SOMMARIO
Tra gli ultimi rappresentanti della Scuola di Francoforte,
Oskar Negt ricopre senz’altro un ruolo particolare per via
del suo sforzo continuo di conversione della teoria in prassi
politica; uno sforzo che ha riscontri diretti con la sua
formazione teorica, maturatasi all’interno dei movimenti di
protesta degli anni ’60 e confluita nella sua più recente
attività sindacale. Ma ciò che segna decisamente l’esperienza
intellettuale e l’impegno sociale di Negt in questi ultimi
trent’anni è l’incontro con Alexander Kluge, figura emblematica dell’ultima generazione di registi tedeschi. Con l’intento
di pensare il concetto di politico con «fantasia sociologica» come vien detto espressamente da entrambi - si apre la
collaborazione di Negt con Kluge. Si tratta di una collaborazione profonda, radicale, tra due pensatori che nel lavoro
teorico comune intorno al rapporto tra concetto e immagine
trovano il naturale completamento delle proprie rispettive
concezioni di pensiero e agire politico. Di questa collaborazione, che già annovera lavori come Öffentlichkeit und
Erfahrung (Sfera pubblica ed esperienza, 1972) e Geschichte
und Eigensinn (Storia e ostinazione, 1981), diamo qui un
breve riscontro, riportando la “Prefazione” (pp. 9-11) con cui
Negt e Kluge, nell’autunno del 1991, presentano il loro ultimo
lavoro: Massverhältnisse des Politischen. 15 Vorschläge
zum Unterscheidungsvermögen, (Fischer Taschenbuch Verlag, Francoforte s/M. 1993)
si alimenta il politico si sottraggano in maniera sorprendente alla definizione. Essi evidenziano metamorfosi alterne,
cioè ad essi è estraneo il “rapporto con la realtà”, che vale
invece per la tecnica e per i rapporti di vicinanza umani.
Nella misura in cui gli elementi e le fonti del politico si
lasciano cogliere, hanno la loro forza soprattutto nelle
“forme”. Le energie e le qualità politiche necessitano di
“tempo”, di “luoghi riconoscibili”, di “capacità di autonomia dei soggetti”, incluso un felice collegamento tra spontaneità e durata; necessitano di un fronteggiarsi oggettivo
(superficie di attrito), del libero alternarsi tra ripiegamento
all’indietro (sonno, pausa, sgravio) e concentrazione delle
forze (solidarietà, tutela, veglia), ed altre cose ancora. I
parametri (le forme) si unificano nel politico in senso
emancipatorio quando trovano una misura reciproca: si
parla allora di “dimensioni del politico”.
Anche “senza” questa misura, dunque in un modo privo di
riguardi, si ha un risultato politico. Questo risultato, però, è
quasi sempre indifferente rispetto alla questione dell’emancipazione, dell’autonomia soggettiva e non fonda una comunità. Non prendendo in considerazione le dimensioni del
politico, si forma in ogni caso un ambito professionalizzato
del politico, a cui mancano sistematicamente la dimensione
storica della liberazione individuale e dell’organizzazione
razionale della società.
Chernobyl, come effetto a distanza che disintegra la sovranità dei paesi, “distrugge” le dimensioni. Lo Stato, che
riceve la sua legittimazione dalla difesa dal pericolo, non
riesce ad opporre, «politicamente», niente alla pioggia
radioattiva. Se le si osserva, l’auto-dissoluzione del «socialimo realmente esistente» e la riunificazione tedesca contengono senz’altro in sé ricche dimensioni; ma l’evoluzione
velocissima non ha lasciato a nessun elemento il “tempo
necessario al suo sviluppo”. La crisi del Golfo è stata
letteralmente una provocazione per la “dimensione visiva”:
le immagini della CNN, la censura militare (le immagini
sostitutive), la situazione storica distorta, il rifiuto della
realtà, a prescindere dal fatto che si partecipasse alla cosa
dall’interno dell’apparato militare del Vicino Oriente o
standosene a casa, di fronte alla televisione, creavano una
situazione confusa, che non poteva far altro che imbrogliare
il giudizio pratico. Nessuno, in queste condizioni, può
mantenere intatta la propria facoltà di discernimento.
Questa e altre ancora sono sfide obiettive, sotto il cui effetto
ci avviciniamo alla fine di questo secolo. Evidentemente
esiste la necessità di una capacità di giudizio politico più
acuta. Per questo l’analisi delle dimensioni del politico è
istruttiva. Non è possibile aumentare o regolare le materie
prime e i gradi di intensità del politico. Ma il fatto che essi
trovino misure e forme, in cui si possono esternare pubblicamente, e dunque anche ritrovarsi reciprocamente, è la
condizione della possibilità di ogni prassi. Allo scopo di
preparare questa condizione, proponiamo una serie di contributi, variazioni, da punti di vista diversi, sullo stesso
tema: le dimensioni del politico.
Da trent’anni siamo abituati a muoverci attivamente all’interno del contesto politico e a concepire come politiche
molte delle nostre attività. Non abbandoneremo questa
abitudine. Il fatto che vi siano modi di comportamento
politico che ci sembrano ovvi è uno dei motivi per cui non
vediamo nessuna ragione di fare del “politico” l’oggetto di
particolari riflessioni. In alcuni casi, abbiamo comunque
notato, nell’ambito di analisi approfondite (della sfera pubblica, della forza lavoro, dell’organizzazione storica delle
capacità di lavoro, ecc.), che appena l’attenzione si rivolgeva al politico, questo oggetto scompariva - il “politico”
rimaneva soltanto una domanda e ciò che ufficialmente si
intendeva con politica prendeva sempre più le caratteristiche di qualcosa di mutato e di falso.
Dal 1972 abbiamo fatto, singolarmente ed in comune,
tentativi di analisi di questo insieme distorto che chiamiamo
“il politico”. Ci siamo affaticati a elaborare progetti e teorie
per giungere ad una correzione delle distorsioni di questo
concetto, che è evidentemente troppo compatto e al quale si
richiede troppo dal punto di vista della teoria e troppo poco
dal punto di vista della prassi. A seconda che si cerchi di
definire una correzione delle distorsioni adottando i punti di
vista di Carl Schmitt, Jürgen Habermas, Karl Korsch, Montesquieu, Clausewitz o Robert Musil, si ottengono tratti
diversi del concetto. Ciò che è distorto si rispecchia in
ognuno di questi tratti. Evidentemente questo non dipende
dall’incapacità degli autori, da una mancanza di distanza o
di vicinanza, ma dalla cosa stessa.
Presumiamo che il politico, come “concetto sostanziale”
dell’analisi, sia inaccessibile. Sempre più forte è divenuta
l’impressione che anche gli elementi e le componenti di cui
(Traduzione dal tedesco di Laura Troiero)
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SOMMARIO
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DIALOGO
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La scuola di Francoforte
46 Sul rapporto tra Sartre e Merleau-Ponty
48 NOTIZIARIO
11 INTERVISTA
51 CONVEGNI E SEMINARI
11 Comunitarismo liberale
51 Le passioni di Simone Weil
17 AUTORI E IDEE
52 Sull’immaginazione in Kant
17 Il soggetto in gioco
52 Il mito di Edipo
18 Giustizia e morale
53 Hjelmslev oggi
20 Contro la filosofia
53 Biologia e cultura
20 del rovesciamento
54 Blumenberg: mito, metafora, modernità
21 In ricordo di Agazzi
56 Vico, nel 250° anniversario della morte
22 Pragmatismo americano: Rorty e Bernstein
58 Il ritorno del mito
23 Peirce
60 L’ultimo Merleau-Ponty
24 Sul progresso
61 Storia e metodo in Hegel
25 Caos e linguaggio in Hacking
61 Computer, parola, pensiero
27 Sull’etica in Francia
64 Interpretazioni dello storicismo
65 Capire la filosofia
66 Foucault: archeologia dei saperi
27 TENDENZE E DIBATTITI
28 La filosofia italiana in Francia
68 CALENDARIO
29 Politica e filosofia
31 Liberalismo e società moderna
32 Destra e sinistra
69 DIDATTICA
34 La razionalità dell’ermeneutica
69 Manuali di filosofia a confronto (III parte)
36 La lanterna magica dello storico
73 Interventi, proposte, ricerche
38 Realtà virtuale
74 STUDIO
39 Primo piano:
Alle soglie della terza rivoluzione digitale
74 Filosofia in sei ore e un quarto
74 Le sei idee estetiche di Tatarkiewicz
41 PROSPETTIVE DI RICERCA
41 L’antropologia filosofica di Gehlen
76 RASSEGNA DELLE RIVISTE
42 Nuova traduzione della ‘Critica del Giudizio’
42 L’empio Vanini
81 NOVITÀ IN LIBRERIA
43 Ernesto de Martino, filosofo
43 Husserl su Heidegger
44 L’estetica di Hegel ... in prospettiva
46 Etica e giustizia in Aristotele
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DIALOGO
Oskar Negt (foto di M. Totaro)
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DIALOGO
Nell’ambito di un ciclo d’incontri dedicato grammi e tecniche che servono a formare il
ai pensatori tedeschi contemporanei e orga- profilo professionale di un individuo. Quenizzato dal Goethe-Institut di Milano in col- sto termine possiede però un significato più
laborazione con il Dipartimento di Filosofia profondo, legato al momento di identificadell’Università degli Studi di Milano, il gior- zione dell’uomo come essere dotato di capano 11 maggio 1993 si è svolto un dialogo tra cità di plasmare se stesso nei confronti della
Oskar Negt (Technische Hochschule di Han- natura, relativamente alla domanda su come
nover) e Francesco Moiso (Università degli sia possibile ottenere dalla personalità umaStudi di Milano).
na un carattere di totalità di formazione,
Nella sua introduzione al dialogo, France- uguale e distinto dal carattere di totalità
sco Moiso ha richiamato una considerazione ordinato che la natura rivela all’umanità
di Theodor W. Adorno, posta all’inizio de moderna attraverso gli occhi dell’indagine
La dialettica negativa (1966), secondo cui il scientifica. Questo concetto di Bildung ha
bisogno della filosofia continua a sussistere però subìto successive semplificazioni, a
perché la filosofia non si è ancora realizzata. mano a mano che il suo ideale è stato incarUna frase alquanto enigmatica, ha osservato nato dalla riforma humboldtiana dell’uniMoiso, che afferma e nega al tempo stesso versità, che pur ponendosi a servizio di queche la filosofia, oggi, possa rappresentare un sto ideale di formazione, ha lasciato che esso
bisogno dell’umanità. Da un lato, infatti, si si frantumasse ad opera della specializzaziopropone un programma di realizzazione; ne (ad esempio con la scissione tra filosofia
dall’altro se ne afferma la realizzazione come e scienze umane) e in virtù del processo di
negazione del bisogno di continuare a filosofare. Da un lato
Goethe-Institut
s’ipotizza un “andare a termine”
in collaborazione con
del filosofare nell’attuale cultuUniversità degli Studi di Milano
ra; dall’altro si delinea il tentativo di affrontare questa situazione e continuare a filosofare.
Non si tratta, tuttavia, di una
contraddizione sterile: la stessa
Scuola di Francoforte può considerarsi di fatto un prodotto di
tale contraddizione.
La Scuola di Francoforte (si veda
di Rolf Wiggershaus, La Scuola
di Francoforte: storia, sviluppo
un dialogo
storico, significato politico, trad.
tra
Oskar
Negt
e Francesco Moiso
it., Torino 1992) è un fenomeno
complesso. Alla base vi è l’esperienza dell’Institut für Sozialforschung tra le due guerre, prima
in Germania e poi in America,
con l’esilio di Max Horkheimer. La Scuola si orientava verso ricerche sociologico-psicologiche nel contesto di riflessione
a cura di Riccardo Ruschi
di una “teoria critica della società”, con lo scopo di svelare il funzionamento tecnicizzazione della scienza. La Scuola di
profondo delle strutture della società moder- Francoforte, ha osservato Moiso, nasce apna. In un secondo tempo, tuttavia, si delinea punto, storicamente, con la fondazione di un
il legame della Scuola con l’esperienza del- istituto di sociologia, che significava non
la critica marxista sia nel mondo culturale solo studio empirico del materiale proposto
tedesco, che al di fuori di esso. Da questa dalla società, ma tentativo di cogliere da un
complessità, ha fatto notare Moiso, nasco- punto di vista unitario ciò che rendeva l’uono due questioni, che sono caratterizzanti mo alienato e inautentico, dominato da ogdella vicenda della Scuola di Francoforte. getti, in una società sempre più alienata, nel
La prima questione poneva la domanda se si proprio tentativo di specializzazione, e sempoteva parlare di una vera e propria “scuola” pre più dominata da una sorta di inautentiper tutto un gruppo di pensatori che si pone- cità dello specialismo, cioè dominata dal
vano in una prospettiva di diversità e con- tecnicismo e dall’imposizione di bisogni,
traddizione nei confronti della loro stessa dovuti all’induzione delle strutture politiappartenenza alla scuola. La risposta non co-tecnologiche.
poteva che essere affermativa. Emergeva, La seconda questione, che caratterizza il
infatti, una sorta di ethos filosofico comune fenomeno della Scuola di Francoforte, ria tutti questi pensatori, che consisteva, para- guarda l’incrociarsi di aspetti marxisti e teodossalmente, nel presentarsi come eredi di logici - ad esempio nelle concezioni di Benjauna grande tradizione tedesca, quella della min e Adorno - e si riconosce nel tentativo
di costruire una teoria critica della società per
Bildung, pur contrastandola.
Il termine Bildung ha oggi acquisito il signi- recuperare un modo autentico di vivere e di
ficato di istruzione, cioè l’insieme di pro- rapportarsi sia con la società, che con la
La Scuola
di Francoforte
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natura. In questa prospettiva, ha fatto notare
Moiso, elementi apparentemente disparati si
trovano uniti in una paradossale e reale continuità con l’ideale della Bildung, in una
situazione storica profondamente mutata.
A questo proposito, ha ricordato Moiso, il
programma della Scuola di Francoforte è
intimamente connesso con i dibattiti politici
del dopoguerra e con i movimenti degli anni
’60-’70: un’esperienza politica, e insieme
necessariamente filosofica, a cui è legata, in
particolare, proprio la vicenda intellettuale
di Oskar Negt. Di fatto, nonostante il parziale ritorno di Adorno e le incertezze di
Habermas, si era creata la necessità, per
gli studenti, di liberarsi da una politica,
ereditata dagli anni ’50, che era divenuta
opprimente. Proprio questo tentativo si ricollegava alla natura della Scuola di Francoforte prima della guerra, vale a dire alla
natura filosofico-politica della Scuola.
Oskar Negt (Königsberg 1934)
è uno dei più interessanti sociologi tedeschi del dopo-guerra,
nonché rappresentante di punta
di quella corrente di pensiero che
si è venuta a connotare come
Scuola di Francoforte. Allievo
di Adorno negli anni ’55-’56 e
assistente di Habermas per otto
anni, Negt sviluppa la propria
vicenda culturale all’interno del
dibattito studentesco degli anni
’60 e in relazione alle discussioni avvenute in seno al movimento operaio dell’epoca. L’intento
teorico e politico di Negt è sempre stato quello di dare un’applicazione “pratica” alla Teoria
Critica della Società (nella versione di Adorno, Marcuse e
Horkheimer), riprendendo la tradizione marxista da una parte e
collaborando con le forze sindacali dall’altra. Tale progetto si è
però andato sempre più distanziando dalle linee filosofiche tracciate dalla teoria dell’agire comunicativo di
Jürgen Habermas (con la nota distinzione fra
lavoro e interazione). Dopo la morte di Adorno nel 1969, e la diaspora dei suoi vari
studenti in diverse università, Negt scelse
come sede accademica l’Università di Hannover, dove attualmente insegna. Fra i suoi
vari lavori si ricordano: Soziologische Phantasie und explemplarische Lernen (1968;
trad. it., Coscienza operaia nella società
tecnologica, 1973); Hegel e Comte (1964,
trad. it. 1975); Lebendige Arbeit, enteignete
Zeit (1987); Modernisierung im Zeichen des
Drachens (1988). In collaborazione con
Alexander Kluge, uno dei maggiori scrittori
e registi tedeschi contemporanei: Sfera pubblica ed esperienza (1972, trad.it. ridotta
1979); Geschichte und Eigensinn (1981);
Mißverhältnisse des Politischen (1993).
Sulla base di queste considerazioni introduttive ha preso avvio il dialogo tra Francesco Moiso e Oskar Negt, di cui riportiamo
qui di seguito lo svolgimento.
DIALOGO
Moiso. Professor Negt, vorrebbe parlarci dell’evolu-
dello stalinismo come prodotto del marxismo; infine
l’avanzare di un movimento di pensiero, che presenta
anche risvolti concreti e pratici, il positivismo, nel suo
caratteristico limitarsi al punto di vista strettamente
scientifico. La risposta della Scuola di Francoforte a
queste provocazioni è che il mondo non deve essere
suddiviso in compartimenti accademici, poiché la specializzazione accademica è espressione di una cattiva e
falsa coscienza. Soltanto intraprendendo la strada della
filosofia della società e della sociologia è possibile
reintegrare il pensiero sociale e quello filosofico. Una
sfida epocale, questa, che avrebbe portato ad un momento preciso, ad una risposta e ad una reazione tipicamente
tedesche. Se è vero, infatti, che il fascismo è un fenomeno europeo, l’annientamento degli ebrei è un fenomeno
solamente tedesco; l’antisemitismo, pur diffuso in altri
paesi, raggiunge solo in Germania le dimensioni della
persecuzione e del genocidio.
Quest’ultima considerazione rimanda alla domanda sul
significato che Auschwitz ha per il pensiero occidentale.
Per Adorno e Horkheimer la “dialettica dell’illuminismo” è un tentativo di trovare una risposta a una tale
domanda: il nazionalsocialismo tedesco non può essere
spiegato isolatamente, ma solo in rapporto alla cultura
nel suo complesso, compresa la cultura della Bildung definita da Thomas Mann come machtgeschützte Innerlichkeit, interiorità tutelata dal potere - che si spezza. Da
questa tradizione politica tedesca, in cui la politica separa l’esteriorità dall’essenza, nasce ora la necessità di un
“gergo dell’autenticità”, che lascia riecheggiare qualcosa di Heidegger; un Heidegger, che a proposito dei
sociologi affermava che essi si arrampicano soltanto
sulle facciate, che non hanno a che fare con l’essere.
È una posizione lontana da quella di Adorno e Horkheimer, che invece sostenevano che la superficie è altrettanto importante quanto l’essere. La dialettica dell’essere e dell’apparire è centrale in questo pensiero. Ciò
significa che vengono costruite categorie filosoficosociologiche del confronto con l’epoca, i cui effetti,
secondo Horkheimer ed Adorno, è compito della filosofia scoprire. Ciò non significa che le loro affermazioni
fossero legate soltanto al proprio tempo; bensì che la
filosofia ammette e comprende una riflessione epocale.
La filosofia sperimenta anche ciò che è comune ad una
società, ad una cultura umana, all’antropologia; ed è
proprio lo sprofondare nel dettaglio storico a riallacciarla ad affermazioni che hanno valore generale, universale.
Non la generalizzazione, quale vi è stata da Aristotele
fino ai nostri giorni, rappresenta per noi ciò che è rilevante e interessante: siamo immersi nel tempo, in una
micrologia storica. L’analisi del dettaglio, come emerge
dalla posizione di Benjamin e anche di Foucault, porta,
in una certa misura, lo spirito del tempo a esprimersi, e
con esso certamente porta a esprimersi anche un pezzo di
pensiero filosofico universale.
zione storica della Scuola di Francoforte e del posto che
attualmente occupa questa evoluzione nel mutato panorama politico tedesco?
Negt. Desidererei mettere in risalto alcuni aspetti di quel
grande complesso che è la Scuola di Francoforte. Qualsiasi grande filosofia dà risposte al proprio tempo: nessuna filosofia è fuori dal proprio tempo, affermava Hegel
e Fichte osservava che qualsiasi filosofia dipende dal
tipo di uomo che si è. Filosofia è comprendere ciò che
non sta alla superficie, ciò che è nascosto nelle strutture;
di scoprire ciò che è reale. Hegel, ad esempio, formula
l’equazione: razionale = reale e reale = razionale. Che
cosa siano la realtà e la verità resta per la filosofia una
questione centrale.
La Scuola di Francoforte è in sé così differenziata perché
è strettamente legata a figure di pensatori molto differenti. Tuttavia, essa presenta un contenuto di esperienza
comune, che consiste nel fatto che uomini formatisi e
venuti dalla cultura borghese della prima guerra mondiale si siano sforzati di cogliere e comprendere che cosa sia
questo mondo, che cosa lo costituisca, e abbiano tentato
di uscire dalla situazione di miseria in cui si trovavano.
A questo proposito, nella Repubblica di Weimar assistiamo a un incredibile proliferare di sistemi filosofici, a
molteplici tentativi, assai diversi tra di loro, di cercare
delle risposte teoriche, come si può rilevare confrontando i tentativi di risposta filosofica di Adorno e Horkheimer con quelli di Heidegger (1927), e con il tentativo di
Lukács di indagare la coscienza storica e di classe. Più o
meno allo stesso periodo risalgono non solo il tentativo
di Bloch di fissare lo “spirito dell’utopia”, ma anche
quello di Wittgenstein: la Scuola di Vienna era totalmente impegnata nello sforzo di cogliere qualcosa di nuovo
dalle rovine della catastrofe della cultura borghese.
A Francoforte si forma un piccolo gruppo di persone
caratterizzato, almeno in origine, da un’ampia e molteplice visuale politica, cui appartengono anche Karl Korsch
e Lukács. Questo gruppo si trova a costruire una filosofia
dell’età postmetafisica, una filosofia che considera ingannevoli tanto le sicurezze della vecchia ontologia,
della dottrina dell’essere, quanto quelle dell’idealismo.
Rifacendosi a Marx, al materialismo critico, si cerca, da
un lato, di rinnovare determinati modi di pensare e,
dall’altro, di riconquistare quanto è andato perduto, come
ad esempio il pensiero dialettico, in quanto modo specifico del pensiero, nel quale le contraddizioni vengono
contemporaneamente pensate e considerate come elementi attivi e produttivi nello sviluppo del pensiero: una
evidente contrapposizione, questa, alle tendenze di pensiero degli anni ’20-’30. Di fatto, è in tal senso che viene
costruendosi la struttura portante di quella che possiamo
definire la “teoria critica della società”.
Questo è ciò che la Scuola di Francoforte era negli anni
’20 e ’30. Vi sono, poi, tutta una serie di provocazioni alle
quali la Scuola di Francoforte risponde: innanzitutto il
sorgere di un nuovo irrazionalismo, che nel rivestimento
e nella funzione politica del fascismo assume le dimensioni di fenomeno europeo, interessando l’Italia, la Francia, la Spagna, la Germania; in secondo luogo, la nascita
Moiso. Vorrei parlare ora di qualcosa di più specifico.
Negli ultimi anni dopo la morte dei vecchi della Scuola
di Francoforte, il dibattito francofortese è stato dominato
da due figure. Una, la pragmatica trascendentale di Apel,
si è poi distanziata, ma non prima di avere contribuito
6
DIALOGO
allo sviluppo della teoria critica di Habermas nel senso,
di una teoria dell’agire comunicativo. Il problema che
Habermas pone è quello di una società in cui la comunicazione è lineare, naturale, cioè non incontra una risposta
inadeguata a causa dell’azione di “ossificate strutture
comunicative”, legate alle strutture di potere della società. È da rilevare l’ottimismo di Habermas nel porre la
questione: l’umanità possiede strumenti per una comunicazione completa, che tuttavia quasi mai si realizza
totalmente per la presenza, comunque, di residui di
rigidità all’interno della struttura sociale. La distanza di
una tale concezione dal pessimismo della Scuola di
Francoforte è evidente; anche se in Habermas non si può
parlare di un semplice occultamento dell’intima tragicità
della dialettica dell’illuminismo e della dialettica negativa di Horkheimer, di Adorno e anche di Benjamin.
L’evoluzione della posizione di Habermas risiede, piuttosto, nell’ottimismo di poter controllare totalmente la
difficile e suddivisa realtà della nostra società. Mi chiedo
però se ciò non sia una sorta di banalizzazione del
tentativo, che nei pensatori francofortesi aveva un carattere di estrema disperazione e tragicità, di riuscire a
rendere il nostro rapporto con il mondo e la società
capace di autenticità, di verità, anche se di una verità non
metafisica, ma fatta di risposte sociali.
Due, potremmo dire, sono gli indirizzi di sviluppo della
Scuola di Francoforte: da un lato una teoria interdisciplinare, che permetta di riannodare le disperse strutture
culturali del nostro tempo, come per certi aspetti si può
rintracciare in Habermas; dall’altro un pensiero, che a
partire dall’esperienza di Adorno, che è quella di un
pensiero discontinuo, aforistico, fondato sulla paradossalità del nostro poter ancora accedere ad un rapporto di
totalità con il nostro mondo, si mostra poco incline a
porsi al centro di una totalità concepita come possibile.
In questa tradizione di un pensiero più ellittico, non
pensa, professor Negt, di collocarsi Lei stesso, pur essendo stato assistente di Habermas? D’altra parte, mi pare
significativo che mentre Habermas, negli anni ’60-’70,
insisteva sulla rilevanza eminentemente teorica del movimento politico, Lei cercava il collegamento con la
prassi politica, mettendo in evidenza caratteri che, nella
realtà, rompevano indubbiamente l’aspetto totalizzante
della situazione. Non crede, dunque, che vi sia in Lei una
significativa divergenza rispetto alla posizione teorica di
Habermas, anche se in un ambito di dialogo e coappartenenza ad una medesima tradizione?
stesso tempo, però, un che di utopico emerge in ogni
frase dei Minima Moralia: l’attesa, la speranza, che
attraverso il rischiaramento, il pensiero, l’autoriflessione, la “fatica del concetto” - così come l’ha definita
Hegel, ripetutamente citato da Adorno -, l’uomo possa
uscire da una condizione di minorità. Il principio kantiano: «Sapere aude», osa sapere, abbi il coraggio di servirtene, che imponeva all’uomo di uscire dalla propria
condizione di fanciullezza e immaturità, di cui egli è il
primo responsabile, è, in certo qual modo, il pathos
illuministico presente fino alla fine nella filosofia di
Adorno. Egli tuttavia non aveva, propriamente, un’idea
di prassi politica che avrebbe potuto convertire questo
programma di rischiaramento.
Per i miei studenti, e in particolare per me, le cose stanno
diversamente. Io traggo conseguenze dalle teorie di
Adorno, Marcuse, Horkheimer; conseguenze che sono
di stampo politico: la pura riflessione non unita alla
prassi politica non produce alcuna funzione di rischiaramento. Queste conseguenze hanno significato per me il
tentativo di tradurre nella prassi politica il pensiero della
Scuola di Francoforte, prima con la militanza nello SDS
(Sozialistischer Deutscher Studentenbund ), poi nei
movimenti di protesta del ’68; nei sindacati, in seguito
nel Partito Socialista e nel Comitato per la democrazia e
i diritti dell’uomo, che ho contribuito a fondare negli
anni ’80. Il modo di pensare della Scuola di Francoforte
rappresenta per me un modello di emancipazione immensamente grande, in quanto a idee e conoscenze, un
modello che ha bisogno di essere “convertito”.
Ad un certo livello, Habermas ha tratto conseguenze
simili; e là mi trovo d’accordo con lui. In Habermas ci
sono, si può dire, due livelli di scritti. Da una parte i libri
“spessi”, i classici, i capolavori, Die Theorie des kommunikativen Handelns (La teoria dell’agire comunicativo),
Erkenntnis und Interesse (Conoscenza e interesse), il
confronto con Luhman: si tratta di cose che mi sono
estranee; alcune non le comprendo proprio, non le concepisco, anche nel loro significato, benché sia stato per
otto anni suo assistente e mi renda conto dell’importanza
di questi scritti. Ma Die Theorie des kommunikativen
Handelns non è in sé un progetto filosofico; esso offre,
piuttosto, le condizioni che rendono possibile la ricerca
empirica. È, in un certo qual modo, un suggerimento che
la sociologia dovrebbe perseguire per comprendere cosa
debba essere la ricerca. Laddove, nella teoria dell’agire
comunicativo, vi sono idee che sono politicamente convertibili, lì si tratta esclusivamente dell’idea di una
azione orientata alla comprensione, di un agire orientato
al consenso: la vecchia idea di comunità interpretante di
Apel, secondo cui quando parlo, quando utilizzo la
lingua, mi faccio coinvolgere strutturalmente in un dialogo con un secondo essere vivente, dotato di raziocinio,
per cui, in certo qual modo - secondo la formulazione di
trascendentale data da Kant - sono già coinvolto nell’interpretazione di questa comunità. È un pensiero di notevole portata, risalente addirittura ai dialoghi platonici:
quando ottengo che Menone o Protagora entrino in
dialogo con me - e devo spingerli a parlare con me - solo
allora, solo se essi si lasciano spingere ad un tale dialogo,
ho una possibilità di “illuminarli”, di comprenderli; solo
Negt. Si c’è. Ma questo è naturale per un grosso com-
plesso di teorie come la Scuola di Francoforte, in cui è
ovvio che i suoi appartenenti, nel seguire strade loro
proprie, abbiano tratto conseguenze altrettanto proprie
dalle dottrine che sono andati elaborando. Habermas
stesso ha d’altra parte chiarito in vario modo la propria
posizione nei confronti della Scuola di Francoforte.
Vorrei tuttavia riprendere la domanda così come mi è
stata posta. Innanzitutto vorrei spendere alcune parole
sullo sguardo pessimistico di Adorno e Horkheimer, cioè
sulla valutazione di un mondo che inizia ad evolversi
verso il bene solo con grande difficoltà. Questa valutazione del mondo è senz’altro presente in Adorno. Allo
7
DIALOGO
Negt. La mia collaborazione con Kluge risale agli anni
allora posso, come Platone in questi dialoghi, rendere
loro comprensibile nello stesso tempo l’idea e la partecipazione all’idea. Il problema resta solo in che modo
posso coinvolgerli nel dialogo. Se non riesco a coinvolgerli, ne nasce una comunicazione “lacerata”, nella quale
non c’è alcuna possibilità di accedere alla verità, che
viene frantumata, nascosta.
Ciò che con questo intendo dire è che in Habermas il
piano classicistico mi è estraneo, mentre mi è molto
familiare il piano dell’intervento politico. Laddove egli
interviene sull’unificazione tedesca, sul dissidio tra gli
storici, vale a dire negli scritti politici, non si riscontrano
differenze tra noi. In altre parole, credo che la differenza
tra Habermas e me risieda nella mia riluttanza e incapacità a lasciarmi coinvolgere completamente dal discorso
accademico. Ho preferito rivolgermi, piuttosto, all’ambito sindacale, al mondo fuori dell’Università. Insegno
nell’Università in qualità di filosofo, di sociologo; ma né
l’Università, né i miei colleghi, sono la mia patria. Preferisco cercare i miei interlocutori al di fuori dell’Università; mentre Habermas li cerca principalmente al suo
interno. Egli ha un volume interpretativo completamente
diverso per quanto concerne le varie correnti scientifiche
ed una capacità geniale di mettere in comunicazione le
culture e renderle reciprocamente traducibili.
Habermas appartiene ai grandi filosofi europei che hanno procurato alla filosofia americana un concetto di sé
che essa non possedeva, chiarendo agli americani che
cosa significhino Dewey, Peirce e il pragmatismo americano; questo lo si poteva fare solo sullo sfondo della
tradizione idealistica tedesca, dialetticamente interpretata. Così, attraverso Habermas, gli americani si sono
stupiti del contenuto essenziale della loro filosofia, meravigliandosi altresì della portata dei loro filosofi. Questo è uno dei motivi per cui Habermas appartiene al
curriculum della filosofia americana, nella misura in cui
egli ha avviato un processo di traduzione, nel senso di un
vero e proprio rischiaramento, all’interno della tradizione degli studi filosofici americani. È impressionante
come Habermas sia giunto a questo; mentre, ad esempio,
tra coloro che mi sono più vicini, Marcuse, che ha vissuto
a lungo negli USA, non ha voluto, né è stato in grado di
farlo. Anche negli USA, Marcuse è infatti rimasto fedele
alla tradizione tedesca - Kant, Fichte, Hegel, Marx - e per
quanto riguarda l’aspetto politico, come emerge in One
Dimension Man (L’uomo a una dimensione), è andato
verso un sistema chiuso, senza vie di uscita, molto vicino
alla prassi del movimento di protesta di Berkley (1968) un’indizio ulteriore del fatto che il fare prassi non rientrava nel programma pratico della Scuola di Francoforte.
1978-79; un’amicizia che nasce all’interno del movimento di protesta. Kluge stesso è stato anche amico
intimo di Adorno. Alcuni suoi film, come Abschied vom
gestern, sono una chiara rielaborazione del passato. Un
grosso movimento di avanguardia cinematografica, il
gruppo di Oberhausen, è stato fortemente influenzato da
Kluge. Compito del film è per Kluge rielaborare con
materiale figurativo quanto è successo in Germania.
Questo è stato per me uno dei motivi fondamentali del
mio incontro con Kluge e della nostra collaborazione,
confluita nel progetto di pubblicare insieme un libro a
quattro mani, Öffentlichkeit und Erfahrung (Sfera pubblica e esperienza, 1972).
Ciò che mi ha affascinato di Kluge è il modo in cui egli
convertiva i concetti in immagini. All’inizio della mia
conoscenza di Kluge sta il riconoscimento che il linguaggio figurativo non è muto, ma persegue, piuttosto, il
medesimo senso di rischiaramento del concetto, vale a
dire la dialettica di concetto e immagine. Öffentlichkeit
und Erfahrung è proprio un tentativo di tradurre la
dialettica negativa in relazione alla sfera pubblica, nella
prospettiva di un cambiamento della sfera pubblica.
Entrambi conoscevamo molto bene Adorno; ma non
eravamo soddisfatti della conclusione di Adorno: nella
miseria non basta vedere solo la miseria, bisogna anche
vederne l’elemento esplosivo, come conseguente possibilità di uscire dalla miseria stessa. Questo è ciò che fino
ad oggi Kluge ha ricercato nei suoi film.
Oggi Kluge non fa più grandi film, perché il pubblico,
come lui stesso afferma, non è più interessato ai suoi film.
Oggi, in qualità di avvocato, egli si batte affinché nelle
reti televisive private vengano garantiti posti di lavoro
per intellettuali, artisti, produttori, riuscendo a ottenere
da queste televisioni venti ore di trasmissione settimanali
completamente libere dall’influenza degli organismi produttivi di queste stesse televisioni. Anche in questo caso
Kluge si richiama a una considerazione presente in Öffentlichkeit und Erfahrung , in cui si dice che non esistono
situazioni così miserabili nella storia della società da cui
non sia possibile uscire. Ogni situazione ha una sua via
d’uscita: bisogna solo usare la nostra ragione e il nostro
intelletto per cercare queste vie d’uscita.
La ricerca di vie d’uscita è ciò che in particolare mi ha
legato a Kluge. Non vogliamo il privilegio di dimostrare
o evocare l’impossibilità di risolvere una situazione: in
questo non siamo filosofi postmoderni, ma, piuttosto,
filosofi tradizionali, forse un po’ antiquati, che tuttavia si
sforzano di tener fede alla responsabilità intellettuale,
che in quanto uomini tutti possediamo, di creare vie
d’uscita, di trovare soluzioni. La scimmia del racconto di
Kafka, Die Rede eines Affens (Discorso di una scimmia),
sostiene di non volere la libertà, di non sapere cosa sia la
libertà, ma di voler cercare una via di uscita dalla gabbia
in cui si trova.
Questa produzione di vie d’uscita è ciò che noi ora, da
vent’anni, facciamo. Talvolta lavoriamo due mesi insieme; ci sediamo a un tavolo l’uno di fronte all’altro;
ognuno scrive le proprie frasi, che talvolta sono mezze
frasi e vengono completate dall’altro. Con questo metodo abbiamo portato a compimento due o tre grossi lavori,
Moiso. Vorrei ora accennare al Suo rapporto con Kluge,
tra i registi della scuola di cinema tedesca degli ultimi
anni il più conseguentemente legato a una problematica
sottilmente politica. Non che Kluge abbia fatto film
immediatamente politici; egli tuttavia ha indubbiamente
cercato di sviluppare un linguaggio immediatamente
capace di inserirsi all’interno della prassi. A tal proposito, quale è stato il senso del Suo sodalizio con Kluge e
perché ha scelto proprio la collaborazione con un regista
cinematografico?
8
DIALOGO
in particolare il secondo, Geschichte und Eigensinn
(Storia e ostinazione, 1981), che rappresenta il tentativo
di rielaborazione della problematica tedesca con l’intento di fare un bilancio del movimento di protesta del ’68,
di ciò che esso è divenuto. Questo rapporto di produzione
con Kluge si fonda sul fatto che possediamo un carattere
completamente diverso uno dall’altro e abbiamo imparato a riconoscere e utilizzare le nostre proprie caratteristiche: io non capisco niente di film, e dipendo dalle sue
competenze; Kluge cerca di riflettere nel suo lavoro su
ciò che significa la dialettica di concetto e immagine.
tele e Platone, al pensiero antico, e non a un pensiero
indipendente dalla dipendenza temporale. Per questo
motivo uso il verbo umsetzen, convertire, riversare,
piuttosto che übersetzen, tradurre, trasferire: tradurre
(übersetzen) non è semplicemente convertire (umsetzen)
le categorie della dialettica negativa nella prassi; sarebbe
una terribile confusione. Piuttosto, la mediazione di
teoria e prassi è, in sé, un problema filosofico e necessita
di uno sforzo particolare di comprensione quanto il
rapporto tra la filosofia del quotidiano e la grande filosofia. La ricezione della Scuola di Francoforte, del pensiero filosofico di Wittgenstein e di quello postmoderno è
tanto importante quanto chiedersi che cosa la filosofia
debba fare, perché esista la filosofia. Adorno ha una volta
definito così la filosofia: di fronte ad Auschwitz e agli
indicibili crimini che vengono compiuti in questo mondo, la filosofia in sé consiste nel cogliere ciò che propriamente non è concepibile, nel tentare di comprenderlo. La
filosofia esiste in questo campo di tensione, in questo
spazio oscuro. Carattere irrinunciabile della filosofia è l’
“ostinazione della teoria”, della produzione teoretica, di
contro a tutti i tentativi di convertirla in prassi; dove
l’ostinazione della filosofia di produrre teoria viene
distrutta, con essa viene distrutta la teoria stessa, la
filosofia. Ma la tensione tra la teoria e la prassi è per me
insuperabile e resta un motivo decisivo della riflessione
filosofica. Anche oggi, in un momento in cui la prassi è
molto difficile e concetti e simboli del passato e della
grande tradizione socialista rischiano di diventare tabù,
come Marx e il marxismo.
Moiso. In Adorno permangono l’interesse e il bisogno
di filosofia, perché la filosofia non si è ancora realizzata.
Lei ha usato spesso il termine umsetzen (tradurre, riversare, convertire) per esprimere nella prassi quella che è
stata la visione filosofica dei francofortesi. Questo significa per Lei insieme un riflettere sul significato della
storia tedesca, sul problema che la Germania è a se stessa
e che è insieme un problema politico, ma anche culturale
e filosofico. Cosa significa per Lei tradurre la filosofia
nella prassi e cosa questo ha a che fare con il suo confrontarsi
con il senso stesso dell’essere tedesco e di appartenere alla
storia culturale e politica della Germania?
Negt. Sarebbe un fraintendimento dire che il pensiero
della Scuola di Francoforte deve essere tradotto nella
prassi; lo ritengo impossibile. Ritengo l’orientamento
del pensiero un aspetto molto importante nella Scuola di
Francoforte. Adorno ha ragione quando dice - ed è
l’undicesima tesi di Feuerbach su Marx - che «gli uomini
hanno dato diverse interpretazioni del mondo: ora si
tratta di cambiarlo». Questa tesi oggi non è più valida,
dopo che gli uomini hanno trasformato il mondo fino a
stravolgerlo, annientarlo, spezzarlo. Comte, rispondendo a questo desiderio sfrenato ed illusorio di trasformare
il mondo, sosteneva che compito della filosofia è piuttosto quello di definire il ruolo dell’interpretazione e il
significato della filosofia stessa. L’orientamento del
pensiero è pertanto un punto importante di questa forma
di costruzione della teoria.
Contemporaneamente, però, per Kluge e per me, è anche
importante il fatto che l’uomo comune, l’uomo della vita
di tutti i giorni, si presenti come un potenziale pensatore
teoretico. Non solo i filosofi pensano filosoficamente:
nella letteratura americana, ad esempio, vi sono testi di
filosofia per bambini. A ben guardare, anche in Platone
e Aristotele compito della filosofia è occuparsi dell’intelletto quotidiano; vera filosofia è solo quella che ha a
che fare con l’intelletto quotidiano, con ciò che gli
uomini pensano di se stessi a partire da se stessi. Deve
esserci sincronizzazione tra la logica del pensiero filosofico, come necessariamente viene sviluppata nel campo
accademico, e la logica del pensiero filosofico quotidiano, che dal contenuto di verità delle grandi filosofie non
deve mai essere separata, pena il suo essere svuotata di
verità. Il contenuto di verità delle grandi filosofie deve
incontrarsi con i problemi e le verità dell’uomo. L’uomo
deve arrivare a spiegarsi che cosa vi è in lui.
Questa tradizione non può essere superata. Nel mio
pensiero, mi riferisco volentieri alla tradizione di Aristo-
Moiso. A proposito della concezione micrologica da Lei
sollevata citando Foucault, vorrei ancora chiederLe cosa
significhi rivolgersi a una simile micrologia. Ha evidentemente a che fare con la tensione tra teoria e prassi. Ma
in che modo Lei si riferisce a Foucault parlando di
micrologia?
Negt. La grandezza del pensiero di Foucault consiste nel
suo aver compreso che i veri mutamenti nella storia si
svolgono nella microstruttura, e non nell’intero. In Überwachen und Strafe (Sorvegliare e punire, 1975) Foucault
dice che il dominio consiste nel fatto che gli uomini sono
costretti a muoversi in un certo luogo in un determinato
modo; nel fatto che la società sia una organizzazione
dettagliata di spazi suddivisi, nei quali agli uomini è
lecito o meno fermarsi. Lo stesso vale per il tempo: c’è
un tempo in cui possono muoversi ed uno in cui non è
loro permesso farlo. In questo libro Foucault ci offre una
visione di ciò che succede a livello atomico-molecolare
nella società, proprio come avviene in natura, laddove i
veri movimenti avvengono a livello atomico-molecolare, nelle più piccole cellule.
È un pensiero ricco di conseguenze: gli uomini non
vengono determinati da concetti sintetici, dalla politica;
ma è piuttosto nella vita quotidiana, in cui gli uomini si
muovono, o non si muovono, che si definisce il loro
spazio vitale di libertà. In questa struttura, gli elementi di
spazio e di tempo contengono dominio. L’attività organizzata del dominio consiste nel fatto che c’è un guardiano che tutti osserva, senza essere visto da alcuno, cosic9
DIALOGO
ché tutte le possibilità di movimento di ciascuno possano
da lui essere conosciute e controllate. Questo è il modello
del potere: il controllo del movimento. Del resto, in
Geschichte und Eigensinn la tesi fondamentale è che il
movimento della vita umana avviene nelle cellule, nell’organizzazione delle cellule e nel modo in cui sono
organizzate: in questo consiste propriamente la vita. Da
un’analisi dell’organizzazione cellulare derivano libertà
e dominio.
Naturalmente, nel suo libro, Foucault risale a Marx, che
apre Il Capitale con la frase: «Il capitalismo è un’incredibile accumulo di merci; la singola merce ne è la forma
cellulare». Marx stesso, dunque, nella sua opera era
partito dall’analisi della forma cellulare della merce.
Questa forma cellulare contiene in sé una contraddizione, cioè quella tra valore d’uso e valore di scambio delle
merci. Questo pensiero è presente in Foucault, soprattutto nei primi scritti in cui si parla di microfisica del
controllo. Si tratta di un pensiero filosofico nuovo e di
grande rilevanza.
giudizi, nelle indagini sulla nascita del nuovo radicalismo di destra, sulla xenofobia, sull’emarginazione forzata delle minoranze - non solo degli stranieri, ma anche,
ad esempio degli handicappati, degli omosessuali -, dove
l’ira contro le minoranze non è che una conseguenza
dell’intera crisi tedesca, che non mostra in generale
alcuna possibilità di soluzione e ricerca semplicemente
dei capri espiatori. L’analisi di una tale situazione era già
nei programmi della Scuola di Francoforte. La ricerca sui
pregiudizi ha, del resto, orientato il grosso progetto di
ricerca empirica sulla “personalità autoritaria”, intrapreso dalla Scuola di Francoforte durante l’emigrazione
americana, che conteneva indagini specifiche sull’antisemitismo e sull’etnocentrismo.
Dopo il ’45, la Scuola di Francoforte ha sistematicamente studiato in modo sperimentale e con precisi metodi
empirici il costituirsi dei pregiudizi: non solo sono state
fatte indagini d’opinione, ma anche ricerche sui condizionamenti della personalità trasmessi attraverso l’educazione familiare - ad esempio sul significato dell’ordine, della pulizia, degli stili educativi -, constatando un
incredibile ritorno di antiche strutture di pregiudizio.
Benché il fascismo sia stato un fenomeno europeo, la
forma militante del fascismo, il nazionalsocialismo, con
la sua negazione sistematica della fantasia è un fenomeno proprio della Germania, e ha condotto a una situazione per cui ancor oggi il pensiero filosofico, nella tradizione di Adorno, non può liberarsi della necessità di pensare
al perché di quanto è successo.
A tal proposito vorrei in conclusione accennare brevemente ad una posizione mia e di Habermas sulla questione dell’asilo agli immigrati in Germania. La Germania
ha una colpa particolare, e dunque una particolare responsabilità nei confronti degli emigranti. In Europa, gli
emigrati tedeschi sono sempre stati accolti; una buona
parte di intellettuali tedeschi, anche prima della guerra,
ha trovato asilo in molti paesi europei. Ciò non è accaduto in Germania, dove c’è bisogno di una legislatura
equilibrata sull’immigrazione - non è giusto, ad esempio,
che chi chiede asilo venga smembrato dalle comunità di
provenienza. Non si tratta semplicemente di una questione di opinione politica. In quanto erede della Scuola di
Francoforte e della sua filosofia, io penso che noi uomini,
in quanto esseri dotati di raziocinio - Kant affermava che
nessuno come l’uomo ha avuto un dono come la ragione
e, dal momento che la natura non fa nulla gratuitamente,
l’uomo ha il dovere di usarla - dobbiamo adoperarci per
trovare, per concepire, con l’ausilio della ragione, delle
vie di uscita, delle alternative alla situazione in cui
viviamo.
Moiso. Lei accennava alla difficoltà che si ha oggi in
Germania di parlare anche soltanto di Marx, che pure ha
significato molto per la Scuola di Francoforte. In una tale
situazione d’imbarazzo, conseguenza anche del crollo
dell’ortodossia marxista orientale, in che modo si può
dire che la Scuola di Francoforte è ancora attuale e come
questa attualità si collega con la difficoltà di parlare di
Marx in Germania?
Negt. La Scuola di Francoforte, nel suo sviluppo, ha
sempre incontrato difficoltà, come emerge dal recente
studio storico-critico di Wiggershaus, un grosso progetto analitico e storico sui presupposti e gli sviluppi della
Scuola. Come esempio può valere la vicenda di Adorno,
il quale in effetti non fu mai chiamato a ricoprire nessuna
cattedra universitaria, sebbene egli sia oggi celebrato dal
mondo accademico come un rappresentante di spicco del
passato. Negli anni dal ’45 in poi, per gli intellettuali
emigrati che fossero rientrati in Germania e manifestassero un evidente risentimento, una legge predisponeva
per questi intellettuali cattedre di risarcimento.
Similmente, nel momento di maggiore sviluppo del
movimento studentesco, quando molte simpatie degli
studenti andavano verso la RAF (Rote Armee Fraktion),
tutti discriminavano la Scuola di Francoforte come causa
del terrorismo, traendo spunto dalla critica radicale della
società di Adorno ed Horkheimer, benché io stesso ed
altri già da tempo avessimo apertamente preso le distanze da queste frange estremiste. Tale discriminazione
della Scuola di Francoforte è collegata ad un problema
squisitamente tedesco: il legame tra il materialismo
critico di Marx e Freud, cioè tra una dimensione psicoanalitica della soggettività e l’analisi del capitalismo;
questa connessione resta tutt’oggi una provocazione.
Questa provocazione ha oggi come conseguenza che
molti discendenti della Scuola, politicamente orientati,
come Habermas e me e alcuni altri, tengano fede a questo
pensiero, che oggi si dimostra nuovamente attuale: la
Scuola di Francoforte rappresenta oggi in tal senso
qualcosa di enormemente attuale nelle ricerche sui pre-
(Trascrizione e traduzione dall’originale tedesco su nastro
magnetico di Lucia Cavallo)
10
INTERVISTA
Il comunitari- le istanze comunitarie non necessariamensmo nasce, tra te debbono contrastare con il “giudizio
la fine degli razionale” e l’ “autonomia personale”, né
anni Settanta e intendono ricostruire un’improbabile omol’inizio degli geneità di valori, ma piuttosto un’unità che
anni Ottanta, mantenga aperta la tensione fra “autonocome critica al mia e integrazione”.
liberalismo, in- Esiste allora un vero oggetto del contendere?
teso come teo- A mio avviso esiste e giustifica l’asprezza
ria filosofico- della polemica che talvolta oppone liberali e
di Sandro Ferrara
politica della comunitari. Si tratta di un’opposta valutaziodemocrazia, della giustizia, della persona e ne delle priorità all’interno di una comune
della società. Tra gli autori più rappresenta- diagnosi della modernità. Per i liberali i
tivi di questa prima stagione della critica processi di differenziazione, di riflessivizzacomunitarista al liberalismo si distinguono zione, di astrazione, di complessificazione
Alaisdair MacIntyre, Michael Sandel, della vita sociale, della cultura e della sfera
Charles Taylor, Robert Bellah e Philip politica, che caratterizzano la società moderSelznick. Ma le radici sono antiche. Basti na, non mettono a rischio la capacità di
pensare a Burke e a De Maistre, che già ancoramento dell’individuo, bensì la sua
criticavano gli effetti dirompenti dell’indivi- capacità di critica. Di socializzazione ce n’è
dualismo sull’autorità delle tradizioni e de- sempre; va da sé, è ovvio che anche l’indivinunciavano l’astrattezza della
nozione dei diritti “dell’uomo”;
all’opposizione hegeliana fra Sittlichkeit e Moralität, alla critica
marxiana alla falsa neutralità dell’ordinamento politico e giuridico borghese; ad autori come Carl
Schmitt e Giovanni Gentile, in
cui troviamo una denuncia dell’atomismo individualistico, dell’indifferenza liberale verso la
comunità, della centralità dei diritti, della fuga liberale “dal politico”, dello scetticismo e del formalismo liberali, e dell’ipocrisia
con un intervista a Martha C. Nussbaum,
della neutralità delle leggi.
Bernard Williams e Charles Taylor
Rispetto a questi predecessori il
comunitarismo di Sandel, Taylor,
Bellah e compagnia si distingue
per la sua moderazione, per la
sua sostanziale continuità con il
quadro di riferimento liberale
stesso. In fondo nessuno degli
autori citati rimette in discussioa cura di Marina Calloni
ne, come gli antiliberali del passato, il catalogo dei diritti moderni, o l’idea di rule of law, o la democrazia duo delle società moderne e contemporanee
rappresentativa, o lo stato sociale, o il valore continua a formare il proprio Sé apprendendella tolleranza. Nessuno rimette in discus- do ad assumere il ruolo dell’altro, guardansione il “fatto del pluralismo”, inteso come dosi prima di tutto con gli occhi di altri
pluralizzazione degli universi di significato particolari a lui vicini. Ciò che non è scontapremoderni in una molteplicità di mondi to, e che necessita della massima attenzione,
vitali, sottoculture, concezioni del bene, stili è lo sviluppo prima e poi della salvaguardia
di vita che risultano impervi ad ogni tentati- della capacità dell’individuo di assumere
vo di reductio ad unum. Nessuno rimette distanza critica da quello sguardo normatiseriamente in questione la differenziazione vo, ma provinciale, di giudicare riflessivadella sfere di valore; bensì un certo modo di mente la forma di vita che lo ha formato.
interpretarne le conseguenze. Nessuno in- Questa è la capacità di cui la modernità porta
tende proporre il ritorno ad un unico e indif- la promessa, ma che è sempre a rischio di
ferenziato orizzonte di significati condivisi. essere soffocata. I diritti, la tolleranza, il
Al contrario, gli stessi sostenitori della ne- pluralismo, la neutralità della giustizia, e via
cessità di reiniettare un momento di tradizio- dicendo, sono tutti concetti che hanno come
ne all’interno della nostra cultura sostengo- telos quello di preservare e proteggere queno la propria proposta, come MacIntyre, con sta preziosa risorsa.
argomenti “critici” e moderni e niente affatto Il comunitarista assegna in ordine inverso le
tradizionalistici; e i sostenitori della necessi- priorità. Quegli stessi processi di differentà di reintrodurre un’istanza comunitaria al- ziazione, di riflessivizzazione, di astrazione,
l’interno della vita sociale contemporanea si di complessificazione della vita sociale, delpremurano di precisare, come Selznick, che la cultura e della sfera politica non mettono
Il dibattito
tra comunitari
e liberali
Comunitarismo
liberale
11
a rischio la capacità di assumere una distanza
critica dalle circostanze della propria esistenza. Non è certo la capacità di guardare la
propria casa con gli occhi dello straniero che
difetta all’individuo moderno, il quale, semmai, soffre del non potersi sentire a casa
propria in alcun luogo. Ciò che questi processi rischiano di sommergere e portare ad
estinzione è, al contrario, il senso di appartenere a qualcosa, a un luogo, a una cultura, a
una terra, a una stirpe, a una cultura, a una
qualunque entità che vada al di là dei bisogni
del proprio Sé. E’ questo il rischio cui bisogna oggi porre rimedio. E il rimedio prospettato è una rivitalizzazione della dimensione
comunitaria, la quale si colora di sfumature
via via diverse: recupero di un orientamento
verso il bene comune; ancoramento esistenziale; relativa omogeneità dei valori.
Il liberalismo non si è chiuso a queste sollecitazioni. Al contrario, prova della sua vitalità è la straordinaria flessibilità
con cui le ha fatte proprie, adattandole alla propria prospettiva,
inglobandole. Negli anni Ottanta, autori come Rawls, Dworkin,
Ackerman, Larmore e altri,
hanno da un lato sfumato di
molto le pretese universalistiche dei loro modelli di giustizia. Nessuno giustifica più i
principi di giustizia o i diritti
sulla base di modelli di razionalità morale puramente astratti;
al contrario, la neutralità della
giustizia viene ora ancorata alla
sua capacità di cogliere i momenti di intersezione fra tradizioni concrete. E dall’altro lato si
coglie negli scritti di Dworkin, di
Ackerman e di altri uno sforzo
genuino di inserire il valore dell’integrazione, o una dimensione comunitaria, intesa repubblicanamente come interesse per il
bene comune, all’interno della
concezione liberale della polity.
Si discute oggi se questa svolta del pensiero
liberale nell’ultimo decennio non abbia di
fatto portato ad esaurimento la querelle con
i comunitaristi. In realtà, pare averne solamente spostato i termini. Nessuno oggi contesta o si oppone al valore dell’integrazione
sociale, così come nessuno mette seriamente
in dubbio il fatto del pluralismo, o ne propugna l’eliminazione. Rimane però aperta la
questione se il modo in cui autori liberali
come Dworkin articolano all’interno della
loro posizione il valore della comunità, dell’integrazione, e dell’appartenenza renda
veramente giustizia alle nostre intuizioni in
merito. Rimane il dubbio se il modo in cui
essi tracciano la linea, ad esempio, fra ambiti di interesse pubblico, in cui certi diritti
e interessi possono essere protetti per via
legislativa e al limite costituzionale, ed
ambiti di pertinenza strettamente privata,
rispetto ai quali le leggi e la costituzione
possono solo proteggere la libertà del singolo, sia in ultima analisi sensato e coerente.
INTERVISTA
Lo spirito del tempo si manifesta spesso
attraverso quei temi comuni che avvolgono
e contrastano la scena teorica, politica e
culturale mondiale e che si articolano secondo un veloce scambio di vedute e di
posizioni, che vengono a mutare antiche
solidarietà, consolidati modi di pensare.
Nel campo della filosofia e delle scienze
sociali, negli ultimi decenni è stato questo
il caso del dibattito su moderno e postmoderno, su critica dell’ideologia ed ermeneutica, sulla ricostruzione della ragion
pratica e sui suoi limiti; ma è stato soprattutto il caso della polemica fra i cosiddetti
sostenitori dell’etica antica e quelli della
morale moderna, di Aristotele-Hegel o di
Kant. Si tratta dell’ormai ventennale polemica (nata negli Stati Uniti all’indomani
della pubblicazione, nel 1971, del libro di
John Rawls, Una teoria della giustizia, a
cui erano seguite forti critiche, soprattutto
a partire dagli scritti di Michael Sandel e
Alisdair MacIntyre), che ha visto schierarsi
su rive opposte comunitaristi e liberali. Ma
più che sulla diatriba teorica e politica in sé
- di cui Alessandro Ferrara ha qui sopra
delineato i tratti salienti - ciò che ci interessa qui indagare è piuttosto il punto a cui è
oggi approdato il dibattito, sia per poter
tracciare le attuali linee di tendenza, sia per
poter superare la passata querelle (anche
per via della pubblicazione del nuovo libro
di Rawls, Political Liberalism, in cui questi
fa tesoro di tutte le obiezioni mossegli
contro in tutti questi decenni).
Ne parliamo con tre autorevoli teorici, che
ben rappresentano una “linea mediana” fra
i comunitaristi e i liberali, dal momento che
cercano di individuare nuove piste analitiche, al di là della spesso forzata linea di
demarcazione fra le due correnti di pensiero. Per questo essi possono essere a buona
ragione considerati come comunitaristi liberali. Ma come tutte le etichette, anche
questa non riesce ad essere certo esaustiva
della originalità teorica che caratterizza
ciascuno dei nostri interlocutori. Diamo
comunque la parola a questi tre filosofi
anglo-americani, esponenti di spicco dell’attuale panorama filosofico internazionale. Si tratta di Martha Nussbaum, statunitense, docente di filosofia alla Brown University; Bernard Williams, inglese, docente al Corpus Christi College di Oxford;
Charles Taylor, canadese, docente di scienze politiche e filosofia alla McGill University di Montreal.
Nel ribattere alle obiezioni, essi colgono
qui anche l’occasione per ricostruire i presupposti teorici del proprio discorso filosofico. Più che riproporre consumate polemiche, i nostri interlocutori mostrano la consapevolezza di aprire nuovi fronti di dibattito pubblico, soprattutto in relazione a
quei gravosi compiti che la democrazia si
trova oggi a dover affrontare in un tempo di
grande “turbolenza” sociale, economica e
politica. La teoria non può certo stare a
guardare.
Martha C. Nussbaum
Bernard Williams
Charles Taylor
Martha C.
Nussbaum
Professoressa Nussbaum, nel
Suo libro The Fragility of Goodness, Lei dà grande enfasi alla
ricerca etica degli antichi piuttosto che alla morale formale dei
moderni filosofi. E’ questa Sua
analisi da intendersi anche come
critica del Moderno?
La Sua idea è dunque quella di mettere in luce la valenza
contemporanea dell’etica antica; quasi che la struttura
ontologica delle capacità umane rimanga immutata nel
corso dei secoli.
M.C.N. Si prenda la tragedia greca: si vive come cittadini, si è felici per l’amicizia di cui si gode, dell’amore che
si dà e si riceve, e subito dopo si deve lasciare gli amici,
i figli, ci si trova in guerra, schiave... Questo è il dibattito
di cui mi occupo e che intende considerare ciò che è
buono (goodness), ovvero comprendere in che cosa
consista il bene umano. Così goodness non è da intendersi o da tradursi con “bontà” (che è una determinazione
ideologica), bensì con “buono”, ovvero con “bene umano”, che si esplica secondo precise forme d’azione.
L’interesse etico si sposta allora sulla comprensione di
come tali azioni possano essere bloccate o di come,
facendo ricorso ad esse, sia attuabile il bene. Tutti questi
problemi sono composti da innumerevoli sfaccettature,
che sono poi strettamente connesse fra di loro.
M.C.N. Ciò che ho scoperto nel
corso della mia ricerca è che i filosofi antichi hanno
costruito il dibattito sull’etica in un modo molto simile a come la gente dibatte oggi intuitivamente di
problemi morali. Sono domande su quali dovrebbero
essere i contenuti per una vita umana buona; quale tipo
di vita dovrebbe essere pienamente soddisfacente;
quale sia il limite del rischio accettabile per la vita
umana. Se ci si dedica a grandi progetti, all’attività
politica, all’amicizia, all’amore, alla giustizia, allora
in tutti questi casi ci si pone di fronte alla possibilità
di essere danneggiati. Il pericolo nasce nell’area mediana delle relazioni che si stabiliscono con le altre
persone. Ora per fragilità io intendo quella particolare
suscettibilità dell’essere umano, che significa essere
fermati, bloccati in qualsiasi momento della propria
vita, che come tale diventa precaria e vulnerabile.
Veniamo ora al neo-aristotelismo. In Germania Aristotele è stato riscoperto passando attraverso la lezione ermeneutica di Gadamer. Lei proviene invece da un’altra
tradizione teorica e culturale, quella americana. Quale
differenza esiste, tuttavia, fra la “riabilitazione della
12
INTERVISTA
ragion pratica” attuata dal neo-aristotelismo tedesco e
quella apportata dalla rilettura anglosassone? Cosa ne
pensa del cortocircuito che spesso viene indotto tra neoaristotelismo, anti-kantismo, comunitarismo e neo-conservatorismo? Mi sembra che contro tale identificazione
Lei cerchi piuttosto di mostrare la possibilità stessa di
essere aristotelica e liberale ad un tempo.
tico. Per questo l’aristotelismo rifiuta la classica distinzione liberale fra il bene e il giusto: la giustizia sarebbe
una parte del bene. Ma come il liberalismo, esso insiste
sull’importanza di dover attuare delle scelte comuni. Ciò
a cui si mira nella pianificazione politica non è infatti la
costituzione di una società di persone contente e appagate, ma la creazione delle condizioni necessarie affinché
i soggetti possano scegliere ed esplicare le proprie capacità. Il che ci distanzia parecchio dall’utilitarismo, basato piuttosto sulla benevolenza e sulla soddisfazione
rispetto a certi beni comuni. Secondo la teoria aristotelica esiste invece sempre una pluralità di beni, per cui ciò
che bisogna chiedersi non è come massimizzare la quantità di ogni singolo bene, bensì come rendere capace il
cittadino di agire nel contesto di beni differenti.
M.C.N. A partire dal mio primo libro sul De motu
animalium di Aristotele, mi sono a lungo occupata di
confutare l’interpretazione che di Aristotele era stata
data dalla tradizione cattolica, una tradizione indubbiamente importante e cospicua sotto il versante teorico e
culturale, ma che però, sotto innumerevoli aspetti, dà di
Aristotele una lettura che non è certo sempre coerente
con gli assunti dell’autore. Tommaso d’Aquino è indubbiamente un grande filosofo, consapevole di fare una
commistione fra aristotelismo e dottrina cattolica. Molti
dei neo-aristotelici attuali, fra cui MacIntyre, lavorano
proprio all’interno di questa tradizione e hanno indubbiamente una concezione della ragion pratica piuttosto
conservatrice. Ma esiste anche una buona tradizione
di studi che analizza le linee del dibattito al tempo di
Aristotele, o che focalizza il proprio interesse sull’analisi filologica dei testi aristotelici. Non deve
inoltre sorprendere il fatto che nella tradizione britannica le figure più eminenti di studiosi aristotelici come
David Ross, T. Green, Ernest Parker, fossero proprio
liberali socialisti. Non bisogna inoltre dimenticare
che sono stati molti anche i marxisti che si sono
occupati di Aristotele.
A proposito di teoria politica, come intende Lei la possibilità di trovare un giusto equilibrio fra bene privato e
bene pubblico?
M.C.N. E’ un problema assai difficile, anche perché nel
mondo antico non esisteva una reale distinzione fra il
pubblico e il privato. Ritengo, tuttavia, che non esista in
realtà neanche nel mondo moderno. Il che significa che
la famiglia non è la sfera privata dell’amore, completamente estranea alle istituzioni politiche e alle leggi. Che
ogni persona sia in grado di far funzionare le proprie
capacità, implica anche di guardare all’interno della
famiglia. Cosa, questa, che finora il liberalismo - nei
suoi intenti politici - non ha voluto fare. Contro Rawls,
Susan Moller Okin ha sostenuto che il principio di
giustizia deve essere anche applicato all’interno della
ridistribuzione dei beni e delle risorse in seno alla
famiglia stessa.
Si riferisce al tema del lavoro come potenzialità umana?
M.C.N. Certo! Ma anche alla lotta di classe. E’ questo
l’Aristotele di cui mi occupo e che penso sia anche più
consono al ruolo da lui svolto ai sui tempi. Naturalmente
esistono molti aspetti in Aristotele che sono difficilmente accettabili, come la schiavitù e la concezione della
donna. Quando parla di donne, sembra ignorare completamente la coerente applicazione del proprio metodo,
perché non dà corrette informazioni sulle capacità femminili che devono essere invece sviluppate. Aristotele
avrebbe certamente potuto sostenere tale argomento
etico, ma non potè farlo a causa dei molteplici pregiudizi
che ancora lo attanagliavano. E’ questo del resto un
fenomeno storico-culturale assai diffuso. Accadde la
stessa cosa anche in America coi padri fondatori che
parlavano dell’uguaglianza dei diritti fra esseri umani
e nello stesso tempo permettevano la schiavitù. Ma
non penso che ciò possa invalidare l’intera opera di
Aristotele: gli esseri umani che creano buone teorie
possono essere nel contempo uomini ciechi di fronte
a molte questioni.
Cosa pensa del femminismo neo-aristotelico?
M.C.N. Quando si parla di femminismo aristotelico, si
pensa subito, per lo più, a una cultura dell’amore, piuttosto che a una teoria dei diritti. Non sopporto però che si
arrivi a fare certe distinzioni oppositive fra amore e
diritti. Penso che sia una manovra insensata gettare via
diritti come quello della libertà di espressione, di uguaglianza, di pari opportunità, del diritto alla privacy. Io
stessa sono stata duramente attaccata da certe frange del
movimento femminista di ispirazione aristotelica per il
fatto di non ritenere di dover rinunciare ai diritti formali.
Lei propone dunque di coniugare la lezione della modernità con quella dell’antichità?
M.C.N. La tradizione greca mi ha insegnato a guardare
in modo più profondo ai dilemmi della vita umana. La
filosofia moderna, e in special modo la recente filosofia anglo-americana, non è stata in grado di mettere in
relazione i problemi che sorgono dall’amore, dall’amicizia e delle passioni, con le conseguenze che
essi hanno sulla giustizia e sulle leggi. Per questo lo
studio dei filosofi antichi diventa per me la più stimolante occupazione che io possa avere come filosofa,
ma soprattutto come essere umano.
Quale compatibilità può esserci oggi fra aristotelismo e
liberalismo?
M.C.N. Penso che l’aristotelismo implichi una modifica
del liberalismo. Il primo insiste infatti su una teoria
generale del bene, tale da comprendere il dominio poli13
INTERVISTA
Bernard
Williams
Professor Williams, come vede
Lei oggi lo stato del dibattito fra
liberali e comunitaristi?
lata da idee etiche. Attualmente, gli unici che sembrano
sostenere la tesi dell’identità fra etica e politica sono i
reazionari, come i neo-straussiani elitisti. Ma a differenza
del kantismo, la critica che rivolgo all’utilitarismo è di
ben maggior portata: è di carattere tanto etico, quanto
politico. Ciò che rifiuto è l’ingerenza di obiettivi politici
all’interno della vita etica. Io non penso che la politica sia
il luogo più adatto per la costruzione creativa e artistica
della personalità individuale. Il politicante in senso stretto è molto più noioso di quanto le persone non lo siano
normalmente.
B.W. Penso che il confronto si
sia spostato, e in qualche misura
esteso, rispetto al passato, anche
perché la parte liberale ha accettato alcune obiezioni mossele
contro dai comunitaristi. Non è
invece accaduto il contrario, perché ad eccezione di alcune
posizioni palesemente conservatrici (si veda MacIntyre), le
altre sono sempre state manifestamente liberali.
Del resto la concezione illuministica dell’individualismo
etico e politico è stata al centro di numerose polemiche,
tanto in passato, quanto al giorno d’oggi.
Nel recente dibattito, Lei è stato spesso indicato come un
“comunitarista”. Leggo invece ora in un Suo dattiloscritto che Lei non si riconosce assolutamente come tale.
B.W. Sono d’accordo con la critica hegeliana e posthegeliana a Kant: i soggetti non possono riferirsi a se
stessi semplicemente come esseri astratti e razionali.
L’agente razionale è invece sempre contingente. Ma
rifiuto anche l’assunzione dei comunitaristi attuali, secondo cui i soggetti vengono costituiti interamente dalla
società: c’è relazione, ma non identità. È sempre stato un
sogno dei teorici dell’etica e della politica l’idealizzazione degli individui concreti che vivono in società.
B.W. Infatti non lo sono. Ma in generale non mi sono mai
compreso come un pensatore etico sistematico, poiché
ritengo che l’etica filosofica non debba essere una produttrice sistematica di principi. Io sono piuttosto un
pensatore scettico, nel senso moderno del termine. Se
invece si vuole trovare un pensatore a cui sono più
consono, anche se non certamente sotto il profilo politico, questo è Nietzsche. È stato lui, infatti, a porre in luce,
per primo, quella problematica che io stesso cerco di
trattare.
Infatti non è certo pensabile una loro totale identificazione, altrimenti ci sarebbe una globale armonia: l’individuo
sarebbe la semplice protuberanza della comunità. Il che
escluderebbe il dissidio, i contrasti, la disubbidienza
civile. A questo proposito, Isaiah Berlin ha scritto che il
conflitto di valori non è una sorta di patologia sociale,
bensì la sua stessa fisiologia. Tendenza attuale - soprattutto da parte dei neo-liberali - è dunque quella di ripensare i conflitti, ma anche di superare certe filosofie della
storia, come quella hegeliana e marxiana, che indicavano
le possibili modalità per giungere ad una società priva di
conflitti. L’incommensurabilità dei valori e l’impossibile
identità fra società e individuo portano però indubbiamente a conflitti socialmente devastanti. Come Lei interpreta il problema?
Che è quella dell’autoriflessione del soggetto moderno...
