” di Troeltsch» così come nella filosofia cassireriana delle forme simbolico-culturali. E’ appunto questa «grande costellazione di filosofi storici e filologi che costituisce lo scenario entro cui si definiscono le linee storiche e le coordinate teoretiche di quello che...Pietro Piovani prima e Fulvio Tessitore poi hanno chiamato “storicismo critico-problematico”». Il termine di storicismo critico-problematico intende caratterizzare ad un tempo la sostanza storico-problematica ed il metodo critico-conoscitivo di quella opzione teorica che si è venuta in questi anni configurando come il lavoro filosofico-storiografico peculiare di quella dimensione dello storicismo che «considera il mondo storico dell’uomo in una direzione antimetafisica e antiontologica che pone al centro i temi del linguaggio, della comprensione, della cultura», e dunque trova il suo centro propulsore più proprio nel ripensamento tanto della costitutiva finitezza dell’esistenza storica e delle forme della sua autocomprensione, quanto di quella della prassi umana e del suo tentativo di autodestinazione etica. Sulla centralità del tema diltheyano dell’Erlebnis nello studio di Cacciatore è intervenuto Giuliano Narini, che ha puntualizzato come, tra Hegel e Bloch, proprio CONVEGNI E SEMINARI Dilthey rappresenti la prospettiva teorica della conciliazione fra forme e vita. Nello scritto di Cantillo, invece, l’attenzione è centrata intorno al tema dell’Erleben religioso, che diventa il presupposto teorico tanto in Schleiermacher, quanto in Troeltsch, per l’elaborazione di una teoria del comprendere storico. Richiamandosi al pensiero di Cantimori, Aldo Masullo ha sottolineato la “laicità” delle opere di Cacciatore e Cantillo. E se in Cacciatore la questione dell’intersoggettività e dello scambio - anche linguistico - è fondamentale per delineare pure la sintesi dell’individualità vivente nella storia e di quella che invece “comprende” l’accaduto, in Cantillo l’analisi troeltscheana della dimensione religiosa tende a mostrare l’incompletezza dell’esperienza umana, che, naturalmente, tende al trascendimento. Cantillo, ha poi puntualizzato Masullo, individua nell’eccedenza del passato propria dell’analisi storicista il punto di ulteriorità della dimensione umana rispetto al tentativo teorico di “comprensione”: la consapevolezza del limite entro il quale mi muovo lascia intravedere l’esistenza di qualcosa che è Altro-da-me. In questa dimensione interpretativa, che dichiara la sua stretta filiazione della tematica dell’Exsistenz-philosophie, si colloca, d’altra parte, lo studio di Francesco Miano, Etica e Storia in Karl Jaspers (Loffredo, Napoli 1993), che trae dalla lezione di Cantillo i termini per sviluppare un’analisi del pensiero di Jaspers, nella prospettiva del rapporto tra il singolo e la multiforme fenomenologia delle situazioni che fanno la storia. Nel progetto di un’etica che si amplii in storia, come insegnava Droysen, Miano vede dunque il luogo di convergenza fra l’ipotesi “semplicemente” storicista e quella esistenzialista. Nel suo intervento, Fulvio Tessitore, pur manifestando il suo consenso riguardo all’esercizio critico affrontato dalle opere di Cacciatore e Cantillo, ha tuttavia espresso un lieve dissenso riguardo alle proposte interpretative dei due autori, sottolineando come lo storicismo non sia solo metodo, ma anche congedo da ogni metafisica dell’ontologia. M.P.R. Capire la filosofia Nel mese di marzo 1994, si è svolto alla Casa della Cultura di Milano un dialogo tra Mario Vegetti e Fulvio Papi, in occasione della presentazione del volume: CAPIRE LA FILOSOFIA (Ibis, Milano 1994). Quest’opera recente di Fulvio Papi ci propone una riflessione sull’essenza della pratica filosofica, sulle sue modalità di accesso, nella forma di un’articolata esemplificazione della pratica medesima, di una vera e propria messa in opera del “fare filosofia”. Introducendo il dibattito, Mario Vegetti ha attribuito all’opera di Fulvio Papi caratteristiche di “levità”, “chiarezza” e “severità”, individuando nell’opera due linee tematiche. La prima riguarda il carattere “aristocratico” della filosofia: la filosofia non è un sapere pubblico; non è sottoposta al senso comune, né consiste in una pratica accessibile a tutti. Secondo Vegetti, nella visione della filosofia proposta da Papi, due sono gli elementi richiesti: quello “platonico”, cioè il desiderio e la passione per il sapere, e quello “aristotelico”, cioè la dedizione al “mestiere” della filosofia. Ciò che separa la gran parte degli uomini dalla filosofia è un ostacolo di natura morale; che può estrinsecarsi, a livello di tratto caratteriale dominante nell’individuo, come sicurezza e fiducia nell’esistente, come ricerca dell’utile immediato, ma anche, all’opposto, come debolezza psicologica, incapacità di sopportare e padroneggiare contraddizioni e asperità del reale. A questi tratti vengono fatti corrispondere dei tipi antropologici, che hanno in comune tra loro la mancanza di ciò che vien sempre richiesto per l’esercizio della filosofia: il senso di incompiutezza della propria esperienza di vita. Una seconda tematica, presente nel testo di Papi, ha proseguito Vegetti, riguarda la questione dell’utilità della filosofia, che la filosofia rovescia nella domanda su ciò che è veramente utile, sui fini dell’esistenza e, conseguentemente, su ciò che si ritiene essenziale per un’esistenza compiutamente umana. I tipi psicologici che mostrano la loro inadeguatezza a porre la domanda filosofica pervengono in questo caso a una risposta che, per motivi differenti, conclude a un’inutilità della filosofia nel risolvere i “veri problemi della vita”; caratteristica comune di questi tipi consiste, infatti, nel manifestarsi in atteggiamenti immediatistici, spontanei, “naturali” nei confronti dell’esistente, laddove la filosofia nasce proprio dallo spaesamento nei confronti di esso, ed è finalizzata a una ricostruzione del senso dell’esistenza. Per Papi, ha rilevato Vegetti, l’esercizio filosofico è dunque “necessario”, in quanto “moralmente” cogente. Tuttavia, l’universalizzazione che questa affermazione comporta, sembra generare un’aporìa: anche se la filosofia non è “da tutti”, essa tende a una dimensione intersoggettiva, rivendica a sé una validità “per tutti”. E’ la filosofia stessa, ha ribattuto Fulvio Papi, a esplicitare il fatto di non essere “da tutti”. La “severità” della filosofia, il suo carattere aristocratico, non pertengono a una decisione del filosofo, né del critico, bensì risiedono nella “cosa stessa”: è la filosofia a punire, inesorabilmente, atteggiamenti narcisistici, o di debolezza, nei confronti dell’esistente, e a richiedere dedizione. Il carattere moralmente necessitante, richiamato da Vegetti, consiste, secondo Papi, tanto nella capacità di autoorganizzazione del pensiero in quanto “con65 figurazione di mondo”, quanto nella forza con la quale un pensiero “ben costruito” penetra nel mondo configurato. E’ a questo punto, ha sostenuto Papi, che entra in gioco la dimensione di universalità, d’interesse “per tutti”, per il mondo, proprio dell’esercizio filosofico, laddove il carattere di esercizio della filosofia non è un dono, bensì una conquista, cioè una prassi. In virtù di questo aspetto, il filosofo ha con la filosofia un impegno e una responsabilità, consistenti nel patto contratto con l’oggetto della sua attività. Per questo la filosofia si definisce «come l’incontro di due esigenze, una che nasce da un particolare “desiderio”, la seconda che appartiene alla chiamata che compie l’oggetto filosofico nei nostri confronti». Ma dove s’incontra l’oggetto filosofico si è chiesto Papi? In primo luogo sui testi: non esiste comprensione filosofica che non sia comprensione di testi. La questione della “difficoltà” della scrittura filosofica va collocata nella sua giusta prospettiva: quella di un lessico specializzato, che è però indispensabile, stante la specificità delle questioni affrontate. Ogni domanda filosofica sorge, infatti, da un desiderio esistenziale, ma non tutti i bisogni esistenziali danno luogo a domande filosofiche. Proprio per questo il lessico specializzato si rivela anche come la strada più economica per giungere alla comprensione del problema in gioco, che in filosofia si esprime comunemente attraverso la concettualizzazione. E’ vero, infatti, che esistono testi filosofici in cui il legame tra problema e concetto, “il lavoro del concetto”, risulta meno evidente; anche se dal punto di vista di un “apprendistato filosofico”, ha osservato Papi, è tuttavia preferibile avviare la propria formazione su quei testi nei quali il concetto assume in modo più palese il proprio compito ostensivo nei confronti del problema, dando luogo a una configurazione testuale, che ne mostri le possibili articolazioni. Nell’avvicinamento al problema, attraverso l’esibizione operata dal concetto, cioè nell’incontro col testo, si fa esperienza del confronto con un’alterità, che si riconosce come identità con sé nel divenire della pratica di comprensione del problema. In questo esercizio filosofico, ha ricordato Papi, il carattere necessitante, quasi costrittivo, della filosofia viene realizzato anche attraverso il confronto con i “compagni di strada”, colleghi e allievi. Intervenendo nel dibattito, Silvia Vegetti Finzi ha richiamato il parallelismo, istituito da Freud, tra le domande del bambino e quelle della filosofia. Almeno in via iniziale, la filosofia nasce come “da tutti”; sorge quindi il sospetto, nel passaggio da una filosofia “da tutti” a una filosofia “per tutti”, del “sequestro” della riflessione filosofica da parte di coloro che la praticano come mestiere. Citando, ma non sottoscrivendo, una possibile risposta rousseauiana (per cui sarebbe la società, e non i filosofi, a far perdere, CONVEGNI E SEMINARI nella maggior parte degli uomini, il carattere originariamente filosofico delle loro domande esistenziali), Papi si è detto convinto che la questione non si ponga assolutamente su questo piano. Almeno da Kant in poi, ogni domanda filosofica subisce infatti un raddoppiamento della domanda medesima con il suo senso, il suo telos; ciò esclude, in via di principio, il carattere immediato, “naturale”, delle questioni filosofiche, che pertiene invece alle domande dei bambini. Per questo effetto di raddoppiamento, in cui si genera il problema del senso, in ciascuna domanda filosofica vive - caso unico fra i saperi umani - la filosofia nella sua interezza: in ogni problema la filosofia si mette in gioco nella sua totalità. F.C. Foucault: archeologia dei saperi Nel mese di novembre 1993 si è tenuto, presso l’Istituto Filosofico “Aloisianum” di Gallarate, un seminario dedicato a Michel Foucault, organizzato e diretto da Ubaldo Fadini e Adelino Zanini, sul tema: “ARCHEOLOGIA DEI SAPERI. PRODUZIONE DI SOGGETTIVITÀ E FORME DI RAZIONALITÀ”, che ha inteso attraversare le diverse prospettive dell’universo foucaultiano. La relazione di Chiara Di Marco (“Discontinuità storiche e decentramento del soggetto. La piega del fuori”) si è incentrata sul rapporto fra l’uomo e l’umano, ovvero sull’ “antiumanesimo” foucaultiano. La decostruzione del soggetto, operata dalla genealogia, si orienta in Michel Foucault verso la domanda su come gli uomini siano diventati soggetti e, ancor più, su come si sia passati dal soggetto all’individuo. Secondo Di Marco, l’oltrepassamento dell’individualità si profila, in Foucault, come una pratica di liberazione del soggetto: l’ “ontologia”, alla quale in questo modo si pone capo, rinuncia alla questione veritativa, per sostituirla con quella relativa alle pratiche di costruzione del Sé. L’ “analitica della finitudine”, che emerge dalla trattazione foucaultiana, fa perno su ciò che si trova “nel cuore stesso dell’empiricità”: il corpo. Sulla base della controversia tra Derrida e Foucault, Claudia Dovolich (“Il dibattito fra Derrida e Foucault sulla funzione epistemologica della follia”) si è occupata della datazione di istituzione ed esclusione della follia da parte della ragione. Porsi la domanda sul “quando” dell’istituirsi della categoria della follia, nonché della costruzione, logica e materiale, dei recinti per circoscriverla, significa porsi la domanda sul cadere o meno nella storia del suo inizio; ovvero, sul darsi o meno, nel passato, di un periodo in cui tale istituzione non esisteva ancora. Judith Revel (“Foucault e il pensiero maledetto: Nietzsche, Bataille, Blanchot”) ha invece indagato l’eredità nietzscheana presente in Foucault, che fondamentalmente cerca in Nietzsche quegli elementi per liberare il dibattito filosofico dalle impasses nelle quali lo avevano gettato, alla fine degli anni Settanta, le polemiche fra marxismo, strutturalismo e psicanalisi. Secondo Revel, l’eredità nietzscheana in Foucault va cercata anzitutto nella polemica contro lo hegelismo, da un lato, e in quella contro la fenomenologia di Sartre e Merleau-Ponty dall’altro. Influssi di una tale eredità si possono rintracciare nel rifiuto di una verità sostanzialistica e astorica del soggetto e nell’interesse per la corporeità. In Foucault, la lettura di Nietzsche, di Blanchot e di Bataille interagiscono sulla questione della trasgressione: l’originalità dell’impostazione foucaultiana consiste nell’aver saputo mettere in luce, nello stesso tempo, in che misura ogni trasgressione nasca dal limite della situazione che essa denuncia, e come essa possa emanciparsi dalla denuncia, e dalla situazione medesima. Il corso di lezioni foucaultiane dedicate all’assolutismo è stato il tema della relazione di Valerio Marchetti (“L’educazione del principe di Borgogna: la guerra delle razze”), che ha rilevato come Foucault insista su due punti: la natura del sapere del Principe (il principe di Borgogna, nipote di Luigi XIV ed erede al trono, era il capo dell’opposizione aristocratica feudalista all’assolutismo regio), e la denigrazione della guerra, parallelamente all’esaltazione della rivoluzione da parte del proletariato. Secondo Foucault, relativamente al complesso della realtà sociale ed economica sul quale si esercita la propria sovranità, il principe, ovvero il potere politico, non sa nulla di più di ciò che il proprio apparato amministrativo gli indica. In queste condizioni, per l’opposizione risulta necessario colpire non il potere politico, bensì influire sul potere (e sul sapere) degli intendenti. Sempre in riferimento alle lezioni foucaltiane, Mauro Bertani (“Sul liberalismo”) ha invece rilevato che il liberalismo appare in Foucault come un insieme di prassi, un modello di razionalità. La sua ratio governamentale rappresenta uno strumento, che si evolve, però, in criterio: la giurisprudenza rimuove il diritto. Nelle analisi foucaultiane, l’elemento principale del progetto di governo del liberalismo è, in realtà, lo strumento repressivo. Alla questione del rapporto fra sapere della genealogia e genealogia del sapere si è rivolto Mario Piccinini (“Il logos dell’arché: genealogia e concetto. A proposito de Les mots et les choses”). Relativamente alla questione del sapere, in Foucault il problema dell’episteme impone di pervenire a una considerazione non riflessivistica, bensì strutturale del concetto. In tal senso, il campo semantico del concetto 66 viene mutato attraverso il suo inquadramento in un orizzonte diverso da quello di partenza. Ciò fa però emergere il problema di interpretare la nozione di “campo semantico” in prospettiva storica, non storicista, evitando di considerare le trasformazioni epistemiche alla stregua di evoluzioni della concettualizzazione. Emerge qui, ha sostenuto nel suo intervento Adelino Zanini, la questione della rappresentazione. Il rifiuto della concettualizzazione dell’episteme (in quanto l’episteme rappresenta la condizione di possibilità della concettualizzazione), nonché il tentativo per una caratterizzazione non riflessivistica del concetto, e non storicista del trapasso da una forma di episteme all’altra, rinviano, entrambi, alla medesima questione, quella relativa a una caratterizzazione “originaria” della rappresentazione, che non va però confusa con la ricerca dell’origine: la specificità del sapere epistemico, e quindi anche del trapasso da un’episteme all’altra, consiste, infatti, nel suo carattere genealogico, in quanto differenziato da quello di originarietà. Giorgio Patrizi (“Forma letteraria e soggettività”) è intervenuto in merito al ruolo del soggetto nel contesto della creazione letteraria. Foucault decostruisce l’autore in quanto soggetto, per leggerlo come effetto di pratiche di legittimazione. Il filone della cultura letteraria francese, che fornisce a Foucault gli strumenti per la sua analisi, si riassume nella figura di Maurice Blanchot, che coniuga lo heideggerismo con la cultura ebraica nel tentativo, analogo a quello intrapreso da Levinas, di uscire dall’ontologizzazione attraverso il continuo rinvio all’ “altro”. Si tratta, attraverso il pensiero del “di fuori”, di sottrarre il soggetto a ogni possibile “ontologia dell’origine”. Intervenendo sulla questione, Ubaldo Fadini ha ripreso e connesso il pensiero del “di fuori”, il tema del rifiuto della nozione di “origine” e la polemica contro la “profondità”. Il pensiero dell’esodo, nel suo connettersi inscindibilmente, come pensiero del “di fuori”, allo sguardo “di dentro”, mette in discussione la nozione di origine, che si accosta rischiosamente all’ipostatizzazione di un momento storico determinato. La rivendicazione del metodo genealogico rappresenta in Foucault il rifiuto di un’impostazione siffatta, e si connette alla polemica contro la profondità, in quanto rivendica l’affrancamento dall’obbligo di cercare, in un “al di là” di stampo metafisico, il fondamento dell’ “al di qua”. Nel suo intervento, Tiziana Villani (“Il problema della cura: percorsi di verità e strategie di potere”) ha preso le mosse dall’approccio metodologico di Foucault nei confronti del rapporto tra soggetto e oggetto. Lo spazio della realtà si configura, nella prospettiva foucaultiana, come un reticolo di relazioni che estrinsecano la manifestazione del potere, rivelando la sua pervasività, il suo articolarsi in una CONVEGNI E SEMINARI Michel Foucault “microfisica”. A partire da questo quadro generale, l’approccio di Foucault al problema della “cura” rivela la sua autonomia e la sua specificità nei confronti, per esempio, di quello di Heidegger, realizzandosi nel legame con la pratica dell’ascetismo e con le sue valenze politiche, attraverso l’ascolto dell’oracolo. La pratica ascetica si colloca in una dimensione sapienzale e rappresenta la messa in pratica dell’ascolto come forma di pietas, come “prendersi cura” dell’altro. Con un esplicito richiamo a Merleau-Ponty, questa pratica è resa possibile dal corpo, quel neutro che costituisce il medium della cura. Situare la riflessione foucaultiana nel contesto di alcune tendenze del pensiero contemporaneo è stato l’intento di Pierre Dalla Vigna (“L’elemento sfuggente: poteri e strategie in Foucault”). Secondo Dalla Vigna, esistono due atteggiamenti, che permettono di misurare il valore della teoria foucaultiana del potere. Il primo è quello “neognostico”, caratterizzato da una visione del mondo, con ascendenze nietzscheane, come luogo della compiuta pec67 caminosità, che deve essere salvato dal piccolo gruppo degli eletti, dei puri. Il secondo atteggiamento, che Dalla Vigna definisce “neocinico”, dichiara invece l’impotenza del pensiero e l’accettazione dell’esistente così come esso si presenta. Contro l’uno e contro l’altro atteggiamento, la foucaultiana “microfisica del potere”, che sottolinea il carattere diffuso e pervasivo di quest’ultimo, comporta la possibilità e la necessità di un’opposizione radicale all’esistente, che non ha come obiettivo nessun potere centralizzato. F.C. CALENDARIO La Fondazione Collegio San Carlo ha organizzato a Modena dal 15 al 21 settembre 1994 il Quarto Corso di Studi Superiori su: Rappresentazio- CALENDARIO ni sociali e identità nella teoria sociale e psicosociale, tenuto da S. Moscovici e A. Pizzorno. Il 17 settembre 1994, W. Doise è intervenuto sul tema: Le rappresentazioni sociali dei diritti umani. Il Centro Studi Religiosi della Fondazione San Carlo organizza da ottobre a dicembre 1994 un ciclo di seminari su: Il viaggio di Giona. Effetti di senso di una figura biblica. Questo il calendario degli incontri: 10 ottobre, P. Lombardini: “Giona, ovvero la difficoltà dell’essere ebreo. Per un primo approccio al testo”; 7 novembre, A. Bodrato: “Parmenide e Giona”; 23 novembre, G. Limetani: “La lettura ebraica di Giona”; 5 dicembre, M. Gay: “Il compito di Giona. Una lettura psicoanalitica”; 12 dicembre, M. E. Notari: “Gli effetti artistici del libro di Giona”. ● Informazioni: Fondazione Collegio San Carlo, via San Carlo 5, 41100 Modena, tel. 059/222315. In occasione del secondo centenario della pubblicazione dello scritto di Kant: Sulla pace perpetua, la Società Italiana di Studi Kantiani ha organizzato il 30 settembre 1994, presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, il convegno di studi: Kant politico. Qui di seguito i relatori e i temi di discussione: G. Marini: “Il diritto cosmopolitico nel progetto kantiano per la pace perpetua con particolare riferimento al secondo articolo definitivo”; M. Mori: “Pace perpetua e pluralità degli stati in Kant”; C. Cesa: “Quale storia per la pace perpetua”. ● Informazioni: Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze Umane, via Magenta 5, 00185 Roma, tel. 06/491632. Il Centro Studi “Romolo Murri” organizza nei giorni 1 e 2 ottobre 1994 al Teatro Comunale di Gualdo due Giornate di Studi su Romolo Murri. Intervengono: A. Botti: “Romolo Murri e Mario Missiroli”; S. Trincia: “Il socialismo di Murri”; O. Rossi: “L’estetica murriana”; G. Campanini: “I cattolici e l’idea di partito: da ‘I propositi...’ di Murri al discorso di Caltagirone di Sturzo; F. Mignini: “Il messaggio cristiano e la storia”. Partecipano all’incontro: A. D’Angelo, R. Morresi, E. Rambaldi e N. Raponi. ● Informazioni: Centro Studi “Romolo Murri”, via Dante Alighieri 6, Gualdo (Macerata), tel. 0733/668496. Patrocinato e organizzato dall’Amministrazione Provinciale di Como, dall’Angelicum Mondo X, dall’Università degli Studi di Milano, dall’International School of Plasma Physics “Piero Caldirola” e dalla Commission of European Communities, si tiene dal 2 al 6 ottobre 1994 presso il Teatro Angelicum di Milano e la Villa Monastero di Varenna, un convegno internazionale su: Terzo millennio. L’uo- mo, i limiti e la speranza. Interven- the avatars of rationality”; G. Toraldo di Francia: “L’età della saturazione”; S. Acquavia: “Progettare la felicità: scienze dell’uomo e progetto politico”; J. Jacobelli: “La televisione, quinto cavaliere dell’Apocalisse?”. 6 ottobre, G. Basetti-Sani: “Uno sguardo cristiano sul Corano e il mondo musulmano”; T.Y.S. Lama Gangchen: “Luce da Oriente”; S. W. Pallavicini: “La conoscenza divina quale scopo dell’esistenza umana”; G. Laras: “L’uomo tra potenza e fragilità”; M. Barbetta: “La scoperta come passione degna della grandezza dell’uomo”. ● Informazioni: Amministrazione Provinciale di Como via Borgo Vico 148, 22100 Como, tel. 031/ 230275; Angelicum Mondo X, p.za S. Angelo 2, 20121 Milano, tel. 02/206366. gono: 2 ottobre, G. Giorello: “Alla fine di un Millennio: tra senso e verità”; M. Cacciari: “Terzo Millennio: l’Uomo, i Limiti e la Speranza. 3 ottobre G. Salvini: “Fame, povertà, guerra: il contributo della Scienza alla pace - VII Amaldi Conference in Varsavia”; E. Agazzi: “Razionalità scientifica e significato dell’esistenza”; R. Vlad: “La musica tra scienza e umanesimo”; G. Coyne: “Quattro tappe principali dei rapporti scienza-fede negli ultimi tre secoli”; E. Severino: “Verità e tecnica”; G. Giorello - B. Sassoli: “Was ist der Mensch? La domanda kantiana tra oggettività e soggettività”; C. Sini: “L’uomo e la ‘ragione destinata’ “; G. Reale: “Sette mali dell’uomo contemporaneo: messaggi terapeutici del pensiero dei greci”; M. Mamiani: “Newton e l’Apocalisse: certezza ermeneutica e metodo scientifico”. 4 ottobre: R. Dulbecco: “Ruolo dei geni e dell’ambiente nel determinare le caratteristiche dell’uomo”; A. Oliviero: “Sviluppi della biologia e persona umana”; R. Gallo: “AIDS: in the next Millennium can we control the Virus?”; P. Davies: “The Emergence of Mind in the Cosmos”; J. Barrow: “The Limits of Human Knowledge”; E. Teller: “A Millennium of Progress for Better or for Worse”; R. A. Ricci: “Conoscenza e cultura: valori e limiti della ricerca scientifica”; P. Fasella: “Scientific literacy and bioethics: trends in Europe”; G. Corna Pellegrini: “La Lombardia verso il terzo Millennio: scrutando con ironia le tendenze di una geografia in rapida evoluzione”; E. Bianchi: “Rischio e complessità ambientale”; E. Macorini: “Imparare il futuro: metodi e strumenti per l’informazione”; G. Degli Antoni: “Etica per le tecnologie dell’informazione del terzo Millennio”; 5 ottobre: G. Caglioti: “Estetica e sue radici scientifiche”; M. Romano: “Fino a che punto le innovazioni tecniche possono modificare il senso della città come opera d’arte?”; L. Caramel: “Il destino dell’arte come atto e progetto di vita nel futuro prossimo Millennio”; G. Pontecorvo: “Rapporto tra immagine sonora e immagine visiva nel cinema”; C. Lizzani: “Per una ecologia delle immagini”; E. Bianchi: “Le religioni: strumento di guerra o di pace?”; L. Wood: “Will man wish to prevail?”; V. Andreoli: “Il futuro della violenza come futuro dell’uomo”; H. Atlan: “Science and mystical lores: In occasione della pubblicazione del libro di Enzo Paci: Ingens Sylva (Bompiani, Milano 1994), il giorno 18 ottobre 1994, la Casa della Cultura di Milano organizza un incontro su: Enzo Paci: interprete di Vico. Intervengono: F. Papi, P. A. Rovatti, C. Sini e V. Vitiello. La Casa della Cultura di Milano organizza inoltre, da ottobre a dicembre 1994, una serie di incontri sul tema: Il pensiero della natura. Filosofie dell’Ottocento e del Novecento. Qui di seguito il calendario e i relatori: 20 ottobre, M Ceruti: “Storia della natura e natura della storia”; 27 ottobre, F. Moiso: “La filosofia della natura in Schelling”; 3 novembre, S. Natoli: “La natura nella filosofia di Schopenhauer”; 10 novembre, F. Mondella: “La filosofia della natura nel positivismo”; 17 novembre, G. Semerari: “Heidegger: tecnica e natura”; 24 novembre, S. Sini: “Galileo, Husserl e l’immagine della natura”; 1 dicembre, F. Papi e L. Vanzago: “Whitehead: la natura come processo”. ● Informazioni: Casa della Cultura, via Borgogna 3 Milano, tel. 02/795567. In occasione del cinquantenario della morte di Giovanni Gentile, l’Assessorato regionale Beni culturali e il Comune di Castelvetrano, in collaborazione con l’Istituto di Filosofia dell’Università di Palermo, organizzano dal 20 al 22 ottobre 1994 a Castelvetrano un convegno su: Idealismo della filosofia ed esperienza storica. Questo il programma: 20 ottobre, N. 68 Grimaldi: “Le principe d’inquiétude”; X. Tilliette: “La douleur du fini dans l’idéalisme allemande”. 21 ottobre, E. Moutsopoulos: “La liberté immanence de la transcendance”; L. Malusa: “I ‘ritmi’ della filosofia italiana in Gentile: libertà e religione da Rosmini all’hegelismo di Spaventa”; R. Alvira: “Essenza della filosofia”; A. Moscato: “Quando il divino fa tutt’uno con l’umano. Nove critiche su Giovanni Gentile”. ● Informazioni: Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo, tel 091/4265595. Organizzato dall’Assessorato per le Risorse Culturali e la Comunicazione di Torino, in collaborazione con il Goethe-Institut di Torino, nei giorni 21 e 22 ottobre 1994 avrà luogo, nella sala conferenze della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, il convegno: Sogno e industria a partire da Walter Benjamin. Qui di seguito i relatori e i temi degli interventi: 21 ottobre, U. Perone: “Soglie, l’altro mondo a casa propria”; S. BuckMorss: “La città come mondo di sogno industriale e catastrofe naturale: un testamento benjaminiano”; F. Remotti: “Da Walter Benjamin all’antropologia culturale. Uno sguardo a ritroso sulla modernità”; L. Burckhardt: “Le esposizioni, i parchi, l’effimero. La fine dell’architettura nell’Ottocento e la sua rinascita nelle follies”; G. Schiavoni: “Benjamin e la città labirinto. Forme di una `infanzia berlinese’”; 22 ottobre, N. Zapponi: “I refrattari alla modernità: Cesare Lombroso e Walter Benjamin”; A. Romano: “Il flâneur all’inferno: Walter Benjamin e lo spazio infelice”; E. Zolla: “Le alterazioni della coscienza”; R. Bodei: “I confini del sogno. Fantasie e immagini oniriche in Benjamin”. ● Informazioni: Assessorato per le Risorse Culturali e la Comunicazione, p.za San Carlo 161, 10123 Torino, tel. 011/57653705. Organizzato dal Centro Internazionale di Studi Semiotici e Cognitivi, dal 21 al 23 ottobre 1994, presso l’Università degli Studi di San Marino, ha luogo il XXII Convegno dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici sul tema: La comunicazione. Questo il calendario degli incontri: 21 ottobre, T. De Mauro: “Senza semiotica niente sinetica. Ovvero, presupposti semiotici della comprensione linguistica”; M. Mizzau: “Funzioni della comunicazione”; F. Celada: “La soglia inferiore della comunicazione: la cooperazione tra cellule nel sistema immunitario”. 22 ottobre, V. Codeluppi: “Il senso della merce”; G. Bettetini: “La personal TV”; M. Wolf: “Aspetti sociologici della comunicazione”; J. Sassoon: “Comunicazione, retorica, creatività”; U. Eco: “Da Shannon e Weawer a oggi”. 23 ottobre, Tavola rotonda sui corsi di laurea in Scienze della comunicazione; partecipano: A. Abruzzese, S. Bagnara, G. Caprettini e A. Elia. ● Informazioni: Segreteria dell’Università di San Marino, Contra- CALENDARIO CALENDARIO da Omerelli 77, 47031 San Marino, tel: 0549/882516. Presso l’Istituto Filosofico “Aloisianum” di Gallarate, il 29 e 30 ottobre 1994 si terrà il V Incontro annuale di studi del Seminario Permanente di Teoria Critica sul tema: Tipi di argomentazione. Questo il calendario degli interventi: 29 ottobre, P. Zecchinato: “Confutazione, libertà, oggettivismo”; S. Petrucciani: “L’argomentazione confutativa nella prospettiva trascendentalpragmatica”; L. Cortella: “Dialettica e argomentazione”; F. Rigotti: “Retorica, metaforica, argomentazione”. 30 ottobre, A. Ferrara: “Per una teoria dell’autenticità. Riflessioni intorno a L’eudaimonia postmoderna”. ● Informazioni: Marina Calloni, Aloisianum, via S. L. Gonzaga 8, 20131 Gallarate (Varese), tel. 0331/770934. Organizzato dalla Sezione Romana della Società Italiana di Logica e Filosofia delle Scienze, in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma III, nei giorni 9-10-11 novembre 1994 avrà luogo un convegno nazionale dal titolo: Momenti di storia della logica e di storia della filosofia. Questo il calendario degli interventi: 9 novembre, Giovanni Casertano: “La causa della conoscenza: discorso logico ed esigenza etica nel Fedone platonico”; Mario Mignucci: “Che cos’è un sillogismo aristotelico?”. 10 novembre, Enrico Berti: “La logica dell’argomentazione filosofica tra Aristotele e Ryle”; Eugenio Lecaldano: “David Hume sulla ‘causalità’ e ‘l’è-deve’: le proposte dal punto di vista della logica”; Francesco Barone: “Logica formale e logica trascendentale nella prospettiva del criticismo kantiano”; Carlo Sini: “La semiotica come fondazione della logica in C. S. Peirce”; Armando Rigobello: “La logica della vita morale in Blondel”; Gabriele Lolli: “Una dimostrazione in incognito: lo strano caso del teorema di completezza”. 11 novembre, Alfonso Maierù: “Linguaggio mentale tra logica e grammatica nel Medioevo”; Franco Bianco: “Avalutatività come principio metodologico nella logica delle scienze sociali”; Vito M. Abrusci: “Il concetto di dimostrazione nel ‘900". ● Informazioni: S.F.I. Sezione Romana, p.zza della Repubblica, Roma, tel. 06/4463671 (Dr.ssa Moschitti). La Società Filosofica Italiana - Sezione Friuli-Venezia Giulia organizza nei giorni 10 e 11 novembre 1994, presso la Sala convegni della Regione di Pordenone, due giornate di studio con Paul Ricoeur. I temi degli incontri saranno i seguenti: 10 novembre: “Memoria e storia”; 11 novembre: “Etica e giustizia”, a cui farà seguito un seminario con gli iscritti alla Società Filosofica. ● Informazioni: Claudia Furlanetto, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, c.so Vittorio Emanuele 37, Pordenone. Tel. 0434/29333. 69 DIDATTICA DIDATTICA a cura di Riccardo Lazzari Manuali di filosofia a confronto (III parte) Nei numeri 13/14 e 15 di «Informazione Filosofica» abbiamo presentato un’analisi comparata di alcuni manuali di filosofia in uso nei licei. Per esigenze di omogeneità erano rimasti esclusi da quello studio proprio i volumi caratterizzati da un’impostazione prevalentemente antologica. Con questa III parte intendiamo completare l’analisi avviata, proponendo un confronto tra ANTOLOGIE FILOSOFICHE, per suggerire qualche ulteriore elemento di valutazione in questo specifico settore della manualistica filosofica. L’insegnamento della filosofia si va orientando verso il recupero dei testi, che dovrebbero costituire l’asse portante dello studio liceale. La lettura diretta delle opere dei filosofi occupa infatti sempre più spazio nel lavoro di tanti docenti. L’offerta editoriale di strumenti adeguati a questa strategia non sembra però essere molto ricca. Prevalgono tra i manuali scolastici le tradizionali storie della filosofia, anche se molte di esse si avvalgono di una ricca sezione antologica. Ma la semplice aggiunta di “letture” al termine di un capitolo non sempre può bastare per qualificare un testo (o un progetto didattico) nella direzione indicata dai nuovi programmi, che propongono di usare gli scritti dei filosofi, «nella loro interezza o in sezioni particolarmente significative», scegliendoli «in modo non troppo frammentario, cioè secondo dimensioni di ampiezza tale da assicurare al testo una sua unità, completezza e comprensibilità». Il panorama dell’editoria scolastica si va comunque rapidamente adeguando. Se la scelta del libro di testo in generale, e di quello di filosofia in particolare, è sempre un momento delicato e difficile dell’attività didattica, ricco di implicazioni teoriche, metodologiche, ideologiche e pratiche, ancor più complicata appare la scelta di un’antologia filosofica. Il limite strutturale di ogni antologia è nella sua stessa natura, cioè nell’essere una raccolta di testi effettuata secondo criteri inevitabilmente parziali, che ognuno vorrebbe sempre con69 te stare o correggere. E’ dunque assai difficile dare indicazioni pratiche in materia, dato che la scelta dell’insegnante sarà determinata di solito più dai contenuti della selezione antologica che dalle forme della sua articolazione. Come nel già pubblicato studio comparativo sui manuali storici, si è comunque voluto tentare un confronto su alcuni indici di carattere quantitativo. Oltre ai semplici descrittori esterni e alla sinossi dell’apparato didattico di ogni antologia, si propongono infatti alcuni indicatori di nostra elaborazione, per valutare l’impostazione di ogni opera, l’attenzione dedicata agli autori maggiori o minori, la lunghezza delle letture, la quantità di testi raccolti. Non si è misurata la leggibilità dei testi (con l’indice di Flesch), poiché nelle antologie questi sono talvolta identici, talaltra difformi, comunque incomparabili. L’esame si limita a otto sole antologie, scelte non per ragioni di merito, né perché esauriscano di fatto l’offerta editoriale, ma solo perché queste ci sono state fornite dalla rete di distribuzione editoriale. Nonostante la casualità, si può comunque ritenere che queste opere rappresentino attualmente gran parte del mercato del settore. Si tratta per lo più di opere recenti o recentissime, addirittura non ancora completate in un paio di casi, per i quali è disponibile solo il primo volume. Parlare di “antologie” può in molti casi risultare riduttivo e impreciso: alcuni testi sono a tutti gli effetti manuali completi, essendo composti sia di una sezione storica che di una antologica; altri sono sole antologie che richiedono l’appoggio di una sintesi storica tradizionale; altri ancora si propongono come soluzioni didattiche originali che combinano lo studio storico con la lettura diretta dei testi. * La TAVOLA I riporta semplicemente i dati identificativi delle diverse antologie. Solo quella di Sini è opera di un singolo autore (e non a caso è la più vecchia); le altre sono più o meno frutto del lavoro di equipes di specialisti. Come prevedibile, le antologie brillano per dimensioni cospicue. Pur senza arrivare alle 4400 pagine del manuale pubblicato da Bruno Mondadori (inevitabilmente suddiviso in quattro tomi), si superano con faci- DIDATTICA Tavola I lità le 2000 pagine. Se pensiamo che in alcuni casi si tratta soltanto di antologie (senza sezione storica), la quantità di testi a disposizione degli studenti è davvero notevole e tale da soddisfare le attese dei docenti più esigenti. Nonostante siano in gran parte novità recenti, nessuna segue, nei volumi, la scansione della materia suggerita dai nuovi programmi e l’idealismo tedesco appare sempre nell’ultimo volume. I prezzi sono quelli indicati per l’anno scolastico 1994-95 e risultano in genere poco elevati, soprattutto per quelle antologie pensate per essere abbinate al manuale tradizionale. Nel caso di Gabbiadini-Manzoni il prezzo del primo volume è quello della nuova edizione; gli altri prezzi sono quelli dell’edizione precedente. Il manuale di Ameruso-Tangherlini-Vigli è forse il più originale ed è il primo ad aver fondato l’insegnamento della filosofia sulla lettura diretta dei testi. Anche se molti docenti lo usano come semplice antologia in aggiunta a manuali storici, esso aspira ad essere un manuale completo, in quanto ricostruisce la storia della filosofia lasciando la parola agli stessi filosofi, le cui opere costituiscono i frammenti di un grande collage, tenuto insieme da brevi raccordi redazionali. L’informazione è completata da schede biografiche alla fine di ogni unità tematica, che è spesso articolata in maniera poco tradizionale, cucendo insieme testi di autori diversi per seguire più un percorso teoretico che l’illustrazione monografica del pensiero di un singolo filosofo. I testi sono numerosissimi ma piuttosto brevi, dato che il manuale non mira ad essi in quanto tali (è infatti scarso l’apparato di note e commento), ma li considera solo lo strumento di accesso ad una complessiva conoscenza storica e teorica. L’opera era originariamente pubblicata dall’editore Lucarini, ora rilevata dal giovane marchio delle edizioni Oberon. L’ultimo volume è diviso in due tomi e ulteriore motivo di originalità sono i tre volumetti di esercizi (aggiunti successivamente ma inscindibili dai corrispondenti volumi maggiori), contenenti soprattutto proposte di verifica basate sul l’approfondimento e l’interpretazione dei testi. Cambiano-Mori è un manuale recentissimo, di impianto tradizionale, che unisce ad una ricostruzione storica essenziale, ma completa, un’ampia antologia. Può costituire una soluzione unitaria particolarmente vantaggiosa per il rapporto pagine/prezzo decisamente conveniente. L’antologia non è una semplice appendice della sezione storica, anche perché da sola occupa circa due terzi di ciascun volume e accompagna i testi con un commento puntuale, formato da ampie introduzioni e da un ricco apparato di note. Ciò giustifica la sua presenza in questo confronto, dovuta sia alla recente pubblicazione (che non ha consentito di compararlo alle altre storie della filosofia), sia all’impegno volto alla valorizzazione dei testi come effettivo strumento di lavoro. I sussidi didattici sono completati da un dizionario molto ampio e articolato alla fine di ogni volume. L’equipe Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone ha proposto qualche anno fa un prodotto completamente nuovo rispetto alla storia della filosofia già pubblicata molti anni prima. L’impostazione è piuttosto originale e vorrebbe essere quasi esaustiva della proposta didattica, anche se gli autori hanno provveduto a predisporre un agile Profilo di storia della filosofia per integrare in maniera più tradizionale l’informazione storica. I singoli brani sono accompagnati da un’analisi testuale che scorre in una colonna parallela al testo stesso. Ogni capitolo è introdotto da una sintesi storica e concluso da un profilo riepilogativo, che 70 assolvono