SOCIETÀ SCIENTIFICA DI MEDICINA INTERNA FADOI TOSCANA FEDERAZIONE DELLE ASSOCIAZIONI DEI DIRIGENTI OSPEDALIERI INTERNISTI Cari Amici e Colleghi è con grande piacere che vi invito a partecipare al nostro VIII Congresso Regionale. La FADOI Toscana in questi ultimi anni è molto cresciuta e maturata e rappresenta un punto di riferimento sicuro per gli Internisti ospedalieri ed anche una interfaccia affidabile a livello istituzionale. La nostra “mission” è l’aggiornamento e la qualificazione dell’Internista ospedaliero in aperto confronto di esperienze con l’Università e con le specialistiche Mediche e con la componente infermieristica. Questo congresso, organizzato magistralmente dai colleghi di Arezzo coordinati da Pedace e Lenti, vuole essere l’inizio di un confronto costruttivo con le società scientifiche a noi vicine che hanno il loro campo di interesse prima e dopo il ricovero del paziente in Medicina Interna. Ma prima di tutto il congresso è un congresso congiunto con ANIMO cioè con gli infermieri di Medicina Interna, i nostri compagni quotidiani nel duro lavoro in corsia per assistere un malato sempre più polipatologico e complesso. Lo stretto rapporto fra FADOI e ANIMO è un valore aggiunto che FADOI ha rispetto ad altre società e che deve essere ulteriormente sviluppato. Nell’ospedale per intensità di cure la funzione infermieristica è centrale e contribuire a far crescere la professionalità degli infermieri ci permetterà di avere in un prossimo futuro dei professionisti adeguati a gestire i nuovi ospedali organizzati secondo il livello di intensità assistenziale. I simposi congiunti con SIMEU e SIMG recuperano l’unitarietà del percorso che l’ammalato fa dall’arrivo al pronto soccorso alla dimissione nelle strutture territoriali e a domicilio. La corretta gestione del percorso diagnostico-terapeutico è la base per il successo della cura dei nostri pazienti. Confrontarsi con il Medico d’ Urgenza sulla terapia del paziente critico e con il MMG sulla possibilità di avvio di un valido Chronic Care Model è cruciale perché noi possiamo svolgere al meglio il nostro compito di internisti ospedalieri. Il congresso è inoltre articolato con una tavola rotonda sulle prospettive di didattica nelle Medicine Interne ospedaliere. La didattica nelle nostre UO rappresenta una frontiera da superare se vogliamo dare maggior respiro ai nostri reparti e preparare adeguatamente gli internisti del futuro. La tavola rotonda è svolta al massimo livello Universitario, FADOI e ANIMO. Il congresso è completato con una serie di relazioni su argomenti “caldi” svolti da esperti della materia con un discussant FADOI. Anche quest’anno sarà presente una sessione Poster con la pubblicazione in un volume che sarà consegnato durante il congresso. è prevista anche la premiazione dei miglior quattro poster due medici e due infermieristici. Questo darà spazio per esprimersi a tutti in particolare ai più giovani. Il congresso sarà un appuntamento irrinunciabile per gli Internisti ospedalieri toscani, un grande momento di aggiornamento e di incontro e quindi vi aspetto numerosi ad Arezzo ed auguro a tutti un buon lavoro. Giancarlo Landini Presidente FADOI Toscana CONSIGLIO DIRETTIVO FADOI Toscana PRESIDENTE Giancarlo Landini (Firenze) REFERENTI AREE ENDOCRINO-METABOLICA Rossella Nassi (Sansepolcro - AR) PAST PRESIDENT Carlo Nozzoli (Firenze) Claudio Pedace (Arezzo) Raffaele Laureano (Firenze) ECOGRAFIA-ECODOPPLER Grazia Panigada (Pescia - PT) ETICA E BIOETICA Alessandro Tafi (Volterra - PI) SEGRETARIO Alessandro Pampana (Cecina - LI) CONSIGLIERI Massimo Alessandri (Grosseto) Paolo Biagi (Montepulciano - SI) Marco Cei (Livorno) Simone Cencetti (Firenze) Rinaldo Innocenti (Firenze) Paola Lambelet (Lido di Camaiore -LU) Salvatore Lenti (Arezzo) Giuseppe Lombardo (Empoli - FI) Grazia Panigada (Pescia - PT) Emilio Santoro (Bibbiena - AR) Alessandro Tafi (Volterra - PI) Stefano Tatini (Firenze) RAPPRESENTANTE ANIMO Moira Bonfanti (Empoli - FI) IPERTENSIONE E PREVENZIONE CARDIOMETABOLICA Paolo Corradini (Castel del Piano - GR) MALATTIE GASTROENTEROLOGICHE Guidoantonio Rinaldi (Barga - LU) MALATTIE ED INFEZIONI RESPIRATORIE Guido Vagheggini (Volterra - PI) MALATTIE ONCOEMATOLOGICHE E CURE PALLIATIVE Marcello Cipriani (Grosseto) MALATTIE REUMATICHE Riccardo Cecchetti (Pontedera - PI) SCOMPENSO CARDIACO Giuseppe Pettinà (Pistoia) STROKE Stefano Spolveri (Firenze) EMOSTASI E TROMBOSI Rino Migliacci (Cortona - AR) MALATTIA DIABETICA Giuseppe Seghieri (Pistoia) SOCIETÀ SCIENTIFICA DI MEDICINA INTERNA FADOI TOSCANA MALATTIE EMATOLOGICHE Paola Lambelet (Lido di Camaiore -LU) MEDICINA CRITICA E ORGANIZZAZIONE OSPEDALIERA Carlo Bartolomei (Livorno) EPIDEMIOLOGIA E STATISTICA Salvatore Bocchini (Montepulciano - SI) TERAPIA DEL DOLORE Marcello Cipriani (Grosseto) SINCOPE Simone Cencetti (Firenze) SEGRETERIE ORGANIZZATORE Dr. Claudio Pedace - Arezzo Tel. 0575255800 [email protected] comitato organizzatore Dr. Alberto Cuccuini Dr. Rino Migliacci Dr.ssa Rossella Nassi Dr.Luciano Ralli Dr. Emilio Santoro Dr. Dino Vanni Presidente Fadoi Toscana Dr. Giancarlo Landini Consiglio Direttivo Fadoi Toscana Segreteria Scientifica Fadoi Dr. Salvatore Lenti U.O. Medicina di Urgenza AUSL 8 Arezzo Tel. 3393841050 [email protected] Dr.ssa Milena Bernardini U.O. Medicina Interna e Geriatria AUSL 8 Arezzo Tel. 0575255605 – 255501 [email protected] Segreteria Scientifica Animo Nunzia Zuccone AUSL 8 Arezzo Tel. 3358216673 [email protected] Moira Bonfanti AUSL 11 Empoli Tel. 3395236682 [email protected] Commissione Posters Dr. G.C. Landini, Dr. B. Alterini, Dr. S. Lenti, N. Zuccone, M. Bonfante Segreteria Organizzativa Ti. Gi. Srl Via Udine, 12 - 58100 Grosseto Tel. 0564412038 – Fax 0564412485 [email protected] www.tigicongress.com VIII CONGRESSO REGIONALE FADOI TOSCANA Venerdi 16 Ottobre 09.00 Saluti delle autorità ed introduzione ai lavori GC. Landini (Firenze), A. (Legnano) Mazzone I SESSIONE Moderatori: R. Laureano (Firenze) M. Felici (Arezzo) 09.10 Tiroide e Cuore R. Nassi (Arezzo) Discussant: G. Pettinà (Pistoia) 09.30 La gestione delle mielodisplasie in Medicina Interna M. Cei (Livorno) Discussant: P. Lambelet (Viareggio) 09.50 Ruolo dell’interleuchina-6 nell’artrite reumatoide. Il Concetto di remissione: come ottenerla? Cosa i grandi trials clinici ci hanno insegnato? M. Benucci (Firenze) Discussant: A. Mannoni (Firenze) 10.10 Ruolo dell’interleuchina-6 nell’artrite reumatoide. Correlazione tra danno strutturale e disabilità nell’artrite reumatoide. Come Prevenirla? L. Sabadini (Arezzo) Discussant: A. Mannoni (Firenze) 10.30 Osteoporosi: formazione ossea nuovo target terapeutico B. Frediani (Siena) Discussant: L. Fattorini (Firenze) 10.50 Confronto dibattito tra il pubblico e gli esperti II SESSIONE Moderatori: D. Vanni (Arezzo) M. Cipriani (Grosseto) 11.20 Protocollo Fadoi Toscana per la prevenzione del TEV in Medicina Interna GC. Landini (Firenze) Discussant: C. Frigerio (Arezzo) 11.40 Ipertensione nell’anziano: strategie farmacologiche fra politerapia e prevenzione secondaria S. Taddei (Pisa) Discussant: P. Corradini (Castel del Piano) 12.00 Infezioni difficili in Medicina Interna: le polmoniti dell’anziano I. Iori (Reggio Emilia) Discussant: S. Pampana (Cecina) 12.20 Appropriatezza prescrittiva in Medicina Interna A. Tagliabracci (Ancona) Discussant: G. Brunelleschi (Lucca) 12.40 Confronto dibattito tra il pubblico e gli esperti 13.15 Quick lunch III SESSIONE Moderatori: G. Rinaldi (Barga), A. Morettini (Firenze) 14.30 La colecistite: terapia antibiotica o terapia chirurgica d’ urgenza ? A. Tafi (Volterra) Discussant: C. Passaglia (Pisa) 14.50 Il punto sull’intensità di cure C. Cappelletti (Firenze) Discussant: G. Lombardo (Empoli) IV SESSIONE SIMPOSIO FADOI - ANIMO - SIMEU PRIMA PARTE Moderatori: GC. Landini (Firenze), S. Grifoni (Firenze) 15.15 L’embolia polmonare: la diagnosi S. Vanni (Firenze) 15.25 L’embolia polmonare: la terapia G. Iannelli (Arezzo) 15.40 La trombolisi e la terapia in Stroke Unit S. Spolveri (Firenze) 16.00 Frontiere farmacologiche nella terapia d’urgenza dello scompenso cardiaco A. Bertini (Pisa) 16.15 Complicanze emorragiche maggiori in corso di terapia anticoagulante e studio GOAT R. Migliacci (Cortona), S. Cencetti (Firenze) 16.30 Confronto dibattito tra il pubblico e gli esperti SECONDA PARTE Moderatori: A. Lagi (Firenze), A. Cuccuini (Montevarchi) 16.45 See and Treat S. Pietrelli (Arezzo) 17.00 Strategia terapeutica nella sepsi M. Bernardini (Arezzo) 17.15 Shock settico e sindrome multiorgano C. Francois (Poggibonsi) 17.30 Valutazione infermieristica del delirio S. Papi (Arezzo) 17.45 Il paziente postchirurgico instabile A. Morettini, S. Galli (Firenze) 18.00 Confronto dibattito tra il pubblico e gli esperti 18.30 Presentazione 4 poster vincenti B. Alterini (Firenze), N. Zuccone (Arezzo) 19.00 Assemblea Regionale Fadoi: Elezione del Vicepresidente Regionale Sabato 17 Ottobre V SESSIONE TAVOLA ROTONDA Moderatore: C. Nozzoli 08.30 Prospettive di didattica in Medicina Interna GF. Gensini (Firenze), A. Mazzone (Legnano), D. Massai (Empoli) VI SESSIONE SIMPOSIO FADOI – ANIMO - SIMG Chronic Care Model: La gestione dei pazienti cronici fra Medicina Interna ospedaliera e Medicina Generale nel territorio PRIMA PARTE Moderatori: C. Pedace (Arezzo), A. Salvetti (Grosseto) IL DIABETE 09.50 FADOI: La gestione ospedaliera del diabete G. Seghieri (Pistoia) 10.00 SIMG: il modello territoriale della gestione del diabete (Linee Guida) L. Triggiano (Arezzo) 10.10 ANIMO: Il piede diabetico E. Bartolini (Arezzo) LA BPCO 10.20 FADOI: BPCO fra ospedale e territorio: Ipotesi di percorsi E. Santoro (Bibbiena) 10.30 SIMG: epidemiologia e linee guida regionali per la gestione territoriale A. Bussotti (Firenze) 10.40 ANIMO: gestione BPCO I. Pisani (Cecina), V. Pucci (Empoli) 10.50 Confronto dibattito tra il pubblico e gli esperti LETTURA 11.00 I nuovi farmaci antitrombotici G. Agnelli (Perugia) Discussant: G. Panigada (Pescia) SECONDA PARTE Moderatori: M. Ruggeri (Prato), N. Zuccone (Arezzo) L’IPERTENSIONE 11.20 FADOI: Ipertensione: la cartella VIRC S. Lenti (Arezzo) 11.30 SIMG: Ipertensione come gestione ambulatoriale. Linee guida regionali A. Santini (Prato) 11.40 ANIMO: Il modello DAY SERVICE G. Innocenti (Arezzo) LO SCOMPENSO CARDIACO 11.50 FADOI: Nuovi modelli di gestione dello scompenso cardiaco fra ospedale e territorio P. Biagi (Montepulciano) 12.00 ANIMO: il modello assistenziale nello scompenso S. Stoppioni (Pistoia) 12.10 SIMG: Una Strategia comune per il Counseling antitabagico M. Ruggeri (Prato) VII SESSIONE Infezioni Gravi in Medicina Interna: Sinergia tra clinico e microbiologo Moderatore: A. Camaiti (Livorno) 12.20 Infezioni difficili in Medicina Interna E. Concia (Verona) 12.40 Il ruolo del microbiologo nelle infezioni difficili GM. Rossolini (Siena) 13.30 Conclusioni e compilazione questionario ECM C. Pedace - R. Romizi IV CONVEGNO ANIMO A.N.Í.M.O. L’INFERMIERE DI AREA MEDICA E IL MODELLO ORGANIZZATIVO DELL’INTENSITà DI CURA: COMPETENZE E OPPORTUNITà Venerdì 16 Ottobre 2009 8.15 Registrazione dei Partecipanti 8.30 Apertura del Convegno M. Rossi (Arezzo) M. Bonfanti (Empoli) C. Molinaro (Arezzo) G.C. Landini (Firenze) I SESSIONE Moderatori: S. Lenti (Arezzo), A. Zuccone (Arezzo) 9.00 La formazione: uno strumento per la crescita individuale e professionale S. Papi (Arezzo) II SESSIONE Moderatori: S. Mercatelli (Arezzo), B. Pisani (Grosseto) 11.00 Il modello dell’intensità di cura in Toscana M. Bonfanti (Empoli) 11.20 L’intensità di cura in area medica esperienze a confronto M. Martini (Vicenza) N. Biliotti (Grosseto) L. Venuti (Firenze) R. Gentili (Pescia) 13.00 Discussione 9.30 Picc e Midline: uno strumento di gestione infermieristica F. Salti, S. Bausi (Firenze) 10.00 La ventilazione meccanica non invasiva in area medica I. Pisani (Cecina), V. Pucci (Empoli) 10.45 Pausa 13.30 Compilazione questionario ECM e chiusura dei lavori Relazioni Rossella Nassi Ospedale Valtiberina – Arezzo TIROIDE E CUORE L Relazioni ’ interazione cuore-tiroide si esplica a vari livelli: le disfunzioni tiroidee (iper e ipotiroidismo sia nella forma conclamata che subclinica) hanno riflessi sulla funzione cardiaca, ma alcune cardiopatie possono, indirettamente, attraverso un farmaco antiaritmico, anche influire sulla funzione tiroidea. L’ipertiroidismo induce nel sistema cardiovascolare uno stato ipercinetico con aumento delle gittata cardiaca, delle frequenza, della massa ventricolare sinistra, del lavoro cardiaco e dell’incidenza di aritmie sopraventricolari. I pazienti con grave ipertiroidismo possono sviluppare scompenso cardiaco in assenza di precedente cardiopatia. Tra le aritmie sopraventricolari va ricordata in particolare la fibrillazione atriale, per la quale l’ipertiroidismo, sia conclamato sia subclinico, rappresenta un fattore di rischio indipendente. L’ipotiroidismo, più frequente, anche nella forma subclinica, soprattutto nella popolazione anziana (7-26%), è correlato all’aumento del rischio cardiovascolare per i cambiamenti nell’emodinamica cardiaca e nel profilo aterogeno. Nell’ipotiroidismo anche subclinico si osserva funzione sistolica a riposo normale/depressa, disfunzione diastolica a riposo e durante esercizio fisico, incremento delle resistenze periferiche vascolari e aumentata prevalenza di insufficienza cardiaca diastolica (in particolare nell’anziano). L’aumentato rischio aterosclerotico è correlato alla maggiore prevalenza di ipertensione, di alterata funzione endoteliale, al profilo lipidico aterogeno, alle alterazioni delle coagulazione e agli elevati livelli di PC-reattiva osservati. L’incremento del rischio cardiovascolare e della FA nelle disfunzioni anche subcliniche della tiroide ha sollevato il quesito del loro screening, in particolare nella popolazione anziana. Accordo generale è presente sulla necessità di valutare la funzione tiroidea, anche in assenza di sintomi evidenti, in tutti i pazienti con fibrillazione atriale. Agli effetti del distiroidismo sul cuore, si contrappongono le conseguenze che alcune cardiopatie possono avere sulla funzione tiroidea in virtù di un farmaco antiaritmico, spesso usato nei pazienti con disfunzione ventricolare, l’amiodarone. Derivato benzofuranico, con due atomi di iodio, pari al 37% della molecola, assorbito lentamente, estremamente liposolubile con accumulo nel tessuto adiposo, polmonare ed epatico, viene trasformato in un metabolita attivo (mono-N-desetil-amiodarone) con un’emivita ancora più lunga, compresa tra 54 e 61 giorni. L’amiodarone ha molti effetti sul metabolismo degli ormoni tiroidei, inibendo l’enzima 5’mono-deiodasi tipo I responsabile della trasformazione della T4 in T3; ciò spiega l’assetto ormonale abituale nei pazienti in terapia, cioè T4 e TSH normali e T3 ridotta e aumento della reverse T3. Nei primi giorni di terapia si può osservare l’effetto Wolff-Chaikoff, cioè la diminuzione della T4 per il transitorio effetto inibitorio dovuto al carico di iodio. Tali modifiche dell’assetto ormonale non richiedono interventi terapeutici, ma l’amiodarone induce nel 30% circa dei pazienti un vero distiroidismo, sia iper che ipotiroidismo. L’ipotiroidismo da amiodarone, più frequente nelle aree ad adeguato apporto iodico e nel sesso femminile, favorito dall’età avanzata e dalla presenza di anticorpi antitiroide, si corregge spesso con la sospensione del farmaco, ma se tale terapia antiaritmica è ritenuta insostituibile, allora la soluzione è di iniziare la terapia con l-tiroxina. Ben più complesso e temibile è l’ipertiroidismo da amiodarone, favorito dalla carenza iodica e più frequente nel sesso maschile. Può insorgere in qualunque momento della terapia, ma anche molto tempo dopo la sospensione del farmaco, per la sua lunga emivita. Esistono due forme di ipertiroidismo da amiodarone, dovute a diversi meccanismi patogenetici: il tipo I con aumentata sintesi ormonale iodio indotta in una tiroide intrinsecamente normale, il tipo II dovuto ad un processo distruttivo con immissione in circolo di ormoni preformati. L’ipertiroidismo si associa in genere a peggioramento dei disturbi cardiaci che avevano richiesto la terapia antiaritmica ed è di difficile trattamento in quanto i presidi abitualmente usati, come le tionamidi o la terapia radiometabolica, sono qui poco efficaci. Possono essere utili nella forma “tiroiditica” i cortisonici. In alcuni casi si rende necessaria la tiroidectomia totale, ovviamente valutando il rischio dell’intervento in pazienti cardiopatici. la gestione delle mielodisplasie in medicina interna Marco Cei U. O Medicina Generale1 Azienda USL 6 di Livorno I l termine “mielodisplasie” individua un gruppo eterogeneo di malattie che hanno in comune la presentazione clinica come citopenie periferiche, associate ad eritropoiesi inefficace e tendenza ad evolvere in leucemia. Dalla prima descrizione di Leube nel 1900 sono stati fatti consistenti passi in avanti nell’inquadramento diagnostico (classificazioni FAB e WHO) e prognostico (International Prognostic Score System). Tuttavia, sebbene importanti avanzamenti si siano verificati nel trattamento di supporto (trasfusioni e chelazione di ferro, fattori di crescita, immunomodulanti), maggiori problemi si incontrano nel trattamento eziopatogenetico (chemioterapia, trapianto di cellule staminali), spesso difficile e limitabile ai pazienti più giovani o a forme cliniche particolari. L’approccio alle mielodisplasie appare quindi particolarmente difficile soprattutto nei reparti di Medicina Interna, dove si raccolgono i casi di età più avanzata e con maggiori comorbidità. Nel presente lavoro viene presentato un approccio al paziente con mielodisplasia, piuttosto che alla sindrome in sé, che possa fornire indicazioni utili al medico internista anche quando non in possesso di una specifica formazione ematologia. Ruolo dell’interleuchina-6 nell’artrite reumatoide Il concetto di remissione: come ottenerla? Cosa i grandi trials clinici ci hanno insegnato? Maurizio Benucci UOS Reumatologia Nuovo Ospedale S.Giovanni di Dio ASL 10 Firenze L ’ artrite reumatoide (AR) è una patologia cronica e disabilitante di origine sconosciuta che interessa circa lo 0.5-1% della popolazione. Sebbene una cura definitiva non sia possibile la remissione clinica è divenuta un obiettivo raggiungibile. Il trattamento con singoli DMARDs è stato di recente soppiantato dalla terapia di combinazione o dall’utilizzo di farmaci biologici. Purtroppo la diagnosi viene tuttoggi definita dai criteri classificativi definiti dall’American College of Rheumatology del 1987. idealmente tutti e tre questi parametri dovrebbero essere normalizzati. La definizione di remissione proposta da Pinals nel 1981 basata sulla valutazione clinica di 35 reumatologi portò a dei criteri ACR che comprendevano sei segni e sintomi: astenia, dolore articolare, numero delle articolazioni tumefatte e dolenti, la velocità di eritrosedimentazione. In questo caso il danno strutturale articolare e lo stato funzionale valutato con HAQ erano ignorati. Successivamente altre definizioni di remissione spontanea o farmaco indotta furono proposte ma l’estrema variabilità degli studi non permetteva confronti. Una proposta recente è quella di considerare la <remissione> come uno stadio della malattia al livello più basso possibile con una misurazione continua e riproducibile nel tempo. Per questo sono comparsi alcuni score come il DAS che utilizza una formula matematica per arrivare ad una singola componente quantitativa che rappresenta il numero delle articolazioni (indice di Ritchie) il numero di articolazioni tumefatte (onta di 44 articolazioni) la Ves e il giudizio globale del paziente (VAS 0-100) sull’attività della propria malattia. Anche questo comunque ignora le funzioni fisiche misurate con HAQ o SF-36 e il danno strutturale. Varianti possibili sono il DAS28 che utilizza una conta di 28 articolazioni omettendo i piedi e il DAS28-3 che omette il giudizio globale del paziente. Il valore di cut-off come indicativo di remissione se paragonato ad almeno 4 su 5 criteri ACR Relazioni è di <1.6 per il DAS e <2.6 per il DAS28. Recenti lavori su 737 pazienti hanno dimostrato che solo il 7.9 % presenta criteri di remissione ACR, il 23% se consideriamo un cut-off del DAS28 a 2.81, per questo è stato proposto di spostare il valore del DAS28 per parlare di remissione a <3.1. Anche l’HAQ è uno strumento valicato e accettato universalmente per la valutazione della disabilità, secondo dati recenti si prospetta che il dato di HAQ per poter parlare di remissione sia il valore di 0.25. L’interleuchina IL-6, il cui DNA è stato clonato nel 1986 è una proteina di 26 kDa. Essa è prodotta da vari tipi di cellule come linfociti T e B, monociti, fibroblasti, cheratinociti, cellule endoteliali, cellule mesangiali e alcune cellule tumorali. La IL-6 in sinergia con l’IL-3 supporta la formazione delle colonie blastocellulari multilineari. Induce sulle cellule T la proliferazione e differenziazione citotossica, inoltre promuove la differenziazione dei macrofagi e megacariociti determinando trombocitosi. A livello degli epatociti promuove la formazione delle proteine della fase acuta come la PCR, il fibrinogeno, l’α1-antitripsina e la serum amiloid A (SAA) e sopprime la produzione di albumina.Studi recenti nella AR hanno dimostrato una risposta al tocilizumab (inibitore dell’IL-6) che in monoterapia determinava una riduzione del 63% dell’ACR20, del 41% dell’ACR50 e del 16% dell’ACR70. L’aggiunta del methotrexate portava la risposta rispettivamente al 74% per l’ACR20, 53% per l’ACR50 e 37% per l’ACR70. Gli studi OPTION, CHARISMA, AMBITION hanno confermato i dati sulla remissione clinica valutata con DAS28 inferiore a 2.6. Tocilizumab si è inoltre dimostrato superiore al Methotrexate quando dato in monoterapia. Luciano Sabatini Sezione Reumatologia Dipartimento Medicina Interna USL8 Arezzo Correlazione tra danno strutturale e disabilità nell’artrite reumatoide Come prevenirla? N Relazioni 10 ell’esperienza clinica quotidiana di solo qualche decina di anni fa, la gestione dell’artrite reumatoide era incentrata prevalentemente sulla convivenza con l’evoluzione di malattia e la gestione del danno articolare, con l’incombenza della sedia a rotelle e la possibilità di riconquista parziale della qualità di vita e autonomia attraverso la chirurgia endo-protesica o l’uso degli ausili e delle protesi esterne. Lo sviluppo degli DMARDs, consolidato dalle evidenze scientifiche di efficacia e tollerabilità, ha rivoluzionato gli obbiettivi delle cure per l’artrite reumatoide. Negli anni ’50 i pazienti con forme aggressive allora definite “maligne” finivano nella sedia a rotelle. Negli anni ’60 e ’70 le terapie non erano ancora ben codificate e si proponevano farmaci a basso indice terapeutico. Negli anni ’80 si rende disponibile un trattamento efficace e poi confermato sicuro dopo molte titubanze e pregiudizi (il metotressato). Negli anni ’90 si osserva il passaggio dal trattamento tardivo a quello precoce (rovesciamento della piramide terapeutica e importanza dell’invio in fase precoce allo specialista). Anni 2000: la remissione diventa un obiettivo realistico. 2004: la prevenzione del danno strutturale e la sua riparazione sono possibili (ottimizzazione d’uso degli DMARDs e combinazione con i “biologici”)! Affermare che al danno strutturale dell’articolazione corrisponde la disabilità appare facile, basta guardare il danno radiologico (possibilmente pesato con i vari indici disponibili) ed effettuare una valutazione articolare ispettiva e poi funzionale, basandosi sulle finalità gestuali (pesate con i metodi dell’economia articolare) piuttosto che sulla goniometria delle escursioni articolari o i disallineamenti anatomici. Più semplicemente possiamo usare anche questionari di valutazione routinaria, come l’HAQ (Healt Assessment Questionnaire) che possono pesare bene l’impatto di malattia sul paziente in funzione del danno articolare o della flogosi in atto. Importante è valutare la malattia, secondo una frequenza adeguata a cogliere tempestivamente le alterazioni, più spesso quindi con gli indici di attività di malattia, magari anche semplici come il DAS28 (Disease Activity Score), ma poi anche con il già citato HAQ per la qualità di vita e anche gli indici di valutazione psico-affettiva, che sono orientativi per l’ansia correlata alla malattia cronica, come l’SDS (Self Depression Scale). Tuttavia dobbiamo tenere presente che la letteratura ci propone anche la possibile contraddizione del buon andamento degli indici clini-metrici rispetto alla persistenza di evoluzione radiologica, che è necessario ricercare, pur con la sua specifica tempistica, per non perdere l’occasione di ottimizzare le cure. Sono utilizzati più diffusamente l’indice di Larsen-Dale e quello di Sharp modificato. Importante è comunque non svilire mai la valutazione dell’artrite reumatoide eseguendo i soli controlli di laboratorio, che rimangono importanti in generale e determinanti per l’evidenza di buona tolleranza del trattamento, ma che non esauriscono la “misura” dell’artrite reumatoide. Non dobbiamo dimenticare infine che il monitoraggio dell’artrite reumatoide deve essere ispirato anche alle possibili complicanze di malattia e alle possibili comorbilità che, nella gestione più completa, fanno di ogni paziente un caso originale e unico nelle sue problematiche di gestione e convivenza con la malattia cronica. Nella vita di ogni singolo paziente esistono momenti di situazioni acute o critiche o di alta complessità, che rendono indispensabile la collaborazione interdisciplinare. Devo concludere sottolineando che il ruolo del malato con artrite reumatoide è prioritario, sia per la responsabilità di continuità delle cure con aspettative realistiche, sia per una più complessa e articolata capacità di convivenza con la malattia e di rapporto corretto con le strutture e gli operatori sanitari. Per fare crescere in consapevolezza, autonomia e sicurezza il singolo malato è necessario un programma informativo e educazionale, che dovrebbe essere previsto nell’organizzazione dell’assistenza per una più funzionale e efficace presa in carico. Osteoporosi: la neoformazione, nuovo target terapeutico Bruno Frediani Centro per l’Osteoporosi e la Diagnosi Strumentale OsteoArticolare Università degli studi di Siena G ià negli anni ’40 Albright aveva intuito il ruolo della neoformazione nella fisiopatologia dell’osteoporosi, imputando ad essa addirittura un ruolo determinante. Successivamente fu molto enfatizzato il ruolo degli estrogeni e della vitamina D come stimolatori dell’assorbimento intestinale del calcio e quindi normalizzatori delle perdite di calcio fecale. Fu evidenziato soprattutto il ruolo degli estrogeni nel ridurre il riassorbimento osseo osteoclastico e, nella calcitonina prima e nei bisfosfonati poi, furono individuati due ancor più potenti inibitori dell’attività osteoclastica. Comunque contemporaneamente, seppur con minor prolificità, venivano condotti studi sul ruolo del PTH come stimolatore del turnover, utilizzabile in uno schema sequenziale (ADFR: Activation, Depression, Free, Ripetition). Lo stronzio venne inizialmente utilizzato da una parte nella forma radioattiva come tracciante indicatore di neoformazione e dall’altra nella forma naturale come stimolatore della mineralizzazione soprattutto nelle metastasi osteolitiche, ma sin dagli anni ’50 ci fu chi lo propose nell’osteoporosi postmenopausale. Lo sviluppo dei bisfosfonati ha portato in questo ultimo decennio alla individuazione di molecole più persistenti nel tessuto osseo, che hanno consentito l’utilizzo pulsatorio settimanale, mensile, trimestrale ed annuale. Sostanzialmente ciò non è corrisposto ad una maggior efficacia quantomeno se si confrontano i dati che riguardano gli aminobisfosfonati, anche se ovviamente la struttura degli studi è stata perfezionata, così come gli end points. Un problema aperto con i bisfosfonati è rimasto soprattutto quello della persistenza dell’efficacia terapeutica col prolungarsi dell’assunzione oltre i 5 anni, a tal punto che c’è chi suggerisce di sospendere la terapia con bisfosfonati dopo 5 anni per sfruttarne l’effetto coda o utilizzare un altro farmaco. Nell’ultimo decennio grande impulso hanno avuto gli studi sul ruolo degli osteoblasti Relazioni 11 nella patogenesi dell’osteoporosi. In particolare sono risultate determinanti le acquisizioni sull’osteoporosi indotta da cortisonici, che hanno confermato che in essa inizialmente è più evidente un aumento del riassorbimento osteoclastico, mentre successivamente si evidenzia una notevole inibizione della neoformazione. Ciò a portato ad intensificare gli studi sulla neoformazioni e sui rapporti con il riassorbimento. È stato inviduato un sistema che modula l’attività osteoblastica e osteoclastica che è il RANKL-RANK-OPG. Varie molecole hanno dimostrato di espletare il loro effetto benefico o negativo attraverso questo sistema (il PTH ed il Ranelato di Stronzio fra le prime, i cortisonici fra le seconde). Per un breve tempo si è sperato di combinare PTH e Bisfosfonati in modo da stimolare la neoformazione contemporaneamente alla inibizione del riassorbimento, ma ciò si è rivelato fallimentare in molti studi, dando di nuovo vigore agli schemi sequenziali, peraltro da validare in termini antifratturativi. Il Ranelato di Stronzio si è presentato in questo contesto idealmente essendo l’unico farmaco in grado di determinare un disaccoppiamento fra neoformazione e riassorbimento, ossia stimolando gli osteoblasti e inibendo gli osteoclasti. Lo Stronzio Ranelato agirebbe sul fronte osteoblastico stimolando il Runx2 e come agonista del CaSReceptor, mentre sul fronte osteoclastico agirebbe riducendo il RANKL e aumentando l’Osteoprotegerina. Sul piano Clinico gli studi condotti in doppio cieco su migliaia di pazienti ed estesisi a 8 anni confermano l’efficacia sulle fratture vertebrali, non vertebrali e femorali, in soggetti già fratturati ed in soggetti non fratturati osteoporotici o osteopenici, compresi pazienti più anziani ultrasettantenni, con aumenti della Densità Minerale Ossea correlabili alla riduzione del rischio di frattura, cosa di non poco conto se si considera la gestione ambulatoriale del singolo paziente. Giancarlo Landini SC Medicina Interna Ospedale Santa Maria Nuova Azienda Sanitaria di Firenze PROTOCOLLO FADOI TOSCANA Profilassi tev in medicina interna Grazia Panigada SC Medicina Interna Ospedale SS, Cosma e Damiano Pescia USL3 Giuseppe Pettinà SC Medicina Interna Ospedale Del Ceppo Pistoia USL3 Domenico Prisco Centro Trombosi Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi - Firenze Relazioni 12 I l paziente internistico acuto è a rischio di TEV al pari del paziente chirurgico: in assenza di profilassi è infatti possibile documentare una trombosi venosa profonda (TVP) nel 15% dei casi. Numerosi studi documentano che nei reparti di Medicina Interna non vi è un corretto utilizzo della profilassi antitrombotica, con una tendenza alla sotto-prescrizione con percentuali di uso comprese fra meno del 30% e circa il 50% nei pazienti che ne avrebbero indicazione nonostante le evidenze di provata efficacia. • Stratificazione del rischio di TEV in Medicina Interna Il nostro gruppo di studio ha messo a punto un protocollo che si presenta di facile utilizzo attraverso la compilazione di una scheda da inserire nella cartella clinica del paziente e che permette di stabilire il rischio individuale (fattori predisponenti + fattore di rischio incidente) e la conseguente profilassi da adottare. I fattori di rischio sono stati divisi in quelli ad alto grado ed in quelli a grado moderato-lieve. I fattori di alto grado presentano tutti un OR fra 2 e 9 e a ciascuno è stato attribuito il punteggio di 2. I fattori di mediobasso grado che hanno un OR <2 è stato attribuito un punteggio di 1. Lo score totale ottenuto permette una stratificazione del rischio e la modulazione di conseguenza della profilassi da appliccare. • Protocollo di profilassi Le Linee Guida Internazionali indicano, con raccomandazione di Grado 1A, per la profilassi nel paziente medico: eparina non frazionata (ENF), EBPM e Fondaparinux mentre nel paziente ad aumentato rischio emorragico vengono indicati solo i mezzi fisici di prevenzione. Facendo riferimento a studi con disegno sperimentale rigoroso e con applicazione di metodi diagnostici moderni si possono considerare i seguenti farmaci nella profilassi medica:ENF (eparina calcica) 5000 UI sc x 2-3 volte al di,Enoxaparina 4000 UI sc 1 volta al di, Dalteparina 5000 UI sc 1 volta al di, Fondaparinux 2,5 mg sc 1 volta al di, Nadroparina 3800 UI sc 1 volta al di. In ampie metanalisi la ENF si è dimostrata inferiore rispetto a EBPM/Fondaparinux nel prevenire il TEV. Inoltre EBPM /Fondaparinux avevano minori complicanze emorragiche in sede di iniezione. Ipertensione nell’anziano: strategie farmacologiche fra politerapia e prevenzione secondaria Stefano Taddei Dipartimento di Medicina Interna Università di Pisa A nche nel paziente anziano la terapia antiipertensiva ha effetti favorevoli in termini di riduzione della mortalità e morbilità cardiovascolare, indipendentemente dal tipo di ipertensione (sisto-diastolica o sistolica