B.W. Innanzitutto la nostra epoca è alquanto diversa da
tutte le altre: risolvere i suoi problemi non significa
tornare ad Aristotele o a Kant. Esistono inoltre ragioni
storiche e filosofiche che non sono più immediatamente
identificabli con la religione, ma che sono le cause stesse
del mutamento della filosofia. Ciò in cui dissento da
Nietzsche riguarda piuttosto l’illuminismo, dal momento
che proprio ciò a cui egli dà ragione, è nato propriamente
in virtù dei risultati conseguiti dall’illuminismo. Secondariamente, la contingenza storica del mondo moderno
impone la variabilità e la tollerabilità in politica, che non
può che essere liberale. Io mi considero un liberale e una
sorta di illuminista, anche se non credo che il liberalismo
possa essere rifondato sugli assoluti presupposti razionalisti dell’etica kantiana. Penso piuttosto che Kant rimanga il più grande pensatore politico del Moderno, poiché
basa la propria teoria sull’idea del tollerabile accordo fra
esseri umani, considerati come eguali. Non esiste via di
scampo a questa linea politica.
B.W. Non possiedo risposte generali in proposito. Riferendomi all’attualità storica e politica, ritengo che laddove esistono conflitti di valore e devono essere trovati
accomodamenti e modalità di soluzione, questi non vengono certo risolti da movimenti teoretici, bensì da aggiustamenti storici. Ciò che li promuove sono le argomentazioni effettive che fanno preferire e danno senso collettivo a certi problemi rispetto ad altri. Si pensi al caso
dell’aborto e ai diversi modi di affrontarlo.
Dunque la Sua è una posizione ambivalente rispetto
all’Illuminismo: a favore della politica liberale; ma contro tutte le teorie etiche, dal kantismo all’utilitarismo. E’
del resto ciò che Lei ha cercato anche di argomentare nei
suoi studi - per lo più tradotti anche in italiano -, come ad
esempio Il problema del Sé, Sorte morale, ma soprattutto
Etica e i limiti della filosofia.
Ma questo caso mostra anche il difficile equilibrio tra il
pubblico, l’interiorità e il privato...
B.W. Ciò che io voglio mostrare è un problema, non certo
una soluzione. Esso indica senza dubbio la necessità di
riconcettualizzare il nesso fra pubblico e privato, come
richiesto dal dibattito attuale.
B.W. Io non credo nella traduzione immediata dell’etica
in politica, anche se è necessario che questa venga rego-
Sebbene da “filosofo morale” di professione, Lei ha
14
INTERVISTA
parlato dei limiti della filosofia rispetto all’ambito etico,
dello scetticismo e del relativismo etico (ma non epistemologico). Ma nello scrivere delle “difficoltà” dell’etica
non si prefigge forse di conseguire certe finalità?. Il che
assume una valenza normativa.
Anche nei Suoi ultimi scritti su multiculturalismo e
politiche del riconoscimento, Lei ritiene che per costituire una società civile cogente non sono certo sufficienti le
sole istituzioni formali. Ma quale può esserne il collante
sociale?
B.W. Penso che il motivo per cui scrivo è quello di
comprendere le mie reazioni di fronte a certi problemi;
ma anche di comprendere i sistemi teorici di altri pensatori. Esistono in effetti in me due piani normativi. Da un
lato mi interessa riflettere su forme di pensiero che si sono
dedicate alla morale in modo falsificante e impoverente.
Il che ha a che fare con la distorsione sociale: il livello
della “falsità” teorica è infatti straordinariamente elevato
rispetto a ciò che gli esseri umani sono e di fatto sono
capaci di costruire. D’altro lato, l’aspetto normativo, che
mi interessa, riguarda piuttosto la riflessione intorno
come gli uomini dovrebbero, potrebbero vivere o essere.
Ma ad esempio, essere onesti, non significa dare semplicemente ascolto alla filosofia: essa è infatti già di per sé
un filtro, poiché mostra le cose come sembrano e non
come realmente sono.
C.T. Per una società civile liberale - nel senso della sua
pluralità culturale - si richiede una particolare solidarietà,
in cui esista una reciproca cura fra i suoi appartenenti; in
caso contrario neppure i principi formali sarebbero giustificabili. È evidente che questo problema si viene a
porre proprio in società come le nostre, che sono composte da comunità diverse, per cui la solidarietà si esprime
principalmente all’interno delle unità di appartenenza.
Ritengo infatti che per motivare certe mobilitazioni sociali o interessamenti collettivi non sia sufficiente il
semplice riferimento ai principi formali universalistici.
Devono esserci aspetti di vincolo reciproco, tali da permettere l’unità sociale.
Lei non sembra essere un nostalgico di quei vecchi valori
che indicavano inconfutabilmente la giusta strada da
seguire. Ma nella mancanza di un’etica prescrittiva,
come Lei vede oggi la possibilità o meno di sviluppare un
processo autoriflessivo in grado di discernere il bene dal
male, il giusto dall’ingiusto?
C.T. Certo, il caso americano è la controprova del fallimento di una determinata politica nazionale, non solidaristica, che ha portato agli scontri fra bianchi e neri. Il
fatto preoccupante è che si cerca addirittura di trovare
giustificazioni per poter spiegare tali episodi di violenza.
I molti e ripetuti disordini razziali negli USA sono il
tragico esempio della mancata coesione socio-politica.
Ma per creare una certa coesione fra gruppi e istituzioni
sociali sarebbe necessario un continuo processo di interscambio, ma anche di riconoscimento fra i diversi membri.
B.W. E’ vero che per temperamento non sono nostalgico o un sentimentale; ma ugualmente non sono
neppure un progressista radicale. Abbiamo certo proiezioni esistenzialistiche rivolte al futuro, anche se non
possiedono alcuna destinazione utopica, che del resto
come tale non può aver luogo. Mi sento solo di dire che
vivo qui ed ora.
Charles
Taylor
C.T. Bisogna accettare che una società liberale lavori
anche per l’istituzione di una sua dimensione nazionale e
per la ricomposizione delle iniquità socio-economiche.
Lei è stato spesso considerato come un critico del liberalismo. In che senso?
Professor Taylor, la controversia
teorica fra liberali e comunitaristi
sembra essersi ormai trasferita sul
piano politico, per la necessità di
comprendere l’articolata società
multiculturale. Il concetto limitativo di “comunità” sembra così
essersi trasformato in quello più
ampio di “società civile”.
C.T. Lo sono nel senso di una critica a certa tradizione
liberale - anche kantiana -, dove il soggetto viene presentato come un puro essere formale, per cui non si riesce a
comprendere da dove nascano le sue reali motivazioni.
Questo vale anche per John Rawls. I soggetti di cui
costoro parlano non sono mai esistiti nella storia.
Lei dunque critica il formalismo, da una parte, mentre
dall’altra è alla ricerca di quali possano essere quei
fondamenti istituzionali adeguati, mediante cui i soggetti
possano legittimamente riconoscersi nell’ambito della
vita civile.
C.T. Da alcuni anni si preferisce ormai parlare di società
civile, piuttosto che di comunità. È stato più che altro un
risultato della protesta sociale contro la presenza di
istituzioni anonime e gerarchiche e a favore, piuttosto, di
associazioni autonome e indipendenti dal regime statale,
sviluppantesi nell’ambito civile. Ma il concetto è oggi
estremamente complesso e non così chiaro come sembrerebbe. Ripercorre e segna, infatti, l’intera storia della
civilizzazione occidentale, tanto nella formazione delle
moderne democrazie liberali, quanto nella costituzione
della stessa teoria marxista. Bisogna però evitare il rischio di cadere vittime dell’anelito verso una libertà
prepolitica, contrapposta al potere burocratico.
C.T. Ritengo che non ci potrà essere alcun futuro per
la società liberale, se noi non ci appelliamo ad una
forma di “patriottismo costituzionale” - secondo la
nota formulazione datane da Habermas -, ovvero se
non ci riferiamo all’insieme di una costituzione basata
sui diritti umani e su istituzioni legittime, a cui si
possa unire una comune cultura politica. Come ho già
detto, i principi formali di per sé non bastano per
15
INTERVISTA
coagulare la società civile. Sono altresì necessari
principi di altro tipo, possano essi essere storici, culturali, religiosi, nazionali.
dal regionalismo. Neppure il fascismo è riuscito a imporle una forte identità nazionale, neppure mediante il dominio sulle masse.
Lei accetta i principi liberali, pur mantenendo saldi alcuni
aspetti dell’ “eticità concreta” di Hegel, su cui ha del resto
scritto un importante libro...
Dalle identità collettive, come base della società civile
nazionale, veniamo ora alla questione dell’identità individuale. Lei ha scritto un grosso volume dal titolo: Radici
dell’Io, in cui tratteggia il processo di costituzione dell’identità moderna. La “scoperta” del Moderno consisterebbe nel riconoscimento dell’amore di sé da parte dell’individuo, nella sua “autenticità”, nel suo essere biograficamente irriducibile rispetto alla comunità. Come pensa di poter fare interagire questi due aspetti: irrinunciabilità liberale all’individualità e senso comunitaristico di
appartenenza?
C.T. Ogni società liberale e democratica può attingere il
suo senso civile di solidarietà ricorrendo a principi comuni, dal momento che i suoi membri si sentono parte di un
comune orizzonte politico e culturale. I cittadini non sono
fra di loro uniti come individui isolati. Sono bensì attori
che instaurano reciproche relazioni, che si curano del
bene dell’unità sociale e che si prendono seriamente in
considerazione. È questa del resto la storia delle democrazie occidentali. La democrazia non si basa solo su
assunti formali, bensì anche su contenuti. L’eticità concreta, la Sittlickheit hegeliana, è il presupposto necessario
non solo per la condivisione dei principi, ma anche per la
connessione delle particolarità.
C.T. Nel mio libro ho cercato di ricostruire e ridefinire
due diverse strade che nella modernità hanno portato alla
costruzione del Sé, passando attraverso molti conflitti e
sensi di “mutilazione”: la prima è di tipo storico-tradizionale; la seconda si basa invece su principi. Per molti
l’identità individuale rappresenta un misto fra queste due
vie ed è anche questa la sua sfida. Ma non si possono dare
regole generali in proposito. È chiaro che non può più
esistere un’immediata identificazione tra identità personale e comunità di appartenenza. Del resto, molte persone legano la propria azione più a principi generali, piuttosto che ad un preciso senso della comunità.
Ma com’è poi possibile estendere questa “solidarietà
sostanzialistica”, per così dire “locale”, anche ai non
appartenenti?
C.T. Bisogna partire dalla consapevolezza di essere un
popolo fra tanti altri: non esiste una sola nazione. Autonome possono solo essere certe forme distorte di nazionalismo violento. La solidarietà internazionale non può
certo fondarsi su quella nazionale, bensì su più ampi
principi, come per l’appunto i diritti umani. Le cose sono
compatibili. Amare i propri figli non significa essere
cattivi cittadini del mondo. Bisogna quindi sviluppare
un’identità collettiva e nazionale che sia aperta all’internazionalità. La Germania mostra esemplarmente come i
principi liberali non possano essere disgiunti dalle responsabilità nazionali.
In un articolo apparso su «Inquiry», Quintin Skinner La
prende addirittura ad esempio rappresentativo di certo
comunitarismo confessionale...
C.T. Sono un cattolico. Ma da qui a dire che l’intera mia
ricostruzione storica e teorica sia finalizzata a mostrare
come una moderna società liberale debba necessariamente basarsi su presupposizioni teistici, ne passa... Non
ho mai detto, né voluto sostenere questo. Sono ben
consapevole che le attuali società multiculturali sono
composte da punti di vista eterogenei, per cui non possono essere raccolti sotto un’unica prospettiva confessionale. Non so proprio se dover attribuire questo grossolano
errore d’interpretazione ad un malinteso ermeneutico,
oppure a qualcosa d’altro.
L’Italia può invece essere presa ad esempio di come sia
difficile costruire una forte identità nazionale.
C.T. Ma è anche l’epilogo della sua storia recente: da
sempre governata da élite, è sempre stata caratterizzata
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modernità, Roma-Bari 1993).
AUTORI E IDEE
AUTORI E IDEE
Il soggetto in gioco
La questione della “messa in gioco”
del soggetto e della sua identità, considerata anche attraverso il ricorso alla
riflessione di Freud e Foucault, è ciò
che accomuna, pur da prospettive diverse, la raccolta di scritti di Jacques
Derrida, “ESSERE GIUSTI CON FREUD”. LA
STORIA DELLA FOLLIA NELL’ETÀ DELLA PSICOANALISI (trad. it. di G. Scibilia, introd. di
P. A. Rovatti, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994), e lo studio di Salvatore Natoli, L’INCESSANTE MERAVIGLIA. FILOSOFIA, ESPRESSIONE, VERITÀ (Lanfranchi,
Milano 1993), a cui fa riscontro il volume di Alessandro Dal Lago e Pier Aldo
Rovatti, PER GIOCO. PICCOLO MANUALE DI
ESPERIENZA LUDICA (Raffaello Cortina
Editore, Milano 1993).
Come rileva Pier Aldo Rovatti nell’ “Introduzione” all’opera di Jacques Derrida
“Essere giusti con Freud”. La storia della
follia nell’età della psicoanalisi, la questione del visibile e dell’invisibile, di una
presenza che si colloca nel gioco di
un’oscillazione, quella del fort/da fra detto e non detto, è al centro della polemica
fra Derrida e Foucault, intorno alla quale
ruotano i due testi derridiani raccolti in
questo volume. Il dibattito fra Derrida e
Foucault era stato originato dalla diversa
valutazione della figura di Cartesio: istitutore, cioè “autore”, “soggetto agente”,
della follia, ovvero dell’esclusione dell’alterità dal soggetto, per Foucault; “luogo” di quella medesima istituzione, e quindi sede egli medesimo di un’ambiguità, di
un “doppio registro”, per Derrida. Reagendo alla prassi decostruttiva derridiana,
Foucault aveva sostenuto che proprio essa,
nella sua «riduzione delle pratiche discorsive alle tracce testuali», nell’«elisione degli avvenimenti che si producono, per trattenere solo dei segni per
una lettera», fosse l’ultima incarnazione
di quell’ “istituzione dell’altro”, finalizzata alla sua esclusione, nella quale consiste il segno distintivo del sorgere dell’età moderna.
Quando Derrida riprende il proposito
foucaultiano di «essere giusti con
Freud», i termini della questione appa-
iono simili: dove collocare il padre della
psicanalisi? “Dentro” o “fuori” dalla storia della follia? Secondo Derrida, nel
momento in cui Freud viene, nell’analisi
foucaultiana, separato e contrapposto a
Nietzsche, «Freud non appartiene più
allo spazio “a partire da cui” può scriversi la Storia della follia. Dipende, piuttosto, da quella storia della follia, di cui il
libro fa a sua volta il proprio “oggetto”».
E’ proprio questo ciò che Derrida intende contestare, nel tentativo di mostrare
come la prospettiva pulsionale freudiana, esposta in Al di là del principio di
piacere, prefiguri in realtà la rimozione
dell’interpretazione “fondamentalistica”, cioè sostanzialista, del concetto di
“principio”. Una messa in mora radicale, dunque, della nozione di soggetto e di
quella di verità, che proprio Freud rende
impraticabili, escludendo la possibilità,
per il soggetto, di uno sguardo omnicomprensivo, cioè oggettivo, che ponga
capo alla verità.
Muovendo dalla riflessione genealogica
di Foucault, anche Salvatore Natoli, ne
L’incessante meraviglia. Filosofia,
espressione, verità, intende porre la questione filologica fondamentale, quella
della verità. Foucault appare infatti a
Natoli come colui che mira, anzitutto, a
delineare una “storia della verità” attraverso un’analisi dei “giochi di verità”,
mediante i quali «l’essere si costituisce
storicamente come esperienza, vale a
dire come essere che può e che deve
essere pensato».
La questione della verità, nella prospettiva foucaultiana, si presenta come questione relativa alla “forma” del gioco di
verità; relativa, cioè, alle regole che dirigono questo gioco. L’indagine assume
necessariamente una dimensione storica, ovvero “archeologica”, in quanto,
vertendo sulle regole del gioco di verità,
riguarda la formazione della verità medesima, la sua “origine” genealogica, le
modalità del suo accadere come effetto
di pratiche che la costituiscono. L’impostazione genealogica individua dunque
le pratiche, e non un soggetto, come
momento e luogo di origine del gioco di
verità; la stessa nozione di origine, in
quanto legata, appunto, al concetto di
17
“momento” e a quello di “luogo”, risulta
anzi problematica nella dinamica dislocatoria, avviata dalla considerazione
delle pratiche. E’ questa stessa dinamica
a mettere in scacco la nozione, cartesiana e kantiana, di soggetto: «il soggetto
costituente si dissolve nell’ “oggettività”
degli oggetti, si fa “a priori” storico». Con
questo, si dissolve però la nozione di “a
priori”, ovvero quella di trascendentale:
«se l’ “a priori” è storico, non è più “a
priori”, e se è “a priori”, non è più storico».
Entra così in crisi la nozione di verità
come rapporto del pensiero all’essere; la
filosofia stessa viene a ridefinirsi, in
primo luogo, come esercizio linguistico,
dove la questione dell’essere si pone
come questione della definizione del vero
e del suo discernimento nei confronti del
falso. Ma per quanto la verità risulti
essere, dunque, affare di parola, “cosa
del discorso”, il discorso veritativo istituito dalla filosofia pretende, tuttavia, di
cogliere il vero in quanto identificazione
con il reale; pretende, cioè, di rimuovere
se stesso, in quanto diaframma tra sé e il
reale, con uno sforzo che risulta del tutto
simile a quello di chi tenti di sollevarsi
da terra, sollevando la sedia su cui è
seduto. Per questa via si giunge al tentativo di Heidegger di determinare la verità come aletheia, cioè come al di là,
fondativo, del vero e del falso, come
quel divino movimento la cui inafferrabilità dà luogo, appunto, a quell’ “incessante meraviglia” che è la filosofia.
Una meraviglia che, iuxta le indicazioni
platoniche circa il thaumazein, consiste in
un uscir fuori di sé del soggetto, in una
condizione “estatica” che, attuando una
sorta di decentramento del soggetto medesimo, lo pone in scacco. Una radicale, e per
molti versi simile, “messa in gioco” del
soggetto appare quella insìta nella dimensione del gioco, della quale Alessandro
Dal Lago e Pier Aldo Rovatti, autori di
Per gioco. Piccolo manuale di esperienza
ludica, svolgono un’accurata fenomenologia, a partire dal “gioco dei bambini”.
Anche qui “entra in gioco” la psicoanalisi
attraverso il paradigma del fort/da, che
chiarisce la tessitura di presenze e assenze
di cui è costituita la realtà, nonché le categorie che si vorrebbero, per essa, “fonda-
AUTORI E IDEE
mentali”: «è tutta una questione di buchi.
La realtà è bucata, almeno quella che chiamiamo la realtà del soggetto». Come insegna il bambino di Freud, il problema consiste nel circoscrivere i buchi, nel bordeggiare l’assenza.
D’altra parte, ciò che è importante in questa tesi non è tanto la verità espressa,
quanto la modalità della sua espressione,
che nega proprio il carattere tetico di tale
verità. Quella relativa al carattere illusorio
dell’io non consiste, infatti, in una “tesi”,
bensì piuttosto in una “verità teatrale”;
verità “di contesto”, emergente cioè dal
gioco, fra sfondo e tematizzazione, che
costituisce la genesi dell’Io. Quanto questo Io risulti, “fin da principio”, “bucato”,
quanto cioè esso appaia, fin dalla sua istituzione, genealogicamente, illusorio, lo
aveva denunciato Nietzsche, ed emerge in
modo evidente dall’analisi che Dal Lago e
Rovatti dedicano a quel “gioco della vita”
che è l’avventura. Categoria paradigmatica, quest’ultima, della dialettica fra possibile e reale, che costituisce la trama del
tessuto connettivo dell’esperienza, qualora ci si ponga nello sguardo prospettico
proprio del soggetto “forte” cartesiano.
In altri termini, la dissoluzione, l’ingovernabilità del reale, cui pone capo l’esperienza del soggetto nell’avventura, possono
aver luogo solo a partire da una strategia
pianificante, così come si presenta quella
messa in atto dal soggetto dell’età moderna. Per questo la “fine dell’avventura” accade quando quest’ultimo viene destituito
di fondamento; o almeno, quando si ha
coscienza di tale destituzione. F.C.
Giustizia e morale
Intorno al tema della giustizia, considerata rispettivamente dal punto di
vista della filosofia del diritto, della
filosofia morale e della filosofia politica, ruotano tre recenti studi: MORAL
UND VERNUNFT . BEITRÄGE ZU ETHIK , GERECHTIGHEITSTHEORIE UND NORMENLOGIK (Morale e ragione. Contributi di etica, teoria della giustizia e logica delle norme, Böhlau, Wien 1993), di Ota Weinberger; KRITIK DES KONSEQUENTIALISMUS
(Critica del consequenzialismo, R. Oldenbourg, München 1993), di Julian
Nida-Rümelin; POLITIK ALS PFLICHT. STUDIEN ZUR POLITISCHEN PHILOSOPHIE (Politica come dovere. Studi di filosofia politica, Suhrkamp, Frankfurt a/M. 1993),
di Detlef Horster. In un medesimo
contesto di riflessione si colloca l’opera di Richard M. Hare, SULLA MORALE
POLITICA (trad. it. di R. Rini, Il Saggiatore, Milano 1994), in cui viene compiuta un’analisi dei principi che fondano
l’agire morale e politico, ispirandosi al
principio di equità, quale prassi morale giusta e rispettosa dei diritti umani.
Con il declino della ragione oggettiva, la
rinuncia alla fondazione di una teoria della
giustizia ha condotto all’oscillazione tra i
due poli convergenti del relativismo dei
valori e dell’artificialismo morale, a cui
tale esito condanna. Da qui l’esigenza di
conferire alle norme di giustizia saldi criteri di certezza, senza con ciò abbandonarsi alla tentazione di una loro fondazione
oggettivistica.
Nella raccolta di saggi dal titolo: Moral
und Vernunft, Ota Weinberger, nel far
propria una visione relativistica dei valori,
si propone, nello stesso tempo, di mantenere il potenziale di verità contenuto nel concetto tradizionale di giustizia. Se non possiamo determinare che cosa è giusto, osserva Weinberger, certamente possiamo però
indicare che cosa non è giusto. Con ciò si
evita la ricaduta nello schema normativo
giusnaturalistico, che ha la pretesa di offrire un quadro di valori assoluti e di carattere
autoevidente. Ma Weinberger non si accontenta neppure di una pura riproposizione di un positivismo giuridico in cui i valori
siano del tutto fungibili sulla base degli
interessi di volta in volta in gioco. Secondo
Weinberger, il concetto di giustizia ha un
suo solido campo ideale di sfondo, valido
al di sopra della mutevolezza e delle particolari circostanze empiriche.
Certo, se da questo mondo ideale di valori,
in cui domina il principio di giustizia, gli
uomini finora hanno derivato un ordine
sociale “repressivo”, come passiva adeguazione ai suoi postulati, si tratta ora di
mostrare, secondo Weinberger, come questo mondo non sia in contrasto con quelle
strategie proprie dell’individuo moderno,
che chiede di veder affermate le sue attese
di realizzazione personale. Come ciò sia
possibile resta tuttavia problematico,
come problematiche si rivelano le altre
soluzioni “armoniche” prospettate da
Weinberger: l’idea che il principio del
piacere, da cui l’individuo deve lasciarsi
guidare, possa accordarsi con gli scopi
della comunità; o che rigorismo kantiano e utilitarismo possono trovare un terreno comune d’incontro.
Il saggio di Julien Nida-Rümelin, Kritik
des Konsequentialismus, si propone invece
di criticare quelle teorie “consequenzianzialiste” dell’agire, di cui l’utilitarismo offre il quadro d’insieme. Bersaglio delle
critiche di Nida-Rümelin è quella concezione della razionalità secondo cui è razionale quel tipo di agire che si sceglie in
relazione alle migliori attese di riuscita. In
una tale concezione Nida-Rümelin vede
l’affermarsi di un criterio di razionalità
tipicamente economico, di cui si sono servite quasi tutte le discipline, dalla sociologia d’impronta individualistica alla teoria
economica della politica, fino alla teoria
dei giochi e della decisione.
La concezione consequenzialistica si basa
sul presupposto morale secondo cui è giusto ciò che porta alla massima felicità possibile. Da qui il rimando all’utilitarismo
18
che, rispetto a questo tipo di imperativo
morale, ne costituisce la peculiare sistematizzazione filosofica. Nida-Rümelin imputa alla visione utilitaristica dell’agire due
letali conseguenze: da un lato l’individuo
viene svuotato e ridotto ad un’anonima
funzione, regolata dalle leggi astratte e
spersonalizzate di acquisizione della felicità sociale; dall’altro, la predominanza
nell’agire del criterio strumentale comporta che i valori vengano considerati del tutto
privi di autonoma consistenza e pienamente fungibili rispetto al calcolo dei vantaggi
perseguiti. Nel contesto di un’etica consequenzialistica, i diritti individuali e le istituzioni morali perdono la loro autonomia
normativa, trovando giustificazione solo
all’interno delle strategie di massimizzazione dell’utile.
In questa sistematizzazione utilitaristica,
Nida-Rümelin individua il carattere autocontraddittorio della razionalità consequenzialistica, mostrando come i suoi criteri di
decisione siano condannati a sfociare in
risultati irrazionali sul piano complessivo,
che rendono impossibile fondare una teoria
della giustizia (nella misura in cui questa si
occupa anche di una logica delle norme)
sulla base di una impostazione teorica (e
morale) di tipo consequenzialistico.
Il confronto tra il problema dei criteri morali d’azione e quello riguardante lo statuto
dell’agire politico figura al centro dei quindici saggi che compongono il volume di
Detlef Horster, Politik als Pflicht (politica
come dovere). Nella soluzione del tema
morale della giustizia Horster individua
l’ambito proprio della politica: «Ciò che è
immorale - egli afferma - è oggi anche nonpolitico». Gli obiettivi di libertà e uguaglianza, con cui la politica deve caratterizzarsi, presuppongono che essa debba connotarsi come pratica della giustizia, a cui
inoltre la stessa formulazione del diritto
deve ancorarsi.
Questa concezione di Horster si presenta
come ricomposizione dei motivi tematici
propri di una filosofia politica d’impronta
democratica, di cui peraltro conserva le
contraddizioni. Per Horster, che non a caso
si richiama alla tradizione illuministica,
la politica si definisce all’interno di un
orizzonte di valori certi e dati come tali.
Gli stessi criteri di giustizia appaiono
come concetti chiari ed evidenti, che si
tratta solo di tradurre in atto e che non
vengono fondati dalla politica come pratica del contingente.
Secondo Richard M. Hare è “il filosofo”
che ha il preciso compito di far chiarezza
su cosa sia giusto o meno. Hare muove da
alcune convinzioni morali quasi universali, che vengono da lui designate come
principi intuitivi. La morale hareniana ha
di fatto una base intuizionistica e si riconosce come utilitarismo. Il bene, per Hare, è
ciò che intuitivamente è utile in ugual
misura a tutte le persone. Conseguentemente la morale riguarda diritti e doveri
che devono essere indistintamente rispet-
AUTORI E IDEE
Pieter Bruegel, La giustizia (1559, particolare)
19
AUTORI E IDEE
tati, laddove la giustizia è l’imparziale
spartizione di interessi.
Diritti e doveri sono categorie imprescindibili in una considerazione morale della
prassi sociale-politica e nessuno può esserne esente. Le regole, i diritti sono uguali per
tutti e il bene di ciascuno è autentico solo se
viene messo sullo stesso piano di tutti gli
altri. L’utilitarismo intuizionistico, osserva Hare, rivela tuttavia i suoi limiti, quando
“i principi intuitivi” entrano in conflitto, non
garantendo più una morale equa; a questo
punto occorre servirsi di un pensiero critico
di livello superiore a quello intuitivo.
La posizione di Hare è stata in particolare
oggetto di confronto con quella di due altri
pensatori, J. L. Mackie e David Lyons,
che seppure con motivazioni diverse difendono la validità del pensiero intuitivo nel
discernere il giusto dall’ingiusto, il bene
dal male. Mackie si distanzia ancor di più
da Hare riconoscendo il ruolo di “pensatore
prudenziale” a colui che stabilisce i precetti
morali muovendosi su un terreno di interesse personale. Secondo Mackie, il peso
dei diritti e dei doveri non è uguale per tutti
nella stessa misura; la morale quindi diventa faccenda di prudenza, prudenza nel tutelare il proprio diritto e il proprio dovere. Per
Hare invece rimane valido il principio di
universalità dei diritti e dei doveri; egli
riconosce a colui che stabilisce le norme
politiche il ruolo di “pensatore morale”, il
quale, guidato dal pensiero critico, è osservatore attento di una morale equa. Lyons,
da parte sua, difende invece un pensiero
morale fondato esclusivamente su principi
intuitivi, negando la necessità del pensiero
critico difeso da Hare; per di più, Lyons
non ritiene l’utilitarismo garante di una
forza morale dei diritti umani. G.B./D.M.
Contro la filosofia
del rovesciamento
La rilettura della storia della filosofia, operata da Augusto Del Noce
contro le categorie interpretative
tradizionali, è l’argomento centrale
delle riflessioni di vari autori raccolte
nel volume FILOSOFIA E DEMOCRAZIA IN
AUGUSTO DEL NOCE (a cura di G. Ceci e L.
Cedroni, Cinque Lune, Roma 1993).
Particolarmente rilevante, in questa
rilettura, risulta essere l’aspetto religioso, come d’altra parte traspare
quale motivo dominante nelle stesse
analisi compiute da Del Noce nella
monografia: DA CARTESIO A ROSMINI (a
cura di F. Mercadante e B. Casadei,
Giuffrè Editore, Milano 1992). Questa
reinterpretazione della filosofia mostra poi il proprio carattere di filosofia
della libertà in un’altra opera di Del
Noce, FILOSOFI DELL’ESISTENZA E DELLA
LIBERTÀ (a cura di F. Mercadante e B.
Casadei, Giuffrè Editore, Milano 1992).
Il nucleo centrale delle analisi raccolte in
Filosofia e Democrazia in Augusto Del
Noce è costituito dall’originale posizione
filosofica, che Augusto Del Noce matura
attraverso il continuo colloquio con la storia della filosofia. Questa raccolta di scritti
mette in luce come la filosofia di Del Noce
sia una “filosofia attraverso la storia”, che
polemizza contro tutti i tentativi filosofici
di combattere l’avversario rimanendo all’interno della sua filosofia e accettandone
alcune categorie fondamentali.
Nel suo contributo Andrea Paris sottolinea come Del Noce, presentando un nuovo
modo di intendere il cartesianesimo, abbia
prospettato un nuovo concetto di “moderno” e abbia stabilito una continuità filosofica tra autori che tradizionalmente venivano considerati come contrapposti. Si
tratta di una linea teorica che individua un
sostanziale collegamento tra Cartesio, Pascal, Malebranche, Vico e Rosmini per
la fondazione di una autentica filosofia
religiosa che si coniughi con la dimensione del moderno. Lorella Cedroni evidenzia invece, nel suo intervento, come per
poter giungere a questa concezione sia
necessario liberarsi dalla nozione comunemente accettata di modernità in quanto
avanzamento progressivo della filosofia
dell’immanenza attraverso il distacco dai
valori religiosi e cattolici.
Il tema di una nuova visione del moderno si ritrova anche nello scritto di Alfredo Omaggio, che sottolinea come la
nuova storiografia filosofica presentata
da Del Noce si opponga al taglio filosofico di tipo immanentistico che fa coincidere modernità con visione naturalistica, scientifica, avulsa dai valori della
trascendenza. In quest’ottica, come rilevano Paris e Omaggio, Del Noce propone una rilettura di Cartesio come iniziatore della filosofia moderna. Si tratta di
comprendere l’essenza della filosofia
cartesiana contro la sua corrente identificazione con il razionalismo; identificazione che impedisce di cogliere la
possibilità del cartesianesimo di svilupparsi pienamente all’interno di una filosofia religiosa realistica, che si coniughi
con la storia. A questo proposito, nello
scritto “Lo stato attuale degli studi cartesiani”, che compare nella monografia
Da Cartesio a Rosmini, Del Noce delinea due tradizioni filosofiche che hanno
prevalso nell’interpretazione del cartesianesimo: quella rinascimentale e quella scolastica, ritenendo invece che la
possibilità di una diversa valutazione
del cartesianesimo sia stata tracciata da
filosofi come Jean Laporte, che in particolar modo ha definito la filosofia di
Cartesio come filosofia della trascendenza. Questa nuova interpretazione
permette di esplicare quella possibile
via di sviluppo che attraverso filosofi
come Pascal, Malebranche, Vico sfocia nella filosofia di Rosmini, che per
Del Noce costituisce l’approdo naturale
20
della nuova ricostruzione metafisica. Ed
è all’interno di questa linea direttiva che
Del Noce affronta ora le tematiche principali di questi filosofi, mostrando come
per esempio l’anelito religioso cartesiano abbia trovato una sua potenziale significazione nella filosofia di Pascal.
Ciò che ha impedito a Cartesio di liberarsi da quella visione naturalistica che è
un presupposto della sua teoria è il suo
mancato riferimento alla storia, la sua
visione apolitica; riferimento che si trova invece esplicitato in Vico.
Il costante confronto con la storia è fondamentale in Del Noce, come mostra
Pasquale Serra nel suo contributo alla
raccolta Filosofia e Democrazia in Augusto Del Noce, in quanto consente la
rivalutazione di una metafisica sottratta
all’irrigidimento schematico di risposte
cristallizzate, oggettivate, già risolte e
valide per tutti. Si tratta di rapportarsi
alla storia della filosofia in modo più
aperto, più libero da schematismi consueti, capace di ridare alla metafisica
tutta la sua potenzialità ermeneutica. La
questione metafisica, osserva Del Noce,
è ineludibile e pregnante nella vita umana e implica una soluzione personale, in
rapporto alla continua novità della situazione storica. Secondo Serra, una tale
considerazione è anche frutto dell’importanza che nella prospettiva teorica di
Del Noce assume la filosofia di Pascal
come scommessa per combattere quel nichilismo che solo in apparenza è l’unica
risposta possibile alla crisi della cultura
dominante. È la scommessa di chi si trova
sull’orlo dell’abisso e sceglie di costruire
su nuove basi una metafisica autentica.
A questo proposito Lorella Cedroni mostra come nella teoria di Del Noce la
democrazia autentica sia solo quella che
sappia collegarsi con questa nuova metafisica. Solo così si può verificare l’apertura verso la democrazia contro totalitarismi d’ogni genere. I tentativi compiuti
per combattere il totalitarismo in direzione democratica, osserva infatti Del
Noce, si sono rivelati solo rovesciamenti
dell’avversario. Sotto questo profilo le
democrazie attuali hanno perduto il legame con la filosofia, trasformandosi in
strumenti tecnici privi di contenuti etici
e di valori metafisici, che finiscono col
muoversi nella stessa orbita del totalitarismo in quanto suo rovesciamento e non
vero superamento. Il pluralismo morale
che le democrazie attuali difendono implica, per Del Noce, la “tirannide della
maggioranza”, che obbliga i cittadini a
subordinarsi e ad adattarsi a un sistema
coercitivo che non è dissimile da quello
totalitaristico. Per uscire da questo circolo
vizioso è necessario, sottolinea Cedroni,
riconoscere la democrazia come “valore in
sé” contro quei surrogati attuali di democrazia che finiscono per essere strumenti
di potere di una classe dirigente.
Il tema politico della critica di Del Noce al
AUTORI E IDEE
totalitarismo viene affrontato anche da
Gianni Dessì. Se per Del Noce la manifestazione più pura dell’essenza del totalitarismo risulta essere il fascismo, il comunismo, d’altra parte, non ha saputo contrapporsi ad esso se non nella forma consueta
dell’ “anti”, realizzando nella storia una
delle peggiori incarnazioni dello stesso
totalitarismo. Anche le revisioni critiche
compiute dal marxismo risultano inadeguate, in quanto non hanno saputo combattere l’essenza del totalitarismo, rimanendovi in qualche modo invischiate. Per
Del Noce, fa notare Dessì, il fatto che
Marx non sia stato adeguatamente superato è dovuto alla mancata comprensione
della sua concezione antropologica, una
concezione che definisce l’uomo in base
alla sua appartenenza alla classe, al partito, alla società e che si traduce necessariamente in scontro diretto, ponendo il cambiamento sociale come condizione ineludibile della stessa ragion d’essere del
marxismo.
Dessì sottolinea in tal senso il carattere
dell’antropologia platonico-agostiniana
che Del Noce contrappone a quella marxista e che consiste nella valutazione dell’uomo “possibile” oltre l’uomo reale, non
più appiattito nella dimensione di classe o
in quella sociale. Questa posizione viene
illustrata chiaramente da Del Noce nel suo
Filosofi dell’esistenza e della libertà, in
particolare nello scritto dedicato al dualismo di Benda. Egli sostiene che nella
antropologia filosofica platonico-agostiniana viene affermata quell’idea di Dio
che è la sola che possa fondare l’unità degli
uomini e la loro libertà sconfiggendo la
prassi della storia per dirigersi verso quella della persuasione, inconciliabile con i
regimi totalitaristici.
Attraverso l’analisi dei filosofi contemporanei più congeniali alla sua impostazione
metafisica, Del Noce mostra la possibilità
di una nuova valorizzazione del singolo
non separato dalla realtà della comunità
sociale, bensì deciso a realizzarsi all’interno di un’autentica democrazia. In alcuni
filosofi, che in linea generale possono essere intesi come filosofi della libertà, tra i
quali Leòn Chestov, Jean Lequier, Simone Weil, Julien Benda, Piero Martinetti e Carlo Mazzantini, Del Noce riscontra una volontà di affermare i valori
della trascendenza contro le differenti forme di razionalismo. Tuttavia, secondo Del
Noce, questa volontà non ha trovato una
sua completa esplicazione dal momento
che sono state usate le categorie ontologiche dell’avversario senza demolire fino in
fondo i suoi principali presupposti. A questo proposito un esempio illuminante può
essere rintracciato, secondo Del Noce,
in Lequier, il quale ritiene impossibile
l’accordo tra libertà e necessità, considerato come accordo con il peccato. In
questo Lequier, osserva Del Noce, assume il razionalismo metafisico del suo
avversario, secondo cui nel rapporto tra
l’assoluto e il finito quanta realtà viene
conferita all’assoluto altrettanta realtà
deve essere tolta al finito. Questo atteggiamento filosofico, fa notare Del Noce,
può anche sfociare in una forma di dualismo esasperato, come avviene nella
filosofia di Martinetti.
A questa impossibilità di liberarsi dalla
vecchia metafisica, Del Noce oppone una
metafisica religiosa che sia autenticamente libera dal razionalismo e dalle sue categorie, che affermi la trascendenza senza
scavare un abisso con il finito, che sostenga la libertà senza contrapporla staticamente alla necessità, che colga l’accordo
possibile tra questi termini, riconoscendo
l’importanza della verità storica. Si tratta
di una filosofia religiosa che non si lascia
inquadrare nelle categorie opposte del
misticismo e del panteismo immanente,
dello spiritualismo e del materialismo, ma
è in grado di coniugare l’infinito con il
finito, l’interiorità con l’esteriorità; una
filosofia religiosa che sia difesa del singolo contro l’impoverimento razionalistico
dell’universale, senza decadere in posizioni solipsistiche; che sia difesa della
libertà senza degenerare in un arbitrarismo umano e teologico. Una tale filosofia
può essere definita realista, nella misura in
cui si collega con la religione nella sua
valenza di verità trascendente; una tale
filosofia può essere definita metafisica,
nella misura in cui rifiuta le categorie
metafisiche tradizionali, e quindi rifiuta
il razionalismo nella sua pretesa di spiegare ogni cosa: si tratta di una metafisica
dentro la storia, una metafisica che difende il valore della verità, di una verità
aperta al colloquio con la storia della
filosofia. M.Mi.
In ricordo di Agazzi
Il 25 settembre 1991 si spegneva a
Pavia Emilio Agazzi, per anni docente
di Filosofia della storia presso l’Università degli Studi di Milano. A tre
anni di distanza dalla sua scomparsa,
la stessa Università, in collaborazione con il Dipartimento di Filosofia, ha
patrocinato un volume di scritti e testimonianze di autori vari, L’IMPEGNO
DELLA RAGIONE. PER EMILIO AGAZZI (Edizioni Unicopli, Milano 1994), a cura di
Mario Cingoli, Marina Calloni e Antonio Ferraro.
Una veloce scorsa all’indice del libro volume offre immediatamente al lettore l’idea
di una pubblicazione non meramente celebrativa, bensì una riflessione, composita e
articolata, di allievi, compagni e amici
sull’opera politico-culturale di Emilio
Agazzi, un pensatore che per tutti aveva
segnato un percorso della loro vita. Il volume si articola in due sezioni principali:
21
gli “Studi”, saggi di contenuto autonomo;
e gli “Incontri”, testimonianze di più diretto ricordo personale. Tra i primi si segnalano, fra i tanti, i saggi di A. Vigorelli, A.
Burgio, S. Merli, L. Parinetto, M. Eldred; negli “Incontri”, molti dei quali riproducono gli interventi pronunciati alla
Casa della Cultura di Milano il 23 gennaio
1992, sottolineamo i ricordi di B. Beccalli,
C. Cases, N. Bobbio, M. Dal Pra, M.
Cingoli, J. Habermas, M. Roth, G. Petrovic. Completano il volume le “Note
bio-bibliografiche”, curate da Marina
Calloni e Giovanni Libretti, e una “Appendice” contenente una “Presentazione”
di se stesso e del suo percorso intellettuale
e politico, scritto da Emilio Agazzi nel
1984. Infine, correda il volume un consistente e importante testo inedito del
1980, a cura di Antonio Ferraro, Linee
fondamentali della recezione della teoria critica in Italia, che costituisce una
delle pochissime, ampie ricostruzioni
della “fortuna” della Scuola di Francoforte nel nostro paese.
Gli interessi di Agazzi si incentrarono sulla filosofia italiana sin dalla tesi di laurea,
sostenuta a Genova con M. F. Sciacca e
dedicata alla filosofia di Piero Martinetti,
sulla cui influenza si sofferma qui lo studio
di Amedeo Vigorelli. Tra la fine degli
anni Quaranta e il decennio successivo,
probabilmente a seguito della pubblicazione dei Quaderni del carcere di Gramsci - e in particolare quello dedicato alla
filosofia di Croce - Agazzi si era dedicato
alla preparazione di un insieme di lavori e
riflessioni sulla filosofia crociana, che in
realtà si venivano configurando come
un’indagine complessiva sulla storia del
marxismo italiano e che confluiranno
nel suo maggior lavoro d’insieme, Il
giovane Croce e il marxismo, del 1962.
Ad alcuni aspetti e autori del marxismo
in Italia sono dedicati, nel volume commemorativo, i saggi di Marzio Zanantoni e Alberto Burgio.
I contributi di Stefano Merli e Attilio
Mangano ricostruiscono invece l’impegno più propriamente politico di Agazzi
tra gli anni Cinquanta e Settanta, durante
la sua aperta militanza nella sinistra minotaria ed extraparlamentare. Dagli anni Settanta sino agli ultimi momenti di lucidità,
concessigli dalla dolorosa malattia, gli interessi intellettuali di Agazzi, a seguito
anche di incontri decisivi con alcuni dei
protagonisti francofortesi della “Teoria
critica”, in primo luogo Habermas, mutarono in direzione di un approfondimento e
di una trasposizione in Italia di quella
linea di pensiero. Ad indagare tale percorso contribuiscono, nel volume, gli
studi di Luciano Frasconi, Antonio
Ferraro, Walter Privitera, Marina
Calloni; mentre i lavori di Giovanni
Dozzi, Michael Eldred e Luciano Parinetto analizzano aspetti diversi dell’indagine marxiana, anch’essa di continua
frequentazione da parte di Agazzi. M.Z.
AUTORI E IDEE
Richard Rorty
Pragmatismo americano:
Rorty e Bernstein
Con lo scopo di conciliare teorie ermeneutiche, da una parte, e filosofia analitica, dall’altra, la concezione neopragmatista di Richard Rorty si propone come soluzione, filosofica e linguistica, della fine della metafisica. Le sue
tesi in proposito sono espresse da
Rorty in SCRITTI FILOSOFICI II (trad. it. di B.
Agnese, introd. di A. G. Gargani, Laterza, Roma-Bari 1994) e nella raccolta di
saggi: LA SVOLTA LINGUISTICA (trad. di S.
Velotti, introd. di D. Marconi, Garzanti, Milano 1994). Alla concezione di
Rorty fa riscontro Richard Bernstein,
rappresentante di rilievo della nuova
ondata pragmatista negli Stati Uniti.
Nella sua prima opera pubblicata in
Italia, LA NUOVA COSTELLAZIONE (trad. it.
di Feltrinelli, Milano 1994), Bernstein
delinea con chiarezza le ragioni dell’attuale ricezione della più recente
filosofia europea da parte della cultura
filosofica statunitense, in virtù di una
forte affinità di temi e problemi tra il
classico pragmatismo americano e il
pensiero “postmoderno”.
Ricontestualizzare la filosofia post-moderna in un ambito realmente post-metafisico
è lo scopo che si prefigge Richard Rorty
nel secondo volume dei suoi Scritti filoso-
fici. Una volta riconosciuto il tramonto
delle categorie metafisiche, quali Verità,
Giustizia o sommo Bene, riferite a quel
contesto rappresentativo e platonico del
quale Nietzsche è stato considerato il primo e autentico dissacratore, si tratta, secondo Rorty, di ripensare quelle stesse categorie, nel contesto della filosofia neo-pragmatista, dal punto di vista dell’utilità, dei
bisogni, degli interessi e delle aspettative.
L’elemento che, secondo Rorty, è in grado
di ricontestualizzare le nozioni tradizionali
nel nuovo orizzonte speculativo è la metafora applicata alla prassi. Infatti, una volta
ammessa l’impossibilità di tradurre uno
stesso termine in linguaggi diversi, occorre
poter passare da un vocabolario ad un altro,
mantenendo l’autonomia dei diversi contesti ontologici e linguistici. Il proposito di
Rorty consiste, in tal senso, nel conciliare
l’ermeneutica filosofica con la filosofia
pragmatista, mediante un uso del linguaggio, e in particolare della metafora, come
strumento a disposizione dell’individuo.
Da questo punto di vista, il progetto di
Rorty analizza, contestandole, le tesi di
Heidegger e Derrida, che pur avendo il
merito di aver riconosciuto la fine delle
categorie metafisiche e della filosofia “essenzialistica”, non hanno saputo realmente
uscirne. In particolare, Rorty contesta la
critica heideggeriana della tecnica, considerata come responsabile del nichilismo, e
che Rorty sembra invece apprezzare in
22
quanto fautrice del pragmatismo; l’uso del
linguaggio, che Heidegger eleva quasi a
“divinità” in grado di decidere del destino
degli uomini; e, infine, l’ossessione heideggeriana per la ricerca di una Verità che
sostituisca quella metafisica, senza riuscire effettivamente a oltrepassarla. In altre
parole, osserva Rorty, da una parte
Heidegger contesta la pretesa di universalità della metafisica, volendosene distanziare, dall’altra guarda «ad una qualche
ascesi purificatoria», che possa fornire
l’apertura all’essere e condurre in tal modo
l’individuo verso un orizzonte originario e
autentico. D’altra parte, fa notare Rorty,
anche Derrida, pur avendo “decostruito” la
tradizione metafisica, concepisce una diversa scrittura che pone tuttavia il testo e la
traccia come il trascendentale del senso.
La proposta di Rorty, al contrario, non si
attribuisce alcuna pretesa fondativa. Su
questa linea, grande importanza viene attribuita a romanzieri, come Kundera e Dickens; il primo per l’uso dello humour e per
la descrizione dei suoi personaggi da molteplici punti di vista; il secondo per la
rappresentazione di personaggi qualunque
che sfuggono a qualsiasi classificazione e
tipologia morale imposta.
Il richiamo frequente all’uso della metafora e all’utilizzazione del linguaggio come
strumento, introducono al tema specifico
di una raccolta di tre saggi, La svolta linguistica, in cui Rorty esprime il suo parere
sul rapporto filosofia-linguaggio. Il primo
saggio, del 1967, verte sul progetto di Gustav Bergmann di fondare un “linguaggio
ideale”. La proposta, poi sostenuta anche
da Rudolf Carnap, è descritta da Rorty
nella sua versione iniziale e nel suo fallimento conclusivo. L’idea di fondare un
linguaggio in cui ogni proposizione possa
essere trascritta secondo una logica estensionale, appunto un linguaggio ideale, si
scontra, infatti, con quella del linguaggio
ordinario, che sostiene di essere in grado
di fare le veci di quello ideale. Col fallimento di un tale progetto fallisce anche,
secondo Rorty, l’idea di un rapporto stretto tra filosofia e logica. Da qui la proposta,
sostenuta anche in La filosofia e lo specchio della natura (trad. it., Milano 1986),
di un’alternativa filosofica e linguistica,
che sembra concretizzarsi, nel modo migliore, nelle ricerche poetiche del secondo
Heidegger, nei giochi linguistici di
Wittgenstein, e nella ricerca di nuovi modi
di pensare e di nuovi vocabolari, perseguita dallo stesso Rorty.
Il secondo saggio, del 1975, posto come
introduzione ad un testo di Ian Hacking,
rifiuta la concezione del linguaggio come
interfaccia tra soggetto e realtà. Il rifiuto
della teoria rappresentazionale, pur dichiarata nelle intenzioni, non trova tuttavia nel
testo di Hacking un effettivo riscontro. In
modo più netto, Rorty si propone, infatti, di
uscire definitivamente dalla logica del significato e del linguaggio come medium tra
io e mondo per sposare un’interpretazione
AUTORI E IDEE
che vede la filosofia come il “curiosare”,
senza alcuna pretesa fondativa, tra gli oggetti della realtà. Ispirato, nelle sue tesi,
dalla filosofia di Donald Davidson, che
contro la teoria rappresentazionalistica suggerisce come il significato delle parole sia
dato da ciò che le causa, nel terzo saggio,
del 1990, Rorty assume una posizione ancor più radicale, contestando in toto anche
la concettualizzazione del linguaggio e
della filosofia come tali. In altre parole,
Rorty si rifiuta di analizzare “il” linguaggio in quanto tale, che, non solo non si
riferisce ad una teoria rappresentazionalistica, ma non corrisponde ad alcun concetto univoco sul quale si possa formalizzare
una qualche teoria.
Dalla posizione di Rorty differisce tuttavia
quella di un altro importante rappresentante del pragmatismo americano contemporaneo, Richard Bernstein, che individua il
fulcro dell’attuale dissidio tra moderno e
postmoderno in una generale “collera contro la ragione”, il rifiuto di ciò che la razionalità è divenuta nel mondo contemporaneo a seguito di quel che Max Weber
aveva chiamato il “paradosso della razionalizzazione”, ossia il suo causare al contempo emancipazione e reificazione nella
vita dell’uomo. Come reazione a un tale
sviluppo sono da considerare, secondo
Bernstein, la concezione di Adorno e quella di Heidegger, pur così diverse, e in
particolare il pensiero di Jürgen Habermas
che, partendo criticamente da Weber, muove in direzione di un ideale di razionalità
dialogica comunicativa, che lo avvicina
molto al pragmatismo, non diversamente
da un pensatore come Michel Foucault.
Individuando il nucleo del pragmatismo
nel rifiuto di ogni essenzialismo, e facendo
coincidere l’essenzialismo con la riduzione dell’alterità al Medesimo, la visione
pragmatista di Bernstein guarda in modo
privilegiato al lavoro di Emmanuel
Levinas e alla tematica dell’Altro, e non a
quello di Jacques Derrida e al decostruzionismo o testualismo, come invece fa
Rorty (non a caso in America Bernstein è
uno degli autori di riferimento del politically correct, la teoria del rispetto linguistico di qualunque alterità). Derrida viene
infatti ricondotto da Bernstein “all’ermeneutica ereticale ebraica”, riguardo alle
Scritture, e la sua decostruzione presentata
come un progetto edificante, un’etica e una
politica postmetafisiche, volte a interrompere la “storia della violenza”.
Tuttavia, proprio nella dialettica tra
Habermas e Derrida, tra azione e razionalità comunicativa, da una parte, e discorso sulla violenza della “logica dell’identità” dall’altra, Bernstein individua “la nuova costellazione” che dà il
titolo a quest’opera, incentrata a suo
avviso sulla dinamica tra il pragmatismo
“weberiano” di Habermas e “l’etica dell’indecidibilità” di Derrida come campo
di forza da cui può scaturire un nuovo
orizzonte etico-politico. F.E./.A.S.
Peirce
La figura e l’opera di Charles Sanders
Peirce sono oggetto della biografia di
Joseph Brent, CHARLES SANDERS PEIRCE
(Indiana University Press, Bloomington 1993), prima ricognizione nella
vita del filosofo americano che descrive la commistione tra la sua esistenza
prodiga ed eccentrica e la sua grandezza teoretica. Lo studio di Carl R.
Hausman, CHARLES PEIRCE’S EVOLUTIONARY
PHILOSOPHY (La filosofia dell’evoluzione
di Charles Peirce, Cambridge University Press, Cambridge 1993), è invece
un’introduzione al pensiero metafisico
di Peirce con particolare attenzione alla
relazione tra la nozione di intelligibilità
e quelle di spontaneità e creatività.
Ripercorrendone l’affascinante vita, mescolanza di eccentricità e rigore, di estrema
precarietà sociale ed economica e alto livello intellettuale, la biografia di Joseph
Brent individua i “luoghi” e le cause esistenziali, nonché le “incarnazioni teoriche” del contributo di pensiero di Charles
Sanders Peirce.
Peirce nacque nel 1839 da una colta famiglia; dal padre, docente a Harvard, ereditò
la grande abilità matematica, ma anche la
litigiosità patologica e l’eccessiva sensibilità. La gioventù di Peirce fu ribelle e dissoluta, spesa tra ubriachezze, violenze e sperperi; i suoi studi ufficiali scarsi e stentati,
sebbene conoscesse profondamente matematica, astronomia, filosofia e logica. Laureatosi, divenne ispettore dell’United States Coast Survey, ove era addetto alle rilevazione delle variazioni di gravità. Lo studio del grado d’influenza che la flessione
del pendolo per le rilevazioni gravimetriche ha sulla sua misurazione lo convinse
della validità del principio pragmatico: l’imprecisione dei sistemi di misurazione non
rende indeterminata la scienza, dato che
essa continua a funzionare; il significato di
un concetto è dunque dato dalla somma di
Charles Sanders Peirce
23
AUTORI E IDEE
tutti gli effetti empirici che possiamo concepire. Solo quando tutte le possibili esperienze sono state fatte, abbiamo raggiunto
il concetto; fino a quel momento la scienza
può giungere solo a concezioni provvisorie
e non a verità assolute; le sue leggi non
sono fissate dall’inizio, ma sono vere fino
a quando non possono essere migliorate;
esse non sono altro che abiti mentali che
vengono dal controllo con successo delle
ipotesi passate e attualmente accettate dalla comunità scientifica, cioè, in termini
popperiani, può essere falsificata.
Il principio pragmatico porta Peirce a formulare una cosmogonia secondo cui l’universo si muove da uno stato caotico di
potenzialità semplici verso una totale regolarità; tendenza che è rispecchiata nell’opera sistematizzatrice della mente umana: lo schema evolutivo lascia posto alla
possibilità e all’indeterminazione creativa, pur nell’intelligibilità del mondo. Nel
1879 Peirce ottenne per breve tempo, a
causa del suo comportamento litigioso,
l’incarico di lettore di Logica alla John
Hopkins University (unico impiego accademico della sua vita). Secondo Peirce, la
logica - che egli sviluppò significativamente, continuando l’opera di G. Boole , intesa in senso formale come classificazione dei prodotti del pensiero, e non psicologico (come in J. S. Mill), è l’essenza
della filosofia, in quanto ci permette di
verificare le cause. Nella verifica della
validità degli argomenti e delle inferenze,
la logica è autonoma e indipendente.
Alla John Hopkins University Peirce dette
vita ad una scuola di giovani logici, a cui si
deve la pubblicazione di Studies in Logic,
che incarnava la convinzione che la costruzione del regno autonomo della logica
non è frutto dello sforzo individuale, ma
dell’opera di generazioni di filosofi: «la
logica è radicata nel principio sociale» sosteneva Peirce. Il principio sociale è la
prova dell’esistenza della realtà fuori di
noi, dell’oggettività verso cui tutte le nostre esperienze convergono, al di là della
diversità delle nostre esperienze soggettivamente determinate, e che spetta alla
scienza chiarificare. In opposizione a
Descartes, il reale, secondo Peirce, è definito da un accordo tra tutti coloro, le cui
credenziali scientifiche sono tali da ottenere la nostra fiducia.
Dal 1890 al 1905, Peirce fu impiegato
come giornalista del Nation. Dal 1891 al
1893 scrive cinque saggi per la nuova rivista di filosofia «The Monist» - ora raccolti
nel volume The essential Peirce (L’essenziale di Peirce, vol. I, a cura di N. Houser e
C. Koesel, Bloomington 1992) - in cui
espone il suo “idealismo obiettivo”, definendolo una versione realista dell’idealismo: la realtà è esterna a noi e alla nostra
mente, osservava Peirce, ma è anche interna e mentale; egli così risolveva i rapporti
tra mente e corpo, appellandosi ad una
variazione della teoria dell’armonia prestabilita tra mente e natura, per cui la mate-
ria è definita come mente non ancora regolata da abiti e leggi psicologiche e la mente
come fontana dell’esistenza. Peirce completa la posizione dell’idealismo oggettivo
in modo teistico, interpretando l’universo
come il processo di pensiero di un Dio in
evoluzione, la Suprema Ipotesi che solo il
tempo può provare.
Nei primi anni del 1900 Peirce fu chiamato
ad Harvard dall’amico William James per
tenere lezioni sul pragmatismo e sulla logica, che tuttavia rimasero oscure per l’uditorio. Delle numerose parole coniate da Peirce per descrivere la sua filosofia, l’unica
sopravvissuta, osserva Brent, è la parola
“semiotica”; e infatti, come semiotico Peirce deve essere considerato. La semiotica,
o teoria generale del significato, è centrale
e pervasiva, in quanto, secondo Peirce,
«tutto il pensato è segno». Ciò comporta
una continua attività di semiosi, cioè di
interpretazione, della mente umana. L’essenza della semiotica è l’analisi della relazione segnica nelle sue tre componenti: il
segno stesso, l’oggetto che determina il
segno e l’effetto che il segno produce,
chiamato da Peirce interpretant e solitamente significato. L’interpretant è un’inferenza affermata in parole, non qualche
cosa di psicologico, e come tale è possesso
obiettivo di una comunità. Esso, tuttavia, è
a sua volta un pensiero; è un segno che
produce un altro significato: ciò provoca
un processo all’infinito, quello appunto
della semiosi o interpretazione.
Tra le biografie recenti dedicate a Peirce,
vale la pena menzionare qui quella di Klaus
Oehler, Charles Sanders Peirce (Beck,
Monaco di Baviera 1993), una breve ma
efficace ricostruzione della vita e dell’opera del filosofo americano, con particolare
considerazione per le sue speculazioni di
ordine cosmologico, spesso trascurate dalla letteratura critica, e anche per la sua
concezione semiotica.
Lo studio di Carl R. Hausman, Charles S.
Peirce’s Evolutionary Philosophy, si propone invece di introdurre al pensiero di
Peirce, fornendo un’interpretazione delle
sue teorie metafisiche, con particolare riguardo al rapporto tra il concetto di intelligibilità dell’universo e quello di spontaneità e creatività del mondo. Per illustrare
la concezione di Peirce, Hausman non
utilizza i testi primari, che possono essere
oggetto di controversie o confutazioni, ma
solo fonti secondarie, come i commenti e
le analisi di Richard Rorty, Donald Davidson e Hilary Putnam. Nel suo studio,
Hausman fornisce inoltre una sistematica
e coerente classificazione dei numerosi
concetti che contrassegnano la teoria filosofica di Peirce, separando le tendenze
realiste da quelle idealiste e indicando la
chiave per la loro ricomposizione.
Peirce considera la ricerca scientifica un
processo, definito dalle regole del ragionamento, che muove dal dubbio e va verso
lo stabilimento della credenza. A volte la
scienza procede realmente in questo modo,
24
fa notare Hausman; spesso però le ricerche
più importanti iniziano quando il ricercatore è convinto di una certa cosa, anche se
manca l’evidenza di questa convinzione.
In ogni caso, il dubbio non gioca qui nessun ruolo; e ciò che si deve raggiungere
non è la verità di qualche ipotesi rilevante, bensì una evidenza adeguata, che
permetta di accettarla. Dovremmo chiederci, allora, osserva Hausman, se la
concezione di Peirce non sia un errore; o
viceversa se essa non sia l’essenza di
ogni concezione di ricerca scientifica al
di là delle apparenze; oppure, da un altro
punto di vista, quale sia in Peirce il
significato preciso di parole come “dubbio” e “credenza”; e così via. M.G.
Sul progresso
Nello scritto: LE ILLUSIONI DEL PROGRESSO
(Bollati Boringhieri, Torino 1993),
Georges Sorel compie un’analisi delle conseguenze negative che a suo
avviso l’ideologia del progresso ha
determinato nella storia della civilizzazione. Un’originale riconsiderazione della tematica del progresso figura
anche come motivo centrale in una
serie di riflessioni e ricostruzioni critiche, che Paolo Vincieri dedica a
Schopenhauer nel volume: DISCORDIA E
DESTINO IN SCHOPENHAUER (Il Melangolo,
Genova 1993).
Ne Le illusioni del progresso, Georges
Sorel esamina con precisione il sorgere
dell’ideologia del progresso verso la fine
del Seicento, nel momento in cui la borghesia esprime il suo desiderio di dominio del
mondo; un’ideologia che si mantiene sostanzialmente tale, osserva Sorel, anche
con l’ascesa delle classi operaie, pronte a
inserirsi nella cultura borghese e a sostituirsi alla borghesia stessa. Ciò che in questa
situazione porta a maturare tanta fiducia
nel progresso è la convinzione che esso sia
il nuovo dell’umanità; alleato del progresso è la scienza, che diventa la ragione della
storia. Il mondo intero “cade” nelle mani
della ragione, una ragione che tende a unificare sotto il suo potere la vita delle classi
sociali e dell’umanità intera.
Sorel si serve di proposito del termine
“cadere” nelle mani di una ragione-potere,
per dichiarare il suo disappunto nei confronti di una simile idea di progresso, che
si presenta ai suoi occhi come “illusione”,
tradimento nei confronti di una vera trasformazione del mondo, una trasformazione umana, oltre che tecnologica. Sorel
attacca i responsabili di questa concezione
del progresso e li accusa di aver stravolto
la cultura originale della politica e della
scienza, che debbono restare ambiti separati. Veri responsabili di una simile rivoluzione-involutiva sono, secondo Sorel, gli
AUTORI E IDEE
intellettuali, che da “giullari” della nobiltà
sono diventati i portavoce del dominio
borghese anche presso il proletariato, per
costituirsi in una nuova classe politica
dominante, che detta le leggi della scienza-progresso attraverso la conquista razionale dell’ignoto. In questa situazione il
singolo diventa vittima di un’organizzazione sociale il cui scopo è proteggere gli
interessi della nuova classe politica alle
prese con gli affari, il potere e un illusorio
progresso.
Da una diversa prospettiva, osserva Paolo
Vincieri nel suo studio: Discordia e destino in Schopenhauer, anche Schopenhauer
rilevava che il dominio della volontà sull’intero universo invera l’hobbesiano homo
homini lupus come un aspetto della «lotta
universale che è presente in natura», conducendo a uno Stato forte, che tuttavia non
elimina la dialettica tra noia e dolore in cui
si dibatte l’esistenza umana. Schopenhauer
- prosegue Vincieri - «non nega comunque
che un progresso ci sia stato e sia ancora
possibile, ma dato che non può contare
sulla bontà dell’animo [...], egli non può
che fondarlo sull’egoismo».
In questo più vicino a Mandeville, che a
Rousseau, quella di Schopenhauer, osserva ancora Vincieri, è «una prospettiva che si potrebbe definire materialistica, in quanto si innesta in quella corrente
di pensiero che ritiene la scarsità dei
beni come la causa fondamentale della
discordia tra gli uomini». Una prospettiva, questa, che impone di superare la
condanna pronunciata da Lukács, secondo il quale l’irrazionalismo pessimista di
Schopenhauer, frustrando «ogni spinta rivoluzionaria e ogni progetto di radicale
rinnovamento sociale», si tradurrebbe in
«una “apologia indiretta” del capitalismo».
Al contrario, fa notare Vincieri, nella filosofia di Schopenhauer «si trova anche un
nucleo, che potremmo definire illuministico», alla luce del quale emerge la «portata antidogmatica e progressiva» del
«mondo come rappresentazione».
Del resto, in questa visione lucidamente
pessimistica della realtà, in polemica
con l’ottimismo metafisico di Hegel, risiede, secondo Vincieri, l’ “attualità di
Schopenhauer”, quando osserva che l’uomo è un “animale metafisico”, le cui
miserie sono state da sempre sfruttate
dai vari sacerdoti della guerra a fini di
potere politico; occorre invece trasformare l’egoismo che è connesso alla natura umana, «rendendolo funzionale all’interesse collettivo» (un’idea analoga
alla “mano invisibile” di Adam Smith),
senza con questo sacrificare l’individuale all’universale.
Tali concezioni, unite all’«anelito per la
giustizia, per un mondo migliore fondato
sulla comune solidarietà», costituiscono
per Vincieri “il ruolo di Schopenhauer nel
pensiero di Horkheimer”, evitando «che
l’utopia di Marx si trasformi in una ideologia pericolosa in mano ai suoi epigoni»,
come è avvenuto in Lukács e in altri che
hanno letto Marx attraverso Hegel, giungendo all’apologia del totalitarismo. Coniugando il marxismo con il pensiero schopenhaueriano (il cui pessimismo non esclude la «critica nei confronti dell’ordine esistente»), il giovane Horkheimer arriva
invece a sostenere la non definitività del
“regno della libertà” preconizzato da Marx,
in cui peraltro continuerà a esistere il dolore, contro il quale non sono possibili che
compassione e solidarietà, uniche fonti di
vera giustizia. G.C./D.M.
Caos e linguaggio in Hacking
L’importanza del linguaggio in rapporto alla filosofia e la funzione del
caos all’interno dell’epistemologia
sono rispettivamente oggetto di due
studi di Ian Hacking, oggi disponibili in
traduzione italiana: LINGUAGGIO E FILOSOFIA (trad. it. di B. Sassoli, Raffaello
Cortina Editore, Milano 1994), la cui
edizione in lingua originale risale al
1975, e IL CASO DOMATO (a cura di S.
Morini, Il Saggiatore, Milano 1994).
Decisamente contrario a quelle teorie “massimaliste” che intendono spiegare il valore
del linguaggio una volta per tutte, in Linguaggio e filosofia Ian Hacking contesta
la possibilità di una teoria del linguaggio
“in sé” che raggruppi tutte le varie teorie
del linguaggio, dall’ermeneutica, alla linguistica strutturale, alla filosofia analitica.
Al contrario, oggetto della ricerca di
Hacking è la descrizione di diversi “casi
esemplari” in cui il linguaggio è stato
considerato il supporto essenziale della
filosofia, partendo dalla teoria delle idee
del ‘600, attraverso quella del significato
dell’ ‘800, per concludersi con quella degli
enunciati a noi contemporanea.
Per quanto riguarda l’analisi delle idee,
Hacking affronta sia il punto di vista empirista, sia quello idealista, per i quali il
pensiero, inteso come discorso mentale,
trova nel linguaggio la sua traduzione concreta. Da questo punto di vista la filosofia
di Hobbes, come quella di Berkley, conducono alla medesima interpretazione delle
idee come medium tra l’Ego e il mondo. Il
tramonto della filosofia delle idee avviene
quando ci si rende conto che la questione
della comunicazione deve necessariamente affrontare un altro aspetto, quello del
significato. La teoria del significato trova
in Frege il suo massimo esponente. La
distinzione tra Sinn e Bedeutung, la differenza cioè tra il significato comune e quello variabile e dipendente dai diversi vissuti, muta la prospettiva della filosofia del
linguaggio. Ora l’oggetto non è più la
semplice mediazione tra soggetto e realtà,
ma l’interpretazione che una stessa parola
può assumere a seconda dei diversi conte25
sti. A questo proposito Hacking affronta
anche la teoria di Russel, che esclude il
significato pubblico, e quella di Chomsky,
che affronta il problema dell’innatismo. In
ogni caso, l’analisi delle diverse interpretazioni del significato conduce al problema del verificazionismo, ovvero del
problema di come sia possibile verificare la validità di una proposizione. L’ultima fase della filosofia del linguaggio
ha dunque a che fare con la validità degli
enunciati. Il riferimento storico è in tal
senso Feyerabend, che ha affrontato il
problema dell’inesistenza di asserti teorici universali e quindi dell’incommensurabilità degli enunciati.
L’evoluzione della linguistica, e cioè il
passaggio dalle idee ai significati e poi agli
enunciati, testimonia, secondo Hacking,
l’evoluzione, o meglio, il cambiamento di
prospettiva negli elementi fondamentali
della visione del mondo. In altre parole,
l’evoluzione della filosofia del linguaggio, inteso sempre e comunque come il
medio tra realtà e soggetto, rende conto dei
cambiamenti costitutivi nella comprensione della realtà.
Di tematiche più propriamente epistemologiche, in particolare dell’importanza del
caos nella filosofia della scienza dall’Ottocento ai giorni nostri, si occupa, invece,
un altro studio di Hacking, Il caso domato.
Il punto di partenza è la considerazione di
alcune teorie, come quella dell’effetto Butterfly, che sostengono il condizionamento
imprevedibile, e nello stesso tempo determinante, da parte di fattori apparentemente ininfluenti nei confronti di fenomeni di
ogni tipo. Per spiegare come le teorie epistemologiche siano potute passare da un
rigido determinismo, tipico della rivoluzione scientifica, a questa sorta di casualismo, che sembra essere assolutamente antitetico alle posizioni della scienza del
‘600, Hacking utilizza, come in Linguaggio e filosofia, la chiave di lettura storica.
In seguito alla rivoluzione scientifica e
alla matematizzazione della natura, l’ordine e la regola hanno cominciato a costituire la trama interpretativa del mondo che,
attraverso la meccanica classica, sembrava essere retto da una legalità assolutamente deterministica. Con l’avvento della
meccanica quantistica la scena epistemologica cambia radicalmente: superati prevedibilità e determinismo, il caso diventa
elemento determinante della scientificità
attraverso la statistica. Da qui l’espressione di “caso domato”, che indica appunto la
funzionalità del caso attraverso la statistica, come strumento di analisi e non più di
disturbo dei fenomeni. A questo si riferisce ancora Hacking quando indica nella
sociologia un tipico campo di applicazione della statistica. Grazie alle indagini
probabilistiche la sociologia ha ottenuto
quella capacità di intervento nei fenomeni
che le ha permesso di lasciare il campo
delle discipline teoriche per quello della
prassi di intervento. A.S.