in un certo senso la funzione del manuale tradizionale. Alla fine di ogni volume ampie schede tematiche invitano a interessanti percorsi teoretici complessivi. Anche alla fine di ogni lettura, brevi spunti tendono a suggerire riflessioni teoretiche più personali. Particolarmente numerosa è l’equipe che ha dato vita al manuale di Cioffi-GalloLuppi-Vigorelli-Zanette. Alle firme che appaiono in copertina devono aggiungersi quelle di numerosi altri collaboratori, che hanno realizzato un’opera particolarmente articolata. Si tratta di un manuale completo, che unisce alla trattazione storica una ricca e curata antologia, secondo unità didattiche di volta in volta dedicate a singoli filosofi, a opere di particolare rilevanza, a biografie significative, a tematiche trasversali, a problemi particolari. La filosofia più recente è trattata in unità monografiche che raggruppano correnti e problemi del dibattito filosofico contemporaneo. L’apparato didattico è molto ricco ed è completato da un’analisi lessicale alla fine di ogni capitolo, da schede di lavoro con esercizi e questionari, da schede di lettura, biografiche e tematiche. L’apparente settorialità delle singole unità didattiche è tenuta insieme da ampie introduzioni storiche, che sintetizzano interi periodi. Il taglio originale richiede di essere condiviso fino in fondo, ma consente di proporre agli studenti un lavoro abbastanza esauriente. L’opera più recente è l’antologia di Fornero. Assolutamente priva di sezione storica, è progettata per essere abbinata ad una storia della filosofia tradizionale (non necessariamente quella di Abbagnano-Fornero). Ne è disponibile per ora solo il primo volume, al quale hanno collaborato E. Arrigoni, G. Galeazzi, M. Sacchetto e N. Tabaroni. Le letture sono piuttosto brevi, ma accompagnate da un apparato didattico DIDATTICA Tavola II molto ricco. Oltre alle note, che analizzano ogni passaggio dei testi, sono presenti qua e là schede delle interpretazioni (sui dibattiti critici più interessanti), dei confronti (su classiche opposizioni teoriche), lessicali (su alcuni temi non necessariamente di carattere linguistico), bibliografiche e multimediali (che segnalano anche l’esistenza di film e videocassette sugli autori e i problemi studiati). L’antologia di Gabbiadini-Manzoni è quella che ci sembra avvicinarsi di più allo spirito dei nuovi programmi, grazie alla selezione di poche, ma ampie letture. La seconda edizione (di cui è disponibile per ora solo il primo volume) si presenta arricchita non solo di nuovi testi, ma anche di utili pagine critiche. L’apparato didattico è ricco e diversificato, proponendo anche guide alla lettura di opere non antologizzate. Ci sembra un’opera da abbinare ad un manuale tradizionale, dato che risulta concentrata esclusivamente sui testi, alla cui produzione, nei diversi periodi e autori, dedica anche interessanti introduzioni in ogni capitolo. La stessa presentazione degli autori non è genericamente completa, ma mira proprio a preparare e contestualizzare lo studio degli scritti selezionati. Ad alcune opere non presenti nella raccolta sono infine dedicate specifiche introduzioni per avviare ad ulteriori letture personali. Anche l’antologia di Reale-Antiseri-Baldini va usata insieme a un manuale storico (tendenzialmente quello scritto dai primi due curatori). I testi sono numerosi e di medie dimensioni, ma in qualche caso sono riportate brevi opere in versione integrale. L’attenzione esclusiva ai testi è testimoniata dall’assenza di qualsiasi presentazione storica o biografica e da un apparato iconografico spesso dedicato a riprodurre i frontespizi delle principali opere. L’unico sussidio didattico è costituito dalle in troduzioni ai testi; manca praticamente un apparato di note e qualsiasi altro strumento di guida e sostegno al lavoro dello studente. L’elaborazione didattica è completamente lasciata alla libera iniziativa dell’insegnante. L’antologia di Sini è, infine, l’opera più vecchia. La prima edizione, in un solo grosso volume, risale infatti a quindici anni fa. La selezione dei testi è mediamente ricca e presenta brani piuttosto lunghi, accompagnati da introduzioni chiare e da qualche puntuale nota esplicativa. Potrebbe essere considerato un manuale completo, vista la presenza di una sezione storica, che però si riduce a un’informazione essenziale. Ci sembra quindi opportuno accompagnarvi un manuale tradizionale. L’impostazione tende a privilegiare il contatto con il pensiero del filosofo più che con le singole opere, che non vengono evidenziate - in quanto tali - come obiettivo dello studio: può infatti dispiacere la scarsa attenzione filologica ad isolare (soprattutto nella filo71 sofia antica) le singole opere o frammenti, che spesso vengono fusi insieme sotto un unico titolo redazionale. L’apparato didattico si limita a percorsi di ricerca personale alla fine di ogni volume. * La TAVOLA II offre un quadro sinottico della struttura e dell’apparato didattico di ogni manuale. Molte caselle rimangono vuote perché le antologie progettate solo come tali sono spesso prive di alcuni sussidi che qui si sono voluti segnalare. La prima colonna, “testi”, dà un’indicazione sullo stile dell’antologia: quantità e lunghezza delle letture. Il dato è piuttosto sintetico e ricavato da un esame sommario (la tavola III può offrire informazioni più ampie e dettagliate in merito). Salvo il caso di Gabbiadini-Manzoni, di solito i testi antologizzati sono piuttosto numerosi, fino ad arrivare ai moltissimi “frammenti” di Ameruso-Tangherlini-Vigli. L’ampiezza dei brani è oscillante e l’indicazione è una valutazione di massima, che non esclude eccezioni. La colonna della “guida alla lettura” riferisce sui sussidi che cercano di orientare la comprensione dei brani. Spesso ci si limita solo a più o meno brevi introduzioni al testo, che hanno il compito di contestualizzare le parole del filosofo e segnalare i problemi più rilevanti. Nell’impostazione di Ameruso-Tangherlini-Vigli svolgono questa funzione le brevi introduzioni, che DIDATTICA Tavola III “cuciono” insieme le letture attraverso le quali si ricostruisce la storia della filosofia. Vengono citate in questa colonna anche le note che accompagnano il testo. Proprio ad esse è affidata la maggior parte del commento in Cambiano-Mori, Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone e Fornero; più minuziosi e articolati i sussidi che accompagnano le letture di Gabbiadini-Manzoni e CioffiGallo-Luppi-Vigorelli-Zanette; gli altri sono pressoché privi di note. In questa sede sono anche segnalate alcune schede o unità didattiche destinate a guidare la lettura di opere non presenti nell’antologia: è il caso di Cioffi-Gallo-Luppi-Vigorelli-Zanette e Gabbiadini-Manzoni. La colonna dedicata alla “numerazione delle righe” segnala la presenza di questo pratico strumento, che può risultare utile soprattutto durante la lezione per rintracciare rapidamente un passo o una citazione. In al cuni casi, ad esempio per i frammenti dei presocratici, la brevità dei testi rende inutile l’accorgimento. La colonna delle “pagine critiche” segnala lo spazio dedicato alla letteratura critica, per accompagnare e commentare le letture. Questa presenza è piuttosto limitata e differenziata. Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone offre appena qualche breve suggestione o giudizio critico; molto ampie sono invece le letture critiche riportate da GabbiadiniManzoni su temi generali (un brano per ogni capitolo). Fornero e Cioffi-Gallo-Lup- pi-Vigorelli-Zanette offrono infine resoconti sulle interpretazioni più autorevoli. Una “bibliografia” è presente in quasi tutti i manuali. Per lo più si tratta di indicazioni essenziali sulle edizioni delle opere dei filosofi, cui spesso si aggiunge la principale letteratura critica in lingua italiana. Del tutto originale è la “scheda multimediale” in cui Fornero riferisce dell’esistenza di videocassette o film su alcuni argomenti. Le “proposte di lavoro” possono essere il complemento della bibliografia con l’indicazione di percorsi di studio per approfondimenti personali (e in questo senso l’offerta di Sini sostituisce proprio la bibliografia). Ma accanto a queste proposte abbiamo rilevato anche la presenza di esercizi o domande che possono guidare la stessa azione didattica del docente. La proposta più ricca e articolata è quella di AmerusoTangherlini-Vigli, che accompagnano il manuale con tre volumi di esercizi costruiti su misura del manuale. Nessuno propone test o questionari a risposta chiusa, segno che l’insegnamento della filosofia privilegia ancora un approccio più verbale e dialettico. Un “dizionario” filosofico è presente solo in qualche opera, anche perché sono diversi i manuali storico-filosofici che ne fanno già uso. Di solito si tratta di analisi più o meno ampie del lessico dei singoli filosofi e quindi la collocazione è all’interno di ogni capitolo. Gabbiadini-Manzoni si limi72 ta a richiamare i termini chiave, senza darne una spiegazione. Poco più di un indice, accompagnato da brevi definizioni, è quello posto a fine volume da CiancioFerretti-Pastore-Perone. Il dizionario più completo e pratico è quello complessivo di Cambiano-Mori, alla fine di ogni volume. La colonna delle “cronologie” segnala la presenza di questi brevi schemi riassuntivi, che di solito hanno carattere sinottico e comparativo. Cioffi-Gallo-Luppi-Vigorelli-Zanette propone semplici grafici, che collocano all’interno di ampi periodi le vite dei filosofi. Sini si limita alla cronologia della vita dei singoli autori nella sua sezione storica. L’ “iconografia” può essere considerata un accessorio secondario o comunque un elemento aggiuntivo. Reale-Antiseri-Baldini dimostra invece che le immagini si possono talvolta integrare col testo, e riproduce nelle sue pagine anche i frontespizi delle diverse edizioni delle opere dei filosofi (anche se vi si potrebbe leggere un intento pubblicitario). Le tavole a colori di Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone sono coerenti con l’invito teoretico del manuale e mirano a provocare riflessioni personali. Stranamente gli “indici” (dei nomi o degli autori) non sono presenti ovunque, ma il carattere di un’antologia non prevede che si debba usare il volume per consultazioni rapide, e il semplice indice generale può essere sufficiente per rintracciare un’opera. E’ significativo infatti che indici più elaborati si trovino soprattutto nei manuali che aspirano ad essere unici e completi. Nella colonna dell’ “introduzione storica” abbiamo inteso rendere conto delle più o meno sintetiche ricostruzioni di storia della filosofia che accompagnano la sezione antologica. E’ ovvio che si tratterà di veri e propri capitoli di storia della filosofia nel caso dei manuali completi come Cambiano-Mori e Cioffi-Gallo-Luppi-Vigorelli-Zanette. Più sintetici la sezione storica nel Sini ed i brevissimi “percorsi di lettura” che aprono i capitoli di Ameruso-Tangherlini-Vigli e di Gabbiadini-Manzoni. Le “biografie” segnalano il ricorso a un’informazione più o meno sintetica sugli autori. In alcuni casi si tratta di semplici schede riassuntive, in altri sono veri e propri capitoli di storia della filosofia. Cioffi-Gallo-Luppi-Vigorelli-Zanette propone l’intero studio di alcuni filosofi in chiave biografica (Socrate, Agostino, Abelardo, Pascal, ecc.). Sotto il titolo di “raccordi” abbiamo raccolto infine quelle sintesi che tendono a proporre percorsi trasversali o paralleli agli oggetti delle letture dirette. Si tratta di proposte eterogenee che assumono la forma di vere e proprie piccole monografie sulle forme di produzione del testo in Gabbiadini-Manzoni; di schede tematiche su questioni di rilevanza teoretica in CiancioFerretti-Pastore-Perone; di unità didattiche trasversali (“intersezioni”) in CioffiGallo-Luppi-Vigorelli-Zanette. Il manua- DIDATTICA le di Ameruso-Tangherlini-Vigli è interamente progettato nella forma di questi raccordi, costruiti legando gli scritti dei filosofi. * La TAVOLA III riassume un’analisi quantitativa del primo volume di questi manuali. L’obiettivo era quello di fissare qualche indicatore che consentisse di confrontare almeno il numero dei testi raccolti e l’impostazione seguita nella cura dell’antologia. Il confronto è limitato al solo primo volume sia per ragioni di praticità, sia perché nel caso di due testi recenti era disponibile solo questo. E nel primo volume si è utilizzato lo spazio destinato alle opere di Platone e Aristotele come indice dell’impostazione dell’opera. Si sono scelti Platone e Aristotele sia per la loro oggettiva importanza, sia perché si tratta dei due autori comunque obbligatori anche secondo i nuovi programmi nel primo anno di corso. Si poneva tuttavia il problema di come considerare le testimonianze platoniche su Socrate che spesso le antologie raccolgono sotto il nome di quest’ultimo. Per omogeneità, si è scelto di trascurare questi testi, ritenendo che, dove sono presenti, essi siano da considerare finalizzati soprattutto alla presentazione del personaggio e della filosofia socratica, anche se in tal modo i testi platonici sono risultati quasi sempre in numero minore rispetto a quelli aristotelici. La prima colonna, “numero dei testi”, indica il numero dei brani antologizzati di Platone e Aristotele. In molti casi un brano è costituito da più frammenti della medesima opera: non si è ritenuto di dover rendere conto di queste articolazioni, ma ci si è limitati a seguire l’indicazione redazionale che, attraverso titoli o numerazioni, fa individuare una lettura come unitaria. La prima cifra è relativa ai testi di Platone, la seconda a quelli di Aristotele. Il totale sarà utilizzato per i confronti successivi. La seconda colonna riferisce invece la “lunghezza totale” effettiva dei brani di Platone e Aristotele. La prima cifra è relativa alla lunghezza dei testi platonici; la seconda a quelli aristotelici; infine il totale. Si tratta di un’indicazione sul testo “effettivo”, poiché le cifre riportano il numero dei caratteri che costituiscono l’insieme dei testi di un autore, calcolato moltiplicando il numero medio dei caratteri di ogni riga di stampa per il numero di righe occupate dai testi. Il confronto che così si consente è tra valori assoluti e ci fa scoprire quanto spazio sia destinato ai testi di questi due filosofi. Ma il valore complessivo deve essere confrontato con il precedente per essere più significativo. La terza colonna riporta infatti la “lunghezza media” dei testi, ottenuta dalla semplice media aritmetica fra la lunghezza totale (col. 2) e il numero dei testi (col. 1). Si può così avere un’indicazione efficace dei criteri di antologizzazione. Questo indice testimonia scelte redazionali assai di- verse, che mirano da una parte a proporre solo letture ampie ed integrali (proprio nello spirito dei nuovi programmi), dall’altra a riportare anche frammenti o semplici citazioni (magari arricchite da un più ampio commento, che però non rientra in questo conto). Può essere interessante notare come i testi platonici, pur inferiori di numero, abbiano spesso una lunghezza complessiva maggiore di quelli aristotelici, evidente conseguenza del diverso genere letterario. La media della terza colonna è un dato complessivo che si è voluto mantenere aggregato (ognuno può facilmente calcolare le medie disaggregate) per dare un’indicazione immediata dello stile generale dell’antologia. Non era praticabile un calcolo del genere su tutti i testi della raccolta, ma si ritiene che questa indicazione possa essere utile per valutare anche nell’insieme la lunghezza media di tutti i testi. Si tenga presente che il valore più basso (1850) corrisponde a circa una cartella dattiloscritta, cioè meno di una normale pagina di stampa. Il valore più alto equivale a 8-10 pagine stampate (senza contare note e titoli). La quarta colonna riporta il “totale dei testi” antologizzati nel primo volume di ogni opera. Anche in questo caso le cifre testimoniano il divario enorme nell’impostazione delle diverse opere. Nel primo volume può incidere sul totale il gran numero di frammenti dei presocratici; ma di solito questi frammenti sono comunque raggruppati redazionalmente dai curatori. Il valore è, ovviamente, di solito inversamente proporzionale alla lunghezza dei testi. L’ultima colonna, infine, presenta la “percentuale dei testi” di Platone e Aristotele (col. 1) sul totale dei testi antologizzati (col. 4). Ad un rapporto elevato corrisponde evidentemente un’attenzione prevalente agli autori (e ai problemi) maggiori; ad una percentuale più bassa corrisponde invece un interesse distribuito più uniformemente anche su autori minori e su argomenti di raccordo. Ogni insegnante può trarne così indicazioni utili per valutare la corrispondenza del manuale alle proprie scelte didattiche. S.C. Interventi, proposte, ricerche A partire dal numero 151 (gennaioaprile 1994) il «BOLLETTINO DELLA SO CIETÀ FILOSOFICA ITALIANA» intende dedicare una specifica sezione alla didattica della filosofia, occupandosi dei temi ad essa relativi con maggiore organicità e sistematicità che in passato. Ciò avverrà anche in un clima di collaborazione e di dialogo con altre riviste che si occupano di filosofia e di insegnamento. 