isolata). Le metaanalisi ha evidenziato un chiaro beneficio terapeutico anche negli ultraottantenni, in cui la terapia antiipertensiva si dimostra in grado di ridurre gli eventi cardiovascolari fatali e non fatali, gli eventi cerebrovascolari, ma non la mortalità totale. Invece nello studio HYVET con la terapia antiipertensiva è stata ottenuta una riduzione anche della mortalità per tutte le cause e dello scompenso cardiaco. Sembra inoltre che anche il rischio di demenza venga ridotto dal trattamento antiipertensivo. Nell’anziano non appaiono esserci differenze sostanziali di efficacia e prevenzione cardiovascolare tra le diverse classi farmacologiche. Per quanto riguarda l’approccio clinico al paziente iperteso anziano, risulta fondamentale la misurazione della pressione arteriosa sia in clino- che in ortostatismo, sia al momento della diagnosi di ipertensione che durante il follow up, in modo da diagnosticare l’ipotensione posturale preesistente o che può insorgere col trattamento antiipertensivo. è importante iniziare con bassi dosaggi, per minimizzare gli effetti collaterali, ed eventualmente titolare gradualmente la terapia. Per ottenere valori pressori controllati sarà spesso necessaria una terapia di associazione, che però può aumentare il rischio di interazioni farmacologiche negative in pazienti già politrattati. È ancora oggetto di dibattito di quanto ridurre la pressione arteriosa nell’anziano. Infatti è stata evidenziata una correlazione inversa tra pressione arteriosa e mortalità per tutte le cause per valori <120/60 mmHg, ma tale dato è da attribuire al fatto che i pazienti più fragili hanno sia valori pressori inferiori che una maggiore mortalità. Inoltre i brillanti risultati dell’HYVET sono stati ottenuti avendo come target pressorio 150/80 mmHg, pertanto è tuttora da dimostrare il beneficio una ulteriore riduzione pressoria, considerando anche il maggior numero di effetti collaterali che un tale approccio comporterebbe. INFEZIONI DIFFICILI IN MEDICINA INTERNA: Le polmoniti dell’anziano • Ipotesi a polmonite é la principale causa di morte negli ospiti delle residenze sanitarie assistenziali (RSA) e rappresenta un crescente motivo di ricovero: la polmonite acquisita in RSA (“nursing home-acquired pneumonia” - NHAP) contribuisce al 2-18% dei ricoveri ospedalieri per polmonite. Fino a pochi anni fa, la NHAP era classificata tra le forme comunitarie (“community-acquired pneumonia” - CAP). Secondo la classificazione dell’American Thoracic Society / Infectious Diseases Society of America del 2005, le NHAP sono incluse in una nuova categoria definita “health-care associated pneumonia” (HCAP), comprendente anche le polmoniti in pazienti con recente ospedalizzazione, o sottoposti ad emodialisi, o ad altre procedure assistenziali. Nel periodo 2002-2004 è stato condotto lo studio FASTCAP, che ha valutato la gestione della CAP nei ricoverati in Ido Iori 1^ Medicina Interna Centro Emostasi e Trombosi Azienda Ospedaliera A.S.M.N. di Reggio Emilia L Relazioni 13 Medicina Interna, prima e dopo l’implementazione delle linee-guida sulle infezioni delle basse vie respiratorie, definite dal Gruppo Multidisciplinare di Esperti FADOI. Dai dati dello studio é emerso che la provenienza da RSA rappresenta un fattore prognostico negativo indipendente di maggior rischio di fallimento della terapia. In base a questo riscontro si è ritenuto opportuno dedicare una specifica analisi post-hoc al sottogruppo delle polmoniti ricoverate da RSA e arruolate nel FASTCAP. Il presente report riguarda l’analisi post-hoc eseguita sul sottogruppo di pazienti dello studio provenienti da RSA. • Materiali e Metodi FASTCAP è uno studio multicentrico al quale hanno partecipato 31 Medicine Interne italiane, che ha confrontato i dati raccolti sulla gestione ospedaliera delle CAP in due fasi successive, una retrospettiva ed una prospettica, fra loro intervallate da un un intervento educazionale di discussione delle raccomandazioni FADOI sulle infezioni respiratorie in Medicina Interna. • Risultati Le polmoniti ricoverate da RSA (N = 179) sono il 12.8% della casistica (N = 1219) della fase prospettica del FASTCAP. I casi da RSA presentano una età media più elevata (85.4 ± 8.9 anni) rispetto a quelli provenienti da domicilio (78.9 ± 12.7 anni). La maggior frequenza della polmonite in classe V di Fine (54.2%) e il più elevato score medio di Fine nelle NHAP è in parte correlabile alla “provenienza da RSA” che contribuisce alla definizione dello score e della classe di Fine. Gli insuccessi terapeutici sono risultati più elevati nei casi ricoverati da RSA (35.8% vs 24.9%), soprattutto nei pazienti più gravi in classe V di Fine. Tale risultato è principalmente correlato alla maggiore mortalità nel gruppo RSA. In riferimento al trattamento iniziale nei provenienti da RSA si è osservato un incremento della percentuale di successi con l’antibioticoterapia di combinazione rispetto alla monoterapia (68.5% vs 62.4%). • Conclusioni I risultati dello studio FASTCAP confermano che fino a pochi anni fa nel “mondo reale” l’impostazione della terapia antibiotica non prevedeva differenze sostanziali tra le CAP ed i casi ricoverati da RSA. Secondo le indicazioni disponibili e quanto evidenziato dallo studio, la provenienza da RSA configura, fra i pazienti con polmonite e ricoverati in ospedale, un subset con prognosi più grave e che richiede un’antibioticoterapia empirica ragionata più aggressiva. Ulteriori studi potranno meglio definire la microbiologia delle NHAP e valutare se linee-guida dedicate di terapia possono migliorare l’outcome di questi pazienti. Considerata la gravità della patologia, non vanno trascurate le misure preventive (programmi di vaccinazione, attenzione all’igiene orale degli ospiti, aerazione dei locali) che devono essere garantite nelle strutture assistenziali, così come la necessità di eseguire le emocolture prima di iniziare la terapia antibiotica ed una diagnosi precoce (la radiografia del torace è l’elemento diagnostico decisivo), tutte misure che sono in grado di migliorare l’outcome delle polmoniti nell’anziano. Adriano Tagliabracci Università Ancona APPROPRIATEZZA PRESCRITTIVA IN MEDICINA INTERNA L Relazioni 14 a prescrizione di farmaci è parte considerevole dell’attività del medico che trova riferimento in norme del codice deontologico (art. 13) ed in leggi dello Stato che ne disciplinano il corretto svolgimento. In tesi generale, il medico è tenuto a prescrivere farmaci che sono stati autorizzati all’immissione in commercio dal Ministero della Salute, secondo le indicazioni che sono riportate nella scheda tecnica del farmaco. L’uso di medicinali che sono ancora nella fase della sperimentazione, o che siano stati autorizzati al commercio per altre indicazioni, vie o modalità di somministrazione può avvenire in casi limitati e personalizzati e sempre che sussistano determinate condizioni che lo consentano. I provvedimenti adottati in questi anni dal Ministero della Salute sull’impiego dei farmaci generici sollevano problematiche in merito all’appropriatezza del loro impiego alla luce delle disposizioni della Legge n. 94 dell’8 Aprile 1998 (cosiddetta legge Di Bella), che ne consente l’uso allorquando coesistano ben determinate condizioni: a) diretta responsabilità del medico prescrittore, b) acquisizione del consenso informato del paziente, c) evidenza scientifica dell’efficacia del farmaco, d) mancanza di altri farmaci autorizzati. Queste incertezze derivano essenzialmente dal fatto che i farmaci generici hanno indicazioni che possono differire, di regola per difetto, rispetto a quelle previste per i farmaci originali. Da ciò può derivare che la sostituzione del farmaco da parte del farmacista non corrisponda all’obiettivo prescrittivo del medico e di fatto può verificarsi, dal punto di vista formale, un uso non conforme a quanto previsto ex legge 94/1998. A ciò dobbiamo aggiungere che la facoltà concessa al farmacista di variazione del farmaco senza tenere conto dell’indicazione per la quale il medico lo ha prescritto pone problemi di carattere deontologico e legale e può anche sollevare aspetti di responsabilità professionale nel caso in cui il paziente possa ricevere un danno conseguente alla somministrazione del farmaco. LA COLECISTITE: Terapia antibiotica o terapia chirurgica d’urgenza? Alessandro Tafi Ospedale S. M. Maddalena di Volterra L a colecistite è definita come l’infiammazione della colecisti causata, nella maggior parte dei casi (90%), dalla presenza di calcoli che ostruiscono il dotto cistico, nel restante 10% si parla invece di colecistite alitiasica. La forma litiasica è più frequente nel sesso femminile, così come la calcolosi colecistica, e nel periodo gravidico (il progesterone causa stasi biliare), mentre la colecistite alitiasica si osserva soprattutto in uomini anziani. Sebbene nel 50-75% dei casi venga documentata una infezione batterica della bile, sembra che questa sia più una conseguenza del processo infiammatorio acuto, piuttosto che la sua causa scatenante. Questo è vero soprattutto per la colecistite litiasica dove l’ostruzione del dotto cistico da parte di un calcolo determina la distensione della colecisti con ristagno del materiale biliare e compromissione del flusso ematico e linfatico e conseguente ischemia e necrosi. Un ruolo diretto nel causare necrosi, emorragia, perdita di mucosa e depositi di fibrina lo avrebbe l’endotossina, che abolirebbe anche la risposta contrattile alla colecistochinina (CCK). Frequente è poi la sovrapposizione di processi infettivi e l’evoluzione può essere l’empiema o il flemmone della colecisti. Riguardo invece alla colecistite alitiasica il processo eziopatologico appare diverso e non del tutto chiaro. Sembra legato a condizioni associate a stasi biliare, con aumento della viscosità e quindi della litogenicità della bile, causate dalla presenza ad esempio di febbre o disidratazione. La prolungata sospensione dell’alimentazione enterale risulta in una riduzione o completa assenza di responsività allo stimolo contrattile da parte della CCK. Sono quindi spesso interessati pazienti critici, sottoposti a chirurgia maggiore, con traumi severi, con nutrizione parenterale totale a lungo termine o digiuno prolungato. Altre cause sembrano includere patologie cardiache (sindrome da bassa portata con ischemia della colecisti), diabete mellito, anemia falciforme ed infezioni da Salmonella o da Citomegalovirus o parassitosi in pazienti con AIDS. Queste premesse sono la base per parlare della gestione terapeutica della colecistite, una patologia di interesse sia medico che chirurgico. Bisogna distinguere la patologia litiasica, in cui l’approccio chirurgico da sempre trova spazio, dalla alitiasica, che sembra invece privilegiare un approccio con terapia medica (anche se abbastanza spesso viene praticata una colecistostomia percutanea), sia alla luce della eziologia (frequentemente sostenuta da infezioni batteriche) sia perché spesso il paziente è compromesso ed ha quindi un rischio operatorio elevato. La terapia medica si fonda ancora sull’uso di antibiotici di lungo corso e di modesto costo anche se ad oggi vengono usati antibiotici di più recente introduzione e più costosi). L’uso dei Relazioni 15 FANS potrebbe rappresentare una terapia eziologica, oltre che sintomatica per il dolore, dato il coinvolgimento, nella genesi del processo flogistico, delle prostaglandine. Riguardo alla chirurgia, in passato la colecistite acuta era considerata una controindicazione alla colecistectomia laparoscopica per la maggior incidenza di lesioni iatrogene della via biliare ed anche la colecistectomia open veniva spesso rimandata a processo flogistico spento. Recenti studi hanno dimostrato che la colecistectomia laparoscopica può rappresentare invece il gold standard del trattamento della colecistite acuta. Nel rispetto di un adeguato trattamento medico preoperatorio sembra che l’intervento precoce (entro le 48 ore nei centri di maggior livello o al massimo entro le 72 ore) sia da preferire perché si riduce la percentuale di conversione in open, il rischio di lesioni iatrogene e la durata dell’intervento con favorevoli ripercussioni su morbilità e degenza postoperatoria. L’approccio terapeutico alla colecistite acuta sembra quindi dipendere da vari fattori: la realtà organizzativa dell’ospedale interessato, le tecniche operatorie disponibili e l’esperienza degli operatori e, infine, il tipo di paziente, sembrano essere i motivi principali per cui non si debba studiare un percorso unico per questa patologia ma piuttosto preferire la messa a punto di percorsi terapeutici differenziati e personalizzati. Carlo Cappelletti Direttore Dipartimento Area Medica Azienda 10 Firenze La degenza per intensità di cure: come coniugare questo modello con la continuità assistenziale L Relazioni 16 ’ assistenza ospedaliera è sempre più rivolta al trattamento di pazienti acuti, quasi sempre ricoverati in urgenza, “Ospedale per acuti”, che hanno bisogno di monitoraggio e trattamento con impiego di personale e di tecnologia specializzata in modo da fornire qualità elevata di assistenza. L’ospedale è organizzato sempre più come risorsa da usare solo quando è indispensabile e per il tempo strettamente necessario. In Toscana la legge n.22 (8/3/2000) e la successiva n.40 (24/2/2005) confermate dal piano sanitario regionale 2008-2010 prevedono la strutturazione delle attività ospedaliere organizzate per l’intensità delle cure e la durata della degenza, superando gradualmente l’articolazione per reparti differenziati secondo la disciplina specialistica. L’obiettivo è che la riorganizzazione metta al centro il paziente con le sue esigenze di cura ed i suoi bisogni assistenziali. In questa logica sono previsti: • un primo livello di cura che sono le cure intensive e subintensive • un secondo livello di cura, sempre per acuti, (high care) suddivisa a sua volta in ricoveri di urgenza e ricoveri programmati.Sono gli attuali ricoveri ordinari. Di questi fa parte il day hospital. • esiste poi un terzo livello di cure che si può chiamare di post acuzie o di low care che dovrebbe trovare la sua collocazione al di fuori dell’ospedale per acuti. Questo livello organizzativo permetterebbe di evitare l’appiattimento dell’assistenza e quindi sia l’“effetto tetto” che l’“effetto pavimento”. L’effetto tetto si verifica quando un utente con elevati bisogni è inserito in un sistema a bassa offerta e tende così a stressare il sistema ottenendo più assistenza rispetto agli altri utenti ricoverati, ma senza mai ottenere quello di cui necessita; ne deriva così un’assistenza inadeguata. L’effetto pavimento avviene quando un utente con modesti bisogni è inserito in un sistema ad alta offerta, ricevendo così una quota di assistenza superiore a quella necessaria, ne deriva così uno spreco di risorse. In base a questi principi che tendono a metter al centro il paziente con i suoi bisogni, è necessario che vengano identificate aree di degenza omogenea per livello di cura che prevedano il graduale superamento delle barriere delle unità operative classiche ed approdino ad un’organizzazione dipartimentale che permetta di valorizzare meglio questo nuovo modello di erogazione dell’assistenza. Come possa realizzarsi in questo nuovo contesto la continuità assistenziale che è anch’essa un valore come la degenza per intensità di cure è ancora oggetto di sperimentazione e di valutazione. Sicuramente la figura di un tutor medico che si prenda carico del paziente dal momento del ricovero fino alla dimissione è fondamentale, così come è fondamentale la figura dell’infermiere dedicato. Un ausilio importante per la continuità assistenziale è la cartella clinica informatizzata che accompagna il paziente durante il suo percorso in ospedale. L’Embolia Polmonare: La diagnosi Simone Vanni AOU Careggi Firenze L a diagnosi di embolia polmonare rimane ancor oggi uno dei problemi clinici più comuni e spesso difficili da risolvere. La complessità della diagnosi differenziale e la mancanza di un test diagnostico semplice, non invasivo e sufficientemente accurato rendono indispensabile l’adozione di una strategia diagnostica sicura, accessibile alla maggior parte delle strutture ospedaliere e valida in termini di costo-efficacia. Punto di partenza del percorso diagnostico è la valutazione della probabilità clinica di EP. Questa deve essere oggetto di attenta valutazione prima di ricorrere agli esami che consentono la visualizzazione diretta dell’embolo e quindi la diagnosi di certezza. La stima della probabilità clinica pre-test consente sia di limitare l’uso di esami complessi sia di migliorarne l’interpretazione. Una volta operata la dovuta distinzione in classi di probabilità diagnostica (bassa, media ed alta probabilità) si rende necessario un approccio diagnostico strumentale diverso a seconda del contesto clinico ed in particolare della presenza di una instabilità emodinamica (pazienti ad alto rischio di mortalità a breve termine). Nei pazienti instabili l’esame diagnostico più opportuno, data la rapidità di esecuzione, è una angio-TC del circolo polmonare. Se questa non dovesse essere disponibile, l’esecuzione di un ecocardiogramma per la valutazione della disfunzione del ventricolo destro ha nei pazienti instabili una buona accuratezza diagnostica. Di contro in un paziente a basso rischio (pazienti normotesi), l’associazione di dati clinici con alcune semplici prove di laboratorio come la ricerca del D-Dimero, consente di escludere un evento tromboembolico nel 30% dei casi. Qualora la valutazione del DDimero in un paziente con bassa/intermedia probabilità risulti elevato allora si procederà anche in questo caso all’esecuzione di test di immagine del circolo polmonare. La terapia dell’Embolia Polmonare Giovanni Iannelli U.O. Medicina d’Urgenza Arezzo L a terapia più opportuna per l’embolia polmonare deve essere definita da un team multidisciplinare che velocemente valuti la situazione clinica del paziente, utilizzando esami strumentali necessari, soppesi le varie opzioni terapeutiche e raccomandi un piano terapeutico appropriato. è oggi possibile offrire un ampio range di opzioni terapeutiche che vanno dalla sola anticoagulazione, alla terapia trombolitica più anticoagulazione, filtri cavali, embolectomia transcatetere e infine embolectomia chirurgica. Il processo decisionale richiede una accurata stratificazione del rischio attraverso una attenta valutazione clinica (anamnesi, esame fisico, dosaggio di biomarcatori come la troponina e valutazione delle dimensioni e funzionalità del ventricolo destro). L’approccio “classico” alla terapia dell’embolia polmonare considera pazienti non a rischio tutti quelli con pressione arteriosa normale. Una stratificazione del rischio più accurata può essere effettuata considerando altri fattori di rischio. I due più importanti fattori di rischio per mortalità a breve termina dopo una diagnosi di embolia polmonare sono: 1) Ipotensione 2) Immobilizzazione. Ognuno di questi triplica il rischio di morte. Valori Relazioni 17 elevati di troponina indicano microinfarti del ventricolo destro e aumentano la probabilità di un esito sfavorevole. Anche la dilatazione del ventricolo destro è correlata con aumento della mortalità intraospedaliera e di recidiva. Le linee guida dell’American College of Chest Physicians e della European Society of Cardiology entrambe pubblicate nel 2008, sono significativamente simili. La terapia eparinica può essere condotta con eparina non frazionata e.v. con dosaggio in rapporto al peso, con EBPM sempre adeguando il dosaggio al peso corporeo o con Fondaparinux con dose parzialmente dipendente dal peso. La terapia trombolitica è somministrata negli Stati Uniti alla dose di 100mg di TPA in due ore normalmente senza associazione con l’anticoagulante. In Europa TPA viene somministrato con un bolo di 10mg seguito da una infusione di 90mg in 2 ore spesso associato ad eparina non frazionata e.v.. L’embolectomia trans-catetere è indicata in pazienti che non hanno ottenuto miglioramento con la terapia anticoagulante e in cui la terapia trombolitica sia controindicata. Anche l’embolectomia chirurgica trova la sua indicazione in pazienti con EP massiva e shock e controindicazione alla trombolisi. Le due maggiori indicazioni del filtro cavale sono: 1) emorragie maggiori che controindicano la terapia anticoagulante; 2) recidiva di EP nonostante una terapia anticoagulante ben condotta. Rimane da valutare se oltre ai pazienti con ipotensione, anche altri pazienti con fattori prognostici negativi, ma con pressione normale, possono giovarsi di un approccio terapeutico più aggressivo. Stefano Spolveri Medicina – Stroke Unit Ospedale San Giovanni di Dio, Firenze LA TROMBOLISI E LA TERAPIA IN STROKE UNIT L Relazioni 18 a trombolisi sistemica con l’attivatore tissutale (ricombinante) del plasminogeno endogeno - alteplase - (Actilyse ® Boehringer Ingelheim) è il trattamento più efficace attualmente disponibile nell’ictus ischemico acuto. L’efficacia dell’uso dell’alteplase entro 3 ore dall’inizio dei sintomi è stata per prima dimostrata nello studio NINDS e sulla base di questi risultati, dal giugno 1996 la FDA ha approvato l’uso dell’r-TPA sul territorio americano. La successiva metaanalisi della Cochrane Collaboration (2002) ha dimostrato la riduzione della percentuale di mortalità o dipendenza alla fine del follow up di tre mesi nei pazienti trattati con r-TPA rispetto al placebo. In Europa l’autorizzazione al trattamento stabilita dall’EMEA (recepita dal Ministero della Salute Italiano nel luglio 2003) era condizionata: 1) dalla partecipazione dei Centri ad un registro osservazionale per valutare il profilo di sicurezza dell’alteplase nella pratica clinica quotidiana (SITS-MOST) e 2) alla effettuazione di uno studio clinico caso-controllo per valutare la possibilità di estendere il tempo di somministrazione dell’alteplase sino alla 4a ora e mezza (ECASSIII). I dati del SITS-MOST pubblicati su Lancet nel gennaio 2007 hanno confermato che l’uso dell’alteplase i.v. è sicuro ed efficace nell’uso clinico routinario, anche da parte di centri con precedente scarsa esperienza nella gestione dell’ictsu acuto. I risultati dello studio ECASS-III unitamente a quelli dei precedenti studi randomizzati e controllati e ai dati del registro SITS-ISTR, hanno dimostrato che il trattamento con alteplase tra 3 e 4 ore e mezzo è efficace ed altrettanto sicuro come nella finestra di tempo di 3 ore. Per tale motivo le Linee Guida dell’AHA hanno esteso l’indicazione dell’rt-PA nell’ictus ischemico acuto sino a 4,5 ore dall’insorgenza dei sintomi. L’r-TPA deve essere somministrato alla dose di 0,9 mg/kg di peso corporeo (10% in bolo, il restante 90% in infusione di 1 ora) in assenza di controindicazioni cliniche e con TC negativa. A distanza di 6 anni dall’introduzione dell’alteplase nella pratica clinica, ancora pochi casi di ictus ischemico acuto sono trattati con questo farmaco (1,5-3% della casistica). In Toscana la maggior parte degli ictus vengono trattati in reparti di Medicina Interna, ma attualmente solo 10 centri sono attivi e buona parte della popolazione non può giovarsi di un trattamento potenzialmente salvavita. I motivi sono principalmente organizzativi e coinvolgono la fase territoriale (118) e ospedaliera. Un’ulteriore estensione dell’uso del trombolitico nell’ictus ischemico potrà essere fornita dallo studio TESPI, approvato dall’AIFA e coordinato dal dr. Toni della Università La Sapienza di Roma, che valuta l’uso dell’rt-PA nei pazienti ultraottantenni. Frontiere farmacologiche nella terapia d’urgenza dello scompenso cardiaco Alessio Bertini U.O. Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso. DEA. A.O.U.P. L e ospedalizzazioni conseguenti ad una delle sindromi da scompenso cardiaco acuto (ADHF) rappresentano una sempre crescente voce nel capitolo della spesa pubblica. ADHF sono caratterizzate da una graduale o rapida progressione dei segni o sintomi di scompenso cardiaco che richiedono terapia e/o ricovero urgente. La eterogeneità nelle modalità di presentazione, nella fisiopatologia e nella prognosi di queste sindromi rende conto della complessità degli approcci terapeutici disponibili. Il miglioramento clinico è in genere rapido durante la degenza ma le riospedalizzazioni e la mortalità rimangono elevate in alcuni sottogruppi. Nonostante le evidenze disponibili questa patologia in gran parte “sotto-trattata” principalmente perché i farmaci efficaci nella cure dello scompenso cardiaco come beta-bloccanti, ace-inibitori, antagonisti del recettore per l’angiotensina non vengono iniziati o non vengono utilizzati nella maniera suggerita dalle linee guida. Oltre all’aderenza ottimale ai suggerimenti delle linee guida, esistono molte nuove terapie in fase avanzata di sperimentazione da utilizzare nella fase acuta della malattia. Le linee guida della Società Europea di Cardiologia pubblicate nel 2005 e riviste nel 2008 suggeriscono che i pazienti con insufficienza respiratoria acuta o shock cariogeno devono essere trattati in ambiente intensivo, i pazienti congesti che potrebbero rispondere in 12-24 ore possono essere trattati in unità di osservazione breve. La situazione clinica prevalente deve guidare la scelta della terapia iniziale e la risposta terapeutica deve essere frequentemente rivalutata. In generale l’uso endovenoso di diuretici dell’ansa da solo o in associazione con vasodilatatori è preferibile in soggetti con sovraccarico di volume. L’uso di inotropi andrebbe limitato a quel piccolo sottogruppo di pazienti con sintomi da “bassa portata” e ipotensione sintomatica. Tra le novità farmacologiche che si affacciano al vasto panorama di opzioni terapeutiche in corso di ADHF ricordiamo i bloccanti del recettore per la Vasopressina, i cosiddetti “Vaptani”, il calcio-sensibilizzante Levosimendan e la Nesiritide (analogo di sintesi del BNP). Le evidenze scientifiche a favore dell’efficacia di questi farmaci in termini di mortalità sono estremamente deboli se non del tutto assenti. La relazione presenterà le evidenze disponibili in letteratura riguardo all’utilizzo (presente e futuro) di questi farmaci. COMPLICANZE EMORRAGICHE Maggiori in corso di terapia anticoagulante e studio goat è sempre più esteso e supportato da evidenza il ricorso alla terapia anticoagulante orale (TAO) sia nell’intento primariamente terapeutico, come nel caso di malattia tromboembolica (Bournameaux H, Hematology 2008;1:252), che profilattico, prevalentemente Simone Cencetti UO Medicina d’Urgenza, Ospedale Santa Maria Nuova, Firenze Rino Migliacci UO Medicina Interna Ospedale di Cortona (AR) Relazioni 19 volto a prevenire le complicanze cardioemboliche di fibrillazione atriale e valvulopatie (Albers GW, Chest 2008; 133: 630S). Il consenso è unanime nella letteratura e nelle linee guida delle Società Scientifiche, una volta centrate le indicazioni al TAO, ed è corredato da evidenze di un rapporto rischio/ benefico ampiamente positivo (Ansell J, Chest 2008; 133; 160S). Nondimeno, il trattamento rimane gravato da un elevato incremento di rischio emorragico. Attenendosi alla definizione MTACH di sanguinamento maggiore (i.e: sanguinamento fatale, emorragia intracranica sintomatica, decremento di emoglobina > 5 g/dL, shock emorragico, necessità di trasfondere almeno 4 unità di globuli rossi concentrati), l’incidenza di tali eventi avversi risulta stimabile attorno a 1,3/100 pazienti/anno. Come è facilmente intuibile, non esistono predittori (dati clinico/anamnestici, risk-scoring systems) mirati al rischio di sanguinamento intracanico. La stima del rischio di sanguinamento intestinale, che si presenta in circa il 20% dei pazienti in TAO (Taha AS, Aliment Pharmacol Ther 2006;23: 489), rappresenta un challenge attraente, anche in considerazione della vasta disponibilità delle indagini endoscopiche per la ricerca di lesioni ad elevato rischio emorragico. Per quanto non numerosi, esistono già al riguardo alcuni studi in letteratura, che sono risultati inconcludenti per la determinazione di un chiaro profilo di rischio. I determinanti più significativi per il richio emorragico, appaiono al momento la durata della terapia e la sua aderenza ai valori target di INR (Oden A, Thromb Res 2006; 117: 492; Hirsch J, Guidelines for Antithrombotic Therapy, VIII Edition, 2008). Considerando anche la natura invasiva ed il costo delle indagini endoscopiche, la UO Medicina d’Urgenza dell’Ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze ha condotto la fase pilota dello studio prospettico GOAT (Gastroscopy in Orat AnticoagulaTion), per la definizione della presenza di lesioni a rischio emorragico nella popolazione candidata a TAO e per la ricerca di un profilo di rischio capace di porre indicazione alla esecuzione di endoscopia digestiva superiore preliminarmente all’inizio della TAO. Sono stati studiati 149 pazienti consecutivi presentatisi nell’arco di 12 mesi, con indicazioni all’inizio di TAO per profilassi del cardioembolismo nella fibrillazione striale non valvolare. I pazienti sono stati allocati nei due bracci di studio: consenso a endoscopia + TAO, consenso solo al TAO; il follow up della fase pilota dello studio si è protratto per 3 mesi, durante i quali non si è registrato alcun evento emorragico. Fra i 65 pazienti che hanno fornito il consenso alla endoscopia, il 38% presentava lesioni del tratto digerente superiore, ed in particolare 23% presentavano elevato rischio emorragico. Pur rilevando una associazione significativa fra lesioni e sesso maschile, età, insufficienza renale e sintomi digestivi, la dimensione del campione non consente di delineare un profilo di rischio capace di indicare la necessità di endoscopia preliminarmente al TAO. Nondimeno, l’elevato numero di lesioni riscontrate in questa popolazione suggerisce l’utilità di pianificare uno studio multicentrico, di adeguate dimensioni, per un adeguato disease management. Susanna Pietrelli, Salvatore Lenti See and Treat: ipotesi di applicazione U.O. Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso Ospedale San Donato USL8 Arezzo I Relazioni 20 n ogni parte del mondo occidentale si assiste ad un fenomeno diffuso in modo omogeneo relativo all’uso crescente da parte dei cittadini dei servizi di Pronto Soccorso (PS); negli ultimi 10 anni viene registrato un aumento degli accessi dal 50 % al 100 % a secondo delle realtà locali. Si evidenzia come criticità del sistema il “sovraffollamento” del PS e si possono indicare i principali effetti: tempi di attesa prolungati; pressione esercitata da pazienti in buona misura non bisognosi di un trattamento in PS; insoddisfazione del paziente; stress e demotivazione del personale; aumento del rischio professionale e qualità percepita insufficiente (almeno da un punto di vista organizzativo). Lavorando nel PS di Arezzo sono stata molto interessata dai primi annunci riguardanti la possibile applicazione di un modello di trattamento detto “See and Treat”. Sempre di più utenti si rivolgono al PS per risolvere problemi o disagi di salute “leggeri”(codici a bassa priorità) che dovrebbero essere affrontati in luoghi extraospedalieri. L’aumento di utenti che si rivolgono al servizio di PS determina un sovraffollamento delle strutture creando problemi sconosciuti sino a pochi anni fa. Gli sforzi profusi, sino ad ora, per scoraggiare l’afflusso per i pazienti con patologie minori, non hanno dato risultati soddisfacenti spingendo la letteratura a ricercare soluzioni alternative che vengano in contro a tutti gli utenti, non solo a chi si rivolge al servizio di PS per situazioni di emergenza-urgenza, ma anche a coloro che chiedono risposte per problemi o disagi di salute “leggeri”. Partendo dall’analisi della legislazione attuale che valorizza la “figura dell’infermiere” in tutta la sua poliedricità, capace di farsi propri i contenuti altamente professionali e le funzioni tipiche del suo ruolo e fornire prestazioni specifiche, pertinenti e di livello adeguato, sono passata all’analisi dell’organizzazione sanitaria anglosassone dove, sin dal 2001, il modello “See and Treat” ha trovato la sua applicazione. La letteratura indica come siano altamente positivi i risultati ottenuti proprio dai colleghi Infermieri anglosassoni, dove si è assistito ad un abbattimento dei tempi di attesa molto consistente. Quindi non solo l’utente ma anche il professionista sanitario trae benefici non indifferenti dal Modello “S&T”. Partendo dal dato che non esiste un solo tipo di modello, ma che va adattato alla singola struttura, ho raccolto dei dati significativi del PS di Arezzo. La raccolta dati ha avuto due filoni principali: analisi delle cartelle cliniche in un arco temporale di 3 mesi (Dicembre 2006 - Febbraio 2007) e un questionario distribuito agli Infermieri. Il campione viene estrapolato da un totale di accessi al Pronto Soccorso di 14.980: da una prima analisi vengono estromessi i codici di gravità maggiore riducendo il campione a 10.855 schede di accesso per codici minori, che si concentrano soprattutto nella nella fascia oraria diurna 8-20 con il 76 % sul totale, riducendo ulteriormente il numero di accesi a 8.527: di questi il 14% (1157 pazienti) presentavano patologie minori che potrebbero essere state trattate con il modello See and Treat, mentre il restante 86% (7370 pazienti) avrebbero dovute essere trattate secondo i canoni del Triage. I dati raccolti incoraggiano verso l’apertura di un ambulatorio sperimentale di “S&T” presso il PS di Arezzo. Nell’ambito di un bacino di utenza interessante al PS di Arezzo l’analisi dei dati evidenzia l’esistenza di un campione di pazienti che in base alla loro patologia possono essere inviati per il trattamento in modello S&T infermieristico, compreso l’interesse da parte dei colleghi del PS e la loro disponibilità. Concludo proponendo che il modello potrebbe essere oggetto di una sperimentazione, all’interno del contesto Regionale Toscano, presso il PS di Arezzo, previo corso di formazione. Il processo formativo dovrebbe avere come obiettivo quello di implementare l’appropriatezza clinica, assistenziale, organizzativa per poter creare un modello omogeneo nel miglioramento delle prestazioni da erogare nell’area di Emergenza-Urgenza ai codici minori, assicurando tempi di risposta più rapidi, razionalizzando i trattamenti, migliorando l’appropriatezza dei professionisti sanitari per ottenere, soprattutto, un alto livello di soddisfazione degli utenti. Per la valutazione dell’attività e per il controllo di qualità saranno utilizzati i seguenti indicatori: numeri di casi trattati; diminuzione dei pazienti trattati che richiedono un nuovo acceso in Pronto Soccorso nelle successive 72 ore; grado di soddisfazione dei pazienti sottoposti a “S&T”; completezza delle informazioni ricevute; tempi di transito dall’arrivo alla dimissione per pazienti in regime di “S&T”; qualità delle prestazioni ricevute e facilità, dopo la dimissione, di stabilire un contatto con l’ambulatorio del follow-up dei dimessi dal Pronto Soccorso. STRATEGIA TERAPEUTICA NELLA SEPSI Introduzione a sepsi rappresenta ancora oggi una grave complicanza che può causare la morte del paziente. La maggiore diffusione di pratiche diagnostico e/o terapeutiche con invasività del letto circolatorio, l’uso di dispositivi intravascolari e di materiali protesici, L Milena Bernardini U.O. Medicina Interna e Geriatria Ospedale San Donato USL8 Arezzo Relazioni 21 Relazioni 22 il sempre maggiore utilizzo di terapie immunosoppressive, le modificazioni dell’ecologia dei patogeni di comunità determina l’insorgenza di sepsi. Molto spesso il soggetto con sepsi è anziano con gravi comorbidità, politrattato e quindi necessita di particolari scelte terapeutiche oltre le assistenziali. •Terapie di sostegno. Devono correggere l’instabilità emodinamica e l’ipoferfusione tissutale. Cristalloidi o colloidi infusi rapidamente possono ristabilire il volume intravascolare. è la prima terapia che deve essere attuata quando è presente ipotensione assoluta <90 mm Hg o relativa <di 40 mm Hg rispetto alla PA basale. Possono essere somministrati vasocostrittori: Noradrenalina ed anche inotropi: Dopamina o Dobutamina in presenza di adeguata portata cardiaca. •Terapia antibiotica. Per via endovenosa dovrebbe essere attuata entro la prima ora dal riconoscimento della sepsi grave e dopo il prelievo di appropriate colture. La terapia antibiotica iniziale è empirica e deve includere uno o più farmaci attivi nei confronti di possibili patogeni e deve agire efficacemente nei presunti focolai di sepsi. La scelta degli antibiotici, battericidi, deve tenere conto della sensibilità dei microrganismi presenti nella comunità e nell’ospedale di appartenenza all’agente antimicrobico. La scelta empirica della terapia antibiotica è comunque legata all’anamnesi del paziente (eventuali intolleranze ai farmaci, alle comorbidità, allo stato immunitario, alla funzionalità epatica e renale) alla sindrome clinica ed al tipo di resistenze possedute dai microrganismi nella comunità, nell’ospedale o in altre strutture sanitarie. La terapia empirica è costituita da cefalosporine di terza e quarta generazione ed aminoglicoside. I carbapenemici, le carbossipenicilline a largo spettro o ureidopenicilline con inibitori delle betalattamasi devono essere usati nelle sepsi gravi. Glicopeptidi, oxazolidioni devono essere inclusi nella terapia in caso di ipersensibilità ai betalattamici o per resistenze di Gram +. La terapia empirica antimicotica è indicata soltanto in soggetti selezionati con alto rischio di candidosi invasiva. •Terapia steroidea. è efficace nei pazienti con shock settico, idrocortisone 200-300mg /die endovena. •Controllo della glicemia. Devono essere mantenuti livelli glicemici tra 80-110 mg/dl con terapia insulinica. •Somministrazione di emoderivati. La somministrazione di GR concentrati è indicata se Hb < 7g/dl. L’eritropoietina non è raccomandata nell’anemia associata a sepsi severa. L’uso di plasma fresco non è indicato per correggere le alterazioni coagulative senza sanguinamento attivo o senza la programmazione di procedure invasive. Le piastrine dovrebbero essere somministrate quando sono <5000 /mm3 o se ->5000 /mm3 quando sono necessarie per procedure invasive o interventi chirurgici. L’antitrombina (ATIII) ad azione anticoagulante, inibendo i fattori XIa e IX a della via intrinseca, ed antinfiammatoria non è raccomandata nel trattamento della sepsi severa e dello shock settico, ma è indicata solo in pazienti con deficit congenito di antitrombina. I livelli di proteina C attivata sono ridotti nella sepsi grave e nello shock settico. La terapia con proteina C umana ricombinante riduce il rischio relativo di mortalità del 22% ed il rischio assoluto del 7,4%. Il tissue factor-pathway inibitor (TFPI) è un inibitore naturale che modula la fase d’inizio della coagulazione; l’uso di TFPI ricombinante è in corso di valutazione nella sepsi grave, ma ad oggi i risultati sono insufficienti. Afelimomab, anticorpo monoclonale anti TNF- alfa riduce modestamente la mortalità nei soggetti con sepsi severa con tassi elevati di IL-6. •Profilassi della TVP. deve essere attuata con piccole dosi di eparina non frazionata o EBPM. Nei pazienti con controindicazioni all’eparina viene raccomandato l’uso di calze a compressione graduata o sistemi di compressione intermittente. •Profilassi dell’ulcera da stress. può essere usato sucralfato o H2 antagonisti, se non possono essere somministrati sono usati gli inibitori di pompa protonica. •Conclusioni. Malgrado i progressi nelle terapie antimicrobiche ed il miglioramento tecnico della terapia di supporto delle funzioni vitali, la mortalità rimane elevata: 28-30% nelle sepsi severe e di circa 50% nello shock settico. SHOCK SETTICO E SINDROME MULTIORGANO Cesare Francois Rossella Palmieri Ospedale Alta Val d’Elsa Premessa a relazione è dedicata alla revisione della gestione della sequenza clinica da SIRS a MOF, intesa come patologia tempo dipendente, nell’ Area Critica e non-Critica, soffermandosi sugli aspetti peculiari dello shock settico e della sofferenza multiorgano. •Epidemiologia e Definizione. Le definizioni dei singoli quadri clinici stressano, per necessità nosologiche, le loro diversità che appaiano molto spesso sfumate nella iniziale obbiettività del Paziente, richiamando quindi la massima attenzione degli Operatori nell’individuare le situazioni verisimilmente prodromiche ai quadri gravi e/o irreversibili. Tale attenzione, che deve essere posta sia al primo accoglimento del Paziente che durante la sua degenza, si avvale non solo nella considerazione del ragionamento clinico ma anche di sistemi di allerta codificati che permettano di riconoscere i quadri in fase di peggioramento quali, per esempio, lo Early Warning Score. Dopo un primo accenno epidemiologico e la definizione dei problemi che sottolinea coma si debbano considerare un continuum evolutivo e non patologie a se stanti, come chiaramente ratificato dalla Consensus Conference del 1992, ci si sofferma sulle recenti e complesse acquisizioni fisiopatologiche dove si evidenziano le strette inter-relazioni tra agente patogeno e risposte dell’ospite in quell‘incontro dove anche le rispettive caratteristiche determinano l’evoluzione contingente (PIRO Predisposition - Insult infection - Response - Organ dysfunction). •Fisiopatologia. Esotossine, parete ed endotossine dell’agente aggressore, leucociti, epitelio, endotelio,mediatori infiammazione, fattori della coagulazione e secrezioni neuroendocrine dell’ospite giocano ognuna un ruolo fondamentale nel determinismo evolutivo dalla SIRS o dall’infezione “banale” allo shock ed alla sofferenza mono-multiorgano, con un transito non obbligato attraverso le caratteristiche espressioni della sepsi. •Conclusioni. Gli aspetti diagnostici e terapeutici che come sempre, in situazione di E/U progrediscono contemporaneamente, mostrano come a parte alcune limitate novità degli uni (dosaggio Procalcitonina) e degli altri (Proteina C Attivata Ricombinante) la maggior possibilità di esito positivo risieda prevalentemente nell’aspetto organizzativo (Early goldirected therapy) che non ha ancora trovato, nelle revisioni della letteratura, la diffusione attesa. L VALUTAZIONE INFERMIERISTICA DEL DELIRIO Simona Papi, Letizia Pietrucci Ospedale S. Donato Arezzo L ’intervento intende portare un contributo per il riconoscimento dei molteplici fattori che determinano il delirio acuto (delirum), sindrome che si riscontra in un terzo degli anziani ospedalizzati. Il delirium è da considerarsi una sindrome grave, con priorità clinica, perché tale patogenicità è sostenuta da cause somatiche ed indice prognostico non favorevole. La sintomatologia, qualora non sia possibile correggere le cause scatenanti, tende a permanere, non favorendo il ritorno al domicilio e richiedendo il ricovero in strutture di lungodegenza o complicando il quadro di fragilità già presente, con ulteriori eventi patologici quali ad esempio fratture conseguenti a cadute. L’etiologia è multifattoriale e le caratteristiche cliniche comportano una complessità interpretativa ed assistenziale. Il delirium ha un forte impatto sugli outcames di salute quali la mortalità, la Relazioni 23 istituzionalizzazione e la riospedalizzazione. Il percorso assistenziale, in un modello organizzativo per intensità di cure, si sviluppa attraverso una valutazione multidimensionale che richiede all’infermiere, essendo l’operatore che più direttamente si trova a monitorare lo stato mentale del paziente, di acquisire strumenti idonei per valutare eventuali cambiamenti nel comportamento, al fine di migliorare la sensibilità diagnostica ed indirettamente migliorare la prognosi dei soggetti affetti da delirium. A. Morettini, S. Galli, L. Giabbani Azienda Ospedaliera Careggi Firenze IL PAZIENTE POST-CHIRURGICO INSTABILE L Relazioni 24 a sezione di Medicina Interna Perioperatoria (MIP), nata nell’ambito della Medicina Interna 1 dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi-Firenze diretta dal Dr. A. Morettini, dispone di 12 letti di degenza localizzati al terzo piano del padiglione Nuovo S. Luca. In questa relazione è riportata l’analisi dell’attività della sezione di MIP dal momento della sua apertura, avvenuta nel novembre 2008, fino al giugno 2009 compreso. Le osservazioni preliminari evidenziano che il contributo internistico “dedicato”, in sinergia con l’assistenza anestesiologico-rianimatoria, è da ritenersi vantaggioso sull’evoluzione clinica e sul recupero globale del paziente chirurgico, particolarmente in presenza di complicazioni mediche nel periodo post-operatorio. I pazienti proposti alla MIP dai reparti chirurgici, sono riconducibili essenzialmente alle seguenti tipologie: a) pazienti operati con complicazioni mediche; b) pazienti chirurgici con importanti co-morbilità mediche; c) pazienti non suscettibili di trattamento chirurgico immediato. Seguendo gli indirizzi posti dalle direttive aziendali, al fine di ottenere una maggior appropriatezza dei ricoveri nei reparti chirurgici, un’ottimizzazione dell’assistenza “medica” nel soggetto operato ed una riduzione dei tempi di ricovero, è stata data maggior disponibilità all’accoglienza dei pazienti provenienti dall’Open Space Chirurgico. Ogni reparto di chirurgia ha potuto comunque usufruire, in misura variabile, del supporto internistico della MIP, utilizzando il servizio di consulenza oppure disponendo il trasferimento dei pazienti nella sezione medica stessa. L’attività prevalente della MIP è stata rappresentata dalla cura di pazienti con complicanze mediche nel periodo post-operatorio senza necessità di supporti e monitoraggi di tipo intensivo. I pazienti afferiti alla MIP sono stati prevalentemente soggetti anziani, in evidente concordanza con la maggior frequenza di co-morbilità, con una ridotta riserva fisiologica dei vari organi e una ridotta capacità a mantenere le condizioni di omeostasi nell’età avanzata. Tra le complicazioni del post-operatorio che più spesso hanno condotto al trasferimento dei pazienti presso la nostra unità di cura sono risultate la sepsi, le complicanze polmonari, lo scompenso cardiaco e la malnutrizione. Tra le co-morbilità dei pazienti con complicazioni post-operatorie sono state di frequente riscontro il diabete, la BPCO, le cardiopatie. Solo in alcuni casi è stata richiesta una valutazione preoperatoria specifica, mirata non tanto all’identificazione ed alla quantificazione di malattie concomitanti, quanto ad ottimizzare le condizioni del paziente con co-morbilità note significative e in scarso controllo. La complessità assistenziale dei pazienti trattati ha comportato tempi di degenza media di 12 giorni. Analizzando il gruppo dei pazienti con degenza superiore alla media è stato possibile osservare correlazioni peculiari con l’età avanzata, con la patologia bilio-pancreatica, con le neoplasie colo-rettali (ed i relativi trattamenti chirurgici) e con talune complicazioni post-operatorie quali la sepsi, le complicanze respiratorie e cardiache e la malnutrizione proteico-calorica sia preesistente al ricovero che acquisita in fase chirurgica. Gli obiettivi particolari, condivisi dal personale medico-infermieristico della MIP, sono: l’attivazione di un idoneo supporto fisioterapico per la prevenzione delle complicanze respiratorie e per un recupero rapido dell’autonomia motoria, l’ottimizzazione dello stato nutrizionale attraverso il supporto dietetico per os, NET e NPT, la prescrizione di un’adeguata terapia antalgica, la corretta gestione delle ferite e dei presidi chirurgici frequentemente ancora presenti al momento del trasferimento, il controllo delle infezioni e, naturalmente, l’acquisizione di conoscenze specifiche. PROSPETTIVE DI DIDATTICA IN MEDICINA INTERNA OGGI L a didattica curriculare e post-curriculare in Medicina Interna è andata incontro negli ultimi anni ad una ampia riconsiderazione che ha portato, al momento attuale, a privilegiare una formazione medica integrata e multi-dimensionale che si avvale di una componente di insegnamento sistematico e di una didattica attraverso “problem solving” e di una educazione clinica per processi. Questa multi-dimensionalità formativa è volta a garantire la messa a punto di spiccate competenze inter-poli-transdisciplinari che possano assicurare sempre più elevati standard di qualità assistenziale. La Medicina Basata sulle Evidenze (Evidence Based Medicine, EBM) e la Medicina Narrativa costituiscono due assi portanti del sistema formativo in Medicina Interna. L’EBM è “L’uso coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze disponibili per prendere decisioni sull’assistenza del singolo paziente sulla base dell’esperienza individuale”1. Nelle ultime due decadi la “Evidence Based Medicine” è andata incontro ad una profonda evoluzione ed oggi è sempre più chiamata ad integrarsi con la “Narrative Medicine” (Medicina Narrativa), definita da uno dei suoi pionieri, Rita Charon, come una “Medicina praticata con la competenza narrativa del riconoscere, interpretare e passare all’azione sulla base delle situazioni difficili degli altri”2. Evidence Based Medicine e Narrative Medicine non devono essere considerate in contrapposizione, tanto che, in un suo recente testo, Giorgio Bert sostiene molto acutamente che è stata proprio la crescente scientificità della medicina attuale a consentire e promuovere la ripresa e la valorizzazione della dimensione relazionale dei “gesti” medico-sanitari3. Importante inoltre considerare la didattica del “Knowledge management” (KM) che si basa sulla esplicitazione completa del percorso logico che docente e discente seguono per porre e risolvere un quesito clinico. Il KM in azione configura la chiara identificazione dei nodi decisionali, la scomposizione ragionata delle associazioni (segni-patologie) e l’esclusione progressiva di associazioni poco robuste la ricomposizione conclusiva del ragionamento clinico. La medicina diventa sempre più complessa, le conoscenze più vaste e ciò porta a una frammentazione in specializzazioni di ambito sempre più ridotto. Nella Laurea Specialistica in Medicina, c’è sempre meno spazio per i momenti di riflessione complessiva sul paziente. Mentre l’Università inizia ad aprirsi al territorio (mediante l’insegnamento della Medicina Generale), la formazione del futuro medico si basa ancora largamente sul modello basato sulla cura, quasi sempre specialistica, della malattia acuta in ospedale. La sfida è quella di riuscire a coniugare la forza formativa di questo modello, indispensabile per fornire una base di conoscenze, con esperienze specifiche nel campo della continuità della cura con nuove esperienze formative al fine di assicurare anche la continuità del Gian Franco Gensini, Andrea A. Conti Dipartimento di Area Critica Medico Chirurgica, Università degli Studi di Firenze Fondazione Don Carlo Gnocchi, IRCCS S. Maria agli Ulivi, Firenze Centro Italiano per la Medicina Basata sulle Prove Beatrice Dilaghi Dipartimento Emergenza Accettazione Azienda Ospedaliero-universitaria Careggi, Firenzei Relazioni 25 curriculum e la continuità della supervisione. La componente relazionale della medicina clinica, il “saper essere”, non può essere visto disgiuntamente dal “sapere” (conoscenze teoriche), dal “saper fare” (competenze operative), e dal “Saper far fare” in quanto, come ricordato, una è la medicina ed unico, e assai spesso particolarmente complesso, è ogni singolo paziente della realtà assistenziale quotidiana4. Bibliografia essenziale. 1. Sackett DL, Richardson WS, Rosenberg W, Haynes RB. Evidence-based Medicine. How to practice and teach EBM. London, Churchill Livingstone, 1997. 2. Charon R. The narrative road to empathy. In Empathy and the medical profession: Beyond pills and the scalpel. Edited by Howard Spiro. New Haven, Yale University Press, 1993 (pp. 147-59). 3. Bert G. Medicina Narrativa. Storie e parole nella relazione di cura. Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 2007. 4. Gensini GF, Conti AA, Conti A. La formazione del medico: perché e come rinnovarla. Recenti Progressi Giuseppe Seghieri Medicina Interna Ospedale Del Ceppo Pistoia USL3 La gestione ospedaliera del diabete I Relazioni 26 recenti studi di intervento non hanno chiarito in modo definitivo la questione riguardante la intensità di intervento al fine di ridurre la glicemia in pazienti affetti da diabete o non. Questo aspetto appare particolarmente importante perché è oramai noto che la prognosi immediata e a distanza è legata alla glicemia all’ingresso in ospedale. Vi sono studi che evidenziano che livelli i più bassi possibili di glicemia sono di vantaggio almeno nelle corsie dei reparti ad alta intensità di cura. Altri studi smentiscono tutto questo evidenziando che il rischio reale di ipoglicemia associato ai regimi terapeutici più intensivi, può addirittura portare ad un incremento della mortalità. Esiste poi tutto l’ampio spettro delle situazioni cliniche legate ai ricoveri in reparti ad intensità di cura non elevata come rutinariamente avviene nei reparti di Medicina. In questa review viene trattato in particolare quest’ultimo aspetto e cioè il trattamento del paziente diabetico ricoverato nei reparti Ospedalieri di Medicina Interna. Si inizia con la presentazione di studi epidemiologici condotti nella nostra regione, introducendo il concetto di diabete come fattore di rischio per la prognosi e per la durata di degenza in Ospedale. Si discute, infine della necessità di terapia insulinica, soprattutto in rapporto alla nutrizione parenterale ed entrale, della specifica problematica di alcune patologie importanti come la cardiopatia ischemica, e delle altre malattie frequentemente rappresentate nei reparti medici come l’insufficienza epatica, renale, la BPCO e l’encefalopatia ischemica acuta (TIA ed ictus). A tal proposito si ricordano i limiti e i vantaggi di una terapia insulinica aggressiva e si menzionano le principali linee guida in proposito, riferendo dei target terapeutici e della necessità di un’accurata diagnosi all’ingresso al fine di inquadrare la ‘iperglicemia’ come pregresso diabete misconosciuto o come semplice ‘iperglicemia da stress’. Il percorso assistenziale, in un modello organizzativo per intensità di cure, si sviluppa attraverso una valutazione multidimensionale che richiede all’infermiere, essendo l’operatore che più direttamente si trova a monitorare lo stato mentale del paziente, di acquisire strumenti idonei per valutare eventuali cambiamenti nel comportamento, al fine di migliorare la sensibilità diagnostica ed indirettamente migliorare la prognosi dei soggetti affetti da delirium. LA GESTIONE TERRITORIALE DEL DIABETE verso uno sviluppo integrato Luigi Triggiano Medico di Medicina Generale Unità di Cure Primarie di Civitella in Val di Chiana dell’assetto organizzativo della medicina di famiglia Premessa l Diabete Mellito rappresenta una delle malattie prevalenti a livello territoriale con incidenza in aumento. Le problematiche ad essa correlate sia sul versante della qualità della vita delle persone che ne sono affette sia sul versante del disease management, rappresentano motivo di grande impegno da parte del Medico di Famiglia e del Servizio Sanitario locale nel suo insieme. La problematica. La complessità della problematica che spazia dall’approccio preventivo (multifattorialità del rischio diabete e familiarità), alla diagnosi precoce, dalla educazione ad un sano stile di vita, al self management e alla terapia, alla diagnosi precoce e alla cura delle complicanze, denotano la necessità di un approccio multi disciplinare e multi professionale alla presa in carico dei pazienti che però non ha ancora visto nell’assetto organizzativo del percorso assistenziale delle aziende sanitarie lo sviluppo di “setting” adeguati in termini di efficacia e di efficienza. L’ipotesi di sviluppo. La dimensione proattiva che negli ultimi anni va sempre più caratterizzando operatività della Medicina Generale ed il concomitante mutamento dell’assetto organizzativo della stessa sul territorio (rivolto a forme di integrazione e collaborazione multi professionali strutturate), vede nell’implementazione distrettuale del Chronic Care Model una possibile innovazione assistenziale che permetta di perseguire maggiori obiettivi di salute sull’intera popolazione di soggetti diabetici in carico alla MG e dunque residenti su territorio, favorendo al contempo la valorizzazione ottimale delle risorse e di tutti i contributi professionali disponibili. I IL PIEDE DIABETICO Emanuele Bartolini, Silvia Magi Ospedale San Donato di Arezzo I l piede diabetico è una complicanza della patologia diabetica che insorge in associazione a problematiche di tipo vascolare, neuropatico, creando alterazioni di tipo anatomo-strutturali del piede stesso, spesso complicate da infezione. Anche in Italia si cerca di affrontare questa patologia che purtroppo affligge gran parte dei pazienti diabetici. Sono stati infatti organizzati in più strutture ospedaliere ambulatori di primo, secondo e terzo livello in base anche alla disponibilità numerica di personale specializzato. Si tratta quindi di fare uno screening dei pazienti diabetici, tutti ipotetici candidati al problema “piede diabetico”. Tutto ciò dovrebbe aiutare a dare tempestivamente una classificazione delle ulcere diabetiche per chi già ne presenta e a classificare comunque ogni paziente diabetico in una classe di rischio per problemi legati al piede. Anni di studio hanno portato alla scoperta di medicazioni sempre più specifiche: medicazioni avanzate adatte ad ogni tipo di ulcera, più o meno profonda, più o meno essudante, infetta. A questo proposito molto è stato fatto per la terapia antibiotica, fondamentale nella cura delle ulcere più gravi, più profonde e complicate da infezione. Allo stesso modo si è provveduto alla formazione di personale sempre più specializzato e adeguato ad affiancare i medici specialisti dedicati alla cura del piede diabetico. Un posto importante viene occupato dall’educazione al paziente, ai suoi familiari, o collaboratori, perché da sempre se si conosce il problema si può risolvere e l’educazione in questo gioca un ruolo fondamentale. Infine sono state istituite giornate per la sensibilizzazione di tutti, per spiegare in maniera semplice che un intervento tempestivo potrebbe davvero cambiare molto nella gestione di questa complicanza. Relazioni 27 Emilio Santoro Ospedale del Casentino Bibbiena AUSL8 Arezzo BPCO tra ospedale e territorio: Ipotesi di percorsi L Relazioni 28 a Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) viene definita malattia prevenibile e trattabile associata a significativi effetti extrapolmonari che possono contribuire alla gravità della patologia nei singoli pazienti. La sua componente polmonare è caratterizzata da una ostruzione persistente al flusso aereo che è generalmente progressiva e associata ad una abnorme risposta infiammatoria del polmone all’inalazione di fumo di sigaretta o di particelle nocive o gas. La BPCO è oggi la quinta causa di morte nel mondo ed è destinata a diventare nei prossimi anni la terza. Il 4-6 % della popolazione Europea è affetta da BPCO: 3.0 milioni in Italia, 3.0 milioni in UK, 2.7 milioni in Germania, 2.6 milioni in Francia, 1.8 milioni in Spagna; 600 milioni nel mondo. In Toscana gli ultrasessantacinquenni affetti da BPCO sono circa 178.000; 70.000 anziani poi hanno almeno tre comorbilità! Le più frequenti comorbilità della BPCO sono lo scompenso cardiaco, il diabete mellito, l’osteoporosi, il tumore polmonare, l’ipertensione arteriosa. E non dimentichiamo che solo il 25% dei casi di BPCO è diagnosticato: pazienti e medici sottostimano i sintomi (tosse ed espettorazione,talora dispnea) considerandoli una “normale” conseguenza del fumo di sigaretta e dell’invecchiamento. La sottodiagnosi, si associa al sottotrattamento: solo il 17,5% del totale dei pazienti con BPCO riceve un qualsiasi trattamento, solo il 70% dei trattati riceve un trattamento adeguato e regolare, il 50% non assume correttamente i farmaci per via inalatoria. In Italia la BPCO è risultata al quarto posto per i ricoveri ospedalieri: la media di degenza ospedaliera è di circa 10,6 giorni. In uno studio italiano la mortalità dei pazienti ospedalizzati con BPCO è risultata essere del 14 %, maggiore di quella per infarto del miocardio. L’impatto socioeconomico è pesante: le patologie respiratorie sono al terzo posto tra le cause di assenza dal lavoro per malattia, aumentando notevolmente i costi nella prospettiva sociale per conseguente invalidità, perdita di produttività, peggioramento della Qualità della Vita progressivo. Le riacutizzazioni poi e l’insufficienza respiratoria possono rendere necessario sia il ricovero in ospedale sia il ricorso a terapie molto costose e complesse. Nel 2003 risultano in Italia 130.000 ricoveri per BPCO con spesa di 321.000.000 di euro! La BPCO pertanto rappresenta un enorme problema sanitario per la comunità, condizionando negativamente il paziente e la sua famiglia, il mondo del lavoro,quello delle istituzioni e, l’intera società nel suo complesso: il cost of illness laddove è stato calcolato dimostra che la BPCO rappresenta una forma morbosa ad elevatissimo impegno di risorse sanitarie. In genere è stato valutato che i pazienti affetti da BPCO producono un costo annuo dovuto ad ospedalizzazione superiore del 250% rispetto a quello di altri pazienti cronici e del 160% in termini di consumo di servizi ambulatoriali. Un moderno approccio alle cronicità ed alla BPCO in particolare è condizionato dalla mission dell’ospedale diventato per “acuti” o “riacutizzati” e che vede il superamento del reparto verso le aeree per intensità di cura: ciò permette un approccio diverso al paziente. Sul versante ospedaliero la scommessa consiste nell’ospedale per intensità di cure che deve favorire un approccio multidisciplinare, centrato sul malato, per superare una visione “d’organo”, che il reparto monodiscipliare tende ad esprimere. Attraverso la realizzazione di aree di ricovero “aperte e variabili”, graduate per intensità di bisogno assistenziale, sarà possibile superare le criticità, frequentemente riscontrabili in ospedale, legate alla gestione del posto letto. Il superamento del concetto di reparto non significa però sminuire o peggio rinunciare al ruolo delle equipe specialistiche. Al contrario, non dovendo necessariamente “costituire uno specifico reparto”, si rende più facile il superamento, specie negli ospedali medio – piccoli, del principale ostacolo alla costituzione di poli specialistici cui affidare, secondo criteri di appropriatezza clinica, la gestione del paziente. Gli ospedali devono essere in grado di governare i flussi che il PS detta: il DEA come componente integrata di un sistema organico fortemente interconnesso.Il Day Service rappresenta poi un ponte ospedale territorio per quelle cronità come la BPCO che solo attraverso percorsi definiti di diagnosi,terapia e follow-up possano permettere al paziente di sentirsi protetto, cioè essere preso in cura. Ciò ha senso e da risultato se il “Territorio” è presente con i suoi operatori ed entra in sintonia con il paziente nel suo ambiente attraverso una “visione proattiva” della gestione clinica che solo una Unità di Cure Primarie adeguata e colta può interpretare con i suoi Operatori Sanitari (medici e non, generalisti e specialisti) capaci di integrarsi tra di loro e con le altre realtà sanitarie attraverso una saggia interpretazione del Chronic Care model. I percorsi dovranno essereTerritorio-Ospedale-Territorio: ciò implica una nuova alleanza tra specialistica ospedaliera e medicina territoriale che consenta di trasferire competenze cliniche e complessità assistenziale nel territorio comprese le valenze sociosanitarie. BPCO - Epidemiologia e Linee Guida Regionali per la gestione territoriale Alessandro Bussotti MMG - Agenzia per la Continuità Assistenziale, Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi - Firenze L a BPCO e l’insufficienza respiratoria, che ne è la conseguenza, rappresentano una delle più frequenti cause di ricoveri ospedalieri ripetuti, dovuti alla difficoltà di gestire e trattare la patologia a domicilio. Questo è possibile solo con un modello di intervento multidisciplinare e multiprofessionale e con una medicina di iniziativa, come viene sostenuto e delineato nel modello del Chronic Care Model, individuato nell’attuale Piano Sanitario Regionale Toscano come lo strumento per la gestione delle malattie croniche. I problemi principali nella gestione della BPCO sono: - identificazione precoce dei casi e costruzione di un registro di patologia. La patologia viene spesso, specie nelle fasi inziali, sottodiagnosticata e sottotrattata; - scarso uso dell’esame spirometrico nonostante sia ormai definito in tutte le linee guida come l’esame gold standard per la diagnosi ed il follow up della BPCO; - scarsa efficacia, se non sui sintomi, della terapia farmacologia: l’unico intervento su cui devono essere puntati gli sforzi per interrompere il peggioramento della malattia è la lotta al fumo; - maggior interesse verso la qualità di vita del paziente e, quindi sulla dispnea e sulla resistenza allo sforzo, piuttosto che sull’andamento degli esami strumentali. Un miglioramento del trattamento di patologie croniche e molto complesse da gestire, come la BPCO, si può ottenere solo con la collaborazione dei vari soggetti che seguono il paziente: infermiere, specialista, MMG. ANIMO: GESTIONE BPCO Ilenia Pisani U.O. Medicina Interna, P.O. Cecina USL 6 Livorno Valentina Pucci L a BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) è una malattia respiratoria cronica prevenibile e trattabile associata a significativi effetti e comorbidità extrapolmonari che possono contribuire alla sua gravità nei singoli pazienti. Ha una storia naturale variabile, generalmente, comunque, è una malattia progressiva. (GOLD 2008). L’impatto della malattia su ciascun paziente, dipende quindi non solo dalla componente polmonare caratterizzata da una limitazione cronica al flusso aereo, ma anche dalla gravità dei sintomi, dagli effetti sistemici e dalle comorbidità (Adattamento italiano delle Linee Guida GOLD 2006). Da ciò è facile evincere l’importanza di garantire un’assistenza infermieristica globale, mettendo in atto e promuovendo (in collaborazione con le altre professionalità) appropriati e personalizzati interventi assistenziali ed educazionali, per tutti i livelli di dispnea: corrette tecniche di assunzione della terapia farmacologica e dell’ossigenoterapia, strategie per U.O. Pneumologia e Gastroenterologia, P.O. ASL 11 Empoli Relazioni 29 la clearance delle secrezioni e per la conservazione delle energie, strategie nutrizionali e controllo del BMI, tecniche di rilassamento per il controllo della dispnea, strategie per la cessazione dell’abitudine tabagica, vaccinazione, riabilitazione respiratoria (RNAO. Nursing care of dyspnea 2005). L’obiettivo è quello di assicurare un approccio multidisciplinare integrato rivolto ai bisogni della persona; una appropriata valutazione e gestione del livello di dispnea; il controllo dei sintomi e la promozione dell’autogestione della malattia; ottimizzando lo stato di salute, la qualità di vita e la performance del paziente. (RNAO. Nursing care of dyspnea 2005) (COPDX 2008). La riacutizzazione di BPCO si definisce come un evento, che si manifesta nel normale decorso della malattia, caratterizzato da una modificazione dei livelli basali di dispnea, tosse e/o espettorazione, che và oltre alle abituali variazioni giornaliere, che induce una correzione del trattamento (ATS/ERS 2004) e che non infrequentemente, richiede l’utilizzo di un supporto ventilatorio meccanico. (Plant PK, Owen JL, Elliott MW. Thorax 2000). L’assistenza infermieristica al paziente con BPCO in trattamento con la ventilazione meccanica non invasiva (NIV) deve focalizzarsi su almeno tre punti fondamentali: - Far comprendere al paziente l’importanza della NIV al fine di ottenerne la collaborazione nell’esecuzione. Tale collaborazione è infatti la conditio sine qua non affinché la NIV risulti efficace. Nell’immaginario comune infatti, il termine TERAPIA è riferito unicamente a quella farmacologica: in molti casi questo comporta che il paziente, poco dopo l’inizio del trattamento (non appena ne avverte i primi benefici), chieda di ridurre il tempo prescritto per la ventilazione o, addirittura, rifiuti di eseguirla. L’infermiere dovrà dunque aiutare la persona a comprendere che la NIV è, per la sua patologia, TERAPIA (e spesso proprio quella risolutiva). - Aiutare il paziente (o il care-giver) ad eseguire correttamente la NIV. - Aiutare il paziente (o il care-giver) a riconoscere i segni e/o sintomi indicatori dell’inefficacia o della non corretta esecuzione della NIV. Qualora il paziente non sia in grado di comprendere i punti sopra citati l’ infermiere dovrà sostituirsi ad esso, in parte o in tutto,al fine di garantire la massima efficacia della NIV. Fa da sfondo a tutto questo la relazione tra infermiere e paziente. L’infermiere, anche in caso di crisi respiratoria acuta, non dovrà mai dimenticare che davanti a sé non ha solo una patologia da trattare ma una persona; spesso in preda alla forte paura dettata dalla sensazione di soffocamento dovuta alla crisi respiratoria. Fondamentale sarà dunque stabilire una relazione di fiducia, spiegando al paziente di volta in volta, cosa stiamo facendo al fine di ridurne la paura e il senso di perdita di controllo. Alla stabilizzazione della fase acuta, deve necessariamente seguire la fase di programmazione ed organizzazione individualizzata della dimissione e della eventuale assistenza domiciliare con un piano assistenziale infermieristico che tenga in considerazione il profilo clinico della persona, ma anche il suo livello di autonomia, le sue disabilità e la complessità dei presidi di cui necessita. (Bonarini A. PAIUC. 