TENDENZE E DIBATTITI
Pieter Bruegel, La temperanza (1560) e La fortezza (1560)
26
TENDENZE E DIBATTITI
TENDENZE E DIBATTITI
Sull’etica in Francia
In un’epoca di crisi dei fondamenti
morali e di “congedo dal dovere”, non
deve destare meraviglia la continua
ripresa della problematica etica nel
dibattito filosofico contemporaneo. É
ora la volta della Francia, dove sono
apparse recentemente, in rapida successione, nuove pubblicazioni sul
tema. Per la collana «PHILOSOPHIE MORALE», si segnala MODERNITÉ ET MORALE
(Modernità e morale, Puf, Parigi 1994),
di Charles Larmore, e LA FAIBLESSE DE LA
VOLONTÉ (La debolezza della volontà,
Puf, Parigi 1994), di Ruwen Ogien.
Un’ampia panoramica delle varie riflessioni sviluppate nell’ambito di questa disciplina è offerta da Jacqueline
Russ nel suo LA PENSÉE ETHIQUE CONTEMPORAINE (Il pensiero etico contemporaneo, Puf, Parigi 1994). Tra le etiche
dell’immanenza, Russ colloca il pensiero di Marcel Conche e di André
Comte-Sponville. Di quest’ultimo si
segnala lo studio: VALEUR ET VERITÉ (Valore e verità, Puf, Parigi 1994), in cui
viene delineata, attraverso una nuova
definizione del cinismo, una morale
fondata sul desiderio che rifiuta la trascendenza dei valori. Di Conche è stata invece pubblicata la riedizione di LE
FONDAMENT DE LA MORALE (Il fondamento
della morale, Puf, Parigi 1994), in cui
viene respinta l’idea che la caduta delle “grandi illusioni” (religione, socialismo reale, capitalismo, etc.) conduca
alla scomparsa della morale. Una diversa proposta è quella del gesuita
Paul Valadier, che in ÉLOGE DE LA CONSCIENCE (Elogio della coscienza, Seuil,
Parigi 1994) suggerisce un ritorno alla
coscienza come “riferimento fondamentale” della vita morale. Da segnalare infine, in questo contesto di riflessione, il volume curato da Jean-Pierre
Changeux, FONDAMENTS NATURELS DE
L’ETHIQUE (Fondamenti naturali dell’etica, Ed. Odile Jacob, Parigi 1994), viene
affrontata la questione delle basi biologiche della coscienza morale.
L’anti-umanismo di certe posizioni del
marxismo (ancora Althusser riteneva la
morale un prodotto della classe borghese);
il rifiuto nietzscheano della morale corrente, scambiato per una condanna della morale tout court, sono tra i fattori che hanno
portato ad una caduta dell’interesse per la
questione morale. Ma la proclamata dissoluzione del soggetto, la crisi dei riferimenti
tradizionali, il serpeggiante relativismo,
rafforzato dal continuo insorgere di nuove
tecnologie che rendono instabile ogni verità acquisita, lungi dal rappresentare l’ultima parola, hanno finito col divenire altrettante sfide per riflettere su quella moralità
vissuta che presiede, al di là delle nostre
prese di posizione, alle nostre azioni.
In Modernité et morale, Charles Larmore
da un lato sostiene, «contro una visione
naturistica del mondo» che ammette solo
fatti fisici o psicologici, l’esistenza di fatti
irriducibilmente normativi; dall’altro distingue però la sua posizione da quella
kantiana, ritenendo impossibile attenersi
all’universalismo razionalista dei Lumi, e
non rispondendo più gli imperativi morali
ad alcun monismo o principio ultimo: «La
razionalità in sé costituisce una base troppo
tenue per giustificare la validità di una
qualsiasi obbligazione morale». Si tratta
piuttosto di capire come la ragione si eserciti sempre in seno a una tradizione e come
l’universale si combini col particolare.
Conseguenza della sua analisi è così l’abbandono di una fonte unica della morale a
vantaggio della sua eterogeneità.
Ruwen Ogien intende invece applicare
alla vita morale il «principio del determinismo parziale “giuridico”», secondo cui
nessuno, suo malgrado, compie azioni
malvagie. Viene così scartata la soluzione
intellettualistica data da Socrate al problema morale; infatti, se nessuno fa del male
volontariamente, ma solo per ignoranza, è
impossibile allora giustificare razionalmente l’esistenza di pene e punizioni. Anche
ammettendo che il male venga compiuto
per “debolezza della volontà”, in forza degli appetiti e dei desideri, Ogien invita a
desistere dal cercare una garanzia di intelleggibilità nel male. Per capire razionalmente la possibilità di compiere il male, è
necessario escludere un rapporto logico,
causale tra le nostre motivazioni ad agire e
le nostre azioni, per cui possiamo non fare
quel che avevamo ritenuto bene fare, senza
27
essere illogici o perdere la responsabilità
delle nostre azioni (e quindi la possibilità di
poterle definire morali o immorali). Ripensando il rapporto tra filosofia e psicologia,
Ogien denuncia gli effetti deresponsabilizzanti di quest’ultima in ambito etico, approdando a una sorta di moralizzazione
della psicologia.
Un’analisi dei principi su cui si basano le
etiche contemporanee è contenuta nella
seconda delle quattro sezioni di cui si costituisce lo studio di Jacqueline Russ, La
pensée ethique contemporaine. Si tratta di
principi classici, ripensati all’interno dell’attuale dissoluzione, “parziale “, del soggetto: «Conservato in vita dall’intera tradizione filosofica, il soggetto risorge ogni
volta, sicché solo in modo sfumato si può
accertare l’esaurimento del paradigma del
soggetto e della coscienza, che sebbene
talvolta detronizzati, si inscrivono tuttavia
spesso nel quadro dell’etica contemporanea». Oltre al principio di responsabilità
(considerato soprattutto nel pensiero di H.
Jonas), Russ passa in rassegna il principio
religioso (in E. Levinas), di affermatività
(in R. Misrahi e G. Deleuze), di realtà (in
P. Hadot e C. Rosset), di libertà, uguaglianza e differenza (in J. Rawls), di cura
estetica di se stesso (M. Foucault, M.
Onfray) e di autodeterminazione e rispetto
per la vita, che sta alla base della bioetica.
Nella prima sezione, dopo aver constatato
come la nostra epoca avverta sia la crisi
dell’etica che la sua necessità, Russ traccia
per grandi linee il modo in cui Spinoza,
Kant, Nietzsche, Wittgenstein e
Heidegger hanno influenzato le diverse
etiche del nostro tempo, classificate, nella
terza sezione dell’opera, in nove tipi (mentre nella quarta sono presentate alcune etiche applicate - come la bioetica, l’etica
dell’ambiente naturale, l’etica degli affari,
l’etica dei mass media, l’etica della politica
- considerate deontologie, più che etiche
vere e proprie): 1) l’etica che si rifà all’appello di Apel per la fondazione di un’etica
universale, in grado di far fronte alla scienza; 2) l’etica di Habermas, fondata sull’attività comunicativa, che si inscrive in una
prospettiva universalistica e consensuale;
3) l’etica della civiltà tecnologica di Jonas,
che si differenzia da quella di Apel perché
è ontologica e si fonda su una responsabi-
TENDENZE E DIBATTITI
lità concepita come continua, volta al futuro e senza reciprocità; 4) le etiche influenzate dall’antichità greco-romana, secondo
una prospettiva esistenziale estetica
(Foucault), stoica (Hadot) o cinica (Onfray); 5) l’etica che si fonda sui dati delle
neuroscienze di Jean Pierre Changeux;
6) l’etica politica di Rawls che, partendo da
una critica dell’utilitarismo anglosassone e
cercando il giusto prima del bene, propone
un nuovo contratto sociale; 7) l’etica di
Gilles Lipovetski, per il quale «le nostre
società democratiche sarebbero entrate in
una cultura del dopo-dovere, nell’al di là
dell’imperativo» e ridefinisce la responsabilità come «l’anima della cultura postmoralista»; 8) l’etica della trascendenza
religiosa di Levinas; 9) le etiche dell’immanenza, che resistono «alle sirene del
Sacro, per volgersi al desiderio, alla felicità, alla gioia, alla realtà», in cui rientrano le
posizioni di Deleuze, Guattari, Misrahi,
Conche e Comte-Sponville.
Nel suo ultimo lavoro, Valeur et verité,
André Comte-Sponville indaga sulla possibilità di una morale nell’era della crisi dei
fondamenti. I dodici saggi che compongono l’opera vertono infatti su una questione
più volte dibattuta: «è possibile essere atei
senza essere nichilisti?»; o detto altrimenti:
aveva ragione Sartre quando affermava
che «se Dio non esiste, tutto è lecito»? In
realtà, per Comte-Sponville «la morale è
necessaria alla vita umana»; il suo intento
infatti è quello di proporre una morale che
affondi le sue radici nel relativismo di
Montaigne, riletto all’interno della tradizione cinica, opportunamente rivisitata:
vengono infatti gettate le basi per un nuovo
cinismo, che gli consente da un lato di
condurre una critica radicale alla nozione
di morale basata sulla trascendenza dei
valori, dall’altro di svilupparne una fondata su volontà e desiderio.
Marcel Conche, nel suo Le fondament
de la morale, si pone invece la domanda:
«esiste una giustificazione universale alla
morale?». La risposta è che l’autonomia
radicale della morale, l’indipendenza da
qualsiasi religione o filosofia è la condizione della sua universalità. La morale
per Conche è quella dei diritti dell’uomo; non è dunque né un’ideologia europea, né un codice contingente valido
solo in un dato tempo e luogo: «Ogni
uomo è in sé uguale a ogni altro, se si
considera questa capacità essenziale, che
ognuno possiede, di esprimere ciò che a
lui si mostra come vero» - afferma Conche, sottolineando in questo il merito degli
epicurei, degli stoici e dei cinici di aver
scoperto l’uomo universale. Proprio questa possibilità di un dialogo razionale tra
ogni uomo e il suo simile costituisce per
Conche il fondamento della morale.
Ripercorrendo, dai Vangeli fino ai nostri
giorni, la storia della coscienza e dei suoi
malintesi (passando, tra gli altri, per Tommaso, Pascal, Rousseau, Nietzsche), Paul
Valadier propone un ritorno alla coscienza
come “riferimento fondamentale” della
morale. Se il momento centrale della vita
morale è la decisione, osserva Valadier, su
cosa deve poggiare quest’ultima se non su
quella parte più intima di ogni individuo,
sul quel «santuario dove l’uomo è solo
davanti a Dio», come il Concilio Vaticano
II ha definito la coscienza. L’invito di Valadier è allora quello di riappropriarsi del
carattere operativo, attivo e contrastato della
coscienza, contro la tendenza prevalente
nella società contemporanea a ritenerla
morta, soppiantata, come istanza decisionale, dai principi del piacere, dell’interesse
o dell’alienazione (pubblicitaria, ideologica, sociale). In questo Valadier si mostra al
riparo dal soggettivismo: la coscienza è
vista come luogo di confronto del soggetto
con la sua storia, la sua formazione e con le
coscienze altrui.
Sulla scorta di studi di neurofisiologia,
Jean-Pierre Changeux, curatore del volume: Fondaments naturels de l’ethique, che
raccoglie gli atti di un convegno omonimo,
sostiene la presenza di “predisposizioni
neuronali all’etica”, ovvero di una struttura
biologica sensibile al progresso evolutivo,
che produce comportamenti etici funzionali. Dodici i contributi, divisi in tre sezioni: “Etica e evoluzione”, “Etica, neuroscienze, psicologia”, “Etica e società”. Psicologi, antropologi, etnologi, giuristi, neurobiologi si esprimono su una questione tradizionalmente di competenza filosofica, inaugurando una sorta di “evoluzionismo” umanista: la morale sarebbe la trascrizione normativa di imperativi biologici
diretti alla sopravvivenza dell’individuo e
della specie. In questo quadro, suggerisce
Marc Kirsch nell’ “Introduzione” al volume, si può reinterpretare l’altruismo, atteggiamento morale che procura un vantaggio
ad altri a costo di un sacrificio personale,
come strategia di sopravvivenza: «Accrescendo la capacità adattativa globale dell’individuo - sostiene Kirsch - questo modo
di vita sociale garantisce all’individuo stesso una migliore probabilità di perpetuare il
proprio patrimonio genetico». L’istanza
morale viene così valutata né più né meno
che come un organo funzionale e come tale
risulta è ritenuta all’evoluzione.
Bisogna rilevare, tuttavia, che la maggior
parte degli interventi raccolti nel volume,
sembrano orientati non tanto ad attribuire
alla natura un valore normativo - posizione
che tradirebbe un pericoloso riduzionismo
- quanto a individuare la componente naturale dell’atteggiamento morale. Infatti la
“disposizione etica”, per quanto situata nel
cervello, è considerata come qualcosa di
non puramente biologico, dal momento
che si ammette un’influenza della cultura
sul sistema nervoso stesso. Riaprendo i
termini della perenne controversia tra natura e cultura, queste riflessioni, che provengono dall’ambito delle neuroscienze, costituiscono, in definitiva, un forte invito a
tener conto anche del punto di vista scientifico in ambito morale. A.M./A.St.
28
La filosofia italiana in Francia
La filosofia italiana, o più esattamente, le filosofie italiane sono in auge in
Francia, dove due delle più prestigiose
riviste di filosofia dedicano ampio spazio a questa tradizione di pensiero. La
«REVUE DE MÉTAPHYSIQUE ET DE MORALE »
(n. 101, 1994), con la direzione di Charles Alunni, mette in evidenza soprattutto il ruolo intermediario svolto dall’Italia tra le tradizioni filosofiche della
Germania e della Francia; mentre i due
numeri degli «ARCHIVES DE PHILOSOPHIE»
(n. 4, 1993; n. 1, 1994), curati da Guy
Petitdemange con l’ausilio di André
Tosel e François Marty, presentano
ampiamente, ai “cugini” francesi, le
linee della filosofia italiana.
L’interesse in Francia per la filosofia italiana è recente; complice forse la rivalutazione di alcuni pensatori italiani come Vico (si
pensi ai due numeri dedicati a Vico dalla
rivista «Archives de philosophie», nel
1977); o la recente fioritura di una stagione
complessa del pensiero italiano (si veda il
numero doppio della rivista Critique, apparso nel 1985 con il titolo: Les philosophes italiens par eux-mêmes); o anche il
desiderio del pubblico francese di sottrarsi
all’imponente tradizione tedesca.
Dei diversi contributi raccolti negli «Archives de Philosophie» alcuni si occupano
di tracciare i contorni di certe correnti di
pensiero a partire da figure cardine: Fabio
Minazzi e Jean Petitot presentano le ramificazioni del neo-illuminismo italiano a
partire dall’opera di A. Banfi, G. Preti, L.
Geymonat; Marco Ravera illustra il pensiero di L. Pareyson e della sua scuola;
Gianfranco Dalmasso ripercorre le tappe
della filosofia cristiana, ricordando, tra gli
altri, G. Bontadini e E. Castelli. Altri contributi si concentrano invece su alcuni pensatori presenti nel dibattito contemporaneo: Francis Wybrands interviene su G.
Agamben; Massimo Cacciari presenta A.
Del Noce e Domenico Jervolino si occupa
di Capograssi e Piovani. Un’altra serie di
interventi punta direttamente ai grandi pensatori italiani del passato: Charles Alunni
presenta uno studio interessante su T. Campanella; Bruno Pinchard fà un’analisi del
carattere “cimiteriale” del pensiero di Vico.
Altri contributi prediligono invece un approccio indiretto ad alcuni filosofi della
recente tradizione italiana: André Tosel
presenta Gentile attraverso la sua lettura di
Marx; mentre Michele Ciliberto giunge al
cuore della filosofia di Croce attraverso la
problematica dell’autobiografia. L’influenza decisiva per l’Italia di opere di pensatori
come Hegel, a cui si riferisce Livio
Sichirollo, o come Marx, di cui si occupano André Tosel e Domenico Losurdo; o
l’influenza delle correnti filosofiche francesi, su cui si sofferma Silvano Petrosino,
permette di ricostruire in parte i retroscena
di numerosi dibattiti filosofici in Italia.
TENDENZE E DIBATTITI
L’analisi di Livio Sichirollo sulla fortuna
di Hegel dopo la morte di Labriola si
presenta, in particolare, come una ricostruzione assai puntuale dei diversi approcci e
interpretazioni d’una filosofia che ha appassionato più d’uno, da Banfi a Michelstaedter, a Papini, fino alle interpretazioni di
Verra e Losurdo.
La molteplicità degli approcci è sicuramente segno di apertura e duttilità dei curatori francesi nel presentare la filosofia italiana, permettendo al lettore di orientarsi
nella tradizione di pensiero di un altro
paese. Tuttavia, l’eterogeneità dei contributi implica necessariamente qualche sbilanciamento nell’equilibrio d’insieme delle argomentazioni. Il testo di Fabio Minazzi e Jean Petitot analizza chiaramente
i punti salienti e le poste in gioco del
complesso e diversificato “neo-illuminismo” italiano, proponendo preziose appendici concernenti i colloqui e l’evoluzione di
questa scuola e una bibliografia accurata.
Più “enciclopedico” appare invece l’articolo di Marco Ravera su Pareyson, che
riprende in buona parte le considerazioni
già svolte in altra occasione da Xavier
Tillette, a cui si deve un interessante intervento su Sciacca. Alla filosofia politica è
invece dedicato lo studio di Franco Sbarberi sulla formazione della teoria democratica di Norberto Bobbio, di cui viene
sottolineata l’estraneità alla tradizione
marxista e l’attenzione per l’idea di persona, suggeritagli da Jaspers.
Al di là di alcune comunicazioni su pensatori già noti al pubblico francese Catherine Paoletti ripercorre il pensiero di A. Gargani; Italo Valent presenta
E. Severino; Gianni Vattimo ritorna sul
rapporto tra metafisica e violenza; Remo
Bodei ripercorre vicende autobiografiche - i contributi raccolti nei due numeri
degli «Archives de Philosophie» sembrano indirizzarsi verso due orizzonti
filosofici alternativi: il pensiero dell’enigma e la riflessione sulla legittimità
della ragione. In tal senso, vediamo da
un lato profilarsi una linea di pensiero
che tende a sottolineare l’ispirazione
poetica, enigmatica, immaginifica della
riflessione italiana: su questa linea si
pongono gli interventi di Riccardo Pineri su Leopardi, dello scomparso
Ferruccio Masini su Giorgio Colli e di
Guy Petitdemange su Michelstaedter. Il
senso di un fondo che si ritrae nell’impersonale nella poesia di Leopardi; la persuasione come vita “altra”, luce di una
cometa lontana, in Michelstaedter; la saggezza dell’enigma in Colli, testimoniano
di tentativi diversi di uscire dagli impacci
di una tradizione consolidata per esplorare
nuove forme del pensare.
Altra è la strada del neo-illuminismo, percorsa da Banfi, Preti, Geymonat: l’originalità della scuola epistemologica italiana,
sottolineano Minazzi e Petitot, consiste
nell’ «aprirsi alla dimensione storica senza
relativizzare le strutture della razionalità»,
proponendo una sintesi dialettica della verità delle scienze e della loro storicità, che
individua nella stessa conoscenza oggettiva un valore storico e un principio regolatore. I problemi della conoscenza si raccolgono qui, in chiave kantiana o cassireriana, nel problema di attualizzare la logica trascendentale in una pluralità di scienze dai contenuti distinti e differenziati e
soprattutto storicamente significativi; di
pensare insieme la teoreticità, forte di un
assetto oggettivo e non solamente formale, e la storicità delle differenti ontologie
regionali; di tradurre o trasporre contenuti
empirici in un’universalità retta da una
legge trascendentale.
Nella sua panoramica sulla filosofia italiana, la «Revue de métaphysique et de morale» s’interroga in particolare sulla “mediazione”, svolta dalla tradizione italiana, tra
le due culture filosofiche, francese e tedesca. Ernesto Grassi e Luigi Pareyson,
entrambi scomparsi, sono presenti con due
testi relativi alla prima ricezione dell’esistenzialismo tedesco (1937-1941); mentre
tre studi specifici si occupano della precocità con cui l’idealismo fu accolto in Italia,
suscitando dibattiti e riflessioni personali.
E’ noto come Taine riservi, nel suo Voyage
en Italie, uno spazio privilegiato a A. Vera;
ed è attraverso quest’autore, come ricorda
Guido Oldrini, che Hegel viene recepito
in Francia. Domenico Losurdo analizza
invece l’influenza hegeliana nel contesto
della rivoluzione del 1848; mentre Claudio Cesa studia in dettaglio l’interesse riscosso in Italia da Fichte e da Schelling nel
periodo 1802-1862. Chiude la serie dei
contributi Evandro Agazzi con un articolo
sul realismo scientifico.
Certo, se l’esame dei ritardi e delle deviazioni nella comunicazione filosofica
europea spinge a riflettere sull’incomprensione e sui malintesi, o anche sulla
reciproca ignoranza, tra culture filosofiche diverse, l’insieme di questi studi,
dedicati alla filosofia italiana da parte di
due autorevoli riviste francesi, avvia
forse un cambiamento fondamentale di
attitudine. F.M.Z./D.T.
Politica e filosofia
Nel suo recente saggio, NOVE PENSIERI
SULLA POLITICA (Il Mulino, Bologna 1993),
Roberto Esposito riflette sul difficile
problema di una fondazione della filosofia della politica. Del medesimo problema fornisce una nuova chiave di
lettura Thomas Nagel in LA POSSIBILITÀ
DELL ’ALTRUISMO (trad. it. di R. Scognamiglio, Il Mulino, Bologna 1994), proponendo opinioni e soluzioni circa il
rapporto fra filosofia e politica. Tracciare le linee fondamentali di una “nuova filosofia politica” è anche l’intento
di un testo di Hannah Arendt, finora
29
inedito, tratto da una conferenza del
1954 dal titolo: “L’atto originario della
filosofia politica è lo stupore”, e ora
pubblicato, assieme a quello di un’intervista televisiva rilasciata da Arendt
nel 1964, nel volume, a cura di Alessandro Dal Lago, LA LINGUA MATERNA . LA
CONDIZIONE UMANA E IL PENSIERO PLURALE
(Mimesis, Milano 1993).
In Nove pensieri sulla politica, ideale continuazione de Le categorie dell’impolitico,
pubblicate nel 1988, Roberto Esposito
muove dal presupposto che esista un divario necessario tra pensiero filosofico e politica, insito nello stesso concetto di filosofia politica, che vorrebbe appunto trattare il
suo oggetto specifico, la politica, nel linguaggio che gli è proprio, quello filosofico.
Tale linguaggio, però, è per sua natura
ordinato e consequenziale, per cui, fa notare Esposito, nel momento stesso in cui
rappresenta la categoria della politica, deve
anche negarne l’essenza ultima, che è costituita dal conflitto, dalla lotta per il potere; una lotta che porta in sé il dualismo di
Bene-Male, di Giustizia-Diritto, di VeroFalso. Il linguaggio filosofico, prosegue
Esposito, come organo della filosofia stessa, è un tentativo di ordine, di unificazione
dei Molti nell’Uno; è l’ambizione di ridare
una valenza trascendente al reale immanente. Per questa sua essenza, il linguaggio
filosofico non riesce a rappresentare compiutamente la categoria della politica. Rimandando alla trascendenza, che è Unità,
la filosofia non può strutturalmente rappresentare in modo adeguato il conflitto del
molteplice immanente, insito nella politica
e nella sua manifestazione, lo Stato, pena la
perdita di entrambi.
Sembra dunque impossibile, secondo
Esposito, fondare una filosofia politica in
grado di parlare del proprio oggetto, senza
identificarlo con sè stessa. Al contrario,
solo fuori dalle categorie e dal linguaggio
filosofico si può cogliere l’essenza della
politica, il conflitto per il potere, senza
demonizzarla, tentandone una sintesi nell’Uno. Esempio eclatante in tal senso,
osserva Esposito, è il pensiero di Nicolò
Machiavelli, quale si trova esposto nelle Opere politiche. Per Machiavelli, sostiene Esposito, conta solo la realtà del
fatto politico, il conflitto, e lo scopo per
cui esso s’innesca, il potere. La coniugazione di questi due fattori non ha nulla a
che vedere con una morale trascendente,
come invece è presupposto dalla filosofia; è un semplice fatto, una realtà della
prassi, a cui adeguarsi.
Lo Stato, incarnazione pratica della categoria della politica, ha in sé il dualismo del
conflitto, essendo costituito da una molteplicità conflittuale di individui, di cui adempie agli scopi. Se, fa notare Esposito, lo
Stato tendesse all’Unità e vi giungesse,
verrebbe meno alla sua funzione di Stato,
di entità politica con compiti precisi. Ma
questo, di fatto, non è lo scopo ultimo della
TENDENZE E DIBATTITI
politica, come fa notare Esposito, citando
Aristotele, che nel II Libro della Politica
afferma: «...è chiaro che se uno stato nel
suo processo di unificazione diventa sempre più uno, non sarà più neppure uno stato,
perché lo stato è per sua natura pluralità e
diventando sempre più uno si ridurrà a
famiglia da stato e a uomo da famiglia: in
realtà dobbiamo ammettere che la famiglia
è più una dello stato e l’individuo della
famiglia: di conseguenza chi fosse in grado
di realizzare tale unità non dovrebbe farlo,
perché distruggerebbe lo stato». Ciò riconferma, secondo Esposito, che dall’esterno
delle categorie filosofiche viene la possibilità autentica per una fondazione della filosofia politica, che sappia esprimere quell’antinomia “impolitica” e indescrivibile
del conflitto che la costituisce.
A queste considerazioni risponde, per certi aspetti, Thomas Nagel, che ne La possibilità dell’altruismo critica la separazione
del discorso filosofico da quello politico in
tema di morale, prendendo in questo le
distanze dai fautori dello scetticismo etico. Secondo Nagel, le regole della morale
non sono effimere e infondate, ma possono essere spiegate razionalmente; la filosofia dà risposte esaurienti per quanto riguarda la condotta sociale-politica, ponendone i fondamenti. Così filosofia e
politica convergono, sono complementari
dal punto di vista dei programmi socialipolitici, finalizzati al bene comune.
Si tratta in tal senso, osserva Nagel, di
porre le basi, in termini, potremmo dire,
“kantiani”, per un fondamento pratico universale di quei principi di giustizia che da
egoistici si trasformano in “morali”. Essere guidati da principi morali significa agire
in rispetto di una certa continuità con gli
altri, in vista di uno “Stato” unito e solidale. Da una politica individualista ed escludente, puntualizza Nagel, si passa, in tal
modo, ad una aperta e altruista; un passaggio per il quale la motivazione che spinge
a compiere un’azione non è guidata da un
semplice desiderio personale, ma si basa
sulla consapevolezza che un singolo atto
individuale genera determinate conseguenze per gli interessi di tutti gli altri individui. Nagel chiama “prudenziali” quei comportamenti nei quali l’interesse dell’agente non è in questione ma, in quello stesso
momento, vengono difesi i diritti del singolo; mentre per comportamento “altruista” viene inteso un modo di agire in campo sociale che genera armonia tra ragione
soggettiva (del singolo) e oggettiva (collettiva). Più precisamente, l’agire secondo
prudenza segue criteri spazio, temporali
legati al presente; mentre l’agire secondo
altruismo mette in primo piano una continuità di coscienze temporali e una concezione di persone temporalmente estese,
capaci di proiettare nel futuro i successi e
i fallimenti delle azioni.
In un simile discorso, che considera il
Nicolò Machiavelli
30
contesto politico e sociale con tutti i
relativi diritti da tutelare, la politica diventa servizio sociale, lasciandosi alle
spalle ogni logica di ricchezza-potere; il
rapporto tra filosofia e politica si risolve, per Nagel, nel progetto di una funzionale filosofia della politica.
Diversa la posizione di Hannah Arendt,
che nei due scritti raccolti ne La lingua
materna mostra come non sia affatto scontato, perlomeno dal punto di vista teoretico, l’interesse del filosofo per la politica.
La concezione della scienza politica nel
pensiero contemporaneo, che considera la
politica come l’ambito proprio della vita
degli uomini, in cui sorgono “anche” questioni di ordine filosofico, risulta incommensurabile con la prospettiva antica,
medievale e, in parte, anche moderna, che
vedono invece la politica, nell’insieme
dello sviluppo della ragione umana, come
una manifestazione settoriale, regolata, in
quanto tale, da princìpi e norme provenienti da altri ambiti di esperienza.
Secondo Arendt, la radice della moderna
concezione della politica, che viene alla
luce nell’idea hegeliana di filosofia come
filosofia della storia, si colloca nel presupposto, accettato acriticamente, in base al
quale l’uomo può conoscere solo ciò che
egli stesso ha creato. Di qui, il presupposto
carattere “originariamente” storico, e politico, della filosofia contemporanea, concezione di cui Hegel appare perciò come
l’autorevole genitore. Di questa concezione, rileva Arendt, risulta un prodotto anche la stessa prospettiva nichilistica (che,
pure, rigetta radicalmente l’idea di una
ratio storica), in quanto intrinsecamente
legata all’esperienza della storicità. Debitore all’impostazione hegeliana appare
perfino il rifiuto della storicità, connesso
con il ritorno alla tradizione dei filosofi
confessionali, quali i neotomisti, che cadono in contraddizione, laddove intendano restaurare verità “tradizionali”, il cui
valore risiede, tuttavia, proprio nel loro
porsi, in quanto metastoriche, al di fuori
della tradizione.
Il limite politico, ma anche teoretico, contro cui si scontrano siffatte impostazioni,
consiste, secondo Arendt, nel ritenere che
occorra sostituire, a ideologie errate, ideologie “vere”, che ripropongano valori eterni. Affiora qui l’avversione arendtiana per
l’ideologia, che trova la sua più profonda
motivazione - come nota Alessandro Dal
Lago, curatore del volume, nella sua ampia Introduzione - in un’esaltazione del
common sense, che costituisce il nucleo
del pensiero politico arendtiano. Tale
esaltazione esprime una genuina valenza teoretica nel suo segnalare il fatto che
lo scenario nel quale si muove il pensiero, cioè il “suo” mondo, non consiste in
una sua proiezione, e l’esistenza “data”
delle singole alterità storicamente determinate si pone come condizione per
l’esperienza del mondo da parte del soggetto “politico”. L.B./F.C./D.M.
TENDENZE E DIBATTITI
Ambrogio Lorenzetti, Effetti del buon governo (1337-40, part.)
Liberalismo e società moderna
Tra i recenti interventi critici intorno al
concetto di Stato moderno, alle sue
origini e alle sue prospettive, segnaliamo, di Nicola Matteucci, il volume: LO
STATO MODERNO : LESSICO E PERCORSI (Il
Mulino, Bologna 1993), e la raccolta di
saggi COMUNITARISMO E LIBERALISMO, a
cura di Alessandro Ferrara (Editori Riuniti, Roma 1993), che annovera, tra gli
altri, contributi di Charles Lamarmore,
John Rawls, Ronald Dworkin, Michael
J. Sandel, Charles Taylor. Le considerazioni critiche di Taylor sul liberalismo sono da questi riprese e sviluppate
ne IL DISAGIO DELLA MODERNITÀ (trad. it. di
G. Ferrara degli Uberti, Laterza, RomaBari 1994) e in MULTICULTURALISMO: LA
POLITICA DEL RICONOSCIMENTO (trad. it. di G.
Rigamonti, Anabasi, Milano 1993).
Nicola Matteucci suddivide il suo studio in due parti: una prima parte, “Lessico”, in cui vengono esaminate nozioni,
come quelle di Stato, sovranità, costituzionalismo e opinione pubblica, che fanno parte integrante del concetto di liberalismo; una seconda, “Percorsi”, in cui
si tenta di definire la concezione attuale
dello Stato. Secondo Matteucci, la civiltà occidentale degli ultimi secoli ha considerato lo Stato come una forma di potere istituzionalizzato, su base giuridica,
che ha finito paradossalmente col trasformarsi nel “monopolio del politico”.
La società civile, osserva Matteucci, ha
ceduto i propri diritti naturali di governo
ad una sola classe, rappresentativa dello
Stato, ritirandosi in un ambito privato:
gli attuali cambiamenti di governo in
vari Stati occidentali sono espressione
del tentativo della società civile di rico31
stituire le proprie prerogative. L’avvento dei sindacati, per esempio, ha restituito a rappresentanze della società civile
poteri che sono appartenuti per secoli
allo Stato. Ciò che di fatto entra in crisi,
fa notare Matteucci, è il concetto fondamentale dello Stato, quello di sovranità.
Lo Stato perde quella capacità di essere
espressione di una volontà superiore,
delegata dai cittadini, i quali, tramite
organismi riconosciuti, lottano ora per
riappropriarsi di ciò che hanno delegato.
La questione del rapporto tra il concetto
di Stato e quello di liberalismo viene
affrontata in chiave storica da alcuni dei
saggi raccolti in Comunitarismo e liberalismo. Nel suo intervento Charles
Larmore rileva che dal XVI secolo in
poi il pensiero liberale ha sempre cercato soluzioni per limitare moralmente i
poteri del governo e far posto al proble-
TENDENZE E DIBATTITI
ma centrale della vita: definire le condizioni del “buon vivere”, cioè del modo
migliore per gli individui di perseguire la
felicità. Lo Stato, il cui compito è regolare
la vita dei cittadini, si trova così obbligato
a fare in modo che tra visioni diverse ne
prevalga una sola.
In virtù del principio di individualità e di
autonomia, Kant e Mill sono per Larmore
i principali oppositori all’obbligatorietà
dello Stato: l’individuo, centro del sistema
morale, deve poter dare un assenso contingente e non costitutivo a concezioni
sostanziali del “buon vivere”; deve, cioè,
trascendere i fatti storici mantenendo un
atteggiamento critico e distaccato dalle
circostanze empiriche, poiché l’esercizio della scelta è ciò che rende ogni
uomo un singolo irripetibile e totalmente autonomo.
Nell’attuale società, fa notare Larmore,
è tuttavia necessario che il liberalismo
fondi i propri presupposti sul principio
di neutralità dello Stato rispetto a concezioni diverse del “buon vivere”. Il liberalismo, in tal senso, non deve possedere
un ideale morale integrale per essere
considerato una dottrina politica valida.
I principi neutrali sono infatti quelli che
si possono assumere senza dover ricorrere alle singole concezioni di vita a cui
ogni aderente è vincolato. Larmore fonda il principio di neutralità su due norme: il dialogo razionale e l’uguale rispetto. Il dialogo razionale dovrebbe permettere a persone che discutono di vari
problemi di potersi sempre confrontare
su un terreno di principi comuni, che
consentano un accordo globale. Questa
norma, tuttavia, non sarebbe di per sé
sufficiente se non in virtù del principio per
cui tutti hanno diritto di essere rispettati in
modo paritario per quello che sono.
Di diverso avviso sono John Rawls e
Michael J. Sandel, per i quali ciò che
innanzitutto va salvaguardato è un’orizzonte di significato costituito da enti (gli
individui) significanti e il valore che
deve essere perseguito da Stato e cittadini è quello della giustizia e dell’equità.
Ogni cittadino deve operare scelte morali, guidato da un atteggiamento riflessivo e solidaristico; a sua volta lo Stato
deve garantire il bene di ogni singolo
cittadino. In questo Rawls e Sandel mostrano di assumere il principio kantiano
secondo il quale gli individui devono
essere trattati come fini e non come mezzi. In tal senso la politica deve far emergere e mettere al servizio dei singoli quei
principi morali che ha in sé. Da questo
punto di vista il liberalismo, secondo
Rawls e Sandel, tenderebbe invece a
trascurare i valori dell’integrazione e
della solidarietà, minando alla base il
senso di responsabilità sociale.
In posizione intermedia si situa Ronald
Dworkin, che propone un liberalismo
teso alla tolleranza e ai diritti politici dei
cittadini, in cui compito dello Stato è
quello di proteggere le capacità di tutti
gli individui senza interferire nelle scelte.
Sostenitore di concezione opposta al liberalismo è invece Charles Taylor, che ne Il
disagio della modernità considera questa
dottrina una grave minaccia per il riconoscimento delle particolarità culturali di
vari gruppi sociali. Lo Stato moderno, con
il suo principio di neutralità, non sembra in
grado di garantire un pari riconoscimento
etico e culturale a tutti gli individui. In
nome dell’etica dell’autenticità è necessario dunque, secondo Taylor, opporsi a un
sistema politico difensore dell’individualismo e del soggettivismo.
Ogni cittadino ha il diritto e il dovere di
essere fedele a se stesso, alla propria originalità, in modo da porsi in un confronto
aperto e costruttivo con chi è diverso.
Nella logica dell’autenticità la retorica della
differenza e del multiculturalismo occupa,
nella concezione di Taylor, un posto centrale, essendo l’unica che garantisce una
forte collaborazione dell’individuo con la
comunità politica.
In Multiculturalismo Taylor riprende questi concetti, rilevando come nello Stato
moderno e liberale, con il suo principio di
neutralità, sia impossibile garantire un pari
riconoscimento etico e culturale a modi di
vita sociale distanti e spesso in conflitto tra
loro, dato che per poter essere riconosciuti
pari tra loro gli individui devono spogliarsi di quelle caratteristiche che ne
fanno degli esseri unici e irripetibili. Ciò
non significa che per Taylor le attuali
società siano illiberali, ma solo che la
soluzione del problema non è da ricercarsi in un principio universale come
quello di neutralità.
Il riconoscimento politico di gruppi minoritari all’interno di una società è compito
specifico di ogni Stato che si consideri
effettivamente liberale e che come tale
persegua il fine di rendere tutti i cittadini
uguali tra loro e di fronte allo Stato medesimo per ciò che sono in loro stessi. Per
gruppi multietnici con culture particolari,
ciò significa innanzitutto preservarne le
caratteristiche culturali. Una soluzione a
questo problema, Taylor la trova nella
“politica del riconoscimento”, una forma
di azione che tenga conto di due principi
fondamentali: 1. gli esseri umani sono
individui unici, artefici di se stessi e creativi; 2. ogni essere umano è “portatore di
cultura”. L’identità umana si presenta dunque, per Taylor, come struttura essenzialmente dialogica, e il rispetto che in tal
senso lo Stato deve garantire a tutti i cittadini è di due tipi: 1. rispetto dell’identità
irripetibile di ogni individuo; 2. rispetto
delle particolarità e delle peculiarità culturali che lo rendono irripetibile, anche a
costo di proteggere diritti che non sono
fondamentali per la collettività, ma solo
per una minoranza. L.B./D.M.
32
Destra e sinistra
Nel suo recente studio: DESTRA E SINISTRA. RAGIONI E SIGNIFICATI DI UNA DISTINZIONE POLITICA (Donzelli Editore, Roma
1994), Norberto Bobbio ripercorre le
origini e le tappe storiche che hanno
portato al costituirsi di questa distinzione nelle democrazie occidentali. Di
poco precedente l’uscita di quest’opera di Bobbio è la pubblicazione di una
nuova rivista mensile di teoria e cultura politica, «RESET» (n. 1, dicembre 1993,
Donzelli Editore, Roma), che intende
porsi, «nell’attaccamento al principio
della libertà nella ricerca e a quello
della responsabilità individuale», come
luogo specifico di discussione, confronto e diffusione delle idee per un
rinnovamento della politica e della
società civile.
Secondo Norberto Bobbio destra e sinistra non sono solo due schieramenti ideologici, ma presuppongono uno specifico
modo di intendere il concetto di uguaglianza e di diseguaglianza da cui derivano posizioni, programmi, provvedimenti
circa il vivere sociale, culturale, economico del paese. Non si tratta pertanto di
aggrapparsi ad una verità piuttosto che ad
un’altra, sostiene Bobbio, bisogna invece
riconoscere la portata storica della destra e
della sinistra. In tal senso dobbiamo constatare che un certo tipo di destra e un certo
tipo di sinistra sono “morte”, restituite alla
storia da fatti inoppugnabili.
Nel suo saggio Bobbio si preoccupa principalmente di compiere un’analisi descrittiva e non valutativa della destra e della
sinistra. Muovendo dal presupposto che
tutti gli uomini sono uguali e disuguali allo
stesso tempo (è la logica degli opposti che
coabitano), secondo Bobbio la destra è
quella forza che tende ad accentuare la
natura diseguale degli individui, la sinistra
quella uguale. Rousseau e Nietzsche sono
in tal senso i testimoni per eccellenza di
una tale concezione. Rousseau muove dal
presupposto che gli uomini sono nati uguali, e che la società civile li abbia resi
diseguali; Nietzsche, al contrario, presuppone che gli uomini sono per natura diseguali e solo la società li ha resi uguali.
Laddove Rousseau vede diseguaglianze
artificiali da combattere, Nietzsche vede
un’uguaglianza artificiale e mira al recupero della diseguaglianza.
Egualitarismo e disegualitarismo, osserva
Bobbio, possono dar adito a interpretazioni tali da ribaltare valori o appropriarsi di
giudizi categorici, etichettando ora la destra, ora la sinistra in modo del tutto positivo o negativo. Un esempio significativo
può essere il fatto che la sinistra è stata
interpretata negativamente come “livellamento”, con tutte le conseguenze sociali
che esso comporta; così come alla destra è
stato attribuito il torto di concepire gli
uomini non come entità differenti, ma “di-
TENDENZE E DIBATTITI
seguali”, tanto da giustificare l’istituirsi di
un certo tipo di gerarchia parassitaria, a
scapito dei più deboli.
Di fatto, fa notare Bobbio, destra e sinistra
sono divenute depositarie di specifici valori, che si rivelano rappresentativi per
ciascuno dei due schieramenti nel confronto politico. Con la differenza, però,
che oggi non si parla più di destra e di
sinistra al singolare, ma di destre e di
sinistre, poiché la storia ci ha ormai consegnati ad un pluralismo e ad una vastità di
ispirazioni irreversibile. In questa situazione, afferma Bobbio, «la cultura italiana
deve riabituarsi al senso della distinzione,
alla passione analitica, e deve perdere,
invece, l’attitudine a firmar manifesti, a
scendere in campo anche quando gli oggetti da contendere sono controversi e i
dati a disposizione incerti». D.M.
Queste considerazioni di Bobbio trovano
uno spazio specifico di discussione e approfondimento teorico nei vari interventi
d’autore, dibattiti e documenti che compaiono sulla rivista «Reset». Liliana Bossi
ha rivolto alcune domande al suo fondatore e attuale direttore, Giancarlo Bosetti.
Direttore, ciò che a prima vista colpisce di
questa rivista è la presenza significativa di
noti studiosi, come Habermas, Bobbio,
Howe, che solitamente prediligono le riviste saggistiche. Qual’è lo scopo di questa
presenza? Intendete proporre una rivista
di formazione o vi siete accorti della necessità di soddisfare un’esigenza già presente nel lettore?
L’idea è piuttosto questa seconda alternativa, che non quella della formazione. Non
abbiamo un intenzione pedagogica. Questa rivista nasce proprio nella presunzione
che ci sia un mercato maturo, che richiede
un prodotto di questo genere. E’ una sorta
di sondaggio, di canottaggio, che abbiamo
voluto fare sul mercato italiano dell’editoria. Ci siamo detti: «Esiste oggi sul mercato italiano un periodico di cultura a larga
diffusione, cioè non esclusivamente in
ambito scientifico, come già avviene in
altri paesi?». La risposta è stata che in
Italia non esiste un periodico simile. In
Germania, Francia, America circolano settimanali, periodici di cultura ad alta diffusione, non solo riviste accademiche, di
comunità scientifiche. In Italia non ci
sono riviste di questo tipo, sebbene i
quotidiani facciano molta cultura ma
manca questa cosa. Il nostro tentativo è
di vedere se finalmente può nascere qualcosa del genere.
Come mensile, la rivista contiene elementi di rischio imprenditoriale molto
elevati. L’ambizione è che questo mensile si possa sviluppare; è un principio di
incendio, quello che vogliamo proporre.
Certo, è un dato di fatto significativo che
in Italia non ci siano imprenditori che
abbiamo creduto, o credano, in un’iniziativa del genere. Abbiamo dovuto far-
Jean Jacques Rousseau e Friedrich Nietzsche
cela da soli, come comunità di intellettuali: ci siamo creati uno spazio di iniziativa, attraverso una comune convinzione. Abbiamo versato ciascuno una
piccola quota di capitale attorno ad un
progetto, che io avevo elaborato nel corso di due anni. La rivista ha quindi innanzitutto un carattere imprenditoriale
di base; poi anche caratteristiche culturali e politiche comuni.
Quali sono gli aspetti politico-culturali
privilegiati nella rivista? Già nel primo
numero troviamo, ad esempio, un lungo
articolo su Pascal, subito dopo un dossier
sulla famiglia e i problemi causati dalla
separazione dei coniugi e, infine, un’intervista a Habermas. Qual’è il comune
denominatore cuturale che fonda una tale
proposta di contributi?
Quello che la rivista vuole mettere in
comune al gruppo di intellettuali che
l’hanno fondata, attorno al mio progetto,
è qualcosa che non corrisponde ad una
33
specifica tendenza culturale. In politica,
non è un partito; nel campo della filosofia del pensare sociale, non è una specifica tendenza. Quello che c’è in comune
è il riconoscersi nella sinistra. E questa
vuole essere una rivista di sinistra; le
persone che la compongono sono di sinistra, si sentono di sinistra, vogliono essere progressisti, ritengono che queste
parole abbiano un significato. Naturalmente si può essere di sinistra nei modi
più vari e con diverse gradazioni e varie
impronte politico-culturali. In questa rivista prevale l’impronta liberale, una
concezione della sinistra di carattere liberale, fortemente tollerante, e animata
da una grande curiosità e una grande
apertura mentale. Ci rivolgiamo pertanto a lettori che sappiamo animati dalla
stessa passione, e cioè la curiosità per le
idee più avanzate nella ricerca nei campi
del sociale, del pensare alla politica e
all’economia. E, soprattutto, del pensare
alla vita, altro elemento molto importante.
TENDENZE E DIBATTITI
Un altro aspetto che infatti colpisce in
questa rivista è il tentativo di accostare la
teoria alla prassi, alternando considerazioni puramente teoriche a esperienze concrete, documenti, cronache. In realtà, che
la teoria superi la prassi è un rischio
sempre presente. Per controllare questa
situazione, pensate di fondere questi due
elementi oppure di trattarli separatamente in dibattiti, che alternino queste due
possibili visioni del mondo?
La nostra ambizione è quella di fondere.
Non vogliamo fare della teoria fine a se
stessa e neanche della cronaca dei fatti
politici. La cronaca in sé c’è già, ci sono i
giornali; la pura teoria è inutile, è un esercizio accademico. Tutti noi, coinvolti in
questo progetto, siamo tuttavia fortemente
convinti che c’è bisogno di teoria dopo il
diluvio culturale della fine degli anni Ottanta. C’è un forte bisogno di riorganizzazione della idee, di ripartire, di ricominciare, mettendo in ordine le cime, come in
barca a vela dopo una tempesta, per poter
ripartire. E’ un bisogno di teoria fortemente connesso ai compiti pratici:. c’è una
forte curiosità teorica; c’è anche una forte
passione teorica, sempre collegata ai problemi pratici.
Dunque cercare di aiutare gli individui a
riflettere, prima di agire...
Altrimenti non si riesce ad agire. Come
si fa, ad esempio, a capire i processi di
cambiamento? La profondità dei cambiamenti che derivano dal modificarsi di
fattori economici, dalla fine della guerra
fredda o che derivano dal rigenerarsi,
dal rimescolarsi degli schieramenti politici è tale da determinare sconcerto. Non
è solo crisi di fiducia nei confronti del
vecchio sistema politico; è crisi della
capacità di comprendere. Si tratta, allora, di riorganizzare le idee: questo è il
compito che ci aspetta.
A questo proposito, pensate di approfondire determinati temi o di fare una rassegna dei molteplici ambiti problematici, in
cui si svolge l’attuale dibattito politicoculturale?
Pensiamo di fare entrambe le cose, in
maniera anche un po’ opportunistica, da
un punto di vista giornalistico e dottrinale. Pensiamo di approfittare della competenze degli autori e dei collaboratori
in rapporto ai temi che l’attualità ci proporrà nel tempo. Cercheremo, però, di
mantenere sempre ferma una certa attenzione ai problemi della vita quotidiana,
come il lavoro, la carriera, la donna, il
bambino, e ai momenti politici, economici e filosofici.
Venendo ora alla struttura editoriale della rivista, si notano, all’interno degli articoli, specifici riquadri, denominati “schede”. Il contenuto di queste schede ha un
carattere monografico, che denota un lavoro enciclopedico di redazione. Qual è la
scelta programmatica che sta alla base di
queste schede?
Servono a facilitare l’accesso al lettore,
affinché non trovi ostico l’inizio. Un difetto della riviste di cultura è proprio quello
di dare per scontata una quantità di presupposti. Ma il lettore non è un membro
di quella specifica comunità scientifica,
che viene chiamata in causa da ogni
singolo articolo, è un esterno. Noi desideriamo che l’ingresso sia facilitato,
cerchiamo di semplificare il più possibile la comprensione, magari andando agli
estremi, forzando...
Si tratta di fornire strumenti di comprensione e di formazione...
L’intenzione, ripeto, non è pedagogica;
è, invece, di mettere tutti in condizioni
di fruire di determinati contenuti, dando
al lettore quegli elementi affinché, qualunque sia il tipo di cultura che ha alle
spalle, possa accedere ai testi. Troppe
riviste, in passato, sono naufragate, o
non hanno raggiunto il loro obiettivo,
perché i loro contenuti apparivano troppo difficili o incomprensibili a chi non
era specialista.
Una considerazione, per concludere, sul
titolo della rivista, «Reset», che, in termini
informatici, corrisponde al pulsante che si
deve azionare quando si è in una situazione di stallo per ricominciare daccapo. Si
potrebbe interpretare questo titolo come
un gesto di rassegnazione: sembra quasi
che la supremazia della tecnologia sul
pensiero venga data in qualche modo per
scontata. Per una rivista che ha l’ambizione di proporre il pensiero come forma di
rigenerazione della vita umana non è un
titolo un po’ riduttivo?
No! É invece un titolo di grande ambizione. É un titolo presuntuoso. L’idea di ripartire, di ricominciare, di azzerare gli
strumenti è, semmai, una grande ambizione. Non è rassegnazione l’uso del linguaggio informatico, perché ormai appartiene
alla dimensione del lavoro quotidiano.
La razionalità dell’ermeneutica
L’annuario FILOSOFIA ‘92 (Laterza,
Roma-Bari 1993), curato da Gianni
Vattimo, affronta la questione della
praticabilità della razionalità ermeneutica dal punto di vista dell’alleggerimento dalla responsabilità. Se la
filosofia sia un sapere aperto o piuttosto un bagaglio di contenuti specialistici destinati a pochi è invece questo
il tema intorno al quale ruotano i saggi contenuti in FILOSOFIA ‘93 (Laterza,
Roma-Bari 1994), sempre a cura di
Gianni Vattimo e con interventi, tra
gli altri, di Maurizio Ferraris, Carlo
Augusto Viano, Vincenzo Vitiello.
34
Come rilevano Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris nell’ “Introduzione” a Filosofia ‘92 , tanto la prospettiva fondazionalista della metafisica, quanto quella “critica”, propria delle impostazioni di stampo
illuminista, offrono all’individuo procedure di risoluzione dei conflitti in termini
di “responsabilità”. Proprio questa categoria risulta messa in discussione nella
razionalità ermeneutica, a cui sarebbe da
ascrivere una sorta di “leggerezza”, una
levità che, a partire da Nietzsche, viene
contrapposta allo “spirito di gravità”, che
inerisce invece alla metafisica.
Una tale contrapposizione viene però messa in dubbio da Mario Ruggenini, proprio
a partire dal testo nietzscheano. La leggerezza costituirebbe, infatti, il sogno della
metafisica, il suo vagheggiare un «alleggerimento del pensiero, capace di portare
d’un balzo l’esistenza al di là di tutte le
pene». Da una parte occorre infatti, secondo Ruggenini, praticare la “fedeltà alla
terra”; occorre che la riflessione assuma su
di sé l’onere della propria condizione di
finitezza, approfondendola e radicalizzandola. Tale approfondimento, in quanto assunzione di un onere, non può che qualificarsi come “grave”, essendo radicato al
limite proprio e costitutivo dell’essere
dell’interrogante nel suo essere mortale.
D’altra parte, nella scoperta della necessità di questo radicamento, nell’accettazione di questo essere vincolati all’esperienza di un’alterità, la riflessione dà
prova di “leggerezza”, rivendicando la
gravità attraverso un atteggiamento che
Ruggenini definisce “ironia”.
La questione della pesantezza viene tematizzata da Vincenzo Vitiello, che rintraccia, nella pesantezza dell’eterno ritorno
dell’identico nietzscheano, il manifestarsi
di quella concezione della verità, già propria della prospettiva metafisica tradizionale, da Aristotele fino a Kant. Da un lato
il divenire, affermato nella sua necessità
da Aristotele, Kant, Hegel e dallo stesso
Heidegger, costituirebbe il tramite, annullato da Nietzsche, attraverso il quale si
ripropone l’identità. Dall’altro, proprio tale
necessità del divenire porterebbe nuovamente in primo piano, secondo Vitiello, il
“peso più grande” dell’identità, e Kant come Nietzsche, e come tutta la metafisicasi troverebbe in questo modo costretto a
ripercorrere i passi di Spinoza, dove la
libertà si appiattisce sulla necessità. Unico
punto di fuga, indicato da Nietzsche, unica
possibile liberazione dal peso della verità,
ovvero dalla necessità, risulta essere l’arte.
Aldo Masullo ricorda però che la modernità, assolutizzando il tempo, e non l’eternità, sposta il baricentro della riflessione
dalla nozione di necessità a quella di possibilità. Nella modernità, la categoria centrale della metafisica «registra la crisi della “ragione necessaria”, e comincia a pensare la “possibilità” non come, da sempre,
già depurata di ogni “contingenza”». In
altri termini, il mondo diventa il prodotto
TENDENZE E DIBATTITI
di legami che sussistono in forza di una
necessità di fatto, e non di una necessità
logica. Al fondo di questo processo, osserva Masullo, ciò che dilegua è la possibilità stessa del nesso causale tra passato, presente e futuro; resta solo la dimensione del presente, ovvero dell’istantaneità. D’altro canto, l’assolutizzazione della contingenza porta con sé la possibilità della libertà, che si manifesta,
secondo Masullo, come coniugarsi del
principio-speranza e di quello di responsabilità; si manifesta cioè come “grazia”, che chiama ciascuno alla responsabilità verso la propria speranza.
Nel destino dell’opera d’arte nell’epoca
contemporanea Gianni Carchia individua il paradigma della “perdita del mondo”, ovvero della responsabilità dell’azione nel suo radicarsi nel mondo.
Ciò è dovuto, secondo Carchia, alla contrazione dell’autonomia dello spirituale,
ossia al restringersi della funzione mediatrice dello spirito nei confronti dell’istanza della “socialità”, che tende a
imporsi come omnipervasiva. In tal modo
vien meno la dimensione dell’extravitale, dell’irriducibile all’esistente, che rappresenta invece l’essenza dell’opera d’arte, in quanto concrezione obiettivata dello
spirito, trascendente nei confronti della
dimensione dell’utilizzabilità, propria
degli enti intramondani.
Secondo Jean Francois Lyotard, nella
società contemporanea il modus aestheticus del pensiero è espressione del nuovo
oggetto verso il quale, caduta l’oggettività
degli ideali, si indirizza la riflessione, ovvero il modo di rappresentare gli ideali
medesimi. Sulla strada aperta da Kant,
Lyotard rileva come l’estetica filosofica
tenda a vedere nel modo di una “spontanea
disposizione”, in cui l’anima è affetta
dal sensibile, «il segno di un accordo
originario del pensiero con il mondo».
Nell’unità estetica, la modernità sottolinea non l’aspetto conciliativo, bensì la
possibilità di salvazione del nichilismo
dal nulla di senso.
La “perdita di fondamento”, cui fa riferimento Aldo Giorgio Gargani, rappresenta, infatti, proprio ciò a cui potrebbe far
fronte, dopo averla provocata, lo sguardo
della filosofia, nel suo rendere trascendentale l’azione, distinguendo in essa intenzione, soggetto e risultato, e ponendo il
valore dell’azione nel soddisfacimento dell’intenzione da parte del risultato. Questa
corrispondenza rinvia a quella tra verità e
significato, in quanto entrambe si fondano
sul fatto che l’intenzione, che guida l’azione, si conformi a strutture assiologiche
preesistenti all’estrinsecarsi dell’azione
medesima, si conformi cioè ai “fondamenti” dell’azione. Per questa via si giunge,
però, alla nullificazione del significato,
cioè all’insensatezza del rapporto intenzionale, che può essere ricostruito solo a
partire da un’analisi, qual è quella filosofica, che metta radicalmente in que-
stione la “naturalità” della trascendentalizzazione dell’azione.
Questa analisi risulta contrapposta alla ricerca del “proprio”, dell’ “autentico”, che
Jacques Derrida pone alla base della lettura della finitezza, sottesa in Heidegger
dalla categoria dell’ “essere per la morte”.
A questo proposito, Derrida rileva un’aporia: l’esperienza “più propriamente autentica” del Dasein, ciò che lo fa giungere alla
sua verità, ovvero la morte, è la possibilità
di un poter non esserci più come Dasein,
ma non l’impossibilità di un potere. In altri
termini, la possibilità più propria del Dasein si rivela come la più impropria, la più
espropriante. Scopo dichiarato di Derrida
consiste qui nel mostrare che proprio «questa dimensione fondamentalista non può
sostenersi, né tantomeno può aspirare a una
qualche coerenza o specificità rigorosa», e
corre il rischio della “ricaduta” in una prospettiva bio-antropo-tanato-teologica.
Se la critica di Derrida al “fondazionalismo” heideggeriano intende comunque
esercitarsi a partire dal terreno della filosofia, Gianni Vattimo si chiede allora che
tipo di argomentazione sia quella di
Derrida, dal momento che alla logica argomentativa di quest’ultimo è stato spesso
contestato il fatto di non fornire “ragioni”.
Vattimo rileva, anzitutto, che il diritto alla
filosofia, rivendicato da Derrida, non è
naturale, ma si pone sempre all’interno di
una tradizione, condividendo in questo la
prospettiva propria dell’ermeneutica. Tuttavia, il punto di vista decostruzionista,
osserva Vattimo, non tiene fede all’intento
ermeneutico, concependo infatti l’esercizio filosofico in modo “estetico”, laddove
identifica il diritto alla filosofia come il
diritto, da parte di un soggetto (“creatore”
o “poeta”), a esprimersi «in una Weltanschauung il cui valore sarebbe garantito
dal fatto di costituire un nuovo sistema di
metafore per descrivere il (suo) mondo».
Si torna con ciò alla questione del soggetto, ripresa da Jacques Rolland, che nei
testi di Kafka rintraccia un soggetto “sfinito”, “diminuito”, ridotto fino alla scomparsa del nome e al suo tradursi in sigla
anagrafica, espressione di quella passività
con cui il soggetto, nella scomparsa, persiste come traccia. La questione della posizione del soggetto diventa dunque, nel
saggio di Rolland, la «“messa in questione” della soggettività; allo stesso tempo, la
sua messa in gioco e la sua rimessa in
causa». Al di là di Kafka, Rolland guarda
a Blanchot e, soprattutto, a Levinas, che
pone la questione dell’Io in vista dell’uomo, e in questo si qualifica, secondo Rolland, come pensatore del “legame” che
«nell’umano annoda l’altro all’uno».
Alla questione del soggetto Pier Aldo
Rovatti si avvicina invece con l’intento di
delineare un’ “etica del linguaggio”, dove
con “etica” Rovatti intende la “responsabilità” dell’assumere l’esperienza umana
come luogo della contraddizione in atto. Il
riferimento, tanto improprio, quanto ine35
vitabile, del termine “etica” al luogo di un
problematico abitare intende qui indicare,
in una prospettiva topologica, un possibile
“oltre” della metafisica. La questione del
soggetto riceve con ciò un proprio programma comportamentale, l’indicazione
di una Haltung (un ethos, appunto), nella
formula che Rovatti definisce come “abitare la distanza”. Ovvero, dimorare in quello scarto che, nell’inevitabile sdoppiamento
dell’io in un soggetto costituentesi come
scisso tra sé e se medesimo, consiste in un
esercizio essenzialmente di parola.
Uno degli aspetti che fin dalle origini hanno caratterizzato la filosofia è stato il suo
continuo oscillare tra la pretesa di universalità dei suoi contenuti e l’esigenza di
specializzazione di un pubblico ristretto. Il
problema dell’universalità della filosofia
è al centro degli interventi raccolti in Filosofia ‘93, in cui emergono in particolare
due questioni principali. Per quanto riguarda i contenuti è noto che la filosofia
intende occuparsi della vita, sia nella sua
totalità, sia nei suoi aspetti particolari e,
per questo, specialistici. Diverso è il problema della filosofia per ciò che ne concerne l’utenza: la filosofia è un sapere essoterico, ovvero aperto a tutti, o rappresenta,
piuttosto, un serbatoio di contenuti esoterici, destinati a pochi privilegiati?
In qualità di difensore dell’esoterismo della filosofia, Carlo Augusto Viano, nel
suo saggio Scrittura e pubblico dei filosofi, dimostra che le pretese di universalismo
del sapere filosofico, sorte con il pensiero
platonico, crollano quando il soggetto trascendentale kantiano si distacca dal soggetto empirico e comincia a rappresentare
la realtà in modo innaturale. Secondo Viano, la rivoluzione copernicana attuata da
Kant riduce lo spettro universalistico teorizzato da Platone e apre un piccolo squarcio caratterizzato dal rigore scientifico e,
per questo, non più universale. L’esoterismo filosofico viene in seguito rafforzato
dal pensiero di Heidegger e Wittgenstein,
che affrontano la parzialità del lógos filosofico, in grado di cogliere esclusivamente la cosalità dell’essere.
Cosa resta, allora, alla filosofia? Secondo
Viano, che dimostra la sua tesi attraverso
una storia di eventi filosofici, resta soltanto, appunto, una storia della filosofia, un
sapere specialistico che, toccando solo particolari tematiche, è riservato ad un pubblico di tecnici, che posseggono gli strumenti per comprenderlo.
Di parere opposto è Maurizio Ferraris,
che nel suo Kant e il problema della pubblicità difende l’essoterismo della filosofia. Il noto scritto kantiano, Risposta alla
domanda: Che cos’è l’Illuminismo, mostra chiaramente, secondo Ferraris, che
per Kant la filosofia costituisce quel procedimento razionale in grado di universalizzare il sapere e di costituire un valido
aiuto per il cosmopolitismo. La pubblicità
diventa, così, l’esigenza primaria della filosofia, che attraverso il suo procedere
TENDENZE E DIBATTITI
discorsivo pone come dover essere la fratellanza universale. D’altra parte, osserva
inoltre Ferraris, l’idea di noumeno più che
costituire un limite all’universalismo kantiano, ne rappresenta un punto di forza. La
separazione dell’intelletto dalla ragione e
della scienza dalla metafisica forniscono,
infatti, a Kant la possibilità di identificare
realmente la filosofia con un sapere universale ben delimitato nei propri confini e
di evitare la coincidenza dei propri contenuti con quel sapere entusiastico e totale
che in Platone aveva già incontrato le
contraddizioni descritte in apertura.
Una mediazione tra queste posizioni è
quella proposta da Gianni Vattimo nel
suo intervento: Il paradigma e l’arcano.
Convinto assertore dell’universalità della
filosofia, Vattimo afferma la necessità,
per il pensiero filosofico, di fornire quelle
interpretazioni unitarie dell’esistenza che
la rendono praticabile. La filosofia, infatti,
offre quelle visioni complessive dell’esperienza che permettono di oltrepassare gli
specialismi e di dare un senso, seppur
fedele alla “debolezza” del pensiero, alla
vita. L’analisi di Vattimo, che dunque propende per un essoterismo “debole” della
filosofia, prende le mosse dall’ambiguo
atteggiamento nietzscheano di fronte alla
filosofia. Pur affermando l’esigenza del
ridere della cosa in sé, e quindi contestando quegli aspetti esoterici della filosofia
kantiana, Nietzsche considera il pensiero
filosofico come privilegio di una casta
sacerdotale. L’Oltreuomo è in tal senso
quell’essere in grado di superare il livello
medio della comunicabilità per raggiungere un nuovo tipo di verità. E` questo,
secondo Vattimo, anche il messaggio di
Heidegger, che intende ripensare l’essere
al di là della sua semplice presenza.
L’epoca della metafisica cosalizzante, culminata nel momento della tecnica, ha ridotto a comunicazione di massa la pretesa
universalistica della filosofia: l’oltrepassamento di questo tipo di filosofia comporta, secondo Vattimo, l’uscita dall’omologazione e il raggiungimento della libertà. In questo modo una concezione diminutiva dell’essere, in grado di sopportare
la fine del “fondamento” senza provare
smarrimento, riesce a cogliere quella tensione verso il limite e il segreto, che costituisce l’esistenza fattuale della filosofia.
In altre parole, la tesi di Vattimo capovolge i termini della questione: la tendenza
all’essoterico universalizzante corrisponde ad una sorta di omologazione e livellamento conclusosi, ormai, con la fine della
metafisica. Il suo oltrepassamento, comunque, non costituisce l’arcano e il mistero:
nonostante resti sempre quel quid di indicibile che il pensiero, per i suoi limiti
costituitivi, non riesce a cogliere; ciò non
comporta una supremazia dell’esoterico,
quanto una concezione della filosofia ridimensionata nei suoi limiti e comunque in
grado di cogliere, debolmente, il senso
complessivo dell’esistenza. M.Ce./A.S.
La lanterna magica
dello storico
In occasione del centenario della pubblicazione dello scritto di Benedetto
Croce, LA STORIA RIDOTTA SOTTO IL CONCETTO GENERALE DELL’ ARTE, cento lettori
messinesi del filosofo hanno voluto
dare alle stampe, a cura di Giuseppe
Gembillo, una “riproduzione” di questa celebre “Memoria” crociana del
1893, che è stata presentata il 17 gennaio 1994 da Girolamo Cotroneo nell’Aula Magna dell’Università di Messina. Con l’intento di offrire uno spunto ulteriore alla rilettura di testi spesso citati, ma forse non altrettanto
adeguatamente conosciuti, la “Memoria” crociana, LA STORIA RIDOTTA SOT TO IL CONCETTO GENERALE DELL ’ARTE , accompagnata dalla prima parte dello
scritto di Pasquale Villari, che ne fornì
lo spunto polemico: LA STORIA È UNA
SCIENZA? (1891), è stata oggetto di un’altra riedizione dal titolo: CONTROVERSIE
SULLA STORIA. 1891-1893 (Edizioni Unicopli, Milano 1993), a cura di Renata
Viti Cavaliere, che ha inteso richiamare l’attualità dell’idea crociana di narrazione storica, con riferimento agli
esiti più recenti del dibattito sulla epistemologia delle scienze storiche.
Cento anni fa, nel 1893, appariva La storia
ridotta sotto il concetto generale dell’arte,
la celebre “Memoria” con la quale Benedetto Croce, abbandonando i suoi precedenti lavori di natura storica e filologica e
collocandosi sul terreno della riflessione,
si presentava per la prima volta in veste di
pensatore. Come ha precisato Giuseppe
Gembillo nel corso della presentazione
all’Università di Messina della riedizione
messinese dell’opera, questo breve scritto
rappresenta un evento degno di nota, perché in esso compaiono, sebbene in nuce e
non ancora ben delineati, i motivi centrali
della speculazione crociana, e anche perché con quel lavoro il giovanissimo pensatore, allora solo ventisettenne, si inseriva
nel vivo del dibattito filosofico europeo.
Proprio a collocare l’opera giovanile di
Croce nel panorama delle correnti del pensiero europeo ha mirato l’intervento di
Girolamo Cotroneo. Inserendo lo scritto
nel contesto della polemica antipositivistica di fine secolo e accostandolo alla
riflessione dei più significativi esponenti
contemporanei dello storicismo tedesco,
Cotroneo ha evidenziato come l’esordiente pensatore si incamminasse decisamente
su una delle strade maestre della filosofia
contemporanea. Croce non aveva ancora
chiara nozione del movimento di rifiuto
della cultura positivista, e rimaneva per
certi versi all’interno di quest’ultima, continuando ad assegnare alla scienza il ruolo
di unica conoscenza universalizzante e
concettuale. Eppure, scegliendo di occuparsi della storia, e riducendola all’arte,
36
Croce impostava in maniera personale e
innovativa il problema del rapporto tra
ragione scientifica e ragione filosofica,
che diverrà il nodo della filosofia del
Novecento.
Accingendosi alla composizione dell’opera, Croce era mosso dall’esigenza di chiarire la natura degli studi storici; scienza,
arte e storia divennero così per la prima
volta oggetto di riflessione sistematica di
Croce, che già in quest’opera lasciava intravedere come la qualificazione, per la
scienza, di conoscenza astraente e generalizzante, anche se non ancora connotata
negativamente, preludesse già al giudizio
della Logica; mentre la definizione dell’arte come “rappresentazione della realtà” e della forma estetica quale “proiezione del contenuto” fossero una chiara anticipazione delle sistemazioni più tarde. Nel
contesto dell’opera, infatti, la storia, che
Croce definisce «narrazione di ciò che è
accaduto», esula dal piano dell’indagine
scientifica e occupandosi dell’evento concreto e particolare lo ricostruisce tale e
quale si è verificato, delineandolo nella
sua irripetibile singolarità. Questa caratteristica peculiare del discorso storico, se
induceva Croce a separarlo nettamente
dalla scienza, non per questo ne comprometteva la specificità e il rigore.
Come ha sottolineato Cotroneo, il tentativo crociano di differenziare la conoscenza
storica dal pensiero scientifico, riservandole un ambito connotato dalle caratteristiche di extramondanità e originalità proprie dell’arte, ma contemporaneamente
valido e rigoroso nel perseguire il suo
scopo di ricostruzione fedele degli eventi
passati, indica che Croce sceglieva un indirizzo di pensiero che sarebbe stato proprio di buona parte della filosofia del nostro secolo: basti pensare allo Husserl della Krisis, al Gadamer di Verità e metodo,
fino ad arrivare a Perelman e Feyerabend.
Proponendosi quale assertore di una razionalità duttile e aperta e rivendicando al
pensiero un suo spazio e un suo proprio
metodo, indipendente dalle pretese naturalistiche dello scientismo, Croce rappresenta, ha aggiunto Gembillo, uno dei “punti
di svolta” della cultura europea nel momento del superamento del positivismo di
fine secolo; da questo punto di vista Croce
può essere considerato l’iniziatore dell’estetica come scienza filosofica non solo
autonoma, ma anche “fondante”. Coerente con questa precoce intuizione, Croce ne
approfondirà in seguito il significato,
riservando all’ “espressione” e al linguaggio il ruolo di elemento basilare del
momento teoretico dello spirito, secondo quella tendenza, tipica della filosofia
del Novecento, a fare della riflessione
sul linguaggio il punto di partenza della
speculazione.