73 La scelta della redazione del «Bollettino» nasce dalla convinzione che ci sia oggi nella scuola italiana un notevole fermento sul tema della didattica della filosofia, per ragioni che dipendono sia dalla crisi dei modelli tradizionali, che dalla forte “richiesta di filosofia” nella sfera generale della cultura e della società. D’altro canto le singole sperimentazioni avviate dai docenti, gli studi e le ricerche svolte sul campo, stentano finora a trovare una sede adeguata in cui incontrarsi e confrontarsi, mentre l’esigenza di un dibattito si rende oggi ineludibile: un dibattito che, per quanto riguarda la didattica della filosofia, deve riguardare sia l’aspetto tecnico-operativo, che la riflessione sui principi, con l’avvertenza che è sempre su precisi metodi, su precise idee e scelte didattiche che si deve discutere. Il «Bollettino» vuole «proporsi come luogo di presentazione delle ricerche didattiche che vengono svolte individualmente o collettivamente dai soci della S.F.I., ed allo stesso tempo come luogo di un effettivo e approfondito dibattito sulle nuove didattiche e sulla loro rispondenza alla situazione reale della scuola italiana». In questo senso la redazione invita coloro che hanno elaborato nuove idee e metodologie nel campo della didattica filosofica a presentarle attraverso articoli che le descrivano in modo dettagliato (fra i temi suggeriti dalla redazione vi sono quelli relativi ai percorsi di lettura dei testi e ai percorsi applicativi dei Programmi “Brocca”). Gli articoli saranno occasione di dibattito approfondito, anche attraverso l’intervento determinante di docenti universitari, nonché di confronto con le riflessioni avviate su altre riviste. In questo clima di collaborazione, il «Bollettino» pubblica due contributi su Un esperimento di attuazione del progetto Brocca, già apparsi su «Sensate esperienze» (nn.19/ 20 e 21 - 1993/94; in proposito si veda anche il n. 17/18 di «Informazione Filosofica»), e, in forma più breve, l’indagine di Sergio ,Cicatelli: Il manuale di filosofia: analisi comparata di ventiquattro testi per i licei (già pubblicata per esteso sui nn. 13/ 14, 15 e 20 di «Informazione Filosofica»). Sullo stesso numero del «Bollettino», Francesco Paris (Liceo Classico “E. Torricelli” di Faenza - RA) svolge alcune considerazioni sul tema: Insegnare filosofia. Convinzione dell’autore è che la filosofia «può porsi come asse portante di un’educazione alla democrazia e alla tolleranza non solo come valori etici, ma anche come fondamenti di una cultura scientifica». Vengono quindi affrontati alcuni temi relativi all’utilizzo dei testi filosofici e del manuale. Di particolare interesse è la proposta di «costruzione di un glossario che metta lo studente in condizione di familiarizzarsi con la terminologia dei filosofi» e il riferimento a modelli di lettura a scopo di studio, che mettano lo studente in condizioni di autonomia nell’approccio ai testi. R.L. STUDIO STUDIO Filosofia in sei ore e un quarto Non un riassunto sistematico della storia della filosofia, bensì una raccolta di immagini e frammenti che raccontano gli aspetti più incisivi della filosofia occidentale costituisce il CORSO DI FILOSOFIA IN SEI ORE E UN QUARTO (a cura di F. M. Cataluccio, trad. di L. Piersanti, Theoria, Milano 1994) di Witold Gombrowicz. Il corso, tenuto alla moglie poco prima di morire, rappresenta una vera e propria “consolazione” della filosofia alle sofferenze e ai dolori dell’esistenza. Il dolore costituisce, infatti, il perno intorno al quale ruota l’intera produzione di Witold Gombrowicz, che non manca di notare come la filosofia contemporanea, laddove «assume un tono dottorale e professorale», ha spesso trascurato, dimenticandola, la sofferenza. Gombrowicz, al contrario, affronta le filosofie con un tono personale e quotidiano, utilizzando, ad esempio, domande, risposte e brevi frasi, che permettono di illustrare con termini semplici e chiari anche le tematiche più complesse. Seguendo la struttura del “corso”, incontriamo subito la filosofia di Cartesio che, con la sua riduzione della realtà a contenuto di coscienza, ha costituito il punto di partenza per la filosofia kantiana. Con qualche inesattezza, tipo la confusione tra trascendentale e trascendente, la filosofia di Kant viene fatta ruotare intorno alle strutture a priori del soggetto che caratterizzano e limitano la conoscenza umana. Il corso prosegue con Hegel e Schopenhauer, di cui, dato l’orizzonte di appartenenza dell’autore, viene tenuta in grande considerazione la teoria dell’arte, priva peraltro di un accenno alla musica, inspiegabilmente dimenticata. La parte centrale del volume è dedicata all’esistenzialismo, affrontato in relazione a Kierkegaard, Husserl, Heidegger, in parte Nietzsche, e, soprattutto, Sartre, a cui è dedicato parecchio spazio. Emerge, in questo contesto, una presa di posizione di Gombrowicz nei confronti di Sartre contraddistinta da toni critici e pungenti, che rivelano la complessità del rapporto tra i due. Gombrowicz, infatti, rivendica la paternità dell’esistenzialismo che avrebbe preso le mosse dal suo Ferdydurke, del ’37, e non da L’essere e il nulla del ’43. Inoltre Sartre ha la colpa di non aver compreso l’importanza e la necessità del dolore: la teoria sartriana, infatti, considera l’individuo caratterizzato dalla libertà, intesa come trascendenza, e non fa i conti con il dolore che costituisce il non-voluto e quindi il vero limite alla libertà. Infine l’esistenzialismo sartriano ha voluto, a tutti i costi, la conciliazione con il marxismo, impresa alquanto assurda ed impossibile. Proprio al comunismo Gombrowicz dedica, ancora in toni polemici, l’ultimo quarto d’ora del suo corso. Marx, progettando la rivoluzione comunista, non ha tenuto conto dell’importanza della competizione e degli interessi individuali che costituiscono il fondamento di qualsiasi società. Secondo l’autore la riduzione dell’esistenza umana all’elementarità dei bisogni produce necessariamente l’appiattimento della società stessa e il conseguente fallimento del progetto politico. Si assiste negli ultimi tempi in Francia a un incremento di testi filosofici di orientamento divulgativo, tanto che spesso si può notare, nel campo della filosofia, un’attività editoriale a due velocità: di uno stesso autore viene proposto un testo in stile “universitario” e, contemporaneamente, un volumetto in versione “divulgativa”, come è il caso, ad esempio, di Claudine Tiercelin, della quale è stata pubblicata un’opera “seria” su Peirce, La pensée-signe: études sur Peirce (Il pensiero-segno/ studi su Peirce, J. Chambon, Nîmes 1993) e uno smilzo libretto introduttivo sul medesimo filosofo dal titolo: C. S. Peirce et le pragmatisme (C.S. Peirce e il pragmatismo, PUF, Parigi 1993). Alcune case editrice, per contro, alzano il tono: Hatier, di Parigi, casa editrice prettamente scolastica, da più di un anno ha aperto una collana «Optiques- Philosophie: un regard clair», costituita da librettini filosofici a basso prezzo, dedicati a un tema specifico ed elaborati da studiosi autorevoli: Le corps (Il corpo), di Marc Richir; La violence (La violenza), di Roger Dadoun; Le temps (Il tempo), di Pierre Boutang; L’éthique (L’etica), di Alain Badiou. Altri editori, invece, operano una scelta diversa: selezionano un’opera “filosofica” impor74 tante e la presentano in veste economica, ma curata. Le case editrici Arlea e Rivages, per esempio, presentano in questa versione perfino dialoghi e opere antiche. Queste pratiche editoriali rilanciano un discorso assai antico, quello sulla “filosofia popolare”: è incontestabilmente utile poter disporre di opere valide ad un costo contenuto e con uno stile non solo pensato per gli “addetti ai lavori”. Tuttavia, rivolgersi ad un pubblico vasto, non specialistico, non dovrebbe implicare banalizzazione dei contenuti e infantilizzazione dei lettori. Poche, in tal senso, sono le eccezioni. Ne citiamo una, a titolo di esempio: lo studio di Jacqueline Rousset, La marché des idées contemporaines (Il mercato delle idee contemporanee, Armand Colin, Parigi 1994), che intende offrire un panorama della modernità, attraverso l’allestimento di un voluminoso “état des lieux” del pensiero contemporaneo, segnalandone cesure e continuità, mode e pericoli. Il volume è corredato da bibliografia e glossari. A.S./F.M.Z. Le sei idee estetiche di Tatarkiewicz Noto soprattutto per la sua monumentale e imprescindibile ‘Storia dell’estetica’ (Torino 1979-80) Wladyslaw Tatarkiewicz torna ora al centro della riflessione filosofica ed estetica contemporanea per la traduzione in italiano di un altro suo importante contributo agli studi estetici: STORIA DI SEI IDEE (a cura di K. Jaworska, Aesthetica edizioni, Palermo 1993), che in versione integrale fu pubblicato in Polonia nel 1975. La versione italiana è accompagnata da una “Presentazione” che ripercorre le tappe principali del percorso filosofico di Tatarkiewicz, da un’ “Appendice bibliografica” e da una “Postfazione” di Luigi Russo, tesa a metter in evidenza il profondo significato filosofico e la novità dell’approccio storico dell’opera di Tatarkiewicz. Se la Storia dell’estetica si arrestava quasi paradossalmente al 1700, vale a dire proprio al sorgere dell’estetica come discipli- STUDIO na autonoma nella modernità, questa Storia di sei Idee attraversa la storia dell’estetica per intero, soffermandosi sui problemi, le idee, le teorie estetiche, e perciò viene considerata dallo stesso Wladyslaw Tatarkiewicz quale “completamento e conclusione” dell’opera precedente. Abbandonata la scansione meramente cronologica, Tatarkiewicz si concentra qui sulle idee fondamentali dell’estetica; non solo sulle sei idee-guida esplicitamente fatte oggetto d’indagine (l’arte, il bello, la forma, la creatività, l’imitazione e l’esperienza estetica), ma su moltissime altre che a quelle idee direttamente o indirettamente si connettono (come ad esempio grazia, acutezza, gusto, sublime, piacere, genio, espressione...). Di queste idee vengono tracciate la storia, l’origine, le estensioni, le applicazioni e le successive trasformazioni semantiche, chiarendone quindi il concetto in tutti i suoi possibili significati. Il risultato è una sintesi storico-concettuale singolarmente approfondita ed efficace, che al rigore scientifico della trattazione unisce una limpida chiarezza espositiva ed un linguaggio piano e nondimeno suggestivo. Se già nel manuale di estetica, per la grande importanza che il filosofo polacco attribuiva al carattere storico del lavoro artistico, alla precettistica, ai trattati di poetica e di retorica, al concreto operare degli artisti, emergeva un’idea quanto mai aperta e problematica dell’estetica, in quest’altra opera, pur alle prese con teorie e concetti all’apparenza immutabili, Tatarkiewicz insiste sempre sulla intrinseca dinamicità delle teorie e delle idee, evidenziando in tal modo la fondamentale storicità dell’esperienza estetica. Di quei concetti che la storia dell’estetica ha individuato come fondamentali e ha variamente tramandato fino a noi, alcuni hanno via via perduto d’importanza (è il caso soprattutto dell’idea di imitazione, che come mimesis è stata a lungo ritenuta centrale); altri hanno invece conosciuto una nuova stagione, per così dire, fortunata (la creatività, la forma); altri ancora (quelli di arte e di bello, che sono i più problematici) vengono usati o con diffidenza, oppure abusati, richiamati a sproposito. Ma nonostante tutto, sostiene Tatarkiewicz, nella storia dell’estetica due teorie in particolare si sono mostrate insolitamente durature: quella che egli chiama la “Grande Teoria”, cioè la teoria classica della bellezza come forma, e la “Antica Teoria”, cioè la teoria dell’imitazione, che solo dopo due millenni ha perso credibilità. Ma più in generale il filosofo polacco è profondamente persuaso dell’importanza dell’estetica nell’orizzonte del pensiero umano. E’ infatti difficile negare che le categorie estetiche fondamentali facciano parte integrante di quelle categorie attraverso le quali da sempre l’uomo è in grado di comprendere e di significare la realtà, e perciò in grado di scoprire il proprio ruolo nel mondo e di dare senso alle cose che lo circondano. G.P. Michelangelo, Schiavo ridestantesi (1530-34 circa), Galleria dell’Accademia di Firenze 75 RASSEGNA DELLE RIVISTE RASSEGNA DELLE RIVISTE a cura di Silvia Cecchi RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA Anno XLIX, n. 1/1994 Franco Angeli, Milano Questo numero riporta gli atti di due incontri di studio, dedicati rispettivamnte a Montesquieu (Milano, 4 marzo 1993) e a Giuliano Gliozzi (Cagliari, 2-3 dicembre 1993). Actualité d’un demi-silence: Montesquieu et l’idée de souverainité, di J. Erhard: sull’idea di sovranità, quale emerge dall’opera principale di Montesquieu, sottolineando in particolare il poco spazio dedicato a questa tematica. Montesquieu e i poteri della metafora, di C. Rosso: la tripartizione dei governi nei primi tre libri dello Spirito delle Leggi. Sur deux antinomies de l’esprit de lois, di J. Starobinskj: leggi politiche e leggi religiose; pluralità e uniformità. Religione e tolleranza in Montesquieu, di L. Bianchi. Forme di razionalità e livelli di legalità in Montesquieu, di A. Postigliola: sulle strutture portanti, anche in chiave critica, del “modello di razionalità” che sorregge l’impianto sistematico dello Spirito delle Leggi, di cui viene ricostruita anche la genesi. L’Europa di Montesquieu, di M. Pasini. Giuliano Gliozzi e l’ambiente filosofico cagliaritano, di P. Rossi. Vecchio e nuovo mondo: le scoperte geografiche e il pensiero europeo moderno, di D. Pastine: un’analisi del contributo di Gliozzi alla storiografia della scoperta dell’America, presente nell’opera: Adamo e il nuovo mondo (1977). L’apport de Giuliano Gliozzi à l’histoire de l’anthropologie en France, de Montaigne à Gobineau, di F. Lestringant. Vengono pubblicati inoltre gli interventi alla tavola rotonda di M. T. Marcialis, A. Burgio e di A. Strumia, allieva di Gliozzi. ‘Origine des êtres et espèces’. Un inedito cosmogonico tra le carte di Boulainviller di G. Mori. sione di E. Rudinesco: Jacques Lacan. Esquisse d’une vie, histoire d’un systeme de pensée (Fayard, Parigi 1993). AUT AUT Gli stili di Kierkegaard, di R. Prezzo: analisi dell’edizione integrale di S. Kierkegaard: Studi sul cammino della vita (Rizzoli, Milano 1993). n. 260-261, marzo-giugno 1994 La Nuova Italia, Firenze Agire senza intenzioni, di E Greblo. Idea di università, di S. Givone: una riflessione sui nuovi statuti delle università italiane. TEORIA Dal patrimonialismo alla democrazia, di A. Dal Lago: una riflessione sull’attuale stato delle università in Italia. Lo splendore di avere un linguaggio, di L. Muraro. Università per un’allieva, di L. Boella. Elogio all’eccesso, di P. A. Rovatti: riflessione sul saggio di R. Simone: L’università dei tre tradimenti. Talento, merito e mercato all’università, di M. Santambrogio. Cambiamento e resistenze al cambiamento nell’università italiana, di R. Moscati. Poesia contemporanea. Campionario con figure, di G. Majorino: analisi di alcuni componimenti di poeti italiani contemporanei. Il rispetto che dobbiamo ad Heidegger, di F. Fédier: sull’introduzione ad una nuova edizione degli Scritti politici di Heidegger (Gallimard, Parigi), in cui viene ripreso il problema del rapporto tra Heidegger e il nazismo. Per amore di Lacan, di J. Derrida: l’intervento qui pubblicato è contenuto nel volume di AA.VV., Lacan avec les philosophes (A. Michel, Parigi 1991), dedicato al rapporto critico, e non privo di contraccolpi, tra Derrida e Lacan. Letture di Lacan, di M. Recalcati: recen76 Vol. XIV, n. 1, 1994 ETS, Pisa Gentile e Gödel, di V. Sainati: vengono qui riproposte le tesi essenziali di un saggio di Sainati del 1976 (Mitologia moralistica della logica nel ‘Sistema di logica’ di Giovanni Gentile) in cui veniva affrontata la problematica della crisi gödeliana del pensiero matematico-fondazionale. La genesi della coscienza reale nella ‘Grundlage der gesamten Wissenschaftslehere’ di Fichte, di W. Metz. All’inizio è il linguaggio, di E. Moriconi: la critica di W. W. Tait a M. Dummett che ha impostato il dibattito filosofico sulla matematica in base a una teoria del significato. L’ermeneutica qui ed ora, di F. Duque: testo di una relazione tenuta a Napoli il 16 novembre 1993 in occasione del convegno: “L’ermeneutica italiana: riflessi europei”. Pensare la religione, di A. Fabris: le principali tendenze che contraddistinguono la filosofia della religione nel dibattito contemporaneo. Mito, tragedia, rivelazione. Sulla presenza di Franz Rosenzweig nell’opera di Benjamin, di M. Mottolese. Estetica e storia dell’estetica: una questione ancora aperta in Italia, di C. Guidelli: attraverso l’esame della voce “estetica” nelle enciclopedie italiane, l’articolo af- RASSEGNA DELLE RIVISTE fronta il problema della storia dell’estetica, in particolare il rapporto tra categorie estetiche e modi della ricostruzione storica. La presencia virtual de los elementos en la combinación química según Santo Tomás de Aquino, di M. E. Sacchi. Husserl in discussione, di T. Orlando: recensione di R. Bernet-Iso e K. E. Marbach: Edmund Husserl (Il Mulino, Bologna 1992). The authenticity of the attribution to Saint Thomas Aquinas of ‘De natura materiae et dimensionibus interminatis’ and ‘De principio individuationis’, di N. A. Morris: sul problema dell’attribuzione di questi due brevi scritti, in cui viene affrontato il problema del principio di individuazione. AXIOMATHES Anno IV, n. 3, dicembre 1993 Il Poligrafo, Padova Nicolas A. Vasil’év (1880-1940), di R. Poli: presentazione di due testi di Vasil’év, in traduzione inglese: Logic and metalogic e Imaginary (non-aristotelian) logic, in cui viene proposta una logica “universale” e “non aristotelica”. What is non-fregean in the semantics of Wittgenstein’s ‘Tractatus’ and why?, di J. Perzanowski. Antidiodorean logics and the BrentanoHusserl’s conception of time, di V. L. Vasyukov. Psicologia descrittiva e psicologia sperimentale: Brentano e Bonaventura sul tempo psichico, di L. Albertazzi: tenendo presenti le posizioni di Brentano e di E. Bonaventura, l’articolo affronta tre questioni: l’origine e la natura della nozione di tempo interno; quanto dura l’atto di presentazione; quali sono i caratteri della struttura della presentazione. AQUINAS Anno XXXVII, n. 1, gennaio-aprile 1994 Pont. Univ. Lateranense, Roma I principi matematici kantiani del mondo fisico (II), di P. Pellecchia. La riappropriazione di Aristotele nell’ultimo Ricoeur, di A. Rizzacasa: sul ricorso di Ricoeur ad Aristotele per mettere in evidenza le implicazioni ontologiche presenti nella sua ermeneutica fenomenologica ed esistenziale, in particolare nelle ultime due opere, Temps et récit e Soi-même comme un autre. La persona come apertura all’essere eterno secondo E. Stein. Primo tentativo di confronto con M. Heidegger, di M. D’Ambra. Unità e molteplicità in Jürgen Habermas, di R. Giovagnoli: una riflessione sul pensiero dell’ultimo Habermas, in particolare sul pensiero post-metafisico (1988), in cui viene tratteggiata una concezione di razionalità “comunicativa” tra metafisica e contestualismo. Chance and order in our inorganic universe, di G. Blandino. Nota sulla “creazione” (‘Summa contra Gentiles’, II,16), di L. Messinese. RIVISTA DI FILOSOFIA NEOSCOLASTICA Anno LXXXVI, n. 1, gennaio-marzo 1994 Vita e Pensiero, Milano Tre lezioni su Platone e la scrittura della filosofia, di T. A. Szlezak: la critica di Platone alla scrittura nel Fedro. Verità ed etica nella ‘Dialectica’ di Lorenzo Valla, di M. Laffranchi: il concetto di verità e i suoi fondamenti; l’orizzonte teologico come modello di una possibile interpretazione; l’etica secondo verità. Finito e infinito e l’idealismo della filosofia. La logica hegeliana dell’essere determinato, di G. Movia: commento analitico alla logica del Dasein nella Scienza della Logica. Ateismo, scetticismo e fideismo, di T. Penelhum. Nota sullo scetticismo, di L. Urbani Ulivi: recensione di C. Hookway: Scepticism (Routledge, London - New York 1990). La dimensione teologale dell’uomo e la teologia fondamentale in Xavier Zubiri, di A. Savignano. Kant, Heidegger e la logica filosofica, di L. Messinese: l’articolazione essenziale della logica di Kant presente nelle lezioni del semestre invernale 1925-26 di Heidegger, in cui si discute sul valore del primato della verità logica e teoretica. Kant, di N. Hinske: al di là della questione del loro significato oggettivo, gli appunti dei corsi universitari di Kant hanno un preciso significato in relazione alle sue lezioni di logica, costituendo un contributo importante alla storia della logica e all’analisi delle caratteristiche dell’Illuminismo tedesco. L’ermeneutica filosofica dell’illuminismo tedesco: due prospettive a confronto, di L. Cataldi Madonna: gli studi sull’ermeneutica dell’illuminismo tedesco da Schleiermacher ad oggi, con particolare riguardo al progetto di un’ermeneutica generale come disciplina autonoma, tema proprio del Settecento tedesco. Associazionismo e ipotesi materialistica da Hartley a James Mill, di S. Bucchi: un’analisi dell’associazionismo come teoria generale della mente in Observations on man, di David Hartley (1749), opera di impostazione associazionistica, considerata a lungo inficiata da presupposti materialistici. Logica ed organizzazione del sapere nella dottrina della scienza di Bernard Bolzano, di P. Bucci. Fondazioni, fondamenti e paradigmi, di C. Cellucci: vengono qui ripresi alcuni temi di logica matematica, al centro di un dibattito apparso su questa stessa rivista in precedenti fascicoli con interventi dello stesso Cellucci, di Ettore Casari e di Gabriele Lolli. Nomi e domande, di E. Casari. L’imperialismo assiomatico, di G. Lolli: ancora sul tema dell’articolo precedente. Teoria rousseauiana ed etica contemporanea: vent’anni di storiografia anglosassone, di L. Pezzillo. LA CULTURA Anno XXXII, n. 2, agosto 1994 Il Mulino, Bologna Giovanni Gentile. L’atto, il tempo, la morte (II), di G. Sasso. Aristotele dossografo in ‘Phys’., IV, 10, di E Cavagnaro: l’analisi aristotelica del tempo condotta anche in rapporto alle opinioni dei predecessori di Aristotele. Vol. LXXXV, n. 2, agosto 1994 Il Mulino, Bologna Da che nasce il conflitto nello stato di natura in Hobbes, di M. Reale: analisi delle cause della genesi e della tenuta del conflitto in Hobbes. Tra illuminismo e critica della ragione: il significato filosofico del corpus logico di Wieland e Kant nello ‘Zibaldone’ di Leopardi, di L. Cellerino. RIVISTA DI FILOSOFIA 77 RASSEGNA DELLE RIVISTE Etica ed estetica in Croce e Irving Babbitt. La sintesi di un conservatore americano, di G. Paraboschi: il recupero della figura di Irving Babbitt e dei suoi rapporti con Croce all’interno della “Old Right”, una delle correnti in cui si articola il movimento conservatore in America. ‘Teologia trinitaria e censura’. Un passo inedito di Guido Calogero, di C. Farnetti. al finalismo si inscrive all’interno di una posizione epistemologica propria del pensiero moderno, ma se ne distingue per la radicalità delle posizioni. ARCHIVES DE PHILOSOPHIE Vol. 57, n. 1, gennaio-marzo 1994 