2004) Salvatore Lenti Centro Ipertensione Arteriosa, Medicina d’Urgenza Ospedale San Donato USL8 Arezzo Fattibilità ed operatività di una cartella clinica Informatizzata per il rischio cardiovascolare Progetto FATO - VIRC Regione Toscana Relazioni 30 Razionale. e malattie cardiovascolari sono la prima causa di morbilità e mortalità in Italia. Questo fenomeno è in gran parte attribuibile alla prevalenza dei fattori di rischio L cardiovascolare (ipertensione, diabete, dislipidemia, fumo, sedentarietà) ed al loro scarso controllo nella popolazione. A sua volta, lo scarso controllo dei fattori di rischio citati è spesso amplificato dalla non sufficiente attenzione del medico, il quale utilizza poco gli strumenti disponibili, come le varie carte del rischio, anche perché le ritiene poco affidabili. In questo processo hanno giocato un ruolo anche le istituzioni proponendo strumenti fino ad oggi poco efficaci per la valutazione del rischio cardiovascolare nella popolazione generale (ad esempio il Progetto Cuore del Istituto Superiore di Sanità). Da queste considerazioni nasce la necessità di utilizzare uno strumento comune, semplice, di raccolta ed elaborazione dei dati clinici in modo da permettere la pianificazione di programmi di prevenzione (stile di vita, terapia farmacologica) e di razionalizzazione delle risorse e della spesa sanitaria. Questo strumento dovrà permettere di conoscere la reale situazione del profilo di rischio cardiovascolare della popolazione e quindi successivamente di verificare l’effetto di interventi terapeutici basati sulle modificazioni dello stile di vita e sulla terapia farmacologia sul profilo di rischio cardiovascolare. Lo strumento scelto è quello di una cartella clinica informatizzata che possa essere semplice ed allo stesso tempo completa nella rilevazione degli elementi anamnestici, obiettivi e strumentali per la caratterizzazione del rischio cardiovascolare e degli interventi terapeutici. La scelta di validare la cartella clinica informatizzata negli ambulatori dei Medici di Medicina Generale permetterà l’utilizzo di questa cartella come unico strumento per la valutazione del rischio cardiovascolare nella Regione Toscana. Inoltre, l’utilizzo negli Ambulatori Specialistici offrirà la possibilità di aggiungere elementi di indagini di II e III livello atte ad una migliore stratificazione del rischio cardiovascolare e di proporre interventi terapeutici mirati multifattoriali in pazienti a rischio più elevato. •Obiettivo In dettaglio lo studio vuole valutare la praticità d’uso di una cartella computerizzata in modo da proporne l’utilizzo su larga scala. La cartella clinica computerizzata è la cartella VIRC realizzata dall’Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa. •Disegno e durata dello Studio Studio epidemiologico pilota, osservazionale, prospettico, multicentrico, trasversale, in aperto, della durata di 3 mesi (da Giugno a Ottobre 2009), interessanti 3 Ambulatori Specialistici (Arezzo, Pisa, Pescia), che dovranno arruolare 300 pazienti per Centro per un totale di 900 pazienti) e 6 Medici di Medicina Generale (2 di Arezzo, 2 di Pisa e 2 di Pescia, che dovranno arruolare 100 cadauno per un totale di 600 pazienti: quindi il numero totale dei pazienti dello studio sarà di 1500 pazienti (con età superiore a 18 anni affetti da ipertensione arteriosa) e in un sottogruppo di pazienti afferenti ai Centri (circa 50 per Centro) sarà eseguita una visita di controllo a distanza di 2 mesi. •Conclusioni La cartella clinica informatizzata dovrà rappresentare uno strumento semplice ed allo stesso tempo completo per la rilevazione degli elementi anamnestici, obiettivi e strumentali per la caratterizzazione del paziente afferente ai vari Ambulatori partecipanti allo studio, in termini di valutazione del profilo di rischio cardiovascolare. Tali dati fanno comunque parte della routine della visita e della diagnostica nell’approccio clinico corretto del paziente. I dati clinici saranno raccolti tramite un software dedicato. La cartella clinica è suddivisa in “schede” riguardanti l’anagrafica, l’anamnesi, l’esame obiettivo, gli esami ematochimici e strumentali, la terapia. Il software è protetto da password specifica per ciascun utente abilitato degli Ambulatori partecipanti allo studio ed è conforme alle normative sulla tutela dei dati personali. La scheda Anagrafica prevede un campo in cui lo sperimentatore conferma l’avvenuta sottoscrizione del consenso informato da parte del paziente. L’attivazione di tale campo permette l’accesso alla restante parte della Cartella, che altrimenti viene bloccata. Lo Studio verrà condotto in accordo con la Dichiarazione di Helsinki (1964) emendamento di Somerset West, Sudafrica (1996). Relazioni 31 Andrea Santini Medico di Medicina Generale Prato IPERTENSIONE COME GESTIONE AMBULATORIALE: Linee Guida Regionali •Introduzione l paziente affetto da ipertensione arteriosa è, senza dubbio, il paziente cronico che il medico di medicina generale gestisce con maggior frequenza nel proprio ambulatorio. La caratteristica attuale della Medicina Generale italiana è quella di favorire contatti ripetuti nel tempo non programmati o solo parzialmente programmati, mentre invece uno dei principali problemi delle patologie cardiovascolari curabili o correggibili è quello di raggiungere la maggior parte della popolazione affetta, tramite la medicina di iniziativa e il modello del Chronic Care Model. •Linee Guida Regionali Il progetto si rivolge ai: - soggetti a rischio di sviluppare ipertensione arteriosa - soggetti con diagnosi iniziale di ipertensione arteriosa - pazienti ipertesi già diagnosticati, senza danni d’organo - pazienti ipertesi già diagnosticati, con danni d’organo Come illustrato nella relazione, è previsto un team multidisciplinare composto dal MMG, dal medico specialista, dall’infermiere territoriale e dal medico di Sanità Pubblica. Il team, tenendo conto anche delle preferenze e delle scelte del soggetto iperteso, organizza e gestisce una serie di azioni predeterminate ad intervalli periodici su: - soggetti sani - soggetti con rischio cardiovascolare aumentato - soggetti con diagnosi iniziale di ipertensione - pazienti ipertesi - paziente iperteso con ipertensione secondaria o con danno d’organo o comunque complicato - paziente con crisi ipertensiva. Allo scopo di prevenire, diagnosticare, curare e seguire nel tempo il paziente iperteso, al miglior livello di qualità possibile. •Criticità La costruzione di un modello di intervento attivo nei confronti del paziente iperteso o a rischio di sviluppare ipertensione arteriosa non è esente da criticità e difficoltà di percorso. In sintesi, possiamo evidenziare alcune tra le principali criticità: - la ricerca di una maggior qualità professionale e assistenziale purtroppo si scontra con innegabili ritardi e trascuratezze nei confronti delle Cure Primarie in Italia. Nonostante siano presenti i Medici di medicina generale e, almeno in Toscana, i Distretti Sanitari, con personale che vi opera, gli investimenti in adeguate strutture territoriali o iniziative assistenziali di qualità latitano - la difficoltà del team multidisciplinare a lavorare in reciproca sintonia e nel rispetto della scelte del paziente - la carenza di personale infermieristico adeguatamente formato per il territorio, quindi con cultura, prassi e metodi molto diversi dalla cultura, prassi e metodologia ospedaliera o universitaria •Conclusioni La gestione territoriale del paziente cronico e, quindi, del paziente iperteso, è una scommessa. Una scommessa che si può vincere solo attraverso la programmazione e la coordinazione multidisciplinare di tutti gli “attori” che vi partecipano. Ma occorre fare un patto “a priori” tra utilizzatori (soggetti a cui è indirizzata l’iniziativa), attori (team multidisciplinare) e SSR (coordinatore e finanziatore): la medicina generale non può essere lasciata sola a proporre, gestire e attuare iniziative senza una profonda riforma legislativa riguardante ruolo e competenze e senza una adeguata proposta di ristrutturazione dell’assistenza territoriale. I Relazioni 32 DAY SERVICE… Il paziente al centro di un percorso assistito ed integrato Giovanna Innocenti Ospedale San Donato USL8 Arezzo I l Day Service (DS) è una modalità di gestione organizzativa della struttura ambulatoriale attivabile nei confronti di pazienti affetti da problemi clinici complessi che non presentino condizioni tali da rendere appropriato il ricovero ospedaliero. Il modello si applica in risposta a bisogni clinici di tipo diagnostico o terapeutico che necessitino di prestazioni multiple integrate non occorrendo però una sorveglianza medico/infermieristica protratta per tutta la durata dei singoli accessi. Questo ha portato le Aziende sanitarie ad individuare dei percorsi diagnostici condivisi ed organizzati dai professionisti interessati con la successiva formalizzazione delle Direzioni Sanitarie; ciò a garanzia del cittadino che vedrà assicurata uniformità di trattamento in occasione delle medesime caratteristiche cliniche. Occorre però mantenere costante la personalizzazione del percorso a garanzia delle singole necessità. L’individuazione dei Front Office organizzativi strutturati all’interno delle Aziende si sovrappongono a quelle dei Day Hospital ricalcandone le caratteristiche • Utilizzo di “corsie preferenziali” nell’erogazione delle prestazioni. • “presa in carico” dell’utente al fine di evitarne la frammentazione delle prestazioni e gli accessi impropri. • “personalizzazione” della programmazione per limitare al minimo gli accessi del paziente nella struttura erogante. Da questo se ne deduce come tale modello organizzativo impatti fortemente con i servizi diagnostici della struttura sanitaria nel quale opera. Risulta pertanto indispensabile la definizione della rete dei servizi in risposta alle priorità assistenziali (ricovero ordinario-Day Hospital-Day Service-Specialistica Ambulatoriale Semplice) onde evitare un disequilibrio nelle risposte stesse. All’interno dell’ospedale infatti le modalità di integrazione che devono essere strutturate sono molteplici: • condivisione tra specialisti dei protocolli assistenziali • avvallo e condivisione della Direzione Sanitaria di tali percorsi in risposta ad una “mission aziendale” precedentemente strutturata • coinvolgimento dei servizi eroganti le prestazione come risposta all’integrazione fra strutture di cura e servizi diagnostici. Nel contesto extra ospedaliero la rete si intende finalizzata alla condivisione del percorso con i medici di Medici di Medicina Generale che vedono rafforzato il proprio ruolo di referenti poiché proponenti principali verso il Medico Attivatore di D.Se. La sostenibilità del percorso è gestita in larga misura dal personale infermieristico dei F.O. La mission operativa del percorso definita nella nostra Azienda si identifica con “la presa in carico” del paziente che si struttura all’interno del percorso per le competenze delle varie figure professionali che partecipano: Mediche, Infermieristiche ed Amministrative. Percorso Ospedale Territorio nella gestione dello scompenso di cuore L o scompenso cardiaco è una condizione clinica che si manifesta con una penosa qualità della vita per il paziente affetto e, contestualmente, con un oneroso costo gestionale per il SSN. Nella popolazione anziana rappresenta un problema sanitario rilevante per l’incidenza, le multiple riospedalizzazioni e i costi. Gli studi disponibili confermano una L. Abate, P. Biagi U.O. Medicina Interna Ospedali Riuniti della Val di Chiana senese Montepulciano (Siena) Relazioni 33 forte discontinuità tra ospedale e territorio oltre ad una estrema eterogeneità nei percorsi intra- ed extraospedalieri nelle diverse realtà italiane. Quando un paziente è ricoverato in ospedale a causa di uno SC acuto, è dapprima accolto presso un’unità di degenza intensiva, poi in degenza ordinaria e infine, quando necessario, in reparto di riabilitazione. Alla dimissione dall’ospedale ha a sua disposizione, nella realtà attuale del nostro paese, quattro possibilità di proseguimento delle cure: • il MMG, • lo specialista ambulatoriale, • l’ambulatorio ospedaliero, • il cardiologo personale. Ognuna di queste soluzioni propone non una “cura” ma una semplice consulenza, spesso nemmeno fornita al momento del bisogno reale, ma dopo un’attesa di giorni, di settimane o persino di mesi. Invece, alla dimissione gli deve essere offerta, presso le strutture extraospedaliere, la continuità assistenziale, intesa come un progetto personalizzato di cura e presa in carico (un paziente con SC non deve avere il medesimo iter gestionale se giovane o anziano, se vive solo o in famiglia, in città o in montagna, in una casa al piano terra o al quinto piano senza ascensore) e affrontato in maniera multidisciplinare, coinvolgendo accanto al personale medico (MMG e specialisti), anche Infermieri e personale dei servizi sociali. •Modelli gestionali Nel corso degli ultimi anni sono state numerose le esperienze di gestione di questa patologia consegnate alla letteratura. Tutte si sono dimostrate efficaci nel ridurre la morbilità ed i ricoveri ospedalieri tramite un riconoscimento precoce ed adeguamento terapeutico nei prevedibili momenti di instabilizzazione emodinamica. Come in ogni esperienza, accanto a modelli ad alto costo, sono stati ideati altri dai costi più contenuti ma egualmente efficaci, tutti però accomunati dall’obiettivo primario di mirare al raggiungimento del cosiddetto paziente e/o del caregiver esperto, unico mezzo per l’autogestione di questo quadro sindromico. Infatti, la comprensione della malattia in termini semplici, il trasferimento dei mezzi culturali per una precoce individuazione dei segni e sintomi cui assegnare il giusto significato, la conoscenza del perché assumere una politerapia con le prescrizioni ad una sua corretta assunzione, l’insegnamento ad una consapevole autogestione del diuretico rappresentano i cardini per porre in atto un idoneo ed efficace modello gestionale. Purtroppo, è noto che la difficoltà maggiore emersa in queste esperienze è l’inevitabile affievolirsi nel tempo, delle energie, degli entusiasmi e quant’altro anima i primi momenti di attuazione di un programma gestionale. Questo ne ha rappresentato il tallone di Achille che ha portato spesso al loro arenarsi dopo i primi incoraggianti risultati e, pertanto, deve costituire il motivo per una più profonda riflessione atta ad impedire che ciò avvenga. Stefania Stoppioni, Giuseppe Pettinà Ospedale del Ceppo di Pistoia ANIMO: Modello assistenziale dello Scompenso Cardiaco Ipotesi o Scompenso Cardiaco (SC) è una patologia di attualità per ragioni di ordine epidemiologico e per le importanti acquisizioni nel campo della ricerca. Riveste inoltre rilevanza nell’ambito dell’assistenza ospedaliera per le implicazioni di tipo gestionale ed economico. In linea con la letteratura esistente, l’equipe infermieristica del reparto di Medicina Interna del Presidio Ospedaliero di Pistoia ha promosso l’attuazione di un progetto di educazione all’autocura dello SC, al fine di garantire attraverso una migliore gestione della malattia la riduzione della morbilità e il miglioramento della qualità di vita del paziente. L Relazioni 34 •Materiali e Metodi. In ambito assistenziale i medici sono individuati come tutor e gli infermieri come referenti dei pazienti con SC. Il coinvolgimento del paziente nella gestione della malattia è finalizzato: a modificare lo stile di vita; a migliorare la compliance alla terapia; a riconoscere i sintomi e i segni che indicano un peggioramento delle condizioni cliniche. Il medico tutor segnala all’infermiere referente e definisce con un’apposita scheda le caratteristiche del paziente (eziologia, classe NYHA, fattori di rischio, patologie concomitanti, terapia….ecc). L’infermiere presa visione della segnalazione programma una sessione di counselling della durata di 40-60 minuti in cui viene sempre coinvolto un familiare e/o il caregiver. L’azione dell’infermiere si sviluppa in due fasi: la prima rivolta ad analizzare: la condizione sociale del paziente, grado di conoscenza della patologia, cause, segni e sintomi, la terapia e lo stile di vita. Nella seconda parte invece vengono sviluppate le conoscenze in particolare: sull’utilità dei farmaci, la loro azione e i possibili effetti collaterali, e le modalità di assunzione per migliorare l’aderenza alla terapia; la dieta a basso contenuto di sodio; l’introduzione di liquidi; il controllo del peso; il riconoscimento dei sintomi sentinella e allertamento del MMG oppure 118 nella comparsa di sintomi più gravi. Al termine viene consegnato al paziente un’opuscolo informativo ideato per rafforzare l’aderenza allo stile di vita; viene inoltre proposto una visita ambulatoriale presso l’ambulatorio per lo SC di Medicina Interna dopo 10-15 giorni dalla dimissione. •Risultati. Il campione che abbiamo perso in esame, è stato di 80 pazienti, per un periodo di un anno, seguito da un follow-up con contatto telefonico a 6 mesi e a un anno distanza. Il campione era il 51% sesso maschile, con età media di 70/80 anni ma se si pone attenzione al campione, si evince che il maggior numero di pazienti si colloca in età >81anni. L’eziologia dello SC è prevalentemente ipertensiva ed ischemica. Le cause precipitanti lo SC sono principalmente la non aderenza allo stile di vita nel 64% dei casi, seguito dall’ipertensione arteriosa e dalla scarsa aderenza al trattamento farmacologico. La maggior parte dei pazienti 88%, ha riferito di aver rispettato gli obiettivi prefissati riguardanti: peso, dieta iposodica, restrizione dei liquidi, attività motoria, aderenza alla terapia nei primi 6 mesi, l’aderenza si riduce al 66% a un anno di distanza. •Conclusioni. Il processo di apprendimento ha dimostrato di avere un tempo di decadimento, diverso nei vari soggetti, per cui l’adesione alle regole dell’autocura si riduce progressivamente. Ciò richiede che vengano programmate delle sedute di rinforzo, effettuate dall’infermiere all’interno di un’attività ambulatoriale ospedaliera dedicata allo SC oppure in ambito territoriale. Non esiste forse un modello assistenziale ottimale, alla fine tutto funziona sul paziente con malattia cronica e in particolare con il paziente fragile, la cosa importante è “prendersi cura” del paziente che deve essere un impegno costante nel tempo. UNA STRATEGIA COMUNE Per il counselling antitabagico Ipotesi l fumo rappresenta la prima causa di morte evitabile nei paesi sviluppati. Il tabagismo considerato fino ad oggi un’abitudine socialmente accettata, rappresenta con più di un miliardo di fumatori, la tossicodipendenza più diffusa nel mondo. In questo contesto ai medici e a tutti gli operatori sanitari viene riconosciuto ed affidato un ruolo determinante nella sua “cura”: in letteratura è ampiamente dimostrato, secondo comprovate evidenze scientifiche, che un consiglio breve di circa 2-3 minuti ai pazienti possa incrementare il numero dei fumatori che fanno seri tentativi di smettere. Qualsiasi operatore sanitario, indipendentemente dalla sua attività professionale specifica, è tenuto a svolgere in maniera corretta, almeno Mauro Ruggeri SIMG Prato I Relazioni 35 Relazioni 36 un intervento minimo di counselling per incentivare la motivazione a smettere dei pazienti fumatori. Il percorso assistenziale per il fumatore è delineabile a partire dal Medico di Medicina Generale o da altri Medici ed Operatori sanitari ospedalieri e territoriali, per giungere, nei casi più gravi, ai Centri Antifumo di II livello. Pertanto sono necessari strumenti gestionali che facilitino l’attività di counselling antitabagico intrapresa nel I livello, raccordandola con quella del II. •Materiali e metodi In questo contesto grazie alla collaborazione tra SIMG (Società Italiana di Medicina Generale), ISPO (Istituto per lo Studio e la Prevenzione Oncologica), ITT (Istituto Toscano Tumori), con finanziamento della Regione Toscana è stato realizzato dalla ASL 4 di Prato un software denominato Winsmoke che ha come principale obiettivo quello di facilitare l’attività di counselling antitabagico applicabile al setting della Medicina Generale. Il software permette di: 1. attuare un counselling guidato per il paziente fumatore 2. fornire un “help” gestionale con indicazioni terapeutiche e consigli comportamentali 3. registrare l’attività antitabagica svolta nei confronti dei propri pazienti 4. fornire al medico, in tempo reale, un report aggiornato dei propri pazienti fumatori suddivisi secondo il loro stadio motivazionale rispetto alla cessazione dal fumo, utilizzando lo schema classificativo di di Prochaska e Di Clemente 5. consentire l’importazione rapida ed automatizzata dell’elenco anagrafiche dei pazienti dalla cartella clinica informatizzata Millewin utilizzata dalla maggioranza dei Medici di Medicina Generale 6. inviare i dati raccolti, opportunamente criptati ad un centro di elaborazione e raccolta dati. Winsmoke è costituito da 5 sezioni: Medico: permette di registrare i dati del medico. Pazienti: permette di registrare i dati anagrafici del paziente e i dati relativi al percorso di counselling e di utilizzare l’help gestionale, se ritenuto necessario. Estrazione: permette di estrarre i dati del lavoro già svolto. Report: permette di visualizzare il numero dei pazienti visitati suddivisi secondo il loro stadio motivazionale. Risorse: fornisce i link ai principali siti di interesse sul tabagismo e dà accesso alla stampa di alcuni test sul fumo. Il software è stato realizzato in 4.000 copie che verranno distribuite a tutti i Medici di Medicina Generale della Toscana. È stato inoltre realizzato il sito internet www.winsmoke.it che oltre a fornire informazioni e documentazione specifica, permette di scaricare il software stesso. •Risultati Winsmoke è stato utilizzato per la sua validazione da 14 Medici di Medicina Generale per un totale di 301 pazienti. è stato possibile per ogni paziente raccogliere oltre i dati anagrafici, il numero delle sigarette fumate, il grado di dipendenza, lo stadio motivazionale rispetto alla disassuefazione, il tipo d’intervento attuato dal medico. Si è osservata una evoluzione positiva del grado di motivazione. Il software è stato giudicato positivamente da tutti gli sperimentatori. In particolare non sono state riscontrate particolari difficoltà di utilizzo. Anche il tempo necessario per ogni singola visita è stato considerato adeguato ai tempi dell’ambulatorio. Conclusioni Il software sviluppato ha grandi potenzialità poiché consente al medico di attivarsi più o meno intensamente a seconda della capacità di interazione col paziente, in funzione del suo livello di motivazione alla cessazione predisponendo un efficace intervento personalizzato di disassuefazione. Questo strumento creato per il Medico di Medicina Generale potrebbe essere utilizzato efficacemente, nell’ambito di una strategia comune, anche dagli altri Medici ed Operatori sanitari coinvolti nel I livello di cura del paziente fumatore. Poster Medici Poster MEDICI 1. Iperferritinemia: una strana combinazione nella “Sindrome iperferritinemia – cataratta” Veronica De Crescenzo, Chiara Benvenuti, Alessandra Amendola, Veronica Chiasserini, Filippo Risaliti, Fabrizio Rossi, Maurizio Manini U. O. C. Medicina Interna Ospedale Petruccioli - Pitigliano 2. Sindrome toracica acuta in una paziente con emoglobinosi: Una delicata diagnosi differenziale Ospedale Santa Maria alla Gruccia AUSL 8 Zona Valdarno - Montevarchi * Ospedale San Donato AUSL 8 Arezzo 5. TVP ILIACO – CAVALE DX: STATO TROMBOFILICO O GENESI MULTIFATTORIALE? Maria Cristina Andreucci, Giovanni Brunelleschi U.O. Medicina Interna - Ospedale di Lucca 6. La Febbre: questa sconosciuta!!!! Un caso insolito Protocolli gestionali di integrazione DEA- territorio nel trattamento della BPCO riacutizzata: l’esperienza del Valdarno Fabrizio Bottino*, Alberto Cuccuini*, Marco Biagini** *Ospedale Valdarno USL8 Arezzo Montevarchi **Pneumologia Territoriale USL8 Arezzo 8. PATOLOGIA NODULARE TIROIDEA IN VALDINIEVOLE R. Bassu, D. Belliti, M. Checchi, R. Culli *, P. Apicella *, G. Panigada U.O.C. Medicina Interna, Ospedale:“SS.Cosma e Damiano” Pescia (PT) * U.O.C. Anatomia Patologica Azienda USL3 Pistoia 9. Cartella multidisciplinare per la valutazione del rischio cardiovascolare globale: dati di popolazione in Valdinievole M. Straniti, R. Giovannetti, L. Tonarelli, A. Birindelli, R. Pierotello, R. Bassu, G. Panigada " 45 " 45 " 46 " 46 " 47 " 47 " 48 C.M. Zucchi, R. Fedi, A. Tempestini, A. Pesci, F. Peruzzi, A. Moggi Pignone AOU Careggi Firenze 7. " 44 Marco Cei*, Paola Marelli**, Raffaella Fabbri**, Stefano Giuntoli*, Maria Cristina Mandolesi*, Ornella Marino * * UO Medicina Generale 1, PO di Livorno, ASL 6 Livorno ** UO Anatomia Patologica, PO di Livorno, ASL 6 Livorno 4. Sindrome da encefalopatia posteriore reversibile post-partum: immagini, aspetti clinici, controversie fisiopatologiche R. Carloni, B. Calchetti, C. Fondelli, G. Cuneo*, E. Romanelli, A. Cuccuini Marco Cei, Guido Bassano, Anna Maria Crestini, Roberta Guglielmini UO Medicina Generale 1, PO di Livorno - ASL 6 Livorno 3. Un caso di mielofibrosi primaria associata a traslocazione bilanciata tra i cromosomi 1 e 4, caratterizzato da sopravvivenza eccezionalmente lunga Pag. 44 UOC Medicina Interna, Ospedale: “SS.Cosma e Damiano” Pescia Azienda USL3 Pistoia poster medici 39 Pag. 48 10. Score di stratificazione del rischio tromboembolico come parte integrante della cartella clinica in Medicina Interna " 49 11. Gestione Ambulatoriale di una trombosi venosa profonda prossimale con CCUS negativa " 49 " 50 A. Alessandrì, R. Bassu, R. Pierottello, A. Capitanini°, G. Silvestri^, A. Viviani*, G. Panigada U.O.C Medicina Interna, °Nefrologia, *Radiologia, ^Urologia Ospedale SS Cosma e Damiano Pescia Azienda USL3 Pistoia 12. Trombosi Venosa Profonda a sede atipica in paziente con sindrome trombofilica R. Bassu, A. Alessandrì, I. Lucchesi, L. Teghini, L. Tonarelli, G. Panigada UOC Medicina Interna, Ospedale: “SS.Cosma e Damiano” Pescia Azienda USL3 Pistoia S. Boccacci, R. Castro U.O. Medicina Interna Abbadia S. Salvatore - Siena 13. ENDOCARDITE DA STAFILOCOCCO AUREO: PRESENTAZIONE DI UN CASO CLINICO Roberta Mastriforti, Maida Lucarini, Bianca Tarantini, Rossella Nassi Ospedale della Valtiberina, Sansepolcro " 50 14. MACROPROLATTINOMA: UN CASO NELL’INFANZIA " 51 15. FEOCROMOCITOMA: UNA DIAGNOSI SEMPRE DIFFICILE? " 51 " 52 " 53 " 53 poster medici 40 G. Tintori *, A. Fabbri, C. Bozzano 1*, R. Mastriforti 2*, S. Meini 3*, A. Montagnani 4*. UOC Medicina Generale 5°, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, UOC Medicina Interna e Geriatria, Ospedale S. Donato ASL 8 Arezzo1, UOC Medicina Interna, Osp. Val Tiberina, ASL 8 Arezzo2, UOC Medicina Interna, Osp Santa Maria Maddalena di Volterra, ASL 5 Pisa3, UOC Medicina Interna, Osp. Misericordia, ASL 9 Grosseto4. * Partecipanti toscani al master FADOI-Univ. LIUC in “Governo Clinico per la Medicina Interna” 18. UN INSOLITO CASO DI CIRROSI Franco Pieralli, Francesco Tarchi, Alberto Cuccuini Rossella Nassi, Marianna Turrini, Roberta Mastriforti, Maida Lucarini Ospedale Valtiberina - Arezzo 17. Una tecnica antica per un ruolo attuale: la semeiotica fisica come discrimine di appropriatezza per l’esecuzione di esami strumentali Bianca Tarantini, Marianna Turrrini, Rossella Nassi Ospedale Valtiberina Sansepolcro - Arezzo 16. SINDROME DI POEMS: CASO CLINICO E REVISIONE DELLA LETTERATURA Rossella Nassi, Chiara Vezzosi, Bianca Tarantini Endocrinologia Sansepolcro - Arezzo U.O. Medicina Interna/Urgenza Ospedale Santa Maria alla Gruccia Montevarchi (AR) 19. UN RARO CASO DI SINDROME DI BEHçET COMPLICATA DA PATERGIA E PYODERMA GANGRENOSO A. Corsi *, A. Lagi *, S. Cencetti *, G. Visi *, R. Cassino **, E. Ricci **, B. Tumiati *** * Ospedale “S. M. Nuova”, Firenze ** Clinica “San Luca”, Torino *** Arcispedale “S. M. Nuova”, Reggio Emilia 20. RABDOMIOLISI: DESCRIZIONE DI UN CASO CLINICO 21. PANCREATITE ACUTA IN MEDICINA INTERNA: DIMENSIONE DEL PROBLEMA " 56 " 56 " 57 " 57 " 58 Carlo Passaglia, Salvatore De Marco, Giancarlo Tintori, A. Fabbri, A. Pampana* UO Medicina 5° Ospedaliera Az Ospedaliera Universitaria Pisa * UO Medicina, Presidio Ospedaliero di Cecina (LI) 29. Istiocitoma Fibroso maligno: Descrizione di un caso S. De Marco, E. Pea, A. Pampana°, C. Passaglia Azienda Ospedaliero Universitaria Pisa ° Ospedale di Cecina 28. COLEcistite acuta in pazienti trattati con TACE per epatocarcinoma " 55 G. Parca, G. Bacci, F. Cappelli, M. Genovesi, MP. Rosito, S. Stanganini, A. Tufi, E. Santoro SC Medicina Interna Ospedale del Casentino – Bibbiena AUSL 8 27. DILATAZIONE DELLE VIE BILIARI DA PATOLOGIA CISTICA DEL PANCREAS R. Fiusti, M. Lanigra, C. Zeloni, G. Manco, G. Vannoni, A. Cruciani, M. Becheri U.O. Emergenza e Accettazione Azienda USL 4 Prato 26. Implementazione delle iniziative per la gestione del rischio clinico: l’Audit Clinico in Medicina Interna " 55 Giulio Ozzola, Emilio Santoro, Ciro Sommella Ospedale del Casentino - Bibbiena 25. Prevalenza di patologie nella popolazione cinese afferente al Pronto Soccorso dell’Ospedale “Misericordia e Dolce” di Prato Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro Ospedale del Casentino - Bibbiena 24. CORRELAZIONE TRA FUNZIONALITÀ TIROIDEA E RENALE IN DONNE AL PRIMO TRIMESTRE DI GRAVIDANZA " 54 Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro Ospedale del Casentino - Bibbiena 23. Carcinoma indifferenziato dell’etmoide sinistro: descrizione di un caso Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito, C. Belcari, A. Pampana, G. Rinaldi, S. Suppressa Gruppo Gastroenterologico FADOI 