Letta il 5 marzo 1893 all’Accademia Pontaniana di Napoli, La storia ridotta sotto il
concetto generale dell’arte conserva, ad
un secolo di distanza, tutto il fascino e la
TENDENZE E DIBATTITI
Benedetto Croce. Frontespizio del primo numero della rivista “La critica”
freschezza dell’esordio filosofico di Croce. E’ lo stesso Croce a descrivere, in una
celebre intervista rilasciata a Luigi Ambrosini e pubblicata sul “Marzocco” nel
1908 (nella redazione finale dello stesso
Ambrosini e di Renato Serra), il clima di
autentico fervore filosofico in cui maturò
quello scritto: «Mi giunse l’eco di una
grossa questione, vivacemente dibattuta.
Era mossa dal Villari: se la storia fosse arte
o scienza. Io allora non potevo credere se
non che la storia fosse scienza, e preparai
una memoria per dimostrare che la storia è
scienza. Lo scritto era già composto per la
stampa, e io continuamente ci ripensavo
sopra. Di giorno in giorno me ne sentivo
meno soddisfatto, finché all’improvviso
mi scoppiò nella mente la soluzione nuova
del problema, in un lampo di luce. Non
avevo capito niente! La storia non può
essere scienza, ma deve essere arte; perché
la scienza è dell’astratto, e la storia è, come
l’arte, del concreto: individualista. La storia differisce dall’arte, solo in quanto l’arte rappresenta il possibile, la storia il reale.
Corsi in tipografia. Scomponete! Era tutto
il mio passato che scomponevo. Ma, per
edificare, nulla è più necessario che distruggere. Per vedere nuove cose bisogna
volgersi da un’altra parte.»
Rileggendo quelle antiche pagine di Croce, viene spontaneo constatare come sia
ancora lontana la prospettiva metafisica
della posteriore “filosofia dello spirito”;
mentre tuttora viva e presente, nel gusto
tutto herbartiano per le nitide distinzioni
concettuali, appare la lezione di Antonio Labriola. Altrettanto evidente, nel
modo stesso di impostare i problemi e di
argomentare, appare l’eredità che il secolo XIX - secolo “storico” per eccellenza - ha lasciato sul giovane filosofo ed
erudito napoletano, anche per la mediazione di quel filone umanistico-storiografico del positivismo italiano, che ebbe
in Pasquale Villari uno dei suoi più
eminenti rappresentanti.
«Innanzi a un obietto qualsiasi - a un
personaggio, a un’azione, a un avvenimento - lo spirito umano non può compiere se non due operazioni diverse. Può domandarsi: che cosa è?, e può raffigurarsi
quell’oggetto nella sua apparizione concreta. Può volere “intenderlo”, o semplicemente “vederlo”». In queste parole di
Croce, tratte da Controversie sulla storia.
1891-1893, il “vedere” (che nelle edizioni
successive della Memoria verrà sostituito
da un “contemplare”) evoca in maniera
diretta le pagine del saggio di Villari, là
dove l’autore intesse, intorno alla figura di
Augustin Thierry, un commosso elogio
del secolo “storico” e delle sue idealità
etiche e scientifiche. Vi è qualcosa di paradossale e di grandioso nella situazione del
ricercatore, che si dedica con tanto accanimento alle proprie ricerche di archivio, da
perdere completamente la vista, proprio
37
nel momento in cui si accinge a mettere per
iscritto la sua narrazione. La professione
di fede scientifica di questo grande studioso, che è divenuto cieco al solo scopo di
restituire agli altri una più compiuta capacità di “visione”, e che scrive: «se dovessi
ricominciare la mia strada, ripiglierei quella
che m’ha condotto dove sono», diventa il
simbolo dell’eroismo dell’intrapresa storica, a descrivere la quale Villari non trova
metafora più appropriata di quella “ottica”
della lanterna magica: «Quando noi mostriamo al fanciullo la lanterna magica, ed
avviciniamo al muro la lente, esso non vi
vede che un piccolo punto di luce bianca,
uniforme. Allontaniamo a poco a poco la
lente, e quel punto di luce s’allarga sempre
più in un cerchio, che si decompone, svolgendo dal suo seno una moltitudine di
fantastiche figure, in attitudini diverse e
diversissimi colori. Tutte quelle figure erano in germe contenute in quel punto di luce
bianca. Se infatti noi torniamo ad avvicinare la lente, il cerchio si restringe, le
figure scompaiono, e riapparisce di nuovo
il piccolo punto di luce uniforme. Immaginiamo un istante che esso sia un essere
vivente, cosciente. Fino a che resta in tale
stato, non potrà avere coscienza della svariata ricchezza di forme e colori nascosta
nel proprio seno. Ma quando noi allontaniamo la lente, esso allora se ne dovrà
avvedere. Qualche cosa di simile avviene
con lo studio della storia. Il poeta ci rivela
TENDENZE E DIBATTITI
i molteplici elementi ideali della nostra
natura, lo storico ci rivela invece tutti gli
elementi reali, coi quali il nostro spirito
s’è veramente, attraverso i secoli, andato formando.»
Se per Villari la distinzione tra “reale” e
“ideale” è sufficiente a discriminare fra
loro scienza e arte, storia e poesia, e a
fondare la prima come la “vera scienza
dello spirito umano”, Croce - che si vanterà di non essere mai stato positivista o
“sensista” - non può accettare un mero
criterio fattuale, senza preliminarmente
sottoporre i “fatti” (siano essi di natura
psicologica, o altra) a una elaborazione
concettuale e formale che li renda “espressivi”, o, con termine schilleriano, “parlanti”: «O si fa della “scienza”, dunque, o si fa
dell’ “arte”. Sempre che si assume il particolare sotto il generale, si fa della scienza;
sempre che si rappresenta il particolare
come tale, si fa dell’arte.»
Stabilita la natura non concettuale, e pertanto artistica, della storia, si tratta di fissarne la differenza rispetto alle forme della
rappresentazione artistica in senso stretto.
Escluso che una differenza si possa trovare dal lato del “modo” della rappresentazione, giacché la narrazione storica in quanto tale non forma un genere, ma può rientrare in generi diversi, Croce (seguendo le
suggestioni dell’estetica dell’ “idealismo
concreto” di Hegel e De Sanctis) la cerca
dal lato del “contenuto” rappresentativo e
la rintraccia nella categoria dell’ “interessante”: «La storia, rispetto alle altre produzioni dell’arte, si occupa dello “storicamente interessante”; ossia non di ciò che è
possibile, ma di ciò che è “realmente accaduto”». Ritorna, dunque, l’elemento fattuale, o di contenuto, ma ritorna entro una
cornice formale, di finalità narrativa, che
ne muta radicalmente il significato.
Ma che cosa comporta una autentica “narrazione” storica, e quale rapporto essa instaura con il lavoro più positivo della critica, dell’indagine, dell’interpretazione o
comprensione storica, che Croce deve relegare nel ruolo di semplice lavoro preparatorio? «Prima condizione per avere storia vera (e quindi opera d’arte), è che sia
possibile costruire una narrazione. Ma costruire una narrazione compiuta è cosa che
capita di rado; e perciò la definizione che
abbiam dato della storia, rappresenta un
ideale, che ben di rado riesce allo storico di
raggiungere. Nella maggior parte dei casi,
non si possono offrire se non degli studi
preparatori, o un’esposizione frammentaria, continuamente turbata da discussioni e
da dubbi e da riserve. Si possono mostrare
molte “pagine” di storia perfetta; ma poche, e forse nessuna opera ampia, di vera
storia.» La conclusione del saggio è dunque alquanto paradossale: più di quanto la
maggioranza degli studiosi di Croce, sia
mai stata disposta ad ammettere. Nello
stesso momento in cui perviene a definire
concettualmente lo statuto epistemologico della storia (ridotta appunto, come si
dice in conclusione, “sotto il concetto generale dell’arte”), Croce è indotto a concludere che forse di “vere” opere storiche
non ne esiste nemmeno una, avvicinandosi pericolosamente alle tesi dello “scetticismo” storico di quel Schopenhauer, il cui
nome ricorre più d’una volta in questa
“Memoria”. Certo si tratta solo, per Croce,
di una tentazione, che non ne infirma la
generale fiducia in quel tipo di intrapresa,
che egli condivide con il secolo “storico”.
A ben vedere, anzi, il dubbio sull’esistenza di autentiche opere di storia discende da
quello stesso ideale di alta disciplina scientifica e umanistica, che egli condivide in
fondo con Villari e il suo storicismo positivistico. A.V./R.F.
Realtà virtuale
Il concetto di “realtà virtuale” si può
esplicitare se si chiarisce il significato
di “reale” e “virtuale”. Nel suo MONDI
VIRTUALI (Bollati Boringhieri, Torino
1993), Benjamin Woolley spiega in tal
senso come il concetto di “realtà” sia
definibile in rapporto a quello di misurabilità; mentre quello di “virtualità” dipenda fondamentalmente da
operazioni di calcolo. La matematica
si presenta quindi come collegamento essenziale tra “reale” e “virtuale”.
Questi argomenti ricorrono anche
nella nuova rivista «VIRTUAL» (periodico mensile, Edizioni Wilson, n. 3, novembre 1993), che intende proporre
la realtà virtuale sia come strumento
tecnologico, sia come spunto per una
riflessione filosofica.
Che cos’è in fondo la “realtà virtuale” se
non un bellissimo ossimoro? E` questa la
definizione che Benjamin Woolley attribuisce a questo concetto. I due termini,
“reale” e “virtuale”, sono infatti apparentemente contraddittori tra loro: ciò che è
reale non può essere virtuale, e viceversa.
Woolley mostra tuttavia come sia possibile superare la contraddizione attraverso
quei nodi che collegano il concetto di
realtà virtuale alle categorie fondamentali
della filosofia. Il conflitto tra idealismo e
realismo, ovvero il problema dell’autonomia ontologica della realtà dall’io; il contrasto tra empirismo e razionalismo, ovvero il problema della conoscibilità della
realtà stessa, sono argomenti che sono già
compresi nelle questioni concernenti la
realtà virtuale.
Il senso comune intende come reale tutto
ciò che è provvisto di materialità: è reale
tutto ciò che esiste materialmente, indipendentemente dall’osservatore. Già
Tomàs Maldonado, nel suo Reale e virtuale (Feltrinelli, Milano 1992), aveva
messo in guardia da una concezione del
genere. Se la meccanica classica dipende
38
da un asserto di questo tipo, lo stesso non
si può dire della meccanica quantistica:
le particelle subatomiche dipendono in
tutto e per tutto dal sistema di osservazione e non possono essere determinate
in modo autonomo. Inoltre, il principio
di indeterminazione di Heisenberg ha
stabilito l’assurdità dell’indipendenza
ontologica della materia.
Ma se il carattere distintivo della realtà
non può più individuarsi nel suo essere
“cosa in sé”, che cosa rende “reale” un
evento? La risposta di Woolley si colloca
nella matematizzazione dello spazio di
Cartesio. In fondo la res extensa è garantita nella sua esistenza e validità dalla
matematica: un corpo esiste non in quanto
percepibile, ma in quanto misurabile. Per
la meccanica quantistica la strada intrapresa è la stessa: un evento atomico è reale
quando entra in gioco il resto del mondo,
quando, cioè, è misurabile. La misurabilità è dunque ciò che collega i due tipi di
realtà; e la matematica, privata dai residui
empirici, diventa la garanzia assoluta dell’esistenza della realtà, sia nella fisica classica sia in quella relativistica.
Per quanto riguarda il termine “virtuale”,
Woolley richiama la simulazione di un
ambiente reale come viene percepito da un
utente fornito di un’apposita apparecchiatura elettronica che sostituisce i suoi dati
sensoriali. La percezione dell’utente simula qui una realtà ontologicamente inconsistente. Queste applicazioni di realtà
virtuale, la cui prima apparecchiatura risale al 1968, con Ivan Sutherland e la sua
Spada di Damocle, spaziano dalla medicina all’ingegneria civile e meccanica. Queste diverse applicazioni, ricorda Woolley,
rischiano tuttavia di farci dimenticare l’essenza della realtà virtuale stessa e cioè la
capacità di calcolo: le simulazioni sempre
più “reali” della tecnologia virtuale dipendono sempre e comunque da operazioni
informatiche di calcolo. Il linguaggio matematico è di fatto ciò che rende reale la
virtualità, per cui, secondo Woolley, l’unica strada per “rendere reali” gli spazi virtuali della tecnologia informatica è quella
di riportarli alla loro matrice originaria e
cioè al calcolo matematico.
Ma se, come abbiamo osservato in precedenza, la “realtà” propriamente detta è
garantita dalla misurabilità e se il “virtuale” non è altro che il prodotto di un calcolo
matematico, cosa separa ancora il reale dal
virtuale? Se è vero, come diceva Galileo,
che il libro della natura è scritto in simboli
matematici, il calcolo diventa lo strumento necessario sia per la descrizione dell’universo sia per la simulazione dell’universo stesso. La realtà, allora, reale o virtuale che sia, non è altro che il prodotto di
un calcolo matematico. Reale e virtuale
non costituiscono allora alcuna contraddizione: realizzano due modalità diverse della
stessa struttura. A.S.
TENDENZE E DIBATTITI
Primo piano:
filosofia e computer
Alle soglie
della terza rivoluzione digitale
Dopo una prima fase pionieristica, in
cui solo alcuni scienziati erano ammessi a lavorare in batch (differita) su
pochi grandi computer main frame
mediante schede perforate, gli anni
Ottanta hanno visto la diffusione del
PC di massa. Alla fine del 1993 ne
esistevano 176 milioni, per una potenziale domanda mondiale pari a 700
milioni. Durante questa seconda fase,
la rapida evoluzione delle macchine a
nostra disposizione ci ha portato a
parlare di generazioni di computer
sulla base della loro struttura hardware. Oggi, dopo quasi mezzo secolo
di progressi, l’informatica ci suggerisce una nuova scala cronologica. Si
parla ormai di “terza età” dell’informatica, una fase evolutiva caratterizzata dall’avvento dei network, delle
banche dati, dei CD-roms e delle applicazioni multimediali. L’apertura di
queste nuove prospettive ha riacceso
l’interesse per la IT (Information Technology), creando una nuova situazione di richiesta di competenze nel
mondo degli utenti.
Negli ultimi cinque numeri di «Informazione Filosofica» abbiamo cercato di aggiornare la mappa degli strumenti oggi
disponibili, anche nel tentativo di comprendere alcune delle trasformazioni che
questo veloce avvicendarsi di generazioni
di macchine ed età informatiche hanno
comportato nel campo delle discipline filosofiche. Giunti al termine di questa panoramica, ci sembra opportuno ritornare
brevemente su cinque questioni generali.
“La rivoluzione binaria”. Alla radice delle
recenti trasformazioni nel mondo dell’informatica e delle sue applicazioni alle discipline umanistiche vi è il passaggio dal
modello analogico a quello digitale della
codifica dei dati, unitamente alla possibilità di manipolare stringhe binarie alla
velocità della luce sulla base di prestabiliti
algoritmi. La binarizzazione del mondo
delle idee ha infatti rappresentato la vera
rivoluzione tecnologica, dopo l’avvento
delle macchine. L’informatica è l’unica
tra le tecnologie sorelle (telegrafo, telefono, televisione...) ad aver trasformato in
modo radicale la natura stessa dell’oggetto, per poter esercitare su di esso il proprio
potere gestionale. Si deve risalire a Guttenberg per rinvenire nel mondo del sapere
una trasformazione tecnologica tanto influente e radicale quanto quella dell’avvento dell’informatica.
“La crescita”. Il grande sviluppo che ha
avuto l’informatica fino alla fine degli
anni Ottanta - reso possibile dalla binarizazione del sapere - deve essere collegato
sia alla crescita smisurata del sapere umano, sia al rapporto tra tecnologie dell’energia e tecnologie dell’informazione, entrambe volte al risparmio del tempo. L’impiego massiccio e continuativo di tecnologie energetiche “salvatempo” produce una
sempre maggiore capitalizzazione di tempo. Ad un certo punto la quantità di ricchezza di tempo accumulato rende la società così complessa, e le tecnologie energetiche salvatempo diventano così raffinate, che la possibilità stessa di continuare
a liberare tempo finisce per dipendere dalle tecnologie dedicate alla gestione dell’informazione, la linfa vitale del sistema.
Quando la gestione delle informazioni diventa tanto essenziale quanto la produzione di energia, il sistema è maturo per
passare dal modello industriale a quello
del terziario avanzato. Il sopraggiungere
del computer negli anni cinquanta ha rappresentato l’apparire della necessaria tecnologia al momento opportuno, ma bisogna ricordare che la sua “necessità economica” era insita da sempre nella stessa
rivoluzione industriale - nell’accumulo
di capitale e nella corrispondente crescita della complessità del mondo finanziario -, mentre la sua “necessità culturale”
è stata una naturale conseguenza della
crescita del sapere.
“L’unificazione internet”. Una volta che
la rivoluzione digitale, risolvendo problemi di memorizzazione, manipolazione ed
accesso, ha permesso una massiccia codifica binaria dell’enciclopedia umana, è
stato inevitabile che subentrasse una fase
in cui crescita significasse unificazione in
un unico network dei vari domini binari,
creatisi fino ad allora. Questo processo di
convergenza - in stadio avanzato negli
Stati Uniti già lo scorso decennio alla fine
degli anni Ottanta ha superato la sua fase
critica ed oggi viaggia ad un ritmo serrato.
Tra breve il dominio digitale, formatosi
negli scorsi decenni a macchia di leopardo, sarà completamente ricomposto in
un’unica rete internazionale.
“L’ampliamento multimediale”. Il passaggio dal PC al network è frutto della
crescita e quindi della ricomposizione del
dominio binario. L’avvento della multimedialità è invece un fenomeno riconducibile alla dinamica di estensione qualitativa dello stesso dominio. I linguaggi sia
39
naturali che formali, più semplici da ricodificare, in quanto già discreti e strutturati,
sono stati i primi ad essere assorbiti all’interno del mondo binario. Il passo successivo, tuttora in corso, è stata l’estensione
della traduzione digitale al mondo delle
immagini e dei suoni, cioè a quegli unici
due generi di fenomeni all’interno del
mondo delle realtà sensibili che possono
essere prodotti in modo analogico e quindi
a loro volta facilmente digitalizzabili.
“Quantità vs. velocità”. I fenomeni di
composizione e ampliamento del dominio
digitale sono accomunati da un terzo fattore. Si tratta del rapporto tra estensione e
viabilità di qualsiasi dominio enciclopedico; nel nostro caso di quell’universo che
sarà il mondo dei bytes, unificato in un
internet globale, ed esteso alla multimedialità. La quantità di informazioni già
oggi disponibili in formato digitale è straordinaria. Ma che cosa accadrà quando
avremo decine di migliaia di gophers da
consultare; oppure intere letterature nazionali da scandagliare per una semplice
richiesta di dati; o magari insiemi di enciclopedie di tutti i tempi da consultare online? Quanto tempo ci vorrà perchè il nostro computer ci fornisca una risposta? La
multimedialità divora memoria. La realtà
è che le tecnologie di riproduzione e archiviazione di dati, così come le applicazioni
software e la quantità di informazioni ormai digitalizzate, sono in una fase evolutiva più avanzata delle tecnologie responsabili per la velocità con cui sono rinvenibili
e recuperabili le informazioni e sono eseguibili i programmi software. La contrapposizione tra memoria e intelligenza, quantità e velocità, accumulo e accessibilità del
sapere si è riprodotta anche all’interno del
mondo informatico.
“Tre previsioni”. Lo scenario appena abbozzato suggerisce che nei prossimi anni
sarà sempre più raro non essere parte della
comunità elettronica globale, o produrre
informazioni di un qualche rilievo che non
siano accessibili on line. Quando anche la
fase di espansione del dominio del digitale
sarà stata completata, la realtà virtuale
sarà uno spazio interattivo, colorato e rumoroso, vivibile a 360 gradi, ma senza
odori, sapori e sensazioni tattili all’altezza
dei nostri sensi, visto che questi hanno
bisogno di un diretto contatto con le cose.
Percorrere il mondo digitale del sapere
alla ricerca di ciò che ci interessa richiederà processori sempre più potenti e procedure di compressione-decompressione dei
dati molto più efficienti di quelle fino ad
oggi disponibili. Nel prossimo decennio
assisteremo probabilmente a radicali trasformazioni tecnologiche. Per gente curiosa come i filosofi c’è di che stare con il
fiato sospeso. L.F.
PROSPETTIVE DI RICERCA
Peter Fetthauer, Kopf im Profil (1991)
40
PROSPETTIVE DI RICERCA
PROSPETTIVE DI RICERCA
L’antropologia filosofica
di Gehlen
Alcuni recenti iniziative editoriali richiamano l’attenzione sulla figura di
Arnold Gehlen, considerato, con Helmuth Plessner e Max Scheler, tra i
fondatori e maestri dell’antropologia
filosofica del Novecento. Mentre all’interno della «Gesamtausgabe» viene pubblicata in edizione critica l’opera DER MENSCH. SEINE NATUR UND SEINE
STELLUNG IN DER WELT (L’uomo. La sua
natura e la sua posizione nel mondo,
«Gesamtausgabe», vol. 3, a cura di K.S. Rehberg, Klostermann, Frankfurt
a.M. 1993), il volume collettivo ZUR
GEISTESWISSENSCHAFTLICHEN BEDEUTUNG
(Sul significato storico-culturale di Arnold Gehlen, a cura
di H. Klages e H. Quaritsch, Duncker &
Humblot, Berlin 1994) propone una
conferenza inedita sul tema della Poststoria. Contemporaneamente, in Italia
viene pubblicato di Gehlen LE ORIGINI
DELL’UOMO E LA TARDA CULTURA (trad. it. di
E. Tetamo, Il Saggiatore, Milano 1994).
ARNOLD GEHLENS
Con Plessner e Scheler, Arnold Gehlen è
considerato il fondatore e uno dei maggiori
esponenti dell’antropologia filosofica contemporanea, una corrente di pensiero che
nella filosofia tedesca contemporanea si
ricollega non solo ai risultati delle scienze
empiriche, ma anche alla tradizione inaugurata da Herder e dal Kant dell’Antropologia prammatica.
Allievo del biologo e filosofo vitalista
Hans Driesch, Gehlen fu docente di filosofia e sociologia a Lipsia, Königsberg,
Vienna, Spira, Aquisgrana. Filosofo, antropologo, sociologo e critico conservatore della cultura e della civiltà contemporanea, Gehlen tentò di connettere la riflessione filosofica con i risultati delle scienze
empiriche dell’uomo, in vista della costituzione di una sintesi di materiali provenienti da diversi ambiti e tradizioni di
ricerca. L’antropologia di Gehlen si riferisce così ai risultati delle scienze della
natura e dell’uomo, ma è guidata da un
interesse di fondo di carattere filosofico,
in quanto il suo obiettivo resta quello di
sviluppare delle categorie specifiche per
la conoscenza dell’uomo nelle sue strutture di fondo.
L’intento del gruppo di curatori della «Gesamtausgabe» di Gehlen, coordinati da
Karl-Siegbert Rehberg, è di rendere accessibili nel loro insieme le diverse componenti teoriche che si intrecciano nel tessuto
dell’antropologia gehleniana. Dei dieci
volumi, in cui è articolata l’edizione critica, corredati da apparati di note, citazioni e
varianti, oltre che da una postfazione dei
curatori, ne sono stati pubblicati finora
cinque: il primo e il secondo, Philosophische Schriften I-II; il terzo, Der Mensch; il
quarto, Philosophische Anthropologie und
Handlungslehre; e il settimo, Einblicke.
L’interesse e l’utilità di questa iniziativa
risalta se si prende in considerazione Der
Mensch (L’uomo, trad. it., 1983), un’opera
di Gehlen, che nell’antropologia filosofica
contemporanea si situa accanto a testi come
Die Stellung des Menschen im Kosmos (La
posizione dell’uomo nel cosmo, 1927), di
Scheler, e Die Stufen des Organischen und
der Mensch (I livelli dell’organico e l’uomo, 1928) di Plessner. Dopo la sua prima
apparizione nel 1940, l’opera ebbe ben
quattordici nuove edizioni, nel corso delle
quali non rimase immutata. Oltre ad alcuni
mutamenti apportati da Gehlen al testo
della terza edizione (1944), fu la quarta a
presentare i cambiamenti di maggiore rilievo teorico, attraverso i quali Gehlen cercava di adeguare la propria opera ai risultati
della ricerca scientifica contemporanea. Il
testo critico presentato nell’edizione delle
opere di Gehlen permette ora di seguire i
mutamenti della concezione complessiva
nello sviluppo della rielaborazione dell’opera. Oltre al testo dell’ultima edizione, vengono presentate, in un secondo tomo, le
varianti del testo della prima edizione. Un
apparato di note del curatore rende esplicita la letteratura utilizzata, ma non sempre
citata esplicitamente, da Gehlen.
In Der Mensch Gehlen espone la propria
concezione di fondo dell’uomo come essere caratterizzato da una condizione di mancanza (Mangelwesen). Con ciò egli indica
quella specificità dell’essere umano rispetto alle altre specie animali che era stata
caratterizzata da Scheler come “posizione
particolare dell’uomo nel cosmo” e da Plessner come “posizionalità eccentrica”: l’es41
sere umano è, per natura, un essere carente,
a cui manca il corredo istintuale che rende
possibile la sopravvivenza agli altri animali. Per sopravvivere l’uomo deve compensare le proprie carenze istintuali attraverso
l’azione sul piano del lavoro, della cultura
e delle sue strumentazioni tecniche. Per sua
natura l’essere umano è un essere culturale.
Questa posizione di Gehlen è stata ripetutamente accusata di “biologismo”, e questa
accusa è stata connessa al suo legame politico con il nazionalsocialismo. Molti interpreti dell’opera di Gehlen negano però
oggi che tale legame sia anche di natura
ideologica e scientifica. Attraverso le varianti, l’edizione critica di Der Mensch
permette comunque di indagare anche questo aspetto dell’opera di Gehlen. Dal punto
di vista teorico l’antropologia di Gehlen
sembra priva di rapporti con l’ideologia
nazionalsocialista: manca, ad esempio,
qualsiasi riferimento alle teorie della razza
e dell’eredità e qualsiasi colorazione antisemita, così come si cercherebbero invano
i concetti di “popolo” e “comunità” tanto
cari ai teorici nazionalsocialisti, che guardavano con sospetto all’antropologia filosofica di Gehlen. D’altra parte, se la cultura
appare in Gehlen, al di qua di ogni illusione
o mistificazione di carattere spiritualistico,
come una compensazione di carenze istintuali, questo stesso fatto mette in luce la sua
opposizione a qualsiasi concezione “naturalistica” o “rousseauiana” dell’uomo.
E’ la quarta edizione del 1950 ad apportare
i mutamenti più rilevanti alla concezione
complessiva di Der Mensch. In essa, in
particolare, viene sottoposto a revisione il
punto di partenza, troppo astratto, dell’individuo come essere isolato: prendendo le
mosse da questa astrazione, afferma ora
Gehlen, non si possono comprendere le
forme più elevate della cultura (arte, religione, diritto, scienza, tecnica), che hanno
un carattere sociale. E’ in Urmensch und
Spätkultur (1956), di cui ora si dispone di
una traduzione italiana, che Gehlen assegna alle istituzioni il ruolo di mediare il
passaggio tra la dimensione naturale e quella
sociale e culturale dell’essere umano, di
realizzare la compensazione delle carenze
naturali e istintuali dell’uomo. In quest’opera, definita da Romano Madera nella “Prefazione” come «il libro più ambizioso di
PROSPETTIVE DI RICERCA
Gehlen», si ritrovano i tratti caratteristici
degli studi precedenti, ma ad essi si aggiunge la concezione dell’ «importanza straordinaria delle istituzioni per la comprensione che l’uomo ha di sé».
Con la propria filosofia delle istituzioni - a
cui appartiene una dimensione di indagine
sulle origini arcaiche dell’uomo - Gehlen
sviluppa anche una critica conservatrice
della civiltà moderna, fondata su burocrazia, tecnica, scienza, industria: la decadenza delle istituzioni, che hanno il compito di
plasmare e incanalare gli istinti umani e al
tempo stesso di compensarne la debolezza,
conduce a forme di soggettivismo estetizzante e a una ricaduta nel primitivo. Alcune
linee fondamentali di questa critica - che ha
trovato espressione, per quanto riguarda il
ruolo dell’arte nella società moderna e contemporanea, nel saggio del 1960, Zeit-Bilder (trad. it., Quadri d’epoca. Sociologia e
estetica della pittura moderna, Napoli
1989) - si trovano nella conferenza tenuta a
Wuppertal nel 1962, e ora pubblicata con il
titolo Post-historie nel volume collettivo
Zur geisteswissenschaftlichen Bedeutung
Arnold Gehlens, che raccoglie relazioni e
discussioni di un seminario di studio presso
la Hochschule für Verwaltungswissenschaften di Spira.
Interessante è il fatto qui che Gehlen rintracci le origini del concetto di “post-storia” (un termine che evoca le recenti discussioni sul problema della “fine della
storia”) nel matematico ed economista francese Antoine Auguste Cournot, che vedeva come tratto caratteristico dell’epoca
moderna l’avvento di una società razionalizzata in cui si sarebbero ridotte le differenze nazionali e sarebbero scomparse specificità locali e valori tradizionali (per
esempio la solidarietà familiare e l’autorità dei modelli del passato). La civiltà burocratica-tecnica-industriale (post-storica)
esige per Gehlen lo sviluppo di una nuova
etica che richiede l’adattamento dell’individuo alle strutture di produzione e di
distribuzione: un’etica che, secondo le
parole di Cournot, «sarà soprattutto destinata a permettere il funzionamento del
meccanismo sociale» e che si svilupperà
così come una morale di carattere sociale,
in antitesi alla vecchia morale individualistica europea.
All’indagine di questa costellazione di problemi Gehlen ha dedicato i saggi Tradition
und Fortschritt (Tradizione e progresso,
1959), Ueber kulturelle Kristallisation (Sulla cristallizzazione culturale, 1961), Die
gesellschaftliche Kristallisation und die
Möglichkeiten des Fortschritts (La cristallizzazione sociale e le possibilità del progresso, 1967) e Ende der Geschichte (Fine
della storia, 1974), la cui pubblicazione è
annunciata nel sesto volume della «Gesamtausgabe», che, con lo studio Die Seele
im technischen Zeitalter (L’anima nell’età
della tecnica, 1957), presenterà gli scritti di
Gehlen di psicologia sociale, sociologia,
analisi e critica della cultura. M.M.
Nuova traduzione
della ‘Critica del Giudizio’
É stata recentemente pubblicata una
nuova traduzione italiana, dopo
quella del 1906, della CRITICA DEL GIUDIZIO di Kant, a cura e con introduzione di Alberto Bosi (Utet, Torino
1993), che si inserisce in una linea di
continuità e uniformità, concettuali
e lessicali, con l’ormai classica traduzione della ‘Critica della ragion
pura’, a cura di Pietro Chiodi.
Mentre la prima e la seconda Critica di
Immanuel Kant hanno conosciuto, in Italia, più di una traduzione, non è stato così
per la Critica del Giudizio, la cui unica
versione era finora quella di Alfredo Gargiulo, risalente al 1906 e rivista, nel 1960,
da Valerio Verra. Questa edizione si inserisce in una linea di continuità con quella
della Critica della ragion pura, curata da
Pietro Chiodi. Tale continuità si realizza
anzitutto sul piano lessicale, dove essa è
motivata, come dichiara il curatore della
nuova traduzione, Alberto Bosi, da considerazioni di uniformità editoriale ma, soprattutto, da adesione convinta a un’interpretazione, quella di Chiodi, che sottolinea
l’organicità dell’opera critica di Kant.
In questa prospettiva, il carattere sistematico della riflessione critica giustifica pienamente la sua ripartizione nelle tre Critiche,
la terza delle quali rappresenta, a pieno
titolo, il vertice e il coronamento del sistema. Citando Chiodi, Bosi si dice convinto
che la motivazione profonda del criticismo
consista non nel passaggio da un fondamento oggettivo a uno soggettivo del sapere, bensì nello spostamento del centro focale della riflessione «dal piano categoriale
della realtà incondizionata a quello della
possibilità di condizioni variabili d’uso».
La questione della finitezza umana, il carattere di “limitatezza” dell’uomo, si collocano, dunque, al centro dell’interpretazione unitaria delle Critiche kantiane, che
Bosi espone nell’ampia “Introduzione” a
questa traduzione, corredata, peraltro, anche da un’analitica “Nota al testo” e da una
“Nota lessicale”.
Oltre Chiodi, però, e proprio facendo
perno sull’esposizione della terza Critica, Bosi evidenzia la componente “ascensionale” della realtà umana, il carattere
trascendente implicito nella finitezza
propria dell’uomo. Ciò emerge nell’intento fondamentale della Critica del Giudizio, che insiste nel conciliare la causalità meccanicistica con quella della libertà. La prospettiva teleologica, che
rappresenta, come è noto, l’esito di questo tentativo di conciliazione, costituisce appunto l’immanentizzazione della
trascendenza; essa si compie attraverso
la riaffermazione del carattere necessario, per la comprensione della relazione
causale “in quanto tale” fra le parti, della
loro comprensione “in quanto parti”,
42
ovvero in quanto elementi di una totalità.
Ma la Critica del Giudizio, ricorda Bosi,
rappresenta anche una sorta di cerniera fra
il Settecento e l’Ottocento. La nozione kantiana di bello rinvia, infatti, alle conclusioni del dibattito settecentesco sul gusto;
laddove la teoria del sublime e quella del
genio aprono verso le prospettive del Romanticismo. E’ del resto noto come la terza
Critica sia stata, nei decenni successivi alla
scomparsa di Kant, il più amato dei suoi
scritti, fornendo quegli strumenti - come il
concetto di gioco, di ingegno, di sublime che altri, con altre finalità, avrebbero in
seguito utilizzato. F.C.
L’empio Vanini
Il volumetto, recentemente pubblicato, di Giulio Cesare Vanini, CONFUTAZIONE DELLE RELIGIONI (a cura di A. Barcellona, trad. dal lat. di A. Vasta, pref.
di M. Sgalambro, De Martinis, Catania 1993) costituisce una parte (i capitoli L-LX) dell’opera pubblicata nel
1616, dal titolo: DE ADMIRANDIS NATURAE
REGINAE DEAEQUE MORTALIUM ARCANIS .
Emergono in queste parti senso e
scopo del naturalismo vaniniano, che
non è fine a se stesso, bensì alla confutazione delle religioni.
Confutazione delle religioni presenta, in
traduzione italiana, i dialoghi L-LX dell’opera di Giulio Cesare Vanini De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis, pubblicata a Parigi nel 1616.
Vengono in essa esposte le linee fondamentali del naturalismo vaniniano, che si
nutre della filosofia della natura cinquecentesca, inquadrata in un orizzonte cosmologico mutuato dal copernicanesimo.
Non è da sopravvalutare, a questo proposito, la valenza meccanicista della prospettiva vaniniana. La sua “teoria dell’urto” risulta, infatti, non disgiunta dalla ricerca, di
ascendenza neoplatonica e naturalista, della radice delle cose. Quest’ultima può certo
essere ricondotta a una considerazione della totalità della natura, alla quale fa gioco la
rimozione copernicana della distinzione
fra mondo celeste e mondo sublunare; con
uguale, o forse maggiore, legittimità, essa
può però essere riferita alle teorie che vagheggiavano l’unità animata del cosmo, ponendo la centralità della categoria dell’anima mundi, che pervade ogni cosa e che tiene
unita la totalità degli enti, la vita organica e
quella - apparentemente - inorganica.
D’altro canto, come sostiene Manlio Sgalambro in Vanini e l’empietà, saggio introduttivo preposto ai dialoghi qui tradotti,
il naturalismo vaniniano non risulta fine a
se stesso, e va bensì rinviato alle posizioni
di Vanini in campo religioso. In una ideale
storia dell’empietà, a Vanini andrebbe senza dubbio assegnato un ruolo di primo
PROSPETTIVE DI RICERCA
piano, soprattutto perché la sua posizione
chiarisce nettamente la differenza fra l’empietà e l’ateismo. «L’empio crede a Dio,
non in Dio», sostiene Sgalambro; il “segreto” di Vanini consiste, “semplicemente”,
nel rifiuto di amare Dio, che pure esiste e si
identifica con la natura, che è, appunto,
chiamata “dea”.
A tale divinità l’esistenza umana, pregna
di arcani, che devono essere spiegati attraverso la filosofia naturale, risulta vincolata; in Vanini non appare quel pessimismo
che in Leopardi nasce dall’indifferenza
della natura alle umane sorti, soprattutto
perché, sulla scorta dell’affermata unità
del cosmo, Vanini sottolinea che di essa
l’uomo fa irrimediabilmente parte. Di qui
l’assenza, nella concezione di Vanini, di
qualunque traccia di titanismo: sulle possibilità dell’uomo di sfuggire al dominio
della natura, o anche, soltanto, di levarsi
contro di essa, si stende un velo di scetticismo ironico.
La negazione dell’esistenza della libertà,
nonché le caratteristiche del naturalismo
da lui professato, portano Vanini a sottolineare il vincolo che intercorre tra la natura
e l’uomo; un vincolo che è una maledizione, e che pertanto è moralmente giusto e
doveroso denunciare come tale. In questa
coloritura etica consiste l’originalità della
concezione di Vanini nei confronti del
movimento libertino, di cui pure essa è, per
molti versi legittimamente, considerata una
delle matrici più rilevanti; nel contempo, si
possono qui rintracciare le motivazioni
dell’interesse che essa suscitò nel periodo
illuminista. Da quest’ultimo, Vanini resta
tuttavia separato proprio a causa del proprio scetticismo, che lo porta a nutrire ben
poche illusioni, e ancora minore fiducia,
nelle potenzialità della ragione umana.
Quest’ultima non va esaltata, né denigrata;
essa è soltanto da accettare nel suo essere
sottoposta alla maestà e alla divinità della
natura, per l’ottima ragione in forza della
quale non si può far altro che detestare, con
la rabbia dell’impotenza, e con l’empietà
del credente, la malignità del Dio che così
ha voluto se stesso, la Natura. F.C.
Ernesto de Martino, filosofo
Una recente pubblicazione, SCRITTI MINORI SU RELIGIONE MARXISMO E PSICOANALISI , a (cura di R. Altamura e P. Ferretti, Nuove Edizioni Romane, Roma
1993), raccoglie quattordici scritti di
Ernesto de Martino, tutti appartenenti, tranne gli ultimi due, al periodo 1933-1949. Si tratta di scritti poco
noti, definiti “minori”, che tuttavia
richiamano l’attenzione su un de
Martino, solo marginalmente toccato dai percorsi della critica, data la
sostanziale indifferenza della cultura italiana verso questo pensatore.
Circa l’attualità di Ernesto de Martino,
sorprende l’atteggiamento di radicale critica nei confronti del freudismo, che anticipa
di oltre trent’anni le odierne dichiarazioni
sulla morte di Freud, o il netto rifiuto,
segnalato anche nell’ “Introduzione” di R.
Altamura, della negazione heideggeriana
e marxista della malattia mentale e della
conseguente confusione tra sanità e follia.
Ma ancor più sorprende quanto ciò che de
Martino scrive sulla questione morale sollevata dal crollo del regime fascista sia
riferibile all’odierna questione morale; o
quanto sia attuale, rispetto al ruolo svolto
dai mass media nelle elezioni del 1994, la
sua analisi del risultato di quelle del 1948
come evento causato dall’ “ignoranza” della sinistra, ovvero dalla sua mancata elaborazione di un sapere da opporre alla manipolazione dell’immaginario compiuta dalla religione e dall’ “Alta cultura”.
Per questi ed altri aspetti di attualità questa
raccolta risulta funzionale ad intaccare l’indifferenza verso de Martino, spingendo a
riconoscere il contenuto del suo pensiero.
Dal punto di vista di questo riconoscimento, il contributo più importante della raccolta è senz’altro la pubblicazione di due
scritti, uno del 1933 e l’altro del 1934, che
insieme costituiscono l’essenziale della tesi
di laurea di de Martino, sostenuta a Napoli
nel 1932, ponendo di fronte a un pensatore
di fatto sconosciuto.
Sono ben note le pagine de Il mondo magico (Torino 1958), nelle quali de Martino
indica il fine della propria ricerca nel superamento di quell’ideale di presenza umana
denominato “razionalismo occidentale”, la
cui massima espressione storica veniva individuata in Kant e nel suo concetto dell’Io. Quello che non era mai stato considerato, e che questa raccolta ora mostra, è il
dato davvero essenziale della presenza di
questa critica di Kant già nella tesi di laurea. La comparsa esplicita del nome di
Kant e il ricorrere di tipiche espressioni
kantiane concorrono con l’impostazione
stessa del discorso ivi svolto a proporre il
dato sorprendente di un diretto riferimento
a Kant nel duplice senso dell’assumerlo
come modello e, soprattutto, del rifiutarlo,
discostandosene. Ciò è evidente nel porre
la possibilità della scienza della religione
sulla base della determinazione preliminare
del dato di tale scienza, o nel fondare il
superamento del dubbio scettico circa la
possibilità di una tale determinazione sull’equivalenza di dogmatismo ed empirismo.
Ma il modello kantiano della ricerca, utilizzato in prima istanza per superare la vanificazione scettica empiristica e dogmatica
del dato, è posto, immediatamente dopo,
accanto a queste correnti e all’irrazionalismo, nell’intento di disegnare una mappa
degli orientamenti, dai quali bisogna astenersi per ottenere una ridefinizione del trascendentale che consenta di far emergere ed
individuare il dato della scienza della religione nella “Weltanschauung della magia”.
L’individuazione, nella tesi di laurea, di un
43
atteggiamento critico nei confronti di Kant
è di importanza determinante per l’interpretazione e l’adeguata valutazione dell’immagine di de Martino, imponendo la
revisione dell’approccio interpretativo al
suo pensiero. Che le sopra citate pagine de
Il mondo magico abbiano, appunto nella
tesi del ’32, un precedente situato all’inizio
stesso della formulazione del pensiero di
de Martino non può non riflettersi sull’interpretazione del ruolo e del significato di
queste pagine come essenziale, e cioè come
costituente il punto dell’opera in cui questa
enuncia il proprio significato, collegandosi
al fondamentale e generale progetto di ricerca del suo autore. Si tratta di un progetto
il cui significato è doppiamente filosofico.
Lo è perché la ricerca, in cui si articola, si
configura come confronto con la globalità
strutturale e diacronica della cultura filosofica della tradizione; e lo è perché la detta
connessione ben mostra come il progetto di
ricerca di de Martino sia animato dall’intenzione, di natura prettamente teoretica,
non solo di stabilire un rapporto di distanza
rispetto alla realizzazione massima della
tradizione filosofica, ma anche di cogliere
un di più rispetto ad essa.
La descritta constatazione dell’iniziale rapporto critico di de Martino con Kant impone inoltre, in modo perentorio, la revisione
radicale di tutto quanto è stato fin qui
scritto a proposito della sua ascendenza
crociana e, in genere, del suo rapporto con
Croce. E’ infatti indubbio che l’essersi la
sua ricerca costruita sulla base di una critica a ciò che costituisce un punto di riferimento irrinunciabile della filosofia di
Croce mal consente di ricostruire lo sviluppo del pensiero di de Martino in base ad
un rapporto di ascendenza rispetto a tale
filosofia, e mal consente di leggere, poi, la
rottura con Croce sulla base di un’influenza marxista e la separazione dal marxismo
come conseguenza dl residuato di tale
ascendenza. L.A.A.
Husserl su Heidegger
L’edizione francese delle NOTES SUR
HEIDEGGER (Note su Heidegger, Minuit, Parigi 1994) ripropone una questione che è stata oggetto, nella ricerca filosofica contemporanea, di
innumerevoli dibattiti e discussioni
sul rapporto tra l’ontologia fondamentale di Heidegger e la fenomenologia trascendentale di Husserl.
Oltre alla trascrizione di annotazioni inedite, fatte da Husserl a margine di alcuni testi heideggeriani, il
volume comprende il resoconto di
una conferenza di Husserl del 1931,
una lettera di Heidegger a Husserl e
le due versioni dell’articolo che due
pensatori dovevano redigere insieme per l’ ‘Enciclopedia Britannica’.
PROSPETTIVE DI RICERCA
Hieronymus Bosh, Cristo portacroce (1515-16, part.)
La vicenda del rapporto tra Martin
Heidegger e il suo maestro, Edmund
Husserl, è divenuta sempre più, nel tempo,
terreno di incontro-scontro tra i sostenitori
della fenomenologia husserliana e i fautori
dell’ontologia heideggeriana, contrassegnando il pensiero contemporaneo. Il volume Notes sur Heidegger raccoglie materiale
prezioso sull’ambivalente relazione intellettuale tra i due pensatori: la trascrizione delle
annotazioni che Husserl aveva fatto a matita
a margine delle sue copie personali di Essere
e tempo e Kant e il problema della metafisica
di Heidegger; il resoconto di una conferenza
tenuta da Husserl nel giugno 1931, dal titolo:
“Phénomenologie et anthropologie”, in cui,
pur senza nominare esplicitamente
Heidegger, Husserl considera “ingenua” la
filosofia del Dasein ; una lettera di Heidegger
a Husserl dell’ottobre 1927; le due versioni
dell’articolo La Fenomenologia, che Husserl
e Heidegger dovevano redigere insieme,
alla fine del ’27, per l’Enciclopedia Britannica e che è stato il primo aperto motivo di
dissenso tra i due.
Nel volume, i marginalia dedicati ad Essere e Tempo occupano una trentina di pagine, quelli riservati al testo su Kant, una
ventina. La lettura di queste annotazioni
non è agevole, per l’ovvia natura frammentaria che presentano e per la mancanza del
testo di riferimento, di cui si rimanda all’edizione tedesca. In ogni caso, indubbio
resta il loro interesse filosofico e storico di
queste note. Husserl afferma qui che i risul-
tati dell’ “analitica esistenziale” contenuta
in Essere e tempo sono gli stessi di quelli
della fenomenologia, ma sprovvisti del rigore che il metodo fenomenologico garantisce:
«Quel che vien detto qui - scrive Husserl - è
la mia stessa dottrina, semplicemente senza
la sua fondazione più profonda», ovvero la
teoria dell’intenzionalità. In realtà, per
Husserl non si tratta di una omissione trascurabile, ma di una vera e propria deviazione dalla sua filosofia, se non di un suo
tradimento. Questo nonostante le intenzioni
dichiarate di Heidegger: è nota la dedica a
Husserl che apre Essere e Tempo, come pure
i vari apprezzamenti sul suo insegnamento,
contenuti nell’opera, al punto da far suo il
motto husserliano «alle cose stesse».
D’altra parte, in una lettera a Jaspers del
dicembre 1926, Heidegger afferma di aver
scritto l’opera del 1927 contro Husserl. E’
in occasione della redazione a quattro mani
dell’articolo sulla fenomenologia per l’Enciclopedia Britannica che i motivi di dissenso si manifestano apertamente:
Heidegger ricolloca la fenomenologia nell’ambito della propria ontologia, mostrando che l’indagine della soggettività trascendentale ha senso solo se diretta verso la
questione fondamentale e “dimenticata”
dalla filosofia, la questione dell’essere.
Husserl, contrario a identificare fenomenologia e ontologia, eliminerà il preambolo heideggeriano dalla versione definitiva
dell’articolo, che compare nel volume assieme alla stesura originale. A.M.
44
L’estetica di Hegel ...
in prospettiva
Con il titolo: L’ESTETICA DI HEGEL E LE SUE
CONSEGUENZE (Laterza, Roma-Bari 1994),
Guido Oldrini ha raccolto quattro lezioni dedicate rispettivamente alla
struttura logica dell’estetica hegeliana, ai contraccolpi che essa subì nell’età posthegeliana (soprattutto in
Germania), ai suoi influssi nella cultura italiana precrociana e al suo confronto con l’estetica di Lukács. Un
esempio significativo di ricezione hegeliana dello ‘Spätidealismus’ è l’opera di Karl Rosenkranz: ESTETICA DEL BRUTTO, di cui è recentemente apparsa una
nuova edizione (a cura di S. Barbera,
prefaz. di R. Bodei, Aesthetica Edizioni, Palermo 1994).
La questione del retaggio della filosofia
hegeliana costituisce un nodo rilevante
per la storia della filosofia. La sua diffusione capillare, le sue ripercussioni, in una
parola le sue “conseguenze”, sono di tale
portata da poterne fornire solo esemplificazioni settoriali. Significativo, a questo
riguardo, si presenta il saggio di Guido
Oldrini, L’estetica di Hegel e le sue conseguenze, che propone una lettura in prospettiva della struttura logica presente
nell’Estetica hegeliana. La teoria dell’arte, incentrata sul concetto di bello come
“parvenza sensibile dell’idea”, non può
PROSPETTIVE DI RICERCA
fare a meno di un collegamento di principio con la “verità” della logica: «L’Estetica - osserva Oldrini - appare tanto incardinata nella sua struttura logica, che essa sta
o crolla con quella».
E’ infatti con la perdita del ruolo guida del
metodo dialettico nel campo culturale che
si assiste in Germania, dopo la morte di
Hegel (1831), a un ripensamento e riformulazione dell’estetica hegeliana. Ciò che
viene messo in dubbio è proprio la “struttura logica” a partire da una duplice insorgenza problematica. Quella, già messa in
luce da Hegel, che riguarda l’arte nel suo
“sviluppo” in direzione di una progressiva
dissoluzione del bello, della perfezione
della forma a vantaggio dell’ideale del
pensiero; e quella che tocca il modo soggettivo, proprio di Hegel, di concepire il
rapporto arte-realtà. Stigmatizzando la
«sofistica della passione» (il male, la crudeltà, il repugnante) del romanticismo,
Hegel pone indirettamente l’accento sulla
categoria del “brutto”, destinato a diventare il tema chiave dell’estetica posthegeliana. In questo senso, sostiene Oldrini, è lo
stesso modo hegeliano di concepire l’arte
a «non essere più all’altezza del presente».
Le trasformazioni sociali, intervenute a
seguito del capitalismo, non si lasciano di
fatto esprimere sotto la forma esclusiva
del bello, secondo il modello della bellezza classica. Hegel «non riesce a trascendere il proprio tempo» restando coerente con
la “struttura logica” presente nell’Estetica, che lo porta ad esempio a considerare
Hoffmann un romantico piuttosto che un
precursore del realismo. Traspaiono qui,
per Oldrini, «le manchevolezze storicooggettive della filosofia di Hegel».
Balza allora in primo piano, nelle estetiche
sorte o derivate dalla scuola di Hegel, la
disarmonia della vita moderna, che esprime l’insopprimibile disposizione realistica che l’arte porta con sé. Se questo implica un’indubbia trasformazione della sistematica hegeliana, non c’è però una
netta presa di distanza dalle “costruzioni” idealistiche. Da Hermann Weisse,
Arnold Ruge, Kuno Fischer, Friedrich Vischer, Karl Rosenkranz fino a
Moriz Carriere si assiste al comune
orientamento di scardinare l’estetica
hegeliana dalla sua struttura logica e di
riportarla alla concretezza dei fatti con
una rivalutazione antihegeliana della
bellezza naturale e delle categorie del
sublime, del comico e del brutto.
Rendere più “mobile” il concetto del bello,
non significa però rinnegarne i principi
fondamentali. Un esempio significativo a
questo riguardo è l’opera di Karl Rosenkranz, Estetica del brutto, di cui Sandro Barbera ci propone una riedizione
ampliata e accompagnata dalla prefazione
di Remo Bodei. Se l’impianto strutturale
dell’opera di Rosenkranz rimanda a Hegel,
basta prestare attenzione all’interrogativo
iniziale: «Un’estetica del brutto? E perché
no?», per capire che la prospettiva è pro-
fondamente cambiata. Dall’alto della costellazione categoriale dell’idea e dell’ideale, l’attenzione si è spostata verso il basso, al bello nel fenomeno, con uno spostamento dell’estetica dalla metafisica del
bello al brutto. Rosenkranz critica Hegel
per non aver sviluppato adeguatamente il
concetto di bello, sussumendovi anche
quelle determinazioni che contrastano apparentemente con il bello come idea. Il
“brutto” non è però inteso semplicemente
come prevalenza del sensibile sullo spirituale, ma è considerato un momento dialettico, correlato al bello e immanente al
suo concetto. A questo riguardo, Oldrini
sostiene tuttavia che nonostante i passi
avanti compiuti rispetto a Hegel sul piano
dei principi, gli esponenti dello Spätidealismus continuano complessivamente a
muoversi nell’orizzonte del suo pensiero.
Ne è un esempio lo «sconcerto di fronte al
caso Hebbel», di cui Rosenkranz critica la
Marie Magdalene come un dramma dai
falsi contrasti: «il brutto è irrisolto, mancano nel dramma di un sostrato unitario».
Nel panorama della riflessione estetica
italiana del secolo scorso, Oldrini considera quella di Antonio Tari al centro del
processo generale di dissoluzione dell’Idealismo che interessa l’intera Europa, per il
quale il mantenimento delle matrici idealistiche implica un’evidente “correzione”
in senso realistico. Ma è soprattutto De
Santis che non si appaga della chiusura
sistematica entro cui Hegel costringe la
teoria della forma, ponendo così all’Estetica un duplice ordine di problemi, riguardanti il tema della cosiddetta “morte dell’arte” e del rapporto dell’idea con la forma artistica. Se in sostanza il contenuto
artistico deve essere considerato in unità
organica con la forma, ciò che “muore”
non è l’arte in sé, ma solo una sua forma
particolare. Anche qui, per Oldrini, siamo
di fronte a un “superamento” dell’estetica
hegeliana che non porta a una “dissoluzione” del suo insegnamento, ma ad una
«Aufhebung (superamento) tesa ad un collegamento con l’avvenire».
L’esigenza hegeliana di un’interconnessione profonda tra i due momenti, storico
e sistematico, è presente nella grande Estetica del 1963 di Lukács: la peculiarità
dell’ästhetische Setzung può di fatto venir
studiata solo nel quadro delle connessioni
che si determinano sul piano ontologico.
Da questa premessa Oldrini analizza i rilievi critici mossi a Hegel: la deduzione
dell’evoluzione storica dallo sviluppo interno dell’idea; l’indebita cristallizzazione gerarchico-sistematica delle categorie;
lo stravolgimento idealistico del sistema
delle arti. Con l’esigenza di partire non
dall’alto, ma dal basso, cioè da come l’uomo vive la sua vita quotidiana, «cade anzitutto - scrive Oldrini - la possibilità di un
trasferimento così diretto, immediato, condizionante delle categorie logiche nel qua-
Georg Wilhelm Friedrich Hegel
45
PROSPETTIVE DI RICERCA
dro dell’estetica», come lo stesso Lukács
rileva a proposito della stessa categoria
dell’«inerenza». Nonostante questo,
Lukács fa uso di categorie e complessi
categoriali hegeliani, che presuppongono
una funzione e un senso diversi da quelli
originari. Per esempio: quella che in Hegel
è la serie “in sé-per sé-in sé e per sé”,
diviene in Lukács la serie “in sé-per noiper sé”; mentre per Hegel c’è una corrispondenza reciproca di “in sé” e “per noi”,
Lukács parla di un necessario trapasso
l’una nell’altra. Per Oldrini, si rintracciano qui delle vere e proprie Aufhebungen nel senso hegeliano del termine - entro
l’impalcatura dell’Estetica di Lukács: teorie e categorie hegeliane vi sono insieme
negate, conservate e superate, in particolare nella categoria della “particolarità” e
dell’opera d’arte come “ente per sé”. Anche in Lukács dunque, nessuno dei principi essenziali dell’estetica hegeliana va
perduto o è abbandonato. Tuttavia, mutata
la base di appoggio, anche l’insieme ne
esce qualitativamente trasformato. M.C.
Etica e giustizia in Aristotele
Aristotele ha mai inteso parlare di
una giustizia assoluta e universale,
indipendente dal contesto politico effettuale? E la razionalità pratica in
generale è interpretabile sul piano
dell’esattezza scientifica? A queste
questioni rispondono con un deciso
“no” due studi recenti: quello di Gianfrancesco Zanetti, LA NOZIONE DI GIUSTIZIA IN ARISTOTELE (Il Mulino, Bologna
1994), e quello di Georgios Anagnostopoulos, ARISTOTLE ON THE GOALS AND
EXACTNESS OF ETHICS (University of California Press, Berkeley 1994).
Tema dello studio di Gianfrancesco Zanetti è il presunto giusnaturalismo di Aristotele. Attraverso l’analisi dell’Etica Nicomachea l’autore analizza il concetto di
giustizia aristotelica in tutte le sue accezioni. Collocata all’interno delle virtù etiche, la giustizia assume la veste della medietas, di quel giusto mezzo che guida
l’individuo nella vita etica. Per di più la
giustizia viene associata all’amicizia, intesa come concordia e definita nei suoi
caratteri dall’utilità.
L’analisi di Zanetti verte principalmente
sulla distinzione operata da Aristotele tra
giusto naturale e giusto legale. La prima
accezione riguarda quel giusto che vale
dappertutto e che è indipendente dal giudizio degli uomini. La seconda, invece, indica quel giusto indifferente e che muta a
seconda dei luoghi. Questa definizione
della giustizia ha influenzato diverse interpretazioni che vedono Aristotele come
il “padre” pro tempore del giusnaturalismo. In altre parole il “giusto naturale”
corrisponderebbe a quel diritto naturale,
teorizzato solo alla fine del ‘600, inteso
come quel diritto della ragione che accomuna tutti gli uomini e precede il diritto
positivo. Secondo Zanetti, al contrario,
l’interpretazione aristotelica della giustizia costituisce “il giusto mezzo” tra quella
dei sofisti e quella di Platone. Se, infatti,
i primi consideravano la giustizia come
dettata dall’arbitrio soggettivo che muta
col mutare del luogo, delle tradizioni e dei
degli uomini, Platone intendeva la giustizia come qualcosa di trascendente, universale e costante, su cui costruire la città
perfetta. Aristotele interviene in questo
dibattito, proponendo il concetto di una
giustizia “secondo natura” che limiti l’arbitrio soggettivo, e che, nello stesso tempo, si identifichi in qualcosa di concreto e
non derivi dal mondo delle idee. Per questo Aristotele precisa più volte che tale
giustizia si realizza solo nella polis, intesa
nella sua struttura e nelle sue categorie, a
prescindere dalle diverse poleis che determinano, invece, il giusto legale. In questo
modo Aristotele colloca la propria interpretazione della giustizia all’interno della
teoria sulla natura sociale dell’uomo e
dell’interpretazione della politica come
completamento dell’etica. Per questo la
giustizia aristoteica si presenta come quella virtù etica che, per giungere alla sua
realizzazione, necessita di una manifestazione politica e sociale: la polis è appunto
la manifestazione che “per natura” meglio
rappresenta questo ideale. Un tipo di giustizia assoluta, osserva Gadamer commentando la concezione aristotelica, esiste «forse tra gli dei»; tra gli uomini il
concetto di giustizia assume la veste della
phronesis che, non essendo assoluta, è
legata alla natura delle cose e in particolare
alla natura della polis.
Il carattere pratico è dunque ciò che caratterizza l’etica di Aristotele, e di conseguenza la politica, venendo meno quella
dimensione di necessità e universalità che
contraddistingue altre discipline. Questa
tesi viene riproposta anche Georgios Anagnostopoulos, che in particolare si occupa
del rapporto tra etica ed esattezza della
conoscenza in Aristotele. Essendo l’etica
contraddistinta da scopi pratici, la sua struttura categoriale deve fare a meno, necessariamente, di quell’esattezza e quella precisione che caratterizzano invece le discipline con scopi cognitivi. L’etica si occupa di
persone e situazioni specifiche, di casi
empirici, di realtà opache, che caratterizzano l’esistenza effettiva degli individui:
per questo non può fornire principi morali
generali e assoluti.
Per dimostrare la sua tesi, Anagnostopoulos si serve di un metodo scientifico che
analizza la terminologia usata da Aristotele nelle opere che trattano di etica e di
politica, attraverso l’uso dell’elaboratore
elettronico, riscontrando in tal modo il
numero esatto delle volte in cui una parola
è utilizzata nel testo. A.S.
46
Sul rapporto tra Sartre
e Merleau-Ponty
Nel numero 320 di «MAGAZINE LITTÉRAIRE»
(aprile 1994) è apparso lo scambio
epistolare che ripercorre le tappe della
rottura tra Jean Paul Sartre e Maurice
Merleau-Ponty. Si tratta di tre lunghe
lettere che documentano come neanche la lunga e intensa amicizia che li
legava riuscì a colmare la distanza
aperta dalla questione dell’impegno
politico dell’intellettuale. Nella presentazione di questi inediti troviamo scritto: «Queste lettere sono innanzitutto
la testimonianza di una amicizia. Due
esseri vi si liberano con la passione
che mentre li unisce li separa. Questo
merita rispetto».
La logica dei blocchi contrapposti che
caratterizzò il periodo della guerra fredda
scosse il mondo intellettuale francese. Un
caso esemplare è l’interruzione del quasi
trentennale rapporto tra Jean-Paul Sartre,
autore di Essere e il nulla, propenso a
schierarsi col Partito Comunista, e Maurice Merleau-Ponty, filosofo della percezione, che riteneva forzata e limitante la
polarizzazione Est-Ovest.
I due si erano conosciuti negli anni ’20
all’Ecole Normale Superieure; durante
l’occupazione avevano militato insieme
nel movimento Socialismo e Libertà. Il
comune interesse per la filosofia dell’esistenza e la fenomenologia consolidò la
loro amicizia, e alla fine della guerra fondarono insieme la rivista «Les temps
modernes».Ma questa comunione di intenti cominciò a incrinarsi quando, negli
anni ’50, con la guerra di Corea, Sartre si
avvicinò al Partito Comunista, mentre
Merleau-Ponty preferì non prendere posizione. Una diversa concezione del rapporto tra filosofia e politica diede così il via a
una serie di “sgarbi” e incomprensioni che
minarono irreversibilmente la loro relazione: nel ’52 Sartre, senza mettere al
corrente l’amico, pubblica su «Les temps modernes» un saggio, in cui sosteneva la necessità di difendere il Partito;
successivamente vieta la pubblicazione
di un testo politico di Merleau-Ponty
senza neppure avvisarlo.
Alla minaccia di dimissioni da parte di
Merleau-Ponty , Sartres risponde con una
lettera, che è la prima delle tre pubblicate
da «Magazine Littéraire». Due i punti chiave della missiva: innanzitutto il rimprovero a Maurice per averlo criticato pubblicamente, per quanto in modo subdolo, in una
conferenza, definendo un “impegno preoccupato” l’atteggiamento politico di
Sartre; in secondo luogo la riconferma del
rifiuto di pubblicare il pezzo, in cui
Merleau-Ponty esprimeva le sue convinzioni politiche, con la motivazione: «Il
filosofo oggi non può assumere un atteggiamento politico», ovvero, dall’ “alto”
della filosofia non è ammissibile criticare
PROSPETTIVE DI RICERCA
chi rimane sul terreno della politica.
Merleau-Ponty è accusato di abdicare alle
sue responsabilità di «uomo, francese, cittadino e intellettuale», considerando la
«filosofia come alibi». Sartre, da parte sua,
concede che la propria posizione sia criticabile, ma a condizione che le critiche
siano mosse da punti di vista politici e non
«in nome dell’epoché fenomenologica».
Alla pesante requisitoria di Sartre (attenuata, alla fine, dall’auspicio che il dissenso resti sul piano politico, senza intaccare
la loro amicizia), Merleau-Ponty replica
con una lunga lettera, a cui allega il resoconto della sua conferenza, al centro della
polemica con Sartres. Smentisce di essersi
ritirato dalla politica, negli anni ’50, per
dedicarsi alla filosofia. Prende poi di mira
la presunta opposizione tra la sua filosofia
e la politica, proponendo un atteggiamento, più vicino alla politica, a suo giudizio,
di quello sartriano dell’«impegno continuo», consistente in un ripetuto «vai e
vieni tra l’avvenimento e la linea generale». Questo risulta essere al tempo stesso
un atteggiamento autenticamente filosofico, in quanto la distanza istituita tra un
fatto e il giudizio che se ne dà «disarma la
trappola dell’avvenimento e ne lascia vedere chiaramente il senso».
All’intransigenza dell’amico, MerleauPonty replica: «Anche se non sceglie tra
comunismo e anticomunismo, la filosofia è un atteggiamento mondano, non
un’astensione; non è riservata al filosofo
di professione». I problemi politici, continua Merleau-Ponty, «io li considero a
un livello dove non c’è necessità di essere comunisti o anticomunisti, nella speranza che queste due posizioni vengano
superate dall’evoluzione della politica
internazionale».
Nella sua seconda lettera, Sartre non desiste tuttavia dal lanciare un nuovo attacco
nei confronti di Merleau-Ponty: «Mi sono
buttato in un’impresa: a torto o a ragione,
in misura delle mie possibilità, vorrei incitare alcuni intellettuali a formare una sinistra alleata al comunismo. Il tuo atteggiamento sfruttato dalla destra agisce necessariamente su questi intellettuali che ti
considerano come un freno... Ciò che conta è che tu agisci contro di me». Dopo
questa lettera i due non si vedranno se non
incidentalmente, alcuni anni dopo. Ma
l’episodio, che questo aspro scambio epistolare testimonia, segnò profondamente i
due pensatori: Merleau-Ponty vi ritornerà
nella “Prefazione” a Segni; Sartre scriverà, alla morte dell’amico, un saggio a lui
dedicato, in cui è ancora viva la domanda
sull’accaduto. A.M.
Jean Paul Sartre, Manifestazione studentesca a Parigi nel 1968
47
NOTIZIARIO
In occasione del cinquantenario dalla liberazione di Roma e della formazione del primo governo democratico in Italia, il quotidiano «Repubblica» (14 giugno 1994) ha pubblicato uno scambio di LETTERE
NOTIZIARIO
TRA ALBERT EINSTEIN E BENEDETTO CROCE sui valori della filo-
sofia in rapporto alla libertà e allo
stato. La lettera di Einstein è una
celebrazione della filosofia sia come
mezzo, sia come fine del potere politico. Il sogno platonico di un governo di filosofi aveva infatti trovato
nell’Italia di allora la sua attuazione:
Croce era entrato a far parte del governo. Questo crea l’occasione della
lettera di Einstein, in cui lo scienziato dichiara di considerare l’aristocrazia del sapere, e in particolare i
filosofi, definiti nella lettera il “rifugio degli eletti”, come l’unica realtà
capace di unire gli uomini al di là
delle differenze temporali e di appartenenza. La cultura, in tal senso,
appare decisamente superiore alla
cosa pubblica, rappresentando per
Einstein un veicolo capace di guidare la forza universale del sapere.
La risposta di Croce manifesta un
forte senso di praticità rispetto al tono
intellettualistico che caratterizza la
lettera di Einstein. Croce, infatti, rivendica l’eredità di Platone soprattutto in rapporto alla concezione della
storia nel suo progredire verso la ragione e, quindi, verso il meglio. Croce, inoltre, non manca di notare come
l’importanza della filosofia in politica dipende dalla sua capacità di istituire l’apertura all’azione. Più che Platone, allora, il punto di riferimento è
Socrate, che intervenne, a costo della
propria esistenza, negli affari politici
di Atene. La lettera prosegue poi con
la ferma condanna del fascismo, che
ha distrutto i valori della pace e della
libertà dei popoli. L’invito di Croce si
rivolge a tutti gli uomini di governo
affinché mantengano le condizioni di
pace e impediscano il ripresentarsi di
situazioni di stimolo alla guerra.
Costituisce un manifesto per la pace e
per la libertà anche la lettera che
BERTRAND RUSSEL inviò al quotidiano «Indipendent» nel 1967 e pubblicata ora in esclusiva dal settimanale «L’Espresso» (19 dicembre 1993).
Riferendosi, di fatto, al contesto della
guerra fredda, Russel è consapevole
del rischio mortale a cui sono sottoposti tutti i popoli dell’umanità, che
vivono sospesi nelle mani delle grandi potenze. L’invito di Russel è rivolto, in primo luogo, agli Stati più potenti, che al di là delle opposizioni
politiche e ideologiche, devono imparare che «la pace costituisce per
tutti l’interesse supremo»; in secondo
luogo, a tutti i semplici cittadini. Secondo Russel, infatti, ogni individuo
dovrà mobilitarsi sia per insegnare
agli uomini a non odiare coloro che
appartengono a popoli diversi, sia per
esaltare i successi umani nelle scienze e nelle arti. In definitiva, il messaggio di Russel è un’esaltazione
della cooperazione tra gli uomini a
scapito della competizione, responsabile del rischio di morte a cui tutti
siamo esposti. A.S.
A partire dal 1987 nella collana Garnier-Flammarion è iniziata la pubblicazione di un TUTTO PLATONE in
più volumi (di norma uno per dialogo). Ad inaugurare la serie hanno
provveduto Luc Brisson, con un’eccellente traduzione commentata delle Lettres, e Monique Canto, con un
Gorgias (Gorgia), al quale la stessa
autrice ha fatto seguire a breve un Ion
(Ione), un Euthydème (Eutidemo) e
un Ménon (Menone). Dal canto suo
Brisson è venuto pubblicando un
Phèdre (Fedro) nel 1989 e un Timéé/
Critias (Timeo/Crizia) nel 1992, mentre Monique Dixsaut ci ha dato un suo
Phédon (Fedone) nel 1991. Con la
pubblicazione del Sophiste (Sofista,
a cura di Nestor-Luis Cordero, GFFlammarion, Parigi 1993) e del
Théétète (Teeteto, Michel Narcy, GFFlammarion, Parigi 1993) siamo ora
giunti al nono e decimo volume.
La serie è connotata da un tentativo,
sostanzialmente riuscito, di coniugare l’approfondimento e l’aggiornamento con la divulgazione. Ogni volume propone un’ampia introduzione, la traduzione, un vasto apparato di
note non troppo tecniche, talora delle
appendici dedicate all’approfondimento di alcuni temi, sempre una
bibliografia piuttosto selettiva e un
prospetto della cronologia, talora dei
vasti indici.
Del Sophiste curato da Cordero si
segnala la tesi secondo cui il «nonessere» è «l’altro». A questo proposito, Cordero segnala un cospicuo non
sequitur, salvo poi rimuovere la presa
di distanza, come se il non sequitur
appena rilevato non compromettesse,
a suo avviso, l’attendibilità dell’edificio ulteriore. La reticenza permette
a Cordero di individuare l’indifendibilità di un assunto fondamentale nell’economia del dialogo, senza troppo
impensierire il lettore (un po’ distratto). Ma si deve considerare che l’assunto qui svolto da Platone viene solitamente presentato in positivo dai
commentatori, ed è invece tale da
marcare una vera e propria sconfitta
del filosofo in quel confronto critico
con Parmenide, che costituisce la
struttura portante di questo dialogo.
L’introduzione di Narcy al Théétète
include, tra l’altro, lo svolgimento
della tesi secondo cui, contrariamente ad un’opinione assai accreditata, la
matematica di Teeteto e Teodoro non
è affatto un sapere propedeutico alla
dialettica, ma un insieme di “opinioni”, da ricondursi nell’alveo della
cultura sofistica, dunque da accogliere con precise riserve. Interessante è
anche, in questo dialogo, l’approccio
al tema della scrittura. Il fatto che,
verso l’inizio del dialogo, il narratore-redattore Euclide riferisca di aver
ottenuto da Socrate in persona l’approvazione del suo resoconto scritto
(che pretende essere la trascrizione
completa di una conversazione effettiva), contrasta con l’aperto discredito che il Fedro getta invece sulla
scrittura. Da questo inedito confronto
tra Fedro e Teeteto Narcy ricava un
pertinente indizio contro l’uso, attualmente diffuso, di erigere la critica
alla scrittura a canone interpretativo
(scuola di Tubinga e, in Italia, G.