Beauchesne, Paris Tema della rivista: “Filosofia in Italia II”. Tempo e storia in Hegel, di F. Chiereghin: nel sistema hegeliano il tempo raffigura in modo emblematico la funzione che il filosofo assegna alla natura: l’essere altro dell’idea, ma anche il presupposto per il pieno dispiegarsi dello spirito. Esso viene così ad avere una funzione mediatrice tra divenire e storia. Liberté et égalité. La formation de la théorie démocratique chez Bobbio, di F. Sbarbieri. Notes sur Capograssi et Piovani, di D. Jervolino. Luigi Pareyson et son école, di M. Ravera. PER LA FILOSOFIA Anno XI, n. 31, maggio-agosto 1994 Massimo, Milano Diritto ed eticità della famiglia nella ‘Rechtsphilosophie’ di Hegel, di M. Tomba. Per una cultura della ragione e della volontà, di B. Mondin: il rapporto tra ragione e volontà alla luce di principi razionali e cristiani. Il mondo di Galileo: l’oggetto del suo sapere fisico-matematico. Diffalcare gli impedimenti della materia (parte II) di L. Congiunti: indagine sul pensiero di Galileo: la matematizzazione del mondo naturale; il ruolo dell’esperimento; il progetto scientifico e filosofico. Conoscenza e volontà secondo S. Tommaso, di M. Pangallo. Bios politikos e bios theoretikos secondo Hannah Arendt, di J. Taminiaux. Analisi fenomenologica della volontà. Edmund Husserl e Edith Stein, di A. Ales Bello. Linee interpretative per una storia del neotomismo e della neoscolastica di A. La Russa: recensione di L. Malusa: Neotomismo e intransigentismo cattolico, (Milano 1986-1989). Tema della rivista: “Filosofia della volontà”. Libertà e verità oggi. Compiti attuali della filosofia della volontà, di G. Penati: la fondazione della verità sulla libertà e il comune fondamento in direzione del trascendente. L’educazione della volontà in Piero Martinetti, di G. Colombo. Eticità e ragione. Richard M. Hare e la “legge di Hume”, di M. Lovatti: il tentativo postmoderno di superare dissociazione di fatto e valore in Hare. Sulla fondazione dell’etica nella ‘Veritatis Splendor’, di A. Poppi. Ermeneutiva della libertà: Dostoevskij e l’ultimo Pareyson, di R. Diodato: le origini della problematica del male e della libertà, proprie dell’ultima riflessione di Pareyson. Le “ragioni del cuore” secondo Max Scheler, di D. Verducci:il primato dell’amore e del cuore, di ascendenza agostiniana e pascaliana, come originaria fonte di conoscenza in Scheler. VERIFICHE Anno XXIII, n. 1-2 gennaio-giugno 1994 Verifiche, Trento Bonum e Summum Bonum nell’Etica di Spinoza, di F. Biasutti: in Spinoza la critica Métaphysique et violence. Question de méthode, di G. Vattimo: la radicale critica della metafisica, in atto in parte della filosofia contemporanea, si presenta inevitabilmente come una “questione di metodo”, perché non tocca solo i contenuti o i modi di fare della filosofia, ma la possibilità stessa della filosofia come tale. Aldo G. Gargani ou du (dé)constructivismre en philosophie, di C. Paoletti. En tant que. Les manières de Giorgio Agamben, di F. Wybrands: sul problema del linguaggio. Le philosophe et la muse, di G. Agamben: aforismi sull’arte. Severino et la poésie du néant, di I. Valent: la relazione tra il pensiero di Severino e la poesia. RIVISTA INTERNAZIONALE DI FILOSOFIA DEL DIRITTO Anno LXXI, n. 2, 1994 Giuffré, Milano Uberto Scarpelli, giurista e filosofo, di M. Jori. Il significato del cuore nella filosofia giuridica di S. Agostino e di Marsilio da Padova, di E. Ancona. Naturalità del diritto e universali giuridici di G. Cosi:l’indagine sull’esistenza di universali del diritto attraverso il rilevamento di un tempo, uno spazio e delle costanti nel diritto. Montesquieu e il problema della diversité, di C. P. Courtney: l’analisi di Montesquieu della diversité, anche attraverso l’illustrazione della posizione dei predecessori: Grozio, Pufendorf, Barbeyrac. Una conversione della teoria critica? Sulla teoria del diritto e dello Stato di Habermas, di O. Hoffe. Dimensione transculturale dei fenomeni giuridici nella ricerca antropologica, di L. Scillitani. La pensée à l’épreuve du poétique, di R. Pineri: la critica ironica di Leopardi al presente. Augusto Del Noce et le problème de l’athéisme, di M. Cacciari: la considerazione di Del Noce sull’ateismo attuale, a partire da una storia dell’ateismo. Sciacca (1908-1975) ou le pathos du philosophe, di X. Tilliette. Michelstaedter, le dèfi de la métaphysique, di G. Petitdemange: l’ascolto, il dolore, la persuasione in Michelstaedter. Giorgio Colli. Le philosophe et l’énigme, di F. Masini: l’incontro di Colli con il tema dell’enigma. Économisme historique ou matérialisme historique? Pour une relecture de Marx et Engels, di D. Losurdo: la critica marxiana all’ideologia come prodotto di un lungo processo del pensiero moderno. La “khôra” française, di S. Petrosino: la presenza e l’influenza del pensiero francese in Italia dal dopoguerra ad oggi. Segue il «XXI Bollettino cartesiano». 78 RASSEGNA DELLE RIVISTE REVUE DE METAPHYSIQUE ET DE MORALE Vol. 99, n. 1, gennaio-marzo 1994 A. Colin, Parigi Tema della rivista: “La médiation italienne”. La première réception de Fichte et de Schelling en Italie (1804-1862), di C. Cesa. La révolution de 1848 et l’image de Hegel en Italie et en Allemagne, di D. Losurdo: Hegel ha avuto un ruolo essenziale nella preparazione ideologica della rivoluzione del 1848; se in Italia la resistenza alla reazione politica ed ideologica si alimenta di motivi hegeliani, in Germania la disfatta del movimento democratico coincide con la fine della filosofia hegeliana. Augusto Vera et le sens de la vulgarisation hégélienne en Europe, di G. Oldrini: intorno alla metà del secolo scorso Vera rappresenta il più importante tramite per la circolazione delle idee di Hegel in Europa; il suo contributo di traduttore e “volgarizzatore” dell’opera hegeliana viene considerato alla base dell’hegelismo “ortodosso”. La question du nèant dans la philosophie de M. Heidegger, di E. Grassi. Existentialisme 1941, di L. Pareyson: un testo di Pareyson del 1941. Raisons et formes du réalisme scientifique, di E. Agazzi: nelle proposte di Galilei e di Kant possiamo individuare un’intenzione realista in campo scientifico. Le ‘Dictionnaire Philosophique’ portatif, di C. Mervaud. Against withering, di R. Farr: il rapporto tra marxismo e dittatura. La correspondance de Voltaire: du document au monument?, di J. Moureaux: la corrispondenza monumentale di Voltaire ci permette di arricchire le nostre conoscenze circa questo pensatore. Hume and imagination: symphaty and “the other”, di M. J. Ferreira: l’analisi del principio della simpatia come elemento privilegiato per la comprensione dell’immaginazione in campo etico. Madpeople and ideologues: an issue for dialogic justice theory, di M. Kingwell: giustizia e comunicazione in Habermas. J. B. S. P. Vol. 25, n. 1, gennaio 1994 University of Manchester, Manchester Tema della rivista: “La filosofia di MerleauPonty”. How the phenomenologists rediscovered the world, di A. Grieder: un breve excursus su alcuni concetti della fenomenologia da Husserl a Merleau-Ponty. Foundations, intentions and competing theories, di T. O’ Connor: un’analisi in chiave scettica di alcuni aspetti della filosofia di Merleau-Ponty. Merleau-Ponty and Heidegger: the intentionality of transcendence, the being of intentionality, di P. L. Bourgeois. Selfhood and corporeity, di M. Villela-Petit: l’analisi delle conseguenze relative alla comprensione della personalità e della corporeità nelle prime opere di Merleau-Ponty e l’evoluzione dell’ultima fase della sua filosofia, soprattutto in Visible et Invisible (1964). Perceptual faith and the invisible, di F. Dastur. REVUE INTERNATIONALE DE PHILOSOPHIE n. 1/1994, marzo 1994 PUF, Parigi Tema della rivista: “Voltaire, nell’anniversario della nascita”. Voltaire et l’empirisme anglais, di R. Niklaus: il ruolo di Locke e Newton nella formazione del pensiero di Voltaire. La vision historique de Voltaire, di F. Diaz: una considerazione strettamente storica dell’opera di Voltaire. Les confucianistes, philosophes tolérants dans la pensée de Voltaire, di H. Nakagawa: il concetto più importante della dottrina morale di Voltaire, la tolleranza, emerge, nel Dizionario, dalle voci relative al pensiero ed alla religione dell’estremo Oriente. Voltaire et le conte philosophique, di H. Mason. The colors of fire: depth and desire in Merleau-Ponty ‘Eye and Mind’, di G. A. Johnson. Seeing otherwise - Merleau-Ponty’s line di M. H. Münchow: la trattazione di un particolare aspetto della pittura, la linea, in MerleauPonty: il ruolo di Lacan in questa analisi. Perception, corporeity and kindness, di W. S. Hamrick: come la fenomenologia della percezione e della corporeità possa gettare una luce sul fenomeno della cortesia. Ends, desires and rationality, di O. Black. Private states and public practices: Wittgenstein and Schutz on intentionality, di M. Williams: le differenze tra Schutz e Wittgenstein in merito alla descrizione della vita sociale; differenze che si fondano su due diversi modi di intendere l’intenzionalità. JOURNAL OF THE HISTORY OF PHILOSOPHY Vol. XXXII, n. 1, gennaio 1994 Washington University, St. Louis Socrates on the immorality of the soul, di M. L. Mcpherran: la concezione socratica dell’anima e la riforma della tradizione religiosa greca. An image for the unity of will in Duns Scoto, di J. Boler. Dynamics and transubstantiation in Leibniz’s ‘Systema Theologicum’, di D. C. Fouke: la riflessione di Leibniz sulla transustantazione è collegata all’evoluzione della sua concezione di Dio verso una prospettiva neoplatonica. Intuition and construction in Berkeley’s account of visual space, di L. Falkenstein. Nietzsche, Spir and time, di R. Small: per comprendere pienamente la dottrina nietzscheana del tempo non è sufficiente rivolgersi alla filosofia antica, ma occorre anche far riferimento ad autori più vicini nel tempo, come A. Spir (1837-1890). Seeing, di R. McLure. The unique role of logic in the development of Heidegger’s dialogue with Kant, di F. Schalow. INTERNATIONAL PHILOSOPHICAL QUARTERLY DEUTSCHE ZEITSCHRIFT FÜR PHILOSOPHIE Vol. XXXIV, n. 1, marzo 1994 Fordham University, New York Vol. 42, n. 3/1994 Akademie Verlag, Berlin Kierkegaard and the anxiety of authorship, di M. Westphal. Zu einer Hermeneutik des Rechts: Argumentation und Interpretation, di P. Ricoeur. 79 RASSEGNA DELLE RIVISTE Kulturen als Zauberspiegel der Moderne oder ARE KA, KORE KA-ARE MO, KORE MO, di S. Richter: alcune tematiche del pensiero scientifico giapponese del XIX secolo. Experimentalsysteme, epistemische Dinge, Experimentalkulturen, di H. J. Rheinberger: un’epistemologia dell’esperimento legata al campo della biologia. Das Spiel der Natur: Experimentieren als Vorführung, di R. P. Crease: Dewey, Husserl, Heidegger e la riflessione sull’esperienza. Vorüberlegungen zu einem kontextualistisches Modell der Wissenschaftsentwicklung, di W. Bonss, R. Hohlfeld, R. Kollek. Die Universität aus sozialkonstuktivistischer Perspektive, di S. Fuller. Atheismus, Induktivismus und Freud oder: die Vertreibung eines kölschen Jungen, intervista di A. Grünbaum a H. P. Krüger. ZEITSCHRIFT FÜR PHILOSOPHISCHE FORSCHUNG Vol. 48, n. 2, aprile-giugno 1994 V. Klostermann Verlag, Francoforte s.M. Wer bestimmt, was es gibt, di C. U. Moulines: il rapporto tra ontologia e teoria della scienza a partire dalla riflessione di Quine. ’93", e contiene gli Annali di poesia italiana 1985-1993. PER LA FILOSOFIA (Anno XI, n. 30, gen- naio-aprile 1994, Massimo, Milano) presenta un fascicolo monografico sul tema: “Forme della coscienza”. Thomas Reids Kritik des Cartesianismus, di E. Heller. Moralische Verantwortung in der wissenschaftlich-technischen Welt, di G. Seebass: la riflessione sulla “nuova etica” di H. Jonas. (Anno XII, n. 1, 1994, Nuova eri, Roma) pubblica le relazioni del convegno: Machina multa minax (Santa Sofia, novembre 1991), dedicato al rapporto tra cultura classica e culture moderne. FENOMENOLOGIA E SOCIETA’ (Vol. gennaio- aprile 1994, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli) è dedicata al tema: “Esperienza religiosa. Forme e figure”, in cui viene affrontato il problema dell’esperienza religiosa in relazione alle figure di Agostino, T. Müntzer, Lutero, etc. XVI, n. 2, 1993, Rosemberg & Sellier, Torino) presenta un numero a carattere monografico dal titolo: Un seminario su Gilles Deleuze, a cura di U. Fadini e A. Zanini. Tra gli altri segnaliamo l’intervento di U. Fani, L’identità Spinoza- Nietzsche. Movimenti filosofici in Deleuze; e l’articolo di F. Cassinari, Dottrina delle facoltà, monismo ontologico e questione fondativa: Deleuze lettore di Kant, dedicato ad un’analisi del testo di Deleuze del 1963, La philosophie critique de Kant. Doctrine des facultés, opera che, pur non esaurendo completamente il rapporto tra Kant ed il pensatore francese, costituisce tuttavia lo scritto più importante per instaurare un confronto tra i due filosofi. FILOSOFIA OGGI (Anno XVII, n. 65, gen- TELLUS (n. 11, 1993, Morbegno) propone naio-marzo 1994, L’arcipelago, Genova) presenta la prima parte dell’intervento di P. Rostenne dal titolo: Temps et histoire. il tema monografico: “L’utopia dialettale”, presentando i seguenti aricoli: La lingua di Johann Peter Hebel, di M. Heidegger; La madre lingua. Heidegger, Hebel e il dialetto, di C. Resta; Dialetto, comunità, comunicazione, di M. Prandi; Una domanda, molte risposte, di R. Bracchi; Il dialetto tra particolarità e tradizione, di M. Centini; Una morte annunciata, di I. Fassin; Lingua, identità e transizione alla democrazia, di N. Milani Kruljac; Il dialetto tra radicamento e apertura di S. Ruffoni; La casa vicino al mare di J. Robaey; L’arte e la maniera di abbordare il proprio capoufficio per chiedergli un aumento di G. Perec; Acque e società nelle vicende valtellinesi, di G. Bettini; L’esistenza come un battito del cuore, di R. Panattoni; Il solfanello e la legna, di R. De benedetti. INTERSEZIONI (Anno XIV, n. 1, aprile 1994, Il Mulino, Bologna) presenta un articolo di C. Segal, La voce femminile e le sue contraddizioni: da Omero alla tragedia, in cui vengono esaminate la continuità e le differenze nella rappresentazione della voce femminile in Omero e nelle tragedie. In particolare si prende in considerazione la voce del lamento femminile. FILOSOFIA E TEOLOGIA (Anno VIII, n. 1, FILOSOFIA OGGI (Anno XVII, n. 66, apri- le. giugno 1994, L’arcipelago, Genova) presenta un intervento di M. Zanatta dal titolo: La questione del fondamento in “Einführung in die Metaphysique” di Martin Heidegger. IL VERRI (n. 1-2, gennaio-aprile 1994, Das Wirchliche und der Abschied vom ganzen. Zu Schellings später philosophischer Einsicht, di T. Buchheim: realtà e separazione in Aristotele ed il concetto schellinghiano di una filosofia negativa. NUOVA CIVILTA’ DELLE MACCHINE Mucchi Editore, Modena) presenta un fascicolo dedicato alla poesia francese contemporanea. AESTHETICA (n. 40, aprile 1994, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo) è dedicata ad uno studio di R. Dottori dal titolo: Paul Cézanne. L’opera d’arte come assoluto, in cui viene celebrata l’opera di Cézanne come passaggio fondamentale, nell’avvento dell’arte contemporanea, verso la ricerca di una propria forma e di un proprio linguaggio. IDEE (Anno VIII, nn. 22 e 23, Milella, Lecce) presenta due numeri a carattere monografico: “Filosofia e politica” e “Filosofia e scienza”. FILOSOFIA (Anno XLV, n. 1, gennaio- Vicolo del Pavone, Piacenza) pubblica scritti di Dante Filippucci e poesie di Karin Boye. aprile 1994, Mursia, Milano) presenta gli interventi al convegno: “Augusto Guzzo a cent’anni dalla nascita”, tenutosi all’Università di Torino il 12-13 aprile 1994. TEOLOGIA (Anno XIX, n. 1, marzo 1994, PROSPETTIVA PERSONA (Anno III, n. 8, Glossa, Milano) presenta un articolo di I. Biffi dal titolo: Figure medievali della teologia: la teologia in Duns Scoto. Il desiderio tra la fede e la “ratio”. aprile-giugno 1994, Demian Edizioni, Teramo) propone due interventi su P. Ricoeur: Ermeneutica e liberazione. Il dialogo di Dussel con Ricoeur, di A. Savignano, e Il Kerigma della speranza in Paul Ricoeur, di P. Cugini. KAMEN (Anno IV, n. 5, luglio 1994, Ed. IPOTESI DEL SOGGETTO & LA SCIENZA (maggio 1994, Il Soggetto & La Scienza, Padova) è dedicato al tema dell’iniziazione. La problematica più che antropologica è politica, in quanto l’attuale mancanza di un sistema di iniziazione coincide con la mancanza di un sociale a cui essere iniziati. Il tema viene quindi affrontato da diverse prospettive, filosofiche, politiche, storiche e psicanalitiche. NUOVA CORRENTE (n. 112, 1993, Tilgher, Genova) è dedicata al tema: “Poesia RIVISTA ROSMINIANA (Anno LXXXVI- II, n. 2, aprile-giugno 1994, Ed. rosminiane Soliditas, Stresa) presenta, accanto ad una serie di articoli su Rosmini, anche un intervento di G. C. Godani su La mente in Vico. 80 NOVITÀ IN LIBRERIA NOVITÀ IN LIBRERIA Adorno, Theodor W. Minima moralia Meditazioni della vita offesa Einaudi, giugno 1994 pp. 311, L. 14.000 Con introduzione e nuova nota critico-bibliografica di Leonardo Ceppa. La difficoltà di presentare questo classico di Adorno ha cambiato segno: si tratta di non fare l’autore troppo attuale. Bisogna così collocarlo nella sua prospettiva di classico tedesco, «deporre la smania di volerlo strumentalizzare in senso tattico». Alai, Mario Modi di conoscere il mondo. Soggettività, convenzioni e sostenibilità del realismo FrancoAngeli, giugno 1994 pp. 208, L. 30.000 Il volume si oppone alla convinzione diffusa secondo cui l’idea che le nostre teorie o descrizioni ci informino su una realtà indipendente chiamata, con accezione negativa, realismo metafisico e confutata sin dai tempi di Kant. Albert, Hans Kritik der reinen Hermeneutik. Der Antirealismus und das Problem des Verstehens Mohr, maggio-giugno 1994 p. 280, DM 50 Althusser, Louis Sur la philosophie Gallimard, maggio 1994 p. 192, F 92 Il volume riunisce gli Entretiens con la professoressa di filosofia messicana Fernanda Navarro, il cui intento era di spiegare il senso filosofico e politico degli interventi di Althussser negli anni 60 e 70, ed anche il testo La Trasformation de la philosophie: conference de Grenade (1979), estendendo quindi l’analisi alle riflessioni sui paradossi della filosofia marxista. Altieri, Charles Subjective Agency. A Theory of First Person Expressivity and its Social Implications Blackwell, luglio 1994 p. 400, £ 45 Sostenendo che l’azione soggettiva non può essere portata a compimento se si rimane all’interno delle modalità di pensiero che dominano l’umanità, Altieri si rivolge alla tradizione filosofica espressivista. Egli sostiene una versione degli interessi espressivisti basata sull’estetica di Kant. Bailhache, Gérard Le Sujet chez Emmanuel Levinas: fragilité et subjectivité PUF, maggio 1994 p. 352, F 198 Si tratta di uno studio del contenuto e della genesi della nozione di soggetto nel pensiero di Levinas, uno dei cardini delle opere di Levinas. Nel saggio si assiste anche al costituirsi, in modo sia sfumato che rigoroso, della funzione del soggetto nella sua dimensione etica e metafisica. Antonelli, Mauro Die experimentelle Analyse des Bewußtseins bei V. Benussi Editions Rodopi, luglio 1994 p. 218, FOL 75 Questi sono gli argomenti trattati nel libro: uno schizzo della vita di Vittorio Benussi; la fenomenologia della percezione; la controversia BernussiKoffka; la “analisi reale psichica” della percezione; l’eco delle concezioni di Bernussi presso altri autori. Barotta, Pierluigi Dogmatismo ed eresia nella scienza: Joseph Priestley FrancoAngeli, giugno 1994 pp. 192, L. 28.000 Sebbene le ricerche di Priestley avessero contribuito in modo essenziale alla rivoluzione chimica operata da Lavoisier alla fine del ‘700, il filosofo e chimico britannico si oppose tenacemente ad essa. La controversia che ne nacque ha offerto spunti a molti storici e filosofi della scienza che hanno accusato Priestley di dogmatismo. Questo lavoro intende opporsi a tale interpretazione. Arena, Leonardo Vittorio Nietzsche e il nonsense FrancoAngeli, giugno 1994 pp. 320, L. 48.000 In questo libro l’intera opera di Nietzsche viene analizzata per la prima volta alla luce della categoria del nonsense. Se ne evidenzia così la sorpendente coerenza ed organicità, soprattutto nella sfera gnoseologica ed epistemologica, nonché nella sua peculiarità di essere per eccellenza antidogmatica ed antiermeneutica. Bataille, Georges Su Nietzsche Se, giugno 1994 pp. 210, L. 25.000 Questo saggio è l’ultimo della Trilogia Ateologica che Bataille diede alle stampe tra il 1943 e il 1945. Bataille cerca in Nietzsche quei temi che sono capitali per la sua filosofia: l’eccesso, il sacrificio, la morte e l’erotismo. Aristotele Etique à Eudème tr. greco antico di P. Maréchaux Rivages, giugno-luglio 1994 p. 236, F 59 Che cos’è la felicità? Come raggiungerla? Che cos’è il piacere? Che cosa sono le virtù,la grandezza, il coraggio, l’amicizia? Come si arriva alla perfezione? In questo saggio troviamo la risposta a tutte queste domande e l’analisi del rapporto che ogni individuo ha quotidianamente con la morale. Bazzanella, Emiliano Tempo e linguaggio Studio sul pensiero di Vladimir Jankélévitch FrancoAngeli, giugno 1994 pp. 144, L. 22.000 Abbandonata ogni pretesa sistematizzante, questo libro cerca di compiere un percorso per così dire “tangenziale”, un attraversamento problematico che individua, quasi sullo sfondo, la dimensione del tempo e l’urgenza di un ripercorrimento che tenga conto dell’essenziale rapporto tra la scrittura e la filosofia. Bahm, Archie J. The Science of Oughtness Ed. Rodopi, maggio-giugno 1994 p. 200, FO 60 Il volume è stato scritto quasi come una sfida nei confronti di quanti sono riluttanti nel riconoscere che la scienza può avere un ruolo importante rispetto alle teorie etiche. Il libro getta nuova luce sulle responsabilità di gruppo, sul dover essere apparente e la responsabilità che tutti abbiamo nell’estendere la consapevolezza delle nostre responsabilità. 