viii congresso regionale fadoi toscana

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SOCIETÀ
SCIENTIFICA
DI MEDICINA
INTERNA
FADOI TOSCANA
FEDERAZIONE DELLE ASSOCIAZIONI DEI DIRIGENTI OSPEDALIERI INTERNISTI
Cari Amici e Colleghi
è con grande piacere che vi invito a partecipare al nostro VIII Congresso Regionale. La
FADOI Toscana in questi ultimi anni è molto cresciuta e maturata e rappresenta un punto
di riferimento sicuro per gli Internisti ospedalieri ed anche una interfaccia affidabile a
livello istituzionale.
La nostra “mission” è l’aggiornamento e la qualificazione dell’Internista ospedaliero in
aperto confronto di esperienze con l’Università e con le specialistiche Mediche e con la
componente infermieristica.
Questo congresso, organizzato magistralmente dai colleghi di Arezzo coordinati da
Pedace e Lenti, vuole essere l’inizio di un confronto costruttivo con le società scientifiche
a noi vicine che hanno il loro campo di interesse prima e dopo il ricovero del paziente in
Medicina Interna.
Ma prima di tutto il congresso è un congresso congiunto con ANIMO cioè con gli infermieri
di Medicina Interna, i nostri compagni quotidiani nel duro lavoro in corsia per assistere un
malato sempre più polipatologico e complesso.
Lo stretto rapporto fra FADOI e ANIMO è un valore aggiunto che FADOI ha rispetto ad
altre società e che deve essere ulteriormente sviluppato.
Nell’ospedale per intensità di cure la funzione infermieristica è centrale e contribuire a far
crescere la professionalità degli infermieri ci permetterà di avere in un prossimo futuro dei
professionisti adeguati a gestire i nuovi ospedali organizzati secondo il livello di intensità
assistenziale.
I simposi congiunti con SIMEU e SIMG recuperano l’unitarietà del percorso che l’ammalato
fa dall’arrivo al pronto soccorso alla dimissione nelle strutture territoriali e a domicilio. La
corretta gestione del percorso diagnostico-terapeutico è la base per il successo della cura
dei nostri pazienti. Confrontarsi con il Medico d’ Urgenza sulla terapia del paziente critico
e con il MMG sulla possibilità di avvio di un valido Chronic Care Model è cruciale perché
noi possiamo svolgere al meglio il nostro compito di internisti ospedalieri. Il congresso
è inoltre articolato con una tavola rotonda sulle prospettive di didattica nelle Medicine
Interne ospedaliere. La didattica nelle nostre UO rappresenta una frontiera da superare
se vogliamo dare maggior respiro ai nostri reparti e preparare adeguatamente gli internisti
del futuro. La tavola rotonda è svolta al massimo livello Universitario, FADOI e ANIMO.
Il congresso è completato con una serie di relazioni su argomenti “caldi” svolti da esperti
della materia con un discussant FADOI. Anche quest’anno sarà presente una sessione
Poster con la pubblicazione in un volume che sarà consegnato durante il congresso. è
prevista anche la premiazione dei miglior quattro poster due medici e due infermieristici.
Questo darà spazio per esprimersi a tutti in particolare ai più giovani.
Il congresso sarà un appuntamento irrinunciabile per gli Internisti ospedalieri toscani, un
grande momento di aggiornamento e di incontro e quindi vi aspetto numerosi ad Arezzo
ed auguro a tutti un buon lavoro.
Giancarlo Landini
Presidente FADOI Toscana
CONSIGLIO DIRETTIVO FADOI Toscana
PRESIDENTE
Giancarlo Landini (Firenze)
REFERENTI AREE
ENDOCRINO-METABOLICA
Rossella Nassi (Sansepolcro - AR)
PAST PRESIDENT
Carlo Nozzoli (Firenze)
Claudio Pedace (Arezzo)
Raffaele Laureano (Firenze)
ECOGRAFIA-ECODOPPLER
Grazia Panigada (Pescia - PT)
ETICA E BIOETICA
Alessandro Tafi (Volterra - PI)
SEGRETARIO
Alessandro Pampana (Cecina - LI)
CONSIGLIERI
Massimo Alessandri (Grosseto)
Paolo Biagi (Montepulciano - SI)
Marco Cei (Livorno)
Simone Cencetti (Firenze)
Rinaldo Innocenti (Firenze)
Paola Lambelet (Lido di Camaiore -LU)
Salvatore Lenti (Arezzo)
Giuseppe Lombardo (Empoli - FI)
Grazia Panigada (Pescia - PT)
Emilio Santoro (Bibbiena - AR)
Alessandro Tafi (Volterra - PI)
Stefano Tatini (Firenze)
RAPPRESENTANTE ANIMO
Moira Bonfanti (Empoli - FI)
IPERTENSIONE E PREVENZIONE CARDIOMETABOLICA
Paolo Corradini (Castel del Piano - GR)
MALATTIE GASTROENTEROLOGICHE
Guidoantonio Rinaldi (Barga - LU)
MALATTIE ED INFEZIONI RESPIRATORIE
Guido Vagheggini (Volterra - PI)
MALATTIE ONCOEMATOLOGICHE E CURE PALLIATIVE
Marcello Cipriani (Grosseto)
MALATTIE REUMATICHE
Riccardo Cecchetti (Pontedera - PI)
SCOMPENSO CARDIACO
Giuseppe Pettinà (Pistoia)
STROKE
Stefano Spolveri (Firenze)
EMOSTASI E TROMBOSI
Rino Migliacci (Cortona - AR)
MALATTIA DIABETICA
Giuseppe Seghieri (Pistoia)
SOCIETÀ
SCIENTIFICA
DI MEDICINA
INTERNA
FADOI TOSCANA
MALATTIE EMATOLOGICHE
Paola Lambelet (Lido di Camaiore -LU)
MEDICINA CRITICA E ORGANIZZAZIONE OSPEDALIERA
Carlo Bartolomei (Livorno)
EPIDEMIOLOGIA E STATISTICA
Salvatore Bocchini (Montepulciano - SI)
TERAPIA DEL DOLORE
Marcello Cipriani (Grosseto)
SINCOPE
Simone Cencetti (Firenze)
SEGRETERIE
ORGANIZZATORE
Dr. Claudio Pedace - Arezzo
Tel. 0575255800
[email protected]
comitato organizzatore
Dr. Alberto Cuccuini
Dr. Rino Migliacci
Dr.ssa Rossella Nassi
Dr.Luciano Ralli
Dr. Emilio Santoro
Dr. Dino Vanni
Presidente Fadoi Toscana
Dr. Giancarlo Landini
Consiglio Direttivo Fadoi Toscana
Segreteria Scientifica Fadoi
Dr. Salvatore Lenti
U.O. Medicina di Urgenza
AUSL 8 Arezzo
Tel. 3393841050
[email protected]
Dr.ssa Milena Bernardini
U.O. Medicina Interna e Geriatria
AUSL 8 Arezzo
Tel. 0575255605 – 255501
[email protected]
Segreteria Scientifica Animo
Nunzia Zuccone
AUSL 8 Arezzo
Tel. 3358216673
[email protected]
Moira Bonfanti
AUSL 11 Empoli
Tel. 3395236682
[email protected]
Commissione Posters
Dr. G.C. Landini, Dr. B. Alterini, Dr. S. Lenti,
N. Zuccone, M. Bonfante
Segreteria Organizzativa
Ti. Gi. Srl
Via Udine, 12 - 58100 Grosseto
Tel. 0564412038 – Fax 0564412485
[email protected]
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VIII CONGRESSO REGIONALE
FADOI TOSCANA
Venerdi 16 Ottobre
09.00 Saluti delle autorità ed
introduzione ai lavori
GC. Landini (Firenze), A.
(Legnano)
Mazzone
I SESSIONE
Moderatori: R. Laureano (Firenze)
M. Felici (Arezzo)
09.10 Tiroide e Cuore
R. Nassi (Arezzo)
Discussant: G. Pettinà (Pistoia)
09.30 La gestione delle mielodisplasie in
Medicina Interna
M. Cei (Livorno)
Discussant: P. Lambelet (Viareggio)
09.50 Ruolo dell’interleuchina-6
nell’artrite reumatoide. Il Concetto
di remissione: come ottenerla?
Cosa i grandi trials clinici ci hanno
insegnato?
M. Benucci (Firenze)
Discussant: A. Mannoni (Firenze)
10.10 Ruolo dell’interleuchina-6
nell’artrite reumatoide. Correlazione
tra danno strutturale e disabilità
nell’artrite reumatoide.
Come Prevenirla?