Reale e la sua scuola). L.R.
Gli studi su ERACLITO hanno conosciuto un’accelerazione addirittura
vertiginosa intorno al 1980, quando
nell’arco di cinque o sei anni si pubblicarono non meno di venti volumi su
Eraclito, senza contare un gran flusso
di articoli e di altre opere anche ampie
sui presocratici ( si veda: F. De Martino, L. Rossetti, P. P. Rosati, Eraclito.
Bibliografia 1970-1984 e complementi 1621-1969, Napoli 1986). Dopo
una breve pausa, compaiono tre altre
edizioni dei frammenti: in Francia
con M. Conche nel 1986; in Canada
con Th. M. Robinson nel 1987; in
Grecia con E. Roussos nel 1987. Da
ultimo l’edizione di un saggio inedito
del conte Yorck von Wartenberg, risalente al 1870 circa, Da Eraclito a
Sofocle e altri scritti filosofici, a cura
di F. Donadio (Napoli 1991).
Nell’ambito di questa seconda ondata di pubblicazioni ha un posto di
rilievo l’opera del russo S. N. Mouraviev, che nel 1991 ha messo mano
alla pubblicazione, in più volumi, di
una nuova, promettente edizione commentata delle fonti, incominciando
con una stimolante Refectio libri Heracliti:, un tentativo di risalire dai
frammenti al flusso continuo del discorso, così come è possibile ricostruirlo, sia pure a titolo congetturale,
sulla base di frammenti, parafrasi ed
echi d’ogni genere: Héraclite d’Ephèse, ‘Les muses’ ou ‘De la nature’
(Eraclito di Efeso, ‘Le muse’ o ‘Della
natura’, a cura di Mouraviev, Myr-
48
mekia, Parigi - Mosca 1991). A quel
primo fascicolo, che nel piano generale dell’opera non meno di dieci
piccoli tomi si colloca verso la fine
della serie, segue ora un fascicolo che
si colloca invece in prossimità dell’inizio: Heraclite d’Ephèse, La tradition antique et médiévale, 1. D’Epicharme à Platon et Héraclide le Pontique (Eraclito di Efeso, La tradizione
antica e medievale, 1. Da Epicarmo a
Platone e Eraclide Pontico, Myrmekia,
Parigi - Mosca 1993). In questa sua più
recente fatica, Mouraviev ci offre, con
tutti i crismi della filologia (e con
traduzione francese a fronte), il prospetto delle evidenze sull’attenzione
che venne riservata ad Eraclito da parte degli intellettuali a lui più vicini dal
punto di vista cronologico: da Epicarmo, Melisso ed Euripide fino a Platone
e due contemporanei di quest’ultimo:
Eraclide Pontico e il poeta comico
rodiese Antifane. A breve dovrebbe
seguire la sezione su Aristotele, ed è
verosimile che terrà conto, fra l’altro,
di alcuni meditati contributi di Cr.
Viano usciti nel frattempo (ricordo la
sua dissertazione del 1986: Héraclite
dans Aristote). L.R.
Nel ventennio 1947-1967 MARIO
UNTERSTEINER ebbe ad investire
energie cospicue su quell’evento culturale che va sotto il nome di “sofistica”, proponendo l’idea che questi intellettuali furono autentici filosofi i
cui apporti vanno debitamente approfonditi. Alcuni dei “filosofemi” che
Untersteiner ha additato nelle opere
dei sofisti sono stati, invero, lasciati
cadere, ma altri si sono fatti largo e
sono diventati elemento costitutivo
della rappresentazione ora corrente
della cultura sofistica. Soprattutto si è
imposta l’attitudine a prendere questi
intellettuali sul serio: una tale attitudine costituisce, anzi, lo specifico
della ricerca di questi ultimi decenni,
come è il caso degli studi di George
B. Kerferd, che nella sua opera più
nota, The Sophistic Movement (Cambridge, 1981; tr. it., Bologna 1988),
spinge l’intuizione di Untersteiner alle
estreme conseguenze, fino a presentare i sofisti come intellettuali presi
da problemi teorici e solo molto marginalmente proiettati nell’azione.
Il prestigio delle ricerche di Untersteiner risale a un’epoca in cui solo pochissimi specialisti del nostro paese
godevano di consolidata notorietà
internazionale. Vissuto tra il 1899 e il
1981, Untersteiner fu dapprima per
molti anni professore di liceo, poi
cattedratico di letteratura greca all’Università di Genova e, in un secondo momento, di Storia della Filosofia
Antica all’Università degli Studi di
Milano. Pur essendo assai noto anche
per i suoi studi sulla tragedia attica e
sulla scuola eleatica, il suo nome resta pur sempre legato in modo eminente al riesame del movimento sofistico del V secolo. Nel 1949, Untersteiner pubblicò una prima edizione
de I sofisti, opera ben presto tradotta
in inglese (Oxford 1954) e mise mano
ad una fortunata raccolta delle testi-
NOTIZIARIO
monianze e dei frammenti relativi a
questi pensatori, apparsa tra il 1949 e
il 1962. Nel 1967 uscì una seconda
edizione de I Sofisti, completamente
rifusa: su questa seconda edizione è
stata condotta la traduzione francese
in due volumi con il titolo: Les Sophistes (trad. fr. di A. Tordesillas, pref. di
G. Romeyer Dherbey, Vrin, Parigi
1993). In questa edizione, il traduttore, Alonso Tordesillas, che ha di recente curato anche un altro cospicuo
volume: Aristote politique. Etudes sur
la Politique D’Aristote (sotto la direzione di P. Aubenque, PUF, Parigi
1993), ci propone una pertinente introduzione, accurati indici e soprattutto una vasta bibliografia, che include sia i dati sull’intera opera di
Untersteiner, sia un più vasto panorama della letteratura critica per il periodo posteriore all’uscita della seconda edizione italiana de I Sofisti. Correda il volume, a titolo di sapida
prefazione, un colpo d’occhio sull’evento culturale rappresentato appunto dalla sofistica: in dieci pagine
prende forma, per merito di Gilbert
Romeyer Dherbey, un flash suggestivo e penetrante. L.R.
E’ scomparso l’11 febbraio 1994, all’età di 61 anni, il filosofo
CHRISTOPHER LASCH. Laureatosi
a Harward nel 1954, si era dottorato
in storia alla Columbia University e
dal 1970 era docente di Storia intellettuale all’Università di Rochester.
Uomo di sinistra moderata, ben voluto anche dalla destra americana, si
oppose sempre contro ogni forma di
estremismo e di protesta rivoluzionaria, contro ogni tipo di società che
inneggiasse al comunismo. Come
soluzione al male sociale propose il
recupero dei valori più sacri della
tradizione americana: la famiglia, le
comunità locali, le parrocchie, l’autodisciplina, ispirandosi e praticando
una morale basata sull’etica della rinuncia e opponendosi ad ogni forma
di cultura edonistica epicurea, che
considerava antieducativa per eccellenza. Per le sue qualità di intellettuale pacato e rasserenante, il presidente
Carter lo volle come consigliere nei
suoi discorsi alla nazione. Secondo
Lasch, la politica, per risanarsi, doveva partire da una rinascita morale. Il
suo motto era utilizzare la coscienza
morale quale elemento guida nelle scelte individuali e sociali; il bene di un
paese si può costruire solo a partire dai
valori di cui ognuno è portatore, in
particolare quello della famiglia. D.M.
La notte tra il 5 e 6 ottobre 1892,
durante un furioso temporale, PAUL
VALERY, ospite a Genova, mette in
discussione la propria essenza di artista e letterato. Gli spaventosi lampi lo
richiamano all’universale rapporto
dell’uomo con se stesso, in “lotta”
con la natura e l’esistente. Questo
momento nodale dell’itinerario poetico di Valery, ha dato il titolo alla
mostra: “La nuit de Gênes: l’universo
poetico di Paul Valery”, allestita al
Palazzo del Banco di Chiavari e della
Riviera Ligure di Genova dal 27 maggio al 25 giugno 1994. Nella “notte di
Genova” Valery «distrugge le sue
grazie». Dimentica, per ventanni, la
violenza mediterranea che nutrirà il
fulgore solare del Cimetière marin.
Per mezzo secolo si dedicherà, ogni
mattina all’alba, a ridisegnare nei
Cahiers la macchina intellettuale,
nell’ipotesi che la mente sia un congegno di cui è possibile tradurre nitidamente le connessioni: un sistema
che si identifica nelle sue intelaiature.
Nella Méthode de Leonard de Vinci,
in Monsieur Teste, nei Dialogues,
Valery prosegue la visione delle relazioni geometriche.
La mostra è come aperta su uno spazio astratto di oscurità dove sono presenti le rappresentazioni dei miti e dei
grandi temi che affiancheranno per
tutta la vita l’universo poetico di Valery. Oltre ai numerosi manoscritti:
Narcisse parle, Introduction à la
méthode de Léonard de Vinci, Soirée
avec Monsieur Teste, La Cimetiére
marin, La Jeune Parque, Eupalinos,
Mon Faust, e a ad alcune opere dei
suoi contemporanei - À Rebours di
Huysmans, testi e lettere di Gide,
Mallarmé, Breton, Rilke - la mostra
presenta opere (dipinti, disegni, incisioni) suggerite dai miti e grandi temi
ricorrenti nella poetica di Valery:
Narciso di Caravaggio; Les Anges
voyageurs di Gustave Moreau; Orphée secourt Eurydice di Eugéne
Delacroix; Leda, sanguigna di Leonardo da Vinci; Amor sacro e amor
profano di Giudo Reni. L’aspetto più
suggestivo dei Cahiers trova rapporti
con dipinti di Giorgio De Chirico,
Alberto Savinio, Vassilij Kandinskij,
Paul Klee, Francis Picabia e con le
incisioni La malinconia di Dürer,
Faust di Rembrant.
Altri documenti restaurano la stagione
eroica della Maison des Amis des Livres, libreria fondata da Adrienne
Monnier al numero 7 di rue de l’Odeon, punto di riferimento del mondo
letterario e artistico parigino tra le due
guerre. Valery ne fu un assiduo frequentatore e vi tenne le letture pubbliche della Jeune Parque, che lo resero
famoso. Troviamo esposti importanti
documenti dell’attività letteraria della
libreria: volumi e autografi di Breton,
Claudel, Cocteau, Hemingway, Joyce,
Larbaud, Paulam e Perce.
La specifica volontà dei curatori della
mostra, G. Marcenaro e P. Boragina,
è stata quella di considerarla come un
saggio letterario cum figuris, le cui
parole sono i manoscritti e i dipinti e
la sintassi il ritmo che all’andamento
si è imposto. Nell’ imponente e preziosa rassegna di documenti, la mostra si presenta come un itinerario
mentale, una cartografia del pensiero, un libro dove si entra dentro. M.C.
(1883-1914) è stato uno dei maggiori
esponenti dello “spirito europeo” primonovecentesco, paragonato da Hermann Hesse a quello che per la Francia è stato Romain Rolland. A Stadler
la Staat-und Universitätsbibliothek
Carl von Ossietzky di Amburgo ha
dedicato una mostra itinerante, “Ernst Stadler und seine Freundeskreise:
geistiges Europäertum zu Beginn des
zwanzigsten Jahrhunderts” (Ernst
Stadler e la sua cerchia di amici: un
carattere spirituale europeo all’inizio
del XX secolo, catalogo a cura di N.
Schneider, Kellner, Hamburg 1993).
La mostra, ospitata dalla Deutsche
Bibliothek di Francoforte sul Meno
dal 10 febbraio al 9 aprile 1994, continuerà poi a girare per l’Europa (Bruxelles, Oxford, Strasburgo).
Stadler, considerato accanto a Rilke e
Trakl uno dei maggiori lirici dell’espressionismo tedesco, viene presentato nella sua veste di saggista,
critico letterario, traduttore e docente
universitario. Degno di nota che, in
concomitanza con le beghe nazionaliste della “questione alsaziana”, Stadler si fa promotore a Strasburgo,
luogo simbolico dell’unità europea,
di un gruppo di giovani Stürmer - tra
cui troviamo Hans Harp, René Schikele, Christian Schmitt, Friedrich
Lienhard - ispirato all’ideale di un’
“Alsazia dello spirito” da opporre ad
ogni forma di provincialismo e di
Heimatkunst in nome della sintesi tra
cultura francese e tedesca. L’utopia
di Stadler non si limita ad una realtà di
confine; né è un progetto puramente
estetico basato sulla letteratura. Si
tratta piuttosto di un modello primitivo di Europa, dell’idea di un’Europa
unita progressivamente allargantesi a
partire dall’unità tedesco-francese.
Del resto Stadler ha indicato il cammino con la sua stessa biografia: i
suoi studi e le sue conferenze all’università di Oxford; la docenza all’Università di Bruxelles a partire dal 1910.
Con lo scoppio della guerra, vissuto
come un trauma, il tenente di artiglieria Stadler comincia subito a riportare
nel suo diario «l’orrore e la tragedia
di questa guerra». Durante gli spostamenti della truppa, Stadler registra le
sue sensazioni, descrive lo smarrimento suo e dei suoi compagni. Il 30
ottobre, durante la battaglia di Ypern,
nei pressi di Zandvoorde, il suo corpo
viene squarciato da una granata inglese. Come per un fatale presentimento, ai primi di ottobre del ’14, il
poeta scriveva: «mi immagino e desidero per la mia vita un compito diverso da quello di farmi fare a pezzi da
una granata». Il messaggio che ci ha
lasciato Stadler, ricorda Adrien Fink
nella sua introduzione al catalogo, è:
«L’Europa non vive di solo pane.
L’Europe a besoin des poètes». N.B.
Presso la Facoltà di Filosofia dell’Ateneo Romano della Santa Croce,
oltre ad una collana di manuali, «Filosofia e Realtà», pubblicata dalla
casa editrice Le Monnier di Firenze
(con il patrocinio della Fondazione
Rui) e alla rivista semestrale «Acta
Philosophica», nel 1992 ha preso il
Tra le figure che, in questo secolo,
maggiormente hanno contribuito al
superamento delle barriere culturali,
il poeta, traduttore e studioso di letteratura alsaziano ERNST STADLER
49
via una collana di monografie filosofiche dal titolo STUDI DI FILOSOFIA,
pubblicata da Armando Editore. Nella collana sono già stati pubblicati
quattro volumi: J. José Sanguineti,
Scienza aristotelica e scienza moderna (1992); Francesco Russo, Esistenza e libertà. Il pensiero di Luigi
Pareyson (1993); Gabriel Chalmeta
(a cura di), Crisi di senso e pensiero
metafisico (1993); Martin Rhonheimer, La prospettiva della morale.
Fondamenti dell’etica filosofica
(1994). I prossimi volumi, che usciranno tra la fine del 1994 e gli inizi del
1995, saranno: Antonio Malo, Certezza e volontà. Saggio sull’etica
cartesiana; Rafael Martinez (a cura
di), Unità e autonomia del sapere. Il
dibattito del XIII secolo; Rafael Martinez (a cura di), La verità scientifica. La scienza difronte all’intelligibilità del reale.
Nata a metà degli anni ’40 per volontà
di alcuni studiosi dell’Università Cattolica, tra i quali Paolo Rotta, docente
di storia della filosofia, e Mario Casotti, docente di Pedagogia, e da Vittorio Chizzolini, “anima” dell’Editrice
La Scuola, la collana IL PENSIERO
intese da subito offrire agli studenti
dei licei e dei corsi universitari testi di
filosofia e di pedagogia con autorevoli traduzioni, introduzioni e commenti curati da studiosi di fama (basti
citare Bontadini, gli stessi Rotta e
Casotti, Vanni Rovighi, Antiseri,
Reale, Fabro, Severino, Mancini e
tanti altri). La collana, ora completamente rinnovata e con una nuova
veste grafica, si articola in diverse
sezioni: pensiero filosofico, pedagogico, politico, religioso. Ecco alcuni dei titoli pubblicati: J. Jacques
Rousseau, Emilio o dell’educazione
(a cura di G. Roggerone, 1993); Anselmo d’Aosta, Prosiogion (a cura di
G. Zuanazzi 1993); Immanuel Kant,
Critica della ragion pura (estratti a
cura di G. Bontadini 1994); Aristotele, Il motore immobile (a cura di G.
Reale 1994); Schlick, Sul fondamento della conoscenza (a cura di E.
Severino 1994).
La casa editrice Routledge ha in programma la pubblicazione della
ROUTLEDGE ENCYCLOPEDIA OF
PHILOSOPHY , in dieci volumi, a cura
di Edward Craig (Churchill College
di Cambridge) e con il supporto di 30
specialisti del settore, tra i più eminenti filosofi del mondo. L’opera verrà
pubblicata sia a stampa, che in versione elettronica, probabilmente entro il 1998. Trattando della filosofia
di tutti i cinque continenti, della filosofia femminista e dei più recenti
sviluppi nel campo della filosofia
della mente, linguaggio e etica, quest’opera intende porsi come un aggiornamento, esteso fino alla fine
del millennio, dell’Encyclopedia
Philosophy di Paul Edward. Alcuni
degli autori che hanno partecipato al
progetto sono: R. Rorty, B. Williams,
M. Nussbaum, J. Brunsching, C.
Gillian, A. Walicki e M. Burnyeat.
CONVEGNI E SEMINARI
Simone Weil
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CONVEGNI E SEMINARI
CONVEGNI E SEMINARI
Le passioni di Simone Weil
Si è svolto a Torino, nei giorni 27 e 28
gennaio 1994, in occasione della messa in scena - con la regia di Luca Ronconi - di ‘Venezia salva’, di Simone
Weil, il convegno: “LE PASSIONI DI SIMONE
WEIL. POLITICA, CULTURA, RELIGIONE”, organizzato dal Centro studi del Teatro
Stabile di Torino, dall’Assessorato per
le Risorse Culturali e la Comunicazione della Città di Torino e dal dipartimento di Ermeneutica Filosofica dell’Università di Torino, in collaborazione con il Centre Culturel Francais di
Torino e la Association pour l’Etude de
la pensée de Simone Weil di Parigi.
Come ha precisato Ugo Perone, aprendo i
lavori del convegno, per Simone Weil i
riferimenti del significato di passione potrebbero essere l’ “orso bianco”, immagine
mutuata da Gustave Flaubert, e l’attenzione, nella misura in cui si patisce quella che
potrebbe diventare la tentazione della dismissione dal reale - l’orso bianco appunto
- e la si addomestica, la si corregge, la si
maschera con l’attenzione, la quale si fissa
su una cosa che sparisce, per far emergere
l’essenziale. Dunque, innanzitutto, la passione della verità, il cui bisogno, come ha
notato Andrè Devaux, è alla base dell’unità di vita e pensiero in Simone Weil. Una
verità la cui passione fa sì che la vocazione
di Weil sia essenzialmente filosofica, secondo due fondamentali vie d’accesso:
quella dei grandi sistemi filosofici, come
quello di Aristotele o di Hegel; e quella
della interrogazione della realtà, secondo
la lezione di Socrate o di Platone, ma
anche di Descartes, di Kant e di Husserl,
i soli che Simone annoveri tra i grandi
pensatori. Ma poiché l’unico “metodo” filosofico consiste, per Weil, nel lasciarsi
investire dalla verità, nella misura in cui la
verità di Dio è la sua bontà - il suo essere il
bene -, bisogno di verità e desiderio di Dio
sono un’unica e medesima passione.
Come già avvenne nel V secolo con Ipazia e
il suo tentativo di superare la frattura tra
cristianesimo e paganesimo, anche in Simone Weil, ha osservato Giancarlo Gaeta, il
superamento della frattura tra Cristianesimo
e vita sociale implica lo scontro tra due
concezioni opposte della politica: quella,
comune a Ipazia e Weil, che intende la verità
e l’unità del sapere come trascendente la
politica, e anche ogni adesione a un credo
religioso; e quella opposta, che fonda la
politica sul potere. La prima ritiene di dover
tenere distinta la ricerca della verità dall’adesione a un credo politico, perché la ricerca
della verità deve essere libera. Errore storico
fondamentale, denuncia la Weil, è stato quello
di separare la verità originaria tra sapere
scientifico e religioso. Gli effetti di ciò furono devastanti per tutta la modernità, che si
ispirò per questo all’identità ragione-forza, i
cui esiti furono gli errori del marxismo, del
nazismo e del liberismo economico. Di qui la
critica di Weil a Marx e all’hitlerismo, ai
sindacati e ai partiti, di cui fanno fede vari
scritti, come le Riflessioni sulle cause della
libertà e dell’oppressione sociale, lo scritto
sulla civiltà occitanica, L’enracinement, o la
nota sulla soppressione dei partiti politici
negli Ecrits de Londres.
Nel suo intervento, Pier Cesare Bori ha
mostrato come l’universalismo proprio della
Weil non consista nel perseguire una sintesi
delle diverse religioni, ma nel prestare attenzione alla propria come se fosse la sola. A
questo proposito, Bori ha proposto un confronto con il Wittgenstein delle Note sul
‘Ramo d’oro’ di Frazer, laddove sia
Agostino, sia il santo buddista, sono accusati
di essere in errore quando annunciano una
teoria, o confessano religioni, che esprimono concezioni affatto diverse tra loro. In tal
senso sarebbe impensabile, per Weil, una
conversione intesa come cambiamento di
religione; autentica conversione sarebbe invece quella che si orienta alla totalità della
creazione e perciò all’universalismo. Così
dunque non una sintesi, ma una apertura dal
di dentro alla universalità da parte di ogni
religione, a fortiori da parte del cristianesimo, agli occhi della Weil universale solamente de jure, ma non anche de facto. Il
cristianesimo di Weil è un cristianesimo
critico, segnato dalla necessità di elaborare
una concezione della verità nella quale l’opposizione non sia tanto tra punti di vista
differenti, ma tra verità ed errore.
La relazione di Guglielmo Forni si è soffermata soprattutto sui rapporti tra filosofia e
mistica, tra ebraismo e cristianesimo, a partire dalla centralità cristologica dell’opera di
51
Weil e dall’elaborazione filosofica di temi
cristologici come quello della compassione,
di matrice roussoiana, in quanto identificazione con la vita e con la sua sventura. Se la
verità è Dio e Dio si è manifestato soprattutto
nella passione di Cristo, partecipare alla sventura dell’umanità è partecipare alla verità,
ossia partecipare a Dio. «Pensare insieme
nella verità la sventura degli uomini, la perfezione di Dio e il rapporto fra le due», come
scrive a Schumann (Ecrits de Londres et
dernieres lettres, 1957), può a ragione essere
considerato il senso di tutto l’itinerario di
pensiero di Weil, opposto perciò al dolorismo cristologico, di cui parla Tilliette a
proposito dello scritto di Weil Filosofi davanti a Cristo, e vicino piuttosto alle grandi
metafisiche cristologiche di Blondel o di
Teilhard de Chardin. Si può dire che quella
di Weil sia una filosofia ispirata dalla fede,
volta ad articolare in radice il rapporto tra
credere e pensare: ci troviamo qui di fronte al
tentativo di elaborare una razionalità soprannaturale, un progetto di rielaborazione del
sapere a partire dalla singolarità e dalla universalità dell’evento cristologico.
Il convegno si è concluso con una tavola
rotonda, di cui segnaliamo, in particolare,
l’intervento di Adriano Marchetti, centrato
sul rapporto tra verità e poesia, uno di quegli
ambiti in cui è possibile rintracciare un diverso tipo di razionalità, relativamente a una
riconsiderazione del problema della verità a
partire da una domanda che non sia semplicemente quella della ontoteologia o quella
debole di un pensiero inevitabilmente postmetafisico. Proprio la poesia è uno dei
luoghi in cui una correzione estetica al predominio della razionalità moderna consente
di elaborare una forma di concettualità simbolica, potremmo dire, a partire dalla riconsiderazione dei grandi temi di Weil e della
sua stessa scrittura: il bello, il vero, la lettura,
il desiderio senza oggetto, l’azione non-agente, la bellezza e il malheur come metaxy. Ma
questo rimane da fare. La poesia è infine
verità in atto e proprio questo ci riporta al
problema di Weil, che non è semplicemente quello di elaborare una teoria del sapere
o di giustificare una prassi determinata, ma
di collocarsi in quell’ambito teorico, e pratico insieme, irriducibile a ogni forma di
riflessione che ne indaghi la verità e accessibile solo nell’atto della libertà. G.T.
CONVEGNI E SEMINARI
Sull’immaginazione in Kant
Dal 17 al 21 gennaio, presso l’Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, Maurizio Ferraris ha tenuto un
seminario dal titolo: “CONGETTURE SULL’IMMAGINAZIONE TRASCENDENTALE IN KANT”,
con la partecipazione di Vincenzo Vitiello, che ha coordinato l’incontro.
Ponendo l’immaginazione in una posizione
mediale tra finito e infinito, tra sensibilità e
intelletto, Maurizio Ferraris ha articolato il
suo seminario in tre momenti fondamentali:
in primo luogo, quelli che si potrebbero
definire i “prolegomeni teorici” al discorso
sull’immaginazione trascendentale di Kant;
in secondo luogo, i rapporti del discorso
kantiano con Cartesio ed i cartesiani, da un
lato, dall’altro con l’empirismo e la tradizione leibniz-wolfiana; in terzo luogo, il ruolo
dell’immaginazione nell’opera kantiana e,
in particolare, nell’Antropologia Pragmatica, nella Critica della Ragion pratica ed
infine nella Critica della Ragion pura.
Per quanto riguarda il nesso tra immaginazione e idealizzazione, Ferraris lo individua
già nelle opere platoniche e aristoteliche. La
vita sensibile non sarebbe che una “traccia”
della vita ultrasensibile e nella tradizione
ricorre l’attribuzione all’immaginazione di
un ruolo mediativo: in Aristotele l’immaginazione predispone i sensi a passare all’idea;
Wolf, nella Psicologia empirica, e Kant, nel
24 della Critica della Ragion pura, attribuiscono all’immaginazione la possibilità di
intuire anche senza la presenza dell’oggetto.
Il problema fondamentale, ha osservato Ferraris, consiste nel domandarsi come l’immaginazione, che è la ripetizione di una sensazione, la quale è a sua volta più passiva della
passività, diventi attiva nell’esercizio della
sua facoltà, che è quella di rendere presente
anche ciò che è assente.
Per superare la dimensione spazio-temporale dell’intuizione della cosa, è necessario
che la cosa venga idealizzata attraverso
l’immaginazione. Intuizione e immaginazione rappresentano entrambe la misura
della presenza di un oggetto: la prima nello
spazio e nel tempo; la seconda nell’intelletto, in quanto traccia. Si realizza, quindi, un
passaggio dall’attività alla passività, nel
momento in cui l’oggetto si rivela nella sua
presenza, e dalla passività di nuovo all’attività, nel momento in cui quello stesso
oggetto mostra la sua presenza non più in
una dimensione spazio-temporale ma, piuttosto, in una intellettuale.
Come veicolo di scambio tra sensibilità e
intelletto, ha rilevato Ferraris, non si può non
attribuire all’immaginazione una funzione
prioritaria rispetto alle altre facoltà. Nel De
anima di Aristotele tutte le attività che comportano una qualche funzione superiore si
svolgono attraverso l’immagine. Cartesio
ristabilisce il primato dell’intelletto e della
volontà sull’immaginazione: l’attività del
pensiero è, in quanto tale, senza immagini.
Nonostante nella scuola wolfiana venga
affermata una forte continuità tra sensibilità e intelletto, solo in Leibniz è possibile
individuare il diretto antefatto di Kant, che
pone da un lato l’intelletto come attività,
dall’altro la sensibilità come passività e, tra
le due sfere, l’immaginazione con il suo
ruolo mediativo. La grande novità della
trattazione kantiana dell’immaginazione,
ha fatto notare Ferraris, consiste nell’aver
sviluppato, nella Critica della Ragion pura,
il nesso tra immaginazione e temporalità,
nesso che era stato soltanto accennato
nell’Antropologia pragmatica. La temporalità, ha sottolineato Ferraris, risulta costitutiva dell’immaginazione sia nella prima
che nella seconda edizione della Critica
della Ragion pura. L’immaginazione, come
possibilità di trattenere, di memorizzare le
esperienze sotto forma di schemi, è dominante in tutte e due le edizioni; gli schemi
risultano essere nient’altro che determinazioni a priori del tempo e la temporalità alla
quale l’immaginazione si riferisce è, dunque, una temporalità originaria. G.M.
Il mito di Edipo
Presso l’Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici di Napoli, dal 31 gennaio al 4
febbraio 1994 Guido Paduano ha tenuto un seminario su: “IL MITO DI EDIPO.
FILOSOFIA, PSICOANALISI, DRAMMATURGIA”,
con l’intento di mostrare quale rapporto possa intercorrere tra antropologia psicanalitica e drammaturgia alla
luce dei due temi fondamentali che la
tragedia di Edipo e la psicoanalisi hanno in comune: il parricidio e l’incesto.
Guido Paduano ha esordito facendo notare come Freud si richiami esplicitamente,
e più di una volta, a personaggi tragici
come Edipo e Amleto per esemplificare
concezioni fondamentali della psicoanalisi. Presupposto di un tale riferimento è che
tutte le osservazioni psicologiche, che si
possono evincere dalle vicende di questi
personaggi, vanno predicate degli spettatori, non dei personaggi stessi. Nel caso di
Edipo, l’uccisione di Laio, per sposare
Giocasta, ignorando che si tratta dei suoi
stessi genitori, soddisfa, nella sua dimensione fantastica, il desiderio inconscio di tutti
gli spettatori che assistono alla tragedia.
Analogamente l’oracolo, che svela a Edipo il
suo tremendo destino, rappresenta per Freud
la coscienza dell’eroe che covava, inconsciamente, il desiderio del parricidio e dell’incesto. Quest’ultima interpretazione, ha
osservato Paduano, risulta tuttavia infondata
in quanto presuppone una collusione tra
umano e divino, che nella cultura greca del
sec. V erano invece nettamente separati.
D’altra parte, anche la tesi di James Hillman, secondo cui la tragedia di Edipo si
svolgerebbe in un clima di generale violenza, che va a ricadere sull’eroe-capro espia52
torio, risulta, secondo Paduano, insostenibile; come pure l’interpretazione per cui
Edipo e Laio sarebbero colpevoli di aver
preso alla lettera il vaticinio solo simbolico
dell’oracolo, esponendo le loro vite all’infanticidio, al parricidio, all’incesto. Al contrario, ha osservato Paduano, in quanto
espressione della ragione umana, Edipo ha
il compito di tradurre in simboli le grezze
espressioni letterali dell’oracolo, che rappresenta il principio di realtà.
Appurata l’insostenibilità dell’analisi di
Freud, come pure di Hillman, non resta, ha
osservato Paduano, che considerare parricidio e incesto, dal punto di vista repressivo,
non più come trasgressioni, ma come punizioni; essi puniscono, reprimono una libido
perfettamente adulta, conscia, affermativa
dei codici morale, sociale, religioso. La repressione è qui rappresentata dell’irreversibilità del tempo lineare: l’essere re, giudice e
detentore della ragione è ormai assolutamente impossibile per Edipo; il suo ostinato
voler essere razionale è un’illusione tragica
e patetica. Sofocle realizza così, ha fatto
notare Paduano, la categoria dell’ironia tragica, ovvero la germinazione di due significati opposti, rispondenti a campi informazionali diversi per ampiezza, inerenti però a
un unico significante. L’ironia tragica si può
anche definire qui come un rapporto di potere tra chi sa e chi ignora: il potere risiede
dunque nella conoscenza, per cui ogni parola
pronunciata da Edipo come detentore di
potere, lo rivela al pubblico in realtà come
schiavo della sua ignoranza.
Nella “tradizione edipica”, che annovera
frequenti rifacimenti dell’Edipo re si può
riscontrare, secondo Paduano, un crescente avvicinamento del protagonista a quelle
che saranno connotazioni propriamente
psicoanalitiche: l’oracolo come coscienza,
ipotesi insostenibile in Sofocle, è culturalmente attendibile alle origini del Cristianesimo, con gli sviluppi dell’interiorità e dei
rapporti con la divinità; pur non potendo
ancora parlare di desideri inconsci, compare
già il senso di colpa. L’Edipo di Corneille
(1658) comincia ad avvertire confusamente
di star commettendo parricidio e incesto.
Ultima soglia della classicità, prima dell’avvento della psicoanalisi, l’Oedipe di Voltaire
(1719) tende a contenere il tema dell’incesto,
rafforzando invece quello del parricidio.
Il primo testo della tradizione edipica postfreudiano, e già ultra-freudiano, è Edipo e
la Sfinge di Hofmannsthal, del 1906, con
l’identificazione tra sogno e desiderio, svelata dall’oracolo. La componente libidinale è finalmente esplosa, e sulla sua traccia
si muoveranno i successivi rifacimenti:
André Gide, Oedipe (1930), Jean Cocteau, La machine infernale (1934), Tawfiq
al-Hakim (che rilegge le tematiche della
libertà e del destino in chiave islamica). Ma
l’episodio più stravagante in tal senso, ha
rilevato Paduano, è costituito dal romanzo:
Les gommes (1953), di Alan Robbe-Grillet, che rompendo con ogni tradizione, in
particolare con quella umanista, abolisce
CONVEGNI E SEMINARI
ogni differenza tra realtà e immaginazione.
Infine Paduano ha richiamato, della sterminata tradizione edipica, il film: Edipo re
(1967), di Pier Paolo Pasolini che, in linea
con la “rivoluzione freudiana”, arriva a
sostenere il parricidio come legittima difesa contro l’autoritarismo paterno e l’incesto come quintessenza dell’amore. Nella
rappresentazione teatrale: Edipo, ambigui
presagi disadorni e senza profumo (1990),
di Renzo Rosso, Freud è ormai completamente assorbito, se non superato: Edipo si
riconosce “colpevole” di aver desiderato di
uccidere il padre e amare la madre: colpevole quindi di desideri non seguiti da fatti,
e di fatti non preceduti da desideri, Edipo si
dichiara finalmente innocente e dunque
finge soltanto di accecarsi, per una forma di
rispetto alle convenzioni. M.G.
Hjelmslev oggi
Dal 12 al 14 ottobre 1993, presso il
Centro Internazionale di Studi Semiotici e Cognitivi dell’Università di San
Marino, si è svolto il convegno “HJELMSLEV OGGI”, un’occasione per celebrare il
linguista danese a cinquant’anni dall’uscita della sua opera fondamentale,
‘Fondamenti della teoria del linguaggio’. Specialisti hjelmsleviani, provenienti da università italiane, francesi e
danesi, hanno proposto analisi critiche
dei vari aspetti della teoria di Hjelmslev e
della teoria glossematica in generale, offrendo spunti per ulteriori discussioni.
Il successo del convegno è stato in gran
parte dovuto alla partecipazione di personaggi che hanno fatto la storia della linguistica e che nel contesto del convegno hanno
rappresentato una sorta di memoria storica
di valore inestimabile: ci riferiamo in particolare ad André Martinet e a Eli Fischer
JØrgensen, che ha concluso il convegno
ricordano la figura di Louis Hjelmslev con
la passione di chi certe storie le ha vissute
in prima persona.
Dopo una breve introduzione di Alessandro Zinna, promotore del convegno, si
sono succeduti gli interventi di André
Martinet e di Claude Zilberberg. La rilettura di Hjelmslev proposta da Martinet è
stata caratterizzata da motivi già presenti
nel suo celebre Au sujet des fondements de
la théorie linguistique de Louis Hjelmslev:
il rapporto tra glossematica e sostanzialismo; il problema dell’analisi degli elementi di sostanza in quanto unità significative;
la questione della riduzione dei tratti del
piano del contenuto. Zilberberg si è invece
soffermato sul problema delle continuità
storiche - talvolta incerte - tra De Saussurre e Hjelmslev e tra Hjelmslev e Greimas,
sottolineando, ad esempio, le difficoltà che
si incontrano nel voler ricondurre il formalismo hjelmsleviano a quello saussuriano.
L’intervento di Giorgio Graffi ha inteso
invece ricostruire storicamente il rapporto
tra Hjelmslev e i linguisti italiani, individuando quattro fasi, che vanno dall’ “estraneità” alla “simpatia”; mentre Michael
Rasmussen si è soffermato sul rapporto tra
Hjelmslev e il razionalismo.
Il problema della riduzione delle categorie
ad un numero limitato è stato oggetto dell’intervento di Massimo Prampolini, che
ha affrontato la tematica a partire da una
rilettura del breve, ma ricco di risorse,
saggio di Hjelmslev: Per una semantica
strutturale. Herman Parret ha invece proposto una rilettura storica della teoria hjelmsleviana dei casi, rilevando anche come
l’ipotesi localista sia stata ampiamente sfruttata dalle grammatiche cognitive attuali.
Una serie di ipotesi interessanti sulle basi
formali ed ermeneutiche della semiotica è
stata avanzata da François Rastier, che ha
sottolineato quattro livelli della descrizione linguistica: il piano sintagmatico, il piano paradigmatico, il piano ermeneutico, il
piano referenziale, proponendo inoltre la
necessità di una teoria del contesto. Riutilizzando e rivedendo criticamente alcuni
concetti della teoria glossematica, Per Aage
Brandt ha invece presentato alcune osservazioni sui meccanismi della lingua. Infine
Romeo Galassi ha indagato i rapporti tra la
glossematica e l’analisi dei testi letterari e
Eli Fischer Jørgensen ha presentato un
resoconto molto personale sulla figura di
Hjelmslev in rapporto al Circolo linguistico di Copenaghen.
Nella discussione finale sulle carenze della
teoria glossematica, dei suoi successi e dei
suoi utilizzi nelle teorie semiotiche attuali,
ha prevalso l’idea comune dell’enorme rilevanza dell’opera di Hjelmslev per la storia degli studi di linguistica. S.T.
Biologia e cultura
Con il titolo: “L’UOMO BIOLOGICO NEL MONDO PROGETTUALE”, Andrew Packard ha
tenuto, dal 24 al 27 gennaio 1994, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, un seminario, il cui
scopo è stato quello di esplorare lo
spazio intermedio esistente tra cultura e patrimonio genetico, in particolare riguardo ad alcune risposte etofisiologiche dell’organismo umano alle
stimolazioni imposte dalle grandi costruzioni della vita moderna.
L’uomo di oggi, geneticamente, non è molto
diverso dai nostri antenati del paleolitico: il
patrimonio biologico umano, che consente
all’individuo di crescere, adattarsi e realizzarsi nel mondo progettuale, è infatti rimasto più o meno lo stesso; egli si trova però
in un ambiente culturale enormemente cambiato. E’ probabile allora, ha notato Andrew Packard, che le disfunzioni pato53
logiche del comportamento abbiano origine
da tale situazione ambientale completamente stravolta rispetto alla programmazione
genetica del comportamento. Un esempio in
tal senso, rilevato a suo tempo dell’etologo
Konrad Lorenz, è quello riguardante la
ricerca dello zucchero come alimento che
costituisce una ricca fonte di energia per
l’organismo. Oggi, che tutta la nostra vita è
assediata da quelli che gli etologi hanno
chiamato stimoli “super-normali”, l’accentuata predilezione per questo alimento provoca in milioni di uomini l’obesità. Dobbiamo dunque chiederci, ha osservato Packard,
se siamo veramente individui in pieno possesso delle nostre facoltà di libera scelta e di
volontà o siamo mossi soltanto dalla superstimolazione che agisce sui nostri istinti.
Se siamo portati tuttavia a fare certe cose
invece di altre, non va sottovalutata, secondo
Packard, l’importanza dell’ambiente e della
cultura umana che intervengono pesantemente a modificare le nostre predisposizioni
genetiche. Ad esempio, la nostra capacità di
produrre strumenti che uccidono a lunga
distanza vanifica totalmente quei meccanismi innati di difesa, di cui siamo forniti. Non
vi sarebbe mai stata la guerra se il progresso
continuo delle armi non avesse reso l’atto di
uccidere talmente rapido e facile da permettere agli uomini di vincere la resistenza opposta dai loro sentimenti più umanitari.
L’importanza dell’ambiente e della cultura
è attestata, secondo Packard, anche dal
caso dei bambini selvaggi, cresciuti fuori
da ogni contatto con i membri della loro
specie, che non hanno quasi niente di umano nel loro comportamento, incapaci come
sono di qualsiasi forma di comunicazione.
«V’è un modo drammatico - scrive l’etologo Danilo Mainardi ne L’animale culturale - per capire cos’è l’uomo: togliere
all’uomo la sua cultura». Come nella specie umana i bambini costruiscono se stessi
per buona parte attraverso l’apprendimento e l’imitazione sociale di modelli degli
appartenenti al loro gruppo, così si è venuto
a sapere che bambini-gazzella, bambinilupo o bambini-scimmia, avevano forgiato
il loro comportamento in relazione alla
specie modello. In tutti si manifestava,
dopo la cattura, un totale rifiuto, o forse
l’impossibilità, di un reinserimento tollerabile nell’ambiente sociale umano.
Dunque, ha concluso Packard, nessun comportamento è programmato completamente
dai geni senza alcuna influenza ambientale;
né è dimostrabile l’estraneità dell’esperienza o di qualche forma di apprendimento alla
formazione del carattere di un individuo;
anzi l’ambiente costituisce uno dei fattori
evolutivi più importanti. Non va dimenticato, tuttavia, che la stessa cultura e le influenze
sociali sono rese impossibili dalla specifica
costituzione bioevolutiva dell’uomo; la cultura umana, insomma, non è qualcosa che ha
un’origine del tutto alternativa rispetto alle
predisposizioni naturali, ma una risposta
adattativa sviluppata dall’uomo nel corso
della sua evoluzione. L.M.
CONVEGNI E SEMINARI
Odilon Redon, dall’album Hommage a Goya (1885)
Blumenberg:
mito, metafora, modernità
La Fondazione Collegio San Carlo di
Modena ha organizzato nel periodo
gennaio-marzo 1994 un seminario di
studio su “HANS BLUMENBERG: MITO, METAFORA, MODERNITÀ”, che ha visto interventi di Vincenzo Vitiello, Barnaba Maj,
Michele Cometa e Bruno Accarino. A
conclusione del seminario si è svolta il
16 maggio 1994 una giornata di studio
con Remo Bodei, Gianni Carchia, Francesca Rigotti.
Il seminario si è aperto con la lezione di
Vincenzo Vitiello dal titolo: “Per una definizione topologica del moderno: Blumenberg, l’ermeneutica e il superamento della
storia”, che ha preso le mosse dalla critica
di Hans Blumenberg al concetto di seco-
larizzazione. Se, da una parte, Hanna Arendt contesta l’idea che il moderno si configuri come una presa del mondo da parte
dell’uomo, e dall’altra Karl Löwith afferma che la nascita della coscienza storica
dell’età moderna dipende dalla secolarizzazione dell’escatologia cristiana, Blumenberg si schiera contro ogni visione continuista della secolarizzazione e, nel contempo, contro la Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) dell’ermeneutica, osservando che «l’illegittimità del risultato della secolarizzazione è che essa non può
secolarizzare il processo da cui è sorta».
Al posto di una visione del presente come
effetto di un processo storico, Blumenberg
privilegia l’attualismo di un presente che
autolegittima se stesso.
Secondo Vitiello, nella concezione di Blumenberg permane tuttavia il problema se il
presente possa esaurire le fondamentali
54
domande di senso dell’umanità, come la
questione dell’immortalità. Di fronte alla
mancanza, in Blumenberg, di individuazione, all’interno del presente, di forze in
contrasto tra loro, Vitiello rivendica il merito della topologia di evidenziare la compresenza dei topoi non storici che caratterizzano ogni storicità. La storia consiste
per l’uomo nel reciproco movimento di
produrre l’altro e di ritornare a se stesso.
Ne segue -contrariamente alla impostazione di Blumenberg- la non identità tra mito
e logos, e la concezione destinale della
filosofia come parola seconda, mai fondativa e definitiva.
Nella sua relazione, “Motivi metaforici,
logico-politici e storici nella metaforologia
di Hans Blumenberg”, Barnaba Maj ha
definito la metaforologia come un programma di ricerca filosofico. Un precedente filosofico illustre, ha rilevato Maj, può
CONVEGNI E SEMINARI
essere individuato in Vico, sostenitore della
presenza di una logica poetica” non solo nei
primi stadi della civiltà e della vita individuale, ma nell’intero orizzonte socio-culturale
dell’umanità. Tuttavia, Vico non intaccò,
secondo Maj, il rigido divieto epistemologico della logica e della metafisica aristotelica
di un’interazione della metafora con il discorso scientifico. A Blumenberg spetta il
merito di aver teorizzato la metafora assoluta, in quanto articolazione autonoma e, nel
contempo, partecipe del modello di spiegazione concettuale della scienza.
Nelle opere successive a Paradigmi per
una metaforologia (1969), ha fatto notare
Maj, Blumenberg ha affrontato temi decisivi della filosofia e della teologia, dall’interpretazione del mito platonico della caverna fino al problema teologico del peccato originale, conferendo alla metaforologia il carattere di vero e proprio paradigma teorico.
La lezione di Michele Cometa ,”Mitologie dell’oblio”, ha affrontato il tema del
mito come uno dei punti focali del lavoro
filosofico di Blumenberg e uno dei contributi più originali della riflessione contemporanea sull’argomento. Asse portante dell’analisi di Blumenberg è l’idea che se la
filosofia è l’arte della “pensosità”, la mitologia è l’arte dell’oblio in quanto distacco
dalla realtà originaria, abbandono alla pura
“ricezione” attuale, messa-tra-parentesi
della coscienza costruita sul mito. Questo
approccio, ha osservato Cometa, è entrato
di diritto nella cosiddetta “Mythos-Debatte” tedesca, cui hanno partecipato autori
quali Frank, Kolakowski, Bohrer, Hubner
ed altri ancora. Un’ulteriore comprensione
dell’elaborazione del mito blumenberghiana, la si può ottenere, secondo Cometa, da
un’analisi delle metafore assolute. Si configura in tal senso una costellazione concettuale che ha una matrice ben determinata: il fulminante apologo kafkiano del Prometheus. La moltiplicazione, in Kafka,
delle versioni del mito di Prometeo finisce
per avvolgerlo nell’oblio; la ricezione consuma interamente la storia; la verità del
mito collima con la sua inspiegabilità. Il
nucleo narrativo di Kafka si fonda su questo assunto: l’oblio del mito mostra, in
filigrana, la mitologia dell’oblio.
Nella sua lezione, “Antropologia e filosofia della storia in Hans Blumenberg”, Bruno Accarino ha analizzato le originali declinazioni che Blumenberg conferisce al
tema classico dell’uomo biologicamente
svantaggiato e, quindi, esposto alla natura
preponderante, che caratterizza l’antropologia filosofica di Arnold Gehlen. Nell’elaborazione di Blumenberg emerge in primo
luogo l’idea di un aumento della visibilità,
conseguente all’emancipazione dell’uomo
rispetto all’assolutismo della realtà, a partire dalla constatazione che ciò che ci è
offerto di essa è solo una piccola parte della
sua interezza.
Un’ulteriore esplorazione dell’antropologia di Blumenberg, ha osservato Accarino,
testimoniano la molteplicità dei “medicamenti anti-assolutistici”, come, ad esempio, la retorica. Assioma di ogni retorica è
infatti il principium rationis insufficientis,
ovvero la faticosa costruzione e determinazione di concordanze sullo sfondo di una
strutturale mancanza di fondamenti del discorso. La retorica è una risorsa che si basa
sulla funzionalità del disfunzionale, una
tecnica che concede di prendere respiro
dalla realtà. Altro medicamento, ha continuato Accarino, è costituito dall’immaginazione, tema introdotto dalla rivisitazione
di Blumenberg del mito della caverna. Passando per la caverna, l’uomo divenne l’animale sognante e i figli della caverna inventarono il meccanismo della compensazione immaginativa. Con essa si accorda il
nomadismo del pastore, al quale è propria
l’arte della deviazione, la strategia di schivamento dell’assolutismo della realtà.
La ricchezza e la varietà di questi spunti
sono stati ripresi e ulteriormente approfonditi durante una giornata di studio, che ha
visto confrontarsi alcuni tra i maggiori studiosi italiani del pensiero di Blumenberg.
Gianni Carchia è intervenuto sul tema
“Platonismo dell’immanenza. Fenomenologia e storia in Hans Blumenberg”, mostrando come nell’analisi di Blumenberg i
fatti dello spirito si dispongano nella storia
come all’interno di una supercoscienza
monadica, in cui il tempo non è produttivo,
ma è solo l’agente di un gioco infinito di
variazioni. A questo proposito, ha osservato Carchia, il ricorso di Blumenberg all’ermeneutica ha lo scopo di mostrare, in chiave anti-ermeneutica, che la verità non si
esaurisce nella storia; mentre la fenomenologia, con il suo implicito platonismo, ha la
funzione di evidenziare i segni storici di
una difettività costitutiva e di una irrimediabile lontananza dall’essenza. Di qui, il
platonismo dell’immanenza, che pone la
storia, anziché come incarnazione dell’assoluto, come luogo della finitudine: attraverso una sorta di “eterogenesi dei fini”,
viene alla luce il doppio volto del platonismo, che con il suo scacco circoscrive i
caratteri effettivi dell’uomo. Interessante è
per Carchia la curvatura esistenzialistica di
questa fenomenologia antistoricistica, che
richiama il Dasein di Heidegger.
Nel suo intervento, “Blumenberg e oltre
Blumenberg: il linguaggio per immagini e
metafore e la filosofia pratica”, Francesca
Rigotti ha fatto notare che se nei primi
scritti, risalenti agli anni ’50, prevale in
Blumenberg la concezione dell’uomo come
essere libero e, quindi, della libertà come
principio etico, in quelli degli anni ’70 si fa
strada l’idea di un’etica priva di fondamenti e costruita in base al consenso retorico
degli uomini. Coerentemente con questa
impostazione, la concezione dello stato
moderno appare, in Blumenberg, orientata
verso il nominalismo politico, per cui la
politica è l’insieme degli atti verbali. Se la
Odilon Redon, dall’album Songes (1891)
55
CONVEGNI E SEMINARI
parola esorcizza e allontana la paura, la
politica, basata sui verba, eredita e attualizza il mito: come l’uomo si riparava nella
grotta, ora trova riparo nelle parole della
politica. In questo Blumenberg, ha osservato Rigotti, difende il rapporto metaforico
con la realtà e, più in generale, la retorica
dall’accusa di fornire comportamenti infondati. Tuttavia, pur accettando il principium rationis insufficientis, non postula la
rinuncia ai fondamenti, ma si tiene lontano
dalla metodica del fondamento di ispirazione cartesiana. Così in Blumenberg, contro una teoria etica fondata su una presunta
evidenza, si profila la possibilità di un’etica retorica, modellata da metafore e immagini che illustrano buone ragioni e legata ad
una pragmatica delle convenzioni.
Da ultimo è intervenuto Remo Bodei, che
ha parlato di “Mito e metafora all’opera. Le
basi del pensiero non-concettuale in Blumenberg”. I concetti di mito e metafora, ha
rilevato Bodei, hanno in Blumenberg la
funzione di rappresentare le retrovie del
mondo della vita, mediante traslochi di
senso su posizioni slegate da un senso
originario e preesistente. Ma se mito e
metafora sono un modo per arrivare a un
senso, attraversando la paura di fronte all’ignoto, all’innominato, alla mancanza di
forma, la loro forma, ha osservato Bodei,
non è solo “simbolica”, in quanto tiene
insieme i suoi materiali di costruzione, ma
è anche “diabolica” - secondo l’etimologia
del greco diaballein -, in quanto divide
secondo modi particolari di articolazione
del senso. Il mito in Blumenberg è legato
all’indeterminatezza e al mutismo della
natura ed è frutto di un’alchimia di dicibile
ed indicibile. Lo svolgimento del mito di
fronte alla contingenza è particolarmente
efficace rispetto al futuro, terreno sul quale
si gioca il calcolabile con l’incalcolabile,
con la contingenza fatale. Da ciò si sviluppa la logica mitica della sopravvivenza e la
ritualità che si associa al mito.
Una particolare declinazione del mito è
per Blumenberg individuabile in Vico, in
cui agisce una sorta di teologia mitica come
discesa dall’alto del senso: nelle foreste
primigenee le genti maggiori, che contemplavano il cielo e vedevano dappertutto
Zeus, imposero con la forza alla convivenza sociale i miti dell’ordine. La contingenza mitica si trasformò in stabilizzazione
del mondo. Nel Menone platonico, invece,
con il teorema dell’incommensurabilità
della diagonale del quadrato, secondo cui
dall’irrazionale si dà il razionale, il mito si
trasforma in logos, lasciando tracce indelebili. Contro lo scientismo moderno, che
pone il logos definitivamente al di là del
mythos, Platone ci insegna, secondo Blumenberg, l’inesauribilità del mito, mostrandoci come la razionalità sia ricavabile dal mito, ma al contempo come si riproponga il problema di altre possibili spiegazioni, per cui lo sforzo di dare senso alle
cose si rinnova indefinitamente attraverso
racconti che dicono e non dicono. F.S.
Vico, nel 250° anniversario
della morte
In occasione del 250° anniversario della scomparsa di Giambattista Vico
(1744), nonché della pubblicazione
della sua ultima ‘Scienza nuova’, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di
Napoli ha organizzato, dall’ottobre
1993 al giugno 1994, una serie di “Seminari sul pensiero di Giambattista
Vico” (si veda: «Informazione Filosofica», n. 11, 1993). Nel quadro di questo
iniziativa, si è svolto a Lecce, dal 15 al
18 novembre 1993, un seminario dal
titolo: “NUOVE PROSPETTIVE DEGLI STUDI
VICHIANI”, in collaborazione con l’Istituto di Filosofia dell’Università di Lecce
e col Centro di Ricerche sul Pensiero
Filosofico e Scientifico dell’Italia Meridionale, con la partecipazione di Andrea Battistini, Mario Agrimi, Antonio
Verri, Alain Pons. Tra le nuove prospettive d’interpretazione dell’opera
di Vico segnaliamo le ricerche di Umberto Galeazzi, i cui risultati sono ora
raccolti nel volume: ERMENEUTICA E STORIA IN VICO. MORALE, DIRITTO E SOCIETÀ
DELLA ‘SCIENZA NUOVA’ (Japadre, L’Aquila-Roma 1993).
Tra gli interventi al convegno leccese,
Andrea Battistini, (curatore della recente
edizione delle opere di Vico presso l’editore Mondadori), si è soffermato in modo
specifico sull’Autobiografia vichiana, ricostruendone filologicamente l’origine,
l’esatta datazione (fine 1723 e non 1725,
come volevano Croce e Nicolini), i presupposti formali e stilistici e rilevandone
tutta l’importanza speculativa in quanto
opera nella quale agiscono quei medesimi
principi gnoseologici e provvidenzialistici
che caratterizzano il pensiero di Vico.
Appartenente al genere letterario dell’autobiografia intellettuale, la Vita di Vico,
secondo Battistini, si ispirerebbe ad un
modello narrativo di tipo teleologico, che
si manifesta nel tentativo di ricomprensione di tutti gli avvenimenti della propria
esistenza alla luce di una meta finale, in
nome della quale anche gli eventi negativi
(trauma infantile, l’isolamento personale,
l’avversa fortuna...), le deviazioni, le “cadute” diventano funzionali alla riuscita
dell’impresa e rendono ancor più importante il risultato finale. Tale modello narrativo approderebbe tuttavia non al raggiungimento di una grazia salvifica e trascendente, ma alla riuscita personale come letterato, sicché l’approdo finale all’Autobiografia sarebbe la Scienza nuova, verso cui
sembrerebbero tendere tutti i suoi sforzi.
Ad una lettura ravvicinata della Scienza
nuova prima, tesa ad evidenziarne l’originalità e l’indipendenza, si è indirizzata la
relazione di Mario Agrimi, il quale ha
insistito proprio sull’autonomia di quest’opera, che rappresenta un rilevante punto di arrivo della riflessione vichiana fino al
56
1725 e non semplicemente un lavoro preparatorio alle successive edizioni. Nella
Scienza nuova del ’25 non compare, ad
esempio, quella che Vico chiama la «Discoverta del vero Omero»; come non compare né la tavola cronologica sinottica, né
la celebre “dipintura”, e ugualmente non
v’è traccia della più nota dottrina vichiana,
quella dei corsi e ricorsi delle nazioni. Ma
ciò fa di quest’opera, ha osservato Agrimi,
qualcosa di peculiare, in cui in una visione
non ciclica e circolare, ma lineare e progressiva, appare persistente il motivo pratico e politico (in perfetta continuità con
l’approccio pedagogico giovanile), che
evidenzia l’intento “riformatore” vichiano
di giovare all’umanità. Per questi motivi la
Scienza nuova prima, secondo Agrimi,
aprirebbe la strada ad una “semiotica politica”, ad un’accurata analisi dei segni che
costituiscono la società e dei sintomi che la
attraversano. La storia degli uomini e delle
nazioni diviene in tal modo centrale nel
pensiero vichiano; e poiché in essa avviene
la certificazione del vero, la storia, ha rilevato Agrimi, si fa ontologia, diviene luogo
dell’essere e del vero.
Antonio Verri, promotore del convegno,
ha invece indagato il significato dell’opera
retorica vichiana nel pensiero contemporaneo, soffermandosi in particolare sulle Istitutiones oratoriae, il manuale di retorica
approntato dall’allora docente di eloquenza Giambattista Vico (che insegnò tale
materia per oltre quarant’anni), di cui solo
da qualche anno è apparsa un’edizione
critica, che rende finalmente giustizia anche di questo aspetto dell’opera vichiana.
Oggi infatti esistono per Verri le condizioni per guardare alla retorica vichiana con
occhi nuovi, individuando in essa la possibilità di un ripensamento della riflessione
contemporanea. Significativa appare in
quest’ottica la ripresa di Vico in quel contesto che va sotto il nome di “nuova retorica”, come pure nella riflessione più ,marcatamente filosofica di Ernesto Grassi, che
negli ultimi anni ha sempre più rivolto il
proprio interesse al pensiero vichiano. Verri ha infine ricordato come in tempi in cui
si insiste sulla scissione delle culture, sulla
divisione e frammentazione dei saperi, la
retorica vichiana, ammonisca ogni pretesa
unilaterale del pensiero logico-razionale,
suggerendo una ricomprensione unitaria
ed integrale del sapere.
Il principale risultato della ricerca su Vico
svolta da Umberto Galeazzi si raccoglie
nella giustificazione analitica di un’affermazione di Eugenio Garin, contenuta nell’
“Introduzione” allo studio di A. Child, Fare
e conoscere in Hobbes, Vico e Dewey
(1970): «La novità della scienza vichiana
consiste nello sforzo di...scoprire il disegno segreto attraverso il quale la provvidenza si rivela nella vicenda temporale».
Muovendo dalla constatazione che la base
delle considerazioni di Vico è costituita da
una verità riconosciuta come tale, in quanto indubitabile in se stessa, Galeazzi inten-
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Frontespizio e particolari di illustrazioni tratti da Principi di scienza nuova di G. B. Vico (ediz. napoletana del 1744)
de fondare l’affermazione di Vico: «la divina Provvidenza ella è l’architetta di questo mondo delle nazioni». Ciò implica,
innanzitutto, «di rinnovare l’interpretazione del filosofo napoletano, mettendo radicalmente in discussione tutte le letture più
o meno condizionate da quella crociana».
La proposta interpretativa di Galeazzi si
sofferma sul Vico che contesta il metodo
cartesiano, soprattutto laddove Cartesio
pretende di estendere il metodo geometrico
ad ogni tipo di sapere e in particolare ai fatti
umani, che non sono dominati dalla necessità. L’uomo infatti si realizza, per Vico, in
quella che possiamo chiamare “una logica
della scoperta” ed è fatto a immagine della
libertà divina. In tal senso, la dottrina centrale del verum ipsum factum trae la sua
origine, in Vico, dalla “metafisica della
creazione” e si esprime anche nella “metafora della luce”, che ha un ruolo di protago-
nista, pur tenendo conto che la peculiarità
della visione vichiana della storia e dell’uomo è dovuta alla considerazione filosofica non solo dell’uomo “quale deve essere”, ma anche dell’uomo “qual’è”, con i
suoi vizi, la sua ferocia, la sua avarizia.
Solo che per Vico il “divagamento ferino”
dell’uomo deriva, oltre che dalla “vita empia”, dal seguire la logica dell’utile egoistico, anche dalla rinuncia alla vera religione.
Sicché, osserva Galeazzi, «Solo in quanto
l’uomo è condotto, ad opera della regìa
provvidenziale, a rispettare un certo ordine
morale-giuridico, anziché seguire la propria volontà asservita all’utile egoistico,
può arrivare a celebrare l’umana società e
a conseguire il giusto».
Una “teologia civile ragionata della Provvidenza divina”, una ricostruzione teonomica della genesi del diritto, dell’etica e
della società, costituiscono dunque, per
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Galeazzi, la questione decisiva per capire il
discorso della Scienza nuova. Certo, accanto al principio della divina Provvidenza
è posto quello del libero arbitrio, ad esso
“consentaneo”, che confuta ogni interpretazione immanentistica della Provvidenza,
pur essendo sempre considerata da Vico il
fondamento dell’umana e civile convivenza e quindi del diritto naturale delle genti.
Il disegno provvidenziale, fa notare Galeazzi, vuole l’uomo, quale essere intelligente e libero, protagonista dell’incivilimento,
anche se l’uomo stesso, in quanto limitato,
richiede l’aiuto della Provvidenza, che tuttavia non si sostituisce alla responsabilità
dell’azione umana. In tal senso, afferma
Galeazzi, la nozione di “storia ideale eterna” deve essere avvicinata a quella di “diritto eterno che corre in tempo”; un rapporto che, a prima vista, potrebbe apparire
contraddittorio, dato che ciò che è storico
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non è eterno, ma che invece permette a
Vico di trovare “la chiave della nuova
scienza del mondo umano».
L’iter genetico della storia, osserva ora
Galeazzi, procede dalle cause agli effetti:
chi possiede tutte le cause (Dio) ha una
scienza perfetta. L’iter conoscitivo proprio
dell’uomo procede invece dagli effetti alle
cause: «Attraverso il fare umano... si scopre (non si produce) un disegno superiore.
Ecco, quindi, che l’indagine vichiana sulla
storia è un lavoro ermeneutico»; e questo
perché la storia è frutto non solo dell’arbitrio
umano, ma soprattutto dell’intelligenza creatrice e provvidente di Dio. G.P./G.R.
Il ritorno del mito
A cura del Goethe-Institut e del Dipartimento di Filosofia della III Università degli Studi di Roma, si è tenuto dal
24 al 25 marzo 1994, presso la sede
romana del Goethe-Institut, un convegno internazionale dal titolo: “IL
RITORNO DEL MITO NELLA SOCIETÀ E NELLA
CULTURA DEL NOVECENTO”.
Introducendo i lavori, Franco Bianco ha sottolineato come negli ultimi decenni la
riflessione filosofica sia entrata in una
fase in cui non si sente tanto il bisogno di “smitizzare”, quanto piuttosto
di “rimitizzare”, di dare forma alle
proprie scelte di valore.
In quanto “non-definibile”, essenza proteiforme da ordinare e possibilmente spiegare, il mito, come ha ricordato Alfred Schmidt (“Modelli della critica illuministica
del mito”), ha suscitato l’interesse della
critica illuministica . Nel suo itinerario “dal
mito al logos”, il concetto di critica illuministica, secondo Schmidt, si estende dalla
nascita della filosofia in Grecia alla Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e
Adorno, passando - cautamente - per Vico
(alla storia eterna fa da contrappeso una
storia degli uomini) e per Diderot (con
l’accento posto sulla rivelazione naturale di
contro a quella sovrannaturale). In questa
prospettiva generale è necessario, ha osservato Schmidt, un chiarimento non solo logico o estetico del mito, ma anche genetico e
funzionale, che sappia risalire, con gli strumenti di un’antropologia materialistica e
sulle orme di Feuerbach, ad una lettura del
sacro, dell’esperienza mistica e culturale,
«per capire come gli dei incarnino i desideri
degli uomini», i loro timori, la mancanza di
conoscenza delle cause dei fenomeni.
Sergio Givone (“Mito e poesia) ha riportato il discorso sul piano del tutto estetico
dell’incontro tra mito e poesia. In tal senso
è indispensabile per Givone il riferimento a
Nietzsche, «crocevia» di una doppia tradizione. La sua critica alla concezione illuministica del mito, ha fatto notare Givone,
si articola, infatti, “con” e “contro” i ro-
mantici: con i romantici, laddove il mito è
qualcosa di originariamente poetico; contro i romantici, nell’ironizzare sul fatto che
il problema della verità venga affidato ,
unicamente alla poesia: «Ecco come il mondo è diventato favola!» - constata Nietzsche,
parafrasando Novalis. Una constatazione che
contiene un preciso invito, quello di abbandonare ogni possibile verità-fondamento, per
riconoscere che non vi è più verità, ma solo
interpretazione. In questa radicalizzazione e
rovesciamento della posizione romantica
emerge, secondo Givone, come per Nietzsche sia centrale non il momento utopico o
politico, ma quello “tragico” del mito. É
questo il luogo di una sospensione del tempo
e della contraddizione, che nella trasgressione della norma apre ad una dimensione estetica: quella dell’artista che, quasi posseduto
da un demone, fa di sé un’opera d’arte come
volontà di potenza.
Un ulteriore approfondimento della tematica del ritorno del mito è stata offerta
dall’intervento di Reyes Mate (“Polimitismo, filosofia, religione”). Muovendo dall’assunto di «un patto con il mito che la
ragione, più o meno esplicitamente, deve
stringere», Mate ha sottolineato, in accordo con la posizione di Hans Blumenberg,
l’inconstistenza dell’opposizione logosmito in favore di una loro complicità, in
linea con le conclusioni della Dialettica
dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno: il mito è già illuminismo, laddove cerca
immagini per gli aspetti oscuri dell’esistenza, o per la sua complessità, come nel
caso del polimitismo; l’illuminismo finisce per diventare mito, come nell’odierna
tendenza della filosofia a divenire racconto. Dunque, secondo Mate, non la categoria
del logos può costituire una sfida al mito,
ma piuttosto la categoria della “religione”
(monoteistica), in quanto fa leva sulla nozione centrale di colpa. Nella Bibbia, ha
ricordato Mate, è a partire da Geremia ed
Ezechiele che si rompe il maleficio mitico
della colpa genealogica, che lasciava ai
singoli larghi margini di discolpa. Da questo momento la colpa si radicalizza, si
individua nei singoli, permette il riconoscimento della storicità dell’ingiustizia e della
responsabilità dell’uomo.
Un esplicito richiamo a riflettere sul fatto
che il mito non torna da solo, ma deve
essere mobilitato, messo in movimento da
precise esigenze, è venuto da Hans Robert
Jauss (“Miti dell’inizio. Una nostalgia segreta dell’Illuminismo”). Secondo Jauss, il
rinnovato interesse nei confronti del mito
non è di tipo dialettico, ma testimonia il
fatto che il mito è sentito di nuovo come
«condizione della leggibilità del mondo».
In quest’ottica, ha osservato Jauss, Voltaire ha utilizzato nella sua Apologia della
favola i miti dell’antichità come un travestimento per smascherare il dominio e i
difetti dell’assolutismo; Hume e Fontenelle si sono schierati a favore del politeismo; Vico ha proposto il ritorno ad una
storia genetica, ad un pensiero teleologico.
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Tra i miti del «nuovo inizio», ha ricordato
Jauss, acquista particolare rilevanza l’ultimo mito dell’epoca illuministica, quello
del «calendario rivoluzionario», che nella
ricerca di un inizio assoluto tenta di tradurre lo spirito razionale della nuova repubblica nella vita di tutti i giorni. Seguono, nell’
‘800, i nuovi miti dell’identità nazionale,
dell’evoluzione; ma soprattutto il mito della
decadenza, che porteranno ad un nuovo mito
di primo Novecento: quello per cui solo
l’arte (e non la storia) può istituire un nuovo
inizio. Un motivo centrale per l’avanguardismo artistico, che tra le due guerre tenderà a
superare la divisione tra estetico e politico. E
proprio qui, ha notato Jauss, prende piede il
«mito moderno dell’inizio», che trova il suo
paradigma nell’idea di «fusione di tutte le
arti»: solo ora la ricerca del mito viene a
coincidere con la ricerca della «forza immaginativa» dell’uomo.
In un quadro d’epoca, tra l’ironico e il
grottesco, si è condensata la proposta di
Marino Freschi (“Il risveglio di Odino.
Neopaganesimo nella letteratura tedesca
degli anni ’30"). Riallacciandosi ad un giudizio di Thomas Mann, che giudicò il
fascismo tedesco una forma di «paganesimo etnico» e di «barbarie romantica», Freschi ha rilevato come in quel preciso momento storico in Germania la volontà di
ricorrere al mito fosse motivata dalla ricerca
di qualcosa di “creativo”, più che di vero o di
autenticamente originario. Wothan (nome
tedesco per lo scandinavo Odino) si prestava
perfettamente a soddisfare le esigenze di
mitizzazione del nazismo con la sua duplice
natura di dio della guerra e della caccia, ma
anche della magia e della poesia. Su questa
base, dunque, si può parlare, secondo Freschi, della persistenza di una “falda pagana”
nella cultura dei germani.
Nel suo intervento, Winfried Menninghaus (“Caos - Mitologia nel Romanticismo e nel Moderno”) ha collegato la ripresa
del concetto di mito negli ultimi quindici
anni al ritorno di una concezione delle
nazionalità e dei gruppi, parallelamente
alla necessità di pensare la differenza di
“proprio” ed “estraneo”. Un’esigenza radicale di differenziazione, che presuppone
però, secondo Menninghaus, uno stretto
rapporto con un concetto di caos inteso
come potenzialità, oltre che come indistinzione. É il primo Romanticismo a teorizzare, per voce di Friedrich Schlegel e di
Novalis, «una nuova miscela di caos e di
ordine». Quando infatti Schlegel parla della necessità che il sistema non sia assoluto,
perché «l’unità assoluta sarebbe un caos di
sistemi», esprime, ha rilevato Menninghaus,
un vero e proprio interesse critico-conoscitivo, parla a favore di una «distruzione e
interruzione positiva». Due esempi paradigmatici in questo senso sono la teoria
dinamica della società di Norbert Bolz e la
decostruzione di Jacques Derrida. In quest’ultimo, ha fatto notare Menninghaus,
l’accento posto sull’evento testuale porta
avanti il progetto romantico nel dislocare
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Caspar David Friedrich, Tempio di Giunone ad Agrigento (1828-30, part.)
ogni identità in tendenze caotico-centrifughe: è l’effetto differenziale che nel procedimento decostruttivo dà vita all’accadimento testuale. Infine, nel campo delle
ideologie politico-sociali, così come nelle
scienze naturali, con l’«enorme incremento di globalizzazione degli ordini» (politici, economici, ecc.), il caos, secondo Menninghaus, ha acquisito una precisa funzione compensatoria di opposizione all’uniformità: imprevedibilità e turbolenza diventano portatori di un nuovo modello di
comprensione.