81 Berdjaev, Nikolaj Il senso della creazione Saggio per una giustificazione dell’uomo Jaca Book, luglio-agosto 1994 pp. 448, L. 65.000 Bertrand, Henry L’Eternel renouveau pref. di Jean Desmeuzes Caractères, giugno-luglio 1994 p. 130, F 120 La legge del mondo, secondo il punto di vista dell’autore, sarebbe - così come viene dimostrato dall’ultima riga di quest’opera, giustificandone anche il titolo - un eterno ritorno. Troviamo qui il pensiero di un uomo che offre in maniera fraterna ai poeti e ai filosofi a lui contemporanei la quintessenza della sua vita. Betzler, Monika B. Ich-Bilder und Bilderwelt. Überlegungen zu einer Kritik des darstellenden Verstehens W. Fink, maggio-giugno 1994 p. 249, DM 68 La ragione storica di Wilhelm Dilthey, l’ermeneutica e la Bildtheorie degli ultimi scritti di Fichte, gli sforzi di tipo teoretico di Dieter Henrich vengono accostati e criticati portando ad un nuovo modo di considerare il rapporto tra soggettività e storia. Beyssade, Jean-Marie Marion, Jean-Luc Descartes: objecter et répondre PUF, giugno-luglio 1994 p. 496, F 120 Le Obiezioni e le Risposte non sono i protocolli di un dibattito che si sarebbe svolto dopo la pubblicazione delle Meditazioni e quasi al di fuori di esse. Fin dall’inizio, l’opera principe della metafisica moderna è nata tripartita. Bidima, Jean Godefroy Théorie critique et modernité négro-africaine: de l’école de Francofort à la Docta spes africana Publications de la Sorbonne giugno-luglio 1994 p. 343, F 200 L’autore fa dialogare tra loro una teoria “centrata sull’Europa”, la teoria critica della Scuola di Francoforte, e l’Africa sulla base di un terreno che le lega e le rende opposte: la modernità. Egli critica la spoliticiz- NOVITÀ IN LIBRERIA zazione e le strategie di ibernazione in Africa, allo scopo di aprire il soggetto al possibile. Bieri, P. (a cura di) Analytische Philosophie der Erkenntnis Beltz Athenäum, luglio 1994 DM 39,80 Bloch, Ernst Il principio speranza Introduzione di Enrico Bodei 3 Volumi Garzanti, giugno 1994 pp. 1628, L. 96.000 Nei tre volumi che costituiscono l’opera, la dimensione utopica del pensiero viene esplorata in tutte le sue molteplici manifestazioni: oltre il principio di piacere ma anche oltre il principio di realtà. Boeder, Heribert Das Bauzeug der Geschichte. Aufsätze und Vorträge zur griechischen und mittelalterlichen Philosophie Königshausen & Neumann luglio 1994 p. 380, DM 78 Bossuer, Jacques Benigne Trattato della concupiscenza De Martinis, giugno 1994 pp. 130, L. 10.000 Le sottili ricognizioni di Bossuer sulla concupiscenza superano il quadro cristiano-cattolico. Da vero rappresentante dello spirito, Bossuer ne esamina anche le sue sregolatezze. Buchholz, R. - Kruse, J.A. (a cura di) ’Magnetisches Hingezogensein oder schaudernde Abwehr’. Walter Benjamin (1892-1940) J.B. Metzler, maggio-giugno 1994 p. 140, DM 28 Nel volume, vengono analizzati aspetti biografici, storico-filosofici, teologici ed estetici legati alla personalità di Walter Benjamin. Budé, Guillaume Le Passage de l’hellénisme au christianisme. De transitu hellenismi ad christianismum tr. dal latino M.M. de La Garanderie e Daniel Franklin Penham Belles lettres, giugno-luglio 1994 p. 294, F 280 Nell’autunno del 1534, quando scoppia l’ “affaire des Placards”, il grande umanista Budé compone questo lungo testo, in cui egli intende definire, da una parte il cristianesimo rispetto alla filosofia greca e, dall’altra parte, la tradizione cattolica di fronte alle contestazioni della Riforma. De transitu, una sorta di libro-testamento, è indirizzato a chi, nel 1535, era ancora scettico o indeciso e rifiutava quindi di prendere posizione. Butzlaff, J. (a cura di) Karl Rosenkranz Briefe 1827 bis 1850 de Gruyter, luglio 1994 p. 539, DM 260 Si tratta della pubblicazione di tre- centottanta lettere, di cui la metà era rimasta fino ad ora non pubblicata, di Karl Rosenkranz (1805-1879), storico della letteratura, studioso di Hegel a Halle e Königsberg. Tra i destinatari di queste lettere si trovano il figlio più vecchio e la moglie di Hegel, Fichte, Ruge, Schopenhauer e Goethe. Cassirer, Ernst Philosophie der symbolischen Formen. Wesen und Wirkung des Symbolbegriffs Wiss. Buchvlg., luglio 1994 p. 1545, DM 98 Questa edizione in cinque volumi contiene anche Wesen und Wirkung des Symbolbegriffs, in cui Cassirer abbozza, sviluppa, giustifica e difende i fondamenti della sua filosofia delle forme simboliche. Canahl, Kay Sphären des Zersetzenden. Ein Beitrag zur Jaspers-Forschung Vlg. f. Wiss. u. Bildung maggio-giugno 1994 p. 92, DM 29,80 Ceruti, Mario - Fabbri, Paolo Giorello, Giulio - Preta, Lorena (a cura di) Il caso e la libertà Laterza, luglio 1994 pp. 192 Da “il caso e la necessità” al “caso e la libertà”. Scienziati, psicologi e filosofi pongono l’accento sul valore critico della scelta, della creatività e della responsabilità del ricercatore. Canto-Sperber, Monique La Philosophie morale britannique PUF, maggio 1994 p. 304, F 186 Il volume contiene uno studio storico e critico delle principali correnti che testimoniano della riflessione morale oltremanica (intuizionismo, utilitarismo, idealismo...), al quale seguono saggi di sei filosofi britannici, i cui lavori sono rappresentativi della ricchezza delle riflessioni attuali. Chartier, Roger L’ordine dei libri giugno 1994 pp. 120, L. 15.000 Tra la fine del Medioevo e il XVIII secolo, l’invenzione dell’autore come principio per la designazione dei testi, il sogno di una biblioteca universale, l’emergere di una nuova definizione del libro, cercano di portare ordine nel mondo dello scritto. Ma la lettura è per definizione ribelle e questo ordine non sopprime la libertà dei lettori. Canziani, Guido (a cura di) Filosofia e religione nella letteratura clandestina FrancoAngeli, giugno 1994 pp. 528, L. 60.000 Tra Sei e Settecento la critica più radicale delle metafisiche spiritualistiche, delle credenze e dei dogmi religiosi trovò una delle sue espressioni significative in quella letteratura filosofica clandestina che era alimentata da testi manoscritti o a stampa, per lo più anonimi, nei quali l’affermazione delle prerogative e dei limiti della ragione si traduceva in concezioni materialistiche, in prospettive ateistiche o deistiche e in appelli alla tolleranza. Chatelet, François Hegel Seuil, giugno-luglio 1994 p. 269, F 69 Si tratta dell’edizione riveduta e corretta di quest’opera che offre una panoramica del sistema hegeliano e che ci permette di capire la portata della sua filosofia e l’inquietudine che la anima. Casanova, Giacomo Über den Selbstmord und die Philosophen tr. dall’italiano Campus, maggio-giugno 1994 p. 160, DM 38 Le nuove scoperte di testi filosofici di Casanova, raccolti in questo volume, ci mostrano un aspetto sconosciuto di questo personaggio, il quale - molto prima di fornire, con le sue memorie, un documento della sua vita instabile e piena di avventure - dimostra che il suo spirito brioso è in grado di interrogarsi anche su temi filosofici come il rapporto tra suicidio e filosofia. Ciaramelli, Fabio Moroncini Bruno Pappale, Felice Ciro Diffrazioni. La filosofia alla prova della psicoanalisi Guerini, giugno 1994 pp. 276, L. 38.000 Raccolta di tre saggi: “Freud e Heidegger” sul perturbante e l’angoscia; “Lacan” sulla metafora platonica dell’amore; “Michel Henry” sulla genealogia della psicoanalisi. Cassirer, Ernst Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit Wiss. Buchvlg., luglio 1994 p. 2294, DM 198 Quest’opera di Cassirer in quattro volumi, di cui il primo fu pubblicato nel 1906 ed il quarto nel 1950, nella traduzione in lingua inglese, costituisce un classico, un’opera insuperata di scrittura di una storia della filosofia orientata ai problemi. Collison, D. - Wilkinson, R. Thirty-five Oriental Philosophers Routledge, maggio-giugno 1994 p. 352, £ 45 Si tratta di un’introduzione succinta ed informativa al pensiero di trentacinque figure importanti delle tradizioni filosofiche cinese, indiana, araba, giapponese e tibetana. I pensatori inclusi in questo volume sono sia fondatori come Zoroastro, Confucio, Budda e Maometto che influenti figure moderne come Gandhi, Mao TseTung, Suzuki e Nishida. 82 Conrad, Elfried Kants Logikvorlesungen als neuer Schlüssel zur Architektonik der Kritik der reinen Vernunft. Die Ausarbeitung der Gliederungsentwürfe in den Logikvorlesungen als Auseinandersetzung mit der Tradition Frommann-Holzboog, luglio 1994 p. 160, DM 68 Cozzo, Cesare Teoria del significato e filosofia della logica Clueb, giugno 1994 pp. 268, L. 30.000 Cristin, R. (a cura di) Leibniz und die Frage nach der Subjektivität. Tagung Triest, Mai 1992 Fr. Steiner, maggio-giugno 1994 p. 320, DM 112 Dahmer, Helmut Pseudonatur und Kritik. Freud, Marx und die Gegenwart Suhrkamp, maggio-giugno 1994 p. 440, DM 27,80 Damont, Jean-Paul La filosofia greca Xenia, luglio 1994 pp. 128, L. 10.000 Uno dei più grandi specialisti francesi in materia presenta in modo originale le linee fondamentali del pensiero antico. Davidson, John Am Anfang ist der Geist. Die Geburt von Materie und Leben aus dem schöpferischen Geist Scherz, luglio 1994 p. 340, DM 39,80 La scienza moderna, nel suo tentativo di capire la creazione da un punto di vista materialista, è ormai in un vicolo cieco. Questo libro mostra come superare il pensiero meccanicista. De Pasquale, Mario Didattica della filosofia. La funzione egoica del filosofare FrancoAngeli, giugno 1994 pp. 240, L. 34.000 Il tentativo di definire in termini operativi e controllabili la peculiarità del filosofare, di individuarne le finalità e gli obiettivi di natura cognitiva, affettiva, relazionale, le modalità del suo insegnamento e del suo apprendimento, anche mediante la discussione dei tradizionali schemi entro cui si è svolto il dibattito negli ultimi decenni. Demarco, Joseph P. A Coherence Theory in Ethics Editions Rodopi, luglio 1994 p. 270, FOL 90 Il libro, criticando le teorie filosofiche tradizionali che hanno a che fare esclusivamente con i principi, le conseguenze, le virtù, mostra come questi valori possano essere integrati in una visione dinamica della coerenza, rispettando le molteplici dimensioni della nostra vita morale. NOVITÀ IN LIBRERIA Demmerling, Christoph Sprache und Verdinglichung. Wittgenstein, Adorno und das Projekt einer kritischen Theorie Suhrkamp, luglio 1994 p. 184, DM 19,80 Desanti, Jean-Toussaint Introduction à la phénoménologie Gallimard, maggio 1994 p. 176, F 31,50 E’ possibile utilizzare ancora il metodo fenomenologico? Il progetto husserliano può essere ripreso e prolungato? L’autore tenta di rispondere e queste domande seguendo il filo delle Meditazioni cartesiane di Husserl. Dioguardi, Nicola Lettere al Cardinale Mursia, giugno 1994 pp. 128, L. 20.000 Un carteggio tra Nicola Dioguardi e il Cardinale di Milano Carlo Maria Martini. Si vuole dimostrare che scienza e fede possono trovare punti d’incontri, possono lavorare insieme. Droz, Geneviève I miti platonici Dedalo, giugno 1994 pp. 224, L. 28.000 I sedici miti di Platone: Prometeo o le origini del mondo, l’Amore nelle versioni di Aristofane o di Socrate-Diotima nel Convito, il tema della Reminiscenza, espresso principalmente attraverso il fascino delle narrazioni, come la grande allegora della Caverna, oppure delle grandiose visioni del carro alato di Fedro. Dubost, J.-P. (a cura di) Bildstörung. Gedanken zu einer Ethik der Wahrnehmung Reclam, luglio 1994 p. 200, DM 24 Si continua, anche ai giorni nostri, ad interrogarsi su come arte e tecnica, etica ed estetica, possano essere considerate e valutate. Su questo argomento, vengono raccolti i contributi originali di Alain Badiou, Thierry de Duve, Jean-François Lyotard, Manfred Moser, Jean-Luc Nancy, Walter Seitter, Paul Virilio, Samuel Weber ed altri. Duhamel, R. - Oger, E. (a cura di) Die Kunst der Sprache und die Sprache der Kunst Königshausen & Neumann maggio-giugno 1994 p. 206, DM 39,80 Engel, Pascal Introduction à la philosophie de l’esprit La Découverte, giugno-luglio 1994 p. 250, F 165 Il volume offre un panorama suggestivo dei dibattiti che animano la tradizione analitica all’interno della filosofia dello spirito. Analizzando le teorie contemporanee alla luce dei risultati della ricerca scientifica e dell’analisi concettuale, l’autore abbozza i tratti generali di una filosofia dello spirito materialista ma non reduzionista. Engel, Pascal (a cura di) Lire Davidson: interprétation et holisme Eclat, maggio 1994 p. 224, F 130 Si tratta di un’analisi dell’opera di Donald Davidson (nato negli Stati Uniti nel 1917), condotta attraverso i temi dell’interpretazione del linguaggio, dello statuto delle norme e dell’olismo del significato e delle credenze. Questi temi vengono confrontati con i più recenti contributi della filosofia analitica. filosofico in Italia e delle sue numerose ramificazioni interne. Forrest, Frank G. Valuemetrics. The Science of Personal and Professional Ethics Editions Rodopi, luglio 1994 p. 179, FOL 60 La Valuemetrics è un’elaborazione della svolta innovativa promossa da Robert S. Hartman riguardo all’applicazione del sistema astratto allo studio dei problemi etici. La similarità di struttura tra alcuni elementi della teoria degli insiemi e diversi tipi e gradi di bene, rende possibile calcolare matematicamente i fenomeni etici. European Society for the Study of Science and Theology (a cura di) Origins, Time and Complexity Labor et Fides, giugno-luglio 1994 2 vol pp. 384, F 250 A partire dagli anni ’80, ha avuto inizio l’avvicinamento reciproco di scienziati e teologi riguardo alle questioni di ordine metafisico e teologico. Questo processo ha dato luogo al congresso annuale della European Society for the Study of Science and Theology e alla pubblicazione annuale degli atti di questo convegno. Foucault, Michael Poteri e strategie L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente Mimesis, luglio-agosto 1994 pp. 126, L. 13.000 I poteri diffusi, il loro essere coestensivi al tessuto sociale ma anche alla radicale opposizione inscritta nei corpi di chi si oppone alla pratiche disciplinari. Fabeck, Hans von An den Grenzen der Phänomenologie. Eros und Sexualität im Werk Maurice Merleau-Pontys Sed ed., luglio 1994 p. 300, DM 68 Frank, Manfred Il dio a venire Einaudi, giugno 1994 pp. 350, L. 38.000 Attraverso Dioniso, figura centrale dell’immaginario romantico, si rivendica con i romantici i valori di verità del mito, restando però illuministicamente fedeli alla ragione. Fagiuoli, Ettore Nietzsche: la finitudine come autobiografia Egea, luglio-agosto 1994 pp. 300. L. 35.000 Un’autobiografia all’insegna del tentativo di circoscrivere la propria finitezza. Franz, A. (a cura di) Glauben, Wissen, Handeln. Beiträge aus Theologie Philosophie und Naturwissenschaft zu Grundfragen christlicher Existenz. Festschrift für Philipp Kaiser, Eichstätt, zum 65. Geburtstag Echter, maggio-giugno 1994 p. 456, DM 58 Fiminai, Mariapaola Paradossi dell’indifferenza FrancoAngeli, giugno 1994 pp. 160, L. 25.000 La via, nell’attuale dibattito sul superamento del nichilismo, che va oltre l’idea di ritrovare il valore nel dire poetico e nell’innovazione simbolica, esposti all’insufficienza e ai rischi di una riduzione neo-romantica del mondo a favola. Franzini, Elio Arte e mondi possibili. Estetica e interpretazione da Leibniz a Klee Guerini, giugno 1994 pp. 256, L. 35.000 I percorsi genetici e i nuclei di pensiero per formulare un’ipotesi teorica sul senso storico e culturale che l’estetica ha incarnato nella filosofia moderna. Fontenelle, Bernard Le Bouvier de Oeuvres complètes vol. 6 Fayard, giugno-luglio 1994 F 290 Il volume è relativo al lavoro di Fontanelle alla Académie des sciences. Si tratta di una delle opere più celebri del filosofo, contenente molti dei suoi elogi, pronunciati tra il 1699 ed il 1722. Freimert, C. (a cura di) Zur Ästhetik des Territoriums Meiner, luglio 1994 p. 157, DM 36 Furley, D.J. - Nehamas, A. (a cura di) Aristotele’s Rhetoric. Philosophical Essays Princenton UP, luglio 1994 p. 368, $ 55 Questo volume, che raccoglie i saggi di filosofi e di classicisti di fama internazionale, costituisce la prima trattazione esaustiva della Retorica di Aristotele e degli argomenti di quest’opera. Fornero, Giovanni Restaino, Franco - Dario Antiseri La filosofia contemporanea Vol. 4, tomo II Utet, giugno 1994 pp. 786, L. 120.000 Il volume aggiorna e continua la grande Storia della filosofia di Nicola Abbagnano, offrendo tra l’altro un’ampia ricostruzione del dibattito 83 Gabel, G.U. - Jagenberg, C.H. (a cura di) Der entmündigte Philosoph. Briefe von Franziska Nietzsche an Adalbert Oehler aus den Jahren 1889 bis 1897 Gabel, luglio 1994 p. 130, DM 38 Gagnebin, Jeanne Marie Histoire et narration chez Walter Benjamin L’Harmattan, maggio 1994 p. 175, F 110 Queste analisi dell’opera di Benjamin da parte di Gagnebin obbediscono ad una duplice esigenza, che guida anche la scrittura di Benjamin stesso: la sobrietà filologica ed il rischio filosofico. Una continua attenzione alle parole ed ai concetti permette di elaborare le questioni filosofiche formulate e non sempre risolte nell’opera del filosofo. Gagnebin, Laurent Nicolas Berdiaeff ou De la destination créatrice de l’homme: essai sur la pensée Age d’homme, giugno-luglio 1994 p. 252, F 120 Questo saggio, concepito come una grande introduzione, presenta la maggior parte dei temi affrontati dal filosofo russo (1874-1948), che hanno avuto un’importanza decisiva per la filosofia e la teologia moderne. Garin, Eugenio Il ritorno dei filosofi antichi Bibliopolis, luglio 1994 pp. 128, L. 22.000 Questo saggio tratta del rifiorire degli studi classici nel mondo occidentale durante l’Umanesimo e il Rinascimento, dovuto ai più frequenti contatti del mondo greco con quello latino che divennero sempre più intensi dopo la caduta dell’Impero bizantino. Gellner, Ernest Ragione e cultura Mulino, luglio-agosto 1994 pp. 230, L. 24.000 Viene riletta la storia del pensiero occidentale moderno, tracciando un bilancio critico del razionalismo e del ruolo da esso esercitato nel pensiero filosofico e sociale. Gentile, Giovanni Frammenti di filosofia Le Lettere, giugno 1994 pp. 420, L. 65.000 Raccolta degli scritti gentiliani di filosofia “militante”, di natura teoretica, che vanno dal 1903 al 1943. Gerber, William The Meaning of Life. Insights of the World’s Great Thinkers Editions Rodopi, luglio 1994 FOL 45 Il libro presenta la saggezza di grandi pensatori, rinomati scrittori e filosofi e le loro visioni rispetto