L. Sabadini (Arezzo)
Discussant: A. Mannoni (Firenze)
10.30 Osteoporosi: formazione ossea
nuovo target terapeutico
B. Frediani (Siena)
Discussant: L. Fattorini (Firenze)
10.50 Confronto dibattito tra il pubblico e gli
esperti
II SESSIONE
Moderatori: D. Vanni (Arezzo)
M. Cipriani (Grosseto)
11.20 Protocollo Fadoi Toscana per la
prevenzione del TEV in Medicina
Interna
GC. Landini (Firenze)
Discussant: C. Frigerio (Arezzo)
11.40 Ipertensione nell’anziano:
strategie farmacologiche fra
politerapia e prevenzione secondaria
S. Taddei (Pisa)
Discussant: P. Corradini (Castel del Piano)
12.00 Infezioni difficili in Medicina
Interna: le polmoniti dell’anziano
I. Iori (Reggio Emilia)
Discussant: S. Pampana (Cecina)
12.20 Appropriatezza prescrittiva
in Medicina Interna
A. Tagliabracci (Ancona)
Discussant: G. Brunelleschi (Lucca)
12.40 Confronto dibattito tra il pubblico e gli
esperti
13.15 Quick lunch
III SESSIONE
Moderatori: G. Rinaldi (Barga),
A. Morettini (Firenze)
14.30 La colecistite: terapia antibiotica o
terapia chirurgica d’ urgenza ?
A. Tafi (Volterra)
Discussant: C. Passaglia (Pisa)
14.50 Il punto sull’intensità di cure
C. Cappelletti (Firenze)
Discussant: G. Lombardo (Empoli)
IV SESSIONE
SIMPOSIO FADOI - ANIMO - SIMEU
PRIMA PARTE
Moderatori: GC. Landini (Firenze),
S. Grifoni (Firenze)
15.15 L’embolia polmonare: la diagnosi
S. Vanni (Firenze)
15.25 L’embolia polmonare: la terapia
G. Iannelli (Arezzo)
15.40 La trombolisi e la terapia
in Stroke Unit
S. Spolveri (Firenze)
16.00 Frontiere farmacologiche nella
terapia d’urgenza dello scompenso
cardiaco
A. Bertini (Pisa)
16.15 Complicanze emorragiche
maggiori in corso di terapia
anticoagulante e studio GOAT
R. Migliacci (Cortona), S. Cencetti (Firenze)
16.30 Confronto dibattito tra il pubblico e gli
esperti
SECONDA PARTE
Moderatori: A. Lagi (Firenze),
A. Cuccuini (Montevarchi)
16.45 See and Treat
S. Pietrelli (Arezzo)
17.00 Strategia terapeutica nella sepsi
M. Bernardini (Arezzo)
17.15 Shock settico e sindrome
multiorgano
C. Francois (Poggibonsi)
17.30 Valutazione infermieristica del
delirio
S. Papi (Arezzo)
17.45 Il paziente postchirurgico instabile
A. Morettini, S. Galli (Firenze)
18.00 Confronto dibattito tra il pubblico e gli
esperti
18.30 Presentazione 4 poster vincenti
B. Alterini (Firenze), N. Zuccone (Arezzo)
19.00 Assemblea Regionale Fadoi:
Elezione del Vicepresidente Regionale
Sabato 17 Ottobre
V SESSIONE
TAVOLA ROTONDA
Moderatore: C. Nozzoli
08.30 Prospettive di didattica in
Medicina Interna
GF. Gensini (Firenze), A. Mazzone
(Legnano), D. Massai (Empoli)
VI SESSIONE
SIMPOSIO FADOI – ANIMO - SIMG
Chronic Care Model: La gestione dei
pazienti cronici fra Medicina Interna
ospedaliera e Medicina Generale
nel territorio
PRIMA PARTE
Moderatori: C. Pedace (Arezzo),
A. Salvetti (Grosseto)
IL DIABETE
09.50 FADOI: La gestione ospedaliera del
diabete
G. Seghieri (Pistoia)
10.00 SIMG: il modello territoriale della
gestione del diabete (Linee Guida)
L. Triggiano (Arezzo)
10.10 ANIMO: Il piede diabetico
E. Bartolini (Arezzo)
LA BPCO
10.20 FADOI: BPCO fra ospedale e
territorio: Ipotesi di percorsi
E. Santoro (Bibbiena)
10.30 SIMG: epidemiologia e linee guida
regionali per la gestione territoriale
A. Bussotti (Firenze)
10.40 ANIMO: gestione BPCO
I. Pisani (Cecina), V. Pucci (Empoli)
10.50 Confronto dibattito tra il pubblico e gli
esperti
LETTURA
11.00 I nuovi farmaci antitrombotici G. Agnelli (Perugia)
Discussant: G. Panigada (Pescia)
SECONDA PARTE
Moderatori: M. Ruggeri (Prato),
N. Zuccone (Arezzo)
L’IPERTENSIONE
11.20 FADOI: Ipertensione:
la cartella VIRC
S. Lenti (Arezzo)
11.30 SIMG: Ipertensione come gestione
ambulatoriale. Linee guida regionali
A. Santini (Prato)
11.40 ANIMO: Il modello DAY SERVICE
G. Innocenti (Arezzo)
LO SCOMPENSO CARDIACO
11.50 FADOI: Nuovi modelli di gestione
dello scompenso cardiaco fra
ospedale e territorio
P. Biagi (Montepulciano)
12.00 ANIMO: il modello assistenziale
nello scompenso
S. Stoppioni (Pistoia)
12.10 SIMG: Una Strategia comune per il
Counseling antitabagico
M. Ruggeri (Prato)
VII SESSIONE
Infezioni Gravi in Medicina Interna:
Sinergia tra clinico e microbiologo
Moderatore: A. Camaiti (Livorno)
12.20 Infezioni difficili in Medicina
Interna
E. Concia (Verona)
12.40 Il ruolo del microbiologo nelle
infezioni difficili
GM. Rossolini (Siena)
13.30 Conclusioni e compilazione questionario
ECM
C. Pedace - R. Romizi
IV CONVEGNO ANIMO
A.N.Í.M.O.
L’INFERMIERE DI AREA MEDICA E IL MODELLO
ORGANIZZATIVO DELL’INTENSITà DI CURA:
COMPETENZE E OPPORTUNITà
Venerdì 16 Ottobre 2009
8.15 Registrazione dei Partecipanti
8.30 Apertura del Convegno
M. Rossi (Arezzo)
M. Bonfanti (Empoli)
C. Molinaro (Arezzo)
G.C. Landini (Firenze)
I SESSIONE
Moderatori: S. Lenti (Arezzo),
A. Zuccone (Arezzo)
9.00 La formazione: uno strumento per
la crescita individuale e professionale
S. Papi (Arezzo)
II SESSIONE
Moderatori: S. Mercatelli (Arezzo),
B. Pisani (Grosseto)
11.00 Il modello dell’intensità di cura in
Toscana
M. Bonfanti (Empoli)
11.20 L’intensità di cura in area medica
esperienze a confronto
M. Martini (Vicenza)
N. Biliotti (Grosseto)
L. Venuti (Firenze)
R. Gentili (Pescia)
13.00 Discussione
9.30 Picc e Midline: uno strumento di
gestione infermieristica
F. Salti, S. Bausi (Firenze)
10.00 La ventilazione meccanica non invasiva in area medica
I. Pisani (Cecina),
V. Pucci (Empoli)
10.45 Pausa
13.30 Compilazione questionario ECM
e chiusura dei lavori
Relazioni
Rossella Nassi
Ospedale Valtiberina – Arezzo
TIROIDE E CUORE
L
Relazioni
’ interazione cuore-tiroide si esplica a vari livelli: le disfunzioni tiroidee (iper e
ipotiroidismo sia nella forma conclamata che subclinica) hanno riflessi sulla funzione
cardiaca, ma alcune cardiopatie possono, indirettamente, attraverso un farmaco
antiaritmico, anche influire sulla funzione tiroidea.
L’ipertiroidismo induce nel sistema cardiovascolare uno stato ipercinetico con aumento
delle gittata cardiaca, delle frequenza, della massa ventricolare sinistra, del lavoro
cardiaco e dell’incidenza di aritmie sopraventricolari. I pazienti con grave ipertiroidismo
possono sviluppare scompenso cardiaco in assenza di precedente cardiopatia. Tra le
aritmie sopraventricolari va ricordata in particolare la fibrillazione atriale, per la quale
l’ipertiroidismo, sia conclamato sia subclinico, rappresenta un fattore di rischio indipendente.
L’ipotiroidismo, più frequente, anche nella forma subclinica, soprattutto nella popolazione
anziana (7-26%), è correlato all’aumento del rischio cardiovascolare per i cambiamenti
nell’emodinamica cardiaca e nel profilo aterogeno. Nell’ipotiroidismo anche subclinico
si osserva funzione sistolica a riposo normale/depressa, disfunzione diastolica a riposo
e durante esercizio fisico, incremento delle resistenze periferiche vascolari e aumentata
prevalenza di insufficienza cardiaca diastolica (in particolare nell’anziano). L’aumentato
rischio aterosclerotico è correlato alla maggiore prevalenza di ipertensione, di alterata
funzione endoteliale, al profilo lipidico aterogeno, alle alterazioni delle coagulazione e agli
elevati livelli di PC-reattiva osservati.
L’incremento del rischio cardiovascolare e della FA nelle disfunzioni anche subcliniche
della tiroide ha sollevato il quesito del loro screening, in particolare nella popolazione
anziana. Accordo generale è presente sulla necessità di valutare la funzione tiroidea, anche
in assenza di sintomi evidenti, in tutti i pazienti con fibrillazione atriale.