22. BENEFici della terapia radiorecettoriale nei tumori carcinoidi: descrizione di un caso Pag. 54 Roberta Mastriforti, Marianna Turrini, Maida Lucarini, Rossella Nassi Ospedale Valtiberina Sansepolcro - Arezzo " 58 Maria Pia Rosito, Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro Ospedale del Casentino – Bibbiena poster medici 41 Pag. 59 30. STATO confusionale acuto in corso di ipomagnesiemia ed ipocalcemia gravi da malassorbimento in gastroresecato: Descrizione di un caso Maura Genovesi, Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro Ospedale del Casentino – Bibbiena " 59 31. Epilessia o sincope comiziale? Descrizione di un caso Francesca Cappelli, Giuseppe Bacci, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro Ospedale del Casentino - Bibbiena " 60 32. UNA NUOVA LETTERA NELL’ALFABETO DELLE EPATITI: EPATITE ACUTA DA PARVOVIRUS B19. UNA CAUSA POCO DIAGNOSTICATA DI EPATITE VIRALE " 60 M. Paci, S. Meini, L. Mangano, A. Tafi UO Medicina Interna, Ospedale di Volterra 33. Embolia Polmonare: diagnosi complessa. Descrizione di un caso Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro Ospedale del Casentino – Bibbiena " 61 34. Incidentalomi addominali " 61 35. SOLO UN PERCORSO APPROPRIATO GARANTISCE L’ADEGUATEZZA DIAGNOSTICA E TERAPEUTICA: UN CASO DI Sindrome IPEREOSINOFILA P. Pasquinelli, P. Taddei, S. Giuntoli, R. Guglielmini, M. Cei Ospedale Livorno " 62 G. Sibilia, S. Meini, M. Paci, N. Scopetani, M. Norpoth, L. Mangano, A. Tafi Ospedale S.Maria Maddalena di Volterra ASL 5 di Pisa 36. Ruolo della Tomografia ad Emissione di Positroni nella patologia non neoplastica: un utilizzo inconsueto A. Bontempo, A. Ciolli, L. Giachetti, R. Lammel, P. Pantaleo, B. Alterini " 62 S.O.D. Medicina e Riattivazione. Dipartimento del Cuore e dei Vasi Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi – Firenze 37. COLANGITE SCLEROSANTE PRIMITIVA " 63 38. EMBOLIA POLMONARE ED INTERAZIONI GENETICHE " 63 " 64 poster medici 42 S. Pacini, P. Biagi U.O. Medicina ASL - 7 Siena – Ospedali Riuniti della Valdichiana Senese - Montepulciano (SI) 39. UN CASO DI MALATTIA CELIACA SIERONEGATIVA NELL’ADULTO S. Pacini, P. Biagi S. Pacini, P. Biagi U.O. Medicina ASL - 7 Siena – Ospedali Riuniti della Valdichiana Senese - Montepulciano (SI) U.O. Medicina ASL - 7 Siena – Ospedali Riuniti della Valdichiana Senese - Montepulciano (SI) 40. UNO STUDIO SULLA IODURIA IN UNA VALLE APPENNINICA Giulio Ozzola, Emilio Santoro, Ciro Sommella Ospedale del Casentino – Bibbiena 41. OSTEOPOROSI nel PAZIENTE DIABETICO 42. Un caso di coma chetoacidosico in un alcolista " 66 " 66 " 67 " 67 " 68 Gabriele Ciuti, Francesca Peruzzi, Alessandra Pesci, Lorenzo Zanasi, Francesca Pallini, Maria Serena Lombardo, Aureliano Becucci SOD di Medicina Interna 3 – Dipartimento di Emergenza Urgenza AOU Careggi - Firenze 48. CLONIE DELL’EMIVOLTO DI SINISTRA: UNICA MANIFESTAZIONE CLINICA DI UN MENINGIOMA Chiara Bozzano, Nunzia Zuccone, Ilario Lancini, Dino Vanni, Claudio Pedace Ospedale San Donato, Arezzo 47. POLIRADICOLONEVRITE ACUTA MIELINOPATICA SENSITIVO-MOTORIA A TIPO SINDROME DI GUILLAIN-BARRÈ IN PAZIENTE CON MIELOFIBROSI IDIOPATICA " 65 Angela Lesi, Liliana Pasqui, Simona Campioni, Paolo Corradini U.O. Medicina Interna Ospedale di Casteldelpiano AUSL9 Grosseto 46. AFFRONTARE LA CRONICITÀ: LA VALUTAZIONE MULTIDIMENSIONALE IN MEDICINA INTERNA F. Pieralli, A. Mancini, F. Luise, T. Fintoni, V. Verdiani, E. Catini, O. Para, M. Castelli, C. Nozzoli Medicina Interna e d’Urgenza - AOU Careggi, Firenze 45. L’INDICE DI COMPLESSITÀ ASSISTENZIALE COME INDICATORE DI PERCORSO NELL’INTENSITÀ DI CURA " 65 F. Pieralli, A. Mancini, F. Luise, V. Verdiani, E. Catini, O. Para, M. Grazzini, C. Nozzoli Medicina Interna e d’Urgenza – AOU Careggi, Firenze 44. Un caso di mielite trasversa paraneoplastica associata a carcinoma della mammella F. Pieralli, L. Sammicheli, F. Luise, V. Verdiani, E. Catini, O. Para, F. Bacci, C. Nozzoli Medicina Interna e d’Urgenza – AOU Careggi, Firenze 43. La subintensiva internistica dipartimentale nell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi Pag. 64 A. Montagnani, M. Alessandri, M. Cipriani U.O. Medicina Interna, Ospedale Misericordia, Grosseto M. S. Lombardo, V. Nanni, F. Peruzzi, A. Pesci, L. Zanasi, R. Fedi AOU Careggi di Firenze poster medici 43 Iperferritinemia: una strana combinazione nella “sindrome iperferritinemia - cataratta” Veronica De Crescenzo, Chiara Benvenuti, Alessandra Amendola, Veronica Chiasserini, Filippo Risaliti, Fabrizio Rossi, Maurizio Manini U. O. C. Medicina Interna Ospedale Petruccioli – Pitigliano 1 Introduzione. L’iperferritinemia ha molteplici cause: emocromatosi ereditaria con accumulo di ferro nell’organismo; altre non sempre associate ad un sovraccarico di ferro: alcolismo, sindrome metabolica, epatiti acute e croniche, condizioni infiammatorie e neoplastiche. La sindrome iperferritinemia - cataratta è una rara patologia ad ereditarietà autosomica dominante per una mutazione nella sequenza IRE (iron responsive element) del gene della L ferritina, localizzato sul cromosoma 19q13.3–q13.4; clinicamente caratterizzata da cataratta bilaterale prima dei 50 anni e da incremento della ferritina (subunità L) con sideremia e percentuale di saturazione della trasferrina normali, in assenza di sovraccarico parenchimale di ferro. Caso clinico. PF, uomo, 73 anni, giunge per sospetto di patologia epatica con iperferritinemia. Anamnesi: ex fumatore e bevitore di circa 500 ml di vino/die; gastroresecato per ulcera duodenale e colecistectomizzato; pregresso IMA in ipercolesterolemico. Cataratta bilaterale operata a 65 anni. E.O: epatomegalia. Laboratorio: ferritina = 5083 ng/ml; sideremia e trasferrina e % Sat. normali. Componente monoclonale sierica IgM k 0.21 gr/dl. HbSAg e HCVAb negativi. GGT = 274 U/I, AST, ALT, FA, indici di flogosi (VES 14 mm/h), emocromo, funzione renale e glicemia normali. Ecografia addome: Epatomegalia per steatosi, non splenomegalia. EGDS esiti di gastroresezione. Ecocardiografia: Circoscritta alterazione della cinesi segmentaria con funzione sistodiastolica normale. RMN addome: non alterazioni dell’intensità si segnale del parenchima epatico diffuso o focale, riferibile ad emocromatosi. Analisi molecolare per la determinazione del genotipo per emocromatosi negativa (geni HFE, TFR2, FPN1); l’analisi molecolare delle regioni regolative (IRE) del gene della catena leggera della ferritina (FTL) evidenzia mutazione 168 G>A (+32 da sito di inizio della trascrizione) in eterozigoti di IRE della L ferritina. Risultati. Il riscontro della mutazione suddetta nel nostro paziente ci ha indotto ad eseguire screening familiare con rilievo della medesima mutazione nella figlia di anni 43, affetta da cataratta bilaterale. Conclusioni. é importante riconoscere tale patologia per: 1. distinguerla da altre in cui l’iperferritinemia è indicativa di un sovraccarico di ferro o di malattie infiammatorie o tumorali. 2. evitare i salassi che comporterebbero solo una anemizzazione del paziente; 3. permettere di identificare con il dosaggio della ferritina coloro che in ambito familiare potranno sviluppare la cataratta. Sindrome toracica acuta in una paziente con emoglobinosi: una delicata diagnosi differenziale Marco Cei, Guido Bassano, Anna Maria Crestini, Roberta Guglielmini UO Medicina Generale 1, PO di Livorno - ASL 6 Livorno 2 44 Caso Clinico. Una donna afroamericana di 75 anni giunge in Ospedale per dolori agli arti inferiori e dispnea acuta, insorti durante una crociera per nave. La diagnosi d’ingresso recita “edema polmonare acuto”. In anamnesi ipertensione arteriosa ed emoglobinosi SC, quiescente da circa un anno. I valori abituali di Hb sono 10 g/dL con 30% di ematocrito. Materiali e Metodi. La paziente viene sottoposta agli accertamenti di routine, ad ecocuore, Rx torace e TC torace. Il trattamento comprende idratazione, trasfusione di GRC, ossigeno e antibiotici. Risultati. L’Hb all’ingresso è di 7.3 g/dL e scende a 6.6 in seconda giornata;la saturazione dell’ossigeno è 92% in aria e a riposo. L’aptoglobina è consumata e sono presenti gli altri segni di emolisi. È evidente una marcata leucocitosi (24.700 GB/mmc). L’Rx e la TC del torace dimostrano congestione, infiltrati, versamento pleurico bilaterale e lesioni costali di tipo osteoaddensante. Alla dimissione l’Hb è 12.0 g/dL e i GB sono 8900/mmc. Conclusioni. Il quadro clinico delle anemie falciformi può complicarsi con una sindrome toracica acuta, che pone delicati problemi di diagnosi differenziale, di trattamento e medico-legali. Infatti questa paziente presentava la necessità di essere rimpatriata negli USA mediante un lungo viaggio aereo, evento che deve essere adeguatamente preparato per evitare gravi complicazioni durante il volo. Un caso di mielofibrosi primaria associata a traslocazione bilanciata tra i cromosomi 1 e 4, caratterizzato da sopravvivenza eccezionalmente lunga Marco Cei*, Paola Marelli**, Raffaella Fabbri**, Stefano Giuntoli*, Maria Cristina Mandolesi*, Ornella Marino* *UO Medicina Generale 1, PO di Livorno, ASL 6 Livorno **UO Anatomia Patologica, PO di Livorno, ASL 6 Livorno Caso clinico. Un uomo di 72 anni giunge all’osservazione chirurgica per dolore addominale in epigastrio-ipocondrio dx. All’esame fisico si rileva una cospicua splenomegalia, fin oltre l’ombelicale trasversa. Dalla ricostruzione anamnestica emerge una biopsia osteomidollare eseguita 16 anni prima per trombocitosi e dimostrativa di mielofibrosi idiopatica. Il paziente non è stato mai sottoposto ad alcun tipo di trattamento. Materiali e metodi. In aggiunta agli esami di routine il paziente viene sottoposto ad ecografia addominale, a TC dell’addome e ad un completo esame midollare (aspirato con May-Grunwald-Giemsa; cariotipo con coltura in sospensione per 24 e 48 ore e colorazione differenziale con bandeggio QFQ; biopsia con colorazione per la reticolina e immunoistochimica per mieloperossidasi e CD34). Inoltre si esegue conteggio cellule CD34+ circolanti e la ricerca della mutazione V617F della Janus Kinasi 2 (JAK2). Risultati. Gli accertamenti eseguiti escludono la presenza di complicazioni come l’infarto splenico e la trombosi porto-mesenterica. Gli esami midollari confermano la diagnosi di mielofibrosi primaria, associata ad una translocazione t(1;4), (p13;p12) apparentemente bilanciata. Paziente trattato con 6-MP + Talidomide. Conclusioni. A nostra conoscenza non sono presenti altri casi segnalati in letteratura di mielofibrosi associati a tale mutazione e con così lunga sopravvivenza, ed anzi la presenza di un tale cariotipo avrebbe dovuto conferire, secondo gli attuali standard prognostici, una sopravvivenza inferiore alla media. 3 Sindrome da encefalopatia posteriore reversibile post-partum: immagini, aspetti clinici, controversie fisiopatologiche R. Carloni, B. Calchetti, C. Fondelli, G. Cuneo*, E. Romanelli, A. Cuccuini Ospedale Santa Maria alla Gruccia AUSL 8 Zona Valdarno * Ospedale San Donato AUSL 8 Arezzo Ipotesi. La sindrome da encefalopatia posteriore reversibile (PRES) si caratterizza per cefalea, convulsioni, deficit del visus, sopore, segni neurologici focali e reperti neuroimaging di aree di edema nel territorio vascolare posteriore dell’encefalo. Si associa a diverse condizioni cliniche tra cui la eclampsia. La patogenesi della PRES è oggetto di discussione e due meccanismi, citotossico e vasogenico, sono allo studio. Nel presente lavoro confrontiamo i due meccanismi. Materiali e Metodi. Paziente di 38 anni con due episodi comiziali subentranti, stato confusionale e disturbi del visus insorti a distanza di 12 ore da parto gemellare con taglio cesareo è stata sottoposta a monitoraggio emodinamico, neuroradiologico e bioumorale. Risultati. Gli esami evidenziavano leucocitosi, trombocitopenia, aumento transaminasi e LDH con normalizzazione in 2-3^ giornata. Alla TC encefalo erano presenti chiazze di ipodensità equivalenti a iperdensità della RM compatibili con edema occipitale bilaterale, centro semiovale, splenio corpo calloso e regione frontale sx. Tali reperti si riducevano in 7^ giornata con risoluzione completa a 3 mesi. I valori di pressione arteriosa erano alterati (200/100) all’insorgenza dei sintomi. Conclusioni. Lo studio sottolinea il coinvolgimento di zone atipiche dell’encefalo nella sindrome PRES. Le alterazioni ematiche compatibili con disfunzione endoteliale e i valori di pressione arteriosa media sotto la soglia di autoregolazione cerebrale avvalorano la patogenesi citotossica dell’edema e non ipertensiva. Le caratteristiche di reversibilità confermano che la sindrome PRES non si associa a danno ischemico. 4 45 Tvp iliaco - cavale dx: stato trombofilico o genesi multifattoriale? Maria Cristina Andreucci, Giovanni Brunelleschi U.O. Medicina Interna - Ospedale di Lucca 5 Ipotesi. Trombosi della VCI in giovane paziente maschio di 16 anni che praticava attività sportiva: si presenta alla nostra osservazione per dolore e tumefazione alla coscia dx, nei giorni precedenti era stato diagnosticato uno stiramento muscolare. Familiarità di 1° grado per TVP in età giovanile. Al PS Eco Color Doppler evidenzia: T.v.p. Iliaco-Femorale destra e Cavale Inferiore. Ndn all’eco addome. Materiali e Metodi eseguti: eco addome, eco color doppler venoso, tc addome con contrasto, rm cardiaca (per anomalie r.v. all’ecg standard), screening trombofilico. Risultati. La presenza di tumefazione unilaterale (destra) in corso di TVP Cavale ha fatto sospettare la presenza di circoli collaterali, come via di deflusso, del sistema venoso arto inferiore si sinistra. L’ECD ha evidenziato la presenza di circoli collaterali tra Vena Iliaca Comune sinistra - Vene Lombari e Vena Renale Sinistra. La Tc addome ha evidenziato trombosi Iliaco Cavale con ritorno venoso attraverso circoli collaterali lombari, renali, sistema azygos-emiazygos.Eco addome: VCI pervia in sede sottodiaframmatica, normale il flusso nelle vene sovraepatiche. RM CARDICA: nella norma. Screening trombofilico: omocisteina>, V Leiden>, Lupus> Conclusioni. Gli effetti combinati del V Leiden e del gene della protrombina 20210A aumentano il rischio di TEV in pazienti con doppia eterozigoti, soprattutto giovani. La precocità e la ricorrente insorgenza della trombosi possono essere spiegate dall’associazione dei fattori trombofilici (V Leiden e gene G20210A della protrombina) con quelli ambientali. La febbre: questa sconosciuta!!!! Un caso insolito C.M. Zucchi, R. Fedi, A. Tempestini, A. Pesci, F. Peruzzi, A. Moggi Pignone AOU Careggi Firenze 6 46 Ipotesi. Pz di 60 aa, recente politrauma della strada determinante frattura della base cranica interessante la rocca petrosa sn con emotimpano, emoseno sfenoidale, ESA, fratture costali multiple, PNX, contusioni polmonari, frattura della clavicola sn; decorso ospedaliero complicato da TVP ascellare e omerale. Viene instaurata terapia con gardenale in via preventiva. Viene poi ricoverata presso la SOD Medicina Interna per febbre e rush eritematoso comparso durante ciclo riabilitativo. Materiali e metodi. Rx torace e addome (negativa); esami di laboratorio: anemia, leucopenia con linfopenia, anemia normocitica normocromica; successivo incremento di transaminasi, GGT e ALP, degli indici di flogosi. L’emocoltura positiva per Stafilococco coagulasi negativo. Viene intrapresa terapia antibiotica mirata; successive emocolture negative e procalcitonina con valori nei limiti della norma. Per il persistere della febbre nonostante modifica della terapia antibiotica è stata eseguita TC toraceaddome, che non ha evidenziato né raccolte ascessuali, né ematomi, né focolai infettivi. Controlli seriati di ferritina e PCR risultavano sempre incrementati. È stato eseguito anche ecocardiogramma transtoracico e transesofageo con studio delle valvole che risultava negativo per endocardite. Risultati. Nel sospetto di febbre a genesi farmacologica è stata sospesa terapia con fenobarbitale con graduale riduzione dell’eritema, progressiva normalizzazione delle transaminasi, GGT, ALP e sfebbramento della paziente. Il controllo delle emocolture e della procalcitonina risultava nella norma. Conclusioni. La persistenza della febbre associata a incremento delle transaminasi, GGT, ALP, rush cutaneo eritematoso diffuso non pruriginoso, emocolture negativizzatesi con terapia antibiotica mirata con procalcitonina negativa sono suggestivi per febbre con risposta infiammatoria sistemica e con coinvolgimento epatico da idiosincrasia a terapia con fenobarbitale (Dress sindrome). Protocolli gestionali di integrazione DEA- territorio nel trattamento della BPCO riacutizzata: l’esperienza del Valdarno Fabrizio Bottino *, Alberto Cuccuini *, Marco Biagini ** * Ospedale Valdarno USL8 Arezzo ** Pneumologia Territoriale USL8 Arezzo Ipotesi. Ogni anno circa l’8% dei paziente BPCO accede in pronto soccorso per riacutizzazione. L’elevato numero di comorbidità, la difficoltà di inquadramento/trattamento in DEA e l’elevato carico assistenziale per la gestione domiciliare di questi pazienti hanno comportato negli ultimi anni un marcato incremento del numero dei ricoveri ospedalieri. Materiali e Metodi. In linea con il progetto contenuto nel PSR 2008-2010 (Chronic Care Model) abbiamo cercato di creare nella nostra struttura percorsi intra e extra- ospedalieri, attraverso un approccio multidisciplinare, per il rapido inquadramento diagnostico e la corretta identificazione del setting di trattamento dei paziente con BPCO riacutizzata. Risultati. Nel II semente del 2008 (confermato dai dati del I semestre del 2009) abbiamo riscontrato una riduzione dei ricoveri per BPCO riacutizzata ed una riduzione del numero di accessi in DEA dei pazienti trattati e segnalati alla pneumologia territoriale alla momento della dimissione (DEA o Medicina d’Urgenza). Conclusioni. La creazione di percorsi gestionali condivisi tra il DEA ed il territorio rappresenta un approccio innovativo nella gestione della BPCO riacutizzata in grado di rispondere alle esigenze delle strutture ospedaliere con riduzione degli accessi in DEA e riduzione del numero dei ricoveri, e dei pazienti fornendo loro l’assistenza medica ed il setting di trattamento più corretti in ogni fase della malattia. 7 Patologia nodulare tiroidea in Valdinievole R. Bassu, D. Belliti, M. Checchi, R. Culli*, P. Apicella*, G. Panigada U.O.C. Medicina Interna, Ospedale:“SS.Cosma e Damiano” Pescia (PT) * U.O.C. Anatomia Patologica Azienda USL3 Pistoia Ipotesi. La patologia nodulare tiroidea ha un’elevata prevalenza nella popolazione generale. Il tasso di malignità dei noduli tiroidei rimane basso e stabile, circa il 5%. L’esame citologico eseguito su agobiopsia ecoguidata con ago sottile è l’unica indagine capace di differenziare una lesione benigna da una maligna. Il nostro studio si propone di analizzare, retrospettivamente, i risultati di citoaspirati di noduli tiroidei per valutarne il tasso di malignità nel nostro territorio. Materiali e metodi. Nel periodo 2004-2009 sono stati esaminati 1018 pazienti, sottoposti a citoaspirato di uno o più noduli presso l’ambulatorio di Endocrinologia dell’Ospedale di Pescia. Tutti gli agoaspirati sono stati eseguiti sotto guida ecografica. I preparati sono stati fissati in aria e alcool, colorati con Papanicolau e May Grunwald-Giemsa e esaminati nella Anatomia Patologica aziendale. Risultati. Su 1459 noduli esaminati 982 sono risultate lesioni benigne, 83 carcinoma papillare, 6 carcinoma midollare, 106 proliferazioni follicolari/oncocitarie, 46 sono risultati dubbi e 16 sospetti. L’esame citologico, infine, è risultato indeguato in 210 casi, pari al 14%. Inoltre su 10 pazienti (6 con lesione sospetta, 5 dubbia e 2 follicolare) l’esame istologico dopo intervento chirurgico di tiroidectomia totale era compatibile con carcinoma papillare. Conclusioni. I risultati del nostro studio, in accordo con i dati riportati in letteratura, confermano l’utilità dell’esame citologico nella diagnosi delle patologie tiroidee e l’importanza della correlazione con l’esame istologico nei casi in cui gli esami citologici siano risultati non diagnostici. Tale metodica ci permette un’efficace valutazione per questa patologia sempre più frequente nella popolazione. 8 47 Cartella multidisciplinare per la valutazione del rischio cardiovascolare globale: dati di popolazione in Valdinievole M. Straniti, R. Giovannetti, L. Tonarelli, A. Birindelli, R. Pierotello, R. Bassu, G. Panigada UOC Medicina Interna, Ospedale: “SS.Cosma e Damiano” Pescia Azienda USL3 Pistoia 9 Premesse. In prevenzione primaria, gli interventi vanno modulati in funzione del cosiddetto Rischio Cardiovascolare Globale. Fino a poco tempo fa il RCV veniva trattato in maniera settoriale nei vari ambiti specialistici col rischio di non univoca predizioni del livello. Materiali e Metodi. Nella nostra U.O. utilizziamo un’unica cartella ambulatoriale che permette una valutazione condivisa del rischio globale allo scopo di massimizzare l’efficacia dell’intervento nell’ambito della prevenzione cardiovascolare. Tale strumento raccoglie dati anagrafici, anamnestici sui fattori di RCV e una valutazione di altezza, peso, BMI, circonferenza vita, PAS, PAD, parametri umorali, patologie pregresse o in atto, trattamenti farmacologici. Risultati. Abbiamo valutato 96 pazienti nel periodo 1/9/’08 al 30/6/’09: Maschi = 38 pari al 40% (età media=49.4); Femmine = 58 pari al 60% (età media= 59.2). Fumatori 52%M, 10% F; Familiarietà per dislipidemia 76%M,58%F; WC 97M, 84F; PAS 130 / 125 mmhg, PAD 78/72 mmhg; Trattamento con statine/fibrati 57%M, 52%F; Colesterolo totale 249/264 mg/dl; LDLC 133,127 mg/dl; TG 322/126 mg/dl. Conclusioni. La popolazione afferente ai nostri ambulatori di prevenzione primaria presenta bassa età media, elevata prevalenza di s. metabolica, elevato profilo di rischio globale non identificato precedentemente e conseguentemente una alta percentuale di soggetti non ‘a target’ nel trattamento. Score di stratificazione del rischio tromboembolico come parte integrante della cartella clinica in medicina interna R. Bassu, A. Alessandrì, I. Lucchesi, L. Teghini, L. Tonarelli, G. Panigada UOC Medicina Interna, Ospedale: “SS.Cosma e Damiano” Pescia Azienda USL3 Pistoia 10 48 Premesse e scopo dello studio. Negli ultimi 40 anni a fronte di una marcata riduzione degli eventi TEV nei reparti chirurgici (78%), non si è assistito ad analogo successo in quelli internistici (15%) verosimilmente in rapporto ad una sotto-prescrizione della profilassi trombo embolica (30-50% nei pazienti con indicazione), conseguenza della difficoltà della stratificazione del rischio in classi omogenee, e dell’elevato rischio emorragico. Difficile pertanto l’applicazione di modelli di stratificazione nella pratica clinica. Materiali e metodi. Dal settembre 2008 fa parte integrante della cartella clinica del nostro reparto un modello di stratificazione a punti che valuta il rischio sommando fattori predisponenti individuali e fattori legati all’evento e suggerisce la modalità di profilassi nonché la necessità del prolungamento a domicilio. Risultati. I dati di confronto sui primi 100 pazienti e ulteriori 100 a 10 mesi rilevano alla costanza dei fattori di rischio per numero e peso, un incremento dell’uso della profilassi in reparto e alla dimissione. Conclusioni. L’utilizzo di un modello di stratificazione del rischio trombo embolico come parte integrante della cartella clinica mantiene nel tempo la sua efficacia, migliora l’aderenza alle linee guida non solo durante il ricovero ma anche alla dimissione e ne è pertanto auspicabile una sua ampia nei reparti internistici. Gestione ambulatoriale di una trombosi venosa profonda prossimale con CCUS negativa A. Alessandrì, R. Bassu, R. Pierottello, A. Capitanini.°, G. Silvestri ^, A. Viviani *, G.Panigada U.O.C Medicina Interna, °Nefrologia, *Radiologia, ^Urologia Ospedale SS Cosma e Damiano (Pescia) Azienda USL3 Pistoia Caso clinico. Maschio di 74 anni inviato all’ambulatorio vascolare da MMG con percorso preferenziale per sospetta trombosi venosa profonda. All’anamnesi: recente sinistro stradale con trauma contusivo ginocchio sin, da circa una settimana dolore al fianco e comparsa di edema. All’esame obiettivo edema di tutto l’arto inferiore sinistro. CCUS negativa. ECD: assenza di materiale trombotico ma rallentamento del flusso nelle vene iliache. D Dimero nella norma. Ecografia addominale: idronefrosi sin, dilatazione aorta addominale sottorenale. TC addome: Aneurisma aorta addominale (diametro 42 mm), fibrosi retroperitoneale con idronefrosi bilaterale e TV iliaca sinistra. Terapia steroidea alla dose di 1 mg /kg, EBPM 200 U/Kg/die per 1 mese. Stent ureterali. A un mese: RNM miglioramento del quadro. La Fibrosi Retroperitoneale è una malattia del connettivo caratterizzata dallo sviluppo di un tessuto fibroinfiammatorio a livello retro peritoneale. Nel 75% dei casi idiopatica, è conseguenza di una reazione autoimmune locale nei confronti di alcuni componenti delle placche aterosclerotiche o manifestazione locale di un processo autoimmune sistemico. Conclusioni. L’internista che valuta un paziente nel sospetto di TEV non deve fermarsi all’esecuzione dell’ECD anche completo, ma in base al quadro clinico, all’anamnesi e all’esame obiettivo avviare un percorso in Day Service che permetta di ottenere una diagnosi patogenetica corretta e di impostare la terapia adeguata. 11 Trombosi venosa profonda a sede atipica in paziente con sindrome trombofilica S. Boccacci, R. Castro U.O. Medicina Interna Abbadia S. Salvatore – Siena Caso clinico. Donna di 49 anni con anamnesi di 3 aborti spontanei consecutivi ed 1 figlio nato da parto prematuro alla 34° settimana; da circa 5 anni in trattamento continuativo con etinilestradiolo-gestodene. Da una settimana presenta dolore all’emitorace sinistro associato a febbre con successiva comparsa di edema dolente in regione mammaria e laterocervicale di sinistra; nega traumi recenti. Gli esami di laboratorio all’ingresso sono sostanzialmente nella norma ad esclusione del D-dimero (855 ng/ml) e dell’antitrombina III (73%). Gli esami strumentali (eco-color-Doppler, ecografia del collo, TAC torace sono concordi nella diagnosi di trombosi venosa profonda (T.V.P.) in atto giugulare, succlavia ed ascellare di sinistra. La paziente, alla quale nel frattempo è stata sospesa la terapia ormonale, è stata trattata efficacemente con enoxaparina sodica 6000 U.I. x 2 e successiva embricazione con warfarin (target I.N.R tra 2 e 3) da proseguire a tempo indefinito. Lo studio della trombofilia ha evidenziato un deficit coagulativo combinato caratterizzato, oltre che da carenza di antitrombina III, da carenza di proteina S (62%) e da screening Lupus Anticoagulant positivo. Conclusioni. Le sindromi trombofiliche possono decorrere asintomatiche fino a quando una concausa concorre a determinare l’evento trombotico. È noto che l’associazione tra assunzione di estroprogestinici e trombofilia determina un aumento del rischio di tromboembolismo venoso e che tale rischio è ulteriormente aumentato nel caso di deficit coagulativi combinati; in questi ultimi casi inoltre è più frequente la localizzazione a carico degli arti superiori ed in sedi atipiche. Questo caso conferma come un’attenta anamnesi avrebbe potuto impedire la prescrizione inappropriata di un farmaco riducendo il rischio di un successivo sviluppo di complicanze. 12 49 Endocardite da stafilococco aureo: presentazione di un caso clinico Roberta Mastriforti, Maida Lucarini, Bianca Tarantini, Rossella Nassi Ospedale della Valtiberina, Sansepolcro 13 Introduzione. L’endocardite da stafilococco aureo è malattia grave con tasso di mortalità elevato ad esordio clinico acuto; più rare le forme subacute con febbricola o assenza di febbre, in paziente anziani o gravemente defedati. È frequente nelle valvole protesiche o per l’uso di cateteri endovascolari; come altri ceppi altamente virulenti, lo stafilococco aureo può aderire all’endotelio illeso. Descriviamo il caso di un’endocardite da stafilococco aureo decorsa in forma subacuta in una paziente anziana senza patologie favorenti la localizzazione endocardica del batterio, la cui porta di ingresso rimane incerta. Materiali e metodi. Una donna di 88 anni, ricoverata per anemia sideropenica con esami endoscopici negativi, presentava febbricola serotina da circa un anno. La paziente, in buone condizioni generali, era portatrice di tre protesi articolari, posizionate 15-20 anni prima. Non risultavano nell’anamnesi manovre invasive. Risultati. Gli esami di routine erano nel complesso normali, ma tre emocolture risultavano positive per Staphylococcus Aureus. Con ecocardiogramma transesofageo si evidenziavano vegetazioni endocarditiche mitraliche ed aortiche. Molteplici accertamenti comprendenti il leuco-scan non permettevano di identificare il focolaio di partenza. Il trattamento con teicoplanina e gentamicina (quest’ultima sostituita dopo 14 giorni con rifampicina) otteneva rapida negativizzazione delle emocolture e più lenta scomparsa della febbre. Conclusioni. L’endocardite da stafilococco aureo, condizione più spesso acuta e legata a manovre invasive, può presentarsi, come nel nostro caso, con sintomi attenuati, rimanendo patologia grave ad alto rischio di mortalità. Da qui l’importanza di considerare tale ipotesi diagnostica anche in presenza di sintomi modesti, soprattutto negli anziani. Macroprolattinoma: un caso nell’infanzia Rossella Nassi, Chiara Vezzosi, Bianca Tarantini Endocrinologia – Arezzo 14 50 Introduzione. Anche se sono i più frequenti adenomi ipofisari secernenti, i prolattinomi hanno bassa prevalenza. Addirittura rari i macroprolattinomi quando si verificano nell’infanzia. Il quadro clinico che ne deriva è diverso da quello dell’adulto, in particolare in epoca puberale per l’effetto inibente l’asse ipofisi-gonadi esercitato dalla PRL. Inoltre i prolattinomi osservati in giovane età sono più spesso inseriti nell’ambito di una MEN. Descriviamo il caso di un macroprolattinoma da noi recentemente osservato in un bambino di 10 anni e mezzo. Materiali e metodi. Il paziente è giunto alla nostra osservazione perché, per cefalea, era stato sottoposto a RM dell’encefalo con evidenza di macroadenoma ipofisario esteso alle cisterne sovrasellari. Il bambino era completamente impubere, con statura al 90º centile, normale BMI, senza elementi clinici significativi. Presente iperprolattinemia (3360 mUI/l) con restante assetto ormonale normale, in particolare la funzione ipofisaria, compresa la riserva funzionale valutata con i test di stimolo. Al test con GnRH, la risposta delle gonadotropine appariva di tipo prepuberale. Normale il campo visivo. Negativo lo studio genetico per la MEN1. Risultati. La terapia con cabergolina (0.5 mg/sett) normalizzava rapidamente la PRL. La RM dopo 6 mesi evidenziava netta riduzione dell’adenoma, limitato allo scavo sellare, con cisterne sovrasellari libere; allo stimolo con GnRH si evidenziava, questa volta, risposta delle gonadotropine compatibile con iniziale attivazione puberale, in accordo con il dato clinico di incremento volumetrico testicolare e comparsa di fine peluria pubica. Conclusioni. Per quanto raro, il prolattinoma deve essere escluso sempre nei ritardi puberali; il suo riconoscimento e la terapia prontamente instaurata permettono di ottenere un normale sviluppo puberale e di evitare la conseguenza dell’ulteriore crescita della neoplasia. Feocromocitoma: una diagnosi sempre difficile? Bianca Tarantini, Marianna Turrrini, Rossella Nassi Ospedale Valtiberina –AR Ipotesi. Il feocromocitoma, tumore cromaffine secernente catecolamine, si presenta clinicamente in maniera polimorfa. La triade caratteristica (cefalea, palpitazioni, sudorazione) può associarsi a ipertensione stabile, parossistica, alternata a ipotensione, poco responsiva ai farmaci o anche assente. Da qui la difficoltà della diagnosi di questa malattia, spesso simulante patologie diverse, tanto da meritarsi l’appellativo di “grande mimo”. Descriviamo un caso di feocromocitoma osservato recentemente nel nostro reparto. Materiali e Metodi. Donna di 45 anni, ipertesa da 3 anni, in terapia con olmesartan con buon controllo della pressione, che risulta stabile e senza sintomi e segni abituali nel feocromocitoma, effettua accertamenti per riscontro ecografico incidentale di massa surrenalica di 5 cm. Risultati. Sostituito il sartanico con calcio-antagonista, vengono dosati renina, aldosterone, androgeni, cortisolo e ACTH plasmatici, tutti nella norma. Normale anche la soppressione del cortisolo con desametazone. Elevate le metanefrine urinarie (normetanefrina 4407 e 4412 µg/24 h in due controlli). Alla TC dei surreni si conferma massa surrenalica destra solida, trattata chirurgicamente per via laparoscopica con normalizzazione della pressione. Negativo lo screening per MEN 2. Conclusioni. Nel caso in esame la difficoltà della diagnosi era legata alla “normalità” dell’ipertensione anche se l’età relativamente giovane della paziente e l’assenza di chiara familiarità potevano indirizzare verso gli accertamenti specifici. Il riscontro di massa surrenalica è stato l’elemento che ha portato alla diagnosi e, del resto, una delle indicazioni alla ricerca del feocromocitoma è proprio rappresentata dall’incidentaloma surrenalico. 