Per Giacomo Marramao (“Il mito dello
Stato: una ridefinizione del tema”), è necessario oggi indagare sulla “mitologia”
più che sul “mito”, ormai soggetto ad una
rarefazione semantica che ne ha fatto perdere il primitivo significato greco di narrazione sacra. Da questo punto di vista, il
mito dello Stato, ha notato Marramao, non
è tanto l’effetto o il derivato di ideologie,
quanto effetto di una «commistione indebita» del momento estetico con quello politico. Marramao ha quindi sottolineato l’indissociabilità di “mito” e “rito”, che soddisfa l’elemento raffigurativo, iconico del
mito, oltre a garantirgli una durata e una
ricorrenza. Per il mito dello Stato resta
infatti fondamentale il ruolo del rito di
iniziazione, costitutivo dell’ordine in quanto
tale; ma anche il rituale del “potere”, in
quanto «eccedenza di senso che deve di volta
in volta tradursi in un sistema determinato di
segni». In una democrazia, ha concluso
Marramao, si tratta di liberare il mito come
energia mito-poietica legata ai singoli: il
potere buono è solo il potere limitato.
Karl Heinz Bohrer (“Progetti del Moderno, tabù del Moderno. Le condizioni di una
possibile attualizzazione del mito”) ha proposto di mettere in parallelo il concetto di
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Friedrich Schlegel di una «nuova mitologia» con quello nietzscheano di “dionisiaco” e con l’idea elaborata da Louis Aragon
di una “mitologia moderna”, allo scopo di
definire i tratti di una possibile mitologia
non più legata ad un’immagine assolutistica del mondo. Il filo di connessione che
secondo Bohrer lega i tre tentativi di rimitizzazione è un progetto estetico, che mira
a configurare un nuovo modo di pensare
attraverso una presa di distanze poeticoestetica rispetto al razionale. Così in Schlegel la “nuova mitologia” non è ricostruzione di un pensiero mitico, ma produzione, in
proprio, di nuove immagini. D’altro canto
il «dionisiaco» di Nietzsche definisce il
modello di un’esperienza estetica che non
guarda in realtà al dionisiaco barbarico, ma
alla distruzione del principium individuationis da parte del fenomeno artistico. Dello stesso segno, ha notato Bohrer, è anche
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il procedimento di “enigmaticizzazione”
degli oggetti di percezione, che si produce
nella prospettiva surrealista di Louis Aragon, dove il “brivido” dell’ignoto contamina proprio i momenti e i luoghi consueti del
vivere e dell’abitare: il “meraviglioso”, frutto di un’operazione poetica e soggettiva,
diventa “meraviglioso quotidiano”. Una
mitologia moderna, ha ribadito Bohrer, non
può dunque che avere carattere soggettivo
e proiettivo, dove l’epifania è demandata al
linguaggio e allo stile in cui si pongono in
opera le produzioni dell’immaginazione.
L’intervento di Paolo De Nardis (“Le nuove mitologie nella coscienza sociologica
del Novecento”) ha messo in rilievo il fatto
che la sociologia, scienza empirica per eccellenza, si radica molto spesso sul mito
della società come “totalità”. Passando in
rassegna il discorso sociologico attraverso
i classici della sociologia, De Nardis trova
forse nella teoria strutturale e funzionalistica di Parsons quel modello di sistema che
fa aprioristicamente ricorso all’idea di un
orine sociale “totale”. Parsons propone infatti, ha precisato De Nardis, una “cristallizzazione” della teoria dell’azione sociale
di derivazione weberiana, e si serve del
motivo, di una “coscienza collettiva” realizzata nell’integrazione sociale per irrigidirlo in un ipotetico schema di valori metatemporali. Ne consegue una ipostatizzazione della “struttura”, che finisce per essere sostanzializzata e ontologizzata, mostrando una spiccata tendenza ad una “autopoiesi” dal carattere extrastorico e dallo
spessore mitico: il sistema produce e riproduce incessantemente se stesso. Unico antidoto a questa endemica tendenza della
sociologia a fare ricorso al mito della totalità è rappresentato, secondo De Nardis,
dall’idea guida (popperiana) di una “costruzione relazionale”, che preveda, per
ogni sistema, il ruolo “variabile” delle parti
così come del tutto.
Sulla possibilità di leggere il mito e il suo
“ritorno” in chiave psicoanalitica si è pronunciato Rolf Vogt (“Teoria e metodo dell’interpretazione psicoanalitica dei miti”),
che ha fatto notare come il “sogno” (sorta
di compromesso tra desiderio e rinuncia)
costituisca il primo modello freudiano di
comprensione del mito. Tuttavia, la descrizione che ne Il poeta e la fantasia (1908)
Freud dà dei miti come “sogni secolari» di
un’umanità intesa come soggetto collettivo resta, secondo Vogt, difficile da sottoscrivere, anche se alcuni spunti presenti in
Totem e tabù (1913) possono rivelarsi ancora efficaci. É il caso dell’interpretazione
dei miti come “fantasie inconsce tramandate”, lette da Freud sulla base di costanti
antropologiche come il complesso di Edipo. Nonostante la mancanza di riferimenti
storici ai miti e soprattutto di un soggetto
collettivo che possa “parlare” in proprio di
fronte all’analista, secondo Vogt si può
tentare di guardare con occhio psicoanalitico alla forma negativa, ovvero ideologica, del mito. Il caso attuale delle ripercus-
sioni psicologiche del nazismo in Germania offre a Vogt un esempio paradigmatico
di come l’inconscia identificazione con la
propria nazione profili un “inconscio etnico”, secondo l’espressione di George Devereux, tendente a degenerare in una sorta
di “malattia” etnica, che per il popolo tedesco si configura come intreccio di senso di
colpa (per lo sterminio degli ebrei) e desiderio di discolpa. Alla coscienza tedesca,
pur nella disparità delle posizioni rispetto
alla storia recente, sembra mancare una
vera “connessione” tra contenuti rappresentativi coscienti e i rispettivi sentimenti,
che restano inaccessibili e inconsci.
Con un ampio panorama di riferimenti tra
“demitizzazione” (a partire dalla stagione
illuministica fino agli esiti della “morte di
Dio” in Nietzsche) e “rimitizzazione” (attraverso i fondamentali contributi di Jung,
Kerényi e Blumenberg), Aldo Carotenuto
(“La realtà psicologica del mito”) si è soffermato sulle “ragioni profonde” del ritorno del mito nel nostro tempo. L’ipotesi
centrale è stata quella di riconoscere al
mito una «relazione intrinseca, necessaria,
ultimativa» con l’immaginazione, che affonda le sue radici in «precise esigenze
esistenziali» e più precisamente nel bisogno di «differenziarsi dal terreno della sola
realtà». In questo senso gli “universali fantastici” di Vico hanno colto il nucleo del
problema: il mito diventa linguaggio necessario per ciò di cui non si hanno (ancora)
concetti e che pure hanno una loro consistenza nella «base poetica della mente». Di
qui, ha proseguito Carotenuto, è possibile
valutare il grado di “realtà” del mito, nei
suoi effetti sulla vita degli uomini, come è
dimostrato dalla teoria e pratica psicoanalitica. A questo proposito, ha osservato
Carotenuto, si può convenire con Rollo
May (Il richiamo del mito) quando elenca,
tra le funzioni del mito, quelle di rispondere ai bisogni di identità, di appartenenza ad
un gruppo, di moralità, di creatività, e con
Hans Blumenberg (Elaborazione del
mito), quando mette in evidenza lo statuto
di perpetua interrogazione del mito in quanto un dispositivo per affrancare l’uomo
dall’assolutismo della realtà. E.T.
L’ultimo Merleau-Ponty
In occasione della presentazione del
volume che raccoglie alcuni scritti
dedicati a Maurice Merleau-Ponty,
NEGLI SPECCHI DELL’ ESSERE . SAGGI SULLA
FILOSOFIA DI MERLEAU - PONTY (a cura di
M. Carbone e C. Fontana, Hestia,
Milano 1993) si è svolto il 17 marzo
del 1993, alla Sala Incontri dell’ISU
di Milano, un dibattito sul tema: “IL
PENSIERO DELL ’ ULTIMO MERLEAU - PONTY”.
Oltre a Mauro Carbone, hanno partecipato all’incontro Elio Franzini,
Pier Aldo Rovatti, Carlo Sini.
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Mauro Carbone ha esordito negando la
legittimità della tesi di una “svolta” in
Maurice Merleau-Ponty tra due fasi di
pensiero, e ribadendo il carattere unitario
della sua riflessione. I saggi critici, che
accompagnano testi di Merleau-Ponty raccolti nel volume, mettono in evidenza l’intersecarsi del suo pensiero con quello di
Husserl, Cassirer, Hegel. In tal senso Elio
Franzini ha messo in rilievo, in MerleauPonty, il rapporto fra il pensiero di Husserl
e il concetto di natura. Il carattere unitario
della riflessione di Merleau-Ponty consiste, secondo Franzini, nell’intento di «inserirsi nell’ombra di Husserl», a cui viene
attribuita l’intenzione di dare scacco alla
filosofia riflessiva, sulla base di una visione doxastica. A partire dalla nozione di
“intenzionalità fungente”, misurata sul terreno paradigmatico dell’arte figurativa,
Merleau-Ponty intende prendere le distanze dal tentativo husserliano di pervenire a
una costituzione della realtà vicina all’atteggiamento “naturale”. Per Franzini, tuttavia, il filosofo francese non sottolinea a
sufficienza il passaggio dall’intenzionalità
fungente a quella d’atto, dal risveglio “selvaggio” del senso al mondo del significato.
Dal punto di vista del metodo fenomenologico, ha osservato Franzini, ciò porta a
confondere la modalità di apprensione del
fondamento veritativo con il fondamento
veritativo medesimo, senza scorgere il fatto che l’intenzionalità d’atto è implicata,
per quanto fondata su di essa, dall’intenzionalità fungente; con il rischio di una caduta
nell’ “anonimìa selvaggia”, da un lato, nel
descrittivismo empirista, dall’altro.
Pier Aldo Rovatti ha fatto notare come in
Merleau Ponty la crisi della nozione di
visibilità, e la sua messa in questione,
rinviino alla crisi e alla messa in questione
della nozione di riflessione, che si coniuga
con la questione dell’ascolto. Per MerleauPonty, il visibile si pone in un’inestricabile connessione con l’invisibile, il cui luogo si situa nella “piega” del visibile. A
questo proposito, ha osservato Rovatti, tra
il 1960 e il 1966 si può rilevare l’influenza
di Merleau-Ponty su Lacan e Foucault. Si
danno però in Merleau-Ponty, ha sottolineato Rovatti, due tipologie di invisibilità:
quella della piega, e quella del decentrarsi
del visibile, del suo margine. Si pone qui,
secondo Rovatti, la questione dello sguardo e quella del punctum caecum, ovvero
della peculiare “cecità” dello sguardo in
rapporto alla visione. Quando MerleauPonty esemplifica la sindrome cartesiana
del pensiero moderno nello specchio in cui
esso non vede se stesso, bensì quella struttura proiettiva che esso medesimo vi ha
posto, occorre chiedersi, secondo Rovatti,
che cosa pretenda allora di vedere lo sguardo di Merleau-Ponty. Il se stesso, che
costituisce la risposta a questa domanda,
consiste in un qualcosa che, a parere di
Rovatti, è molto simile al nulla, alla morte,
al punctum caecum.
Carlo Sini ha ricordato il contesto della
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ricezione italiana di Merleau-Ponty attraverso l’opera di Enzo Paci, ribadendo la
tesi dell’influenza decisiva della riflessione di Merleau-Ponty sulla filosofia contemporanea, in particolare in merito alla
questione della visibilità. Quest’ultima rappresenta uno snodo fondamentale della
filosofia occidentale nel suo rinviare alla
questione della verità attraverso la nozione di theorein. In tal senso Sini ha confermato la validità di accostare le riflessioni
di Merleau-Ponty sul rapporto tra essere e
pensiero a quelle di Parmenide e Hegel.
Per quanto riguarda il rapporto tra io e
mondo, Merleau-Ponty opta decisamente
per la “sintesi passiva” di Husserl. Nondimeno, a parere di Sini, Merleau-Ponty si
rende conto dell’intrinseca problematicità
del concetto di “attività passiva”, al quale
rinvia quello di “sintesi passiva”. Tale
concetto risulta, d’altra parte, decisivo per
fondare, nella prospettiva di MerleauPonty, la categoria di soggetto. A questo
propos it o, Sini ha ip oti zzat o che
Merleau-Ponty, impegnato nella polemica contro il coscienzialismo, non avesse sufficientemente chiaro come il proprio progetto di ontologia rappresentasse un passo indietro sulla strada della
riflessione metafisica, rispetto al punto
in cui era giunto Husserl. F.C.
Storia e metodo in Hegel
Dal 31 gennaio al 3 febbraio 1994,
Girolamo Cotroneo ha tenuto presso
l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli un seminario su “IL METODO STORICO E I SUOI PROBLEMI. HEGEL E I ‘ TIPI
DELLA CONSIDERAZIONE STORICA’ “. Oggetto del seminario sono state le pagine
dello scritto sui ‘Tipi della considerazione storica’, posto come “Introduzione speciale” alle ‘Lezioni di filosofia della storia’, in cui Hegel espone il
suo punto di vista sulla storiografia
esistente sino a lui, interrogandosi
sul rapporto tra filosofia e storia, sulla
possibilità di una storia universale e
sul modo in cui è possibile scrivere
una storia del mondo.
Il programma filosofico della nuova storiografia hegeliana intendeva cogliere lo
scopo generale della Ragione nella storia.
La vera storiografia, che Hegel vuole fondare, è la storiografia filosofica, ossia la
considerazione pensante della storia, quella
che mostra la razionalità presente nella
storia. Alla critica mossa a Hegel di voler
giustificare anche il male nella storia con
la frase: «Tutto ciò che è razionale è reale,
e tutto ciò che è reale è razionale», Girolamo Cotroneo obietta che Hegel, nell’aggiunta del 1827 alla seconda edizione
dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, spiega che con reale si deve intendere
non ciò che è semplicemente esistito,
ma, come è indicato nella Logica, ciò
che non poteva non essere, che ha il
carattere della necessità e che per questo
è reale in senso forte.
Il problema presente nello scritto sui Tipi
della considerazione storica, ha fatto notare Cotroneo, è quello di una considerazione storiografica che colga filosoficamente, in quel particolare irripetibile che
la storia mostra, anche l’universale ad esso
sotteso, mostrando degli avvenimenti il
senso razionale in essi racchiuso. A questo
riguardo, Hegel individua tre tipi di considerazione storica, non legati da una gerarchia temporale: la storia organica, la storia
riflettente e la storia filosofica. Per Hegel,
ha osservato Cotroneo, la storia nasce,
quando a guidare l’azione è non più la
natura, ma la Ragione, e si generano
categorie come bene, male, libertà, leggi, stato: la storia come res gestae nasce
dunque contestualmente all’historia
rerum gestarum.
La storia organica è quella concepita da
coloro che sono più vicini ai fatti narrati e
che quindi li vivono in prima persona,
attraverso un’esperienza vissuta e immediata. E’ la storiografia che più delle altre
è quindi immersa nel particolare e nel
“dato”; ad essa appartengono, oltre ai racconti degli storici antichi come Erodoto o
Tucidide, anche le autobiografie e le biografie di uomini illustri, o le storie di
guerre e battaglie riportate da capitani o
uomini di stato. Storia riflettente è invece
quella in cui si raccontano avvenimenti
che non appartengono al presente, facendo
uso di elementi concettuali che distolgono
dal dato: i fatti sono collegati tra loro
secondo un ordine e una successione che
mira a restituire un orizzonte storico più
ampio, in cui inserire gli avvenimenti. In
questo secondo tipo di storia Hegel ritrova
la storia generale di un popolo o di un
ambito geografico, che deve far uso di
astrazione e tipi concettuali per selezionare e concettualizzare il dato.
Oltre alla storia generale, della storiografia riflettente fa parte anche la storia prammatica: Croce, ha osservato Cotroneo, dirà
che tutta la storia è per questo storia contemporanea, nel senso che la guida sempre
il bisogno pratico. Ma l’idea di trarre insegnamenti morali dalla storia non appartiene a Hegel, secondo il quale non può
esservi giudizio morale sulla storia in
quanto ogni evento storico è irripetibile
e unico. Altra specie di storia riflettente,
che Hegel individua, è la storia critica,
che si sofferma a fare una storia della
storia, riflettendo sulle categorie storiografiche e sui modi in cui si applicano al
dato. Ultima specie di storia riflettente è
la storia speciale, ossia la storia di un
determinato settore o aspetto della vita
di un popolo, che pur non investendo
l’universale in sé, pure si occupa di un
determinato universale, occupandosi
delle manifestazioni dello spirito ogget61
tivo di un popolo e dei suoi legami con la
vita complessiva di quel popolo.
Il terzo tipo di considerazione storica è
quello filosofico, che ha per oggetto lo
spirito del mondo e per scopo la storia del
mondo, della quale Hegel può solo mostrare la logica interna. Questa tipo di
considerazione storica presuppone dialetticamente le altre due, che supera inverandole: la sua necessità consiste nel presentare degli avvenimenti solo l’essenziale, il
senso nascosto che è insito in essi e che si
lascia cogliere solo dallo sguardo filosofico, dallo sguardo del concetto. Essa presuppone nel lettore la conoscenza degli
avvenimenti stessi, anche se poi essa se ne
distacca in modo evidente nel restituire
degli avvenimenti la logica interna, la
ragione sottesa, l’universale eternamente presente. L’oggetto della storia è lo
spirito, che essa coglie non in universali
determinati, ma nell’universale che in sé
tutto racchiude.
L’accusa mossa a Hegel di voler scrivere
una storia a priori, applicando ai fatti uno
schema filosofico preordinato è per lui, ha
osservato Cotroneo, senza fondamento: la
massima oggettività consiste proprio nel
cogliere il razionale nella storia come sviluppo dello spirito, che nel farsi si conosce
e che non può non farsi, non può non
divenire nella storia. Lo storico pensante,
nel coglierne la razionalità interna, mostra
il divenire dello spirito nella storia, che ha
un senso e uno scopo che non possono
essere conosciuti a priori, proprio perché
lo spirito si fa, si attua nella storia, che è
appunto la storia dello spirito. Lo scopo
del vero storico, dello storico pensante, è
perciò quello di mostrare l’universale nel
particolare. Da qui, ha fatto notare
Cotroneo, l’accusa a Hegel di non tenere
nella giusta considerazione il ruolo dell’individuo nella storia come motore
dell’azione. Questo fraintendimento scompare, secondo Cotroneo, se si considera
che per Hegel la libertà dell’individuo può
esservi solo nello Stato, ossia in una società governata dalle leggi e dal diritto, e non
nella condizione naturale, dato che per
Hegel la libertà è solo la libertà razionale,
consapevole del diritto e delle leggi. S.S.
Computer, parola, pensiero
Per celebrare la figura e l’opera di
padre Roberto Busa e in occasione
dell’inaugurazione della Scuola di Lessicografia ed Ermeneutica presso la
Pontificia Università Gregoriana di
Roma, si è tenuto a Roma il 17 e 18
marzo 1994 un convegno dal titolo:
“COMPUTER , PAROLA, PENSIERO”. Al convegno hanno partecipato: Carlo Huber, Georges Cottier, Jacqueline Hamesse, Ugo Berni Canani, Luigi Dadda, Jacques Berleur e Giorgio Salvini.
CONVEGNI E SEMINARI
Roberto Busa, padre gesuita, docente di
filosofia all’Università Cattolica di Milano
e fondatore della linguistica computazionale, ha dedicato la vita intera alle ricerche
nel campo dell’informatica applicata alle
discipline umanistiche. Precursore del
“Computer in humanities”, ha aperto la
strada all’impiego dell’automazione in linguistica ancora nel 1946, quando i calcolatori erano appena al loro nascere. A lui si
deve la realizzazione del monumentale Index Thomisticus, ovvero la computerizzazione di tutte le opere di San Tommaso,
stampata in 56 grossi volumi, comprendenti gli indici lessicali e statistici e la
concordanza per forme e lemmi dei testi.
In apertura del convegno, padre Busa ha
presentato gli ultimi risultati della sua pluriennale attività di ricerca computerizzata
sul lessico di San Tommaso (il che ha
permesso ad esempio di smentire la pretesa
“barbarità” del latino di Tommaso), indicando il progetto di un Lessico biculturale,
che traduca cioè il vocabolario di Tommaso non solo nelle principali lingue di oggi,
ma soprattutto nella cultura odierna. Infine, padre Busa ha accennato ai risultati di
due sue ultime ricerche lessicologiche: in
primo luogo la classificazione delle parole
di Tommaso secondo il loro “tipo e grado
di semanticità” (ad esempio, parole “deittiche”, nomi propri di individui, parole che
si riferiscono ad oggetti comuni, azioni o
aspetti degli oggetti, parole che esprimono
concetti astratti e realtà spirituali...); e in
secondo luogo l’analisi della loro “struttura morfotematica” (ad esempio: “incommunicabilis” = “-in-” + “_commun-” + “ic-” + “-a-” + “-bil-” + “-is”), per cui i quasi
undici milioni di parole dell’Index Thomisticus possono essere ricondotti a poche
centinaia di segmenti originari.
Parlando da scienziato, Giorgio Salvini ha
rilevato come il pregio maggiore dell’opera di padre Busa sia stato quello di attualizzare l’opera di San Tommaso: l’analisi
lessicale e la corretta traduzione di alcuni
termini “scientifici” adoperati da Tommaso ce lo presentano infatti molto vicino a
noi e attuale. Entrando invece nello specifico della ricerca filologica, Alberto Bartòla ha esaminato i lemmi integumentum e
involucrum (in connessione a fabula) nella
tradizione latina medievale, e in particolare
in Alano di Lilla. Grazie al CD-ROM dei
Padri latini, elaborato dal CETEDOC di
Lovanio, è possibile osservare come queste parole (a prima vista poco rilevanti)
esprimano l’atteggiamento dei cristiani nei
confronti della cultura e della poesia pagana, bella di fuori, ma povera dentro, a
differenza della Scrittura, che disadorna
esteriormente è però interiormente dolce.
Alla ricerca lessicale e dottrinale su communico, communicatio e gli altri lemmi
della famiglia in Tommaso, Andrea Di
Maio ha affidato il compito di illustrare il
metodo e il procedimento della lessicografia filosofica computerizzata.
Il grosso problema della ricostruzione del-
le fonti degli autori medievali è stato affrontato da Enzo Portalupi. Distinguendo
di ogni parola l’appartenenza al discorso
proprio dell’autore, alla citazione letterale
o al senso, oppure l’ubicazione, l’Index
Thomisticus è uno strumento valido per
determinare almeno sommariamente le fonti esplicite ed implicite di Tommaso. Il
problema maggiore rimane sempre quello
delle citazioni implicite e a senso, per il
riconoscimento delle quali si richiederebbe un particolare software in grado di confrontare le somiglianze fra testi.
Tra le elaborazioni elettroniche di testi
medievali presentate al convegno, Riccardo Quinto ha realizzato un data-base elettronico del catalogo delle questioni teologiche di Stefano Langton: l’uso di particolari codici facilita in questo caso la catalogazione e il riordino delle questioni. Don
Tiziano Sterli ha presentato un progetto di
correzione, aggiornamento ed elaborazione elettronica della Tabula Aurea di Pietro
da Bergamo, il celebre indice delle opere
di Tommaso elaborato nel Quattrocento,
che, a differenza dell’Index Thomisticus, è
concettuale e selettivo, il che ne fa uno
strumento di uso immediato, complementare all’Index.
Nell’ambito, infine, dell’informatica testuale vera e propria, Franco Antonacci ha
annunciato, tra le nuove realizzazioni, la
possibilità di realizzare informaticamente
un breve estratto significativo di un testo
esteso. Anna Labella ha presentato invece
i primi risultati ottenuti da un gruppo di
lavoro interdisciplinare per l’analisi e la
generazione del testo musicale. A titolo di
esempio: le diverse “follie di Spagna” composte nel Cinque e Seicento possono essere
considerate come derivate da un unico
motivo fondamentale (che si comporta
come assioma).
stituiscono il vertice della piramide.
Contro ogni tentazione nominalistica, padre Busa ribadisce che ogni parola ha un
significato primo, che poi si allarga in cerchi concentrici, un po’ come se fosse il
vertice di un cono. Capire bene il senso di
una parola è fondamentale non solo per
interpretare e tradurre correttamente un
testo, specialmente se molto distante cronologicamente e culturalmente da noi, ma
anche per penetrare davvero nei concetti e
nel pensiero di un autore. Ad esempio,
alcuni ipotizzavano che “comunicare” per
Tommaso significasse fondamentalmente
“far sapere”; oppure, in altri casi, “dare” o
“donare”. Ebbene, analizzando sistematicamente a computer tutte le volte che Tommaso usa il verbo “comunicare”, è stato
possibile definirne in maniera davvero induttiva il significato, smentendo quelle ipotesi iniziali, che in realtà proiettavano su
Tommaso le nostre moderne precomprensioni. Così troviamo in Tommaso affermazioni interessantissime: ad esempio, che
«l’uomo e l’asino comunicano l’animalità»
- e in questo caso “comunicare” evidentemente significa “avere in comune”; oppure
che «chi dà qualcosa la perde, ma chi comunica qualcosa la mantiene» - e in questo caso
“comunicare” vuol dire “rendere comune”,
o anche “mettere in comune”. A.Di M.
Consulente del governo tunisino per la
Concordanza del Corano e di quello norvegese per il regesto della letteratura orale del
popolo esquimese, Roberto Busa è l’autore della Thomae Aquinatis Opera Omnia
cum Hypertestibus, l’ipertesto su CD-rom
in cui è stato riversato l’Index Thomisticus,
il censimento lessicologico dell’intera opera
di San Tommaso: settantamila pagine, oltre dieci milioni di voci, assemblate in 56
volumi che contengono più di venti milioni
di righe. La grandezza dell’impresa di padre Busa sta nell’aver computerizzato quantità enormi di testo in maniera intelligente,
fornendo cioè al computer quelle informazioni linguistiche, che nella lettura dei testi
vengono presupposte. Con l’aiuto del computer, padre Busa ha “lemmatizzato” e “segmentato” tutte le parole presenti nelle opere di Tommaso (e di qualche altro autore
medievale). Da una base di dieci milioni e
mezzo di parole, riconducibili a circa centocinquantamila forme diverse, è stato possibile risalire a soli ventimila lemmi, che a
loro volta si riducono a poche centinaia di
segmenti elementari ed originari, che co-
Padre Busa, da cosa è nato il suo interesse
per l’informatica? Che cosa l’ha spinta,
Lei filosofo e teologo, ad occuparsi di
computer?
L’interesse è sorto innanzitutto da un’esigenza di carattere pratico e strumentale,
legato al lavoro di verifica puntuale e integrale del lessico di San Tommaso. La logica del computer è la stessa dei censimenti e
della statistica e quindi si dimostrava perfettamente funzionale alle nostre esigenze.
Nel campo della filologia, prima della nascita dei calcolatori, bisognava accontentarsi di campionature; oggi il computer
permette censimenti integrali non solo di
parole, ma di caratteri, interpunzioni e di
qualsiasi altro segno e delle loro distribuzioni combinatorie. Potrei, ad esempio,
sapere quante volte tra le 230.000 parole
che compongono i Promessi Sposi sono
presenti voci con due “zz” consecutive,
come gazza, mazza, tazza. Il computer esige e permette un approfondimento delle
conoscenze linguistiche, grammaticali e
discorsive, ossia una nuova filologia, finora impensabile; quindi un utilizzo intelli-
62
L’impresa dell’informatizzazione dell’opera di San Tommaso è iniziata più di quarant’anni fa. Padre Busa ottenne allora di
poter accedere all’elaboratore della prima
generazione IBM e di poterlo usare per
studiare il linguaggio di San Tommaso. Da
quel 1949, non c’è stata generazione di
supporto informatico al quale padre Busa
non abbia sottoposto la sua opera. Su questa impresa Eddy Carli ha intervistato
padre Roberto Busa.
CONVEGNI E SEMINARI
San Tommaso d’Acquino
63
CONVEGNI E SEMINARI
gente della macchina non deve limitarsi a
velocizzare le operazioni, ma portare ad
approfondire ed estendere metodi e conoscenze; non diminuisce la quantità di lavoro umano, ma lo esalta.
Se da un lato il mio rapporto con le macchine è strumentale, vi è tuttavia un legame
profondo con la filosofia. Il punto di contatto è questo: se per filosofia intendiamo
l’andare a fondo delle radici del pensare,
per conoscere come pensiamo dobbiamo
analizzare come parliamo, perché nessuna
scienza può essere fondata sull’introspezione personale individuale, ma va fondata
su una introspezione sociale, collettiva,
controllabile. Questo significa che per studiare il pensiero bisogna studiare il linguaggio nella comunicazione sociale: in
questo il computer è uno strumento fondamentale, poiché consente di investire le
energie intellettuali in operazioni sofisticate, a livello decisionale.
Il rapporto con il calcolatore implica poi il
rapporto con la matematica, con il numero,
da sempre elemento essenziale della realtà.
Il riassunto della teologia trinitaria cattolica si riassume in questi cinque numeri: 1.
natura; 2. generationes (o processiones);
3. personae; 4. relationes; 5. notiones.
Gran parte del Suo lavoro di ricerca è
incentrato sulle concordanze linguistiche.
La Sua vastissima catalogazione del lessico di San Tommaso è basata sulle concordanze. Ci può dire di che cosa si tratta?
Noi parliamo prima con frasi, che con parole; l’unità elementare del discorso è la
frase e non la singola parola. Le parole
assumono vari significati o livelli di significato a seconda della frase. Se io dico: «La
vecchia porta», non so ancora se intendo il
vecchio uscio o invece che la vecchierella
arreca. Se aggiungo: «La vecchia porta di
casa»; oppure, «La vecchia porta in casa le
bottiglie del latte» il significato muta completamente. Ogni parola singola acquista
significati diversi se inserita in una frase.
La concordanza è una parola che ha vari
significati: in grammatica è la concordanza
dei generi delle persone; in filologia è un
documento di studio. Per esempio, nella
Divina Commedia posso dare di ogni diversa parola, uno dopo l’altro, tutti i versi
che concordano nel contenerla: ogni verso
rappresenta un abito diverso della parola.
Le concordanze hanno cominciato ad essere eseguite su schede, ancor prima dell’invenzione della stampa, e richiedevano anni
di lavoro paziente. Oggi, con il computer,
sono “relativamente” facili, sicuramente
più veloci, ma non meno complesse.
Qual è la Sua posizione riguardo all’attuale dibattito sull’intelligenza artificiale? Che cosa ne pensa dei tentativi di
creare macchine capaci di pensare, di
avere coscienza e sentimenti?
Sono un entusiasta dell’Intelligenza artificiale; intesa però come settore specifico
dell’informatica e non come progettazio-
ne di cervelli e menti fantascientifici. Parto semplicemente dal rilievo che il rapporto uomo-macchina è il rapporto autoreopera: la macchina è espressione dell’uomo. L’autore è quello a cui è venuta l’idea
nella sua mente; tale idea viene poi sviluppata passando dalla prima intuizione macroscopica all’analisi dettagliata di tutti i
suoi componenti e passaggi esecutivi. Nel
caso dell’intelligenza artificiale, per delegare alla macchina una parte delle proprie
funzioni, l’uomo deve prima di tutto conoscere come esegue queste sue proprie funzioni; le deve analizzare passo passo, formalizzarle in algoritmi per computer e
quindi “bytizzarle”. Ossia, per far funzionare il computer in modo veramente intelligente, l’uomo deve prima conoscere se
stesso. Io personalmente considero questa
parte dell’informatica, l’intelligenza artificiale, un nuovo settore di interiorità e di
umanesimo: è l’uomo che mette in pratica
ciò che era scritto sul tempio di Delfi,
«Conosci te stesso!». Riguardo all’Intelligenza artificiale, il problema è solamente
un problema di uso delle parole: intenzionalità, coscienza, interiorità sono termini
che si equivalgono, e riferirli alla macchina è semplicemente assurdo. Sono caratteristiche umane; e porre la questione di
un’intelligenza originaria del calcolatore
non ha senso; sarebbe come dire che un
figlio mette al mondo il proprio padre. La
macchina è opera dell’uomo per definizione; ciò che non è opera dell’uomo sono i
segni dell’uomo. Proprio perché è un’opera umana altamente sofisticata, il calcolatore, per essere ottimizzato nelle sue funzioni, richiede una conoscenza adeguata.
Più la macchina è sofisticata, maggiori
sono le conoscenze di cui dobbiamo disporre. Sembra che i computer facciano
tutto da soli; ma è affatto diverso.
Interpretazioni dello storicismo
Definire criticamente oggetto e metodologia dello storicismo, individuandone le intersezioni teoriche con
altre regioni filosofiche, è stato il tema
di un incontro, presieduto da Hans
Georg Gadamer, svoltosi a Napoli il
22 febbraio 1994 nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici con
la partecipazione di Franco Bianco,
Aldo Masullo, Giuliano Marini, Fulvio
Tessitore. Occasione dell’incontro è
stata la presentazione di due recenti
studi: STORICISMO PROBLEMATICO E METO DO CRITICO (Guida Editore, Napoli 1993),
di Giuseppe Cacciatore, e L’ECCEDENZA
DEL PASSATO. PER UNO STORICISMO ESISTENZIALE (Morano, Napoli 1993), di
Giuseppe Cantillo.
Introducendo alla discussione, Hans
Georg Gadamer ha sottolineato la conti64
guità teorica e problematica della filosofia
napoletana con lo storicismo tedesco. A
sua volta Franco Bianco, nel puntualizzare questo aspetto comune, ha fatto riferimento alla tradizione napoletana da Vico a
Croce, sino alla riflessione contemporanea
di Piovani. Proprio a quest’ultimo, ha osservato Bianco, è fedele Giuseppe Cantillo, che nel suo L’eccedenza del passato
sperimenta il tentativo di raccordare i temi
della riflessione storicista a Jaspers e all’Exsistenz-philosophie attraverso la figura di Ernst Troeltsch.
La problematicità dello storicismo, il suo
valore critico non conclusivo è del resto il
nucleo fondamentale anche della lettura di
Giuseppe Cacciatore, che in Storicismo
problematico e metodo critico, pone l’accento sull’inesauribilità della vita, sull’ultima incompresibilità della stessa, delineando così un panorama aporetico della ricerca. Lo studio di Cacciatore intende dare
concreta oggettivazione teorica a quel lavoro di «ripensamento della Weltanschauung storicistica in chiave critico-problematica» che «pur (...) senza altisonanti
movenze, ha segnato un momento non secondario della cultura filosofica e storiografica di questa seconda metà di secolo e
che ha trovato a Napoli e nella sua facoltà
filosofica il maggior punto di irradiamento
e radicamento». S’intende quello storicismo «nato dal tronco del cosiddetto kantismo “eterodosso”, forgiatosi nell’antropologia storica di Humboldt e nell’etica ermeneutica di Schleiermacher, sviluppatosi nella filosofia e gnoseologia diltheyana
delle scienze dello spirito, autocriticamente ripensato e riformulato nella “logica
materiale della storia” di Troeltsch» così
come nella filosofia cassireriana delle forme simbolico-culturali.
E’ appunto questa «grande costellazione di
filosofi storici e filologi che costituisce lo
scenario entro cui si definiscono le linee
storiche e le coordinate teoretiche di quello
che...Pietro Piovani prima e Fulvio Tessitore poi hanno chiamato “storicismo critico-problematico”».
Il termine di storicismo critico-problematico intende caratterizzare ad un tempo la
sostanza storico-problematica ed il metodo
critico-conoscitivo di quella opzione teorica che si è venuta in questi anni configurando come il lavoro filosofico-storiografico
peculiare di quella dimensione dello storicismo che «considera il mondo storico dell’uomo in una direzione antimetafisica e
antiontologica che pone al centro i temi del
linguaggio, della comprensione, della cultura», e dunque trova il suo centro propulsore più proprio nel ripensamento tanto
della costitutiva finitezza dell’esistenza storica e delle forme della sua autocomprensione, quanto di quella della prassi umana e
del suo tentativo di autodestinazione etica.
Sulla centralità del tema diltheyano dell’Erlebnis nello studio di Cacciatore è intervenuto Giuliano Narini, che ha puntualizzato come, tra Hegel e Bloch, proprio
CONVEGNI E SEMINARI
Dilthey rappresenti la prospettiva teorica
della conciliazione fra forme e vita. Nello
scritto di Cantillo, invece, l’attenzione è
centrata intorno al tema dell’Erleben religioso, che diventa il presupposto teorico
tanto in Schleiermacher, quanto in Troeltsch, per l’elaborazione di una teoria del
comprendere storico.
Richiamandosi al pensiero di Cantimori,
Aldo Masullo ha sottolineato la “laicità”
delle opere di Cacciatore e Cantillo. E se in
Cacciatore la questione dell’intersoggettività e dello scambio - anche linguistico - è
fondamentale per delineare pure la sintesi
dell’individualità vivente nella storia e di
quella che invece “comprende” l’accaduto,
in Cantillo l’analisi troeltscheana della dimensione religiosa tende a mostrare l’incompletezza dell’esperienza umana, che,
naturalmente, tende al trascendimento. Cantillo, ha poi puntualizzato Masullo, individua nell’eccedenza del passato propria dell’analisi storicista il punto di ulteriorità
della dimensione umana rispetto al tentativo teorico di “comprensione”: la consapevolezza del limite entro il quale mi muovo
lascia intravedere l’esistenza di qualcosa
che è Altro-da-me.
In questa dimensione interpretativa, che
dichiara la sua stretta filiazione della tematica dell’Exsistenz-philosophie, si colloca,
d’altra parte, lo studio di Francesco Miano, Etica e Storia in Karl Jaspers (Loffredo, Napoli 1993), che trae dalla lezione di
Cantillo i termini per sviluppare un’analisi
del pensiero di Jaspers, nella prospettiva
del rapporto tra il singolo e la multiforme
fenomenologia delle situazioni che fanno
la storia. Nel progetto di un’etica che si
amplii in storia, come insegnava Droysen,
Miano vede dunque il luogo di convergenza fra l’ipotesi “semplicemente” storicista
e quella esistenzialista.
Nel suo intervento, Fulvio Tessitore, pur
manifestando il suo consenso riguardo all’esercizio critico affrontato dalle opere di
Cacciatore e Cantillo, ha tuttavia espresso
un lieve dissenso riguardo alle proposte
interpretative dei due autori, sottolineando come lo storicismo non sia solo metodo, ma anche congedo da ogni metafisica
dell’ontologia. M.P.R.
Capire la filosofia
Nel mese di marzo 1994, si è svolto alla
Casa della Cultura di Milano un dialogo tra Mario Vegetti e Fulvio Papi, in
occasione della presentazione del volume: CAPIRE LA FILOSOFIA (Ibis, Milano
1994). Quest’opera recente di Fulvio
Papi ci propone una riflessione sull’essenza della pratica filosofica, sulle sue
modalità di accesso, nella forma di
un’articolata esemplificazione della
pratica medesima, di una vera e propria messa in opera del “fare filosofia”.
Introducendo il dibattito, Mario Vegetti
ha attribuito all’opera di Fulvio Papi caratteristiche di “levità”, “chiarezza” e “severità”, individuando nell’opera due linee
tematiche. La prima riguarda il carattere
“aristocratico” della filosofia: la filosofia
non è un sapere pubblico; non è sottoposta
al senso comune, né consiste in una pratica
accessibile a tutti. Secondo Vegetti, nella
visione della filosofia proposta da Papi,
due sono gli elementi richiesti: quello “platonico”, cioè il desiderio e la passione per
il sapere, e quello “aristotelico”, cioè la
dedizione al “mestiere” della filosofia. Ciò
che separa la gran parte degli uomini dalla
filosofia è un ostacolo di natura morale;
che può estrinsecarsi, a livello di tratto
caratteriale dominante nell’individuo,
come sicurezza e fiducia nell’esistente,
come ricerca dell’utile immediato, ma anche, all’opposto, come debolezza psicologica, incapacità di sopportare e padroneggiare contraddizioni e asperità del reale. A
questi tratti vengono fatti corrispondere
dei tipi antropologici, che hanno in comune tra loro la mancanza di ciò che vien
sempre richiesto per l’esercizio della filosofia: il senso di incompiutezza della propria esperienza di vita.
Una seconda tematica, presente nel testo
di Papi, ha proseguito Vegetti, riguarda la
questione dell’utilità della filosofia, che la
filosofia rovescia nella domanda su ciò
che è veramente utile, sui fini dell’esistenza e, conseguentemente, su ciò che si ritiene essenziale per un’esistenza compiutamente umana. I tipi psicologici che mostrano la loro inadeguatezza a porre la
domanda filosofica pervengono in questo
caso a una risposta che, per motivi differenti, conclude a un’inutilità della filosofia nel risolvere i “veri problemi della
vita”; caratteristica comune di questi tipi
consiste, infatti, nel manifestarsi in atteggiamenti immediatistici, spontanei, “naturali” nei confronti dell’esistente, laddove
la filosofia nasce proprio dallo spaesamento nei confronti di esso, ed è finalizzata a una ricostruzione del senso dell’esistenza. Per Papi, ha rilevato Vegetti, l’esercizio filosofico è dunque “necessario”, in
quanto “moralmente” cogente. Tuttavia,
l’universalizzazione che questa affermazione comporta, sembra generare un’aporìa: anche se la filosofia non è “da tutti”,
essa tende a una dimensione intersoggettiva, rivendica a sé una validità “per tutti”.
E’ la filosofia stessa, ha ribattuto Fulvio
Papi, a esplicitare il fatto di non essere “da
tutti”. La “severità” della filosofia, il suo
carattere aristocratico, non pertengono a
una decisione del filosofo, né del critico,
bensì risiedono nella “cosa stessa”: è la
filosofia a punire, inesorabilmente, atteggiamenti narcisistici, o di debolezza, nei
confronti dell’esistente, e a richiedere dedizione. Il carattere moralmente necessitante, richiamato da Vegetti, consiste, secondo Papi, tanto nella capacità di autoorganizzazione del pensiero in quanto “con65
figurazione di mondo”, quanto nella forza
con la quale un pensiero “ben costruito”
penetra nel mondo configurato. E’ a questo punto, ha sostenuto Papi, che entra in
gioco la dimensione di universalità, d’interesse “per tutti”, per il mondo, proprio
dell’esercizio filosofico, laddove il carattere di esercizio della filosofia non è un
dono, bensì una conquista, cioè una prassi.
In virtù di questo aspetto, il filosofo ha con
la filosofia un impegno e una responsabilità, consistenti nel patto contratto con
l’oggetto della sua attività. Per questo la
filosofia si definisce «come l’incontro di
due esigenze, una che nasce da un particolare “desiderio”, la seconda che appartiene
alla chiamata che compie l’oggetto filosofico nei nostri confronti».
Ma dove s’incontra l’oggetto filosofico si è chiesto Papi? In primo luogo sui testi:
non esiste comprensione filosofica che
non sia comprensione di testi. La questione della “difficoltà” della scrittura filosofica va collocata nella sua giusta prospettiva: quella di un lessico specializzato, che
è però indispensabile, stante la specificità
delle questioni affrontate. Ogni domanda
filosofica sorge, infatti, da un desiderio
esistenziale, ma non tutti i bisogni esistenziali danno luogo a domande filosofiche.
Proprio per questo il lessico specializzato
si rivela anche come la strada più economica per giungere alla comprensione del
problema in gioco, che in filosofia si esprime comunemente attraverso la concettualizzazione. E’ vero, infatti, che esistono
testi filosofici in cui il legame tra problema
e concetto, “il lavoro del concetto”, risulta
meno evidente; anche se dal punto di vista
di un “apprendistato filosofico”, ha osservato Papi, è tuttavia preferibile avviare la
propria formazione su quei testi nei quali il
concetto assume in modo più palese il
proprio compito ostensivo nei confronti
del problema, dando luogo a una configurazione testuale, che ne mostri le possibili
articolazioni. Nell’avvicinamento al problema, attraverso l’esibizione operata dal
concetto, cioè nell’incontro col testo, si fa
esperienza del confronto con un’alterità,
che si riconosce come identità con sé nel
divenire della pratica di comprensione del
problema. In questo esercizio filosofico,
ha ricordato Papi, il carattere necessitante,
quasi costrittivo, della filosofia viene realizzato anche attraverso il confronto con i
“compagni di strada”, colleghi e allievi.
Intervenendo nel dibattito, Silvia Vegetti
Finzi ha richiamato il parallelismo, istituito da Freud, tra le domande del bambino
e quelle della filosofia. Almeno in via
iniziale, la filosofia nasce come “da tutti”;
sorge quindi il sospetto, nel passaggio da
una filosofia “da tutti” a una filosofia “per
tutti”, del “sequestro” della riflessione filosofica da parte di coloro che la praticano
come mestiere.
Citando, ma non sottoscrivendo, una possibile risposta rousseauiana (per cui sarebbe la società, e non i filosofi, a far perdere,
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nella maggior parte degli uomini, il carattere originariamente filosofico delle loro
domande esistenziali), Papi si è detto convinto che la questione non si ponga assolutamente su questo piano. Almeno da Kant
in poi, ogni domanda filosofica subisce
infatti un raddoppiamento della domanda
medesima con il suo senso, il suo telos; ciò
esclude, in via di principio, il carattere
immediato, “naturale”, delle questioni filosofiche, che pertiene invece alle domande dei bambini. Per questo effetto di raddoppiamento, in cui si genera il problema
del senso, in ciascuna domanda filosofica
vive - caso unico fra i saperi umani - la
filosofia nella sua interezza: in ogni problema la filosofia si mette in gioco nella
sua totalità. F.C.
Foucault: archeologia dei saperi
Nel mese di novembre 1993 si è tenuto, presso l’Istituto Filosofico “Aloisianum” di Gallarate, un seminario
dedicato a Michel Foucault, organizzato e diretto da Ubaldo Fadini e Adelino Zanini, sul tema: “ARCHEOLOGIA DEI
SAPERI. PRODUZIONE DI SOGGETTIVITÀ E FORME DI RAZIONALITÀ”, che ha inteso attraversare le diverse prospettive dell’universo foucaultiano.
La relazione di Chiara Di Marco (“Discontinuità storiche e decentramento del
soggetto. La piega del fuori”) si è incentrata sul rapporto fra l’uomo e l’umano, ovvero sull’ “antiumanesimo” foucaultiano.
La decostruzione del soggetto, operata dalla
genealogia, si orienta in Michel Foucault
verso la domanda su come gli uomini
siano diventati soggetti e, ancor più, su
come si sia passati dal soggetto all’individuo. Secondo Di Marco, l’oltrepassamento dell’individualità si profila, in Foucault,
come una pratica di liberazione del soggetto: l’ “ontologia”, alla quale in questo
modo si pone capo, rinuncia alla questione
veritativa, per sostituirla con quella relativa alle pratiche di costruzione del Sé. L’
“analitica della finitudine”, che emerge
dalla trattazione foucaultiana, fa perno su
ciò che si trova “nel cuore stesso dell’empiricità”: il corpo.
Sulla base della controversia tra Derrida e
Foucault, Claudia Dovolich (“Il dibattito
fra Derrida e Foucault sulla funzione epistemologica della follia”) si è occupata
della datazione di istituzione ed esclusione della follia da parte della ragione. Porsi
la domanda sul “quando” dell’istituirsi
della categoria della follia, nonché della
costruzione, logica e materiale, dei recinti
per circoscriverla, significa porsi la domanda sul cadere o meno nella storia del
suo inizio; ovvero, sul darsi o meno, nel
passato, di un periodo in cui tale istituzione non esisteva ancora. Judith Revel
(“Foucault e il pensiero maledetto: Nietzsche, Bataille, Blanchot”) ha invece indagato l’eredità nietzscheana presente in
Foucault, che fondamentalmente cerca in
Nietzsche quegli elementi per liberare il
dibattito filosofico dalle impasses nelle
quali lo avevano gettato, alla fine degli
anni Settanta, le polemiche fra marxismo,
strutturalismo e psicanalisi. Secondo Revel, l’eredità nietzscheana in Foucault va
cercata anzitutto nella polemica contro lo
hegelismo, da un lato, e in quella contro la
fenomenologia di Sartre e Merleau-Ponty
dall’altro. Influssi di una tale eredità si
possono rintracciare nel rifiuto di una verità sostanzialistica e astorica del soggetto
e nell’interesse per la corporeità. In
Foucault, la lettura di Nietzsche, di Blanchot e di Bataille interagiscono sulla
questione della trasgressione: l’originalità dell’impostazione foucaultiana consiste nell’aver saputo mettere in luce,
nello stesso tempo, in che misura ogni
trasgressione nasca dal limite della situazione che essa denuncia, e come essa
possa emanciparsi dalla denuncia, e dalla situazione medesima.
Il corso di lezioni foucaultiane dedicate
all’assolutismo è stato il tema della relazione di Valerio Marchetti (“L’educazione del principe di Borgogna: la guerra
delle razze”), che ha rilevato come Foucault
insista su due punti: la natura del sapere
del Principe (il principe di Borgogna, nipote di Luigi XIV ed erede al trono, era il
capo dell’opposizione aristocratica feudalista all’assolutismo regio), e la denigrazione della guerra, parallelamente all’esaltazione della rivoluzione da parte del proletariato. Secondo Foucault, relativamente al complesso della realtà sociale ed
economica sul quale si esercita la propria
sovranità, il principe, ovvero il potere politico, non sa nulla di più di ciò che il
proprio apparato amministrativo gli indica. In queste condizioni, per l’opposizione
risulta necessario colpire non il potere
politico, bensì influire sul potere (e sul
sapere) degli intendenti. Sempre in riferimento alle lezioni foucaltiane, Mauro
Bertani (“Sul liberalismo”) ha invece rilevato che il liberalismo appare in Foucault
come un insieme di prassi, un modello di
razionalità. La sua ratio governamentale
rappresenta uno strumento, che si evolve,
però, in criterio: la giurisprudenza rimuove il diritto. Nelle analisi foucaultiane,
l’elemento principale del progetto di governo del liberalismo è, in realtà, lo strumento repressivo.
Alla questione del rapporto fra sapere della genealogia e genealogia del sapere si è
rivolto Mario Piccinini (“Il logos dell’arché: genealogia e concetto. A proposito de
Les mots et les choses”). Relativamente
alla questione del sapere, in Foucault il
problema dell’episteme impone di pervenire a una considerazione non riflessivistica, bensì strutturale del concetto. In tal
senso, il campo semantico del concetto
66
viene mutato attraverso il suo inquadramento in un orizzonte diverso da quello di
partenza. Ciò fa però emergere il problema
di interpretare la nozione di “campo semantico” in prospettiva storica, non storicista, evitando di considerare le trasformazioni epistemiche alla stregua di evoluzioni della concettualizzazione. Emerge qui,
ha sostenuto nel suo intervento Adelino
Zanini, la questione della rappresentazione. Il rifiuto della concettualizzazione
dell’episteme (in quanto l’episteme rappresenta la condizione di possibilità della
concettualizzazione), nonché il tentativo
per una caratterizzazione non riflessivistica del concetto, e non storicista del trapasso da una forma di episteme all’altra, rinviano, entrambi, alla medesima questione,
quella relativa a una caratterizzazione “originaria” della rappresentazione, che non
va però confusa con la ricerca dell’origine:
la specificità del sapere epistemico, e quindi
anche del trapasso da un’episteme all’altra, consiste, infatti, nel suo carattere genealogico, in quanto differenziato da quello di originarietà.
Giorgio Patrizi (“Forma letteraria e soggettività”) è intervenuto in merito al ruolo
del soggetto nel contesto della creazione
letteraria. Foucault decostruisce l’autore
in quanto soggetto, per leggerlo come effetto di pratiche di legittimazione. Il filone
della cultura letteraria francese, che fornisce a Foucault gli strumenti per la sua
analisi, si riassume nella figura di Maurice Blanchot, che coniuga lo heideggerismo con la cultura ebraica nel tentativo,
analogo a quello intrapreso da Levinas, di
uscire dall’ontologizzazione attraverso il
continuo rinvio all’ “altro”. Si tratta, attraverso il pensiero del “di fuori”, di sottrarre
il soggetto a ogni possibile “ontologia dell’origine”. Intervenendo sulla questione,
Ubaldo Fadini ha ripreso e connesso il
pensiero del “di fuori”, il tema del rifiuto
della nozione di “origine” e la polemica
contro la “profondità”. Il pensiero dell’esodo, nel suo connettersi inscindibilmente, come pensiero del “di fuori”, allo
sguardo “di dentro”, mette in discussione
la nozione di origine, che si accosta rischiosamente all’ipostatizzazione di un
momento storico determinato. La rivendicazione del metodo genealogico rappresenta in Foucault il rifiuto di un’impostazione siffatta, e si connette alla polemica
contro la profondità, in quanto rivendica
l’affrancamento dall’obbligo di cercare,
in un “al di là” di stampo metafisico, il
fondamento dell’ “al di qua”.
Nel suo intervento, Tiziana Villani (“Il
problema della cura: percorsi di verità e
strategie di potere”) ha preso le mosse
dall’approccio metodologico di Foucault
nei confronti del rapporto tra soggetto e
oggetto. Lo spazio della realtà si configura, nella prospettiva foucaultiana, come un
reticolo di relazioni che estrinsecano la
manifestazione del potere, rivelando la
sua pervasività, il suo articolarsi in una
CONVEGNI E SEMINARI
Michel Foucault
“microfisica”. A partire da questo quadro
generale, l’approccio di Foucault al problema della “cura” rivela la sua autonomia
e la sua specificità nei confronti, per esempio, di quello di Heidegger, realizzandosi
nel legame con la pratica dell’ascetismo e
con le sue valenze politiche, attraverso
l’ascolto dell’oracolo. La pratica ascetica
si colloca in una dimensione sapienzale e
rappresenta la messa in pratica dell’ascolto come forma di pietas, come “prendersi
cura” dell’altro. Con un esplicito richiamo
a Merleau-Ponty, questa pratica è resa
possibile dal corpo, quel neutro che costituisce il medium della cura.
Situare la riflessione foucaultiana nel contesto di alcune tendenze del pensiero contemporaneo è stato l’intento di Pierre Dalla
Vigna (“L’elemento sfuggente: poteri e
strategie in Foucault”). Secondo Dalla Vigna, esistono due atteggiamenti, che permettono di misurare il valore della teoria
foucaultiana del potere. Il primo è quello
“neognostico”, caratterizzato da una visione del mondo, con ascendenze nietzscheane, come luogo della compiuta pec67
caminosità, che deve essere salvato dal
piccolo gruppo degli eletti, dei puri. Il
secondo atteggiamento, che Dalla Vigna
definisce “neocinico”, dichiara invece l’impotenza del pensiero e l’accettazione dell’esistente così come esso si presenta.
Contro l’uno e contro l’altro atteggiamento, la foucaultiana “microfisica del potere”, che sottolinea il carattere diffuso e
pervasivo di quest’ultimo, comporta la
possibilità e la necessità di un’opposizione radicale all’esistente, che non ha come
obiettivo nessun potere centralizzato. F.C.
CALENDARIO
La Fondazione Collegio San Carlo ha
organizzato a Modena dal 15 al 21
settembre 1994 il Quarto Corso di
Studi Superiori su: Rappresentazio-
CALENDARIO
ni sociali e identità nella teoria
sociale e psicosociale, tenuto da S.
Moscovici e A. Pizzorno. Il 17 settembre 1994, W. Doise è intervenuto sul
tema: Le rappresentazioni sociali
dei diritti umani. Il Centro Studi
Religiosi della Fondazione San Carlo
organizza da ottobre a dicembre 1994
un ciclo di seminari su: Il viaggio di
Giona. Effetti di senso di una figura biblica. Questo il calendario degli
incontri: 10 ottobre, P. Lombardini:
“Giona, ovvero la difficoltà dell’essere ebreo. Per un primo approccio al
testo”; 7 novembre, A. Bodrato: “Parmenide e Giona”; 23 novembre, G.
Limetani: “La lettura ebraica di Giona”; 5 dicembre, M. Gay: “Il compito
di Giona. Una lettura psicoanalitica”;
12 dicembre, M. E. Notari: “Gli effetti
artistici del libro di Giona”.
● Informazioni: Fondazione Collegio San Carlo, via San Carlo 5, 41100
Modena, tel. 059/222315.
In occasione del secondo centenario
della pubblicazione dello scritto di
Kant: Sulla pace perpetua, la Società
Italiana di Studi Kantiani ha organizzato il 30 settembre 1994, presso la
Scuola Normale Superiore di Pisa, il
convegno di studi: Kant politico. Qui
di seguito i relatori e i temi di discussione: G. Marini: “Il diritto cosmopolitico nel progetto kantiano per la pace
perpetua con particolare riferimento al
secondo articolo definitivo”; M. Mori:
“Pace perpetua e pluralità degli stati in
Kant”; C. Cesa: “Quale storia per la
pace perpetua”.
● Informazioni: Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze Umane, via Magenta 5, 00185 Roma, tel.
06/491632.
Il Centro Studi “Romolo Murri” organizza nei giorni 1 e 2 ottobre 1994 al
Teatro Comunale di Gualdo due Giornate di Studi su Romolo Murri.
Intervengono: A. Botti: “Romolo
Murri e Mario Missiroli”; S. Trincia:
“Il socialismo di Murri”; O. Rossi:
“L’estetica murriana”; G. Campanini:
“I cattolici e l’idea di partito: da ‘I
propositi...’ di Murri al discorso di
Caltagirone di Sturzo; F. Mignini: “Il
messaggio cristiano e la storia”. Partecipano all’incontro: A. D’Angelo, R.
Morresi, E. Rambaldi e N. Raponi.
● Informazioni: Centro Studi “Romolo Murri”, via Dante Alighieri 6,
Gualdo (Macerata), tel. 0733/668496.
Patrocinato e organizzato dall’Amministrazione Provinciale di Como, dall’Angelicum Mondo X, dall’Università degli Studi di Milano, dall’International School of Plasma Physics
“Piero Caldirola” e dalla Commission
of European Communities, si tiene dal
2 al 6 ottobre 1994 presso il Teatro
Angelicum di Milano e la Villa Monastero di Varenna, un convegno internazionale su: Terzo millennio. L’uo-
mo, i limiti e la speranza. Interven-
the avatars of rationality”; G. Toraldo
di Francia: “L’età della saturazione”;
S. Acquavia: “Progettare la felicità:
scienze dell’uomo e progetto politico”; J. Jacobelli: “La televisione, quinto
cavaliere dell’Apocalisse?”. 6 ottobre,
G. Basetti-Sani: “Uno sguardo cristiano sul Corano e il mondo musulmano”; T.Y.S. Lama Gangchen: “Luce
da Oriente”; S. W. Pallavicini: “La
conoscenza divina quale scopo dell’esistenza umana”; G. Laras: “L’uomo tra potenza e fragilità”; M. Barbetta: “La scoperta come passione degna
della grandezza dell’uomo”.
● Informazioni: Amministrazione
Provinciale di Como via Borgo Vico
148, 22100 Como, tel. 031/ 230275;
Angelicum Mondo X, p.za S. Angelo
2, 20121 Milano, tel. 02/206366.
gono: 2 ottobre, G. Giorello: “Alla
fine di un Millennio: tra senso e verità”; M. Cacciari: “Terzo Millennio:
l’Uomo, i Limiti e la Speranza. 3 ottobre G. Salvini: “Fame, povertà, guerra: il contributo della Scienza alla pace
- VII Amaldi Conference in Varsavia”; E. Agazzi: “Razionalità scientifica e significato dell’esistenza”; R.
Vlad: “La musica tra scienza e umanesimo”; G. Coyne: “Quattro tappe principali dei rapporti scienza-fede negli
ultimi tre secoli”; E. Severino: “Verità
e tecnica”; G. Giorello - B. Sassoli:
“Was ist der Mensch? La domanda
kantiana tra oggettività e soggettività”; C. Sini: “L’uomo e la ‘ragione
destinata’ “; G. Reale: “Sette mali
dell’uomo contemporaneo: messaggi
terapeutici del pensiero dei greci”; M.
Mamiani: “Newton e l’Apocalisse:
certezza ermeneutica e metodo scientifico”. 4 ottobre: R. Dulbecco: “Ruolo dei geni e dell’ambiente nel determinare le caratteristiche dell’uomo”;
A. Oliviero: “Sviluppi della biologia e
persona umana”; R. Gallo: “AIDS: in
the next Millennium can we control
the Virus?”; P. Davies: “The Emergence of Mind in the Cosmos”; J.
Barrow: “The Limits of Human Knowledge”; E. Teller: “A Millennium of
Progress for Better or for Worse”; R.
A. Ricci: “Conoscenza e cultura: valori e limiti della ricerca scientifica”; P.
Fasella: “Scientific literacy and bioethics: trends in Europe”; G. Corna
Pellegrini: “La Lombardia verso il terzo Millennio: scrutando con ironia le
tendenze di una geografia in rapida
evoluzione”; E. Bianchi: “Rischio e
complessità ambientale”; E. Macorini: “Imparare il futuro: metodi e strumenti per l’informazione”; G. Degli
Antoni: “Etica per le tecnologie dell’informazione del terzo Millennio”; 5
ottobre: G. Caglioti: “Estetica e sue
radici scientifiche”; M. Romano: “Fino
a che punto le innovazioni tecniche
possono modificare il senso della città
come opera d’arte?”; L. Caramel: “Il
destino dell’arte come atto e progetto
di vita nel futuro prossimo Millennio”; G. Pontecorvo: “Rapporto tra
immagine sonora e immagine visiva
nel cinema”; C. Lizzani: “Per una ecologia delle immagini”; E. Bianchi: “Le
religioni: strumento di guerra o di
pace?”; L. Wood: “Will man wish to
prevail?”; V. Andreoli: “Il futuro della
violenza come futuro dell’uomo”; H.
Atlan: “Science and mystical lores:
In occasione della pubblicazione del
libro di Enzo Paci: Ingens Sylva (Bompiani, Milano 1994), il giorno 18 ottobre 1994, la Casa della Cultura di
Milano organizza un incontro su:
Enzo Paci: interprete di Vico. Intervengono: F. Papi, P. A. Rovatti, C.
Sini e V. Vitiello.
La Casa della Cultura di Milano organizza inoltre, da ottobre a dicembre
1994, una serie di incontri sul tema: Il
pensiero della natura. Filosofie dell’Ottocento e del Novecento. Qui
di seguito il calendario e i relatori: 20
ottobre, M Ceruti: “Storia della natura
e natura della storia”; 27 ottobre, F.
Moiso: “La filosofia della natura in
Schelling”; 3 novembre, S. Natoli: “La
natura
nella
filosofia
di
Schopenhauer”; 10 novembre, F. Mondella: “La filosofia della natura nel
positivismo”; 17 novembre, G. Semerari: “Heidegger: tecnica e natura”; 24
novembre, S. Sini: “Galileo, Husserl e
l’immagine della natura”; 1 dicembre,
F. Papi e L. Vanzago: “Whitehead: la
natura come processo”.
● Informazioni: Casa della Cultura,
via Borgogna 3 Milano, tel. 02/795567.
In occasione del cinquantenario della
morte di Giovanni Gentile, l’Assessorato regionale Beni culturali e il Comune di Castelvetrano, in collaborazione con l’Istituto di Filosofia dell’Università di Palermo, organizzano
dal 20 al 22 ottobre 1994 a Castelvetrano un convegno su: Idealismo della filosofia ed esperienza storica.
Questo il programma: 20 ottobre, N.
68
Grimaldi: “Le principe d’inquiétude”;
X. Tilliette: “La douleur du fini dans
l’idéalisme allemande”. 21 ottobre,
E. Moutsopoulos: “La liberté immanence de la transcendance”; L. Malusa: “I ‘ritmi’ della filosofia italiana in
Gentile: libertà e religione da Rosmini all’hegelismo di Spaventa”; R.
Alvira: “Essenza della filosofia”; A.
Moscato: “Quando il divino fa tutt’uno con l’umano. Nove critiche su
Giovanni Gentile”.
● Informazioni: Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università degli Studi
di Palermo, tel 091/4265595.
Organizzato dall’Assessorato per le
Risorse Culturali e la Comunicazione
di Torino, in collaborazione con il
Goethe-Institut di Torino, nei giorni
21 e 22 ottobre 1994 avrà luogo, nella
sala conferenze della Galleria Civica
d’Arte Moderna e Contemporanea, il
convegno: Sogno e industria a partire da Walter Benjamin. Qui di
seguito i relatori e i temi degli interventi: 21 ottobre, U. Perone: “Soglie,
l’altro mondo a casa propria”; S. BuckMorss: “La città come mondo di sogno
industriale e catastrofe naturale: un
testamento benjaminiano”; F. Remotti: “Da Walter Benjamin all’antropologia culturale. Uno sguardo a ritroso
sulla modernità”; L. Burckhardt: “Le
esposizioni, i parchi, l’effimero. La
fine dell’architettura nell’Ottocento e
la sua rinascita nelle follies”; G. Schiavoni: “Benjamin e la città labirinto.
Forme di una `infanzia berlinese’”; 22
ottobre, N. Zapponi: “I refrattari alla
modernità: Cesare Lombroso e Walter
Benjamin”; A. Romano: “Il flâneur
all’inferno: Walter Benjamin e lo spazio infelice”; E. Zolla: “Le alterazioni
della coscienza”; R. Bodei: “I confini
del sogno. Fantasie e immagini oniriche in Benjamin”.
● Informazioni: Assessorato per le
Risorse Culturali e la Comunicazione,
p.za San Carlo 161, 10123 Torino, tel.
011/57653705.
Organizzato dal Centro Internazionale di Studi Semiotici e Cognitivi, dal
21 al 23 ottobre 1994, presso l’Università degli Studi di San Marino, ha
luogo il XXII Convegno dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici sul
tema: La comunicazione. Questo il
calendario degli incontri: 21 ottobre,
T. De Mauro: “Senza semiotica niente
sinetica. Ovvero, presupposti semiotici della comprensione linguistica”; M.
Mizzau: “Funzioni della comunicazione”; F. Celada: “La soglia inferiore
della comunicazione: la cooperazione
tra cellule nel sistema immunitario”.
22 ottobre, V. Codeluppi: “Il senso
della merce”; G. Bettetini: “La personal TV”; M. Wolf: “Aspetti sociologici della comunicazione”; J. Sassoon:
“Comunicazione, retorica, creatività”;
U. Eco: “Da Shannon e Weawer a
oggi”. 23 ottobre, Tavola rotonda sui
corsi di laurea in Scienze della comunicazione; partecipano: A. Abruzzese,
S. Bagnara, G. Caprettini e A. Elia.
● Informazioni: Segreteria dell’Università di San Marino, Contra-
CALENDARIO
CALENDARIO
da Omerelli 77, 47031 San Marino,
tel: 0549/882516.
Presso l’Istituto Filosofico “Aloisianum” di Gallarate, il 29 e 30 ottobre
1994 si terrà il V Incontro annuale di
studi del Seminario Permanente di
Teoria Critica sul tema: Tipi di argomentazione. Questo il calendario
degli interventi: 29 ottobre, P. Zecchinato: “Confutazione, libertà, oggettivismo”; S. Petrucciani: “L’argomentazione confutativa nella prospettiva
trascendentalpragmatica”; L. Cortella: “Dialettica e argomentazione”; F.
Rigotti: “Retorica, metaforica, argomentazione”. 30 ottobre, A. Ferrara:
“Per una teoria dell’autenticità. Riflessioni intorno a L’eudaimonia postmoderna”.
● Informazioni: Marina Calloni,
Aloisianum, via S. L. Gonzaga 8, 20131
Gallarate (Varese), tel. 0331/770934.
Organizzato dalla Sezione Romana
della Società Italiana di Logica e Filosofia delle Scienze, in collaborazione
con l’Università degli Studi di Roma
III, nei giorni 9-10-11 novembre 1994
avrà luogo un convegno nazionale dal
titolo: Momenti di storia della logica e di storia della filosofia. Questo
il calendario degli interventi: 9 novembre, Giovanni Casertano: “La causa della conoscenza: discorso logico
ed esigenza etica nel Fedone platonico”; Mario Mignucci: “Che cos’è un
sillogismo aristotelico?”. 10 novembre, Enrico Berti: “La logica dell’argomentazione filosofica tra Aristotele
e Ryle”; Eugenio Lecaldano: “David
Hume sulla ‘causalità’ e ‘l’è-deve’: le
proposte dal punto di vista della logica”; Francesco Barone: “Logica formale e logica trascendentale nella prospettiva del criticismo kantiano”; Carlo Sini: “La semiotica come fondazione della logica in C. S. Peirce”; Armando Rigobello: “La logica della vita
morale in Blondel”; Gabriele Lolli:
“Una dimostrazione in incognito: lo
strano caso del teorema di completezza”. 11 novembre, Alfonso Maierù:
“Linguaggio mentale tra logica e grammatica nel Medioevo”; Franco Bianco: “Avalutatività come principio
metodologico nella logica delle scienze sociali”; Vito M. Abrusci: “Il concetto di dimostrazione nel ‘900".
● Informazioni: S.F.I. Sezione Romana, p.zza della Repubblica, Roma,
tel. 06/4463671 (Dr.ssa Moschitti).
La Società Filosofica Italiana - Sezione Friuli-Venezia Giulia organizza nei
giorni 10 e 11 novembre 1994, presso
la Sala convegni della Regione di Pordenone, due giornate di studio con
Paul Ricoeur. I temi degli incontri
saranno i seguenti: 10 novembre:
“Memoria e storia”; 11 novembre:
“Etica e giustizia”, a cui farà seguito
un seminario con gli iscritti alla Società Filosofica.
● Informazioni: Claudia Furlanetto, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, c.so Vittorio Emanuele 37, Pordenone. Tel. 0434/29333.
69
DIDATTICA
DIDATTICA
a cura di Riccardo Lazzari
Manuali di filosofia a confronto
(III parte)
Nei numeri 13/14 e 15 di «Informazione Filosofica» abbiamo presentato
un’analisi comparata di alcuni manuali di filosofia in uso nei licei. Per esigenze di omogeneità erano rimasti esclusi da quello studio proprio i volumi
caratterizzati da un’impostazione prevalentemente antologica. Con questa
III parte intendiamo completare l’analisi avviata, proponendo un confronto
tra ANTOLOGIE FILOSOFICHE, per suggerire
qualche ulteriore elemento di valutazione in questo specifico settore della
manualistica filosofica.