Agli effetti del distiroidismo sul cuore, si contrappongono le conseguenze che alcune cardiopatie
possono avere sulla funzione tiroidea in virtù di un farmaco antiaritmico, spesso usato nei
pazienti con disfunzione ventricolare, l’amiodarone. Derivato benzofuranico, con due atomi
di iodio, pari al 37% della molecola, assorbito lentamente, estremamente liposolubile con
accumulo nel tessuto adiposo, polmonare ed epatico, viene trasformato in un metabolita
attivo (mono-N-desetil-amiodarone) con un’emivita ancora più lunga, compresa tra 54 e
61 giorni. L’amiodarone ha molti effetti sul metabolismo degli ormoni tiroidei, inibendo
l’enzima 5’mono-deiodasi tipo I responsabile della trasformazione della T4 in T3; ciò spiega
l’assetto ormonale abituale nei pazienti in terapia, cioè T4 e TSH normali e T3 ridotta e
aumento della reverse T3. Nei primi giorni di terapia si può osservare l’effetto Wolff-Chaikoff,
cioè la diminuzione della T4 per il transitorio effetto inibitorio dovuto al carico di iodio. Tali
modifiche dell’assetto ormonale non richiedono interventi terapeutici, ma l’amiodarone
induce nel 30% circa dei pazienti un vero distiroidismo, sia iper che ipotiroidismo.
L’ipotiroidismo da amiodarone, più frequente nelle aree ad adeguato apporto iodico e
nel sesso femminile, favorito dall’età avanzata e dalla presenza di anticorpi antitiroide, si
corregge spesso con la sospensione del farmaco, ma se tale terapia antiaritmica è ritenuta
insostituibile, allora la soluzione è di iniziare la terapia con l-tiroxina. Ben più complesso
e temibile è l’ipertiroidismo da amiodarone, favorito dalla carenza iodica e più frequente
nel sesso maschile. Può insorgere in qualunque momento della terapia, ma anche molto
tempo dopo la sospensione del farmaco, per la sua lunga emivita. Esistono due forme
di ipertiroidismo da amiodarone, dovute a diversi meccanismi patogenetici: il tipo I con
aumentata sintesi ormonale iodio indotta in una tiroide intrinsecamente normale, il tipo II
dovuto ad un processo distruttivo con immissione in circolo di ormoni preformati.
L’ipertiroidismo si associa in genere a peggioramento dei disturbi cardiaci che avevano
richiesto la terapia antiaritmica ed è di difficile trattamento in quanto i presidi abitualmente
usati, come le tionamidi o la terapia radiometabolica, sono qui poco efficaci. Possono essere
utili nella forma “tiroiditica” i cortisonici. In alcuni casi si rende necessaria la tiroidectomia
totale, ovviamente valutando il rischio dell’intervento in pazienti cardiopatici.
la gestione delle
mielodisplasie in medicina interna
Marco Cei
U. O Medicina Generale1
Azienda USL 6 di Livorno
I
l termine “mielodisplasie” individua un gruppo eterogeneo di malattie che hanno in
comune la presentazione clinica come citopenie periferiche, associate ad eritropoiesi
inefficace e tendenza ad evolvere in leucemia.
Dalla prima descrizione di Leube nel 1900 sono stati fatti consistenti passi in avanti
nell’inquadramento diagnostico (classificazioni FAB e WHO) e prognostico (International
Prognostic Score System).
Tuttavia, sebbene importanti avanzamenti si siano verificati nel trattamento di supporto
(trasfusioni e chelazione di ferro, fattori di crescita, immunomodulanti), maggiori problemi si
incontrano nel trattamento eziopatogenetico (chemioterapia, trapianto di cellule staminali),
spesso difficile e limitabile ai pazienti più giovani o a forme cliniche particolari. L’approccio
alle mielodisplasie appare quindi particolarmente difficile soprattutto nei reparti di Medicina
Interna, dove si raccolgono i casi di età più avanzata e con maggiori comorbidità. Nel
presente lavoro viene presentato un approccio al paziente con mielodisplasia, piuttosto che
alla sindrome in sé, che possa fornire indicazioni utili al medico internista anche quando
non in possesso di una specifica formazione ematologia.
Ruolo dell’interleuchina-6
nell’artrite reumatoide
Il concetto di remissione: come ottenerla?
Cosa i grandi trials clinici ci hanno insegnato?
Maurizio Benucci
UOS Reumatologia
Nuovo Ospedale S.Giovanni di Dio
ASL 10 Firenze
L
’ artrite reumatoide (AR) è una patologia cronica e disabilitante di origine sconosciuta
che interessa circa lo 0.5-1% della popolazione. Sebbene una cura definitiva non sia
possibile la remissione clinica è divenuta un obiettivo raggiungibile. Il trattamento con
singoli DMARDs è stato di recente soppiantato dalla terapia di combinazione o dall’utilizzo
di farmaci biologici. Purtroppo la diagnosi viene tuttoggi definita dai criteri classificativi
definiti dall’American College of Rheumatology del 1987. idealmente tutti e tre questi
parametri dovrebbero essere normalizzati.
La definizione di remissione proposta da Pinals nel 1981 basata sulla valutazione clinica
di 35 reumatologi portò a dei criteri ACR che comprendevano sei segni e sintomi:
astenia, dolore articolare, numero delle articolazioni tumefatte e dolenti, la velocità di
eritrosedimentazione. In questo caso il danno strutturale articolare e lo stato funzionale
valutato con HAQ erano ignorati. Successivamente altre definizioni di remissione spontanea
o farmaco indotta furono proposte ma l’estrema variabilità degli studi non permetteva
confronti. Una proposta recente è quella di considerare la <remissione> come uno stadio
della malattia al livello più basso possibile con una misurazione continua e riproducibile
nel tempo. Per questo sono comparsi alcuni score come il DAS che utilizza una formula
matematica per arrivare ad una singola componente quantitativa che rappresenta il
numero delle articolazioni (indice di Ritchie) il numero di articolazioni tumefatte (onta
di 44 articolazioni) la Ves e il giudizio globale del paziente (VAS 0-100) sull’attività della
propria malattia. Anche questo comunque ignora le funzioni fisiche misurate con HAQ o
SF-36 e il danno strutturale. Varianti possibili sono il DAS28 che utilizza una conta di 28
articolazioni omettendo i piedi e il DAS28-3 che omette il giudizio globale del paziente. Il
valore di cut-off come indicativo di remissione se paragonato ad almeno 4 su 5 criteri ACR
Relazioni
è di <1.6 per il DAS e <2.6 per il DAS28. Recenti lavori su 737 pazienti hanno dimostrato
che solo il 7.9 % presenta criteri di remissione ACR, il 23% se consideriamo un cut-off del
DAS28 a 2.81, per questo è stato proposto di spostare il valore del DAS28 per parlare di
remissione a <3.1. Anche l’HAQ è uno strumento valicato e accettato universalmente per
la valutazione della disabilità, secondo dati recenti si prospetta che il dato di HAQ per poter
parlare di remissione sia il valore di 0.25. L’interleuchina IL-6, il cui DNA è stato clonato
nel 1986 è una proteina di 26 kDa. Essa è prodotta da vari tipi di cellule come linfociti T e
B, monociti, fibroblasti, cheratinociti, cellule endoteliali, cellule mesangiali e alcune cellule
tumorali. La IL-6 in sinergia con l’IL-3 supporta la formazione delle colonie blastocellulari
multilineari. Induce sulle cellule T la proliferazione e differenziazione citotossica, inoltre
promuove la differenziazione dei macrofagi e megacariociti determinando trombocitosi. A
livello degli epatociti promuove la formazione delle proteine della fase acuta come la PCR,
il fibrinogeno, l’α1-antitripsina e la serum amiloid A (SAA) e sopprime la produzione di
albumina.Studi recenti nella AR hanno dimostrato una risposta al tocilizumab (inibitore
dell’IL-6) che in monoterapia determinava una riduzione del 63% dell’ACR20, del 41%
dell’ACR50 e del 16% dell’ACR70. L’aggiunta del methotrexate portava la risposta
rispettivamente al 74% per l’ACR20, 53% per l’ACR50 e 37% per l’ACR70. Gli studi
OPTION, CHARISMA, AMBITION hanno confermato i dati sulla remissione clinica
valutata con DAS28 inferiore a 2.6. Tocilizumab si è inoltre dimostrato superiore al
Methotrexate quando dato in monoterapia.
Luciano Sabatini
Sezione Reumatologia
Dipartimento Medicina Interna
USL8 Arezzo
Correlazione tra danno
strutturale e disabilità
nell’artrite reumatoide
Come prevenirla?
N
Relazioni
10
ell’esperienza clinica quotidiana di solo qualche decina di anni fa, la gestione dell’artrite
reumatoide era incentrata prevalentemente sulla convivenza con l’evoluzione di
malattia e la gestione del danno articolare, con l’incombenza della sedia a rotelle e la
possibilità di riconquista parziale della qualità di vita e autonomia attraverso la chirurgia
endo-protesica o l’uso degli ausili e delle protesi esterne. Lo sviluppo degli DMARDs,
consolidato dalle evidenze scientifiche di efficacia e tollerabilità, ha rivoluzionato gli
obbiettivi delle cure per l’artrite reumatoide.