15 Sindrome di Poems: caso clinico e revisione della letteratura Rossella Nassi, Marianna Turrini, Roberta Mastriforti, Maida Lucarini Ospedale Valtiberina – Arezzo Ipotesi. La sindrome POEMS è definita dalla presenza di disordine monoclonale delle plasmacellule e neuropatia periferica, associati ad altre manifestazioni paraneoplastiche, le più comuni delle quali includono organomegalia, endocrinopatie, alterazioni cutanee, pletora, papilledema, trombocitosi. Non tutti gli elementi sono necesari per la diagnosi, essendo sufficiente l’associazione di 2 criteri maggiori e uno o più minori (Dispenzieri et al - POEMS syndrome: definition and long-term outcome. Blood. 2003). L’esordio è spesso caratterizzato dalla comparsa della polineuropatia e la diagnosi può essere difficile. Descriviamo un caso di sindrome di POEMS osservato recentemente nella nostra Unità Operativa. Materiali e metodi. Una donna di 68 anni, ricoverata per cardiopatia dilatativa fibrillante scompensata, con ipotiroidismo postchirurgico per K papillare (follow up negativo), presenta lesioni osteosclerotiche in vari segmenti ossei, che alla biopsia risultano dovute a mieloma. Non documentabile paraproteinemia, né neuropatia, che comparirà, a distanza di un anno, agli arti inferiori con danno prevalentemente sensitivo. La presenza di segni minori (trombocitosi, pletora, papilledema), conferma la diagnosi di POEMS. Conclusioni. La POEMS è sindrome rara, da considerare in presenza di una neuropatia, cercando le altre manifestazioni, in particolare il disordine proliferativo plasmacellulare, non sempre con componente M (come nel nostro caso) e quasi sempre con lesioni osteosclerotiche. Il caso in esame si caratterizza per il ritardo nella comparsa nella neuropatia rispetto agli altri elementi, in particolare al mieloma, la cui diagnosi è stata d’altra parte casuale per l’evidenza di lesioni osteosclerotiche in un esame radiologico routinario. 16 51 Una tecnica antica per un ruolo attuale: la semeiotica fisica come discrimine di appropriatezza per l’esecuzione di esami strumentali G. Tintori*, A. Fabbri, C. Bozzano1, R. Mastriforti2, S. Meini3, A. Montagnani4. 17 *Partecipanti toscani al master FADOI-Univ. LIUC in “Governo Clinico per la Medicina Interna” 1 UOC Medicina Generale 5°, Az. Ospedaliero-Universitaria Pisana, UOC Medicina Interna e Geriatria, Osp. S.Donato ASL 8 (Ar) 2 UOC Medicina Interna, Osp. Val Tiberina, ASL 8 Arezzo 3 UOC Medicina Interna, Osp Santa Maria Maddalena di Volterra, ASL 5 Pisa 4 UOC Medicina Interna, Osp. Misericordia, ASL 9 Grosseto Premesse e scopo dello studio. Nei sistemi sanitari pubblici, caratterizzati da una spesa costantemente crescente a fronte di una stazionarietà, nella migliore delle ipotesi, delle risorse disponibili, il problema della sostenibilità finanziaria è diventato cruciale e rischia nell’immediato futuro di far “saltare” il sistema. In quest’ottica appare fondamentale il concetto operativo di appropriatezza delle procedure assistenziali, specialmente in un epoca di esplosione tecnologica in medicina. In questo studio, eseguito in uno specifico setting clinico, abbiamo valutato la capacità di una semplice manovra di semeiotica fisica, la palpazione, di discriminare chi appropriatamente sottoporre ad un esame strumentale. Materiali e metodi. In maniera prospettica sono stati valutati i pazienti consecutivamente afferenti al nostro ambulatorio di ecografia nel periodo settembre 2007/dicembre 2008 con richiesta di ecografia parti molli per ricerca di linfoadenopatie. Un medico ha eseguito una palpazione sistematica delle sedi da indagare in max 5 min; successivamente un altro medico, in cieco rispetto al primo, ha effettuato l’esame ecografico. Sia per l’esame fisico che per quello ecografico sono stati valutati la presenza o meno di linfonodi e, in caso di presenza, la sede e le caratteristiche degli stessi. Quindi sono stati confrontati i dati delle due metodologie di rilevazione. Risultati. Sono stati arruolati 204 pazienti (98 femmine, 106 maschi; età media 57.2, range 16-94). L’indicazione più frequente all’esame era il follow-up di LNH. All’esame fisico 101 pz sono risultati negativi per la ricerca di linfoadenopatie. Alla valutazione ecografica in 75 pz non si evidenziavano linfoadenopatie; dei 129 pz con evidenza di linfonodi 79 presentavano linfoadenopatie chiaramente reattive, 50 linfoadenopatie patologiche o dubbie. Tutti i pazienti negativi alla palpazione (101) all’esame ecografico sono risultati senza evidenza di linfonodi o con linfoadenopatie chiaramente reattive. Dei pz positivi alla palpazione (103), all’ecografia 52 presentavano linfoadenopatie reattive, 50 linfoadenopatie patologiche o dubbie, 1’assenza di linfonodi. Conclusioni. Posto come l’appropiatezza rappresenti attualmente una necessità organizzativa inderogabile per i sistemi sanitari pubblici, appare sicuramente onere e onore del medico clinico stabilirne i confini ed i contenuti affinché ci sia il giusto equilibrio tra efficacia ed efficienza, senza che prevalga, in modo dannoso per i pazienti, la pura esigenza economica. Questa è l’ottica in cui è stato realizzato questo studio e il dato maggiormente rilevante che ne emerge è che tutti i pz negativi alla palpazione sono risultati indenni da linfoadenopatie patologiche o dubbie all’ecografia. Ciò sembrerebbe indicare che, in questo set di pazienti, in presenza di negatività ad un semplice e rapido esame palpatorio, l’accertamento ecografico non sia in grado di offrire un valore diagnostico aggiuntivo e costituisca quindi un inutile consumo di risorse del sistema sanitario e del pz stesso. Appare invece indicato riservare l’esame strumentale ai positivi alla palpazione per l’ulteriore caratterizzazione diagnostica del reperto, là dove l’ecografia sicuramente fornisce un’utilità clinica aggiuntiva rispetto all’esame fisico. A giudizio degli autori questo rappresenta un semplice esempio di come la tecnica clinica classica (anamnesi, esame obiettivo, sintesi clinica), a torto oggi sminuita o addirittura quasi sostituita dall’uso delle tecnologie, specialmente in ambiente specialistico, possa invece rappresentare la vera linea guida della buona e appropiata pratica clinica. 52 Un insolito caso di cirrosi Franco Pieralli, Francesco Tarchi, Alberto Cuccuini U.O. Medicina Interna/Urgenza Ospedale Santa Maria alla Gruccia Montevarchi (AR) Viene descritto un caso di cirrosi epatica di un giovane maschio legato ad un difetto del metabolismo del rame compatibile con malattia di Wilson da noi osservato. Il morbo di Wilson o degenerazione epato lenticolare è una causa rara di cirrosi epatica: è una malattia rara con una prevalenza omozigote di 1/30.000-1/300.000. La Sardegna è la regione Italiana con maggiore prevalenza omozigote: 1/10.000-1/6000. Prevalenza eterozigoti in Sardegna è stimata intorno a 1/90. é una malattia ereditaria a carattere autosomico recessivo e si caratterizza per ridotta escrezione di rame per via biliare e accumulo di rame in diversi tessuti dell’organismo in particolare nel fegato (cirrosi) nel SNC (alterazioni neuro psichiche) e nell’occhio (anello di Kaiser-Fleischer). La malattia è asintomatica nei primi anni: si ha quindi in primo luogo l’accumulo epatico: quando il fegato non riesce a contenere più l’eccesso di rame questo viene massivamente immesso in circolo ed invade il SNC. La Biopsia Epatica sarebbe indicata per la conferma della diagnosi ma spesso non viene effettuata subito per persistenti bassi valori di Attività Protrombinica. Il gene che determina la malattia è il gene ATP 7 B localizzato nel cromosoma 13 in posizione q14-q21, codifica per l’ATPasi 7b che regola il trasporto del rame attraverso le membrane cellulari. Sono descritte oltre 200 mutazioni (in Sardegna la mutazione più frequente è sulla regione promoter): per tale motivo gli Studi Genetici sono limitati allo screening dei familiari dei pazienti. La maggior parte dei pazienti presenta mutazioni diverse in ognuno dei due cromosomi. La diagnosi comprende la determinazione di Ceruplasminemia <20 mg/dl*, Cupremia totale <60 μg/dl (scarso significato clinico), Cupruria /24 h >100μg Cupruria post carico con D-penicillamina 300 mg x 2 die > 650 µg/24 h. La ceruloplasmina può essere normale nel 15% dei casi. Recentemente ha preso importante lo score diagnostico di Ferenti che tiene conto della clinica (sintomi neurologici, anello Kayser Fleischer, anemia emolitica) dei test di laboratorio ematici ed urinari, dei reperti di istochimica su epatobiopsia e dei test genetici (analisi delle mutazioni). Il reperto istochimico comprende Rame epatico tissutale >250 μg/g.t.s. Identificazione del Cu mediante colorazione con Rodanina, Orceina, TIMM. Rigonfiamento e glicogenazione dei nuclei cellulari. Alterazioni pleiomorfe dei mitocondri (megamitocondri). La terapia attuale oltre ai classici chelanti deve prendere in considerazione nei giovani il trapianto di fegato. 18 Un raro caso di sindrome di Behçet complicata da patergia e pyoderma gangrenoso A. Corsi*, A. Lagi*, S. Cencetti*, G. Visi*, R. Cassino**, E. Ricci**, B. Tumiati*** *Ospedale “S. M. Nuova”, Firenze **Clinica “San Luca”, Torino ***Arcispedale “S. M. Nuova”, Reggio Emilia La Sindrome di Beçhet è una vasculite sistemica rara e cronica, di origine autoimmune, coinvolgente, oltre ad arterie e vene di calibro diverso, anche la mucosa orale e genitale (dove si manifesta con afte), l’intestino, il sistema nervoso centrale, l’apparato oculare e la cute. La localizzazione cutanea può complicarsi con insorgenza di ulcerazioni croniche, di difficile gestione e richiedenti tempi di guarigione prolungati. Il caso clinico che presentiamo riguarda una giovane donna con diagnosi certa di S. di Beçhet, giunta all’osservazione del Dipartimento di Emergenza Accettazione dell’Ospedale “S. M. Nuova” di Firenze in seguito a importante reazione allergica a puntura di insetto, complicata da rapidissima insorgenza di necrosi cutanea nel punto di contatto con il veleno, e immediata evoluzione della stessa in Pyoderma Gangrenoso. Il quadro clinico iniziale, caratterizzato da importante dispnea per broncospasmo, acidosi respiratoria e ipotensione, è stato rapidamente stabilizzato in DEA, e la paziente è stata trattenuta presso la nostra Degenza Breve per osservazione. Dimessa il giorno successivo, è stato quindi attivato un programma terapeutico multidisciplinare, per una rivalutazione della patologia di base, l’aggiustamento della terapia e il monitoraggio dell’evoluzione della lesione cutanea. Il complesso quadro clinico della paziente, ulteriormente complicato dal fenomeno della patergia per le lesioni cutanee, ci ha permesso di evidenziare alcune criticità in area di emergenza e nel successivo percorso vulnologico per la corretta gestione delle lesioni stesse. In particolare è stata fornulata un’ipotesi di percorso per un corretto inquadramento terapeutico multidisciplinare e multicompartimentale e un’idonea presa in carico in ambito territoriale. 19 53 Rabdomiolisi: descrizione di un caso clinico Roberta Mastriforti, Marianna Turrini, Maida Lucarini, Rossella Nassi Ospedale Valtiberina - Arezzo 20 Ipotesi. La rabdomiolisi è caratterizzata dalla lesione dei muscoli striati con conseguente passaggio in circolo dei loro costituenti enzimatici e metabolici. Può essere causata da numerose condizioni tra cui ricordiamo un’intensa attività fisica, uso di farmaci e droghe, traumi, ustioni, infezioni batteriche e virali, disordini genetici. Descriviamo un caso osservato recentemente nel nostro reparto. Materiali e metodi. Una donna di 40 anni giungeva alla nostra osservazione per la comparsa di dolori muscolari diffusi intensi ed emissione di urina di colore scuro; riferiva di avere praticato attività fisica in palestra (circa 1 ora di spinning) senza alcun allenamento precedente. Non riferiva assunzione di farmaci o sostanze stupefacenti. Risultati. All’esame obiettivo le masse muscolari erano dolenti alla palpazione con notevole riduzione della forza agli arti inferiori. Gli esami ematochimici mostravano GOT 1490 UI/l, GPT 481 UI/l, azotemia 0.24 g/l, creatinina 0.76 mg/dl, CPK >10000 UI/l, LDH 1958 UI/ml, mioglobina 8600 mcg/ l. Veniva instaurata idratazione con soluzione fisiologica associando diuretici dell’ansa e bicarbonato di sodio con progressivo miglioramento della sintomatologia dolorosa, recupero dell’autonomia motoria e normalizzazione degli indici di lisi muscolare. Conclusioni. Numerose sono le segnalazioni in letteratura di sindromi rabdomiolitiche sia in soggetti che svolgono attività fisica sia agonistica che non agonistica; tali quadri clinici non devono essere sottovalutati in quanto possono comportare gravi complicanze quali insufficienza renale che viene descritta nel 20-30% dei casi. Pancreatite acuta in medicina interna: dimensione del problema C. Belcari, A. Pampana, G. Rinaldi, S. Suppressa Gruppo Gastroenterologico FADOI 21 54 Ipotesi. Scopo dello studio è valutare la incidenza di Pancreatite acuta nelle UU.OO. di Medicina Interna di quattro PP.OO della nostra Regione (P.O Pontedera, P.O. Cecina, P.O. Valle del Serchio, P.O. Pistoia) e di valutare il ruolo delle UU.OO. Mediche nella gestione di questa patologia. Materiali e metodi. Lo studio, retrospettivo,ha preso in esame il periodo 01/01/2009 – 30/06/2009. (per il P.O. di Cecina il periodo Maggio-Luglio 2009) ed ha valutato la prima diagnosi (pancreatite acuta), l’eziologia e la U.O di destinazione dei Pazienti. Non essendo stato possibile discriminare tra primo episodio, recidive e rericoveri, lo studio non consente una indagine epidemiologica sulla incidenza della malattia, ma solo una valutazione del “peso assistenziale” di questa nelle UU..OO. considerate. Risultati. I DRG 204 “Pancreatite acuta” nel periodo considerato sono stati 72: Biliari 41 (57.6%), Alcooliche 12 (16,4%) Altra eziologia 19 (26,0%). Max incidenza per età: 72-85 anni con range 15-91 anni. Conclusioni. Le 72 pancreatiti acute osservate nelle UU.OO. di Medicina Interna rappresentano la maggioranza (mediamente 3/4) dei casi afferiti ai singoli PP.OO. essendo le UU.OO. Chirurgia solitamente interessate solo ai casi eligibili per ERCP d’urgenza o a quelli, più rari, risovibili solo chirurgicamente per complicanze. È intento di questo G.O.FADOI costituire un osservatorio epidemiologico che formalizzi standard diagnostici ed approcci terapeutici comuni alla patologia. Benefici della terapia radiorecettoriale nei tumori carcinoidi: descrizione di un caso Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro Ospedale del Casentino – Bibbiena RI, donna 72a., affetta da neoplasia neuroendocrina (carcinoide a partenza pancreatica con secondarismi epatici, prevalentemente sub-glissoniani ed ossei) diagnosticata (agosto 2007) con biopsia eco-guidata di lesione secondaria epatica. Alla PET: captazione a livello epatico, di un linfonodo pancreatico, VI° costa di destra e di D11. Alla RM del rachide: lesione litica a livello di D10 (trattata con radioterapia). Sottoposta a terapia con Capacitabina risultata inefficace. TC total Body (17/04/08): incremento delle lesioni epatiche ipervascolari con tendenza alla confluenza, aspetto infiltrativo a livello della confluenza delle vene sovraepatiche di maggiore entità rispetto al controllo precedente. OCTREOSCAN (maggio 2008): multipli accumuli a livello epatico, in regione mesogastrica e in una piccola area in sede mediastinica anteriore. La spiccata positività per i recettori della somatostatina ha posto indicazione alla terapia radiorecettoriale con 90Y-DOTATOC (5 cicli). La scintigrafia globale corporea post-terapia, con tracciante immunologico recettoriale (Ittrio 90Y DOTA-TOC), analogo radiomarcato della somatostatina post IV° ciclo di terapia radiorecettoriale, ha evidenziato regolare distribuzione del radiofarmaco a livello corporeo (in precedenza rilievo di iperaccumuli del radiofarmaco in regione epatica ed epigastrica di intensità ridotta rispetto all’ulteriore precedente scintigrafico eseguito il 23/09/08; non più evidente il modesto accumulo in regione mediastinica, precedentemente segnalato). Controllo TC torace e addome completo con e senza mdc (10/02/2009): “rispetto al precedente eseguito in data 17/04/2008 si rileva un netto miglioramento del quadro epatico; in particolare le multiple lesioni precedentemente segnalate appaiono ridotte di volume in una percentuale superiore al 50% ed appare modificato anche il grado di enhancement delle stesse…” Vista la efficacia terapeutica e la buona tollerabilità completerà un quinto ciclo di terapia radiorecettoriale. 22 Carcinoma indifferenziato dell’etmoide sinistro: descrizione di un caso Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro Ospedale del Casentino - Bibbiena C.R., uomo 68a., falegname. Pregresse pancreatiti, precedenti TPSV, artrosi polidistrettuale con ernie discali multiple. Agosto 2008: cervicobrachialgia sx dopo sforzo fisico con dolore di severa entità, lieve deficit motorio ed irradiazione in sede interscapolo vertebrale sinistra. Tra gli esami: TC toraco mediastinica, negativa per processi espansivi eteroplasici, EMG agli arti superiori ed RM del rachide cervicale evidenzianti radicolopatia compressiva C3-C4, C4-C5, C5-C6. Settembre2008: sensazione di ripienezza nasale, epifora, iposmia, gocciolamento nasale di mucopus e tracce di sangue; difficoltà respiratoria nel decubito supino. ValutazioneORL con rinoscopia diretta: sinusopatia flogistica in poliposi. Successiva diplopia nello sguardo verso il basso: proptosi del bulbo oculare dx.TC del massiccio facciale con mdc: neoformazione delle cavità naso-etmoidali con struttura disomogenea ed interessamento prevalente dei turbinati medio superiore e delle celle etmoidali a dx con osteolisi della parete mediale del seno mascellare omollaterale; erosione della lamina papiracea dx con invasione della regione orbitaria, compressione del muscolo retto mediale spinto a contattare il nervo ottico con proptosi oculare dx. In alto superamento della lamina cribrosa etmoidale con aggetto nella fossa cranica anteriore a livello del lobo olfattorio. Posteriormente interessamento del seno sfenoidale dx. A livello naso-etmoidale superamento della linea mediana con espansione sul versante controlaterale. Biopsia: carcinoma anaplastico ulcero-necrotico dell’etmoide sx. Rilievo TC di lesioni secondarie epatiche, polmonari e dei linfonodisottomandibolari dx. Chemioterapia: cisplatino ed etoposide. Esito infausto dopo tre mesi. Conclusioni. Neoplasia rara, correlata all’esposizione alle polveri di legno. Simulazione di sinusopatie flogistiche. Nel sospetto: rinofibroscopia. Diagnosi: endoscopia ed esami radiologici con evidenza di usure ossee, inesistenti nelle sinusiti. Ritardo diagnostico medio di 4-12 mesi. 23 55 Correlazione tra funzionalità tiroidea e renale in donne al primo trimestre di gravidanza Giulio Ozzola, Emilio Santoro, Ciro Sommella Ospedale del Casentino - Bibbiena 24 Ipotesi. La tiroide ha la capacità di regolare la funzionalità renale, cosa importante in gravidanza in quanto causa di gravi complicanze. Oggi la funzione renale si può studiare tramite formule quali la MDRD. Scopo del lavoro è verificare l’influenza che la funzionalità tiroidea ha su quella renale in donne all’inizio della gravidanza. Materiali e metodi. Si è effettuato uno studio su 700 donne in gravidanza da circa otto settimane alle quali è stato dosato il TSH e la funzionalità renale tramite MDRD. Risultati. Il valore medio di TSH riscontrato è di 2.23+/-6.2 mUI/L (mediana=1.58 mUI/L e range = 9.94 mUI/L) e quello del MDRD è di 95.2+/-13.8 mL/min/1.73^2. La correlazione tra TSH e MDRD risulta di - 0.0978 con livello di significatività pari a p<0.01. Discussione e conclusioni. Vari studi indicano che la funzionalità tiroidea influenza anche quella renale e che in gravidanza vi possono essere gravi complicanze legate a questa. Si è valutato se vi è correlazione TSH e MDRD ed è risultato che le due variabili sono tra loro inversamente correlate e che tale correlazione è statisticamente significativa. Prevalenza di patologie nella popolazione cinese afferente al pronto soccorso dell’ospedale “Misericordia e Dolce” di Prato R. Fiusti, M. Lanigra, C. Zeloni, G. Manco, G. Vannoni, A. Cruciani, M. Becheri U.O. Emergenza e Accettazione Azienda USL 4 Prato 25 1 http://www.provincia.prato. it/w2d3/internet/download/ provprato/intranet/utenti/ domini/risorse/documenti/ store--20090716135840041/ Residenti+stranieri+al+31.12 .2008.pdf 56 Premessa. L’ Azienda USL 4 di Prato eroga servizi sanitari per l’intera provincia con una popolazione residente di 246.035 cittadini1. Di questi 28.971 (11.7%) sono nati in altri stati. I cittadini cinesi residenti in tutta la Provincia sono 10914 (4.43%). Materiali e metodi. Con il presente studio abbiamo voluto valutare la percentuale di cittadini cinesi che afferiscono al Pronto Soccorso di Prato (l’unico dell’intera Provincia) e le patologie che si riscontrano più frequentemente in questa popolazione. Per tale motivo, abbiamo utilizzato il programma FIRST AID, estrapolando dallo stesso i dati sottostanti grazie alla codifica con il sistema ICD9-CM, inserito come step obbligatorio che il medico deve effettuare prima di chiudere il verbale ed inserendo nella raccolta dati solo i pazienti nati in Cina. Risultati. Dal 1.1.2009 al 31.8.2009 sono afferiti al PS di Prato 50.568 pazienti; di questi 4784 (9.46%) sono nati in Cina; 2220 (46.4%) sono di sesso maschile e 2564 (53.6%) di sesso femminile; l’età media è di 22 anni +-17. A questo numero va aggiunta nello stesso periodo una quota di circa 300 pazienti registrati come “pazienti ignoti” non in grado di fornire, per i motivi più disparati (barriera linguistica, stato di coma etc.) i loro dati anagrafici. Inoltre non sono stati conteggiati i figli dei cinesi nati in Italia. Le patologie prevalenti riscontrate sono: traumi/contusioni/ferite/fratture 1048 (21.9%); dolore addominale 664 (13.9%); coliche renali 464 (9.7%); patologie correlate alla gravidanza 368 (7.7%); infezioni vie aeree superiori 208 (4.3%); cefalea 160 (3.3%); febbre 136 (2.84%); allergia 148 (3%); vomito 128 (2.7%); polmoniti 72 (1.5%); dolore toracico (1.3%); intossicazioni varie 64 (1.3%); lombalgia 64 (1.3%) Inoltre 560 pazienti (11.7%) non hanno ricevuto codifica adeguata. 336 (7.1%) risultano “inviato ad ambulatorio”: si tratta per lo più di patologie oculistiche e parte pediatriche, 208 (4.3%) sono risultati assenti alla chiamata. Conclusioni. I nostri dati evidenziano che 4784 pazienti di origini cinesi (43.8% dei residenti) sia ricorso alle cure del PS nel periodo 1.1.2009-31.08.2009. Essi costituiscono il 9.46% degli accessi totali dello stesso periodo. In realtà questo dato percentuale è reso inattendibile dalla enorme numero dei cittadini cinesi non residenti o non censiti che pure afferiscono al PS (dati ufficiosi stimano almeno altri 15-20.000 cittadini cinesi presenti nel territorio pratese). Le patologie più frequenti sono quelle traumatiche seguite dai dolori addominali e dalle coliche renale. Le patologie o sintomi più prettamente di natura “internistica” (dolore toracico 1.3%, sincope 1%, ipertensione 1%, cefalea 3.3%, febbre 2.8%) costituiscono solo il 9.4% del totale. Tale diversa epidemiologia, con bassa percentuale di patologie o sintomi di natura più internistica, può essere legata anche alla età media che risulta sensibilmente più bassa rispetto a quello della popolazione italiana residente. Non è stato possibile per motivi informatici valutare in una popolazione omogenea di residenti italiani o di altra nazionalità, con le stesse caratteristiche, le patologie riscontrate. Implementazione delle iniziative per la gestione del rischio clinico: l’Audit Clinico in Medicina Interna G. Parca, G. Bacci, F. Cappelli, M. Genovesi, MP. Rosito, S. Stanganini, A. Tufi, E. Santoro SC Medicina Interna Ospedale del Casentino – Bibbiena AUSL 8 Premessa. I dati della letteratura internazionale da alcuni anni affermano la gravità del problema del RISCHIO CLINICO: della possibilità, cioè, che nel sistema sanitario possa derivare un danno all’utente causato non dalla malattia ma dalla gestione sanitaria della stessa. La segnalazione degli eventi avversi (Incident Reporting) e le discussioni critiche su di essi (Audit Clinici: AC) rappresentano gli strumenti fondamentali del Risk Management. Risultati. L’ AC è una “iniziativa condotta da clinici, che cerca di migliorare la qualità e gli outcomes dell’assistenza attraverso una revisione fra pari, strutturata, in cui in clinici esaminano la propria attività ed i propri risultati in confronto a standard espliciti, e la modificano se necessario” (NHS, 1996). L’ iniziativa si propone di revisionare eventi significativi, con l’obierttivo di identificare eventuali criticità e di proporre ipotesi di miglioramento. In altre parole l’AC è prassi di ricerca clinica, avente per oggetto il riesame di procedure e comportamenti, al fine di individuare criticità da correggere. Conclusioni. L’AC non è una semplice procedura ma un modo di pensare e di lavorare. Presuppone un processo formativo diffuso, protratto ed interprofessionale, che possa portare a considerare l’errore come occasione di apprendimento e quindi punto di partenza per un miglioramento. Nella nostra U.O. stiamo incrementando questo tipo di attività, consapevoli dell’impegno che questa scelta comporta, ma fiduciosi di poter avere da queste iniziative un positivo impatto sulla pratica organizzativa e sulla qualità delle cure. 26 Dilatazione delle vie biliari da patologia cistica del pancreas S. De Marco, E. Pea, A. Pampana °, C. Passaglia Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana ° Ospedale di Cecina l Wirsung. EGDS: neoformazione rotondeggiante della seconda porzione duodenale. Tc addome: IPMN di tipo combinato della testa del pancreas che disloca la papilla duodenale maggiore, associato a pancreas divisum. Dilatazione delle VBI e del coledoco e del Wirsung. Rmn addome: spiccata dilatazione del sistema duttale pancreatico; lesione cistica dominante di 7 cm di diametro, comunicante con dotto principale. Lieve ectasia delle VB intraepatiche, dilatazione del coledoco (11 mm) con stop a livello cefalopancreatico. La lesione pancreatica impronta la seconda porzione duodenale. In data 15/2 us il paziente è stato sottoposto a cefalopacreasectomia con conservazione del piloro. Es istologico: intraductal papillary mucinous neoplasm in assenza di note di cancerizzazione. Questo case report vuole stigmatizzare alcuni concetti: a) di fronte ad una stenosi del sistema biliare pensare non solo all’adenoCa della testa pancreatica b) il riscontro di cisti del pancreas necessita di una accurata diagnosi anche istologica ed un accuratissimo follow up c) non tutti gli IPMN cancerizzano 27 57 Colecistite acuta in pazienti trattati con TACE per epatocarcinoma Carlo Passaglia, Salvatore De Marco, Giancarlo Tintori, A. Fabbri, A. Pampana* UO Medicina 5° Ospedaliera Az. Ospedaliera Universitaria Pisana *UO Medicina, Presidio Ospedaliero di Cecina (LI) 28 La colecistite acuta ischemica è una rara complicanza (1%) in corso di procedura di chemioembolizzazione arteriosa transcatetere, in pazienti affetti da epatocarcinoma, gravata però da significativa morbilità, e potenzialmente fatale, indotta dalla embolizzazione delll’ arteria colecistica. Materiali e metodi. Dal 1993 nel nostro reparto, sono state praticate oltre 300 trattamenti TACE, per HCC. La quasi totalità dei pazienti trattati (>80%) erano pazienti affetti da cirrosi epatica c, il rimanente 20% riguardava pazienti affetti da cirrosi epatica B, etanolica o di altra natura (emocromatosica, autoimmunitaria). Risultati. In tre casi trattati (donna di 70 aa affetta da HCC multifocale su cirrosi epatica C, uomo di 63 aa affetto da HCC multifocale cirrosi epatica B, donna di 68 aa affetta da HCC su cirrosi epatica C) i pazienti hanno sviluppato entro le 24 ore successive al trattamento, dolore all’ipocondrio dx, con notevole alterazione della citolisi epatica, leucocitosi, febbre, e quadro ecografico compatibile con colecistite acuta (ispessimento e stratificazione della parete colecistica, e distensione del viscere). In tutti e tre i casi la TACE aveva coinvolto, fra gli altri, il 5° segmento epatico. In due casi la terapia conservativa ha risolto il quadro. In un caso, in cui tra l’altro l’arteria cistica originava dalla a. epatica sinistra, la paziente è stata sottoposta a colecistectomia e necrosectomia epatica con successivo sviluppo di fistola biliare, con progressivo deterioramento clinico sino all’exitus. Istiocitoma fibroso maligno: descrizione di un caso Maria Pia Rosito, Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro Ospedale del Casentino – Bibbiena 29 58 Donna di 67 anni. Fumatrice di circa 20 sigarette al giorno. APR: ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, intolleranza glucidica. Pregressa ulcera peptica. Noduli tiroidei in eutiroidismo. Luglio 2009: episodio di dispnea al risveglio seguita da perdita di coscienza, con perdita di urina e con rapida e spontanea risoluzione. Esegue: Rx torace che mostra slargamento del mediastino superiore da possibile gozzo tiroideo immerso; Tc cranio diretta con riscontro di area ipodensa in sede temporoparietale dx con componente iso-iperdensa nel suo contesto; Visita cardiologia ed ecocardiogramma che non mostrano reperti patologici degni di nota; RMN encefalo che mostra estesa area ipodensa in sede temporo-parietale dx, prevalentemente sottocorticale, con esteso edema perilesionale di più probabile natura secondaria. Ricovero in reparto medico: inizia terapia antiedemigena con steroidi e mannitolo. EsegueTc collo-torace-addome: multiple linfoadenopatie in regione laterocervicale inferiore e sovraclaveare bilateralmente. Lobo dx della tiroide di dimensioni aumentate e presenza nel suo contesto di multiple aree disomogenee in parti confluenti. Marcato ispessimento della pleura diaframmatica di dx. Linfoadenopatie, di circa 40 mm, si apprezzano nel mediastino superiore tra i vasi epiaortici, in sede paratracheale superiore dx e precarenale. Biopsia escissionale di linfonodo sovraclaveare dx: “malignità epiteliomorfa, pleomorfa, con anaplasia a grandi cellule, a pattern solido con estesi fenomeni di necrosi ed angioinvasività. L’immunoistochimica non depone per nessuna origine né di sede né di natura della neoplasia”. Viene concordata revisione istologica presso Anatomia Patologica di Siena. Prosegue iter diagnostico. Broncoscopia negativa; Mammografia nei limiti; EGDS: esiti di ulcera duodenale; Pancolonscopia: negativa. PET/TC: tessuto eteroplasico ad elevato metabolismo glucidico in sede encefalica, linfonodale del collo, del torace, dell’addome e del surrene. La fissazione tiroidea è altamente sospetta per natura eteroplasica non potendo escludere tuttavia la natura benigna. La revisione istologica depone per Istiocitoma fibroso maligno (IFM) o Sarcoma pleiomorfo indifferenziato. Commento. L’IFM rappresenta circa il 20% di tutti i sarcomi. Origina prevalentemente dai tessuti molli profondi: da cute e sotto-cute, da sedi quali laringe, cervello, reni, polmoni, pleure, fegato, ossa, cuore, mammelle, tiroide e mediastino. L’aspetto istologico è caratterizzato da intenso pleiomorfismo cellulare. Il quadro tipico mostra cellule fusate, aree di aspetto mixoide e, tra queste, tipici elementi istiocitici. Raramente il tumore appare costituito interamente da istiociti. Qualunque sia il quadro morfologico, è presente di solito un certo grado di anaplasia. La prognosi è poco favorevole con elevata frequenza di recidiva locale dopo l’escissione chirurgica e presenza di metastasi ai linfonodi regionali e ai polmoni. Stato confusionale acuto in corso di ipomagnesiemia ed ipocalcemia gravi da malassorbimento in gastroresecato: descrizione di un caso Maura Genovesi, Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro Ospedale del Casentino – Bibbiena F.M., uomo di 74 a. Pregresso intervento di gastroresezione per carcinoma gastrico, anemia ipocromica microcitica lieve, cardiopatia ischemica post-infartuale. Luglio 2009: ricovero in Cardiologia/ UTIC per IMA non Q in corso di edema polmonare. Evidenziata coronaropatia non critica di IVA. Durante il ricovero comparsa di stato confusionale. Esegue anche TC cranio diretta che evidenzia in sede sovratentoriale alcune microlacune vascolari nei nuclei grigi e nella sostanza bianca paraventricolare. Non emorragie in atto. Rx torace: non alterazioni pleuroparenchimali di attuale evidenza radiologica diretta, cuore con prevalenza ventricolare sinistra, nei limiti il circolo polmonare aortosclerosi. Normale saturazione di O2. Successivo trasferimento in UOC Medicina Interna. Persiste lo stato confusionale e compare irritabilità e aggressività marcata: tra gli esami ematochimici: Hb 10.3 g/dl, proteine totali 8.2 g/dl, creatinina 1.86 mg/dl,glicemia, natriemia e kaliemia nella norma. Una Emogasanalisi conferma buon compenso respiratorio ed evidenzia calcemia bassa. Successiva conferma in laboratorio di calcemia 3.7 mg/dl e magnesiemia 1.71. Il dosaggio di paratormone, fosforemia e ormoni tiroidei sono risultati nei limiti della norma. Risoluzione dello stato confusionale d 12-24 ore dopo infusione di calcio gluconato ev. Conclusioni. Ipocalcemia ed ipomagnesemia secondari a sindrome da malassorbimento in paziente gastroresecato. In caso di stato confusionale prima di eseguire valutazioni strumentali (TC, EEG….) è indispensabile valutare alcuni parametri metabolici. L’esecuzione di una emogasanalisi può orientare la diagnosi rapidamente. 