L’insegnamento della filosofia si va orientando verso il recupero dei testi, che dovrebbero costituire l’asse portante dello
studio liceale. La lettura diretta delle opere
dei filosofi occupa infatti sempre più spazio nel lavoro di tanti docenti. L’offerta
editoriale di strumenti adeguati a questa
strategia non sembra però essere molto
ricca. Prevalgono tra i manuali scolastici
le tradizionali storie della filosofia, anche
se molte di esse si avvalgono di una ricca
sezione antologica. Ma la semplice aggiunta di “letture” al termine di un capitolo
non sempre può bastare per qualificare un
testo (o un progetto didattico) nella direzione indicata dai nuovi programmi, che
propongono di usare gli scritti dei filosofi,
«nella loro interezza o in sezioni particolarmente significative», scegliendoli «in
modo non troppo frammentario, cioè secondo dimensioni di ampiezza tale da assicurare al testo una sua unità, completezza e comprensibilità». Il panorama dell’editoria scolastica si va comunque rapidamente adeguando.
Se la scelta del libro di testo in generale, e
di quello di filosofia in particolare, è sempre un momento delicato e difficile dell’attività didattica, ricco di implicazioni teoriche, metodologiche, ideologiche e pratiche, ancor più complicata appare la scelta
di un’antologia filosofica. Il limite strutturale di ogni antologia è nella sua stessa
natura, cioè nell’essere una raccolta di testi
effettuata secondo criteri inevitabilmente
parziali, che ognuno vorrebbe sempre con69
te stare o correggere. E’ dunque assai difficile dare indicazioni pratiche in materia,
dato che la scelta dell’insegnante sarà determinata di solito più dai contenuti della
selezione antologica che dalle forme della
sua articolazione.
Come nel già pubblicato studio comparativo sui manuali storici, si è comunque voluto tentare un confronto su alcuni indici di
carattere quantitativo. Oltre ai semplici
descrittori esterni e alla sinossi dell’apparato didattico di ogni antologia, si propongono infatti alcuni indicatori di nostra elaborazione, per valutare l’impostazione di
ogni opera, l’attenzione dedicata agli autori maggiori o minori, la lunghezza delle
letture, la quantità di testi raccolti. Non si è
misurata la leggibilità dei testi (con l’indice
di Flesch), poiché nelle antologie questi
sono talvolta identici, talaltra difformi, comunque incomparabili.
L’esame si limita a otto sole antologie,
scelte non per ragioni di merito, né perché
esauriscano di fatto l’offerta editoriale, ma
solo perché queste ci sono state fornite
dalla rete di distribuzione editoriale. Nonostante la casualità, si può comunque ritenere che queste opere rappresentino attualmente gran parte del mercato del settore. Si
tratta per lo più di opere recenti o recentissime, addirittura non ancora completate in
un paio di casi, per i quali è disponibile solo
il primo volume. Parlare di “antologie” può
in molti casi risultare riduttivo e impreciso:
alcuni testi sono a tutti gli effetti manuali
completi, essendo composti sia di una sezione storica che di una antologica; altri
sono sole antologie che richiedono l’appoggio di una sintesi storica tradizionale;
altri ancora si propongono come soluzioni
didattiche originali che combinano lo studio storico con la lettura diretta dei testi.
*
La TAVOLA I riporta semplicemente i dati
identificativi delle diverse antologie. Solo
quella di Sini è opera di un singolo autore
(e non a caso è la più vecchia); le altre sono
più o meno frutto del lavoro di equipes di
specialisti.
Come prevedibile, le antologie brillano per
dimensioni cospicue. Pur senza arrivare
alle 4400 pagine del manuale pubblicato da
Bruno Mondadori (inevitabilmente suddiviso in quattro tomi), si superano con faci-
DIDATTICA
Tavola I
lità le 2000 pagine. Se pensiamo che in
alcuni casi si tratta soltanto di antologie
(senza sezione storica), la quantità di testi a
disposizione degli studenti è davvero notevole e tale da soddisfare le attese dei docenti più esigenti. Nonostante siano in gran
parte novità recenti, nessuna segue, nei
volumi, la scansione della materia suggerita dai nuovi programmi e l’idealismo tedesco appare sempre nell’ultimo volume. I
prezzi sono quelli indicati per l’anno scolastico 1994-95 e risultano in genere poco
elevati, soprattutto per quelle antologie
pensate per essere abbinate al manuale
tradizionale. Nel caso di Gabbiadini-Manzoni il prezzo del primo volume è quello
della nuova edizione; gli altri prezzi sono
quelli dell’edizione precedente.
Il manuale di Ameruso-Tangherlini-Vigli è forse il più originale ed è il primo ad
aver fondato l’insegnamento della filosofia sulla lettura diretta dei testi. Anche se
molti docenti lo usano come semplice antologia in aggiunta a manuali storici, esso
aspira ad essere un manuale completo, in
quanto ricostruisce la storia della filosofia
lasciando la parola agli stessi filosofi, le cui
opere costituiscono i frammenti di un grande collage, tenuto insieme da brevi raccordi redazionali. L’informazione è completata da schede biografiche alla fine di ogni
unità tematica, che è spesso articolata in
maniera poco tradizionale, cucendo insieme testi di autori diversi per seguire più un
percorso teoretico che l’illustrazione monografica del pensiero di un singolo filosofo. I testi sono numerosissimi ma piuttosto
brevi, dato che il manuale non mira ad essi
in quanto tali (è infatti scarso l’apparato di
note e commento), ma li considera solo lo
strumento di accesso ad una complessiva
conoscenza storica e teorica. L’opera era
originariamente pubblicata dall’editore
Lucarini, ora rilevata dal giovane marchio
delle edizioni Oberon. L’ultimo volume è
diviso in due tomi e ulteriore motivo di
originalità sono i tre volumetti di esercizi
(aggiunti successivamente ma inscindibili
dai corrispondenti volumi maggiori), contenenti soprattutto proposte di verifica basate sul l’approfondimento e l’interpretazione dei testi.
Cambiano-Mori è un manuale recentissimo, di impianto tradizionale, che unisce ad
una ricostruzione storica essenziale, ma
completa, un’ampia antologia. Può costituire una soluzione unitaria particolarmente vantaggiosa per il rapporto pagine/prezzo decisamente conveniente. L’antologia
non è una semplice appendice della sezione
storica, anche perché da sola occupa circa
due terzi di ciascun volume e accompagna
i testi con un commento puntuale, formato
da ampie introduzioni e da un ricco apparato di note. Ciò giustifica la sua presenza in
questo confronto, dovuta sia alla recente
pubblicazione (che non ha consentito di
compararlo alle altre storie della filosofia),
sia all’impegno volto alla valorizzazione
dei testi come effettivo strumento di lavoro. I sussidi didattici sono completati da un
dizionario molto ampio e articolato alla
fine di ogni volume.
L’equipe Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone ha proposto qualche anno fa un prodotto
completamente nuovo rispetto alla storia
della filosofia già pubblicata molti anni
prima. L’impostazione è piuttosto originale e vorrebbe essere quasi esaustiva della
proposta didattica, anche se gli autori hanno provveduto a predisporre un agile Profilo di storia della filosofia per integrare in
maniera più tradizionale l’informazione
storica. I singoli brani sono accompagnati
da un’analisi testuale che scorre in una
colonna parallela al testo stesso. Ogni capitolo è introdotto da una sintesi storica e
concluso da un profilo riepilogativo, che
70
assolvono in un certo senso la funzione del
manuale tradizionale. Alla fine di ogni volume ampie schede tematiche invitano a
interessanti percorsi teoretici complessivi.
Anche alla fine di ogni lettura, brevi spunti
tendono a suggerire riflessioni teoretiche
più personali.
Particolarmente numerosa è l’equipe che
ha dato vita al manuale di Cioffi-GalloLuppi-Vigorelli-Zanette. Alle firme che
appaiono in copertina devono aggiungersi
quelle di numerosi altri collaboratori, che
hanno realizzato un’opera particolarmente
articolata. Si tratta di un manuale completo, che unisce alla trattazione storica una
ricca e curata antologia, secondo unità didattiche di volta in volta dedicate a singoli
filosofi, a opere di particolare rilevanza, a
biografie significative, a tematiche trasversali, a problemi particolari. La filosofia più
recente è trattata in unità monografiche che
raggruppano correnti e problemi del dibattito filosofico contemporaneo. L’apparato
didattico è molto ricco ed è completato da
un’analisi lessicale alla fine di ogni capitolo, da schede di lavoro con esercizi e questionari, da schede di lettura, biografiche e
tematiche. L’apparente settorialità delle
singole unità didattiche è tenuta insieme da
ampie introduzioni storiche, che sintetizzano interi periodi. Il taglio originale richiede di essere condiviso fino in fondo,
ma consente di proporre agli studenti un
lavoro abbastanza esauriente.
L’opera più recente è l’antologia di Fornero. Assolutamente priva di sezione storica,
è progettata per essere abbinata ad una
storia della filosofia tradizionale (non necessariamente quella di Abbagnano-Fornero). Ne è disponibile per ora solo il primo
volume, al quale hanno collaborato E. Arrigoni, G. Galeazzi, M. Sacchetto e N.
Tabaroni. Le letture sono piuttosto brevi,
ma accompagnate da un apparato didattico
DIDATTICA
Tavola II
molto ricco. Oltre alle note, che analizzano
ogni passaggio dei testi, sono presenti qua
e là schede delle interpretazioni (sui dibattiti critici più interessanti), dei confronti
(su classiche opposizioni teoriche), lessicali (su alcuni temi non necessariamente di
carattere linguistico), bibliografiche e multimediali (che segnalano anche l’esistenza
di film e videocassette sugli autori e i
problemi studiati).
L’antologia di Gabbiadini-Manzoni è
quella che ci sembra avvicinarsi di più allo
spirito dei nuovi programmi, grazie alla
selezione di poche, ma ampie letture. La
seconda edizione (di cui è disponibile per
ora solo il primo volume) si presenta arricchita non solo di nuovi testi, ma anche di
utili pagine critiche. L’apparato didattico è
ricco e diversificato, proponendo anche
guide alla lettura di opere non antologizzate. Ci sembra un’opera da abbinare ad un
manuale tradizionale, dato che risulta concentrata esclusivamente sui testi, alla cui
produzione, nei diversi periodi e autori,
dedica anche interessanti introduzioni in
ogni capitolo. La stessa presentazione degli autori non è genericamente completa,
ma mira proprio a preparare e contestualizzare lo studio degli scritti selezionati. Ad
alcune opere non presenti nella raccolta
sono infine dedicate specifiche introduzioni per avviare ad ulteriori letture personali.
Anche l’antologia di Reale-Antiseri-Baldini va usata insieme a un manuale storico
(tendenzialmente quello scritto dai primi
due curatori). I testi sono numerosi e di
medie dimensioni, ma in qualche caso
sono riportate brevi opere in versione integrale. L’attenzione esclusiva ai testi è testimoniata dall’assenza di qualsiasi presentazione storica o biografica e da un
apparato iconografico spesso dedicato a
riprodurre i frontespizi delle principali
opere. L’unico sussidio didattico è costituito dalle in troduzioni ai testi; manca praticamente un apparato di note e qualsiasi
altro strumento di guida e sostegno al
lavoro dello studente. L’elaborazione didattica è completamente lasciata alla libera iniziativa dell’insegnante.
L’antologia di Sini è, infine, l’opera più
vecchia. La prima edizione, in un solo
grosso volume, risale infatti a quindici anni
fa. La selezione dei testi è mediamente
ricca e presenta brani piuttosto lunghi, accompagnati da introduzioni chiare e da
qualche puntuale nota esplicativa. Potrebbe essere considerato un manuale completo, vista la presenza di una sezione storica,
che però si riduce a un’informazione essenziale. Ci sembra quindi opportuno accompagnarvi un manuale tradizionale. L’impostazione tende a privilegiare il contatto con
il pensiero del filosofo più che con le singole opere, che non vengono evidenziate - in
quanto tali - come obiettivo dello studio:
può infatti dispiacere la scarsa attenzione
filologica ad isolare (soprattutto nella filo71
sofia antica) le singole opere o frammenti,
che spesso vengono fusi insieme sotto un
unico titolo redazionale. L’apparato didattico si limita a percorsi di ricerca personale
alla fine di ogni volume.
*
La TAVOLA II offre un quadro sinottico della
struttura e dell’apparato didattico di ogni
manuale. Molte caselle rimangono vuote
perché le antologie progettate solo come
tali sono spesso prive di alcuni sussidi che
qui si sono voluti segnalare.
La prima colonna, “testi”, dà un’indicazione sullo stile dell’antologia: quantità e lunghezza delle letture. Il dato è piuttosto
sintetico e ricavato da un esame sommario
(la tavola III può offrire informazioni più
ampie e dettagliate in merito). Salvo il caso
di Gabbiadini-Manzoni, di solito i testi
antologizzati sono piuttosto numerosi, fino
ad arrivare ai moltissimi “frammenti” di
Ameruso-Tangherlini-Vigli. L’ampiezza
dei brani è oscillante e l’indicazione è una
valutazione di massima, che non esclude
eccezioni.
La colonna della “guida alla lettura” riferisce sui sussidi che cercano di orientare la
comprensione dei brani. Spesso ci si limita
solo a più o meno brevi introduzioni al
testo, che hanno il compito di contestualizzare le parole del filosofo e segnalare i
problemi più rilevanti. Nell’impostazione
di Ameruso-Tangherlini-Vigli svolgono
questa funzione le brevi introduzioni, che
DIDATTICA
Tavola III
“cuciono” insieme le letture attraverso le
quali si ricostruisce la storia della filosofia.
Vengono citate in questa colonna anche le
note che accompagnano il testo. Proprio ad
esse è affidata la maggior parte del commento in Cambiano-Mori, Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone e Fornero; più minuziosi
e articolati i sussidi che accompagnano le
letture di Gabbiadini-Manzoni e CioffiGallo-Luppi-Vigorelli-Zanette; gli altri
sono pressoché privi di note. In questa sede
sono anche segnalate alcune schede o unità
didattiche destinate a guidare la lettura di
opere non presenti nell’antologia: è il caso
di Cioffi-Gallo-Luppi-Vigorelli-Zanette e
Gabbiadini-Manzoni.
La colonna dedicata alla “numerazione
delle righe” segnala la presenza di questo
pratico strumento, che può risultare utile
soprattutto durante la lezione per rintracciare rapidamente un passo o una citazione.
In al cuni casi, ad esempio per i frammenti
dei presocratici, la brevità dei testi rende
inutile l’accorgimento.
La colonna delle “pagine critiche” segnala lo spazio dedicato alla letteratura critica,
per accompagnare e commentare le letture.
Questa presenza è piuttosto limitata e differenziata. Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone
offre appena qualche breve suggestione o
giudizio critico; molto ampie sono invece
le letture critiche riportate da GabbiadiniManzoni su temi generali (un brano per
ogni capitolo). Fornero e Cioffi-Gallo-Lup-
pi-Vigorelli-Zanette offrono infine resoconti sulle interpretazioni più autorevoli.
Una “bibliografia” è presente in quasi tutti
i manuali. Per lo più si tratta di indicazioni
essenziali sulle edizioni delle opere dei
filosofi, cui spesso si aggiunge la principale letteratura critica in lingua italiana. Del
tutto originale è la “scheda multimediale”
in cui Fornero riferisce dell’esistenza di
videocassette o film su alcuni argomenti.
Le “proposte di lavoro” possono essere il
complemento della bibliografia con l’indicazione di percorsi di studio per approfondimenti personali (e in questo senso l’offerta di Sini sostituisce proprio la bibliografia). Ma accanto a queste proposte abbiamo rilevato anche la presenza di esercizi
o domande che possono guidare la stessa
azione didattica del docente. La proposta
più ricca e articolata è quella di AmerusoTangherlini-Vigli, che accompagnano il
manuale con tre volumi di esercizi costruiti su misura del manuale. Nessuno propone test o questionari a risposta chiusa,
segno che l’insegnamento della filosofia
privilegia ancora un approccio più verbale
e dialettico.
Un “dizionario” filosofico è presente solo
in qualche opera, anche perché sono diversi i manuali storico-filosofici che ne fanno
già uso. Di solito si tratta di analisi più o
meno ampie del lessico dei singoli filosofi
e quindi la collocazione è all’interno di
ogni capitolo. Gabbiadini-Manzoni si limi72
ta a richiamare i termini chiave, senza
darne una spiegazione. Poco più di un
indice, accompagnato da brevi definizioni,
è quello posto a fine volume da CiancioFerretti-Pastore-Perone. Il dizionario più
completo e pratico è quello complessivo di
Cambiano-Mori, alla fine di ogni volume.
La colonna delle “cronologie” segnala la
presenza di questi brevi schemi riassuntivi, che di solito hanno carattere sinottico e
comparativo. Cioffi-Gallo-Luppi-Vigorelli-Zanette propone semplici grafici, che
collocano all’interno di ampi periodi le
vite dei filosofi. Sini si limita alla cronologia della vita dei singoli autori nella sua
sezione storica.
L’ “iconografia” può essere considerata
un accessorio secondario o comunque un
elemento aggiuntivo. Reale-Antiseri-Baldini dimostra invece che le immagini si
possono talvolta integrare col testo, e riproduce nelle sue pagine anche i frontespizi
delle diverse edizioni delle opere dei filosofi (anche se vi si potrebbe leggere un
intento pubblicitario). Le tavole a colori di
Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone sono coerenti con l’invito teoretico del manuale e
mirano a provocare riflessioni personali.
Stranamente gli “indici” (dei nomi o degli
autori) non sono presenti ovunque, ma il
carattere di un’antologia non prevede che
si debba usare il volume per consultazioni
rapide, e il semplice indice generale può
essere sufficiente per rintracciare un’opera. E’ significativo infatti che indici più
elaborati si trovino soprattutto nei manuali
che aspirano ad essere unici e completi.
Nella colonna dell’ “introduzione storica” abbiamo inteso rendere conto delle più
o meno sintetiche ricostruzioni di storia
della filosofia che accompagnano la sezione antologica. E’ ovvio che si tratterà di
veri e propri capitoli di storia della filosofia
nel caso dei manuali completi come Cambiano-Mori e Cioffi-Gallo-Luppi-Vigorelli-Zanette. Più sintetici la sezione storica
nel Sini ed i brevissimi “percorsi di lettura”
che aprono i capitoli di Ameruso-Tangherlini-Vigli e di Gabbiadini-Manzoni.
Le “biografie” segnalano il ricorso a un’informazione più o meno sintetica sugli autori. In alcuni casi si tratta di semplici
schede riassuntive, in altri sono veri e
propri capitoli di storia della filosofia.
Cioffi-Gallo-Luppi-Vigorelli-Zanette propone l’intero studio di alcuni filosofi in
chiave biografica (Socrate, Agostino, Abelardo, Pascal, ecc.).
Sotto il titolo di “raccordi” abbiamo raccolto infine quelle sintesi che tendono a
proporre percorsi trasversali o paralleli
agli oggetti delle letture dirette. Si tratta di
proposte eterogenee che assumono la forma di vere e proprie piccole monografie
sulle forme di produzione del testo in Gabbiadini-Manzoni; di schede tematiche su
questioni di rilevanza teoretica in CiancioFerretti-Pastore-Perone; di unità didattiche trasversali (“intersezioni”) in CioffiGallo-Luppi-Vigorelli-Zanette. Il manua-
DIDATTICA
le di Ameruso-Tangherlini-Vigli è interamente progettato nella forma di questi
raccordi, costruiti legando gli scritti dei
filosofi.
*
La TAVOLA III riassume un’analisi quantitativa del primo volume di questi manuali.
L’obiettivo era quello di fissare qualche
indicatore che consentisse di confrontare
almeno il numero dei testi raccolti e l’impostazione seguita nella cura dell’antologia. Il confronto è limitato al solo primo
volume sia per ragioni di praticità, sia perché nel caso di due testi recenti era disponibile solo questo. E nel primo volume si è
utilizzato lo spazio destinato alle opere di
Platone e Aristotele come indice dell’impostazione dell’opera. Si sono scelti Platone e Aristotele sia per la loro oggettiva
importanza, sia perché si tratta dei due
autori comunque obbligatori anche secondo i nuovi programmi nel primo anno di
corso. Si poneva tuttavia il problema di
come considerare le testimonianze platoniche su Socrate che spesso le antologie
raccolgono sotto il nome di quest’ultimo.
Per omogeneità, si è scelto di trascurare
questi testi, ritenendo che, dove sono presenti, essi siano da considerare finalizzati
soprattutto alla presentazione del personaggio e della filosofia socratica, anche se
in tal modo i testi platonici sono risultati
quasi sempre in numero minore rispetto a
quelli aristotelici.
La prima colonna, “numero dei testi”,
indica il numero dei brani antologizzati di
Platone e Aristotele. In molti casi un brano
è costituito da più frammenti della medesima opera: non si è ritenuto di dover rendere
conto di queste articolazioni, ma ci si è
limitati a seguire l’indicazione redazionale
che, attraverso titoli o numerazioni, fa individuare una lettura come unitaria. La prima
cifra è relativa ai testi di Platone, la seconda
a quelli di Aristotele. Il totale sarà utilizzato per i confronti successivi.
La seconda colonna riferisce invece la
“lunghezza totale” effettiva dei brani di
Platone e Aristotele. La prima cifra è relativa alla lunghezza dei testi platonici; la
seconda a quelli aristotelici; infine il totale. Si tratta di un’indicazione sul testo
“effettivo”, poiché le cifre riportano il
numero dei caratteri che costituiscono l’insieme dei testi di un autore, calcolato moltiplicando il numero medio dei caratteri di
ogni riga di stampa per il numero di righe
occupate dai testi. Il confronto che così si
consente è tra valori assoluti e ci fa scoprire quanto spazio sia destinato ai testi di
questi due filosofi. Ma il valore complessivo deve essere confrontato con il precedente per essere più significativo.
La terza colonna riporta infatti la “lunghezza media” dei testi, ottenuta dalla
semplice media aritmetica fra la lunghezza
totale (col. 2) e il numero dei testi (col. 1).
Si può così avere un’indicazione efficace
dei criteri di antologizzazione. Questo indice testimonia scelte redazionali assai di-
verse, che mirano da una parte a proporre
solo letture ampie ed integrali (proprio
nello spirito dei nuovi programmi), dall’altra a riportare anche frammenti o semplici
citazioni (magari arricchite da un più ampio commento, che però non rientra in
questo conto).
Può essere interessante notare come i testi
platonici, pur inferiori di numero, abbiano
spesso una lunghezza complessiva maggiore di quelli aristotelici, evidente conseguenza del diverso genere letterario. La
media della terza colonna è un dato complessivo che si è voluto mantenere aggregato (ognuno può facilmente calcolare le
medie disaggregate) per dare un’indicazione immediata dello stile generale dell’antologia. Non era praticabile un calcolo
del genere su tutti i testi della raccolta, ma
si ritiene che questa indicazione possa
essere utile per valutare anche nell’insieme la lunghezza media di tutti i testi. Si
tenga presente che il valore più basso
(1850) corrisponde a circa una cartella
dattiloscritta, cioè meno di una normale
pagina di stampa. Il valore più alto equivale a 8-10 pagine stampate (senza contare note e titoli).
La quarta colonna riporta il “totale dei
testi” antologizzati nel primo volume di
ogni opera. Anche in questo caso le cifre
testimoniano il divario enorme nell’impostazione delle diverse opere. Nel primo volume può incidere sul totale il gran
numero di frammenti dei presocratici;
ma di solito questi frammenti sono comunque raggruppati redazionalmente dai
curatori. Il valore è, ovviamente, di solito inversamente proporzionale alla lunghezza dei testi.
L’ultima colonna, infine, presenta la “percentuale dei testi” di Platone e Aristotele
(col. 1) sul totale dei testi antologizzati
(col. 4). Ad un rapporto elevato corrisponde evidentemente un’attenzione prevalente agli autori (e ai problemi) maggiori; ad
una percentuale più bassa corrisponde invece un interesse distribuito più uniformemente anche su autori minori e su argomenti di raccordo. Ogni insegnante può
trarne così indicazioni utili per valutare la
corrispondenza del manuale alle proprie
scelte didattiche. S.C.
Interventi, proposte, ricerche
A partire dal numero 151 (gennaioaprile 1994) il «BOLLETTINO DELLA SO CIETÀ FILOSOFICA ITALIANA» intende dedicare una specifica sezione alla didattica della filosofia, occupandosi
dei temi ad essa relativi con maggiore organicità e sistematicità che
in passato. Ciò avverrà anche in un
clima di collaborazione e di dialogo
con altre riviste che si occupano di
filosofia e di insegnamento.
73
La scelta della redazione del «Bollettino»
nasce dalla convinzione che ci sia oggi
nella scuola italiana un notevole fermento
sul tema della didattica della filosofia, per
ragioni che dipendono sia dalla crisi dei
modelli tradizionali, che dalla forte “richiesta di filosofia” nella sfera generale
della cultura e della società. D’altro canto
le singole sperimentazioni avviate dai docenti, gli studi e le ricerche svolte sul
campo, stentano finora a trovare una sede
adeguata in cui incontrarsi e confrontarsi,
mentre l’esigenza di un dibattito si rende
oggi ineludibile: un dibattito che, per quanto riguarda la didattica della filosofia, deve
riguardare sia l’aspetto tecnico-operativo,
che la riflessione sui principi, con l’avvertenza che è sempre su precisi metodi, su
precise idee e scelte didattiche che si deve
discutere.
Il «Bollettino» vuole «proporsi come luogo di presentazione delle ricerche didattiche che vengono svolte individualmente o
collettivamente dai soci della S.F.I., ed allo
stesso tempo come luogo di un effettivo e
approfondito dibattito sulle nuove didattiche e sulla loro rispondenza alla situazione
reale della scuola italiana». In questo senso
la redazione invita coloro che hanno elaborato nuove idee e metodologie nel campo
della didattica filosofica a presentarle attraverso articoli che le descrivano in modo
dettagliato (fra i temi suggeriti dalla redazione vi sono quelli relativi ai percorsi di
lettura dei testi e ai percorsi applicativi dei
Programmi “Brocca”). Gli articoli saranno
occasione di dibattito approfondito, anche
attraverso l’intervento determinante di docenti universitari, nonché di confronto con
le riflessioni avviate su altre riviste.
In questo clima di collaborazione, il «Bollettino» pubblica due contributi su Un esperimento di attuazione del progetto Brocca,
già apparsi su «Sensate esperienze» (nn.19/
20 e 21 - 1993/94; in proposito si veda
anche il n. 17/18 di «Informazione Filosofica»), e, in forma più breve, l’indagine di
Sergio ,Cicatelli: Il manuale di filosofia:
analisi comparata di ventiquattro testi per
i licei (già pubblicata per esteso sui nn. 13/
14, 15 e 20 di «Informazione Filosofica»).
Sullo stesso numero del «Bollettino»,
Francesco Paris (Liceo Classico “E. Torricelli” di Faenza - RA) svolge alcune
considerazioni sul tema: Insegnare filosofia. Convinzione dell’autore è che la filosofia «può porsi come asse portante di
un’educazione alla democrazia e alla tolleranza non solo come valori etici, ma
anche come fondamenti di una cultura
scientifica». Vengono quindi affrontati
alcuni temi relativi all’utilizzo dei testi
filosofici e del manuale. Di particolare
interesse è la proposta di «costruzione di
un glossario che metta lo studente in
condizione di familiarizzarsi con la terminologia dei filosofi» e il riferimento a
modelli di lettura a scopo di studio, che
mettano lo studente in condizioni di autonomia nell’approccio ai testi. R.L.
STUDIO
STUDIO
Filosofia in sei ore e un quarto
Non un riassunto sistematico della
storia della filosofia, bensì una raccolta di immagini e frammenti che raccontano gli aspetti più incisivi della
filosofia occidentale costituisce il CORSO DI FILOSOFIA IN SEI ORE E UN QUARTO (a
cura di F. M. Cataluccio, trad. di L.
Piersanti, Theoria, Milano 1994) di
Witold Gombrowicz.
Il corso, tenuto alla moglie poco prima di
morire, rappresenta una vera e propria
“consolazione” della filosofia alle sofferenze e ai dolori dell’esistenza. Il dolore
costituisce, infatti, il perno intorno al quale ruota l’intera produzione di Witold
Gombrowicz, che non manca di notare
come la filosofia contemporanea, laddove
«assume un tono dottorale e professorale», ha spesso trascurato, dimenticandola,
la sofferenza. Gombrowicz, al contrario,
affronta le filosofie con un tono personale
e quotidiano, utilizzando, ad esempio, domande, risposte e brevi frasi, che permettono di illustrare con termini semplici e
chiari anche le tematiche più complesse.
Seguendo la struttura del “corso”, incontriamo subito la filosofia di Cartesio che,
con la sua riduzione della realtà a contenuto
di coscienza, ha costituito il punto di partenza per la filosofia kantiana. Con qualche
inesattezza, tipo la confusione tra trascendentale e trascendente, la filosofia di Kant
viene fatta ruotare intorno alle strutture a
priori del soggetto che caratterizzano e limitano la conoscenza umana. Il corso prosegue
con Hegel e Schopenhauer, di cui, dato
l’orizzonte di appartenenza dell’autore, viene tenuta in grande considerazione la teoria
dell’arte, priva peraltro di un accenno alla
musica, inspiegabilmente dimenticata.
La parte centrale del volume è dedicata
all’esistenzialismo, affrontato in relazione
a Kierkegaard, Husserl, Heidegger, in
parte Nietzsche, e, soprattutto, Sartre, a
cui è dedicato parecchio spazio. Emerge, in
questo contesto, una presa di posizione di
Gombrowicz nei confronti di Sartre contraddistinta da toni critici e pungenti, che
rivelano la complessità del rapporto tra i
due. Gombrowicz, infatti, rivendica la paternità dell’esistenzialismo che avrebbe
preso le mosse dal suo Ferdydurke, del ’37,
e non da L’essere e il nulla del ’43. Inoltre
Sartre ha la colpa di non aver compreso
l’importanza e la necessità del dolore: la
teoria sartriana, infatti, considera l’individuo caratterizzato dalla libertà, intesa come
trascendenza, e non fa i conti con il dolore
che costituisce il non-voluto e quindi il
vero limite alla libertà. Infine l’esistenzialismo sartriano ha voluto, a tutti i costi, la
conciliazione con il marxismo, impresa
alquanto assurda ed impossibile.
Proprio al comunismo Gombrowicz dedica, ancora in toni polemici, l’ultimo quarto
d’ora del suo corso. Marx, progettando la
rivoluzione comunista, non ha tenuto conto dell’importanza della competizione e
degli interessi individuali che costituiscono il fondamento di qualsiasi società. Secondo l’autore la riduzione dell’esistenza
umana all’elementarità dei bisogni produce necessariamente l’appiattimento della
società stessa e il conseguente fallimento
del progetto politico.
Si assiste negli ultimi tempi in Francia a un
incremento di testi filosofici di orientamento divulgativo, tanto che spesso si può
notare, nel campo della filosofia, un’attività editoriale a due velocità: di uno stesso
autore viene proposto un testo in stile “universitario” e, contemporaneamente, un
volumetto in versione “divulgativa”, come
è il caso, ad esempio, di Claudine Tiercelin, della quale è stata pubblicata un’opera
“seria” su Peirce, La pensée-signe: études
sur Peirce (Il pensiero-segno/ studi su
Peirce, J. Chambon, Nîmes 1993) e uno
smilzo libretto introduttivo sul medesimo
filosofo dal titolo: C. S. Peirce et le pragmatisme (C.S. Peirce e il pragmatismo,
PUF, Parigi 1993).
Alcune case editrice, per contro, alzano il
tono: Hatier, di Parigi, casa editrice prettamente scolastica, da più di un anno ha
aperto una collana «Optiques- Philosophie:
un regard clair», costituita da librettini
filosofici a basso prezzo, dedicati a un tema
specifico ed elaborati da studiosi autorevoli: Le corps (Il corpo), di Marc Richir; La
violence (La violenza), di Roger Dadoun;
Le temps (Il tempo), di Pierre Boutang;
L’éthique (L’etica), di Alain Badiou. Altri
editori, invece, operano una scelta diversa:
selezionano un’opera “filosofica” impor74
tante e la presentano in veste economica,
ma curata. Le case editrici Arlea e Rivages,
per esempio, presentano in questa versione
perfino dialoghi e opere antiche.
Queste pratiche editoriali rilanciano un discorso assai antico, quello sulla “filosofia
popolare”: è incontestabilmente utile poter
disporre di opere valide ad un costo contenuto e con uno stile non solo pensato per gli
“addetti ai lavori”. Tuttavia, rivolgersi ad
un pubblico vasto, non specialistico, non
dovrebbe implicare banalizzazione dei contenuti e infantilizzazione dei lettori. Poche,
in tal senso, sono le eccezioni. Ne citiamo
una, a titolo di esempio: lo studio di Jacqueline Rousset, La marché des idées contemporaines (Il mercato delle idee contemporanee, Armand Colin, Parigi 1994), che
intende offrire un panorama della modernità, attraverso l’allestimento di un voluminoso “état des lieux” del pensiero contemporaneo, segnalandone cesure e continuità,
mode e pericoli. Il volume è corredato da
bibliografia e glossari. A.S./F.M.Z.
Le sei idee estetiche
di Tatarkiewicz
Noto soprattutto per la sua monumentale e imprescindibile ‘Storia dell’estetica’ (Torino 1979-80) Wladyslaw
Tatarkiewicz torna ora al centro della
riflessione filosofica ed estetica contemporanea per la traduzione in italiano di un altro suo importante contributo agli studi estetici: STORIA DI SEI IDEE
(a cura di K. Jaworska, Aesthetica edizioni, Palermo 1993), che in versione
integrale fu pubblicato in Polonia nel
1975. La versione italiana è accompagnata da una “Presentazione” che ripercorre le tappe principali del percorso filosofico di Tatarkiewicz, da un’
“Appendice bibliografica” e da una
“Postfazione” di Luigi Russo, tesa a
metter in evidenza il profondo significato filosofico e la novità dell’approccio storico dell’opera di Tatarkiewicz.
Se la Storia dell’estetica si arrestava quasi
paradossalmente al 1700, vale a dire proprio al sorgere dell’estetica come discipli-
STUDIO
na autonoma nella modernità, questa Storia di sei Idee attraversa la storia dell’estetica per intero, soffermandosi sui problemi,
le idee, le teorie estetiche, e perciò viene
considerata dallo stesso Wladyslaw Tatarkiewicz quale “completamento e conclusione” dell’opera precedente. Abbandonata la scansione meramente cronologica, Tatarkiewicz si concentra qui sulle idee
fondamentali dell’estetica; non solo sulle
sei idee-guida esplicitamente fatte oggetto
d’indagine (l’arte, il bello, la forma, la
creatività, l’imitazione e l’esperienza estetica), ma su moltissime altre che a quelle
idee direttamente o indirettamente si connettono (come ad esempio grazia, acutezza, gusto, sublime, piacere, genio, espressione...). Di queste idee vengono tracciate
la storia, l’origine, le estensioni, le applicazioni e le successive trasformazioni semantiche, chiarendone quindi il concetto in
tutti i suoi possibili significati. Il risultato è
una sintesi storico-concettuale singolarmente approfondita ed efficace, che al rigore scientifico della trattazione unisce una
limpida chiarezza espositiva ed un linguaggio piano e nondimeno suggestivo.
Se già nel manuale di estetica, per la grande
importanza che il filosofo polacco attribuiva al carattere storico del lavoro artistico,
alla precettistica, ai trattati di poetica e di
retorica, al concreto operare degli artisti,
emergeva un’idea quanto mai aperta e problematica dell’estetica, in quest’altra opera, pur alle prese con teorie e concetti
all’apparenza immutabili, Tatarkiewicz
insiste sempre sulla intrinseca dinamicità
delle teorie e delle idee, evidenziando in tal
modo la fondamentale storicità dell’esperienza estetica. Di quei concetti che la storia dell’estetica ha individuato come fondamentali e ha variamente tramandato fino
a noi, alcuni hanno via via perduto d’importanza (è il caso soprattutto dell’idea di
imitazione, che come mimesis è stata a
lungo ritenuta centrale); altri hanno invece
conosciuto una nuova stagione, per così
dire, fortunata (la creatività, la forma); altri
ancora (quelli di arte e di bello, che sono i
più problematici) vengono usati o con diffidenza, oppure abusati, richiamati a sproposito. Ma nonostante tutto, sostiene Tatarkiewicz, nella storia dell’estetica due
teorie in particolare si sono mostrate insolitamente durature: quella che egli chiama
la “Grande Teoria”, cioè la teoria classica
della bellezza come forma, e la “Antica
Teoria”, cioè la teoria dell’imitazione, che
solo dopo due millenni ha perso credibilità.
Ma più in generale il filosofo polacco è
profondamente persuaso dell’importanza
dell’estetica nell’orizzonte del pensiero
umano. E’ infatti difficile negare che le
categorie estetiche fondamentali facciano
parte integrante di quelle categorie attraverso le quali da sempre l’uomo è in grado
di comprendere e di significare la realtà, e
perciò in grado di scoprire il proprio ruolo
nel mondo e di dare senso alle cose che lo
circondano. G.P.
Michelangelo, Schiavo ridestantesi (1530-34 circa), Galleria dell’Accademia di Firenze
75
RASSEGNA DELLE RIVISTE
RASSEGNA DELLE RIVISTE
a cura di Silvia Cecchi
RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA
Anno XLIX, n. 1/1994
Franco Angeli, Milano
Questo numero riporta gli atti di due incontri
di studio, dedicati rispettivamnte a Montesquieu (Milano, 4 marzo 1993) e a Giuliano
Gliozzi (Cagliari, 2-3 dicembre 1993).
Actualité d’un demi-silence: Montesquieu
et l’idée de souverainité, di J. Erhard: sull’idea di sovranità, quale emerge dall’opera principale di Montesquieu, sottolineando in particolare il poco spazio dedicato a
questa tematica.
Montesquieu e i poteri della metafora, di
C. Rosso: la tripartizione dei governi nei
primi tre libri dello Spirito delle Leggi.
Sur deux antinomies de l’esprit de lois, di J.
Starobinskj: leggi politiche e leggi religiose; pluralità e uniformità.
Religione e tolleranza in Montesquieu, di
L. Bianchi.
Forme di razionalità e livelli di legalità in
Montesquieu, di A. Postigliola: sulle strutture portanti, anche in chiave critica, del
“modello di razionalità” che sorregge l’impianto sistematico dello Spirito delle Leggi, di cui viene ricostruita anche la genesi.
L’Europa di Montesquieu, di M. Pasini.
Giuliano Gliozzi e l’ambiente filosofico
cagliaritano, di P. Rossi.
Vecchio e nuovo mondo: le scoperte geografiche e il pensiero europeo moderno, di
D. Pastine: un’analisi del contributo di
Gliozzi alla storiografia della scoperta dell’America, presente nell’opera: Adamo e il
nuovo mondo (1977).
L’apport de Giuliano Gliozzi à l’histoire
de l’anthropologie en France, de Montaigne à Gobineau, di F. Lestringant.
Vengono pubblicati inoltre gli interventi
alla tavola rotonda di M. T. Marcialis, A.
Burgio e di A. Strumia, allieva di Gliozzi.
‘Origine des êtres et espèces’. Un inedito
cosmogonico tra le carte di Boulainviller
di G. Mori.
sione di E. Rudinesco: Jacques Lacan.
Esquisse d’une vie, histoire d’un systeme
de pensée (Fayard, Parigi 1993).
AUT AUT
Gli stili di Kierkegaard, di R. Prezzo: analisi dell’edizione integrale di S.
Kierkegaard: Studi sul cammino della vita
(Rizzoli, Milano 1993).
n. 260-261, marzo-giugno 1994
La Nuova Italia, Firenze
Agire senza intenzioni, di E Greblo.
Idea di università, di S. Givone: una
riflessione sui nuovi statuti delle università italiane.
TEORIA
Dal patrimonialismo alla democrazia, di
A. Dal Lago: una riflessione sull’attuale
stato delle università in Italia.
Lo splendore di avere un linguaggio, di L.
Muraro.
Università per un’allieva, di L. Boella.
Elogio all’eccesso, di P. A. Rovatti: riflessione sul saggio di R. Simone: L’università
dei tre tradimenti.
Talento, merito e mercato all’università, di
M. Santambrogio.
Cambiamento e resistenze al cambiamento
nell’università italiana, di R. Moscati.
Poesia contemporanea. Campionario con
figure, di G. Majorino: analisi di alcuni componimenti di poeti italiani contemporanei.
Il rispetto che dobbiamo ad Heidegger, di
F. Fédier: sull’introduzione ad una nuova
edizione degli Scritti politici di Heidegger
(Gallimard, Parigi), in cui viene ripreso il
problema del rapporto tra Heidegger e il
nazismo.
Per amore di Lacan, di J. Derrida: l’intervento qui pubblicato è contenuto nel volume di AA.VV., Lacan avec les philosophes
(A. Michel, Parigi 1991), dedicato al rapporto critico, e non privo di contraccolpi,
tra Derrida e Lacan.
Letture di Lacan, di M. Recalcati: recen76
Vol. XIV, n. 1, 1994
ETS, Pisa
Gentile e Gödel, di V. Sainati: vengono qui
riproposte le tesi essenziali di un saggio di
Sainati del 1976 (Mitologia moralistica
della logica nel ‘Sistema di logica’ di Giovanni Gentile) in cui veniva affrontata la
problematica della crisi gödeliana del pensiero matematico-fondazionale.
La genesi della coscienza reale nella ‘Grundlage der gesamten Wissenschaftslehere’
di Fichte, di W. Metz.
All’inizio è il linguaggio, di E. Moriconi: la
critica di W. W. Tait a M. Dummett che ha
impostato il dibattito filosofico sulla matematica in base a una teoria del significato.
L’ermeneutica qui ed ora, di F. Duque:
testo di una relazione tenuta a Napoli il
16 novembre 1993 in occasione del convegno: “L’ermeneutica italiana: riflessi
europei”.
Pensare la religione, di A. Fabris: le principali tendenze che contraddistinguono la
filosofia della religione nel dibattito contemporaneo.
Mito, tragedia, rivelazione. Sulla presenza
di Franz Rosenzweig nell’opera di Benjamin, di M. Mottolese.
Estetica e storia dell’estetica: una questione ancora aperta in Italia, di C. Guidelli:
attraverso l’esame della voce “estetica”
nelle enciclopedie italiane, l’articolo af-
RASSEGNA DELLE RIVISTE
fronta il problema della storia dell’estetica,
in particolare il rapporto tra categorie estetiche e modi della ricostruzione storica.
La presencia virtual de los elementos en la
combinación química según Santo Tomás
de Aquino, di M. E. Sacchi.
Husserl in discussione, di T. Orlando: recensione di R. Bernet-Iso e K. E. Marbach:
Edmund Husserl (Il Mulino, Bologna 1992).
The authenticity of the attribution to Saint
Thomas Aquinas of ‘De natura materiae et
dimensionibus interminatis’ and ‘De principio individuationis’, di N. A. Morris: sul
problema dell’attribuzione di questi due
brevi scritti, in cui viene affrontato il problema del principio di individuazione.
AXIOMATHES
Anno IV, n. 3, dicembre 1993
Il Poligrafo, Padova
Nicolas A. Vasil’év (1880-1940), di R. Poli:
presentazione di due testi di Vasil’év, in
traduzione inglese: Logic and metalogic e
Imaginary (non-aristotelian) logic, in cui
viene proposta una logica “universale” e
“non aristotelica”.
What is non-fregean in the semantics of
Wittgenstein’s ‘Tractatus’ and why?, di J.
Perzanowski.
Antidiodorean logics and the BrentanoHusserl’s conception of time, di V. L.
Vasyukov.
Psicologia descrittiva e psicologia sperimentale: Brentano e Bonaventura sul tempo psichico, di L. Albertazzi: tenendo presenti le posizioni di Brentano e di E. Bonaventura, l’articolo affronta tre questioni:
l’origine e la natura della nozione di tempo
interno; quanto dura l’atto di presentazione; quali sono i caratteri della struttura
della presentazione.
AQUINAS
Anno XXXVII, n. 1, gennaio-aprile 1994
Pont. Univ. Lateranense, Roma
I principi matematici kantiani del mondo
fisico (II), di P. Pellecchia.
La riappropriazione di Aristotele nell’ultimo Ricoeur, di A. Rizzacasa: sul ricorso
di Ricoeur ad Aristotele per mettere in
evidenza le implicazioni ontologiche presenti nella sua ermeneutica fenomenologica ed esistenziale, in particolare nelle ultime due opere, Temps et récit e Soi-même
comme un autre.
La persona come apertura all’essere eterno
secondo E. Stein. Primo tentativo di confronto con M. Heidegger, di M. D’Ambra.
Unità e molteplicità in Jürgen Habermas,
di R. Giovagnoli: una riflessione sul pensiero dell’ultimo Habermas, in particolare sul pensiero post-metafisico (1988),
in cui viene tratteggiata una concezione
di razionalità “comunicativa” tra metafisica e contestualismo.
Chance and order in our inorganic universe, di G. Blandino.
Nota sulla “creazione” (‘Summa contra
Gentiles’, II,16), di L. Messinese.
RIVISTA DI FILOSOFIA
NEOSCOLASTICA
Anno LXXXVI, n. 1, gennaio-marzo 1994
Vita e Pensiero, Milano
Tre lezioni su Platone e la scrittura della
filosofia, di T. A. Szlezak: la critica di
Platone alla scrittura nel Fedro.
Verità ed etica nella ‘Dialectica’ di Lorenzo Valla, di M. Laffranchi: il concetto di
verità e i suoi fondamenti; l’orizzonte teologico come modello di una possibile interpretazione; l’etica secondo verità.
Finito e infinito e l’idealismo della filosofia.
La logica hegeliana dell’essere determinato, di G. Movia: commento analitico alla
logica del Dasein nella Scienza della Logica.
Ateismo, scetticismo e fideismo, di T. Penelhum.
Nota sullo scetticismo, di L. Urbani Ulivi:
recensione di C. Hookway: Scepticism
(Routledge, London - New York 1990).
La dimensione teologale dell’uomo e la
teologia fondamentale in Xavier Zubiri, di
A. Savignano.
Kant, Heidegger e la logica filosofica, di L.
Messinese: l’articolazione essenziale della
logica di Kant presente nelle lezioni del
semestre invernale 1925-26 di Heidegger,
in cui si discute sul valore del primato della
verità logica e teoretica.
Kant, di N. Hinske: al di là della questione
del loro significato oggettivo, gli appunti
dei corsi universitari di Kant hanno un
preciso significato in relazione alle sue
lezioni di logica, costituendo un contributo importante alla storia della logica e
all’analisi delle caratteristiche dell’Illuminismo tedesco.
L’ermeneutica filosofica dell’illuminismo
tedesco: due prospettive a confronto, di L.
Cataldi Madonna: gli studi sull’ermeneutica dell’illuminismo tedesco da Schleiermacher ad oggi, con particolare riguardo al
progetto di un’ermeneutica generale come
disciplina autonoma, tema proprio del Settecento tedesco.
Associazionismo e ipotesi materialistica da Hartley a James Mill, di S. Bucchi:
un’analisi dell’associazionismo come teoria generale della mente in Observations on man, di David Hartley (1749),
opera di impostazione associazionistica,
considerata a lungo inficiata da presupposti materialistici.
Logica ed organizzazione del sapere nella
dottrina della scienza di Bernard Bolzano,
di P. Bucci.
Fondazioni, fondamenti e paradigmi, di C.
Cellucci: vengono qui ripresi alcuni temi di
logica matematica, al centro di un dibattito
apparso su questa stessa rivista in precedenti
fascicoli con interventi dello stesso Cellucci,
di Ettore Casari e di Gabriele Lolli.
Nomi e domande, di E. Casari.
L’imperialismo assiomatico, di G. Lolli:
ancora sul tema dell’articolo precedente.
Teoria rousseauiana ed etica contemporanea: vent’anni di storiografia anglosassone, di L. Pezzillo.
LA CULTURA
Anno XXXII, n. 2, agosto 1994
Il Mulino, Bologna
Giovanni Gentile. L’atto, il tempo, la morte (II), di G. Sasso.
Aristotele dossografo in ‘Phys’., IV, 10, di
E Cavagnaro: l’analisi aristotelica del tempo condotta anche in rapporto alle opinioni
dei predecessori di Aristotele.
Vol. LXXXV, n. 2, agosto 1994
Il Mulino, Bologna
Da che nasce il conflitto nello stato di
natura in Hobbes, di M. Reale: analisi delle
cause della genesi e della tenuta del conflitto in Hobbes.
Tra illuminismo e critica della ragione: il
significato filosofico del corpus logico di
Wieland e Kant nello ‘Zibaldone’ di Leopardi, di L. Cellerino.
RIVISTA DI FILOSOFIA
77
RASSEGNA DELLE RIVISTE
Etica ed estetica in Croce e Irving Babbitt.
La sintesi di un conservatore americano, di
G. Paraboschi: il recupero della figura di
Irving Babbitt e dei suoi rapporti con Croce
all’interno della “Old Right”, una delle
correnti in cui si articola il movimento
conservatore in America.
‘Teologia trinitaria e censura’. Un passo
inedito di Guido Calogero, di C. Farnetti.
al finalismo si inscrive all’interno di una
posizione epistemologica propria del pensiero moderno, ma se ne distingue per la
radicalità delle posizioni.
ARCHIVES DE PHILOSOPHIE
Vol. 57, n. 1, gennaio-marzo 1994
Beauchesne, Paris
Tema della rivista: “Filosofia in Italia II”.
Tempo e storia in Hegel, di F. Chiereghin:
nel sistema hegeliano il tempo raffigura in
modo emblematico la funzione che il filosofo assegna alla natura: l’essere altro dell’idea, ma anche il presupposto per il pieno
dispiegarsi dello spirito. Esso viene così
ad avere una funzione mediatrice tra divenire e storia.
Liberté et égalité. La formation de la
théorie démocratique chez Bobbio, di F.
Sbarbieri.
Notes sur Capograssi et Piovani, di D.
Jervolino.
Luigi Pareyson et son école, di M. Ravera.
PER LA FILOSOFIA
Anno XI, n. 31, maggio-agosto 1994
Massimo, Milano
Diritto ed eticità della famiglia nella ‘Rechtsphilosophie’ di Hegel, di M. Tomba.
Per una cultura della ragione e della volontà, di B. Mondin: il rapporto tra ragione
e volontà alla luce di principi razionali e
cristiani.
Il mondo di Galileo: l’oggetto del suo sapere fisico-matematico. Diffalcare gli impedimenti della materia (parte II) di L.
Congiunti: indagine sul pensiero di Galileo: la matematizzazione del mondo naturale; il ruolo dell’esperimento; il progetto
scientifico e filosofico.
Conoscenza e volontà secondo S. Tommaso, di M. Pangallo.
Bios politikos e bios theoretikos secondo
Hannah Arendt, di J. Taminiaux.
Analisi fenomenologica della volontà. Edmund Husserl e Edith Stein, di A. Ales Bello.
Linee interpretative per una storia del neotomismo e della neoscolastica di A. La
Russa: recensione di L. Malusa: Neotomismo e intransigentismo cattolico, (Milano
1986-1989).
Tema della rivista: “Filosofia della volontà”.
Libertà e verità oggi. Compiti attuali
della filosofia della volontà, di G. Penati: la fondazione della verità sulla libertà
e il comune fondamento in direzione del
trascendente.
L’educazione della volontà in Piero Martinetti, di G. Colombo.
Eticità e ragione. Richard M. Hare e la
“legge di Hume”, di M. Lovatti: il tentativo postmoderno di superare dissociazione
di fatto e valore in Hare.
Sulla fondazione dell’etica nella ‘Veritatis
Splendor’, di A. Poppi.
Ermeneutiva della libertà: Dostoevskij e
l’ultimo Pareyson, di R. Diodato: le origini
della problematica del male e della libertà,
proprie dell’ultima riflessione di Pareyson.
Le “ragioni del cuore” secondo Max Scheler,
di D. Verducci:il primato dell’amore e del
cuore, di ascendenza agostiniana e pascaliana, come originaria fonte di conoscenza
in Scheler.
VERIFICHE
Anno XXIII, n. 1-2
gennaio-giugno 1994
Verifiche, Trento
Bonum e Summum Bonum nell’Etica di
Spinoza, di F. Biasutti: in Spinoza la critica
Métaphysique et violence. Question de
méthode, di G. Vattimo: la radicale critica
della metafisica, in atto in parte della filosofia contemporanea, si presenta inevitabilmente come una “questione di metodo”,
perché non tocca solo i contenuti o i modi
di fare della filosofia, ma la possibilità
stessa della filosofia come tale.
Aldo G. Gargani ou du (dé)constructivismre
en philosophie, di C. Paoletti.
En tant que. Les manières de Giorgio Agamben, di F. Wybrands: sul problema del
linguaggio.
Le philosophe et la muse, di G. Agamben:
aforismi sull’arte.
Severino et la poésie du néant, di I.
Valent: la relazione tra il pensiero di
Severino e la poesia.
RIVISTA INTERNAZIONALE DI FILOSOFIA DEL DIRITTO
Anno LXXI, n. 2, 1994
Giuffré, Milano
Uberto Scarpelli, giurista e filosofo, di
M. Jori.
Il significato del cuore nella filosofia giuridica di S. Agostino e di Marsilio da Padova, di E. Ancona.
Naturalità del diritto e universali giuridici di G. Cosi:l’indagine sull’esistenza
di universali del diritto attraverso il rilevamento di un tempo, uno spazio e delle
costanti nel diritto.
Montesquieu e il problema della diversité,
di C. P. Courtney: l’analisi di Montesquieu
della diversité, anche attraverso l’illustrazione della posizione dei predecessori:
Grozio, Pufendorf, Barbeyrac.
Una conversione della teoria critica? Sulla teoria del diritto e dello Stato di
Habermas, di O. Hoffe.
Dimensione transculturale dei fenomeni
giuridici nella ricerca antropologica, di L.
Scillitani.
La pensée à l’épreuve du poétique, di R.
Pineri: la critica ironica di Leopardi al
presente.
Augusto Del Noce et le problème de l’athéisme, di M. Cacciari: la considerazione di
Del Noce sull’ateismo attuale, a partire da
una storia dell’ateismo.
Sciacca (1908-1975) ou le pathos du philosophe, di X. Tilliette.
Michelstaedter, le dèfi de la métaphysique,
di G. Petitdemange: l’ascolto, il dolore, la
persuasione in Michelstaedter.
Giorgio Colli. Le philosophe et l’énigme,
di F. Masini: l’incontro di Colli con il tema
dell’enigma.
Économisme historique ou matérialisme
historique? Pour une relecture de Marx et
Engels, di D. Losurdo: la critica marxiana
all’ideologia come prodotto di un lungo
processo del pensiero moderno.
La “khôra” française, di S. Petrosino: la
presenza e l’influenza del pensiero francese in Italia dal dopoguerra ad oggi.
Segue il «XXI Bollettino cartesiano».
78
RASSEGNA DELLE RIVISTE
REVUE DE METAPHYSIQUE ET DE
MORALE
Vol. 99, n. 1, gennaio-marzo 1994
A. Colin, Parigi
Tema della rivista: “La médiation italienne”.
La première réception de Fichte et de
Schelling en Italie (1804-1862), di C. Cesa.
La révolution de 1848 et l’image de Hegel
en Italie et en Allemagne, di D. Losurdo:
Hegel ha avuto un ruolo essenziale nella
preparazione ideologica della rivoluzione
del 1848; se in Italia la resistenza alla
reazione politica ed ideologica si alimenta
di motivi hegeliani, in Germania la disfatta
del movimento democratico coincide con
la fine della filosofia hegeliana.
Augusto Vera et le sens de la vulgarisation
hégélienne en Europe, di G. Oldrini: intorno alla metà del secolo scorso Vera rappresenta il più importante tramite per la circolazione delle idee di Hegel in Europa; il suo
contributo di traduttore e “volgarizzatore”
dell’opera hegeliana viene considerato alla
base dell’hegelismo “ortodosso”.
La question du nèant dans la philosophie
de M. Heidegger, di E. Grassi.
Existentialisme 1941, di L. Pareyson: un
testo di Pareyson del 1941.
Raisons et formes du réalisme scientifique,
di E. Agazzi: nelle proposte di Galilei e di
Kant possiamo individuare un’intenzione
realista in campo scientifico.
Le ‘Dictionnaire Philosophique’ portatif,
di C. Mervaud.
Against withering, di R. Farr: il rapporto tra
marxismo e dittatura.
La correspondance de Voltaire: du document au monument?, di J. Moureaux: la
corrispondenza monumentale di Voltaire
ci permette di arricchire le nostre conoscenze circa questo pensatore.
Hume and imagination: symphaty and “the
other”, di M. J. Ferreira: l’analisi del principio della simpatia come elemento privilegiato per la comprensione dell’immaginazione in campo etico.
Madpeople and ideologues: an issue for
dialogic justice theory, di M. Kingwell:
giustizia e comunicazione in Habermas.
J. B. S. P.
Vol. 25, n. 1, gennaio 1994
University of Manchester, Manchester
Tema della rivista: “La filosofia di MerleauPonty”.
How the phenomenologists rediscovered
the world, di A. Grieder: un breve excursus
su alcuni concetti della fenomenologia da
Husserl a Merleau-Ponty.
Foundations, intentions and competing theories, di T. O’ Connor: un’analisi in chiave
scettica di alcuni aspetti della filosofia di
Merleau-Ponty.
Merleau-Ponty and Heidegger: the intentionality of transcendence, the being of
intentionality, di P. L. Bourgeois.
Selfhood and corporeity, di M. Villela-Petit:
l’analisi delle conseguenze relative alla comprensione della personalità e della corporeità
nelle prime opere di Merleau-Ponty e l’evoluzione dell’ultima fase della sua filosofia,
soprattutto in Visible et Invisible (1964).
Perceptual faith and the invisible, di F.
Dastur.
REVUE INTERNATIONALE DE
PHILOSOPHIE
n. 1/1994, marzo 1994
PUF, Parigi
Tema della rivista: “Voltaire, nell’anniversario della nascita”.
Voltaire et l’empirisme anglais, di R. Niklaus: il ruolo di Locke e Newton nella
formazione del pensiero di Voltaire.
La vision historique de Voltaire, di F. Diaz:
una considerazione strettamente storica
dell’opera di Voltaire.
Les confucianistes, philosophes tolérants
dans la pensée de Voltaire, di H. Nakagawa: il concetto più importante della
dottrina morale di Voltaire, la tolleranza, emerge, nel Dizionario, dalle voci
relative al pensiero ed alla religione dell’estremo Oriente.
Voltaire et le conte philosophique, di H.
Mason.
The colors of fire: depth and desire in
Merleau-Ponty ‘Eye and Mind’, di G. A.
Johnson.
Seeing otherwise - Merleau-Ponty’s line di
M. H. Münchow: la trattazione di un particolare aspetto della pittura, la linea, in MerleauPonty: il ruolo di Lacan in questa analisi.
Perception, corporeity and kindness, di W.
S. Hamrick: come la fenomenologia della
percezione e della corporeità possa gettare
una luce sul fenomeno della cortesia.
Ends, desires and rationality, di O. Black.
Private states and public practices:
Wittgenstein and Schutz on intentionality, di
M. Williams: le differenze tra Schutz e
Wittgenstein in merito alla descrizione della
vita sociale; differenze che si fondano su due
diversi modi di intendere l’intenzionalità.
JOURNAL OF THE HISTORY OF
PHILOSOPHY
Vol. XXXII, n. 1, gennaio 1994
Washington University, St. Louis
Socrates on the immorality of the soul, di
M. L. Mcpherran: la concezione socratica
dell’anima e la riforma della tradizione
religiosa greca.
An image for the unity of will in Duns
Scoto, di J. Boler.
Dynamics and transubstantiation in Leibniz’s ‘Systema Theologicum’, di D. C.
Fouke: la riflessione di Leibniz sulla transustantazione è collegata all’evoluzione
della sua concezione di Dio verso una prospettiva neoplatonica.
Intuition and construction in Berkeley’s
account of visual space, di L. Falkenstein.
Nietzsche, Spir and time, di R. Small: per
comprendere pienamente la dottrina nietzscheana del tempo non è sufficiente rivolgersi alla filosofia antica, ma occorre anche
far riferimento ad autori più vicini nel tempo, come A. Spir (1837-1890).
Seeing, di R. McLure.
The unique role of logic in the development
of Heidegger’s dialogue with Kant, di F.
Schalow.
INTERNATIONAL PHILOSOPHICAL
QUARTERLY
DEUTSCHE ZEITSCHRIFT FÜR
PHILOSOPHIE
Vol. XXXIV, n. 1, marzo 1994
Fordham University, New York
Vol. 42, n. 3/1994
Akademie Verlag, Berlin
Kierkegaard and the anxiety of authorship,
di M. Westphal.
Zu einer Hermeneutik des Rechts: Argumentation und Interpretation, di P. Ricoeur.
79
RASSEGNA DELLE RIVISTE
Kulturen als Zauberspiegel der Moderne
oder ARE KA, KORE KA-ARE MO, KORE MO, di S.
Richter: alcune tematiche del pensiero
scientifico giapponese del XIX secolo.
Experimentalsysteme, epistemische Dinge,
Experimentalkulturen, di H. J. Rheinberger: un’epistemologia dell’esperimento legata al campo della biologia.
Das Spiel der Natur: Experimentieren als
Vorführung, di R. P. Crease: Dewey,
Husserl, Heidegger e la riflessione sull’esperienza.
Vorüberlegungen zu einem kontextualistisches Modell der Wissenschaftsentwicklung, di W. Bonss, R. Hohlfeld, R.
Kollek.
Die Universität aus sozialkonstuktivistischer Perspektive, di S. Fuller.
Atheismus, Induktivismus und Freud oder:
die Vertreibung eines kölschen Jungen,
intervista di A. Grünbaum a H. P. Krüger.
ZEITSCHRIFT FÜR PHILOSOPHISCHE
FORSCHUNG
Vol. 48, n. 2, aprile-giugno 1994
V. Klostermann Verlag, Francoforte s.M.
Wer bestimmt, was es gibt, di C. U. Moulines: il rapporto tra ontologia e teoria della
scienza a partire dalla riflessione di Quine.
’93", e contiene gli Annali di poesia italiana 1985-1993.
PER LA FILOSOFIA (Anno XI, n. 30, gen-
naio-aprile 1994, Massimo, Milano) presenta un fascicolo monografico sul tema:
“Forme della coscienza”.
Thomas Reids Kritik des Cartesianismus,
di E. Heller.
Moralische Verantwortung in der wissenschaftlich-technischen Welt, di G. Seebass: la riflessione sulla “nuova etica” di
H. Jonas.
(Anno XII, n. 1, 1994, Nuova eri, Roma)
pubblica le relazioni del convegno: Machina multa minax (Santa Sofia, novembre
1991), dedicato al rapporto tra cultura classica e culture moderne.
FENOMENOLOGIA E SOCIETA’ (Vol.
gennaio- aprile 1994, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli) è dedicata al tema: “Esperienza religiosa. Forme e figure”, in cui
viene affrontato il problema dell’esperienza religiosa in relazione alle figure di Agostino, T. Müntzer, Lutero, etc.
XVI, n. 2, 1993, Rosemberg & Sellier,
Torino) presenta un numero a carattere
monografico dal titolo: Un seminario su
Gilles Deleuze, a cura di U. Fadini e A.
Zanini. Tra gli altri segnaliamo l’intervento di U. Fani, L’identità Spinoza- Nietzsche. Movimenti filosofici in Deleuze; e
l’articolo di F. Cassinari, Dottrina delle
facoltà, monismo ontologico e questione
fondativa: Deleuze lettore di Kant, dedicato ad un’analisi del testo di Deleuze del
1963, La philosophie critique de Kant.
Doctrine des facultés, opera che, pur non
esaurendo completamente il rapporto tra
Kant ed il pensatore francese, costituisce
tuttavia lo scritto più importante per instaurare un confronto tra i due filosofi.
FILOSOFIA OGGI (Anno XVII, n. 65, gen-
TELLUS (n. 11, 1993, Morbegno) propone
naio-marzo 1994, L’arcipelago, Genova)
presenta la prima parte dell’intervento di P.
Rostenne dal titolo: Temps et histoire.
il tema monografico: “L’utopia dialettale”,
presentando i seguenti aricoli: La lingua di
Johann Peter Hebel, di M. Heidegger; La
madre lingua. Heidegger, Hebel e il dialetto, di C. Resta; Dialetto, comunità, comunicazione, di M. Prandi; Una domanda,
molte risposte, di R. Bracchi; Il dialetto tra
particolarità e tradizione, di M. Centini;
Una morte annunciata, di I. Fassin; Lingua, identità e transizione alla democrazia, di N. Milani Kruljac; Il dialetto tra
radicamento e apertura di S. Ruffoni; La
casa vicino al mare di J. Robaey; L’arte e
la maniera di abbordare il proprio capoufficio per chiedergli un aumento di G. Perec; Acque e società nelle vicende valtellinesi, di G. Bettini; L’esistenza come un
battito del cuore, di R. Panattoni; Il solfanello e la legna, di R. De benedetti.
INTERSEZIONI (Anno XIV, n. 1, aprile
1994, Il Mulino, Bologna) presenta un articolo di C. Segal, La voce femminile e le
sue contraddizioni: da Omero alla tragedia, in cui vengono esaminate la continuità
e le differenze nella rappresentazione della
voce femminile in Omero e nelle tragedie.
In particolare si prende in considerazione
la voce del lamento femminile.
FILOSOFIA E TEOLOGIA (Anno VIII, n. 1,
FILOSOFIA OGGI (Anno XVII, n. 66, apri-
le. giugno 1994, L’arcipelago, Genova)
presenta un intervento di M. Zanatta dal
titolo: La questione del fondamento in “Einführung in die Metaphysique” di Martin
Heidegger.
IL VERRI (n. 1-2, gennaio-aprile 1994,
Das Wirchliche und der Abschied vom ganzen. Zu Schellings später philosophischer
Einsicht, di T. Buchheim: realtà e separazione in Aristotele ed il concetto schellinghiano di una filosofia negativa.
NUOVA CIVILTA’ DELLE MACCHINE
Mucchi Editore, Modena) presenta un fascicolo dedicato alla poesia francese contemporanea.
AESTHETICA (n. 40, aprile 1994, Centro
Internazionale Studi di Estetica, Palermo)
è dedicata ad uno studio di R. Dottori dal
titolo: Paul Cézanne. L’opera d’arte come
assoluto, in cui viene celebrata l’opera di
Cézanne come passaggio fondamentale,
nell’avvento dell’arte contemporanea, verso la ricerca di una propria forma e di un
proprio linguaggio.
IDEE (Anno VIII, nn. 22 e 23, Milella,
Lecce) presenta due numeri a carattere
monografico: “Filosofia e politica” e “Filosofia e scienza”.
FILOSOFIA (Anno XLV, n. 1, gennaio-
Vicolo del Pavone, Piacenza) pubblica scritti di Dante Filippucci e poesie di Karin
Boye.
aprile 1994, Mursia, Milano) presenta gli
interventi al convegno: “Augusto Guzzo a
cent’anni dalla nascita”, tenutosi all’Università di Torino il 12-13 aprile 1994.
TEOLOGIA (Anno XIX, n. 1, marzo 1994,
PROSPETTIVA PERSONA (Anno III, n. 8,
Glossa, Milano) presenta un articolo di I.
Biffi dal titolo: Figure medievali della teologia: la teologia in Duns Scoto. Il desiderio tra la fede e la “ratio”.
aprile-giugno 1994, Demian Edizioni, Teramo) propone due interventi su P. Ricoeur:
Ermeneutica e liberazione. Il dialogo di
Dussel con Ricoeur, di A. Savignano, e Il
Kerigma della speranza in Paul Ricoeur,
di P. Cugini.
KAMEN (Anno IV, n. 5, luglio 1994, Ed.
IPOTESI DEL SOGGETTO & LA SCIENZA
(maggio 1994, Il Soggetto & La Scienza,
Padova) è dedicato al tema dell’iniziazione. La problematica più che antropologica
è politica, in quanto l’attuale mancanza di
un sistema di iniziazione coincide con la
mancanza di un sociale a cui essere iniziati.
Il tema viene quindi affrontato da diverse
prospettive, filosofiche, politiche, storiche
e psicanalitiche.
NUOVA CORRENTE (n. 112, 1993, Tilgher, Genova) è dedicata al tema: “Poesia
RIVISTA ROSMINIANA (Anno LXXXVI-
II, n. 2, aprile-giugno 1994, Ed. rosminiane
Soliditas, Stresa) presenta, accanto ad una
serie di articoli su Rosmini, anche un intervento di G. C. Godani su La mente in Vico.
80
NOVITÀ IN LIBRERIA
NOVITÀ IN LIBRERIA
Adorno, Theodor W.
Minima moralia
Meditazioni della vita offesa
Einaudi, giugno 1994
pp. 311, L. 14.000
Con introduzione e nuova nota critico-bibliografica di Leonardo Ceppa.
La difficoltà di presentare questo classico di Adorno ha cambiato segno: si
tratta di non fare l’autore troppo attuale. Bisogna così collocarlo nella
sua prospettiva di classico tedesco,
«deporre la smania di volerlo strumentalizzare in senso tattico».
Alai, Mario
Modi di conoscere il mondo.
Soggettività, convenzioni
e sostenibilità del realismo
FrancoAngeli, giugno 1994
pp. 208, L. 30.000
Il volume si oppone alla convinzione
diffusa secondo cui l’idea che le nostre teorie o descrizioni ci informino
su una realtà indipendente chiamata,
con accezione negativa, realismo
metafisico e confutata sin dai tempi
di Kant.
Albert, Hans
Kritik der reinen Hermeneutik.
Der Antirealismus und das Problem
des Verstehens
Mohr, maggio-giugno 1994
p. 280, DM 50
Althusser, Louis
Sur la philosophie
Gallimard, maggio 1994
p. 192, F 92
Il volume riunisce gli Entretiens con
la professoressa di filosofia messicana Fernanda Navarro, il cui intento
era di spiegare il senso filosofico e
politico degli interventi di Althussser
negli anni 60 e 70, ed anche il testo La
Trasformation de la philosophie: conference de Grenade (1979), estendendo quindi l’analisi alle riflessioni
sui paradossi della filosofia marxista.
Altieri, Charles
Subjective Agency.
A Theory of First Person
Expressivity and its Social
Implications
Blackwell, luglio 1994
p. 400, £ 45
Sostenendo che l’azione soggettiva
non può essere portata a compimento
se si rimane all’interno delle modalità
di pensiero che dominano l’umanità,
Altieri si rivolge alla tradizione filosofica espressivista. Egli sostiene una
versione degli interessi espressivisti
basata sull’estetica di Kant.
Bailhache, Gérard
Le Sujet chez Emmanuel Levinas:
fragilité et subjectivité
PUF, maggio 1994
p. 352, F 198
Si tratta di uno studio del contenuto e
della genesi della nozione di soggetto
nel pensiero di Levinas, uno dei cardini delle opere di Levinas. Nel saggio si assiste anche al costituirsi, in
modo sia sfumato che rigoroso, della
funzione del soggetto nella sua dimensione etica e metafisica.
Antonelli, Mauro
Die experimentelle Analyse
des Bewußtseins bei V. Benussi
Editions Rodopi, luglio 1994
p. 218, FOL 75
Questi sono gli argomenti trattati nel
libro: uno schizzo della vita di Vittorio Benussi; la fenomenologia della
percezione; la controversia BernussiKoffka; la “analisi reale psichica”
della percezione; l’eco delle concezioni di Bernussi presso altri autori.