Negli anni ’50 i pazienti con forme aggressive allora definite “maligne” finivano nella sedia
a rotelle. Negli anni ’60 e ’70 le terapie non erano ancora ben codificate e si proponevano
farmaci a basso indice terapeutico. Negli anni ’80 si rende disponibile un trattamento
efficace e poi confermato sicuro dopo molte titubanze e pregiudizi (il metotressato). Negli
anni ’90 si osserva il passaggio dal trattamento tardivo a quello precoce (rovesciamento della
piramide terapeutica e importanza dell’invio in fase precoce allo specialista). Anni 2000: la
remissione diventa un obiettivo realistico. 2004: la prevenzione del danno strutturale e la
sua riparazione sono possibili (ottimizzazione d’uso degli DMARDs e combinazione con
i “biologici”)!
Affermare che al danno strutturale dell’articolazione corrisponde la disabilità appare facile,
basta guardare il danno radiologico (possibilmente pesato con i vari indici disponibili) ed
effettuare una valutazione articolare ispettiva e poi funzionale, basandosi sulle finalità
gestuali (pesate con i metodi dell’economia articolare) piuttosto che sulla goniometria delle
escursioni articolari o i disallineamenti anatomici.
Più semplicemente possiamo usare anche questionari di valutazione routinaria, come
l’HAQ (Healt Assessment Questionnaire) che possono pesare bene l’impatto di malattia
sul paziente in funzione del danno articolare o della flogosi in atto. Importante è valutare
la malattia, secondo una frequenza adeguata a cogliere tempestivamente le alterazioni, più
spesso quindi con gli indici di attività di malattia, magari anche semplici come il DAS28
(Disease Activity Score), ma poi anche con il già citato HAQ per la qualità di vita e anche gli
indici di valutazione psico-affettiva, che sono orientativi per l’ansia correlata alla malattia
cronica, come l’SDS (Self Depression Scale). Tuttavia dobbiamo tenere presente che la
letteratura ci propone anche la possibile contraddizione del buon andamento degli indici
clini-metrici rispetto alla persistenza di evoluzione radiologica, che è necessario ricercare,
pur con la sua specifica tempistica, per non perdere l’occasione di ottimizzare le cure. Sono
utilizzati più diffusamente l’indice di Larsen-Dale e quello di Sharp modificato.
Importante è comunque non svilire mai la valutazione dell’artrite reumatoide eseguendo
i soli controlli di laboratorio, che rimangono importanti in generale e determinanti per
l’evidenza di buona tolleranza del trattamento, ma che non esauriscono la “misura”
dell’artrite reumatoide.
Non dobbiamo dimenticare infine che il monitoraggio dell’artrite reumatoide deve essere
ispirato anche alle possibili complicanze di malattia e alle possibili comorbilità che,
nella gestione più completa, fanno di ogni paziente un caso originale e unico nelle sue
problematiche di gestione e convivenza con la malattia cronica. Nella vita di ogni singolo
paziente esistono momenti di situazioni acute o critiche o di alta complessità, che rendono
indispensabile la collaborazione interdisciplinare.
Devo concludere sottolineando che il ruolo del malato con artrite reumatoide è prioritario,
sia per la responsabilità di continuità delle cure con aspettative realistiche, sia per una più
complessa e articolata capacità di convivenza con la malattia e di rapporto corretto con le
strutture e gli operatori sanitari. Per fare crescere in consapevolezza, autonomia e sicurezza il
singolo malato è necessario un programma informativo e educazionale, che dovrebbe essere
previsto nell’organizzazione dell’assistenza per una più funzionale e efficace presa in carico.
Osteoporosi: la neoformazione, nuovo
target terapeutico
Bruno Frediani
Centro per l’Osteoporosi e la
Diagnosi Strumentale OsteoArticolare
Università degli studi di Siena
G
ià negli anni ’40 Albright aveva intuito il ruolo della neoformazione nella
fisiopatologia dell’osteoporosi, imputando ad essa addirittura un ruolo determinante.
Successivamente fu molto enfatizzato il ruolo degli estrogeni e della vitamina D come
stimolatori dell’assorbimento intestinale del calcio e quindi normalizzatori delle perdite di
calcio fecale. Fu evidenziato soprattutto il ruolo degli estrogeni nel ridurre il riassorbimento
osseo osteoclastico e, nella calcitonina prima e nei bisfosfonati poi, furono individuati due
ancor più potenti inibitori dell’attività osteoclastica. Comunque contemporaneamente,
seppur con minor prolificità, venivano condotti studi sul ruolo del PTH come stimolatore
del turnover, utilizzabile in uno schema sequenziale (ADFR: Activation, Depression, Free,
Ripetition). Lo stronzio venne inizialmente utilizzato da una parte nella forma radioattiva
come tracciante indicatore di neoformazione e dall’altra nella forma naturale come
stimolatore della mineralizzazione soprattutto nelle metastasi osteolitiche, ma sin dagli
anni ’50 ci fu chi lo propose nell’osteoporosi postmenopausale.
Lo sviluppo dei bisfosfonati ha portato in questo ultimo decennio alla individuazione
di molecole più persistenti nel tessuto osseo, che hanno consentito l’utilizzo pulsatorio
settimanale, mensile, trimestrale ed annuale. Sostanzialmente ciò non è corrisposto ad una
maggior efficacia quantomeno se si confrontano i dati che riguardano gli aminobisfosfonati,
anche se ovviamente la struttura degli studi è stata perfezionata, così come gli end points.
Un problema aperto con i bisfosfonati è rimasto soprattutto quello della persistenza
dell’efficacia terapeutica col prolungarsi dell’assunzione oltre i 5 anni, a tal punto che c’è
chi suggerisce di sospendere la terapia con bisfosfonati dopo 5 anni per sfruttarne l’effetto
coda o utilizzare un altro farmaco.
Nell’ultimo decennio grande impulso hanno avuto gli studi sul ruolo degli osteoblasti
Relazioni
11
nella patogenesi dell’osteoporosi. In particolare sono risultate determinanti le acquisizioni
sull’osteoporosi indotta da cortisonici, che hanno confermato che in essa inizialmente
è più evidente un aumento del riassorbimento osteoclastico, mentre successivamente si
evidenzia una notevole inibizione della neoformazione. Ciò a portato ad intensificare
gli studi sulla neoformazioni e sui rapporti con il riassorbimento. È stato inviduato un
sistema che modula l’attività osteoblastica e osteoclastica che è il RANKL-RANK-OPG.
Varie molecole hanno dimostrato di espletare il loro effetto benefico o negativo attraverso
questo sistema (il PTH ed il Ranelato di Stronzio fra le prime, i cortisonici fra le seconde).
Per un breve tempo si è sperato di combinare PTH e Bisfosfonati in modo da stimolare
la neoformazione contemporaneamente alla inibizione del riassorbimento, ma ciò si è
rivelato fallimentare in molti studi, dando di nuovo vigore agli schemi sequenziali, peraltro
da validare in termini antifratturativi.
Il Ranelato di Stronzio si è presentato in questo contesto idealmente essendo l’unico farmaco
in grado di determinare un disaccoppiamento fra neoformazione e riassorbimento, ossia
stimolando gli osteoblasti e inibendo gli osteoclasti. Lo Stronzio Ranelato agirebbe sul
fronte osteoblastico stimolando il Runx2 e come agonista del CaSReceptor, mentre sul
fronte osteoclastico agirebbe riducendo il RANKL e aumentando l’Osteoprotegerina.
Sul piano Clinico gli studi condotti in doppio cieco su migliaia di pazienti ed estesisi a 8
anni confermano l’efficacia sulle fratture vertebrali, non vertebrali e femorali, in soggetti
già fratturati ed in soggetti non fratturati osteoporotici o osteopenici, compresi pazienti
più anziani ultrasettantenni, con aumenti della Densità Minerale Ossea correlabili
alla riduzione del rischio di frattura, cosa di non poco conto se si considera la gestione
ambulatoriale del singolo paziente.
Giancarlo Landini
SC Medicina Interna
Ospedale Santa Maria Nuova
Azienda Sanitaria di Firenze
PROTOCOLLO FADOI TOSCANA
Profilassi tev in medicina interna
Grazia Panigada
SC Medicina Interna
Ospedale SS, Cosma e Damiano
Pescia USL3
Giuseppe Pettinà
SC Medicina Interna
Ospedale Del Ceppo Pistoia USL3
Domenico Prisco
Centro Trombosi
Azienda Ospedaliera
Universitaria Careggi - Firenze
Relazioni
12
I
l paziente internistico acuto è a rischio di TEV al pari del paziente chirurgico: in assenza
di profilassi è infatti possibile documentare una trombosi venosa profonda (TVP) nel
15% dei casi. Numerosi studi documentano che nei reparti di Medicina Interna non vi è
un corretto utilizzo della profilassi antitrombotica, con una tendenza alla sotto-prescrizione
con percentuali di uso comprese fra meno del 30% e circa il 50% nei pazienti che ne
avrebbero indicazione nonostante le evidenze di provata efficacia.