30 Epilessia o sincope comiziale? Descrizione di un caso Francesca Cappelli, Giuseppe Bacci, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro Ospedale del Casentino - Bibbiena P.A. uomo di 73 aa. Pregresso intervento per carcinoma del cavo orale con recidiva in sede mandibolare in trattamento radioterapico, portatore di Pace-maker bicamerale. Nel Febbraio 2009 ricovero per episodio di perdita di coscienza associata a movimenti involontari interpretati a domicilio, al Ps-DEA, dal consulente neurologo ed in reparto medico come crisi epilettica generalizzata. Tra gli esami: TC cranio: nulla di rilevante. Rx torace: non alterazioni pleuroparenchimali in fase acuta. Immagine cardiaca e vascolare nei limiti della norma. Pace-maker bicamerale correttamente posizionato e normofunzionante Esami ematochimici: nei limiti della norma. L’interpretazione iniziale condiziona, ripetendosi le crisi ad iniziare terapia antiepilettica con carbamazepina e a somministrare generosi dosi di diazepam; gli episodi si ripetono con le stesse caratteristiche condizionati dal cambio di postura con riscontro di netta riduzione della pressione arteriosa al passaggio dalla posizione clinostatica a quella ortostatica. Una anamnesi più approfondita rivela che molti anni prima il paziente era stato studiato in ambiente spe cialistico(neurologico) per i suoi disturbi di perdita di coscienza, peraltro recidivanti dall’infanzia, ed era stata fatta diagnosi di disautonomia familiare in terapia con DL-threo-diidrossifenilserina (Dops) 100 mg 2 cp x 2 /die; portava saltuariamente calze elastiche a compressione graduata,cercava di avere estrema cautela nel passare dalla posizione clinostatica a quella ortostatica, assumeva abbondanti liquidi e cercava di condire con sale da cucina i suoi alimenti. Conclusioni. sincope comiziale in paziente con disautonomia familiare, peraltro già nota e valutata molti anni prima in ambiente specialistico. Una anamensi più approfondita è fondamentale sempre, in particolare nell’approccio alla sincope. Nella diagnostica differenziale della sincope pensare anche alle alterazioni del sistema nervoso autonomo (SNA). L’esame clinico deve comprendere i test di valutazione funzionale di questo sistema (test di funzione cardio-vagale, risposta alla manovra di Valsalva e head up tilt test) 31 59 Una nuova lettera nell’alfabeto delle epatiti: epatite acuta da parvovirus b19. Una causa poco diagnosticata di epatite virale M. Paci, S. Meini, L. Mangano, A. Tafi UO Medicina Interna, Ospedale di Volterra 32 Ipotesi. L’infezione da Parvovirus B19 è una patologia comune, trasmessa per via respiratoria ed ematica, che interessa prevalentemente l’età pediatrica con sintomi vari che vanno da una reazione eritematosa a sintomi influenzali aspecifici, ma spesso asintomatica. Nell’adulto, soprattutto in giovani donne, può causare una poliartropatia e nell’immunocompromesso può determinare una cronica o ricorrente mielosoppressione. L’infezione acuta frequentemente può però anche determinare ipertransaminasemia ed ittero transitori. Materiali e metodi. Donna di 55 anni, giunge alla nostra osservazione per febbre elevata fino 40.5°C e disorientamento dopo una lunga camminata (10 Km). APR muta. Agli esami ematici rilievo di elevati livelli di mioglobina (6150 ng/mL) e CK (9155 U/L), ipertransaminasemia (AST 2661 U/L, ALT 2208 U/L) con modesto aumento degli indici di colestasi, lieve incremento della creatinina, riduzione del PT (40%), trombocitopenia e lieve anemia normocitica, VES e PCR nella norma, emocolture negative. Agli esami strumentali (Rx torace, Eco addome, TC cranio) non alterazioni degne di nota. Risultati. Come approfondimenti vengono richiesti i dosaggi (anticorpali, antigenemia e genoma) dei marcatori virali dell’epatite, del CMV, HSV 1 e 2, Herpes 7 e 8, HIV, EBV, Varicella Zoster, Adenovirus, Virus dell’Influenza (A, B), Parainfluenza 1 e 2, Enterovirus, Coxsackievirus B1-6 e Parvovirus B19, tutti negativi per infezione acuta ad eccezione delle IgM anti Parvovirus B19. Conclusioni. Di fronte ad un’epatite acuta ricordiamo di ricercare la sierologia per Parvovirus B19, anche per non rifugiarsi nell’abusata diagnosi di epatite acuta criptogenetica, aggiungendo la lettera P all’alfabeto delle epatiti. Embolia Polmonare: diagnosi complessa. Descrizione di un caso Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro Ospedale del Casentino – Bibbiena 33 60 Maschio di anni 74. APR: cardiomiopatia ipertrofica non ostruttiva; episodiche aritmie ipercinetiche ventricolari complesse; recente frattura del malleolo tibiale gamba sinistra, immobilizzato con gambaletto gessato. Aprile 2009, due settimane dopo rimozione gesso, comparsa improvvisa dispnea sotto sforzo di lieve entità (camminare in salita) prima ben tollerato. Rx torace: cardiomegalia senza prevalenza di singole sezioni e con piccolo circolo ridistribuito verso gli apici, con modesto ispessimento interstiziale in sede perilare; associato versamento pleurico basale sinistro ed ispessimento delle scissure (compatibili con il sospetto clinico di insufficienza cardiaca). Eco-color-doppler venoso arti inferiori: normalità a carico del circolo venoso profondo, bilateralmente. Ecocolordoppler cardiaco: marcata ipetrofia del VS soprattutto a carico del setto e dei segmenti apicali, senza significativo gradente telesistolico all’efflusso; lieve ipocinesia inferiore basale ed infero-laterale basale con conservata funzione di pompa. Sezioni destre di normali dimensioni, con normali indici di funzione del VD (TAPSE: 24 mm); all’esame doppler lieve insufficienza mitralica; non segni indiretti di ipertensione polmonare (non significativo gradiente Vdx-Adx); indici di fase diastolica come da alterato rilasciamento.ECG: RS 70/m con extrasistole ventricolari isolate con atriogramma ai limiti e PR 0.24; ventricologramma: EAS. EGA: ph 7.45, pCO2 33.3 mmhg, pO2 64.7 mmhg. D-Dimero francamente elevato. Uno score di Wells da probabilità intermedia, il versamento pleurico a Sx in presenza di D-Dimero elevato hanno indotto ad eseguire angio TC torace che ha evidenziato piccoli difetti di riempimento rilevabili nelle arterie polmonari segmentarie dei lobi inferiori, maggiormente evidenti a dx, da riferire a tromboenbolia periferica, moderato versamento pleurico bilaterale. L’angioTc torace è il gold standard della diagnosi di embolia polmonare. Il sospetto clinico è fondamentale. Il D-Dimero ha esclusivamente alto valore predittivo negativo. Incidentalomi addominali P. Pasquinelli, P. Taddei, S. Giuntoli, R. Guglielmini, M. Cei Ospedale Livorno è di comune evenienza, durante la pratica clinica, il rilievo incidentale (con le Rx o più spesso con l’ecografia dell’addome) di formazioni, a volte di piccole dimensioni a volte occupanti spazio, che vengono definite “incidentalomi”. Caso Clinico. Il paziente, S.M. di 50 anni, asintomatico ed in buona salute, esente da patologie significative (non diabete mellito né ipertensione arteriosa,non dislipidemie) salvo un recente episodio di tromboflebite post-traumatica all’arto inferiore sinistro, si è ricoverato perché è caduto dallo scooter dopo essere stato colpito da un pedone (prob.psicopatico) mentre era fermo al semaforo. Portato al PS. di Livorno ha eseguito i primi esami: ha eseguito TAC encefalo (negativa), Rx del torace parenchimale ed osseo (rilievo di frattura scomposta della 3° costa di ds) e per la presenza di dolore addominale è stato sottoposto ad ecografia dell’addome (FAST) e successivamente a TAC addome completo. Risultati. Niente di significativo si è evidenziato dagli esami ematici ad eccezione di lieve ipopotassiemia poi normalizzata, normale il dosaggio dell’Aldosterone plasmatico in orto- e clinostasi. La TAC ha evidenziato: a) un ingrandimento del surrene ds di tipo isodenso di diametro max 4 cm b) la presenza di un nodulo captante il mdc di circa 2 cm in sede intercavo-aortica. Successivamente la RMN dell’addome e una scintigrafia con octreotide hanno confermato la presenza delle due lesioni, risultate captanti il tracciante. Conclusioni. Il paziente sta bene ed è stato dimesso. Il quadro clinico è suggestivo di localizzazioni multiple, surrenalica ed extrasurrenalica, di paragamglioma. In tali casi, viste anche le dimensioni della lesione surrenalica, è indicata una valutazione chirurgica. 34 Solo un percorso appropriato garantisce l’adeguatezza diagnostica e terapeutica: un caso di sindrome ipereosinofila G. Sibilia, S. Meini, M. Paci, N. Scopetani, M. Norpoth, L. Mangano, A. Tafi Ospedale S.Maria Maddalena di Volterra ASL 5 di Pisa Ipotesi. Con il termine S. ipereosinofila si definisce un gruppo di malattie caratterizzate da persistente eosinofilia, definita come più di 1500 cellule/microl persistente per più di 6 mesi, in assenza di seconda causa. nota di ipereosinofilia (malattie parassitarie, allergiche, immunologiche, neoplastiche), con coinvolgimento d’organo, associata a segni e sintomi di impegno multisistemico (cuore, polmone, sistema nervoso centrale, apparato digerente, midollo osseo, cute). Materiali e metodi: Il paziente, di anni 58, giungeva alla nostra attenzione, trasferitoci dalla Chirurgia, con ascite e peritonismo, in anamnesi storia di asma. Le indagini strumentali evidenziavano ispessimento dei mesi e linfoadenopatie mesenteriche, gli esami ematochimici mostravano ipereosinofilia e movimento degli enzimi pancreatici. Il paziente effettuò TAC toraco- addominale, ECG, Ecocuore, EGDS e BOM. Risultati. La D.D. si poneva tra S. di Churg-Strauss, (vista anche la storia di asma), S. ipereosinofila e m. linfoproliferativa. In attesa della risposta BOM abbiamo chiesto anche la consulenza reumatologica, in ambito universitario, che ha supportato la prima ipotesi. Il referto istologico, invece, “Spiccata iperplasia maturante della serie granulocitaria prevalentemente sostenuta dallo stipite eosinofilo” ha confermato il sospetto diagnostico di S. ipereosinofila. Conclusioni. Si ribadisce come, solo un corretto iter diagnostico-terapeutico possa condurre all’appropriatezza clinica. 35 61 Ruolo della Tomografia ad Emissione di Positroni nella patologia non neoplastica: un utilizzo inconsueto A. Bontempo, A. Ciolli, L. Giachetti, R. Lammel, P. Pantaleo, B. Alterini S.O.D. Medicina e Riattivazione. Dipartimento del Cuore e dei Vasi - Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi – Firenze 36 La Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) rappresenta una metodica in grado di individuare aree ad elevato metabolismo che possono essere correlate alla presenza di patologia neoplastica ma anche di altra natura. Ed è proprio nell’ambito della patologia non neoplastica che la PET risulta talora in grado di risolvere enigmi diagnostici altrimenti non decifrabili. B.R. di anni 61, maschio, recentemente sottoposto ad impianto di derivazione ventricolo-peritoneale per idrocefalo comunicante, è giunto alla nostra osservazione per febbre. L’intervento di derivazione era stato complicato da febbre persistente di cui non fu individuata l’origine, trattata con antibioticoterapia, alla cui sospensione era seguita recidiva. Il paziente era stato nuovamente studiato con metodiche “tradizionali” di diagnostica per immagini e di laboratorio, senza identificare una sicura origine del quadro. Il continuo successivo ripetersi di episodi settici senza che potesse essere evidenziata la presenza di un chiaro focolaio infettivo, tramite le metodiche strumentali comunemente impiegate ha imposto lo studio con PET che ha dimostrato la presenza di attività ad elevato metabolismo glicidico sul terminale peritoneale della derivazione ventricolo-peritoneale. Il drenaggio è stato rimosso ed il paziente è giunto a guarigione. La PET ha consentito di ottenere una certezza diagnostica dimostrando la capacità di individuare focolai settici anche di modeste dimensioni, altrimenti non identificabili. Colangite sclerosante primitiva S. Pacini, P. Biagi U.O. Medicina ASL - 7 Siena – Ospedali Riuniti della Valdichiana Senese - Montepulciano (SI) 37 62 La colangite sclerosante primitiva (CSP) è una malattia colestatica cronica del fegato con fibrosi attorno ai dotti biliari intraepatici e/o extraepatici. CSP è caratterizzata da una progressiva fibrosi periduttale obliterante e restringimento del dotto biliare. CSP colpisce soprattutto uomini giovani e di mezza età ed è spesso associata con una malattia infiammatoria cronica silente dell’intestino. In casi particolari, la CSP può avere una prognosi favorevole, ma nella maggior parte dei casi la patologia è progressiva e vede indicato il trapianto di fegato. La mediana di sopravvivenza senza trapianto è di circa 18 anni. Recentemente, i pazienti con CSP dei piccoli dotti, che hanno caratteristiche biochimiche ed istologiche simili agli altri pazienti con CSP, ma colangiografia normale hanno dimostrato di avere una prognosi migliore di quelli con CSP dei dotti maggiori. La CSP è complicata dal colangiocarcinoma (CCA) nel 10-30% dei casi. Non esistono consensus sulle strategie di screening. Attualmente, non esiste terapia specifica per la CSP tranne il trapianto di fegato. D.A.M.I., donna di 48 anni, affetta da diabete mellito i tipo! Giunge alla nostra osservazione per febbricola, ipotensione e stato confusionale. Gli esami ematici rilevano iperglicemia (559 mg%), aumento della fosfatasi alcalina (1074 U/L), SGOT (171 UI/L), SGPT (192 UI/L), bilurubina totale, bilurubina diretta (1,40 mg%), gammaGT (273 UI/L). L’ecografia addome e la colangioRM sono nella norma. L’agobiopsia ecoguidata del fegato ha deposto per colangite sclerosante cronica. Una colonscopia ha confermato il sospetto di malattia infiammatoria cronica concomitante alla biopsia eseguita su lieve ed aspecifico ispessimento della mucosa del ceco. La clinica migliora rapidamente, ma i dati di laboratorio confermano gli elevati indici di colestasi, pur rimanendo stabili. La paziente è asintomatica con l’ottimizzazione della terapia insulinica e l’acido ursodesossicolico (450 mg t.i.d.) Embolia polmonare ed interazioni geniche S. Pacini, P. Biagi U.O. Medicina ASL - 7 Siena - Ospedali Riuniti della Valdichiana Senese - Montepulciano (SI) L’embolia polmonare (EP) è una patologia frequente che si associa ad elevata morbidità e mortalità se non trattata. I fattori di rischio convenzionali per la trombosi venosa sono la gravidanza, l’immobilizzazione, l’intervento chirurgico, il trauma e la trombofilia. Alterazioni acquisite o ereditarie del sistema della coagulazione predispongono alla trombosi. Lo stato di ipercoagulabilità è determinato da alterazioni dei meccanismi anticoagulanti, che prevengono la produzione della trombina e la sua progressione a formare trombi. Associazioni statisticamente significative con EP sono state identifiche per il fattore V G1691A (OR: 9,45), fattore V A 4070G (OR: 1,24), protrombina G20210A (OR: 3,17), protrombina G11991A (OR: 1,17), PAI-I 4G/5G (OR: 1,62), alfa- fibrinogeno T312A (OR: 1,37), tutti nella popolazione Caucasica. La mutazione MTHFR C677T è stata trovata in associazione con l’EP in maniera statisticamente significativa nella popolazione cinese/Thai. L’eterozigosi MTHFR C677T ha una prevalenza del 42-46% in Europa. La co-presenza della eterozigosi per le mutazioni C677T e A1298C induce una riduzione del 50% dell’attività della MTHFR. F.A, donna di 69 anni, in appare benessere senza alcun precedente clinico importante, giunge alla nostra attenzione per malessere, flushing, ipertensione arteriosa e dolore epigastrico. L’ ECG, la radiografia del torace e la TC cranio sono risultati nella norma. Tutti gli esami ematochimici di routine sono risultati nei limiti della norma, tranne elevati valori di D-dimero (4.6 m/L – valori normali inferiori a 0,55). Visti i dati clinici aspecifici ed il riscontro di questi valori del D-dimero abbiamo effettuato una angio-TC polmonare, che ha rilevato la presenza di microemboli. Abbiamo intrapreso immediatamente terapia con nadroparina 6000 UI b.i.d. Altri studi clinici sono stati condotti: l’esofagogastroduodenoscopia, la colonscopia, l’ecografia addome e della tiroide che sono risultati nella norma, così come i markers oncologici e gli anticorpi antifosfolipidi ed anticardiolipina. Lo screening per la trombofilia ha rilevato la presenza di eterozigosi per C677T, A1298C e PAI-I 5G/4G. Visti tali dati abbiamo prescrito terapia a lungo termine con warfarin. 38 Un caso di malattia celiaca sieronegativa nell’adulto S. Pacini, P. Biagi U.O. Medicina ASL - 7 Siena - Ospedali Riuniti della Valdichiana Senese - Montepulciano (SI) La malattia celiaca (MC), è tradizionalmente considerata una rara patologia dell’infanzia che si presenta con sindrome da malassorbimento, mentre è una malattia multisistemica autoimmunitaria quando si manifesta nell’età adulta, colpisce l’1% della popolazione ed è legata all’espressione genetica dell’antigene di istocompatibilità (HLA) DQ 2 e DQ8. La presentazione nell’adulto avviene, spesso, intorno ai 40-60 anni. La diagnosi istologica non richiede l’atrofia dei villi dell’intestino tenue. La classificazione di Marsh riconosce come pattern di enteropatia da glutine la presenza di infiltrazione leucocitaria nell’epitelio e l’iperplasia delle cripte con villi conservati. La risposta immunitaria alla transglutaminasi tissutale (TTG) è cruciale per il processo patologico e i test sierici per il dosaggio degli autoanticorpi per la MC (antiendomisio-EMA ed anti-TTG) hanno rivoluzionato la diagnosi. Comunque, un importante numero di pazienti con MC non ha il quadro classico della sindrome da malassorbimento, test sierologici positivi e atrofia dei villi intetsinali: attualmente il 10% dei pazienti con MC sono sieronegativi, in particolare quelli senza evidente atrofia villosa. Quindi, la negatività dei tests sierologici per la MC non esclude la diagnosi di MC, che può essere confermata, solamente, dai reperti istologici. L.M., donna di 40 anni, giunge alla nostra attenzione in seguito a riscontro di grave anemia ipocromica (Hb= 7,2 g/dL; MCV= 68,1; MCH= 19,1) che ha richiesto l’emotrasfuzione di due sacche di globuli rossi concentrati. I dati di laboratorio hanno mostrato marcata riduzione della sideremia (20 μg%) e della ferritinemia (30,1 ng/ml), assenza di sangue occulto nelle feci, il dosaggio della vitamina B 12 e dei folati è risultato nella norma, così come la funzione tiroidea ed i markers di neoformazione. Gli anticorpi anti-gliadina-IgA (3,2 U/ml), IgA (282 mg%), e anti-TTG- IgA e IgG (2 e 2,6 UA/ml, respectively) sono risultati nella norma. La definizione HLA ha mostrato eterozigosi DQ2 (DQB1*02). La esofagogastroduodenoscopia è risultata nella norma, ma la biopsia della seconda porzione duodenale ha mostrato un non corretto orientamento delle ghiandole di Brunner, normali le caratteristiche dei villi, aumento (>25%) dei linfociti CD3+ intraepitealiali e aumento dei livelli di linfociti e plasmacellule nella tonaca propria Queste lesioni possono essere classificate come MC infiltrativa tipo I in accordo con Marsh/Oberhyber o lesione grado A secondo Corazza e Villanacci. La paziente ha iniziato la dieta priva di glutine. Attualmente gli esami ematici sono nei limiti della norma. 39 63 Uno studio sulla ioduria in una valle appenninica Giulio Ozzola, Emilio Santoro, Ciro Sommella Ospedale del Casentino – AR 40 Ipotesi. L’Istituto Superiore Sanità indica le vallate appenniniche come zone a lieve rischio di endemia gozzigena ed il Casentino (AR) potrebbe essere una valle a rischio. Una causa di gozzo è la carenza di iodio nella alimentazione per cui con questo lavoro si vuole valutare se la popolazione sana casentinese in età fertile ha un adeguato apporto dietetico di iodio. Materiali e Metodi. È stato valutato il livello di ioduria in 200 persone considerate sane in quanto donatori di sangue e quindi, previa visita medica ed esami ematochimici, sono risultati esenti da evidenti patologie acute in atto. Tali persone hanno fornito, previa firma del consenso informato, un campione di urina per la determinazione della ioduria. I soggetti in esame erano provenienti da tutte le zone della valle e per il 68% erano di sesso maschile. Risultati. I valori di ioduria riscontrati dimostrano una amplia dispersione (minimo: 17 mcgr/die - massimo: 312 mcgr/die) ed un valore medio di 75.43 mcgr/die.. Non vi sono significative differenze nella escrezione urinaria di iodio tra maschi e femmine. Il 45.4% dei donatori riferiva di fare uso abituale di sale iodato. Conclusioni. Il valore medio di ioduria riscontrato in soggetti adulti e sani è risultato di 75.43 mcg/die e quindi, in base a quanto indicato dalla OMS, si tratta di zona a rischio di endemia gozzigena di grado 1 (dal 10% al 19.9% di popolazione potrebbe sviluppare un gozzo palpabile). Va comunque ricordato che dal 2005 è in vigore una legge finalizzata alla prevenzione del gozzo endemico che favorisce l’ uso del sale iodato e quindi potrà essere utile ripetere, tra qualche anno, lo stesso studio. Osteoporosi nel paziente diabetico A. Montagnani, M. Alessandri, M. Cipriani U.O. Medicina Interna, Ospedale Misericordia, Grosseto 41 64 Il Diabete mellito (DM) e le fratture interessano un’ampia popolazione di adulti ed anziani. Recenti studi hanno dimostrato come il diabete tipo 1 (DM1) e quello di tipo 2 (DM2) siano associati ad un rischio di frattura aumentato rispetto alla popolazione generale. I pazienti con DM1 mostrano una riduzione della densità minerale ossea (BMD), al contrario di quanto si osserva nel DM2. L’apparente contraddizione di una maggiore BMD ed un incremento dell’incidenza di frattura nel DM2 potrebbe essere dovuta al fatto che a parità di densità ossea il paziente con DM2 mostra una maggiore fragilità ossea. Infatti, studi su modelli animali hanno dimostrato che il tessuto osseo del paziente diabetico ha caratteristiche di resistenza alla sollecitazione fisica significativamente minori rispetto alla popolazione generale. Inoltre, la maggiore tendenza a cadere e le numerose comorbilità presentate dai pazienti diabetici sono altre possibili cause dell’aumento di incidenza delle fratture osteoporotiche nel DM. Il controllo metabolico del paziente con DM sembra avere effetti positivi sul metabolismo osseo. Risultati di trial clinici hanno dimostrato che l’impiego di antidiabetici orali come la metformina e la glibenclamide riducono il rischio di frattura, al contrario i tiazolidinedioni (TZD) aumentano lievemente il rischio di frattura nelle donne in postmenopausa, ma non nell’uomo. I TZD riducono la formazione ossea aumentando la formazione di adipociti a scapito della componente osteoblastica a partire dalla cellula mesenchimale comune. Una migliore conoscenza di meccanismi con i quali il DM ed il suo trattamento influenzano il metabolismo osseo potrebbe migliorare la prevenzione delle frattura ossea nel paziente diabetico. Un caso di coma chetoacidosico in un alcolista F. Pieralli, L. Sammicheli, F. Luise, V. Verdiani, E. Catini, O. Para, F. Bacci, C. Nozzoli Medicina Interna e d’Urgenza – AOU Careggi, Firenze Introduzione. Il coma si verifica nel 10% delle chetoacidosi diabetiche. Presentiamo un caso di insolita persistenza di coma nonostante la normalizzazione del quadro metabolico. Motivo del ricovero. Uomo di 47 anni, giunge dal DEA con diagnosi di coma chetoacidosico. Anamnesi. diabete mellito. Etilismo cronico. EO Scadenti condizioni igieniche, alitosi etilica, mucose disidratate. Assenti segni di trauma, assenti segni neurologici focali, pupille reagenti alla luce, riflesso corneale presente; Babinsky assente, ROT torpidi e simmetrici. Assenti segni di irritazione meningeale. Restante EO nei limiti. GCS 6. FR 42 min; FC 130 min R; PA 105/90 mmHg; SatO2 99%; TC 35,5 °C.. Decorso. TC cranio, Rx torace e ecaoddome negativi. ECG: Tachicardia sinusale 130 min. Glicemia 721 mg/dL; Etanolemia ai limiti superiori, ammonio nella norma, GB 18.000/mm3. Quadro di laboratorio (EGA, es. urine) all’ingresso di chetoacidosi diabetica. Nelle 12 h successive il quadro metabolico si normalizza con infusione di liquidi ed insulina, ma il quadro neurologico rimane invariato con un GCS massimo di 8 senza segni neurologici focali. Una nuova TC risulta sempre negativa. Si esegue rachicentesi: liquor limpido, proteinorrachia, leucocitosi (800 elementi/mm3). Isolata Listeria monocytogenes. Commento. Nel coma chetoacidosico il quadro neurologico si normalizza rapidamente con il normalizzarsi del quadro metabolico. Se ciò non accade è necessario ricercare approfonditamente delle concause. L’infezione da L. monocytogenes è una causa emergente di meningo-encefalite specie in pazienti immunodepressi e defedati, spesso resistente alla terapia empirica con cefalosporine. 42 La subintensiva internistica dipartimentale nell’azienda ospedaliero-universitaria Careggi F. Pieralli, A. Mancini, F. Luise, V. Verdiani, E. Catini, O. Para, M. Grazzini, C. Nozzoli Medicina Interna e d’Urgenza – AOU Careggi, Firenze Introduzione e scopo dello studio. L’organizzazione per intensità di cure vede il ruolo della Medicina Interna mutare dedicandosi sempre più alla gestione di malati critici. Lo scopo di questo studio è stato quello di valutare la casistica osservata in una Subintensiva Internistica Dipartimentale (SID). Materiali e metodi. In questo studio presentiamo la casistica dei primi 6 mesi di attività (giugno 2008agosto 2009). La SID è costituita da letti con possibilità di monitoraggio continuo invasivo e non invasivo delle funzioni vitali. Un medico è dedicato h 8-20, mentre h 20-8 il medico è di guardia per l’intero reparto. Un infermiere è dedicato all’assistenza di 4 pazienti h 24. Risultati. In totale sono stati ricoverati 317 pazienti (maschi 84, 64.6%); età media 65.5+19.3 anni) provenienti da: Pronto Soccorso (n=152, 48.8%), Rianimazione DEA (n=97, 28.7%), Reparti Medici (n=50, 16.7%), altre Rianimazioni (n=18, 5.8%). La diagnosi principale è stata: Sepsi severa/shock settico (n=45, 14.2%), Politrauma (n=73, 22.8%), Insuf. Respiratoria (n=43, 13.6%), Scompenso cardiaco (n=36, 11.4%), Polmonite (n=29, 9.2%), S. emorragica acuta (n=12, 3.8%), Aritmia (n=8, 2.5%), S. coronarica acuta (n=12, 3.8%), Stroke (n=10, 3.1%), Tromboembolia polmonare (n=5, 1.5%), miscellanea (44, 14.1%). La degenza media è stata di 6.0+5.8 giorni. Sono deceduti 23 pazienti (7.2%); 10 pazienti (3.1%) sono stati trasferiti in Rianimazione. Conclusioni. Il medico internista, per le peculiari capacità di inquadramento e trattamento delle molteplici patologie, svolge un ruolo centrale nella gestione del malato critico. La SID ha un ruolo peculiare nella moderna concezione di ospedale “per acuti” organizzato per livelli di intensità di cure. 43 65 Un caso di mielite trasversa paraneoplastica associata a carcinoma della mammella F. Pieralli, A. Mancini, F. Luise, T. Fintoni, V. Verdiani, E. Catini, O. Para, M. Castelli, C. Nozzoli Medicina Interna e d’Urgenza – AOU Careggi, Firenze 44 Introduzione. La mielite trasversa (MT) è una rara sindrome paraneoplastica (SPN). Presentiamo un caso di una paziente con MT cervico-dorsale e carcinoma mammario. Motivo del ricovero. LF, donna, 46 anni, giunge alla nostra osservazione per parestesie e ipostenia degli arti inferiori, associate a disestesia dorsale. Anamnesi. Pregressa gravidanza gemellare a termine. Quattro mesi prima trattamento con radioiodio per ipertiroidismo autoimmune. EO: afebbrile, GCS 15. Ipostenia agli arti inferiori, più marcata a dx, Babinsky a dx, ipereflessia destra, non segni di meningismo, livello sensitivo T5-T6. Nodulo mammario solido nel QSE destro, con adenopatia ascellare omolaterale. Nei limiti il restante EO. Decorso. Una EMG/PEM ed una RMN del midollo hanno evidenziato segni compatibili con MT a livello C5-C7. L’esame chimico-fisico del liquor è risultato normale; negativa la ricerca di agenti infettivi e bande oligo-clonali. ANA e ENA negativi. Niente di rilevante agli esami ematochimici; gli anticorpi onconeurali ANNA1-2 sono risultati negativi, gli ANNA-3 dubbi. L’agobiopsia percutanea ha confermato la diagnosi di carcinoma mammario con metastasi linfonodali omolaterali sospettato all’EO. È stata eseguita terapia con boli di steroidi ad alto dosaggio con remissione quasi completa dei disturbi neurologici. Commento. La MT è una rara sindrome neurologica, la cui eziologia più frequente è post-infettiva o infettiva acuta. L’assenza di elementi diagnostici chiari all’esame clinico e laboratoristico deve sempre far sospettare la possibile origine paraneoplastica e indurre ad una ricerca attenta di una neoplasia occulta. Il contributo diagnostico della ricerca degli antigeni onconeurali non è ancora stabilito con esattezza. L’indice di complessità assistenziale come indicatore di percorso nell’intensità di cura Angela Lesi, Liliana Pasqui, Simona Campioni, Paolo Corradini U.O. Medicina Interna Ospedale di Casteldelpiano AUSL9 Grosseto 45 66 Premessa. Nell’ambito sanitario toscano, in applicazione delle normative Regionali, l’organizzazione dei presidi ospedalieri si sta delineando per “Intensità di Cura”, orientando la propria Mission verso l’acuzie e intensificando la rete territoriale per fornire risposte alla cronicità. Materiali e metodi. L’Ospedale di Casteldelpiano GR da più di due anni è stato organizzato per Livelli di Intensità di Cura, tarati sulla Complessità Assistenziale. Per i Professionisti Infermieri è necessario adottare la registrazione delle attività assistenziali e utilizzare strumenti idonei alla misurazione che rendano oggettivo e visibile l’agire professionalein una visione Multiprofessionale. È stato proposto, studiato e sperimentato un modello originale di valutazione dell’Indice di Complessità Assistenziale (ICA). Risultati. Per l’utilizzo dell’ICA è indispensabile la Pianificazione Assistenziale mediante il PRN87 che permette di codificare un preciso Peso Assistenziale per ogni Paziente, tradotto in uno Score, e ne connota le necessità assistenziali e di conseguenza anche la corrispondente assegnazione ai Settori di Intensità di Cura. Conclusioni. Il modello I.C.A. sperimentato si basa su 4 Dimensioni: patologia, grado di dipendenza, tempo assistenza, complessità della procedura. Può essere applicato all’accettazione e quotidianamente durante la degenza, ogni volta che si modificano i parametri, orientando il percorso di cura e rivalutando eventuali assegnazioni ai livelli assistenziali. La registrazione quotidiana dell’I.C.A. è documentata su un modulo che ricalca l’impostazione della Scheda Unica di Terapia. Affrontare la cronicità: la valutazione multidimensionale in medicina interna Chiara Bozzano, Nunzia Zuccone, Ilario Lancini, Dino Vanni, Claudio Pedace Ospedale San Donato, Arezzo Ipotesi. La Valutazione Multidimensionale (VMD) è una metodologia che ben si adatta ai malati internistici, sempre più frequentemente anziani e pluripatologici, disabili o fragili, spesso cronici riacutizzati. Materiali e metodi. Studio osservazionale di coorte su un gruppo di pazienti ricoverati consecutivamente nei reparti di medicina interna dell’Ospedale di Arezzo. I pazienti sono stati sottoposti a VMD per l’analisi delle condizioni cliniche, funzionali, nutrizionali e socio-demografiche. Risultati. 413 pazienti (56% dei quali donne) con età media di 80 anni (SD 11) e degenza media di 11 giorni (SD 9). I pazienti con Indice prognostico di Flugelman ≥17, erano più anziani (83±12 vs 78±11 anni, p<0,001), avevano degenza media superiore (11±8 vs 10±7giorni, p<0,05) e maggiore dipendenza nelle attività della vita quotidiana prima e dopo l’evento acuto. A un anno dalla dimissione la mortalità complessiva era del 38%. Dall’analisi multivariata la mortalità a un anno è risultata correlata all’età (HR 1,046; 95% IC=1,009-1,083), al numero di re-ricoveri (HR 3,065; 95% IC=1,842-5,101) e di giornate totali di degenza (HR 0,932; 95% IC=0,890-0,977). Anche la maggior perdita di capacità funzionali a seguito dell’evento acuto, si associava a maggior rischio di morte a 12 mesi. Conclusioni. La VMD fornisce un linguaggio semplice, omogeneo e facilmente comprensibile da parte di ogni operatore coinvolto nella gestione del malato cronico. Permette la comprensione dello stato premorboso, la rilevazione di bisogni espressi o inespressi, nonchè considerazioni di tipo prognostico. 