alla vita, riportando le loro parole. Le diverse citazioni vengono inserite in una struttura organizzata, con introduzione, commenti e raffronti. NOVITÀ IN LIBRERIA Gessinger, Joachim Auge & Ohr. Studien zur Erforschung der Sprache am Menschen 1700-1850 de Gruyter, luglio 1994 p. 789, DM 348 Il volume è una presentazione storica, culturale e teorica della discussione europea intorno al rapporto tra percezione, pensiero e linguaggio. Giesz, Ludwig Phänomenologie des Kitsches Fischer Taschenbuch maggio-giugno 1994 DM 16,90 Giesz - in un’ampia presentazione, che prende in considerazione anche le conoscenze di tipo filosofico, sociologico ed estetico - individua le componenti specifiche della “esperienza del kitsch”. Gilbert, R. A. Il misticismo Xenia, luglio 1994 pp.128, L. 10.000 Come l’uomo ha condotto la ricerca del divino attraverso l’interiorità e la conseguente comunione con l’Assoluto, sia nelle grandi religioni della storia che nel cristianesimo. Gloy, K. - Lambrecht, R. Bibliographie zu ‘Hegels Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse’. Primär- und Sekundärliteratur 1817-1993 Frommann-Holzboog, luglio 1994 p. 114, DM 48 Goodman-Thau, E. Schmied-Kowarzik, W.D. (a cura di) Messianismus zwischen Mythologie und Macht. Jüdisches Denken in der europäischen Geistesgeschichte Akademie Vlg., maggio-giugno 1994 p. 250, DM 78 Görgemanns, Herwig Platon Winter, luglio 1994 p. 186, DM 28 Götzinger, Catarina Martin Buber und die chassidische Mystik. Betrachtungen des inneren Verhältnisses der ‘Ich-und-Du’Philosophie Bubers zur chassidischen Mystik WUV-Univ. Vlg. maggio-giugno 1994 p. 160, DM 23 Graeser, Andreas Ernst Cassirer C.H. Beck. luglio 1994 p. 240, DM 24 Grand, Pierre La Vérité aujourd’hui: vérité et culture P. Grand, giugno-luglio 1994 p. 161, F 120 Si tratta di una meditazione sulla condizione umana, a partire da testi di autori noti, come Nietzsche, Freud e Russell, o meno noti. Grondin, Jean Kant zur Einführung Junius, luglio 1994 p. 160, DM 19,80 Cooper, Ashley Soliloque ou Conseil à un auteur a cura di Anthony Shaftesbury Herne, maggio 1994 p. 228, F 150 A. A. Cooper (1671-1713), pur andando controcorrente rispetto alle mode del suo tempo, fu seguito ed ebbe anche molti consensi. Fornendo come modello gli autori latini e greci, aiutava infatti i suoi contemporanei ad affrontare le difficoltà del loro mondo. I suoi Characteristics, pubblicati nel 1711, ebbero una dozzina di edizioni. Le sue idee furono fondamentali per il secolo dei lumi. Hägler, Rudolf-Peter Kritik des neuen Existentialismus. Identität - Modalität - Referenz Schöningh, maggio-giugno 1994 p. 250, DM 88 Hamacher-Hermes, Adelheid Inhalts- oder Umfangslogik? Die Kontroverse zwischen E. Husserl und A.H. Voigt Alber, maggio-giugno 1994 p. 200, ÖS 336 Heinz, Marion Sensualistischer Idealismus Felix Meiner, maggio-giugno 1994 DM 88 Hammond, Nicholas Playing with Truth. Language and the Human Condition in Pascal’s ‘Pensées’ Clarendon Press, luglio 1994 p. 264, £ 30 Si tratta di un ampio lavoro su Pascal, dedicato al suo utilizzo di terminichiave che illustrano l’argomento centrale dei Pensieri, la condizione umana. Questo studio considera anche lo scopo persuasivo insito nella deliberata instabilità nell’uso della lingua da parte di Pascal. Hilmes, C. - Mathy, D. (a cura di) Spielzüge des Zufalls. Zur Anatomie eines Symptoms Aisthesis-Vlg., luglio 1994 p. 208, DM 34 Hoenen, Maarten J.F.M. Speculum philosophiae medii aevi. Die Handschriftensammlung des Dominikaners Georg Schwartz Grüner, maggio-giugno 1994 p. 169, DM 65 Hastedt, H. - Martens, E. (a cura di) Ethik. Ein Grundkurs Rowohlt, luglio 1994 DM 22,90 Nel volume vengono illustrate le questioni-chiave dell’etica, dal punto di vista storico e sistematico. Accanto a queste nozioni di base vengono spiegate anche le applicazioni e la pratica ad esse relative. Hoffmann, Th.S. - Ungler, Fr. (a cura di) Aufhebung der Transzendentalphilosophie? Systematische Beiträge zur Würdigung, Fortentwicklung und Kritik des transzendentalen Ansatzes zwischen Kant und Hegel Königshausen & Neumann luglio 1994 p. 277, DM 68 Hacking, Ian Linguaggio e filosofia Cortina, giugno 1994 pp. 200, L. 35.000 Il rapporto tra filosofia e linguaggio dal Seicento a oggi attraverso l’opera dei principali attori. Holz, Hans Heinz Descartes Campus, maggio-giugno 1994 p. 162, DM 24,80 Holzley, H. (a cura di) Ethischer Sozialismus. Zur politischen Philosophie des Neukantismus Suhrkamp, maggio-giugno 1994 p. 360, DM 48 Heidbrink, Ludger Melancholie der Moderne. Zur Kritik der historischen Verzweiflung W. Fink, maggio-giugno 1994 p. 360, DM 78 Attraverso analisi che vanno da Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Simmel, Lukács e la rivoluzione conservativa, attraverso Benjamin, Adorno e Heidegger fino a Arnold Gehlen e Odo Marquard, il volume mostra come le reazioni malinconiche al disincanto dell’epoca moderna siano legate ad un pensiero della totalità che è vincolato storicamente. Honnefelder, L. - Rager, G. (a cura di) Ärztliches Urteilen und Handeln. Zur Grundlegung einer medizinischen Ethik Insel, luglio 1994 p. 384, DM 39,80 Horwich, Paul Verità Laterza, luglio 1994 pp. 224 Un saggio sistematico, chiaro e provocante sulla nozione basilare di ogni discorso e speculazione filosofica. Heidegger, Martin Fenomenologia e teologia (Lezioni) Nuova Italia, giugno 1994 pp. 80, L. 10.000 I rapporti e i significati tra cristianesimo e filosofia, negli anni Venti del Novecento europeo, in cui la teologia si viene affermando, sull’onda del Positivismo, come scienza della fede cristiana. Hösle, Vittorio Die Krise der Gegenwart und die Verantwortung der Philosophie. Transzendetalpragmatik, Letztbegründung, Ethik 84 C.H. Beck, luglio 1994 p. 280, DM 48 Nessuna delle correnti principali della filosofia moderna fornisce una motivazione alla razionalità etica. La prammatica trascendentale di K.-O. Apels, sviluppata criticamente da V. Hösle fino a diventare una metafisica obiettivo-idealistica e un’etica, sembra avere qualche prospettiva di diventare una nuova etica. Il volume è alla sua seconda edizione ampliata e con un commento. Hoy, David - McCarthy, Thomas Critical Theory Blackwell, luglio 1994 p. 304, £ 14 In questo libro vengono esaminate le controversie nel campo della teoria critica, concentrando l’attenzione soprattutto su alcune questioni filosofiche. McCarthy sviluppa un approccio alla teoria sociale critica; Hoy difende una concezione dell’ermeneutica genealogica. Ogni autore poi risponde agli argomenti dell’altro. Hulin, Michel Qu’est-ce que l’ignorance métaphisique dans la philosophie hindou? (Sankara) Vrin, giugno-luglio 1994 p. 126, F 39 ”Ignoranza metafisica” è la traduzione approssimativa del termine sanscrito avidya, che letteralmente significa “non sapere”. Di quale sapere si tratta? Il tentativo di rispondere a questa domanda, ci porta al cuore di una problematica comune alla filosofie indiane classiche. Queste riflessioni vengono condotte dall’autore partendo dal Traité des mille enseignements di Sankara. Hume, David Storia naturale della religione Laterza, luglio-agosto 1994 pp. 144, l. 8.000 Hume affronta tutte le domande che ci si può porre difronte ai sentimenti religiosi: trovano essi un fondamento nella ragione? o la loro origine è da ricercarsi nel mondo delle passioni? Husserl, Edmund La filosofia come scienza rigorosa Laterza, luglio 1994 pp. 100 Una nuova traduzione del manifesto programmatico della fenomenologia novecentesca. Irrlitz, Gerd Moral und Methode. Die Struktur in Kants Moralphilosophie und die Diskursethik Nomos, maggio-giugno 1994 p. 56, DM 26 Jahrbücher für wissenchaftliche Kritik Hegels Berliner Gegenakademie Frommann-Holzboog, luglio 1994 p. 583, DM 285 NOVITÀ IN LIBRERIA Jakob, Michael Aussichten des Denkens. Gespräche mit Emmanuel Lévinas George Steiner Jean Starobinski Cioran Michel Serres, René Girard, Pierre Klossowski, André du Bochet Paul Virilio W. Fink, maggio-giugno 1994 p. 240, DM 28 Jaurès, Jean De la réalité du monde sensible intr. Jacques Cheminade Alcuin, giugno-luglio 1994 p. 302, F 140 L’autore, parlando della natura, di Dio e del senso religioso del mondo, abbraccia tutti i campi del sapere umano. L’opera, redatta nel 1891, rappresenta il frutto della sua attività in qualità di professore a Albi e a Tulosa. L’opera non era più stata ristampata dal 1937. Jonas, Hans La filosofia del Novecento. Uno sguardo tra passato e futuro Il Melangolo, giugno 1994 pp.64, L. 10.000 Una sintesi di problemi, temi, correnti e autori del Novecento che hanno tracciato un segno indelebile nell’evoluzione del pensiero filosofico. Kaczmarek, L. (a cura di) Destructiones modorum significandi Grüner, luglio 1994 p. 138, DM 110 Kaempfer, Wolfgang Zeit des Menschen. Das Doppelspiel der Zeit im Spektrum der menschlichen Erfahrung Insel, maggio-giugno 1994 p. 308, DM 42 Kaufmann, Arthur Grundprobleme der Rechtsphilosophie Eine Einführung in das rechtsphilosophische Denken Beck, maggio-giugno 1994 p. 260, DM 48 Kermen, Denis - Laupies, Frédéric Premières leçons sur le pouvoir PUF, giugno-luglio 1994 p. 112, F 56 Il volume offre gli strumenti per riflettere sui mutamenti della nozione di potere, che esce dall’ambito strettamente politico e che sembra rinforzarsi mentre si sistematizza. Kirk - Ravens - Schofield Die vorsokratischen Philosophen. Einführung, Texte und Kommentare Metzler, maggio-giugno 1994 p. 544, DM 58 Klein, H.-D. (a cura di) Letzbegründung als System? Bouvier, maggio-giugno 1994 p. 190, DM 68 Normalmente i dibatti si limitano al problema della possibilità o della impossibilità della fondazione ultima. E’ però anche importante indagare per quali singole regole e categorie sia possibile dimostrare la validità di una fondazione ultima. resoconto dell’evoluzione delle fonti della malinconia tra il 1500 e il 1900, e della ricerca nell’ultimo decennio. Kleinknecht, R. - Neisser, B. (a cura di) Leonard Nelson in der Diskussion dipa-Vlg., luglio 1994 p. 186, DM 28 Lauro, Pietro Per il concreto. Saggio su Th. W. Adorno Guerini, giugno 1994 pp. 176, L. 30.000 Una risposta ai molteplici interrogativi della filosofia contemporanea, ripercorrendo alcune tappe fondamentali dell’esperienza di Adorno, dalla Dialettica dell’Illuminismo attraverso Minima Moralia, sino alla Dialettica negativa. Klemme, Heiner Die Schule Kants. Mit dem Text von Chr. Schiffert über das Königsberger Collegium Fridericianum Meiner, maggio-giugno 1994 p. 131, DM 48 Lautenschläger, Gabriele Hildegard von Bingen. Die theologische Grundlegung ihrer Ethik und Spiritualität Frommann-Holzboog maggio-giugno 1994 p. 440, DM 88 Hildegard von Bingen (1098-1179) sviluppò una concezione etica che non è riducibile alla domanda che si pone l’essere umano ormai stanco: che cosa devo fare? Alla domanda su ciò che si deve fare corrisponde piuttosto la ricerca del senso dell’esistenza che viene trovato attraverso l’esperienza estetica dei sensi. Kögler, Hans-Herbert Michel Foulcault J.B. Metzler, maggio-giugno 1994 p. 160, DM 22,80 Nel volume viene dato spazio anche ai critici come Habermas e Honneth, mentre Kögler limita ai capitoli “Genealogia”, “Archeologia” e “Etica” l’esposizione dello sviluppo delle diverse fasi del pensiero di Foucault. König, Peter Autonomie und Autokratie. Über Kants Metaphysik der Sitten de Gruyter, maggio-giugno 1994 p. 243, DM 128 L’autore, contrapponendosi alla tendenza a considerare Kant semplicemente come un distruttore della metafisica, fa rilevare quanto Kant sia un pensatore metafisico e quanto, finora, questo aspetto sia stato decisamente sottovalutato. Lembeck, Karl-Heinz Platon in Marburg. Platonrezeption und Philosophiegeschichtsphilosophie bei Cohen und Natorp Königshausen & Neumann maggio-giugno 1994 p. 460, DM 86 Si tratta della tesi di abilitazione alla libera docenza tenuta da Lembeck presso l’università di Trier nel 1993. Kopperschmidt, J.- Schanze, H. (a cura di) Nietzsche oder die Sprache ist Rhetorik W. Fink, maggio-giugno 1994 p. 290, DM 68 Nietzsche costituisce un ponte tra romanticismo, epoca moderna e postmoderna. In Nietzsche emergono le domande sull’ubiquità, sulla continuità e la discontinuità della retorica nel XIX secolo, il secolo che disprezzò la retorica. Lenk, Hans Interpretationskonstrukte. Zur Kritik der interpretatorischen Vernunft Suhrkamp, maggio-giugno 1994 p. 696, DM 98 Il costruttivismo interpretativo è stato dapprima concepito come un’impostazione metodologica ed è poi stato sviluppato. Esso può però anche essere considerato all’interno della tradizione della teoria della conoscenza tradizionale come un interpretazionismo trascendentale quasi kantiano e quindi ampliato, arrivando così ad essere quasi una teoria della conoscenza di un essere culturale e simbolico, l’essere umano. Korfmacher, Wolfgang Schopenhauer zur Einführung Junius, maggio-giugno 1994 p. 180, DM 19,80 Kügelgen, Anke von Averroes und die arabische Moderne. Ansätze zu einer Neubegründung des Rationalismus in Islam Brill, maggio-giugno 1994 p. 450, FO 240 Lennon, K. - Whitford, M. (a cura di) Knowing the Difference. Feminist Perspectives in Epistemology Routledge, luglio 1994 p. 256, £ 12 Quale differenza si crea adottando una prospettiva femminista nei confronti del sapere tradizionale? In che misura le prospettive femministe sono influenzate dalla differenza tra le donne? Questa importante raccolta si rivolge all’epistemologia tradizionale ed alle discussioni sollevate dalle critiche post-moderne. Lambrecht, Roland Der Geist der Melancholie. Eine Herausforderung philosophischer Reflexion W. Fink, luglio 1994 p. 400, DM 78 Ecco alcuni dei capitoli di questo volume: “Tra malattia e peccato”; “In un altro luogo e in un altro spazio”; “Tra ciò che non c’è più e ciò che non esiste ancora”. In appendice, si trovano: l’edizione del Melancholischer Teufel (Simon Musaeus, 1569); un 85 Lledò, Emilio Il solco del tempo. Il mito platonico della scrittura e della memoria Laterza, luglio 1994 pp. 208 Un filosofo controcorrente riflette sulla scrittura, sui poteri della memoria e sul lento fluire del tempo e colloca in una giusta dimensione valori come la solidarietà e l’amicizia. Longato, Fulvio L’argomentazione trascendentale. Sulla prova in filosofia nel confronto con la Critica della Ragion pura FrancoAngeli, giugno 1994 pp. 224, L. 28.000 Il problema di che cosa sia un’argomentazione filosofica, dei suoi limiti ma anche delle sue potenzialità. Losurdo, Domenico Democrazia o bonapartismo Bollati Boringhieri, giugno 1994 pp. 346, l. 28.000 Losurdo, Domenico Hegel et la catastrophe allemande tr. dall’italiano Charles Alunni Albin Michel, giugno-luglio 1994 p. 232, F 140 Si tratta di una riflessione critica sull’immagine politica di Hegel, identificata con il pensiero totalitario, nel corso del XIX e del XX secolo. L’autore analizza come si passa da un Hegel messaggero della libertà a un Hegel “prefascista”, attraverso le opere dei sociologi e dei filosofi che, dopo di lui, ne hanno riconsiderato le opere. Mainberger, Gonsalv K. Rhetorische Vernunft oder: das Design in der Philosophie Passagen Vlg., luglio 1994 p. 264, ÖS 385 Mainzer, K. Thinking in Complexity. The Complex Dynamics of Matter, Mind and Mankind Springer, luglio 1994 Il libro si rivolge sia agli scienziati sia a chiunque sia interessato alla scienza, pur non essendo un “addetto ai lavori”, e fornisce un’ampia indagine sul ruolo della complessità e dell’evoluzione nella natura e nel mondo moderno. Esso fornisce un contributo scientifico ad una visione del mondo integrativa ed olistica che risulterà interessante per la nostra generazione, con i suoi ideali filosofici. Malherbe, Michel Qu’est-ce que la causalité? (Hume et Kant) Vrin, giugno-luglio 1994 p. 126, F 39 La causalità non è un ordine inscritto nelle cose, non è neanche una logica fissata nello spirito umano, ma la ragione umana resa razionale in un mondo più o meno familiare e più o meno conosciuto. L’autore elabora dei commenti su questo argomento, a partire da questa nozione in Hume e Kant. NOVITÀ IN LIBRERIA Marjenko, Jan La Cité des morts: l’avènement du technocosme Age d’homme, giugno-luglio 1994 p. 399, F 150 La società in cui noi viviamo diventa un tecnocosmo, un universo completamente forgiato dall’uomo, in cui il nostro legame con la natura non consiste in nient’altro che in un rapporto di sfruttamento razionalizzato. Ma oggigiorno è all’essere umano che vengono applicati i criteri di efficacia e di livellamento che regolano il biotopo della natura. Nel volume ci si interroga su come vivere un altro rapporto con il mondo. cura, che può far sviluppare la nostra umanità divisa. L’analisi approfondita e gli argomenti pungenti vengono compensati da forme di dialogo immaginativo, dalla narrazione, dalle parabole. Marjenko, Jan Dix méditations sur l’espace et le mouvement Age d’homme, giugno-luglio 1994 p. 184, F 120 Secondo l’autore, l’apporto più significativo della scienza moderna è l’idea di un universo infinito, sia per quanto riguarda la sua estensione che per quanto riguarda la sua durata. In questo la scienza moderna si distingue dalle società tradizionali, in cui si dava una grande importanza alle soglie e ai limiti. Un mondo infinito è infatti la morte della carne e del desiderio, forse anche una morte generale. Mondin, Battista Dizionario enciclopedico di filosofia teologia e morale II ediz. Massimo, luglio 1994 pp. 960, L. 100.000 Marzano, Silvia Il sublime nell’ermeneutica di Luigi Pareyson Rosenberg & Sellier, giugno 1994 pp. 128, L. 24.000 Il testo mette in luce l’originale riflessione del filosofo sulla tematica del sublime ricostruendo la continuità tra i due estremi del suo pensiero: l’estetica della formatività e l’ontologia della libertà. Morin, Edgar Kern, Anne Brigitte Terra-Patria Cortina, giugno 1994 pp. 200, L. 32.000 La proposta di una riforma di pensiero che ci consenta di definire le nostre finalità terrestri all’interno di una società sempre più collegata da comunicazioni, interazioni, interdipendenze. Un nuovo futuro di civiltà planetaria. Mathy, Dietrich Von der Metaphysik zur Ästhetik oder das Exil der Philosophie. Untersuchungen zum Prozeß der ästhetischen Moderne von Bockel, luglio 1994 p. 150, DM 39,80 Matteucci, Giovanni Anatomie diltheyane. Su alcuni motivi della teoria diltheyana della conoscenza Clueb, giugno 1994 pp. 178, L. 20.000 Miething, Christoph Der Absolutismus der Freiheit. Eine Kritik an der Selbstzerstörung der Moderne Passagen-Vlg., maggio-giugno 1994 p. 192, ÖS 280 Miller, George David An Idiosyncratic Ethics; Or, the Lauramachean Ethics Editions Rodopi, luglio 1994 p. 140, FOL 45 Questo libro è una sintesi originale di quattro elementi: la fenomenologia del valore; il prendersi cura; l’immaginazione morale e la formula kantiana di umanità. Il risultato sorprendente è un’etica del prendersi Mutti, Claudio Nietzsche et l’Islam pref. Christophe Levalois Hérode, giugno-luglio 1994 p. 47, F 55 Il saggio riunisce tutti i passaggi di Nietzsche in cui si parla dell’Islam ed analizza le analogie esistenti tra tre elementi-chiave del pensiero di Nietzsche (l’amor fati, la volontà di potenza, l’ideale del superuomo) e la dottrina islamica. Misch, Georg Der Aufbau der Logik auf dem Boden der Philosophie des Lebens. Göttinger Vorlesungen über Logik und Einleitung in die Theorie des Wissens a cura di G. Kühne-Betram e Frithjof Rodi Alber, maggio-giugno 1994 p. 680, DM 168 Narbonne, Jean-Marc La Métaphysique de Plotin Vrin, giugno-luglio 1994 p. 162, F 120 Il volume, a chi si interessa in generale alla storia del pensiero, ai professori aggregati che preparano i concorsi, rappresenta il tentativo dell’autore di far risaltare la specificità del pensiero di Plotino. Nogradi-Häcker, Annette Die Personwerdung des Menschen. Zur Ethik Peter Singers intr. di Dietrich Ritschl Lit Vlg, luglio 1994 p. 148, DM 29,80 Moretto, Giovanni Destino dell’uomo e corpo mistico Blondel, de Lubac e il Concilio Vaticano II Morcelliana, giugno 1994 pp. 160, L.20.000 Una interpretazione filosofica del Vaticano, alla luce dell’influsso di Blondel e di de Lubac sui documenti dello stesso Concilio. Nussbaum, Martha C. The Therapy of Desire. Theory and Practice in Hellenistic Ethics Princenton