• Stratificazione del rischio di TEV in Medicina Interna
Il nostro gruppo di studio ha messo a punto un protocollo che si presenta di facile utilizzo
attraverso la compilazione di una scheda da inserire nella cartella clinica del paziente e
che permette di stabilire il rischio individuale (fattori predisponenti + fattore di rischio
incidente) e la conseguente profilassi da adottare. I fattori di rischio sono stati divisi in quelli
ad alto grado ed in quelli a grado moderato-lieve. I fattori di alto grado presentano
tutti un OR fra 2 e 9 e a ciascuno è stato attribuito il punteggio di 2. I fattori di mediobasso grado che hanno un OR <2 è stato attribuito un punteggio di 1. Lo score totale
ottenuto permette una stratificazione del rischio e la modulazione di conseguenza della
profilassi da appliccare.
• Protocollo di profilassi
Le Linee Guida Internazionali indicano, con raccomandazione di Grado 1A, per la
profilassi nel paziente medico: eparina non frazionata (ENF), EBPM e Fondaparinux
mentre nel paziente ad aumentato rischio emorragico vengono indicati solo i mezzi fisici
di prevenzione. Facendo riferimento a studi con disegno sperimentale rigoroso e con
applicazione di metodi diagnostici moderni si possono considerare i seguenti farmaci nella
profilassi medica:ENF (eparina calcica) 5000 UI sc x 2-3 volte al di,Enoxaparina 4000 UI
sc 1 volta al di, Dalteparina 5000 UI sc 1 volta al di, Fondaparinux 2,5 mg sc 1 volta al di,
Nadroparina 3800 UI sc 1 volta al di. In ampie metanalisi la ENF si è dimostrata inferiore
rispetto a EBPM/Fondaparinux nel prevenire il TEV. Inoltre EBPM /Fondaparinux
avevano minori complicanze emorragiche in sede di iniezione.
Ipertensione nell’anziano:
strategie farmacologiche fra politerapia e
prevenzione secondaria
Stefano Taddei
Dipartimento di Medicina Interna
Università di Pisa
A
nche nel paziente anziano la terapia antiipertensiva ha effetti favorevoli in termini
di riduzione della mortalità e morbilità cardiovascolare, indipendentemente dal
tipo di ipertensione (sisto-diastolica o sistolica isolata). Le metaanalisi ha evidenziato un
chiaro beneficio terapeutico anche negli ultraottantenni, in cui la terapia antiipertensiva
si dimostra in grado di ridurre gli eventi cardiovascolari fatali e non fatali, gli eventi
cerebrovascolari, ma non la mortalità totale. Invece nello studio HYVET con la terapia
antiipertensiva è stata ottenuta una riduzione anche della mortalità per tutte le cause e
dello scompenso cardiaco. Sembra inoltre che anche il rischio di demenza venga ridotto
dal trattamento antiipertensivo. Nell’anziano non appaiono esserci differenze sostanziali
di efficacia e prevenzione cardiovascolare tra le diverse classi farmacologiche. Per
quanto riguarda l’approccio clinico al paziente iperteso anziano, risulta fondamentale la
misurazione della pressione arteriosa sia in clino- che in ortostatismo, sia al momento della
diagnosi di ipertensione che durante il follow up, in modo da diagnosticare l’ipotensione
posturale preesistente o che può insorgere col trattamento antiipertensivo. è importante
iniziare con bassi dosaggi, per minimizzare gli effetti collaterali, ed eventualmente titolare
gradualmente la terapia. Per ottenere valori pressori controllati sarà spesso necessaria una
terapia di associazione, che però può aumentare il rischio di interazioni farmacologiche
negative in pazienti già politrattati. È ancora oggetto di dibattito di quanto ridurre la
pressione arteriosa nell’anziano.
Infatti è stata evidenziata una correlazione inversa tra pressione arteriosa e mortalità per
tutte le cause per valori <120/60 mmHg, ma tale dato è da attribuire al fatto che i pazienti
più fragili hanno sia valori pressori inferiori che una maggiore mortalità. Inoltre i brillanti
risultati dell’HYVET sono stati ottenuti avendo come target pressorio 150/80 mmHg,
pertanto è tuttora da dimostrare il beneficio una ulteriore riduzione pressoria, considerando
anche il maggior numero di effetti collaterali che un tale approccio comporterebbe.
INFEZIONI DIFFICILI IN MEDICINA
INTERNA: Le polmoniti dell’anziano
• Ipotesi
a polmonite é la principale causa di morte negli ospiti delle residenze sanitarie
assistenziali (RSA) e rappresenta un crescente motivo di ricovero: la polmonite
acquisita in RSA (“nursing home-acquired pneumonia” - NHAP) contribuisce al 2-18%
dei ricoveri ospedalieri per polmonite. Fino a pochi anni fa, la NHAP era classificata tra le
forme comunitarie (“community-acquired pneumonia” - CAP). Secondo la classificazione
dell’American Thoracic Society / Infectious Diseases Society of America del 2005, le
NHAP sono incluse in una nuova categoria definita “health-care associated pneumonia”
(HCAP), comprendente anche le polmoniti in pazienti con recente ospedalizzazione,
o sottoposti ad emodialisi, o ad altre procedure assistenziali. Nel periodo 2002-2004 è
stato condotto lo studio FASTCAP, che ha valutato la gestione della CAP nei ricoverati in
Ido Iori
1^ Medicina Interna
Centro Emostasi e Trombosi
Azienda Ospedaliera A.S.M.N.
di Reggio Emilia
L
Relazioni
13
Medicina Interna, prima e dopo l’implementazione delle linee-guida sulle infezioni delle
basse vie respiratorie, definite dal Gruppo Multidisciplinare di Esperti FADOI.
Dai dati dello studio é emerso che la provenienza da RSA rappresenta un fattore prognostico
negativo indipendente di maggior rischio di fallimento della terapia. In base a questo
riscontro si è ritenuto opportuno dedicare una specifica analisi post-hoc al sottogruppo delle
polmoniti ricoverate da RSA e arruolate nel FASTCAP. Il presente report riguarda l’analisi
post-hoc eseguita sul sottogruppo di pazienti dello studio provenienti da RSA.
• Materiali e Metodi
FASTCAP è uno studio multicentrico al quale hanno partecipato 31 Medicine Interne
italiane, che ha confrontato i dati raccolti sulla gestione ospedaliera delle CAP in due fasi
successive, una retrospettiva ed una prospettica, fra loro intervallate da un un intervento
educazionale di discussione delle raccomandazioni FADOI sulle infezioni respiratorie in
Medicina Interna.
• Risultati
Le polmoniti ricoverate da RSA (N = 179) sono il 12.8% della casistica (N = 1219) della
fase prospettica del FASTCAP. I casi da RSA presentano una età media più elevata (85.4 ±
8.9 anni) rispetto a quelli provenienti da domicilio (78.9 ± 12.7 anni). La maggior frequenza
della polmonite in classe V di Fine (54.2%) e il più elevato score medio di Fine nelle NHAP
è in parte correlabile alla “provenienza da RSA” che contribuisce alla definizione dello
score e della classe di Fine. Gli insuccessi terapeutici sono risultati più elevati nei casi
ricoverati da RSA (35.8% vs 24.9%), soprattutto nei pazienti più gravi in classe V di Fine.
Tale risultato è principalmente correlato alla maggiore mortalità nel gruppo RSA.
In riferimento al trattamento iniziale nei provenienti da RSA si è osservato un incremento
della percentuale di successi con l’antibioticoterapia di combinazione rispetto alla
monoterapia (68.5% vs 62.4%).
• Conclusioni
I risultati dello studio FASTCAP confermano che fino a pochi anni fa nel “mondo reale”
l’impostazione della terapia antibiotica non prevedeva differenze sostanziali tra le CAP ed i
casi ricoverati da RSA. Secondo le indicazioni disponibili e quanto evidenziato dallo studio,
la provenienza da RSA configura, fra i pazienti con polmonite e ricoverati in ospedale, un
subset con prognosi più grave e che richiede un’antibioticoterapia empirica ragionata più
aggressiva. Ulteriori studi potranno meglio definire la microbiologia delle NHAP e valutare
se linee-guida dedicate di terapia possono migliorare l’outcome di questi pazienti.
Considerata la gravità della patologia, non vanno trascurate le misure preventive
(programmi di vaccinazione, attenzione all’igiene orale degli ospiti, aerazione dei locali)
che devono essere garantite nelle strutture assistenziali, così come la necessità di eseguire le
emocolture prima di iniziare la terapia antibiotica ed una diagnosi precoce (la radiografia
del torace è l’elemento diagnostico decisivo), tutte misure che sono in grado di migliorare
l’outcome delle polmoniti nell’anziano.
Adriano Tagliabracci
Università Ancona
APPROPRIATEZZA PRESCRITTIVA
IN MEDICINA INTERNA
L
Relazioni
14
a prescrizione di farmaci è parte considerevole dell’attività del medico che trova
riferimento in norme del codice deontologico (art. 13) ed in leggi dello Stato che
ne disciplinano il corretto svolgimento. In tesi generale, il medico è tenuto a prescrivere
farmaci che sono stati autorizzati all’immissione in commercio dal Ministero della Salute,
secondo le indicazioni che sono riportate nella scheda tecnica del farmaco.