46 Poliradicolonevrite acuta mielinopatica sensitivo-motoria a tipo sindrome di Guillain-Barrè in paziente con mielofibrosi idiopatica Gabriele Ciuti, Francesca Peruzzi, Alessandra Pesci, Lorenzo Zanasi, Francesca Pallini, Maria Serena Lombardo, Aureliano Becucci SOD di Medicina Interna 3 – Dipartimento di Emergenza Urgenza AOU Careggi - Firenze Presentiamo il caso di un paziente di sesso maschile di 54 anni giunto alla nostra attenzione per la comparsa improvvisa di ipostenia dei quattro arti con impossibilità a deambulare e disfagia ingravescenti. Il paziente, commerciante, da circa un mese presentava splenomegalia (24 cm diametro maggiore) con marcata leucocitosi neutrofila; in tale occasione l’ematologo aveva escluso una leucemia mieloide cronica (esame FISH BCR/ABL negativo). Non riferita febbre né disturbi gastroenterici. Giunto in reparto, all’esame obiettivo si rilevava epatomegalia (3 cm dall’arco costale) e splenomegalia, ipostenia degli arti superiori e inferiori prossimali, riflessi osteotendinei bicipitale, tricipitale ridotti, rotulei e achillei assenti. La TC del cranio era nei limiti. Gli esami ematici mostravano un incremento degli indici di flogosi con leucocitosi neutrofila spiccata (34% su 39,1 x10^9/L); non erano presenti componenti monoclonali. L’elettromiografia mostrava diffusi segni di sofferenza neurogena tronculare globale, maggiore agli arti inferiori, di aspetto prevalentemente mielinopatico sia sul versante sensitivo che su quello motorio. In accordo con il neurologo, il quadro era suggestivo di una poliradicolonevrite mielinopatica sensitivomotoria a tipo S. di Guillain-Barrè, confermato anche dall’esame del liquor che dimostrava presenza di proteinorrachia. La ricerca dei virus e batteri che comunemente si associano alla patologia era risultata negativa. È stata iniziata infusione di immunoglobuline e boli di corticosteroidi per ev con progressivo miglioramento clinico. In considerazione della leucocitosi e del recente rilievo di splenomegalia, è stata effettuata una biopsia osteo-midollare (BOM) con rilievo di fibrosi midollare e mutazione Jak-2 all’esame genetico suggerendo la diagnosi di mielofibrosi idiopatica. Al momento della dimissione, il paziente presentava netto miglioramento clinico e deambulava autonomamente. In conclusione, la discussione di questo caso clinico è interessante perché ad oggi non esiste in letteratura alcuna associazione tra la S. di Guillain-Barrè e la mielofibrosi idiopatica. 47 67 Clonie dell’emivolto di sinistra: unica manifestazione clinica di un meningioma M. S. Lombardo, V. Nanni, F. Peruzzi, A. Pesci, L. Zanasi, R.Fedi AOU Careggi di Firenze 48 68 Il meningioma è il prototipo dei tumori extrassiali e rappresenta il 15-20% dei tumori endocranici primitivi. Coinvolge generalmente la quinta-sesta decade di età e nel 50% dei casi interessa la convessità emisferica. Riportiamo il caso di una paziente di 69 anni ricoverata per clonie a carico dell’emivolto sinistro iniziate circa 12 ore prima, avvenute in più episodi della durata di circa 30 secondi, a regressione spontanea con residua parestesia della zona interessata. All’ingresso in reparto l’esame obiettivo neurologico era completamente negativo e, durante la visita, si sono verificate clonie dei muscoli mimici dell’emivolto di sinistra, in particolare dell’emilato sinistro del muscolo orbicolare, nel corso delle quali si sono osservate deviazione della rima buccale e della lingua verso sinistra, a regressione spontanea. La paziente non ha mai perso coscienza. La TC cranio diretta eseguita in regime di urgenza non ha evidenziato alterazioni a carico delle strutture encefaliche. Un EEG urgente ha rilevato, su aree anteriori destre, la comparsa di un’attività ritmica di basso voltaggio, seguita, sul piano clinico, dalla comparsa di clonie labiali sinistre, della durata di circa 60 secondi. Tale esame risultava perciò indicativo di crisi epilettica parziale. È stata dunque eseguita RMN encefalo con mdc che ha rilevato una lesione espansiva extrassiale, con ampia base di impianto sulla convessità frontoparietale destra, di circa 2 cm di diametro, con disomogenea impregnazione dopo mdc, in rapporto a piccole aree di aspetto cistico. La paziente è stata sottoposta ad intervento neurochirurgico di rimozione della lesione, con dimostrazione istopatologica di un meningioma. In conclusione, l’insorgenza “de novo” di una crisi epilettica parziale in paziente con anamnesi muta per episodi analoghi ed esame obiettivo neurologico negativo nel periodo intercritico, merita approfondimento diagnostico alla ricerca di una lesione espansiva responsabile della manifestazione clinica, anche in caso di Tc cranio diretta negativa. poster infermieri Poster Infermieri 1. La dimissione programmata come strumento di integrazione ospedale territorio S. Ercolini, F. Bottaini, R. Gentili, S. Lucchesi, M. Muratori, G. Panigada U.O.C Medicina Interna Ospedale SS Cosma e Damiano - Pescia Azienda USL3 Pistoia Pag. 73 La medicina interna oggi: come è cambiato il ruolo dell’infermiere nella gestione del paziente nell’ospedale organizzato per livelli di intensità di cura Cinzia Lassi, Barbara Tedeschi, Natalia Herrera Area Medica Asl 11 Empoli " 73 IL PIEDE DIABETICO: PROTOCOLLO PER LA PREVENZIONE E CURA DELLE ULCERE IN SPERIMENTAZIONE PRESSO L’U.O. MEDICINA E DH MEDICO DI SANSEPOLCRO Sara Mercatelli, Doriana Fonti, Brunella Del Furia Ospedale Sansepolcro Ausl8- Arezzo " 74 IL DITO SULLA PIAGA: PROTOCOLLO SULLA PREVENZIONE E GESTIONE DELLE LESIONI DA PRESSIONE IN ATTO PRESSO U.O. MEDICINA DELLA VALTIBERINA Sara Mercatelli, Rosa Belfiore, Doriana Fonti Ospedale Sansepolcro Ausl8- Arezzo " 74 5. Chronic Care Model dell’Ipertensione Arteriosa: ruolo dell’Infermiere Veronica Cincinelli *, Salvatore. Lenti **, Paolo Corradini ***, Patrizia Monaco * * Corso di Laurea Infermieristica Arezzo, ** Centro Ipertensione Arteriosa USL8 Arezzo, *** Medicina Interna USL9 Ospedale Casteldelpiano " 75 6. See and Treat e rialzi pressori in Pronto Soccorso Susanna Pietrelli, Salvatore Lenti Medicina d’Urgenza – Ospedale San Donato USL8 Arezzo " 75 7. Riorganizzazione dell’aria dell’emergenza: quale impatto organizzativo ha determinato l’istituzione dei Posti letto di Medicina d’urgenza e Accettazione presso l’area dell’emergenza-urgenza dell’ospedale San Donato di Arezzo Roberto Francini & Gruppo Infermieri S.C. Medicina e Chirurgia d’urgenza e accettazione Asl 8 Arezzo S.C. Medicina e Chirurgia d’urgenza e accettazione " 76 2. 3. 4. poster infermieri 71 Pag. 77 8. " 77 9. " 78 La medicina interna oggi: cosa è cambiato? R. Arrighi, A. Balatresi, S. Faraoni, L. Giuliani, E. Iacopini, G. Bagnoli, D. Nidiaci, S. Rossi, V. Spada, E. Passerini Infermieri Area Medica, Asl 11 Empoli LA MEDICINA INTERNA OGGI: Esperienza di disease management dello scompenso cardiaco Stefania Stoppioni, Donatella Lenzi, Mariangela Altieri, Giuseppe Pettinà Medicina I - Ospedale di Pistoia 10. USO DEI PICC IN REPARTO DI MEDICINA INTERNA: LA NOSTRA ESPERIENZA Elisabetta Landi, Serena Lotti U.O. Medicina Interna – Ospedale Santa Maria Nuova Firenze " 78 11. LA CARTELLA CLINICA INTEGRATA COME STRUMENTO MODERNO DI GESTIONE DEL RICOVERO Simona Cambioni, Angela Lesi, Liliana Pasqui, Paolo Corradini U.O. Medicina Interna Ospedale di Casteldelpiano AUSL 9 Grosseto " 79 12. LA FRAGILITÀ SOCIALE NEL PAZIENTE RICOVERATO: ITEMS DI DIMISSIONE DIFFICILE E INDICATORI DI PROCESSO Personale Infermieristico U. O. Medicina Generale e Degenza Breve Asl 11 Empoli " 79 13. APPLICABILITÀ DEL SIX-MINUTE WALK TEST NEI REPARTI DI MEDICINA INTERNA: Un’esperienza infermieristica E. Russo, A. Chiarello, F. Martelli, L. Cini UO SC Medicina Generale 1 – ASL 6 Livorno La dimissione programmata come strumento di integrazione ospedale territorio S. Ercolini, F. Bottaini, R. Gentili, S. Lucchesi, M. Muratori, G. Panigada U.O.C Medicina Interna Ospedale SS Cosma e Damiano - Pescia Azienda USL3 Pistoia Premesse. Alta la percentuale di pazienti cronici con polipatologia ricoverati in Medicina Interna che, anche in considerazione della sempre minor durata delle degenze medie, al momento della dimissione presentano ancora problemi assistenziali aperti che richiedono tempestiva attivazione dei servizi territoriali Materiali e metodi. Sono stati presi in considerazione i ricoveri del primo semestre del 2009 con analisi della documentazione integrata medico/infermieristica e dell’archivio informatico del Servizi Territoriale Dimissioni Ospedaliere Programmate (STDOP) per la caratterizzazione degli interventi richiesti. Risultati. Nel primo semestre 2009 sono stati ammessi 1620 pazienti nella U.O. di Medicina Interna. Di questi il 45% è stato segnalato al STDOP. Gli interventi richiesti sono risultati nel 10% terapia e.v. a domicilio, nel 25% continuità assistenziale per patologie croniche, 10% per necessità di ausili/presidi a domicilio. Conclusioni. La valutazione mirata e tempestiva delle esigenze del paziente consente d’identificare il grado di rischio di dimissione difficile o ritardata; è utile in tal senso elaborare un piano personalizzato con strategie e tempistica coinvolgendo il paziente e i familiari con presa in carico dei problemi presenti e potenziali per attivare le risorse necessarie alla dimissione e assicurare il successivo follow – up domiciliare. Globalmente risulta appropriata la gestione delle dimissioni programmate, con interpretazione adeguata della domanda; giusta valutazione del livello di dipendenza del paziente e conseguentemente degli interventi sanitari richiesti. 1 La medicina interna oggi: come è cambiato il ruolo dell’infermiere nella gestione del paziente nell’ospedale organizzato per livelli di intensità di cura Cinzia Lassi, Barbara Tedeschi, Natalia Herrera Area Medica Asl 11 Empoli Ipotesi. Il modello organizzativo dell’intensità di cura voluto dalla Regione Toscana con la Legge n. 40 del febbraio 2005 ha dato il via ad un grande cambiamento che interessa tutta la sanità in generale. L’obiettivo è la centralità dell’utente con tutti i suoi bisogni, espressi o meno; attraverso l’implementazione di questo modello organizzativo emergono nuove figure con competenze tali da prendersi cura della persona, dei suoi problemi e di come questi possono essere affrontati durante il ricovero per garantire un adeguato decorso a livello domiciliare, tramite la compliance del singolo utente e/o del care-giver e dell’intero nucleo familiare evitando così frequenti e ripetuti ricoveri fonte di conseguenze spesso anche gravi, che interessano i singoli utenti e le loro famiglie. Materiali e metodi. La figura dell’infermiere, da sempre importante per il paziente affetto da patologia cronica, assume quindi un ruolo centrale nella rilevazione e gestione di una serie di situazioni che richiedono un intervento di educazione/informazione rivolto al singolo utente e/o al care-giver per valutare e trasferire le competenze necessarie per la gestione ottimale in ambito domiciliare della patologia e delle sue complicanze. Risultati. Una corretta valutazione della situazione dell’utente e delle competenze che questo o il caregiver devono necessariamente possedere per dare risposte pertinenti ai bisogni emersi, è da ritenersi un comportamento fondamentale per permettere una maggiore permanenza al domicilio riducendo gli episodi di ripetuta ospedalizzazione. Conclusioni. La valutazione da parte dell’infermiere, delle competenze possedute dall’utente e/o caregiver, per la gestione di situazioni croniche, è fondamentale per individuare quelle che sono le necessità di tipo educativo/informativo per ridurre o evitare i ripetuti ricoveri, che sono generati spesso da una scarsa capacità di affrontare e gestire i bisogni a livello domiciliare. 2 73 Il piede diabetico: protocollo per la prevenzione e cura delle ulcere in sperimentazione presso l’U.O. Medicina e DH medico di Sansepolcro Sara Mercatelli, Doriana Fonti, Brunella Del Furia Ospedale Sansepolcro Ausl8- Arezzo 3 Ipotesi. Grazie ai progressi nella cura della patologia del diabete le aspettative di vita dei pazienti diabetici sono sovrapponibili a quelle della popolazione non diabetica. Tuttavia si deve prestare particolare attenzione alle complicanze croniche del diabete, tra queste quella del piede diabetico è una delle maggiori in quanto è tra le prime cause di amputazione e di conseguenza di ricoveri ospedalieri. L’utilizzo di idonee medicazioni, di un accurato piano di educazione sanitaria personalizzato e il coinvolgimento di tutte le professionalità necessarie, possono incidere in modo significativo sull’evoluzione di tale patologia. Materiali e metodi. In seguito alla rilevazione del fabbisogno formativo degli operatori dell’U.O. Medicina e DH Medico è stato espresso il desiderio di approfondire le conoscenze sulla gestione del piede diabetico, è stata quindi individuata un’infermiera per effettuare uno stage presso l’ambulatorio del piede diabetico U.O. diabetologia di Arezzo. Successivamente abbiamo svolto un’accurata revisione bibliografica (Pub Med, Med Line). Questo percorso ci ha permesso di elaborare un protocollo sulla prevenzione e cura del piede diabetico. Attualmente e in fase sperimentale presso l’U.O. Medicina e DH Medico di Sansepolcro. Risultati. I pazienti sono stati motivati all’autocontrollo, così pure il contesto familiare, c’è una attenta informazione ed educazione sulle regole fondamentali per la prevenzione delle lesioni del piede. Il protocollo sulle medicazioni si sta dimostrando un valido strumento nel trattamento di tali lesioni. Conclusioni. In un ottica di benchmarking, di confronto e diffusione delle conoscenze finalizzato alla buona pratica, la gestione del piede diabetico rappresenta sicuramente un banco di prova nella valutazione della qualità dell’assistenza e nella soddisfazione dell’utente. Il ruolo dell’infermiere assume naturalmente un ruolo cruciale all’interno di questo percorso. Il dito sulla piaga: protocollo sulla prevenzione e gestione delle lesioni da pressione in atto presso U.O. Medicina della Valtiberina Sara Mercatelli, Rosa Belfiore, Doriana Fonti Ospedale Sansepolcro Ausl8- Arezzo 4 74 Ipotesi. Le persone affette da lesioni da pressione ogni anno sono più di 500.000. Chi deve rimanere ricoverato in ospedale a causa di una malattia spesso soffre disagi maggiori non legati ai sintomi del male, ma dell’essere costretti a letto con il rischio di sviluppare piaghe da decubito, laddove non siano già presenti al momento del ricovero. Tale problema potrebbe essere molte volte evitato applicando specifiche regole di prevenzione e trattamento. Materiali e metodi. Dopo aver effettuato un accurata revisione bibliografica (Pub Med, Medline, linee guida della Regione Toscana 2005, linee guida AHRQ), abbiamo provveduto alla redazione di un protocollo inerente la prevenzione e la gestione delle lesioni da pressione. Risultati. Da un anno dall’applicazione del protocollo non abbiamo avuto insorgenza di lesioni da decubito durante il periodo di degenza e, nei pazienti dove le lesioni erano presenti fin dal momento del ricovero c’è stato, nella maggior parte dei casi, un sostanziale miglioramento. Conclusioni. Il problema delle lesioni da pressione può essere evitato applicando scrupolosamente delle regole di prevenzione ed apposite procedure di medicazione; ciò che nella nostra realtà si è rilevato particolarmente importante è stata anche la trasmissione delle informazioni ai colleghi dell’assistenza territoriale attraverso la dimissione infermieristica dove sono descritte le eventuali medicazioni o precauzioni da continuare a domicilio. Chronic Care Model dell’Ipertensione Arteriosa: ruolo dell’Infermiere Veronica Cincinelli*, Salvatore. Lenti**, Paolo Corradini***, Patrizia Monaco* *Corso di Laurea Infermieristica Arezzo, **Centro Ipertensione Arteriosa USL8 Arezzo, ***Medicina Interna USL9 Ospedale Casteldelpiano (GR) Scopo dello studio. L’Infermiere riveste un ruolo fondamentale nel Chronic Care Model dell’ipertensione arteriosa, in quanto si integra nel modello assistenziale come maggior esperto di counseling per un miglior empowerment nella riduzione del rischio cardiovascolare. Metodi. Sulla base di queste premesse è stato formato un Infermiere per la valutazione del carico pressorio, gestione della misurazione clinica della Pressione Arteriosa (PA) e dell’automisurazione, attraverso la formazione e il controllo della compliance terapeutica del paziente; inoltre, attraverso focus group, ha approfondito e delineato i fattori di rischio e lo stile di vita adeguato. Risultati. In un mese sono stati arruolati 120 pazienti affetti da ipertensione arteriosa, 51% uomini e 49% donne, con un’età media di 62 anni: a tutti sono stati raccolti i dati riguardanti le abitudini di vita, i fattori di rischio associati, misurata la PA clinica e somministrati questionari sulla qualità di vita e sulle modalità di automisurazione. Poi in maniera random sono stati suddivisi in 2 gruppi di 60 pazienti: controllo (53% donne e 47% uomini, 60 anni di media) e sperimentale (46% donne e 54% uomini, 63 anni di media). Solo al gruppo sperimentale è stata somministrata la formazione, una volta al mese, con focus group fatti di lezione partecipata. Dopo 3 mesi tutti e 120 pazienti sono stati sottoposti a un post-test. Il gruppo di controllo non ha modificato lo stile di vita, il 42% si è recato dal medico per rialzi pressori, ha misurato una volta al mese la PA ed ha avuto il 40% di cambio terapeutico, nonostante il 60% consideri l’ipertensione una malattia grave. Mentre il gruppo sperimentale ha misurato correttamente una volta alla settimana la PA con 3 misurazioni in ogni seduta, non ha presentato shift farmacologici, il 40% ha smesso di fumare, il 39% ha effettuato una attività fisica regolare, il 48% ha assunto più verdure e meno zuccheri, il 26% ha diminuito di 7 kg il proprio peso corporeo e non si è recato neanche una volta dal proprio medico per rialzi pressori. Infine tutti i pazienti hanno espresso la volontà di continuare questo tipo di strategia educazionale. Conclusioni. Questo nostro studio pilota ha voluto dimostrare come il modello di assistenza integrata a 3 attori porti necessariamente ad un miglior empowerment di educazione sanitaria, in quanto oltre alla figura del Medico soprattutto è l’Infermiere che gestisce in prima persona la formazione e istruzione del paziente, il quale diviene a sua volta lui stesso “esperto” nella gestione del proprio stato di salute, ottenendo una vera e propria certificazione. Tutto ciò potrebbe portare ad un miglioramento in termini di efficienza del sistema (anche sul versante economico-sanitario) per un appropriato utilizzo di farmaci ed interventi. 5 See and Treat e rialzi pressori in Pronto Soccorso Susanna Pietrelli, Salvatore Lenti Medicina d’Urgenza – Ospedale San Donato USL8 Arezzo Scopo dello studio. La Regione Toscana ha approvato, nel 2008, un modello sperimentale di See and Treat in Pronto Soccorso in materia di emergenza sanitaria, in cui si pongono le basi per la riorganizzazione dell’area assistenziale per i codici a bassa priorità ed in cui viene introdotta la figura infermieristica “formata e esperta” nella gestione di alcune patologie in modo da ridurre i tempi di attesa. I rialzi pressori asintomatici, che rappresentano circa il 10% degli accessi in Pronto Soccorso, sono stati inseriti nella delibera regionale come urgenze minori appropriate al trattamento in area See and Treat. Scopo del nostro studio è stato quello di vedere l’applicabilità di questo modello sulla gestione, da parte del Medico e dell’Infermiere in area di See and Treat, dei rialzi pressori asintomatici in una popolazione di cittadini che si sono presentati in Pronto Soccorso. 6 75 Metodi. Sono stati arruolati, in 3 mesi, 284 pazienti (153 M e 131 F, con un’età media di 64.5 anni) che presentavano valori di Pressione Arteriosa (PA) 160/120 mmHg e suddivisi in maniera random in 2 gruppi: il gruppo di controllo gestito dal Medico e il gruppo sperimentale gestito dall’infermiere, nella medesima area di See and Treat. A tutti, dopo un periodo di relax di 10 minuti, è stata misurata la PA clinica in posizione seduta (3 misurazioni a distanza di 2 minuti), effettuata l’anamnesi personale e farmacologica; nessun paziente riferiva sintomatologia associata. Risultati. Nel gruppo di controllo abbiamo ottenuto una riduzione dei valori pressori medi a 148/90 mmHg nel 62% dei pazienti, mentre nel restante 38% (54 pazienti) i valori di PA sono risultati > 160/120 mmHg. Nel gruppo sperimentale invece il 88% dei pazienti ha avuto riduzione dei valori pressori medi a 144/84 mmHg, mentre solo il 12% (17 pazienti) non ha presentato riduzione significativa. Quindi su 284 pazienti solo il 25% (71 pazienti) ha avuto bisogno di ulteriore approfondimento medico. Conclusioni. Questo nostro studio pilota ha voluto confermare la ben nota quasi totalità di assenza dell’effetto camice bianco da parte della misurazione effettuata dall’infermiere, ma ha soprattutto voluto evidenziare come l’utilizzo dell’area di See and Treat da parte di un infermiere adeguatamente formato abbia ridotto i tempi di attesa per i codici a bassa priorità, identificando il See and Treat come un’efficace modalità di risposta assistenziale per quanto riguarda i rialzi pressori asintomatici, al fine di migliorare la qualità precepita e garantendo una pronta risposta medica e/o infermieristica con l’immediata presa in carico del paziente. Il See and Treat richiede naturalmente una puntuale e completa definizione scientifica-professionale e medico-legale. Riorganizzazione dell’aria dell’emergenza: quale impatto organizzativo ha determinato l’istituzione dei posti letto di medicina d’urgenza e accettazione presso l’area dell’emergenza-urgenza dell’ospedale San Donato di Arezzo Roberto Francini & Gruppo Infermieri S.C. Medicina e Chirurgia d’urgenza e accettazione Asl 8 Arezzo S.C. Medicina e Chirurgia d’urgenza e accettazione 7 76 Premessa. Nel Febbraio del 2008 è nata L’U.O. Medicina e chirurgia d’urgenza. Questa nuova struttura ha rivoluzionato l’intera organizzazione dell’ospedale San, Donato di Arezzo, sia in termini di riduzione dei posti letti generali all’interno delle varie U.O. che sulla degenza media per gruppi di ricoveri per gruppi di Drg’s. Scopo. Lo scopo di tale ricerca è quella di analizzare, a distanza di 12 mesi dall’apertura, quale impatto organizzativo ha determinato l’istituzione di 8 posti letto di Medicna d’urgenza e 4 di HDU (Higt dependency Unit), sull’organizzazione generale e come questa abbia portato ad una ridefinizione dell’assetto generale del presidio ospedaliero. Materiali e metodi. Questo disegno di ricerca, è uno studio retrospettivo osservazionale . Per analizzare i dati è stato utilizzato Epi-info; sono stati quindi valutati, sia la distribuzione dei ricoveri per fasce di età, che le patologie, i DRG’S e gli interventi ICD9 CM relativi ai ricoveri del periodo . I dati sono stati poi incrociati con i dati dello stesso periodo precedente all’istituzione della nuova realtà organizzativa. Risultati e conclusioni. Da tale confronto emerge che, oltre ad una evidente riduzione della degenza media per patologia, si è riscontrata una riduzione del Tasso grezzo di ospedalizzazione, con il conseguente aumento, visto i flussi, dell’indice di tour over. Tutto questo ha impattato positivamente sulle strutture di degenza, aumentando l’appropriatezza dei ricoveri. Altro dato emergente è quello che la nuova U.O. ha determinato una ridistribuzione delle risorse, con l’accorciamento dei percorsi e una riduzione dei tempi di risposta ai bisogni di salute della popolazione. D’altro campo il tasso dei ri-accessi a 1-5-7- giorni per la stessa patologia, nonostante la contrazione della degenza media, è sovrapponibile a quello dei ricoveri dei 12 mesi messi a confronto. La medicina interna oggi: cosa è cambiato? R. Arrighi, A. Balatresi, S. Faraoni, L. Giuliani, E. Iacopini, G. Bagnoli, D. Nidiaci, S. Rossi, V. Spada, E. Passerini Infermieri Area Medica, Asl 11 Empoli Nonostante si voglia caratterizzare l’ospedale come luogo privilegiato per la gestione dell’acuzie, non possiamo fare a meno di renderci conto che questo contesto sempre più si occupa e si occuperà della gestione della cronicità. Gli utenti della Medicina Interna, si caratterizzano spesso per avere una età avanzata, condizioni di invalidità legate a patologie croniche e fragilità da un punto di vista sociale. Il bisogno che l’utente o il care giver possa essere educato in modo da portare avanti a livello domiciliare una gestione ottimane della patologia cronica e di tutti i suoi aspetti diventa un aspetto fondamentale nella pianificazione di un programma terapeutico-assistenziale. L’educazione è una delle funzioni proprie dell’infermiere, quindi tale figura si configura come un professionista che può modificare in modo positivo l’evoluzione di una patologia con andamento cronico. Una tra le cause più frequenti di ricovero e re-ricovero, in medicina interna, è lo scompenso diabetico e spesso, nel momento dell’accertamento infermieristico emergono una serie di difficoltà nella gestione domiciliare della patologia legate a scarse conoscenze e a difficoltà nel mantenere valori glicemici a livelli accettabili. Il ruolo dell’infermiere in questi casi diventa fondamentale e consiste nel rilevare il problema e prendere in carico il paziente e/o il care giver non solo informandolo ma attuando un vero e proprio processo educativo per promuovere una modificazione dello stile di vita. 8 La medicina interna oggi: esperienza di disease management dello scompenso cardiaco Stefania Stoppioni, Donatella Lenzi, Mariangela Altieri, Giuseppe Pettinà Ospedale di Pistoia Medicina I Ipotesi. Lo Scompenso Cardiaco (SC) rappresenta uno dei maggiori problemi di salute pubblica dei Paesi industrializzati. In linea con la letteratura esistente, l’èquipe infermieristica del nostro reparto, ha promosso l’attuazione di un progetto multiprofessionale di educazione all’autocura dello SC, al fine di garantire attraverso una migliore gestione della malattia a riduzione della morbilità e il miglioramento della qualità del paziente. Materiali e metodi. Il Medico tutor segnala all’infermiere referente il pz con SC, il quale programma una sessione di counselling in cui viene coinvolto anche il caregiver. Durante il colloquio vengono concordati degli obiettivi da raggiungere per aumentare l’aderenza alla terapia e il riconoscimento dei sintomi precoci dello SC. Al termine viene consegnato materiale informativo e diario di controllo dei parametri vitali. Il rinforzo all’autocura, viene fatto tramite visita ambulatoriale con il medico e contatto telefonico. Risultati. La maggior parte dei paziente presi in esame hanno raggiunto gli obiettivi stabiliti. Conclusioni. Esistono molti studi sullo SC, con raccomandazioni di efficacia più o meno valide. Ma niente alla fine è più vero dell’altro, perché tutti gli studi ottengono dei buoni risultati, semplicemente perché viene presa in carico la persona nella sua complessità. 9 77 Uso dei Picc in reparto di medicina interna: la nostra esperienza Elisabetta Landi, Serena Lotti U.O. Medicina Interna – Ospedale Santa Maria Nuova Firenze 10 Ipotesi. Migliorare la gestione della terapia infusiva negli utenti dei reparti di medicina interna, diminuire i rischi di complicanze, aumentare il comfort dell’utente. Materiali e metodi. Informazione e formazione mirata presso associazioni competenti (GaveCelt), acquisizione della tecnica di impianto e della gestione post-impianto e training di addestramento, disponibilità dell’ecografo in reparto di medicina interna, disponibilità di tutoraggio medico esperto in reparto. Risultati L’uso dei Picc nel reparto ha permesso di garantire il giusto piano terapeutico in pazienti con scarso patrimonio venoso periferico (problematica spesso presente nei pazienti con patologie croniche), e ha facilitato il lavoro dell’infermiere offrendogli un accesso venoso sempre disponibile sia per la terapia che per i prelievi. Non abbiamo risultati quantificabili, essendo l’utilizzo nel nostro reparto estremamente recente. Conclusioni. L’implementazione dell’utilizzo dei Picc sugli utenti dei reparti di medicina interna ha sicuramente apportato un significativo e vantaggioso aiuto nella gestione della terapia infusiva da parte dell’infermiere; ha aumentato la soddisfazione dell’utente, che non è più soggetto ad innumerevoli cambi di accessi venosi periferici; ha diminuito il rischio di complicanze meccaniche alla inserzione e complicanze batteriemiche rispetto ad un catetere venoso centrale diretto La cartella clinica integrata come strumento moderno di gestione del ricovero Simona Cambioni, Angela Lesi, Liliana Pasqui, Paolo Corradini U.O. Medicina Interna Ospedale di Casteldelpiano AUSL 9 Grosseto 11 78 Ipotesi. Nell’ambito dell’organizzazione dell’Ospedale per Intensità di Cure è necessario uno strumento adeguato per la gestione dell’assistenza: la Cartella Clinica Integrata (C.C.I.) Medico-Infermieristica, completamente nuova ed originale, che risponde alle esigenze attuali dell’Assistenza Medica ed Infermieristica. Materiali e metodi. La C.C.I. è composta da Schede integrate medico-infermieristiche per la rilevazione dei dati all’ingresso; un Diario del decorso compilato contestualmente da tutte le figure professionali contraddistinte da appositi timbri; Piano di Assistenza personalizzato; Scheda di Terapia Unica; Lettere di dimissione Medica e Infermieristica; Schede opzionali per rilevazione lesioni da pressione, valutazione del dolore, terapia anticoagulanti orali. Risultati. La C.C.I. dopo una fase sperimentale di 11 mesi, da Settembre 2005, viene applicata sul 100% dei ricoverati nell’Area Unica di Degenza di Casteldelpiano, AUSL 9, Grosseto. Conclusioni. La C.C.I. ha modificato profondamente la prassi medica e infermieristica, ha consentito una concreta applicazione dei moderni principi di gestione degli atti clinici, ha reso visibile e trasparente il Processo di Nursing. Tutti gli operatori dell’equipe dispongono in tempo reale delle informazioni per l’assistenza. La fragilità sociale nel paziente ricoverato: items di dimissione difficile e indicatori di processo Personale Infermieristico U. O. Medicina Generale e Degenza Breve Asl 11 Empoli Uno dei fenomeni che assorbe risorse sia in termini umani che economici e che richiede una attenzione e una monitorizzazione sempre maggiore è l’aumento progressivo della popolazione anziana associato ad un costante aumento degli anziani fragili e non autosufficienti. La condizione di fragilità sociale nell’anziano spesso rimane latente e non viene prontamente individuata quando il paziente si ricovera in ospedale: questo genera ritardi nella dimissione con l’attivazione di una serie di conseguenze che si riflettono in modo negativo sull’utente stesso e sulla sua famiglia. La necessità di individuare al tempo zero e quindi già al momento del ricovero, l’esistenza di tale situazione attraverso l’utilizzo di specifici items, diventa condizione indispensabile per garantire una dimissione nei tempi dovuti, un rientro al domicilio in condizioni di sicurezza e una riduzione dei costi. Gli ambiti in cui è necessario indagare per rilevare un quadro di fragilità sociale sono: 1) Quanto l’evento acuto che ha determinato il ricovero può modificare in modo negativo la condizione clinica pre-esistente (molto, poco, per niente); 2) Con chi viveva la persona prima del ricovero (solo, in famiglia, con persona dedicata, in struttura); 3) In quale condizione di autonomia era la persona prima dell’evento (autonoma, badato, assistito, dipendente). L’accertamento delle condizioni generali della persona effettuato dal personale infermieristico al momento del ricovero,diventa uno strumento importante per la presa in carico della utente e per poter pianificare una serie di interventi mirati volti a dare una risposta al problema legato alla fragilità sociale. 12 Applicabilità del six-minute walk test nei reparti di medicina interna: un’esperienza infermieristica E. Russo, A. Chiarello, F. Martelli, L. Cini UO SC Medicina Generale 1 – ASL 6 Livorno Ipotesi. Numerosi pazienti ricoverati in Medicina Interna, a causa dell’età e delle numerose comorbidità spesso presenti, non possono essere spesso valutati sotto il profilo funzionale. Il Six Minute Walk Test (6MWT) è un test validato per esaminare la performance di pazienti affetti da varie patologie di interesse internistico. In questo studio abbiamo applicato il test ad una serie di pazienti ricoverati per patologie acute, affidandone l’esecuzione per intero al personale infermieristico. Materiali e metodi. Pazienti ammessi in un Reparto di Medicina Interna per acuti sono stati sottoposti al 6-MWT come da linee guida dell’American Thoracic Society. Criteri di inclusione sono stati lo scompenso cardiaco, la BPCO, l’arteriopatia obliterante periferica. FC e saturazione % dell’ossigeno sono stati misurati con pulsossimetro BCI International, Waukesha, Wisconsin; la PA è stata misurata in posizione seduta con sfigmomanometro a mercurio. Dispnea e fatica sono stati misurati con la scala di Borg. La distanza percorsa è stata calcolata in metri. Risultati. I parametri registrati prima e dopo il test sono stati analizzati con metodiche di statistica parametrica e non parametrica. Conclusioni. Il 6-MWT è risultato di facile applicazione e gradito sia ai pazienti che agli operatori 13 79 Grafica e stampa: L.P. Grafiche -Ar Redazione: Salvatore Lenti U.O. Medicina d’Urgenza Arezzo