UP, maggio-giugno 1994 p. 536, $ 38 Esaminando testi di filosofi impegnati su una linea terapeutica, che include Epicuro, Lucrezio, Sesto Empirico, Crisippo e Seneca, l’autrice recupera una fonte preziosa per il pensiero morale e politico attuale e ci incoraggia a riconsiderare l’argomentazione filosofica come una tecnica attraverso la quale migliorare la vita. Oefsti, Audun Abwandlungen. Essays zur Sprachphilosophie und Wissenschaftstheorie Königshausen & Neumann maggio-giugno 1994 p. 294, DM 58 Morreau, Pierre-François Spinoza: l’expérience et l’éternité PUF, maggio 1994 p. 624, F 385 ”Noi sentiamo e noi sperimentiamo che siamo eterni.” Questa frase enigmatica presuppone, per essere compresa, tutta la problematica spinoziana dell’esperienza che, nonostante sia stata poco recepita, supporta parti importanti del sistema di Spinoza. Ortega y Gasset, José Meditazioni sulla felicità Sugarco, giugno 1994 pp.120. L. 22.000 L’uomo ha sempre avvertito l’esigenza di divertirsi, ossia di allontanarsi dal regno della necessità per raggiungere quello della libertà, attraverso la dimensione ludica della vita. Il ritmico oscillare dell’uomo tra la spinta verso il sociale e il ripiegamento nella più assoluta intimità. Mosès, Stéphane Der Engel der Geschichte. Franz Rosenzweig - Walter Benjamin Gershom Scholem Suhrkamp, maggio-giugno 1994 p. 250, DM 48 Nella Germania degli anni 20 tre pensatori ebrei sviluppano un nuovo concetto della storia, all’interno del quale l’utopia messianica è centrale. Questa nuova concezione si contrappone a quella dominante. Stéphan Mosès ricostruisce la concezione filosofico-storica in questi tre studi, che corrisponde a quanto rappresentato nel quadro denominato “Angelo della storia”. Orth, E. W. - Holzhey, H. (a cura di) Der Neukantismus. Perspektiven und Probleme Königshausen & Neumann maggio-giugno 1994 p. 527, DM 86 Pabst, Bernhard Atomtheorien des lateinischen Mittelalters Wiss. Buchges., luglio 1994 p. 207, DM 68 86 Contrariamente rispetto a quanto la ricerca scientifica ha pensato fino ad oggi, l’atomistica ha avuto un numero notevole di sostenitori nel Medioevo. Furono persino sviluppate alcune teorie che sono state poi confermate nel nostro secolo. Pabst riprende in considerazione questo tema in maniera esaustiva, per la prima volta dopo più di cento anni. Paetzold, Heinz Die Realität der symbolischen Formen. Die Kulturphilosophie Ernst Cassirers im Kontext Wiss. Buchvlg., luglio 1994 p. 207, DM 39,80 Il libro colloca la Filosofia delle forme simboliche di Cassirer nell’ampio contesto della filosofia europea e angloamericana contemporanea alla scrittura dell’opera. L’autore mette in risalto soprattutto la realtà dialettica delle forme simboliche: sono un mezzo per l’autoliberazione dell’uomo, ma non impediscono le catastrofi. Papi, Fulvio Il sogno filosofico della storia Interpretazioni sull’opera di Marx Guerini, giugno 1994 pp. 160, L. 24.000 La critica dell’economia politic come chiave di interpretazione del pensare filosofico, della sua radice materiale e della sua storicità. Patocka, Jan Ästhetik, Phänomenologie, Pädagogik Geschichts- und Politiktheorie a cura di Matthias Gatzemeier Alano, luglio 1994 p. 94, DM 28 Petersen, Karl Th. Pathognostica. Aufsätze zur Theorie und Anwendung genealogischer Philosophie Passagen-Vlg., maggio-giugno 1994 p. 112, ÖS 170 Petrosino, Silvano Jacques Derrida et la loi du possible tr. it. di Jacques Rolland Cerf, maggio 1994 p. 220, F 200 Queste pagine hanno lo scopo di comprendere e presentare il pensiero di Derrida come un’opera del pensiero. La minima conoscenza di qualche scritto del filosofo permette di cogliere in questa dichiarazione d’intenti di lettura di Derrida l’eco dell’intenzione di lettura stessa dei testi più disparati del panorama filosofico di Derrida. Pieper, Annemarie Einführung in die Ethik UTB, luglio 1994 p. 294, DM 32 Si tratta della terza edizione di questo volume, che è stato ampliato dall’autrice. NOVITÀ IN LIBRERIA Platter, Guntram Die elektronische Medienwelt als Gegenstand einer philosophischen Ethik Holos-Vlg., maggio-giugno 1994 p. 291, DM 48 Si tratta della tesi di laurea, tenuta da Guntram Platter presso l’Università di Bonn nel ’93. Pogge, Thomas W. John Rawls C.H. Becks, luglio 1994 p. 180, DM 22 In questa introduzione, uno degli allievi di Rawls presenta l’evoluzione storica, le motivazioni filosofiche e l’applicazione politica della concezione di giustizia di Rawls. L’autore, profondo conoscitore di Rawls, ne presenta le teorie mantenendo un atteggiamento critico. Raters-Mohr, Marie-Luise Intensität und Widerstand. John Deweys Art as Experience als philosophisches System, als politischer Appell und als Theorie der Kunst Bouvier, maggio-giugno 1994 p. 266, DM 85 Raz, Joseph Ethics in the Public Domain. Essays in the Morality of Law and Politics Clarendon Press, luglio 1994 p. 384, £ 40 Si tratta di una raccolta di saggi che esaminano diversi aspetti legati al tema usuale, ed antico, dei rapporti tra legge e morale. Gli argomenti discussi includono i limiti del dovere politico e degli obblighi e le controversie legate all’autodeterminazione nazionale. Rehm, J. (a cura di) Verantwortlich leben in der Weltgemeinschaft. Zur Auseinandersetzung um das ‘Projekt Weltethos’ Chr. Kaiser, maggio-giugno 1994 p. 96, DM 12,80 Il volume raccoglie i contributi di Wolfgang Huber, Hans Küng, Johannes Lähnemann, Ram A. Mall, HansJochen Vogel, Carl Friedrich von Weizsäcker e Rotraud Wieland. Reijen, Willem van Die authentische Kritik der Moderne W. Fink, maggio-giugno 1994 p. 250, DM 38 Seguendo il filo di una logica degli estremi, che aiuta - attraverso temi esemplificativi che vanno dall’epoca barocca ai giorni nostri - ad analizzare il rapporto di tensione tra rinnovamento e tradizione, tra apertura e chiusura, viene chiarito il ruolo delle opposizioni e degli antagonismi nel nostro modo di pensare e di agire. Riccio, Franco Introduzione ad una lettura della Modernità FrancoAngeli, giugno 1994 pp. 160. L. 26.000 L’interesse che spinge questo tentati- vo propedeutico di una lettura della modernità è dettato da due dati storici: la constatazione di una “eredità logica” nella stessa formazione dei vari discorsi alternativi; l’estensione generalizzata di quella economia di mercato che accompagna il sorgere, lo sviluppo e la crisi della modernità. Rorty, Richard Scritti filosofici Vol. I Laterza, luglio 1994 pp. 352 Rousseau, Jean-Jacques Beaumaont, Christophe de Lettre a monseigneur de Beaumont Mandement de monseigneur l’archevêque de Paris pref. Nicolas Bonhote Age d’homme, giugno-luglio 1994 p. 156, F 40 Nel volume è contenuto il testo poco conosciuto ma molto esemplificativo della traiettoria del pensiero di Rousseau, della genesi e dell’esposizione delle sue idee, proprio al momento del dibattito cruciale tra il filosofo e la società del suo tempo. In questa lettera, Rousseau risponde al Mandement redatto dall’arcivescovo di Parigi contro l’Emile. Ricoeur, Paul Conferenze su ideologia e utopia Jaca Book, giugno 1994 pp. 384, L. 53.000 Raccolta di un ciclo di conferenze tenute all’Università di Chicago sui temi dell’ideologia e dell’utopia. Rinaldi, Giacomo Dialettica arte e società Saggio du Th. W. Adorno Quattroventi, giugno 1994 pp. 208, L. 30.000 Un profilo storico critico del pensiero di Adorno che tenta di rendere giustizia all’integralità dei suoi interessi filosofici e sociologi, così come estetici e musicologici. Rudolph, E. - Stamatescu, I.-O. Philosophy, Mathematics and Modern Physics. A Dialogue Springer, maggio-giugno 1994 p. 250, DM 78 Si tratta di una raccolta di saggi di fisici, matematici e filosofi, che comprende anche scritti di Roger Penrose, Euan Squires e Erhard Scheibe. Rockmore, Tom Hegel et la tradition philosophique allemande Oussia, giugno-luglio 1994 p. 195, F 99 Lo scopo di questo libro è di contribuire alla comprensione della filosofia tedesca, partendo dalla lettura parziale e a volte anche tendenziosa di Hegel stesso, nel momento in cui egli traccia la storia della filosofia tedesca. Rudolph, Enno Theologie - diesseits des Dogmas. Studien zur systematischen Theologie, Religionsphilosophie und Ethik Mohr, luglio 1994 p. 232, DM 70 Enno Rudolph esorta la teologia a riprendere il suo ruolo storico all’interno delle scienze, come partner nel dialogo con la filosofia e come portatrice di cultura. Röd, Wolfgang Der Weg der Philosophie von den Anfängen bis ins 20. Jahrhundert vol. 1: Altertum, Mittelalter Renaissance C.H. Beck, luglio 1994 p. 540, DM 58 All’autore preme presentare in maniera comprensibile ad ogni lettore i pensieri ed i concetti fondamentali dei principali filosofi, in modo che le domande predominanti in ogni epoca e le risposte ad esse fornite vengano recepite ed inquadrate all’interno delle grandi linee evolutive della filosofia. Salmon, W. - Wolters, G. (a cura di) Logic, Language, and the Structure of Scientific Theories. Proceedings of the Carnap Reichenbach Centennial, University of Constance, May 1991 Univ. Vlg. Konstanz, luglio 1994 DM 98 Rombach, Heinrich Der Ursprung. Die Philosophie der Konkreativität von Natur und Kultur Rombach, maggio-giugno 1994 p. 196, DM 56 La concreatività è un fenomeno che ha un ruolo estremamente importante: è alla base degli atti creativi degli esseri umani e di quelli della natura. Salvucci, Pasquale Il filosofo e la storia Saggi, interventi, conferenze Quattroventi, giugno 1994 pp. 1008, L. 70.000 Saggi raccolti tra il 1954 e il 1994 in cui viene analizzato il rapporto tra filosofia e storia, nel suo configurarsi nell’opera dei grandi pensatori scozzesi del XVIII secolo e dei giganti dell’idealismo classico tedesco, fino a raggiungere alcune voci significative della filosofia italiana contemporanea. Rorty, Richard La svolta linguistica Tre saggi su linguaggio e filosofia Garzanti, giugno 1994 pp. 152, L. 23.000 Il volume offre l’occasione di ricostruire l’evoluzione del pensiero di Richard Rorty nelle sue linee e svolte fondamentali dagli anni Sessanta a oggi. Sandkühler, H.J. (a cura di) Theorien, Modelle und Tatsachen. Konzepte der Philosophie und der Wissenschaften Lang, luglio 1994 p. 291, DM 90 87 Savater, Fernando Filosofia contro accademia Il Melangolo, giugno 1994 pp. 148, L. 20.000 Quattro brevi saggi dedicati a Montaigne, Schopenhauer, Nietzsche e de Unamuno. Scaltsas, T. et al. (a cura di) Unity and Identity in Aristotele’s ‘Metaphysics’ Clarendon, luglio 1994 p. 368, £ 35 Il volume presenta quattordici saggi di specialisti di filosofia antica e di metafisica contemporanea, incentrati sulla discussione della teoria dell’unità delle sostanze in Aristotele, un tema centrale per l’indagine metafisica. Schacht, R. (a cura di) Nietzsche, Genealogy, Morality. Essays on Nietzsche’s ’On the Genealogy of Morals’ Univ. of California, luglio 1994 p. 500, $ 26 Il volume offre una raccolta di contributi di venticinque noti filosofi sui temi centrali e sui concetti della Genealogia della morale. Schäfer, Erich Grenzen der Künstlichen Intelligenz John R. Searles Philosophie des Geistes Kohlhammer, luglio 1994 p. 160, DM 49 In questo libro viene dimostrato, sulla base del Chinese Room-Argument di J. R. Searle, che le condizioni funzionali di un computer sono condizioni-modello stabilite a livello puramente formale, che non hanno quindi nessun significato di per se stesse, mentre, per l’esperienza ed il pensiero umani, il riferimento agli oggetti e ad una prospettiva di senso sono fondamentali. Schäfer, L. - Ströker, E. (a cura di) Naturauffassungen in Philosophie Wissenschaft, Technik vol. 2: Renaissance und frühe Neuzeit K. Alber, maggio-giugno 1994 p. 284, DM 68 Schick, Friederike Hegels Wissenschaft der Logik Metaphysische Letzbegründung oder Theorie logischer Formen? Alber, luglio 1994 p. 400, DM 98 Schmitz, Hermann Josef Nietzsche absconditus oder Spurlesen bei Nietzsche Vol. 2: Jugend. Interniert in der Gelehrtenschule: Pforta 1858-1864 parte II: 1861-1864 IBDK Verlag, maggio-giugno 1994 p. 736, DM 74 L’interpretazione filosofica e approfondita dei testi scritti da Nietzsche in quegli anni porta a risultati sorprendenti che chiarificano molte questioni controverse della critica e della ricerca nietzschiana e impongono una revisione dei dogmi che da decenni dominano in questo ambito. NOVITÀ IN LIBRERIA Schönberger, R. - Kible, B. (a cura di) Repertorium editierter Texte des Mittelalters aus dem Bereich der Philosophie und angrenzender Gebiete Akademie Vlg., luglio 1994 p. 900, DM 198 Schubert, Andreas Untersuchungen zur stoischen Bedeutungslehre Vandenhoeck & Ruprecht maggio-giugno 1994 p. 280, DM 72 Il lavoro è teso ad avvicinarsi alla comprensione del significato dei lekta per gli stoici. Seibold, Friederich Über die Form des Philosophierens. Eine Anleitung zum kritischen Denken in der Philosophie R.G. Fischer, luglio 1994 p. 60, DM 24,80 Seidl, Horst Sintesi di etica generale Città Nuova, luglio 1994 pp. 296, L. 28.000 Uno studio sintetico che guarda all’etica generale principalmente sotto il profilo del rapporto tra legge morale e libertà. Il libro mantiene un dialogo aperto con le discipline teologiche. Senger, H.G. (a cura di) Philosophische Editionen. Erwartungen an sie - Wirkungen durch sie. Beiträge zur VI. Internationalen Fachtagung der Arbeitsgemeinschaft philosophischer Editionen (11.-13. Juni 1993 in Berlin) Niemeyer, maggio-giugno 1994 p. 168, DM 98 Durante i giorni del convegno, tenutosi a Berlino tra l’11 e il 13 giugno del ’93, sono stati presi in considerazione, tra gli altri, i seguenti argomenti: le aspettative che accompagnano le edizioni di opere e le conseguenze che queste hanno, sia in generale che sulla base di esempi in particolare (Spinoza, Leibniz, Wittgenstein, Heidegger); le nuove tendenze delle edizioni filosofiche e di Germanistica, i problemi dei lasciti di opere filosofiche. Séris, Jean-Pierre Qu’est-ce que la division du travail? (Ferguson) Vrin, giugno-luglio 1994 p. 126, F 39 Prima che Adam Smith tragga, dalla divisione del lavoro, il profitto che è noto a tutti e che sarà il punto di partenza della sua economia politica, il filosofo scozzese Adam Ferguson gli consacra un denso e breve capitolo nel suo Saggio sulla storia della società civile, pubblicato nel 1767. Il volume contiene la riproduzione del testo di Ferguson ed un commento, basato sul concetto della divisione del lavoro. Singer, Irving The Pursuit of Love John Hopkins UP, maggio-giugno 1994 p. 240, $ 26 Il celebre autore di The Nature of Love, fornisce qui una teoria filosofica e psichiatrica per spiegare la forza e la complessità dei rapporti umani. lavoro è la restituzione esistenziale della categoria del dolore all’interno della sua ricchezza di relazioni. Trampendach, Kai Platon, die Akademie und die zeitgenössische Politik Fr. Steiner, maggio-giugno 1994 p. 340, DM 124 Questa monografia è da intendersi come un contributo alla storia dello spirito e del potere, della filosofia e della politica. La prima parte, empirica, si occupa dell’attività politica dei discepoli di Platone; la seconda, ermeneutica, confronta la filosofia politica di Platone con la pratica di vita delle polis a lui contemporanee. Soldati, Gianfranco Bedeutung und psychischer Gehalt. Zur sprachanalytischen Kritik von Husserls früherer Phänomenologie Schöningh, maggio-giugno 1994 p. 220, DM 58 Souche-Dagues, Denis Recherches hégélliennes: infini et dialectique Vrin, giugno-luglio 1994 p. 221, F 198 Nel volume sono stati raccolti articoli e testi di conferenze che si distribuiscono nell’arco di tempo tra il 1975 e il 1993. Gli argomenti trattati sono quelli della problematica dello spirito, del tempo, della storia, della finalità e si concludono con la discussione intorno all’accusa di onto-teologia mossa da Heidegger nei confronti del sistema hegeliano. Utz, Arthur F. Sozialethik. Mit internationaler Bibliographie parte IV: Wirtschaftsethik WBV, maggio-giugno 1994 p. 400, DM 46 Wahl, Jean Du rôle de l’idée de l’instant dans la philosophie de Descartes intr. di Frédéric Worms Descartes & Clé, maggio 1994 p. 134, F 90 Si tratta della riedizione di quest’opera importante che influenzò personaggi molto diversi tra loro come Emmanuel Levinas, Paul Ricoeur o Gilles Deleuze. Jean Wahl (1888-1974) tenderà per tutta la sua vita, sia in qualità di filosofo che di poeta, ad andare incontro al mistero della realtà. Spierling, Volker Arthur Schopenhauer J.B. Metzler, luglio 1994 p. 160, DM 22,80 Spierling, offre un’introduzione, una presentazione complessiva dell’opera e del pensiero di Schopenhauer, che segue fedelmente i testi originali ed il materiale del lascito. Warin, François Nietzsche et Bataille: la parodie à l’infini PUF, giugno-luglio 1994 p. 352, F 182 Bataille dichiara di aver «sondato a fondo l’implicazione e la portata dell’esperienza di Nietzsche.» Questa fedeltà singolare e paradossale viene analizzata dal punto di vista della ripetizione. Splett, Jörg Spiel-Ernst. Anstöße christlicher Philosophie Josef Knecht, maggio-giugno 1994 DM 28 Stella, Aldo Il concetto di “relazione” nella Scienza della Logica di Hegel Guerini, giugno 1994 pp. 281, L. 44.000 Il problema delle “relazioni”, decisivo in tutta l’opera hegeliana, con grande attenzione al testo cruciale della Scienza della logica. Waszek, Norbert Materialien zu den ‘Jahrbüchern für wissenschaftliche Kritik’ (1827-1846) Frommann-Holzboog maggio-giugno 1994 p. 370, DM 295 Questi Jahrbücher sono uno dei più importanti periodici scientifici del XIX secolo; nacquero da un esplicito desiderio di Hegel e furono condotti da lui e dalla sua cerchia di discepoli. Stieb, Egbert Dialektische Grundzüge der Philosophie und Kommentare zu Dialektische Grundzüge der Philosophie Profil, luglio 1994 p. 90, DM 20 Weinkauf, Wolfgang Die Stoa Pattloch, maggio-giugno 1994 p. 320, DM 24,80 Il volume contiene bibliografie, testi e fonti, annotazioni alle più importanti opere della stoà e costituisce quindi un invito ad avvicinarsi a questa filosofia, che sorprende per i suoi spunti moderni. Stratmann, Nicole Leiden - im Lichte einer existenzialontologischen Kategorialanalyse Editions Rodopi, luglio 1994 p. 200, FOL 60 L’indagine analitica categoriale tematizza il dolore in un “mondo precisato”. Il suo risultato è il fatto che la corrispondente determinazione aristotelica dell’essere viene abbreviata (precisata) radicalmente nella sua ampiezza esistenziale. Lo scopo di questo Weismüller, Christoph R. Philosophische Relevanzen. Texte der philosophischen Praxis und der Pathognostik 88 Passagen-Vlg., luglio 1994 p. 184, ÖS 196 Welding, Steen O. Fundamenta Ethica. Die Begründunsstruktur von Moralität Fr. Steiner, maggio-giugno 1994 p. 200, DM 68 Il giudizio morale sulle azioni avviene sulla base di norme morali. Come possono essere caratterizzate queste norme morali rispetto ad altre direttive di comportamento, ed in particolar modo rispetto alle norme giuridiche? Tutte le posizioni etiche fino ad ora note falliscono nel rispondere a questa domanda. Le norme morali non possono essere stabilite in funzione del loro scopo. Weston, Michael Kierkegaard and Modern Continental Philosophy. An Introduction Routledge, maggio-giugno 1994 p. 240, £ 12 Williamson, Timothy Vagueness Routledge, maggio-giugno 1994 p. 288, £ 37,50 Williamson traccia la storia del problema, dalla discussione del heap paradox nella Grecia classica, fino ai moderni approcci formali, come la fuzzy logic. Wucherer-Huldenfeld, Augustinus K. Ursprüngliche Erfahrung und personales Sein. Ausgewählte philosophische Studien vol. 1: Anthropologie/Freud/ Religionskritik Böhlau, maggio-giugno 1994 p. 360, ÖS 686 Si tratta del primo volume di una raccolta di studi del noto filosofo cristiano. Il secondo volume è in preparazione. Wyller Brenner, Truls Indexikalische Gedanken. Über den Gegenstandsbezüg in der raumzeitlichen Erkenntnis Alber, luglio 1994 p. 220, DM 48 Zelinka, Udo Normativität der Natur Natur der Normativität. Eine interdisziplinäre Studie zur Frage der Genese und Funktion von Normen Herder, maggio-giugno 1994 p. 244, DM 32 Si tratta della tesi tenuta da Zelinka presso l’università di Würzburg nel ’93. Zingari, Guido Invito al pensiero di Leibniz Mursia, luglio 1994 pp. 192, L. 15.000 (a cura di A.M.; trad. it. di L.T.)