L’uso di medicinali che sono ancora nella fase della sperimentazione, o che siano stati
autorizzati al commercio per altre indicazioni, vie o modalità di somministrazione può
avvenire in casi limitati e personalizzati e sempre che sussistano determinate condizioni
che lo consentano. I provvedimenti adottati in questi anni dal Ministero della Salute
sull’impiego dei farmaci generici sollevano problematiche in merito all’appropriatezza del
loro impiego alla luce delle disposizioni della Legge n. 94 dell’8 Aprile 1998 (cosiddetta
legge Di Bella), che ne consente l’uso allorquando coesistano ben determinate condizioni:
a) diretta responsabilità del medico prescrittore, b) acquisizione del consenso informato
del paziente, c) evidenza scientifica dell’efficacia del farmaco, d) mancanza di altri farmaci
autorizzati. Queste incertezze derivano essenzialmente dal fatto che i farmaci generici
hanno indicazioni che possono differire, di regola per difetto, rispetto a quelle previste
per i farmaci originali. Da ciò può derivare che la sostituzione del farmaco da parte del
farmacista non corrisponda all’obiettivo prescrittivo del medico e di fatto può verificarsi,
dal punto di vista formale, un uso non conforme a quanto previsto ex legge 94/1998.
A ciò dobbiamo aggiungere che la facoltà concessa al farmacista di variazione del farmaco
senza tenere conto dell’indicazione per la quale il medico lo ha prescritto pone problemi di
carattere deontologico e legale e può anche sollevare aspetti di responsabilità professionale
nel caso in cui il paziente possa ricevere un danno conseguente alla somministrazione del
farmaco.
LA COLECISTITE:
Terapia antibiotica o terapia chirurgica d’urgenza?
Alessandro Tafi
Ospedale S. M. Maddalena di Volterra
L
a colecistite è definita come l’infiammazione della colecisti causata, nella maggior parte
dei casi (90%), dalla presenza di calcoli che ostruiscono il dotto cistico, nel restante 10%
si parla invece di colecistite alitiasica. La forma litiasica è più frequente nel sesso femminile,
così come la calcolosi colecistica, e nel periodo gravidico (il progesterone causa stasi biliare),
mentre la colecistite alitiasica si osserva soprattutto in uomini anziani. Sebbene nel 50-75%
dei casi venga documentata una infezione batterica della bile, sembra che questa sia più
una conseguenza del processo infiammatorio acuto, piuttosto che la sua causa scatenante.
Questo è vero soprattutto per la colecistite litiasica dove l’ostruzione del dotto cistico da
parte di un calcolo determina la distensione della colecisti con ristagno del materiale biliare
e compromissione del flusso ematico e linfatico e conseguente ischemia e necrosi. Un ruolo
diretto nel causare necrosi, emorragia, perdita di mucosa e depositi di fibrina lo avrebbe
l’endotossina, che abolirebbe anche la risposta contrattile alla colecistochinina (CCK).
Frequente è poi la sovrapposizione di processi infettivi e l’evoluzione può essere l’empiema o il
flemmone della colecisti. Riguardo invece alla colecistite alitiasica il processo eziopatologico
appare diverso e non del tutto chiaro. Sembra legato a condizioni associate a stasi biliare,
con aumento della viscosità e quindi della litogenicità della bile, causate dalla presenza ad
esempio di febbre o disidratazione. La prolungata sospensione dell’alimentazione enterale
risulta in una riduzione o completa assenza di responsività allo stimolo contrattile da parte
della CCK. Sono quindi spesso interessati pazienti critici, sottoposti a chirurgia maggiore,
con traumi severi, con nutrizione parenterale totale a lungo termine o digiuno prolungato.
Altre cause sembrano includere patologie cardiache (sindrome da bassa portata con
ischemia della colecisti), diabete mellito, anemia falciforme ed infezioni da Salmonella o
da Citomegalovirus o parassitosi in pazienti con AIDS. Queste premesse sono la base per
parlare della gestione terapeutica della colecistite, una patologia di interesse sia medico
che chirurgico. Bisogna distinguere la patologia litiasica, in cui l’approccio chirurgico
da sempre trova spazio, dalla alitiasica, che sembra invece privilegiare un approccio con
terapia medica (anche se abbastanza spesso viene praticata una colecistostomia percutanea),
sia alla luce della eziologia (frequentemente sostenuta da infezioni batteriche) sia perché
spesso il paziente è compromesso ed ha quindi un rischio operatorio elevato. La terapia
medica si fonda ancora sull’uso di antibiotici di lungo corso e di modesto costo anche
se ad oggi vengono usati antibiotici di più recente introduzione e più costosi). L’uso dei
Relazioni
15
FANS potrebbe rappresentare una terapia eziologica, oltre che sintomatica per il dolore,
dato il coinvolgimento, nella genesi del processo flogistico, delle prostaglandine. Riguardo
alla chirurgia, in passato la colecistite acuta era considerata una controindicazione alla
colecistectomia laparoscopica per la maggior incidenza di lesioni iatrogene della via biliare
ed anche la colecistectomia open veniva spesso rimandata a processo flogistico spento.
Recenti studi hanno dimostrato che la colecistectomia laparoscopica può rappresentare
invece il gold standard del trattamento della colecistite acuta. Nel rispetto di un adeguato
trattamento medico preoperatorio sembra che l’intervento precoce (entro le 48 ore nei
centri di maggior livello o al massimo entro le 72 ore) sia da preferire perché si riduce la
percentuale di conversione in open, il rischio di lesioni iatrogene e la durata dell’intervento
con favorevoli ripercussioni su morbilità e degenza postoperatoria. L’approccio terapeutico
alla colecistite acuta sembra quindi dipendere da vari fattori: la realtà organizzativa
dell’ospedale interessato, le tecniche operatorie disponibili e l’esperienza degli operatori e,
infine, il tipo di paziente, sembrano essere i motivi principali per cui non si debba studiare
un percorso unico per questa patologia ma piuttosto preferire la messa a punto di percorsi
terapeutici differenziati e personalizzati.
Carlo Cappelletti
Direttore Dipartimento
Area Medica Azienda 10 Firenze
La degenza per intensità di
cure: come coniugare questo modello con la
continuità assistenziale
L
Relazioni
16
’ assistenza ospedaliera è sempre più rivolta al trattamento di pazienti acuti, quasi
sempre ricoverati in urgenza, “Ospedale per acuti”, che hanno bisogno di monitoraggio
e trattamento con impiego di personale e di tecnologia specializzata in modo da fornire
qualità elevata di assistenza. L’ospedale è organizzato sempre più come risorsa da usare
solo quando è indispensabile e per il tempo strettamente necessario. In Toscana la legge
n.22 (8/3/2000) e la successiva n.40 (24/2/2005) confermate dal piano sanitario regionale
2008-2010 prevedono la strutturazione delle attività ospedaliere organizzate per l’intensità
delle cure e la durata della degenza, superando gradualmente l’articolazione per reparti
differenziati secondo la disciplina specialistica. L’obiettivo è che la riorganizzazione metta
al centro il paziente con le sue esigenze di cura ed i suoi bisogni assistenziali. In questa
logica sono previsti:
• un primo livello di cura che sono le cure intensive e subintensive
• un secondo livello di cura, sempre per acuti, (high care) suddivisa a sua volta
in ricoveri di urgenza e ricoveri programmati.Sono gli attuali ricoveri ordinari. Di
questi fa parte il day hospital.
• esiste poi un terzo livello di cure che si può chiamare di post acuzie o di low care
che dovrebbe trovare la sua collocazione al di fuori dell’ospedale per acuti.
Questo livello organizzativo permetterebbe di evitare l’appiattimento dell’assistenza e
quindi sia l’“effetto tetto” che l’“effetto pavimento”. L’effetto tetto si verifica quando un
utente con elevati bisogni è inserito in un sistema a bassa offerta e tende così a stressare il
sistema ottenendo più assistenza rispetto agli altri utenti ricoverati, ma senza mai ottenere
quello di cui necessita; ne deriva così un’assistenza inadeguata. L’effetto pavimento avviene
quando un utente con modesti bisogni è inserito in un sistema ad alta offerta, ricevendo
così una quota di assistenza superiore a quella necessaria, ne deriva così uno spreco di
risorse. In base a questi principi che tendono a metter al centro il paziente con i suoi
bisogni, è necessario che vengano identificate aree di degenza omogenea per livello di
cura che prevedano il graduale superamento delle barriere delle unità operative classiche
ed approdino ad un’organizzazione dipartimentale che permetta di valorizzare meglio
questo nuovo modello di erogazione dell’assistenza. Come possa realizzarsi in questo
nuovo contesto la continuità assistenziale che è anch’essa un valore come la degenza per
intensità di cure è ancora oggetto di sperimentazione e di valutazione. Sicuramente la
figura di un tutor medico che si prenda carico del paziente dal momento del ricovero
fino alla dimissione è fondamentale, così come è fondamentale la figura dell’infermiere
dedicato. Un ausilio importante per la continuità assistenziale è la cartella clinica
informatizzata che accompagna il paziente durante il suo percorso in ospedale.