Barotta, Pierluigi
Dogmatismo ed eresia nella scienza:
Joseph Priestley
FrancoAngeli, giugno 1994
pp. 192, L. 28.000
Sebbene le ricerche di Priestley avessero contribuito in modo essenziale
alla rivoluzione chimica operata da
Lavoisier alla fine del ‘700, il filosofo
e chimico britannico si oppose tenacemente ad essa. La controversia che
ne nacque ha offerto spunti a molti
storici e filosofi della scienza che
hanno accusato Priestley di dogmatismo. Questo lavoro intende opporsi a
tale interpretazione.
Arena, Leonardo Vittorio
Nietzsche e il nonsense
FrancoAngeli, giugno 1994
pp. 320, L. 48.000
In questo libro l’intera opera di Nietzsche viene analizzata per la prima
volta alla luce della categoria del nonsense. Se ne evidenzia così la sorpendente coerenza ed organicità, soprattutto nella sfera gnoseologica ed epistemologica, nonché nella sua peculiarità di essere per eccellenza antidogmatica ed antiermeneutica.
Bataille, Georges
Su Nietzsche
Se, giugno 1994
pp. 210, L. 25.000
Questo saggio è l’ultimo della Trilogia Ateologica che Bataille diede alle
stampe tra il 1943 e il 1945. Bataille
cerca in Nietzsche quei temi che sono
capitali per la sua filosofia: l’eccesso,
il sacrificio, la morte e l’erotismo.
Aristotele
Etique à Eudème
tr. greco antico di P. Maréchaux
Rivages, giugno-luglio 1994
p. 236, F 59
Che cos’è la felicità? Come raggiungerla? Che cos’è il piacere? Che cosa
sono le virtù,la grandezza, il coraggio, l’amicizia? Come si arriva alla
perfezione? In questo saggio troviamo la risposta a tutte queste domande
e l’analisi del rapporto che ogni individuo ha quotidianamente con la
morale.
Bazzanella, Emiliano
Tempo e linguaggio
Studio sul pensiero
di Vladimir Jankélévitch
FrancoAngeli, giugno 1994
pp. 144, L. 22.000
Abbandonata ogni pretesa sistematizzante, questo libro cerca di compiere un percorso per così dire “tangenziale”, un attraversamento problematico che individua, quasi sullo
sfondo, la dimensione del tempo e
l’urgenza di un ripercorrimento che
tenga conto dell’essenziale rapporto
tra la scrittura e la filosofia.
Bahm, Archie J.
The Science of Oughtness
Ed. Rodopi, maggio-giugno 1994
p. 200, FO 60
Il volume è stato scritto quasi come
una sfida nei confronti di quanti sono
riluttanti nel riconoscere che la scienza può avere un ruolo importante rispetto alle teorie etiche. Il libro getta
nuova luce sulle responsabilità di
gruppo, sul dover essere apparente e
la responsabilità che tutti abbiamo
nell’estendere la consapevolezza delle
nostre responsabilità.
81
Berdjaev, Nikolaj
Il senso della creazione
Saggio per una giustificazione
dell’uomo
Jaca Book, luglio-agosto 1994
pp. 448, L. 65.000
Bertrand, Henry
L’Eternel renouveau
pref. di Jean Desmeuzes
Caractères, giugno-luglio 1994
p. 130, F 120
La legge del mondo, secondo il punto
di vista dell’autore, sarebbe - così
come viene dimostrato dall’ultima
riga di quest’opera, giustificandone
anche il titolo - un eterno ritorno.
Troviamo qui il pensiero di un uomo
che offre in maniera fraterna ai poeti
e ai filosofi a lui contemporanei la
quintessenza della sua vita.
Betzler, Monika B.
Ich-Bilder und Bilderwelt.
Überlegungen zu einer Kritik
des darstellenden Verstehens
W. Fink, maggio-giugno 1994
p. 249, DM 68
La ragione storica di Wilhelm Dilthey, l’ermeneutica e la Bildtheorie
degli ultimi scritti di Fichte, gli sforzi
di tipo teoretico di Dieter Henrich
vengono accostati e criticati portando
ad un nuovo modo di considerare il
rapporto tra soggettività e storia.
Beyssade, Jean-Marie
Marion, Jean-Luc
Descartes: objecter et répondre
PUF, giugno-luglio 1994
p. 496, F 120
Le Obiezioni e le Risposte non sono i
protocolli di un dibattito che si sarebbe svolto dopo la pubblicazione delle
Meditazioni e quasi al di fuori di esse.
Fin dall’inizio, l’opera principe della
metafisica moderna è nata tripartita.
Bidima, Jean Godefroy
Théorie critique et modernité
négro-africaine: de l’école
de Francofort à la Docta
spes africana
Publications de la Sorbonne
giugno-luglio 1994
p. 343, F 200
L’autore fa dialogare tra loro una
teoria “centrata sull’Europa”, la teoria critica della Scuola di Francoforte, e l’Africa sulla base di un terreno
che le lega e le rende opposte: la
modernità. Egli critica la spoliticiz-
NOVITÀ IN LIBRERIA
zazione e le strategie di ibernazione
in Africa, allo scopo di aprire il soggetto al possibile.
Bieri, P. (a cura di)
Analytische Philosophie
der Erkenntnis
Beltz Athenäum, luglio 1994
DM 39,80
Bloch, Ernst
Il principio speranza
Introduzione di Enrico Bodei
3 Volumi
Garzanti, giugno 1994
pp. 1628, L. 96.000
Nei tre volumi che costituiscono
l’opera, la dimensione utopica del
pensiero viene esplorata in tutte le
sue molteplici manifestazioni: oltre il
principio di piacere ma anche oltre il
principio di realtà.
Boeder, Heribert
Das Bauzeug der Geschichte.
Aufsätze und Vorträge
zur griechischen
und mittelalterlichen Philosophie
Königshausen & Neumann
luglio 1994
p. 380, DM 78
Bossuer, Jacques Benigne
Trattato della concupiscenza
De Martinis, giugno 1994
pp. 130, L. 10.000
Le sottili ricognizioni di Bossuer sulla concupiscenza superano il quadro
cristiano-cattolico. Da vero rappresentante dello spirito, Bossuer ne esamina anche le sue sregolatezze.
Buchholz, R. - Kruse, J.A.
(a cura di)
’Magnetisches Hingezogensein
oder schaudernde Abwehr’.
Walter Benjamin (1892-1940)
J.B. Metzler, maggio-giugno 1994
p. 140, DM 28
Nel volume, vengono analizzati aspetti biografici, storico-filosofici, teologici ed estetici legati alla personalità
di Walter Benjamin.
Budé, Guillaume
Le Passage de l’hellénisme
au christianisme. De transitu
hellenismi ad christianismum
tr. dal latino M.M. de La Garanderie
e Daniel Franklin Penham
Belles lettres, giugno-luglio 1994
p. 294, F 280
Nell’autunno del 1534, quando scoppia l’ “affaire des Placards”, il grande umanista Budé compone questo
lungo testo, in cui egli intende definire, da una parte il cristianesimo rispetto alla filosofia greca e, dall’altra
parte, la tradizione cattolica di fronte
alle contestazioni della Riforma. De
transitu, una sorta di libro-testamento, è indirizzato a chi, nel 1535, era
ancora scettico o indeciso e rifiutava
quindi di prendere posizione.
Butzlaff, J. (a cura di)
Karl Rosenkranz
Briefe 1827 bis 1850
de Gruyter, luglio 1994
p. 539, DM 260
Si tratta della pubblicazione di tre-
centottanta lettere, di cui la metà era
rimasta fino ad ora non pubblicata, di
Karl Rosenkranz (1805-1879), storico della letteratura, studioso di Hegel
a Halle e Königsberg. Tra i destinatari di queste lettere si trovano il figlio
più vecchio e la moglie di Hegel,
Fichte, Ruge, Schopenhauer e Goethe.
Cassirer, Ernst
Philosophie
der symbolischen Formen.
Wesen und Wirkung
des Symbolbegriffs
Wiss. Buchvlg., luglio 1994
p. 1545, DM 98
Questa edizione in cinque volumi
contiene anche Wesen und Wirkung
des Symbolbegriffs, in cui Cassirer
abbozza, sviluppa, giustifica e difende i fondamenti della sua filosofia
delle forme simboliche.
Canahl, Kay
Sphären des Zersetzenden.
Ein Beitrag zur Jaspers-Forschung
Vlg. f. Wiss. u. Bildung
maggio-giugno 1994
p. 92, DM 29,80
Ceruti, Mario - Fabbri, Paolo
Giorello, Giulio - Preta, Lorena
(a cura di)
Il caso e la libertà
Laterza, luglio 1994
pp. 192
Da “il caso e la necessità” al “caso e
la libertà”. Scienziati, psicologi e filosofi pongono l’accento sul valore
critico della scelta, della creatività e
della responsabilità del ricercatore.
Canto-Sperber, Monique
La Philosophie morale britannique
PUF, maggio 1994
p. 304, F 186
Il volume contiene uno studio storico
e critico delle principali correnti che
testimoniano della riflessione morale
oltremanica (intuizionismo, utilitarismo, idealismo...), al quale seguono
saggi di sei filosofi britannici, i cui
lavori sono rappresentativi della ricchezza delle riflessioni attuali.
Chartier, Roger
L’ordine dei libri
giugno 1994
pp. 120, L. 15.000
Tra la fine del Medioevo e il XVIII
secolo, l’invenzione dell’autore
come principio per la designazione
dei testi, il sogno di una biblioteca
universale, l’emergere di una nuova
definizione del libro, cercano di portare ordine nel mondo dello scritto.
Ma la lettura è per definizione ribelle
e questo ordine non sopprime la libertà dei lettori.
Canziani, Guido (a cura di)
Filosofia e religione
nella letteratura clandestina
FrancoAngeli, giugno 1994
pp. 528, L. 60.000
Tra Sei e Settecento la critica più
radicale delle metafisiche spiritualistiche, delle credenze e dei dogmi
religiosi trovò una delle sue espressioni significative in quella letteratura filosofica clandestina che era alimentata da testi manoscritti o a stampa, per lo più anonimi, nei quali l’affermazione delle prerogative e dei
limiti della ragione si traduceva in
concezioni materialistiche, in prospettive ateistiche o deistiche e in appelli
alla tolleranza.
Chatelet, François
Hegel
Seuil, giugno-luglio 1994
p. 269, F 69
Si tratta dell’edizione riveduta e corretta di quest’opera che offre una
panoramica del sistema hegeliano e
che ci permette di capire la portata
della sua filosofia e l’inquietudine
che la anima.
Casanova, Giacomo
Über den Selbstmord
und die Philosophen
tr. dall’italiano
Campus, maggio-giugno 1994
p. 160, DM 38
Le nuove scoperte di testi filosofici di
Casanova, raccolti in questo volume,
ci mostrano un aspetto sconosciuto di
questo personaggio, il quale - molto
prima di fornire, con le sue memorie,
un documento della sua vita instabile
e piena di avventure - dimostra che il
suo spirito brioso è in grado di interrogarsi anche su temi filosofici come
il rapporto tra suicidio e filosofia.
Ciaramelli, Fabio
Moroncini Bruno
Pappale, Felice Ciro
Diffrazioni. La filosofia
alla prova della psicoanalisi
Guerini, giugno 1994
pp. 276, L. 38.000
Raccolta di tre saggi: “Freud e
Heidegger” sul perturbante e l’angoscia; “Lacan” sulla metafora platonica dell’amore; “Michel Henry” sulla
genealogia della psicoanalisi.
Cassirer, Ernst
Das Erkenntnisproblem
in der Philosophie und Wissenschaft
der neueren Zeit
Wiss. Buchvlg., luglio 1994
p. 2294, DM 198
Quest’opera di Cassirer in quattro
volumi, di cui il primo fu pubblicato
nel 1906 ed il quarto nel 1950, nella
traduzione in lingua inglese, costituisce un classico, un’opera insuperata
di scrittura di una storia della filosofia orientata ai problemi.
Collison, D. - Wilkinson, R.
Thirty-five Oriental Philosophers
Routledge, maggio-giugno 1994
p. 352, £ 45
Si tratta di un’introduzione succinta
ed informativa al pensiero di trentacinque figure importanti delle tradizioni filosofiche cinese, indiana, araba, giapponese e tibetana. I pensatori
inclusi in questo volume sono sia
fondatori come Zoroastro, Confucio,
Budda e Maometto che influenti figure moderne come Gandhi, Mao TseTung, Suzuki e Nishida.
82
Conrad, Elfried
Kants Logikvorlesungen als neuer
Schlüssel zur Architektonik
der Kritik der reinen Vernunft.
Die Ausarbeitung
der Gliederungsentwürfe
in den Logikvorlesungen
als Auseinandersetzung
mit der Tradition
Frommann-Holzboog, luglio 1994
p. 160, DM 68
Cozzo, Cesare
Teoria del significato e filosofia
della logica
Clueb, giugno 1994
pp. 268, L. 30.000
Cristin, R. (a cura di)
Leibniz und die Frage
nach der Subjektivität.
Tagung Triest, Mai 1992
Fr. Steiner, maggio-giugno 1994
p. 320, DM 112
Dahmer, Helmut
Pseudonatur und Kritik.
Freud, Marx und die Gegenwart
Suhrkamp, maggio-giugno 1994
p. 440, DM 27,80
Damont, Jean-Paul
La filosofia greca
Xenia, luglio 1994
pp. 128, L. 10.000
Uno dei più grandi specialisti francesi in materia presenta in modo
originale le linee fondamentali del
pensiero antico.
Davidson, John
Am Anfang ist der Geist.
Die Geburt von Materie und Leben
aus dem schöpferischen Geist
Scherz, luglio 1994
p. 340, DM 39,80
La scienza moderna, nel suo tentativo
di capire la creazione da un punto di
vista materialista, è ormai in un vicolo cieco. Questo libro mostra come
superare il pensiero meccanicista.
De Pasquale, Mario
Didattica della filosofia.
La funzione egoica del filosofare
FrancoAngeli, giugno 1994
pp. 240, L. 34.000
Il tentativo di definire in termini operativi e controllabili la peculiarità
del filosofare, di individuarne le finalità e gli obiettivi di natura cognitiva, affettiva, relazionale, le modalità del suo insegnamento e del suo
apprendimento, anche mediante la
discussione dei tradizionali schemi
entro cui si è svolto il dibattito negli
ultimi decenni.
Demarco, Joseph P.
A Coherence Theory in Ethics
Editions Rodopi, luglio 1994
p. 270, FOL 90
Il libro, criticando le teorie filosofiche tradizionali che hanno a che fare
esclusivamente con i principi, le conseguenze, le virtù, mostra come questi valori possano essere integrati in
una visione dinamica della coerenza,
rispettando le molteplici dimensioni
della nostra vita morale.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Demmerling, Christoph
Sprache und Verdinglichung.
Wittgenstein, Adorno
und das Projekt
einer kritischen Theorie
Suhrkamp, luglio 1994
p. 184, DM 19,80
Desanti, Jean-Toussaint
Introduction à la phénoménologie
Gallimard, maggio 1994
p. 176, F 31,50
E’ possibile utilizzare ancora il metodo fenomenologico? Il progetto husserliano può essere ripreso e prolungato? L’autore tenta di rispondere e
queste domande seguendo il filo delle
Meditazioni cartesiane di Husserl.
Dioguardi, Nicola
Lettere al Cardinale
Mursia, giugno 1994
pp. 128, L. 20.000
Un carteggio tra Nicola Dioguardi e il
Cardinale di Milano Carlo Maria
Martini. Si vuole dimostrare che scienza e fede possono trovare punti d’incontri, possono lavorare insieme.
Droz, Geneviève
I miti platonici
Dedalo, giugno 1994
pp. 224, L. 28.000
I sedici miti di Platone: Prometeo o le
origini del mondo, l’Amore nelle versioni di Aristofane o di Socrate-Diotima nel Convito, il tema della Reminiscenza, espresso principalmente
attraverso il fascino delle narrazioni,
come la grande allegora della Caverna, oppure delle grandiose visioni del
carro alato di Fedro.
Dubost, J.-P. (a cura di)
Bildstörung. Gedanken
zu einer Ethik der Wahrnehmung
Reclam, luglio 1994
p. 200, DM 24
Si continua, anche ai giorni nostri, ad
interrogarsi su come arte e tecnica,
etica ed estetica, possano essere
considerate e valutate. Su questo argomento, vengono raccolti i contributi originali di Alain Badiou, Thierry de Duve, Jean-François Lyotard,
Manfred Moser, Jean-Luc Nancy,
Walter Seitter, Paul Virilio, Samuel
Weber ed altri.
Duhamel, R. - Oger, E. (a cura di)
Die Kunst der Sprache
und die Sprache der Kunst
Königshausen & Neumann
maggio-giugno 1994
p. 206, DM 39,80
Engel, Pascal
Introduction à la philosophie
de l’esprit
La Découverte, giugno-luglio 1994
p. 250, F 165
Il volume offre un panorama suggestivo dei dibattiti che animano la
tradizione analitica all’interno della
filosofia dello spirito. Analizzando le teorie contemporanee alla luce
dei risultati della ricerca scientifica e dell’analisi concettuale, l’autore abbozza i tratti generali di una
filosofia dello spirito materialista
ma non reduzionista.
Engel, Pascal (a cura di)
Lire Davidson: interprétation
et holisme
Eclat, maggio 1994
p. 224, F 130
Si tratta di un’analisi dell’opera di
Donald Davidson (nato negli Stati
Uniti nel 1917), condotta attraverso i
temi dell’interpretazione del linguaggio, dello statuto delle norme e dell’olismo del significato e delle credenze. Questi temi vengono confrontati con i più recenti contributi della
filosofia analitica.
filosofico in Italia e delle sue numerose ramificazioni interne.
Forrest, Frank G.
Valuemetrics.
The Science of Personal
and Professional Ethics
Editions Rodopi, luglio 1994
p. 179, FOL 60
La Valuemetrics è un’elaborazione
della svolta innovativa promossa da
Robert S. Hartman riguardo all’applicazione del sistema astratto allo
studio dei problemi etici. La similarità di struttura tra alcuni elementi della
teoria degli insiemi e diversi tipi e
gradi di bene, rende possibile calcolare matematicamente i fenomeni etici.
European Society for the Study
of Science and Theology (a cura di)
Origins, Time and Complexity
Labor et Fides, giugno-luglio 1994
2 vol
pp. 384, F 250
A partire dagli anni ’80, ha avuto
inizio l’avvicinamento reciproco di
scienziati e teologi riguardo alle questioni di ordine metafisico e teologico. Questo processo ha dato luogo al
congresso annuale della European
Society for the Study of Science and
Theology e alla pubblicazione annuale degli atti di questo convegno.
Foucault, Michael
Poteri e strategie
L’assoggettamento dei corpi
e l’elemento sfuggente
Mimesis, luglio-agosto 1994
pp. 126, L. 13.000
I poteri diffusi, il loro essere coestensivi al tessuto sociale ma anche
alla radicale opposizione inscritta nei
corpi di chi si oppone alla pratiche
disciplinari.
Fabeck, Hans von
An den Grenzen
der Phänomenologie.
Eros und Sexualität im Werk
Maurice Merleau-Pontys
Sed ed., luglio 1994
p. 300, DM 68
Frank, Manfred
Il dio a venire
Einaudi, giugno 1994
pp. 350, L. 38.000
Attraverso Dioniso, figura centrale
dell’immaginario romantico, si rivendica con i romantici i valori di verità
del mito, restando però illuministicamente fedeli alla ragione.
Fagiuoli, Ettore
Nietzsche: la finitudine
come autobiografia
Egea, luglio-agosto 1994
pp. 300. L. 35.000
Un’autobiografia all’insegna del
tentativo di circoscrivere la propria finitezza.
Franz, A. (a cura di)
Glauben, Wissen, Handeln.
Beiträge aus Theologie
Philosophie und Naturwissenschaft
zu Grundfragen christlicher
Existenz. Festschrift für Philipp
Kaiser, Eichstätt,
zum 65. Geburtstag
Echter, maggio-giugno 1994
p. 456, DM 58
Fiminai, Mariapaola
Paradossi dell’indifferenza
FrancoAngeli, giugno 1994
pp. 160, L. 25.000
La via, nell’attuale dibattito sul superamento del nichilismo, che va oltre
l’idea di ritrovare il valore nel dire
poetico e nell’innovazione simbolica, esposti all’insufficienza e ai rischi
di una riduzione neo-romantica del
mondo a favola.
Franzini, Elio
Arte e mondi possibili. Estetica
e interpretazione da Leibniz a Klee
Guerini, giugno 1994
pp. 256, L. 35.000
I percorsi genetici e i nuclei di pensiero per formulare un’ipotesi teorica sul senso storico e culturale che
l’estetica ha incarnato nella filosofia
moderna.
Fontenelle, Bernard Le Bouvier de
Oeuvres complètes
vol. 6
Fayard, giugno-luglio 1994
F 290
Il volume è relativo al lavoro di Fontanelle alla Académie des sciences. Si
tratta di una delle opere più celebri del
filosofo, contenente molti dei suoi elogi, pronunciati tra il 1699 ed il 1722.
Freimert, C. (a cura di)
Zur Ästhetik des Territoriums
Meiner, luglio 1994
p. 157, DM 36
Furley, D.J. - Nehamas, A.
(a cura di)
Aristotele’s Rhetoric.
Philosophical Essays
Princenton UP, luglio 1994
p. 368, $ 55
Questo volume, che raccoglie i saggi
di filosofi e di classicisti di fama
internazionale, costituisce la prima
trattazione esaustiva della Retorica
di Aristotele e degli argomenti di
quest’opera.
Fornero, Giovanni
Restaino, Franco - Dario Antiseri
La filosofia contemporanea
Vol. 4, tomo II
Utet, giugno 1994
pp. 786, L. 120.000
Il volume aggiorna e continua la grande Storia della filosofia di Nicola
Abbagnano, offrendo tra l’altro
un’ampia ricostruzione del dibattito
83
Gabel, G.U. - Jagenberg, C.H.
(a cura di)
Der entmündigte Philosoph.
Briefe von Franziska Nietzsche
an Adalbert Oehler
aus den Jahren 1889 bis 1897
Gabel, luglio 1994
p. 130, DM 38
Gagnebin, Jeanne Marie
Histoire et narration
chez Walter Benjamin
L’Harmattan, maggio 1994
p. 175, F 110
Queste analisi dell’opera di Benjamin da parte di Gagnebin obbediscono ad una duplice esigenza, che guida
anche la scrittura di Benjamin stesso:
la sobrietà filologica ed il rischio filosofico. Una continua attenzione alle
parole ed ai concetti permette di elaborare le questioni filosofiche formulate e non sempre risolte nell’opera
del filosofo.
Gagnebin, Laurent
Nicolas Berdiaeff
ou De la destination créatrice
de l’homme: essai sur la pensée
Age d’homme, giugno-luglio 1994
p. 252, F 120
Questo saggio, concepito come una
grande introduzione, presenta la maggior parte dei temi affrontati dal filosofo russo (1874-1948), che hanno
avuto un’importanza decisiva per la
filosofia e la teologia moderne.
Garin, Eugenio
Il ritorno dei filosofi antichi
Bibliopolis, luglio 1994
pp. 128, L. 22.000
Questo saggio tratta del rifiorire degli
studi classici nel mondo occidentale
durante l’Umanesimo e il Rinascimento, dovuto ai più frequenti contatti del
mondo greco con quello latino che
divennero sempre più intensi dopo la
caduta dell’Impero bizantino.
Gellner, Ernest
Ragione e cultura
Mulino, luglio-agosto 1994
pp. 230, L. 24.000
Viene riletta la storia del pensiero
occidentale moderno, tracciando un
bilancio critico del razionalismo e del
ruolo da esso esercitato nel pensiero
filosofico e sociale.
Gentile, Giovanni
Frammenti di filosofia
Le Lettere, giugno 1994
pp. 420, L. 65.000
Raccolta degli scritti gentiliani di filosofia “militante”, di natura teoretica, che vanno dal 1903 al 1943.
Gerber, William
The Meaning of Life.
Insights of the World’s
Great Thinkers
Editions Rodopi, luglio 1994
FOL 45
Il libro presenta la saggezza di grandi
pensatori, rinomati scrittori e filosofi
e le loro visioni rispetto alla vita,
riportando le loro parole. Le diverse
citazioni vengono inserite in una struttura organizzata, con introduzione,
commenti e raffronti.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Gessinger, Joachim
Auge & Ohr. Studien zur Erforschung
der Sprache am Menschen 1700-1850
de Gruyter, luglio 1994
p. 789, DM 348
Il volume è una presentazione storica, culturale e teorica della discussione europea intorno al rapporto tra
percezione, pensiero e linguaggio.
Giesz, Ludwig
Phänomenologie des Kitsches
Fischer Taschenbuch
maggio-giugno 1994
DM 16,90
Giesz - in un’ampia presentazione,
che prende in considerazione anche
le conoscenze di tipo filosofico, sociologico ed estetico - individua le
componenti specifiche della “esperienza del kitsch”.
Gilbert, R. A.
Il misticismo
Xenia, luglio 1994
pp.128, L. 10.000
Come l’uomo ha condotto la ricerca
del divino attraverso l’interiorità e la
conseguente comunione con l’Assoluto, sia nelle grandi religioni della
storia che nel cristianesimo.
Gloy, K. - Lambrecht, R.
Bibliographie zu ‘Hegels
Enzyklopädie der philosophischen
Wissenschaften im Grundrisse’.
Primär- und Sekundärliteratur
1817-1993
Frommann-Holzboog, luglio 1994
p. 114, DM 48
Goodman-Thau, E.
Schmied-Kowarzik, W.D.
(a cura di)
Messianismus zwischen Mythologie
und Macht. Jüdisches Denken
in der europäischen
Geistesgeschichte
Akademie Vlg., maggio-giugno 1994
p. 250, DM 78
Görgemanns, Herwig
Platon
Winter, luglio 1994
p. 186, DM 28
Götzinger, Catarina
Martin Buber und die chassidische
Mystik. Betrachtungen des inneren
Verhältnisses der ‘Ich-und-Du’Philosophie Bubers
zur chassidischen Mystik
WUV-Univ. Vlg.
maggio-giugno 1994
p. 160, DM 23
Graeser, Andreas
Ernst Cassirer
C.H. Beck. luglio 1994
p. 240, DM 24
Grand, Pierre
La Vérité aujourd’hui:
vérité et culture
P. Grand, giugno-luglio 1994
p. 161, F 120
Si tratta di una meditazione sulla condizione umana, a partire da testi di
autori noti, come Nietzsche, Freud e
Russell, o meno noti.
Grondin, Jean
Kant zur Einführung
Junius, luglio 1994
p. 160, DM 19,80
Cooper, Ashley
Soliloque ou Conseil à un auteur
a cura di Anthony Shaftesbury
Herne, maggio 1994
p. 228, F 150
A. A. Cooper (1671-1713), pur andando controcorrente rispetto alle
mode del suo tempo, fu seguito ed
ebbe anche molti consensi. Fornendo
come modello gli autori latini e greci,
aiutava infatti i suoi contemporanei
ad affrontare le difficoltà del loro
mondo. I suoi Characteristics, pubblicati nel 1711, ebbero una dozzina
di edizioni. Le sue idee furono fondamentali per il secolo dei lumi.
Hägler, Rudolf-Peter
Kritik des neuen Existentialismus.
Identität - Modalität - Referenz
Schöningh, maggio-giugno 1994
p. 250, DM 88
Hamacher-Hermes, Adelheid
Inhalts- oder Umfangslogik?
Die Kontroverse zwischen
E. Husserl und A.H. Voigt
Alber, maggio-giugno 1994
p. 200, ÖS 336
Heinz, Marion
Sensualistischer Idealismus
Felix Meiner, maggio-giugno 1994
DM 88
Hammond, Nicholas
Playing with Truth.
Language and the Human Condition
in Pascal’s ‘Pensées’
Clarendon Press, luglio 1994
p. 264, £ 30
Si tratta di un ampio lavoro su Pascal,
dedicato al suo utilizzo di terminichiave che illustrano l’argomento
centrale dei Pensieri, la condizione
umana. Questo studio considera anche lo scopo persuasivo insito nella
deliberata instabilità nell’uso della
lingua da parte di Pascal.
Hilmes, C. - Mathy, D. (a cura di)
Spielzüge des Zufalls.
Zur Anatomie eines Symptoms
Aisthesis-Vlg., luglio 1994
p. 208, DM 34
Hoenen, Maarten J.F.M.
Speculum philosophiae medii aevi.
Die Handschriftensammlung
des Dominikaners Georg Schwartz
Grüner, maggio-giugno 1994
p. 169, DM 65
Hastedt, H. - Martens, E.
(a cura di)
Ethik. Ein Grundkurs
Rowohlt, luglio 1994
DM 22,90
Nel volume vengono illustrate le questioni-chiave dell’etica, dal punto di
vista storico e sistematico. Accanto a
queste nozioni di base vengono spiegate anche le applicazioni e la pratica
ad esse relative.
Hoffmann, Th.S. - Ungler, Fr.
(a cura di)
Aufhebung
der Transzendentalphilosophie?
Systematische Beiträge
zur Würdigung, Fortentwicklung
und Kritik des transzendentalen
Ansatzes zwischen Kant und Hegel
Königshausen & Neumann
luglio 1994
p. 277, DM 68
Hacking, Ian
Linguaggio e filosofia
Cortina, giugno 1994
pp. 200, L. 35.000
Il rapporto tra filosofia e linguaggio
dal Seicento a oggi attraverso l’opera
dei principali attori.
Holz, Hans Heinz
Descartes
Campus, maggio-giugno 1994
p. 162, DM 24,80
Holzley, H. (a cura di)
Ethischer Sozialismus.
Zur politischen Philosophie
des Neukantismus
Suhrkamp, maggio-giugno 1994
p. 360, DM 48
Heidbrink, Ludger
Melancholie der Moderne.
Zur Kritik der historischen
Verzweiflung
W. Fink, maggio-giugno 1994
p. 360, DM 78
Attraverso analisi che vanno da Hegel,
Schopenhauer, Nietzsche, Simmel,
Lukács e la rivoluzione conservativa,
attraverso Benjamin, Adorno e
Heidegger fino a Arnold Gehlen e
Odo Marquard, il volume mostra
come le reazioni malinconiche al disincanto dell’epoca moderna siano
legate ad un pensiero della totalità
che è vincolato storicamente.
Honnefelder, L. - Rager, G.
(a cura di)
Ärztliches Urteilen und Handeln.
Zur Grundlegung einer
medizinischen Ethik
Insel, luglio 1994
p. 384, DM 39,80
Horwich, Paul
Verità
Laterza, luglio 1994
pp. 224
Un saggio sistematico, chiaro e provocante sulla nozione basilare di ogni
discorso e speculazione filosofica.
Heidegger, Martin
Fenomenologia e teologia
(Lezioni)
Nuova Italia, giugno 1994
pp. 80, L. 10.000
I rapporti e i significati tra cristianesimo e filosofia, negli anni Venti del
Novecento europeo, in cui la teologia si viene affermando, sull’onda
del Positivismo, come scienza della
fede cristiana.
Hösle, Vittorio
Die Krise der Gegenwart
und die Verantwortung
der Philosophie.
Transzendetalpragmatik,
Letztbegründung, Ethik
84
C.H. Beck, luglio 1994
p. 280, DM 48
Nessuna delle correnti principali della filosofia moderna fornisce una
motivazione alla razionalità etica. La
prammatica trascendentale di K.-O.
Apels, sviluppata criticamente da V.
Hösle fino a diventare una metafisica
obiettivo-idealistica e un’etica, sembra avere qualche prospettiva di diventare una nuova etica. Il volume è
alla sua seconda edizione ampliata e
con un commento.
Hoy, David - McCarthy, Thomas
Critical Theory
Blackwell, luglio 1994
p. 304, £ 14
In questo libro vengono esaminate le
controversie nel campo della teoria
critica, concentrando l’attenzione soprattutto su alcune questioni filosofiche. McCarthy sviluppa un approccio alla teoria sociale critica; Hoy
difende una concezione dell’ermeneutica genealogica. Ogni autore poi
risponde agli argomenti dell’altro.
Hulin, Michel
Qu’est-ce que l’ignorance
métaphisique dans la philosophie
hindou? (Sankara)
Vrin, giugno-luglio 1994
p. 126, F 39
”Ignoranza metafisica” è la traduzione approssimativa del termine sanscrito avidya, che letteralmente significa “non sapere”. Di quale sapere si
tratta? Il tentativo di rispondere a
questa domanda, ci porta al cuore di
una problematica comune alla filosofie indiane classiche. Queste riflessioni vengono condotte dall’autore
partendo dal Traité des mille enseignements di Sankara.
Hume, David
Storia naturale della religione
Laterza, luglio-agosto 1994
pp. 144, l. 8.000
Hume affronta tutte le domande che
ci si può porre difronte ai sentimenti
religiosi: trovano essi un fondamento
nella ragione? o la loro origine è da
ricercarsi nel mondo delle passioni?
Husserl, Edmund
La filosofia come scienza rigorosa
Laterza, luglio 1994
pp. 100
Una nuova traduzione del manifesto
programmatico della fenomenologia
novecentesca.
Irrlitz, Gerd
Moral und Methode.
Die Struktur in Kants
Moralphilosophie
und die Diskursethik
Nomos, maggio-giugno 1994
p. 56, DM 26
Jahrbücher für wissenchaftliche
Kritik
Hegels Berliner Gegenakademie
Frommann-Holzboog, luglio 1994
p. 583, DM 285
NOVITÀ IN LIBRERIA
Jakob, Michael
Aussichten des Denkens.
Gespräche mit Emmanuel Lévinas
George Steiner
Jean Starobinski Cioran
Michel Serres, René Girard,
Pierre Klossowski, André du Bochet
Paul Virilio
W. Fink, maggio-giugno 1994
p. 240, DM 28
Jaurès, Jean
De la réalité du monde sensible
intr. Jacques Cheminade
Alcuin, giugno-luglio 1994
p. 302, F 140
L’autore, parlando della natura, di
Dio e del senso religioso del mondo,
abbraccia tutti i campi del sapere
umano. L’opera, redatta nel 1891,
rappresenta il frutto della sua attività
in qualità di professore a Albi e a
Tulosa. L’opera non era più stata ristampata dal 1937.
Jonas, Hans
La filosofia del Novecento.
Uno sguardo tra passato e futuro
Il Melangolo, giugno 1994
pp.64, L. 10.000
Una sintesi di problemi, temi, correnti e autori del Novecento che hanno
tracciato un segno indelebile nell’evoluzione del pensiero filosofico.
Kaczmarek, L. (a cura di)
Destructiones modorum significandi
Grüner, luglio 1994
p. 138, DM 110
Kaempfer, Wolfgang
Zeit des Menschen.
Das Doppelspiel der Zeit
im Spektrum der menschlichen
Erfahrung
Insel, maggio-giugno 1994
p. 308, DM 42
Kaufmann, Arthur
Grundprobleme
der Rechtsphilosophie
Eine Einführung
in das rechtsphilosophische Denken
Beck, maggio-giugno 1994
p. 260, DM 48
Kermen, Denis - Laupies, Frédéric
Premières leçons sur le pouvoir
PUF, giugno-luglio 1994
p. 112, F 56
Il volume offre gli strumenti per riflettere sui mutamenti della nozione
di potere, che esce dall’ambito strettamente politico e che sembra rinforzarsi mentre si sistematizza.
Kirk - Ravens - Schofield
Die vorsokratischen Philosophen.
Einführung, Texte und Kommentare
Metzler, maggio-giugno 1994
p. 544, DM 58
Klein, H.-D. (a cura di)
Letzbegründung als System?
Bouvier, maggio-giugno 1994
p. 190, DM 68
Normalmente i dibatti si limitano al
problema della possibilità o della
impossibilità della fondazione ultima. E’ però anche importante indagare per quali singole regole e categorie
sia possibile dimostrare la validità di
una fondazione ultima.
resoconto dell’evoluzione delle fonti
della malinconia tra il 1500 e il 1900,
e della ricerca nell’ultimo decennio.
Kleinknecht, R. - Neisser, B.
(a cura di)
Leonard Nelson in der Diskussion
dipa-Vlg., luglio 1994
p. 186, DM 28
Lauro, Pietro
Per il concreto. Saggio
su Th. W. Adorno
Guerini, giugno 1994
pp. 176, L. 30.000
Una risposta ai molteplici interrogativi della filosofia contemporanea,
ripercorrendo alcune tappe fondamentali dell’esperienza di Adorno, dalla
Dialettica dell’Illuminismo attraverso Minima Moralia, sino alla Dialettica negativa.
Klemme, Heiner
Die Schule Kants.
Mit dem Text von Chr. Schiffert
über das Königsberger
Collegium Fridericianum
Meiner, maggio-giugno 1994
p. 131, DM 48
Lautenschläger, Gabriele
Hildegard von Bingen.
Die theologische Grundlegung
ihrer Ethik und Spiritualität
Frommann-Holzboog
maggio-giugno 1994
p. 440, DM 88
Hildegard von Bingen (1098-1179)
sviluppò una concezione etica che
non è riducibile alla domanda che si
pone l’essere umano ormai stanco:
che cosa devo fare? Alla domanda su
ciò che si deve fare corrisponde piuttosto la ricerca del senso dell’esistenza che viene trovato attraverso l’esperienza estetica dei sensi.
Kögler, Hans-Herbert
Michel Foulcault
J.B. Metzler, maggio-giugno 1994
p. 160, DM 22,80
Nel volume viene dato spazio anche
ai critici come Habermas e Honneth,
mentre Kögler limita ai capitoli “Genealogia”, “Archeologia” e “Etica”
l’esposizione dello sviluppo delle diverse fasi del pensiero di Foucault.
König, Peter
Autonomie und Autokratie.
Über Kants Metaphysik der Sitten
de Gruyter, maggio-giugno 1994
p. 243, DM 128
L’autore, contrapponendosi alla tendenza a considerare Kant semplicemente come un distruttore della metafisica, fa rilevare quanto Kant sia un
pensatore metafisico e quanto, finora, questo aspetto sia stato decisamente sottovalutato.
Lembeck, Karl-Heinz
Platon in Marburg. Platonrezeption
und Philosophiegeschichtsphilosophie
bei Cohen und Natorp
Königshausen & Neumann
maggio-giugno 1994
p. 460, DM 86
Si tratta della tesi di abilitazione alla
libera docenza tenuta da Lembeck
presso l’università di Trier nel 1993.
Kopperschmidt, J.- Schanze, H.
(a cura di)
Nietzsche oder die Sprache
ist Rhetorik
W. Fink, maggio-giugno 1994
p. 290, DM 68
Nietzsche costituisce un ponte tra
romanticismo, epoca moderna e postmoderna. In Nietzsche emergono le
domande sull’ubiquità, sulla continuità e la discontinuità della retorica
nel XIX secolo, il secolo che disprezzò la retorica.
Lenk, Hans
Interpretationskonstrukte.
Zur Kritik der interpretatorischen
Vernunft
Suhrkamp, maggio-giugno 1994
p. 696, DM 98
Il costruttivismo interpretativo è stato dapprima concepito come un’impostazione metodologica ed è poi stato sviluppato. Esso può però anche
essere considerato all’interno della
tradizione della teoria della conoscenza tradizionale come un interpretazionismo trascendentale quasi kantiano e quindi ampliato, arrivando
così ad essere quasi una teoria della
conoscenza di un essere culturale e
simbolico, l’essere umano.
Korfmacher, Wolfgang
Schopenhauer zur Einführung
Junius, maggio-giugno 1994
p. 180, DM 19,80
Kügelgen, Anke von
Averroes und die arabische
Moderne.
Ansätze zu einer Neubegründung
des Rationalismus in Islam
Brill, maggio-giugno 1994
p. 450, FO 240
Lennon, K. - Whitford, M.
(a cura di)
Knowing the Difference.
Feminist Perspectives
in Epistemology
Routledge, luglio 1994
p. 256, £ 12
Quale differenza si crea adottando
una prospettiva femminista nei confronti del sapere tradizionale? In che
misura le prospettive femministe sono
influenzate dalla differenza tra le donne? Questa importante raccolta si rivolge all’epistemologia tradizionale
ed alle discussioni sollevate dalle critiche post-moderne.
Lambrecht, Roland
Der Geist der Melancholie.
Eine Herausforderung
philosophischer Reflexion
W. Fink, luglio 1994
p. 400, DM 78
Ecco alcuni dei capitoli di questo
volume: “Tra malattia e peccato”; “In
un altro luogo e in un altro spazio”;
“Tra ciò che non c’è più e ciò che non
esiste ancora”. In appendice, si trovano: l’edizione del Melancholischer
Teufel (Simon Musaeus, 1569); un
85
Lledò, Emilio
Il solco del tempo.
Il mito platonico della scrittura
e della memoria
Laterza, luglio 1994
pp. 208
Un filosofo controcorrente riflette
sulla scrittura, sui poteri della memoria e sul lento fluire del tempo e colloca in una giusta dimensione valori
come la solidarietà e l’amicizia.
Longato, Fulvio
L’argomentazione trascendentale.
Sulla prova in filosofia
nel confronto con la Critica
della Ragion pura
FrancoAngeli, giugno 1994
pp. 224, L. 28.000
Il problema di che cosa sia un’argomentazione filosofica, dei suoi limiti
ma anche delle sue potenzialità.
Losurdo, Domenico
Democrazia o bonapartismo
Bollati Boringhieri, giugno 1994
pp. 346, l. 28.000
Losurdo, Domenico
Hegel et la catastrophe allemande
tr. dall’italiano Charles Alunni
Albin Michel, giugno-luglio 1994
p. 232, F 140
Si tratta di una riflessione critica
sull’immagine politica di Hegel,
identificata con il pensiero totalitario, nel corso del XIX e del XX
secolo. L’autore analizza come si
passa da un Hegel messaggero della
libertà a un Hegel “prefascista”, attraverso le opere dei sociologi e dei
filosofi che, dopo di lui, ne hanno
riconsiderato le opere.
Mainberger, Gonsalv K.
Rhetorische Vernunft oder:
das Design in der Philosophie
Passagen Vlg., luglio 1994
p. 264, ÖS 385
Mainzer, K.
Thinking in Complexity.
The Complex Dynamics of Matter,
Mind and Mankind
Springer, luglio 1994
Il libro si rivolge sia agli scienziati sia
a chiunque sia interessato alla scienza, pur non essendo un “addetto ai
lavori”, e fornisce un’ampia indagine
sul ruolo della complessità e dell’evoluzione nella natura e nel mondo
moderno. Esso fornisce un contributo scientifico ad una visione del mondo integrativa ed olistica che risulterà
interessante per la nostra generazione, con i suoi ideali filosofici.
Malherbe, Michel
Qu’est-ce que la causalité?
(Hume et Kant)
Vrin, giugno-luglio 1994
p. 126, F 39
La causalità non è un ordine inscritto nelle cose, non è neanche
una logica fissata nello spirito
umano, ma la ragione umana resa
razionale in un mondo più o meno
familiare e più o meno conosciuto.
L’autore elabora dei commenti su
questo argomento, a partire da questa nozione in Hume e Kant.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Marjenko, Jan
La Cité des morts:
l’avènement du technocosme
Age d’homme, giugno-luglio 1994
p. 399, F 150
La società in cui noi viviamo diventa
un tecnocosmo, un universo completamente forgiato dall’uomo, in cui il
nostro legame con la natura non consiste in nient’altro che in un rapporto
di sfruttamento razionalizzato. Ma
oggigiorno è all’essere umano che
vengono applicati i criteri di efficacia
e di livellamento che regolano il biotopo della natura. Nel volume ci si
interroga su come vivere un altro rapporto con il mondo.
cura, che può far sviluppare la nostra
umanità divisa. L’analisi approfondita e gli argomenti pungenti vengono compensati da forme di dialogo
immaginativo, dalla narrazione, dalle parabole.
Marjenko, Jan
Dix méditations sur l’espace
et le mouvement
Age d’homme, giugno-luglio 1994
p. 184, F 120
Secondo l’autore, l’apporto più significativo della scienza moderna è
l’idea di un universo infinito, sia per
quanto riguarda la sua estensione
che per quanto riguarda la sua durata. In questo la scienza moderna si
distingue dalle società tradizionali,
in cui si dava una grande importanza
alle soglie e ai limiti. Un mondo
infinito è infatti la morte della carne
e del desiderio, forse anche una morte generale.
Mondin, Battista
Dizionario enciclopedico
di filosofia teologia e morale
II ediz.
Massimo, luglio 1994
pp. 960, L. 100.000
Marzano, Silvia
Il sublime nell’ermeneutica
di Luigi Pareyson
Rosenberg & Sellier, giugno 1994
pp. 128, L. 24.000
Il testo mette in luce l’originale riflessione del filosofo sulla tematica del
sublime ricostruendo la continuità tra
i due estremi del suo pensiero: l’estetica della formatività e l’ontologia
della libertà.
Morin, Edgar
Kern, Anne Brigitte
Terra-Patria
Cortina, giugno 1994
pp. 200, L. 32.000
La proposta di una riforma di pensiero che ci consenta di definire le nostre finalità terrestri all’interno di
una società sempre più collegata da
comunicazioni, interazioni, interdipendenze. Un nuovo futuro di civiltà
planetaria.
Mathy, Dietrich
Von der Metaphysik zur Ästhetik
oder das Exil der Philosophie.
Untersuchungen zum Prozeß
der ästhetischen Moderne
von Bockel, luglio 1994
p. 150, DM 39,80
Matteucci, Giovanni
Anatomie diltheyane.
Su alcuni motivi della teoria
diltheyana della conoscenza
Clueb, giugno 1994
pp. 178, L. 20.000
Miething, Christoph
Der Absolutismus der Freiheit.
Eine Kritik an der Selbstzerstörung
der Moderne
Passagen-Vlg., maggio-giugno 1994
p. 192, ÖS 280
Miller, George David
An Idiosyncratic Ethics;
Or, the Lauramachean Ethics
Editions Rodopi, luglio 1994
p. 140, FOL 45
Questo libro è una sintesi originale
di quattro elementi: la fenomenologia del valore; il prendersi cura; l’immaginazione morale e la formula
kantiana di umanità. Il risultato sorprendente è un’etica del prendersi
Mutti, Claudio
Nietzsche et l’Islam
pref. Christophe Levalois
Hérode, giugno-luglio 1994
p. 47, F 55
Il saggio riunisce tutti i passaggi di
Nietzsche in cui si parla dell’Islam ed
analizza le analogie esistenti tra tre
elementi-chiave del pensiero di Nietzsche (l’amor fati, la volontà di potenza, l’ideale del superuomo) e la dottrina islamica.
Misch, Georg
Der Aufbau der Logik
auf dem Boden der Philosophie
des Lebens. Göttinger Vorlesungen
über Logik und Einleitung
in die Theorie des Wissens
a cura di G. Kühne-Betram
e Frithjof Rodi
Alber, maggio-giugno 1994
p. 680, DM 168
Narbonne, Jean-Marc
La Métaphysique de Plotin
Vrin, giugno-luglio 1994
p. 162, F 120
Il volume, a chi si interessa in generale alla storia del pensiero, ai professori aggregati che preparano i concorsi,
rappresenta il tentativo dell’autore di
far risaltare la specificità del pensiero
di Plotino.
Nogradi-Häcker, Annette
Die Personwerdung des Menschen.
Zur Ethik Peter Singers
intr. di Dietrich Ritschl
Lit Vlg, luglio 1994
p. 148, DM 29,80
Moretto, Giovanni
Destino dell’uomo e corpo mistico
Blondel, de Lubac e il Concilio
Vaticano II
Morcelliana, giugno 1994
pp. 160, L.20.000
Una interpretazione filosofica del
Vaticano, alla luce dell’influsso di
Blondel e di de Lubac sui documenti
dello stesso Concilio.
Nussbaum, Martha C.
The Therapy of Desire.
Theory and Practice
in Hellenistic Ethics
Princenton UP, maggio-giugno 1994
p. 536, $ 38
Esaminando testi di filosofi impegnati su una linea terapeutica, che
include Epicuro, Lucrezio, Sesto
Empirico, Crisippo e Seneca, l’autrice recupera una fonte preziosa per il
pensiero morale e politico attuale e ci
incoraggia a riconsiderare l’argomentazione filosofica come una tecnica
attraverso la quale migliorare la vita.
Oefsti, Audun
Abwandlungen.
Essays zur Sprachphilosophie
und Wissenschaftstheorie
Königshausen & Neumann
maggio-giugno 1994
p. 294, DM 58
Morreau, Pierre-François
Spinoza: l’expérience et l’éternité
PUF, maggio 1994
p. 624, F 385
”Noi sentiamo e noi sperimentiamo
che siamo eterni.” Questa frase enigmatica presuppone, per essere compresa, tutta la problematica spinoziana dell’esperienza che, nonostante sia
stata poco recepita, supporta parti
importanti del sistema di Spinoza.
Ortega y Gasset, José
Meditazioni sulla felicità
Sugarco, giugno 1994
pp.120. L. 22.000
L’uomo ha sempre avvertito l’esigenza di divertirsi, ossia di allontanarsi dal regno della necessità per
raggiungere quello della libertà, attraverso la dimensione ludica della
vita. Il ritmico oscillare dell’uomo tra
la spinta verso il sociale e il ripiegamento nella più assoluta intimità.
Mosès, Stéphane
Der Engel der Geschichte.
Franz Rosenzweig - Walter Benjamin
Gershom Scholem
Suhrkamp, maggio-giugno 1994
p. 250, DM 48
Nella Germania degli anni 20 tre pensatori ebrei sviluppano un nuovo concetto della storia, all’interno del quale l’utopia messianica è centrale.
Questa nuova concezione si contrappone a quella dominante. Stéphan
Mosès ricostruisce la concezione filosofico-storica in questi tre studi,
che corrisponde a quanto rappresentato nel quadro denominato “Angelo
della storia”.
Orth, E. W. - Holzhey, H.
(a cura di)
Der Neukantismus.
Perspektiven und Probleme
Königshausen & Neumann
maggio-giugno 1994
p. 527, DM 86
Pabst, Bernhard
Atomtheorien des lateinischen
Mittelalters
Wiss. Buchges., luglio 1994
p. 207, DM 68
86
Contrariamente rispetto a quanto la
ricerca scientifica ha pensato fino ad
oggi, l’atomistica ha avuto un numero notevole di sostenitori nel Medioevo. Furono persino sviluppate alcune teorie che sono state poi confermate nel nostro secolo. Pabst riprende in
considerazione questo tema in maniera esaustiva, per la prima volta
dopo più di cento anni.
Paetzold, Heinz
Die Realität der symbolischen
Formen. Die Kulturphilosophie
Ernst Cassirers im Kontext
Wiss. Buchvlg., luglio 1994
p. 207, DM 39,80
Il libro colloca la Filosofia delle forme
simboliche di Cassirer nell’ampio contesto della filosofia europea e angloamericana contemporanea alla scrittura dell’opera. L’autore mette in risalto
soprattutto la realtà dialettica delle forme simboliche: sono un mezzo per
l’autoliberazione dell’uomo, ma non
impediscono le catastrofi.
Papi, Fulvio
Il sogno filosofico della storia
Interpretazioni sull’opera di Marx
Guerini, giugno 1994
pp. 160, L. 24.000
La critica dell’economia politic come
chiave di interpretazione del pensare
filosofico, della sua radice materiale
e della sua storicità.
Patocka, Jan
Ästhetik, Phänomenologie,
Pädagogik
Geschichts- und Politiktheorie
a cura di Matthias Gatzemeier
Alano, luglio 1994
p. 94, DM 28
Petersen, Karl Th.
Pathognostica. Aufsätze
zur Theorie und Anwendung
genealogischer Philosophie
Passagen-Vlg., maggio-giugno 1994
p. 112, ÖS 170
Petrosino, Silvano
Jacques Derrida
et la loi du possible
tr. it. di Jacques Rolland
Cerf, maggio 1994
p. 220, F 200
Queste pagine hanno lo scopo di
comprendere e presentare il pensiero di Derrida come un’opera del pensiero. La minima conoscenza di qualche scritto del filosofo permette di
cogliere in questa dichiarazione d’intenti di lettura di Derrida l’eco dell’intenzione di lettura stessa dei testi
più disparati del panorama filosofico di Derrida.
Pieper, Annemarie
Einführung in die Ethik
UTB, luglio 1994
p. 294, DM 32
Si tratta della terza edizione di questo volume, che è stato ampliato
dall’autrice.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Platter, Guntram
Die elektronische Medienwelt
als Gegenstand einer
philosophischen Ethik
Holos-Vlg., maggio-giugno 1994
p. 291, DM 48
Si tratta della tesi di laurea, tenuta da
Guntram Platter presso l’Università
di Bonn nel ’93.
Pogge, Thomas W.
John Rawls
C.H. Becks, luglio 1994
p. 180, DM 22
In questa introduzione, uno degli allievi di Rawls presenta l’evoluzione
storica, le motivazioni filosofiche e
l’applicazione politica della concezione di giustizia di Rawls. L’autore,
profondo conoscitore di Rawls, ne
presenta le teorie mantenendo un atteggiamento critico.
Raters-Mohr, Marie-Luise
Intensität und Widerstand.
John Deweys Art as Experience
als philosophisches System,
als politischer Appell
und als Theorie der Kunst
Bouvier, maggio-giugno 1994
p. 266, DM 85
Raz, Joseph
Ethics in the Public Domain.
Essays in the Morality
of Law and Politics
Clarendon Press, luglio 1994
p. 384, £ 40
Si tratta di una raccolta di saggi che
esaminano diversi aspetti legati al
tema usuale, ed antico, dei rapporti
tra legge e morale. Gli argomenti
discussi includono i limiti del dovere politico e degli obblighi e le controversie legate all’autodeterminazione nazionale.
Rehm, J. (a cura di)
Verantwortlich leben
in der Weltgemeinschaft.
Zur Auseinandersetzung
um das ‘Projekt Weltethos’
Chr. Kaiser, maggio-giugno 1994
p. 96, DM 12,80
Il volume raccoglie i contributi di
Wolfgang Huber, Hans Küng, Johannes Lähnemann, Ram A. Mall, HansJochen Vogel, Carl Friedrich von
Weizsäcker e Rotraud Wieland.
Reijen, Willem van
Die authentische Kritik
der Moderne
W. Fink, maggio-giugno 1994
p. 250, DM 38
Seguendo il filo di una logica degli
estremi, che aiuta - attraverso temi
esemplificativi che vanno dall’epoca
barocca ai giorni nostri - ad analizzare il rapporto di tensione tra rinnovamento e tradizione, tra apertura e chiusura, viene chiarito il ruolo delle opposizioni e degli antagonismi nel nostro modo di pensare e di agire.
Riccio, Franco
Introduzione ad una lettura
della Modernità
FrancoAngeli, giugno 1994
pp. 160. L. 26.000
L’interesse che spinge questo tentati-
vo propedeutico di una lettura della
modernità è dettato da due dati storici: la constatazione di una “eredità
logica” nella stessa formazione dei
vari discorsi alternativi; l’estensione
generalizzata di quella economia di
mercato che accompagna il sorgere,
lo sviluppo e la crisi della modernità.
Rorty, Richard
Scritti filosofici
Vol. I
Laterza, luglio 1994
pp. 352
Rousseau, Jean-Jacques
Beaumaont, Christophe de
Lettre a monseigneur de Beaumont
Mandement de monseigneur
l’archevêque de Paris
pref. Nicolas Bonhote
Age d’homme, giugno-luglio 1994
p. 156, F 40
Nel volume è contenuto il testo poco
conosciuto ma molto esemplificativo
della traiettoria del pensiero di
Rousseau, della genesi e dell’esposizione delle sue idee, proprio al momento del dibattito cruciale tra il filosofo e la società del suo tempo. In
questa lettera, Rousseau risponde al
Mandement redatto dall’arcivescovo
di Parigi contro l’Emile.
Ricoeur, Paul
Conferenze su ideologia e utopia
Jaca Book, giugno 1994
pp. 384, L. 53.000
Raccolta di un ciclo di conferenze
tenute all’Università di Chicago sui
temi dell’ideologia e dell’utopia.
Rinaldi, Giacomo
Dialettica arte e società
Saggio du Th. W. Adorno
Quattroventi, giugno 1994
pp. 208, L. 30.000
Un profilo storico critico del pensiero
di Adorno che tenta di rendere giustizia all’integralità dei suoi interessi
filosofici e sociologi, così come estetici e musicologici.
Rudolph, E. - Stamatescu, I.-O.
Philosophy, Mathematics
and Modern Physics.
A Dialogue
Springer, maggio-giugno 1994
p. 250, DM 78
Si tratta di una raccolta di saggi di
fisici, matematici e filosofi, che comprende anche scritti di Roger Penrose, Euan Squires e Erhard Scheibe.
Rockmore, Tom
Hegel et la tradition
philosophique allemande
Oussia, giugno-luglio 1994
p. 195, F 99
Lo scopo di questo libro è di contribuire alla comprensione della filosofia
tedesca, partendo dalla lettura parziale e a volte anche tendenziosa di Hegel
stesso, nel momento in cui egli traccia la storia della filosofia tedesca.
Rudolph, Enno
Theologie - diesseits des Dogmas.
Studien zur systematischen
Theologie, Religionsphilosophie
und Ethik
Mohr, luglio 1994
p. 232, DM 70
Enno Rudolph esorta la teologia a
riprendere il suo ruolo storico all’interno delle scienze, come partner nel
dialogo con la filosofia e come portatrice di cultura.
Röd, Wolfgang
Der Weg der Philosophie
von den Anfängen bis ins 20.
Jahrhundert
vol. 1: Altertum, Mittelalter
Renaissance
C.H. Beck, luglio 1994
p. 540, DM 58
All’autore preme presentare in maniera comprensibile ad ogni lettore i
pensieri ed i concetti fondamentali
dei principali filosofi, in modo che le
domande predominanti in ogni epoca
e le risposte ad esse fornite vengano
recepite ed inquadrate all’interno delle
grandi linee evolutive della filosofia.
Salmon, W. - Wolters, G.
(a cura di)
Logic, Language, and the Structure
of Scientific Theories.
Proceedings of the Carnap
Reichenbach Centennial,
University of Constance, May 1991
Univ. Vlg. Konstanz, luglio 1994
DM 98
Rombach, Heinrich
Der Ursprung. Die Philosophie
der Konkreativität
von Natur und Kultur
Rombach, maggio-giugno 1994
p. 196, DM 56
La concreatività è un fenomeno che
ha un ruolo estremamente importante: è alla base degli atti creativi degli
esseri umani e di quelli della natura.
Salvucci, Pasquale
Il filosofo e la storia
Saggi, interventi, conferenze
Quattroventi, giugno 1994
pp. 1008, L. 70.000
Saggi raccolti tra il 1954 e il 1994 in
cui viene analizzato il rapporto tra
filosofia e storia, nel suo configurarsi nell’opera dei grandi pensatori
scozzesi del XVIII secolo e dei giganti dell’idealismo classico tedesco, fino a raggiungere alcune voci
significative della filosofia italiana
contemporanea.
Rorty, Richard
La svolta linguistica
Tre saggi su linguaggio
e filosofia
Garzanti, giugno 1994
pp. 152, L. 23.000
Il volume offre l’occasione di ricostruire l’evoluzione del pensiero di
Richard Rorty nelle sue linee e svolte fondamentali dagli anni Sessanta
a oggi.
Sandkühler, H.J. (a cura di)
Theorien, Modelle und Tatsachen.
Konzepte der Philosophie
und der Wissenschaften
Lang, luglio 1994
p. 291, DM 90
87
Savater, Fernando
Filosofia contro accademia
Il Melangolo, giugno 1994
pp. 148, L. 20.000
Quattro brevi saggi dedicati a Montaigne, Schopenhauer, Nietzsche e de
Unamuno.
Scaltsas, T. et al. (a cura di)
Unity and Identity
in Aristotele’s ‘Metaphysics’
Clarendon, luglio 1994
p. 368, £ 35
Il volume presenta quattordici saggi di
specialisti di filosofia antica e di metafisica contemporanea, incentrati sulla
discussione della teoria dell’unità delle sostanze in Aristotele, un tema centrale per l’indagine metafisica.
Schacht, R. (a cura di)
Nietzsche, Genealogy, Morality.
Essays on Nietzsche’s
’On the Genealogy of Morals’
Univ. of California, luglio 1994
p. 500, $ 26
Il volume offre una raccolta di contributi di venticinque noti filosofi sui
temi centrali e sui concetti della Genealogia della morale.
Schäfer, Erich
Grenzen der Künstlichen Intelligenz
John R. Searles Philosophie
des Geistes
Kohlhammer, luglio 1994
p. 160, DM 49
In questo libro viene dimostrato, sulla
base del Chinese Room-Argument di
J. R. Searle, che le condizioni funzionali di un computer sono condizioni-modello stabilite a livello puramente formale, che non hanno
quindi nessun significato di per se
stesse, mentre, per l’esperienza ed il
pensiero umani, il riferimento agli
oggetti e ad una prospettiva di senso
sono fondamentali.
Schäfer, L. - Ströker, E. (a cura di)
Naturauffassungen in Philosophie
Wissenschaft, Technik
vol. 2: Renaissance
und frühe Neuzeit
K. Alber, maggio-giugno 1994
p. 284, DM 68
Schick, Friederike
Hegels Wissenschaft der Logik
Metaphysische Letzbegründung
oder Theorie logischer Formen?
Alber, luglio 1994
p. 400, DM 98
Schmitz, Hermann Josef
Nietzsche absconditus
oder Spurlesen bei Nietzsche
Vol. 2: Jugend. Interniert
in der Gelehrtenschule:
Pforta 1858-1864 parte II: 1861-1864
IBDK Verlag, maggio-giugno 1994
p. 736, DM 74
L’interpretazione filosofica e approfondita dei testi scritti da Nietzsche in
quegli anni porta a risultati sorprendenti che chiarificano molte questioni controverse della critica e della
ricerca nietzschiana e impongono una
revisione dei dogmi che da decenni
dominano in questo ambito.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Schönberger, R. - Kible, B.
(a cura di)
Repertorium editierter Texte
des Mittelalters aus dem Bereich
der Philosophie und angrenzender
Gebiete
Akademie Vlg., luglio 1994
p. 900, DM 198
Schubert, Andreas
Untersuchungen zur stoischen
Bedeutungslehre
Vandenhoeck & Ruprecht
maggio-giugno 1994
p. 280, DM 72
Il lavoro è teso ad avvicinarsi alla
comprensione del significato dei lekta per gli stoici.
Seibold, Friederich
Über die Form des Philosophierens.
Eine Anleitung zum kritischen
Denken in der Philosophie
R.G. Fischer, luglio 1994
p. 60, DM 24,80
Seidl, Horst
Sintesi di etica generale
Città Nuova, luglio 1994
pp. 296, L. 28.000
Uno studio sintetico che guarda
all’etica generale principalmente
sotto il profilo del rapporto tra legge morale e libertà. Il libro mantiene un dialogo aperto con le discipline teologiche.
Senger, H.G. (a cura di)
Philosophische Editionen.
Erwartungen an sie - Wirkungen
durch sie. Beiträge zur VI.
Internationalen Fachtagung
der Arbeitsgemeinschaft
philosophischer Editionen
(11.-13. Juni 1993 in Berlin)
Niemeyer, maggio-giugno 1994
p. 168, DM 98
Durante i giorni del convegno, tenutosi a Berlino tra l’11 e il 13 giugno
del ’93, sono stati presi in considerazione, tra gli altri, i seguenti argomenti: le aspettative che accompagnano le edizioni di opere e le conseguenze che queste hanno, sia in generale che sulla base di esempi in
particolare (Spinoza, Leibniz,
Wittgenstein, Heidegger); le nuove
tendenze delle edizioni filosofiche e
di Germanistica, i problemi dei lasciti
di opere filosofiche.
Séris, Jean-Pierre
Qu’est-ce que la division
du travail? (Ferguson)
Vrin, giugno-luglio 1994
p. 126, F 39
Prima che Adam Smith tragga, dalla
divisione del lavoro, il profitto che è
noto a tutti e che sarà il punto di
partenza della sua economia politica, il filosofo scozzese Adam Ferguson gli consacra un denso e breve
capitolo nel suo Saggio sulla storia
della società civile, pubblicato nel
1767. Il volume contiene la riproduzione del testo di Ferguson ed un
commento, basato sul concetto della
divisione del lavoro.
Singer, Irving
The Pursuit of Love
John Hopkins UP, maggio-giugno
1994
p. 240, $ 26
Il celebre autore di The Nature of
Love, fornisce qui una teoria filosofica e psichiatrica per spiegare la forza
e la complessità dei rapporti umani.
lavoro è la restituzione esistenziale
della categoria del dolore all’interno
della sua ricchezza di relazioni.
Trampendach, Kai
Platon, die Akademie
und die zeitgenössische Politik
Fr. Steiner, maggio-giugno 1994
p. 340, DM 124
Questa monografia è da intendersi
come un contributo alla storia dello
spirito e del potere, della filosofia e
della politica. La prima parte, empirica, si occupa dell’attività politica dei
discepoli di Platone; la seconda, ermeneutica, confronta la filosofia politica di Platone con la pratica di vita
delle polis a lui contemporanee.
Soldati, Gianfranco
Bedeutung und psychischer Gehalt.
Zur sprachanalytischen Kritik
von Husserls früherer
Phänomenologie
Schöningh, maggio-giugno 1994
p. 220, DM 58
Souche-Dagues, Denis
Recherches hégélliennes:
infini et dialectique
Vrin, giugno-luglio 1994
p. 221, F 198
Nel volume sono stati raccolti articoli
e testi di conferenze che si distribuiscono nell’arco di tempo tra il 1975 e
il 1993. Gli argomenti trattati sono
quelli della problematica dello spirito, del tempo, della storia, della finalità e si concludono con la discussione intorno all’accusa di onto-teologia
mossa da Heidegger nei confronti del
sistema hegeliano.
Utz, Arthur F.
Sozialethik. Mit internationaler
Bibliographie
parte IV: Wirtschaftsethik
WBV, maggio-giugno 1994
p. 400, DM 46
Wahl, Jean
Du rôle de l’idée de l’instant
dans la philosophie de Descartes
intr. di Frédéric Worms
Descartes & Clé, maggio 1994
p. 134, F 90
Si tratta della riedizione di quest’opera
importante che influenzò personaggi
molto diversi tra loro come Emmanuel
Levinas, Paul Ricoeur o Gilles
Deleuze. Jean Wahl (1888-1974) tenderà per tutta la sua vita, sia in qualità
di filosofo che di poeta, ad andare
incontro al mistero della realtà.
Spierling, Volker
Arthur Schopenhauer
J.B. Metzler, luglio 1994
p. 160, DM 22,80
Spierling, offre un’introduzione, una
presentazione complessiva dell’opera e del pensiero di Schopenhauer,
che segue fedelmente i testi originali
ed il materiale del lascito.
Warin, François
Nietzsche et Bataille:
la parodie à l’infini
PUF, giugno-luglio 1994
p. 352, F 182
Bataille dichiara di aver «sondato a
fondo l’implicazione e la portata dell’esperienza di Nietzsche.» Questa
fedeltà singolare e paradossale viene
analizzata dal punto di vista della
ripetizione.
Splett, Jörg
Spiel-Ernst. Anstöße christlicher
Philosophie
Josef Knecht, maggio-giugno 1994
DM 28
Stella, Aldo
Il concetto di “relazione”
nella Scienza della Logica di Hegel
Guerini, giugno 1994
pp. 281, L. 44.000
Il problema delle “relazioni”, decisivo in tutta l’opera hegeliana, con grande attenzione al testo cruciale della
Scienza della logica.
Waszek, Norbert
Materialien zu den ‘Jahrbüchern
für wissenschaftliche Kritik’
(1827-1846)
Frommann-Holzboog
maggio-giugno 1994
p. 370, DM 295
Questi Jahrbücher sono uno dei più
importanti periodici scientifici del
XIX secolo; nacquero da un esplicito
desiderio di Hegel e furono condotti
da lui e dalla sua cerchia di discepoli.
Stieb, Egbert
Dialektische Grundzüge
der Philosophie und Kommentare
zu Dialektische Grundzüge
der Philosophie
Profil, luglio 1994
p. 90, DM 20
Weinkauf, Wolfgang
Die Stoa
Pattloch, maggio-giugno 1994
p. 320, DM 24,80
Il volume contiene bibliografie, testi
e fonti, annotazioni alle più importanti opere della stoà e costituisce
quindi un invito ad avvicinarsi a questa filosofia, che sorprende per i suoi
spunti moderni.
Stratmann, Nicole
Leiden - im Lichte
einer existenzialontologischen
Kategorialanalyse
Editions Rodopi, luglio 1994
p. 200, FOL 60
L’indagine analitica categoriale tematizza il dolore in un “mondo precisato”. Il suo risultato è il fatto che la
corrispondente determinazione aristotelica dell’essere viene abbreviata (precisata) radicalmente nella sua ampiezza esistenziale. Lo scopo di questo
Weismüller, Christoph R.
Philosophische Relevanzen.
Texte der philosophischen Praxis
und der Pathognostik
88
Passagen-Vlg., luglio 1994
p. 184, ÖS 196
Welding, Steen O.
Fundamenta Ethica.
Die Begründunsstruktur
von Moralität
Fr. Steiner, maggio-giugno 1994
p. 200, DM 68
Il giudizio morale sulle azioni avviene sulla base di norme morali. Come
possono essere caratterizzate queste
norme morali rispetto ad altre direttive di comportamento, ed in particolar
modo rispetto alle norme giuridiche?
Tutte le posizioni etiche fino ad ora
note falliscono nel rispondere a questa domanda. Le norme morali non
possono essere stabilite in funzione
del loro scopo.
Weston, Michael
Kierkegaard and Modern
Continental Philosophy.
An Introduction
Routledge, maggio-giugno 1994
p. 240, £ 12
Williamson, Timothy
Vagueness
Routledge, maggio-giugno 1994
p. 288, £ 37,50
Williamson traccia la storia del problema, dalla discussione del heap
paradox nella Grecia classica, fino ai
moderni approcci formali, come la
fuzzy logic.
Wucherer-Huldenfeld, Augustinus K.
Ursprüngliche Erfahrung
und personales Sein. Ausgewählte
philosophische Studien
vol. 1: Anthropologie/Freud/
Religionskritik
Böhlau, maggio-giugno 1994
p. 360, ÖS 686
Si tratta del primo volume di una
raccolta di studi del noto filosofo
cristiano. Il secondo volume è in
preparazione.
Wyller Brenner, Truls
Indexikalische Gedanken.
Über den Gegenstandsbezüg
in der raumzeitlichen Erkenntnis
Alber, luglio 1994
p. 220, DM 48
Zelinka, Udo
Normativität der Natur Natur der Normativität.
Eine interdisziplinäre Studie
zur Frage der Genese
und Funktion von Normen
Herder, maggio-giugno 1994
p. 244, DM 32
Si tratta della tesi tenuta da Zelinka presso l’università di Würzburg nel ’93.
Zingari, Guido
Invito al pensiero di Leibniz
Mursia, luglio 1994
pp. 192, L. 15.000
(a cura di A.M.; trad. it. di L.T.)