L’Embolia Polmonare: La diagnosi
Simone Vanni
AOU Careggi Firenze
L
a diagnosi di embolia polmonare rimane ancor oggi uno dei problemi clinici più
comuni e spesso difficili da risolvere. La complessità della diagnosi differenziale e la
mancanza di un test diagnostico semplice, non invasivo e sufficientemente accurato rendono
indispensabile l’adozione di una strategia diagnostica sicura, accessibile alla maggior parte
delle strutture ospedaliere e valida in termini di costo-efficacia. Punto di partenza del percorso
diagnostico è la valutazione della probabilità clinica di EP. Questa deve essere oggetto di
attenta valutazione prima di ricorrere agli esami che consentono la visualizzazione diretta
dell’embolo e quindi la diagnosi di certezza. La stima della probabilità clinica pre-test
consente sia di limitare l’uso di esami complessi sia di migliorarne l’interpretazione. Una
volta operata la dovuta distinzione in classi di probabilità diagnostica (bassa, media ed alta
probabilità) si rende necessario un approccio diagnostico strumentale diverso a seconda del
contesto clinico ed in particolare della presenza di una instabilità emodinamica (pazienti
ad alto rischio di mortalità a breve termine). Nei pazienti instabili l’esame diagnostico più
opportuno, data la rapidità di esecuzione, è una angio-TC del circolo polmonare. Se questa
non dovesse essere disponibile, l’esecuzione di un ecocardiogramma per la valutazione
della disfunzione del ventricolo destro ha nei pazienti instabili una buona accuratezza
diagnostica. Di contro in un paziente a basso rischio (pazienti normotesi), l’associazione di
dati clinici con alcune semplici prove di laboratorio come la ricerca del D-Dimero, consente
di escludere un evento tromboembolico nel 30% dei casi. Qualora la valutazione del DDimero in un paziente con bassa/intermedia probabilità risulti elevato allora si procederà
anche in questo caso all’esecuzione di test di immagine del circolo polmonare.
La terapia dell’Embolia
Polmonare
Giovanni Iannelli
U.O. Medicina d’Urgenza
Arezzo
L
a terapia più opportuna per l’embolia polmonare deve essere definita da un team
multidisciplinare che velocemente valuti la situazione clinica del paziente, utilizzando
esami strumentali necessari, soppesi le varie opzioni terapeutiche e raccomandi un piano
terapeutico appropriato. è oggi possibile offrire un ampio range di opzioni terapeutiche
che vanno dalla sola anticoagulazione, alla terapia trombolitica più anticoagulazione, filtri
cavali, embolectomia transcatetere e infine embolectomia chirurgica.
Il processo decisionale richiede una accurata stratificazione del rischio attraverso una
attenta valutazione clinica (anamnesi, esame fisico, dosaggio di biomarcatori come la
troponina e valutazione delle dimensioni e funzionalità del ventricolo destro).
L’approccio “classico” alla terapia dell’embolia polmonare considera pazienti non a rischio
tutti quelli con pressione arteriosa normale. Una stratificazione del rischio più accurata
può essere effettuata considerando altri fattori di rischio. I due più importanti fattori di
rischio per mortalità a breve termina dopo una diagnosi di embolia polmonare sono: 1)
Ipotensione 2) Immobilizzazione. Ognuno di questi triplica il rischio di morte. Valori
Relazioni
17
elevati di troponina indicano microinfarti del ventricolo destro e aumentano la probabilità
di un esito sfavorevole. Anche la dilatazione del ventricolo destro è correlata con aumento
della mortalità intraospedaliera e di recidiva.
Le linee guida dell’American College of Chest Physicians e della European Society of
Cardiology entrambe pubblicate nel 2008, sono significativamente simili.
La terapia eparinica può essere condotta con eparina non frazionata e.v. con dosaggio
in rapporto al peso, con EBPM sempre adeguando il dosaggio al peso corporeo o con
Fondaparinux con dose parzialmente dipendente dal peso. La terapia trombolitica
è somministrata negli Stati Uniti alla dose di 100mg di TPA in due ore normalmente
senza associazione con l’anticoagulante. In Europa TPA viene somministrato con un
bolo di 10mg seguito da una infusione di 90mg in 2 ore spesso associato ad eparina
non frazionata e.v.. L’embolectomia trans-catetere è indicata in pazienti che non hanno
ottenuto miglioramento con la terapia anticoagulante e in cui la terapia trombolitica sia
controindicata. Anche l’embolectomia chirurgica trova la sua indicazione in pazienti con
EP massiva e shock e controindicazione alla trombolisi. Le due maggiori indicazioni del
filtro cavale sono: 1) emorragie maggiori che controindicano la terapia anticoagulante; 2)
recidiva di EP nonostante una terapia anticoagulante ben condotta. Rimane da valutare
se oltre ai pazienti con ipotensione, anche altri pazienti con fattori prognostici negativi, ma
con pressione normale, possono giovarsi di un approccio terapeutico più aggressivo.
Stefano Spolveri
Medicina – Stroke Unit Ospedale
San Giovanni di Dio, Firenze
LA TROMBOLISI E LA TERAPIA IN
STROKE UNIT
L
Relazioni
18
a trombolisi sistemica con l’attivatore tissutale (ricombinante) del plasminogeno
endogeno - alteplase - (Actilyse ® Boehringer Ingelheim) è il trattamento più efficace
attualmente disponibile nell’ictus ischemico acuto. L’efficacia dell’uso dell’alteplase
entro 3 ore dall’inizio dei sintomi è stata per prima dimostrata nello studio NINDS e
sulla base di questi risultati, dal giugno 1996 la FDA ha approvato l’uso dell’r-TPA sul
territorio americano. La successiva metaanalisi della Cochrane Collaboration (2002) ha
dimostrato la riduzione della percentuale di mortalità o dipendenza alla fine del follow up
di tre mesi nei pazienti trattati con r-TPA rispetto al placebo. In Europa l’autorizzazione
al trattamento stabilita dall’EMEA (recepita dal Ministero della Salute Italiano nel luglio
2003) era condizionata: 1) dalla partecipazione dei Centri ad un registro osservazionale per
valutare il profilo di sicurezza dell’alteplase nella pratica clinica quotidiana (SITS-MOST)
e 2) alla effettuazione di uno studio clinico caso-controllo per valutare la possibilità di
estendere il tempo di somministrazione dell’alteplase sino alla 4a ora e mezza (ECASSIII). I dati del SITS-MOST pubblicati su Lancet nel gennaio 2007 hanno confermato
che l’uso dell’alteplase i.v. è sicuro ed efficace nell’uso clinico routinario, anche da parte
di centri con precedente scarsa esperienza nella gestione dell’ictsu acuto. I risultati dello
studio ECASS-III unitamente a quelli dei precedenti studi randomizzati e controllati e ai
dati del registro SITS-ISTR, hanno dimostrato che il trattamento con alteplase tra 3 e 4
ore e mezzo è efficace ed altrettanto sicuro come nella finestra di tempo di 3 ore. Per tale
motivo le Linee Guida dell’AHA hanno esteso l’indicazione dell’rt-PA nell’ictus ischemico
acuto sino a 4,5 ore dall’insorgenza dei sintomi. L’r-TPA deve essere somministrato alla
dose di 0,9 mg/kg di peso corporeo (10% in bolo, il restante 90% in infusione di 1 ora) in
assenza di controindicazioni cliniche e con TC negativa.
A distanza di 6 anni dall’introduzione dell’alteplase nella pratica clinica, ancora pochi
casi di ictus ischemico acuto sono trattati con questo farmaco (1,5-3% della casistica). In
Toscana la maggior parte degli ictus vengono trattati in reparti di Medicina Interna, ma
attualmente solo 10 centri sono attivi e buona parte della popolazione non può giovarsi
di un trattamento potenzialmente salvavita. I motivi sono principalmente organizzativi
e coinvolgono la fase territoriale (118) e ospedaliera. Un’ulteriore estensione dell’uso
del trombolitico nell’ictus ischemico potrà essere fornita dallo studio TESPI, approvato
dall’AIFA e coordinato dal dr. Toni della Università La Sapienza di Roma, che valuta l’uso
dell’rt-PA nei pazienti ultraottantenni.
Frontiere farmacologiche
nella terapia d’urgenza
dello scompenso cardiaco
Alessio Bertini
U.O. Medicina d’Urgenza e
Pronto Soccorso. DEA. A.O.U.P.
L
e ospedalizzazioni conseguenti ad una delle sindromi da scompenso cardiaco acuto
(ADHF) rappresentano una sempre crescente voce nel capitolo della spesa pubblica.
ADHF sono caratterizzate da una graduale o rapida progressione dei segni o sintomi di
scompenso cardiaco che richiedono terapia e/o ricovero urgente.
La eterogeneità nelle modalità di presentazione, nella fisiopatologia e nella prognosi di
queste sindromi rende conto della complessità degli approcci terapeutici disponibili. Il
miglioramento clinico è in genere rapido durante la degenza ma le riospedalizzazioni e
la mortalità rimangono elevate in alcuni sottogruppi. Nonostante le evidenze disponibili
questa patologia in gran parte “sotto-trattata” principalmente perché i farmaci efficaci nella
cure dello scompenso cardiaco come beta-bloccanti, ace-inibitori, antagonisti del recettore
per l’angiotensina non vengono iniziati o non vengono utilizzati nella maniera suggerita
dalle linee guida. Oltre all’aderenza ottimale ai suggerimenti delle linee guida, esistono
molte nuove terapie in fase avanzata di sperimentazione da utilizzare nella fase acuta della
malattia. Le linee guida della Società Europea di Cardiologia pubblicate nel 2005 e riviste
nel 2008 suggeriscono che i pazienti con insufficienza respiratoria acuta o shock cariogeno
devono essere trattati in ambiente intensivo, i pazienti congesti che potrebbero rispondere
in 12-24 ore possono essere trattati in unità di osservazione breve.
La situazione clinica prevalente deve guidare la scelta della terapia iniziale e la risposta
terapeutica deve essere frequentemente rivalutata. In generale l’uso endovenoso di
diuretici dell’ansa da solo o in associazione con vasodilatatori è preferibile in soggetti con
sovraccarico di volume. L’uso di inotropi andrebbe limitato a quel piccolo sottogruppo di
pazienti con sintomi da “bassa portata” e ipotensione sintomatica.
Tra le novità farmacologiche che si affacciano al vasto panorama di opzioni terapeutiche
in corso di ADHF ricordiamo i bloccanti del recettore per la Vasopressina, i cosiddetti
“Vaptani”, il calcio-sensibilizzante Levosimendan e la Nesiritide (analogo di sintesi del
BNP). Le evidenze scientifiche a favore dell’efficacia di questi farmaci in termini di mortalità
sono estremamente deboli se non del tutto assenti. La relazione presenterà le evidenze
disponibili in letteratura riguardo all’utilizzo (presente e futuro) di questi farmaci.
COMPLICANZE EMORRAGICHE
Maggiori in corso di terapia
anticoagulante e studio goat
è
sempre più esteso e supportato da evidenza il ricorso alla terapia anticoagulante
orale (TAO) sia nell’intento primariamente terapeutico, come nel caso di malattia
tromboembolica (Bournameaux H, Hematology 2008;1:252), che profilattico, prevalentemente
Simone Cencetti
UO Medicina d’Urgenza,
Ospedale Santa Maria Nuova, Firenze
Rino Migliacci
UO Medicina Interna
Ospedale di Cortona (AR)
Relazioni
19
volto a prevenire le complicanze cardioemboliche di fibrillazione atriale e valvulopatie
(Albers GW, Chest 2008; 133: 630S).
Il consenso è unanime nella letteratura e nelle linee guida delle Società Scientifiche, una
volta centrate le indicazioni al TAO, ed è corredato da evidenze di un rapporto rischio/
benefico ampiamente positivo (Ansell J, Chest 2008; 133; 160S). Nondimeno, il trattamento
rimane gravato da un elevato incremento di rischio emorragico. Attenendosi alla definizione
MTACH di sanguinamento maggiore (i.e: sanguinamento fatale, emorragia intracranica
sintomatica, decremento di emoglobina > 5 g/dL, shock emorragico, necessità di trasfondere
almeno 4 unità di globuli rossi concentrati), l’incidenza di tali eventi avversi risulta stimabile
attorno a 1,3/100 pazienti/anno. Come è facilmente intuibile, non esistono predittori (dati
clinico/anamnestici, risk-scoring systems) mirati al rischio di sanguinamento intracanico.
La stima del rischio di sanguinamento intestinale, che si presenta in circa il 20% dei pazienti
in TAO (Taha AS, Aliment Pharmacol Ther 2006;23: 489), rappresenta un challenge attraente,
anche in considerazione della vasta disponibilità delle indagini endoscopiche per la ricerca
di lesioni ad elevato rischio emorragico. Per quanto non numerosi, esistono già al riguardo
alcuni studi in letteratura, che sono risultati inconcludenti per la determinazione di un
chiaro profilo di rischio. I determinanti più significativi per il richio emorragico, appaiono
al momento la durata della terapia e la sua aderenza ai valori target di INR (Oden A,
Thromb Res 2006; 117: 492; Hirsch J, Guidelines for Antithrombotic Therapy, VIII Edition,
2008). Considerando anche la natura invasiva ed il costo delle indagini endoscopiche, la
UO Medicina d’Urgenza dell’Ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze ha condotto la
fase pilota dello studio prospettico GOAT (Gastroscopy in Orat AnticoagulaTion), per la
definizione della presenza di lesioni a rischio emorragico nella popolazione candidata a
TAO e per la ricerca di un profilo di rischio capace di porre indicazione alla esecuzione di
endoscopia digestiva superiore preliminarmente all’inizio della TAO.
Sono stati studiati 149 pazienti consecutivi presentatisi nell’arco di 12 mesi, con indicazioni
all’inizio di TAO per profilassi del cardioembolismo nella fibrillazione striale non valvolare.
I pazienti sono stati allocati nei due bracci di studio: consenso a endoscopia + TAO, consenso
solo al TAO; il follow up della fase pilota dello studio si è protratto per 3 mesi, durante i quali
non si è registrato alcun evento emorragico. Fra i 65 pazienti che hanno fornito il consenso
alla endoscopia, il 38% presentava lesioni del tratto digerente superiore, ed in particolare
23% presentavano elevato rischio emorragico. Pur rilevando una associazione significativa
fra lesioni e sesso maschile, età, insufficienza renale e sintomi digestivi, la dimensione del
campione non consente di delineare un profilo di rischio capace di indicare la necessità di
endoscopia preliminarmente al TAO. Nondimeno, l’elevato numero di lesioni riscontrate in
questa popolazione suggerisce l’utilità di pianificare uno studio multicentrico, di adeguate
dimensioni, per un adeguato disease management.
Susanna Pietrelli,
Salvatore Lenti
See and Treat: ipotesi di applicazione
U.O. Medicina d’Urgenza e
Pronto Soccorso Ospedale San Donato
USL8 Arezzo
I
Relazioni
20
n ogni parte del mondo occidentale si assiste ad un fenomeno diffuso in modo omogeneo
relativo all’uso crescente da parte dei cittadini dei servizi di Pronto Soccorso (PS); negli
ultimi 10 anni viene registrato un aumento degli accessi dal 50 % al 100 % a secondo
delle realtà locali. Si evidenzia come criticità del sistema il “sovraffollamento” del PS
e si possono indicare i principali effetti: tempi di attesa prolungati; pressione esercitata
da pazienti in buona misura non bisognosi di un trattamento in PS; insoddisfazione del
paziente; stress e demotivazione del personale; aumento del rischio professionale e qualità
percepita insufficiente (almeno da un punto di vista organizzativo).
Lavorando nel PS di Arezzo sono stata molto interessata dai primi annunci riguardanti la
possibile applicazione di un modello di trattamento detto “See and Treat”.
Sempre di più utenti si rivolgono al PS per risolvere problemi o disagi di salute “leggeri”(codici
a bassa priorità) che dovrebbero essere affrontati in luoghi extraospedalieri. L’aumento di
utenti che si rivolgono al servizio di PS determina un sovraffollamento delle strutture creando
problemi sconosciuti sino a pochi anni fa. Gli sforzi profusi, sino ad ora, per scoraggiare
l’afflusso per i pazienti con patologie minori, non hanno dato risultati soddisfacenti
spingendo la letteratura a ricercare soluzioni alternative che vengano in contro a tutti gli
utenti, non solo a chi si rivolge al servizio di PS per situazioni di emergenza-urgenza, ma
anche a coloro che chiedono risposte per problemi o disagi di salute “leggeri”.
Partendo dall’analisi della legislazione attuale che valorizza la “figura dell’infermiere” in
tutta la sua poliedricità, capace di farsi propri i contenuti altamente professionali e le funzioni
tipiche del suo ruolo e fornire prestazioni specifiche, pertinenti e di livello adeguato, sono
passata all’analisi dell’organizzazione sanitaria anglosassone dove, sin dal 2001, il modello
“See and Treat” ha trovato la sua applicazione.
La letteratura indica come siano altamente positivi i risultati ottenuti proprio dai colleghi
Infermieri anglosassoni, dove si è assistito ad un abbattimento dei tempi di attesa molto
consistente. Quindi non solo l’utente ma anche il professionista sanitario trae benefici non
indifferenti dal Modello “S&T”. Partendo dal dato che non esiste un solo tipo di modello,
ma che va adattato alla singola struttura, ho raccolto dei dati significativi del PS di Arezzo.
La raccolta dati ha avuto due filoni principali: analisi delle cartelle cliniche in un arco
temporale di 3 mesi (Dicembre 2006 - Febbraio 2007) e un questionario distribuito agli
Infermieri. Il campione viene estrapolato da un totale di accessi al Pronto Soccorso di
14.980: da una prima analisi vengono estromessi i codici di gravità maggiore riducendo
il campione a 10.855 schede di accesso per codici minori, che si concentrano soprattutto
nella nella fascia oraria diurna 8-20 con il 76 % sul totale, riducendo ulteriormente il
numero di accesi a 8.527: di questi il 14% (1157 pazienti) presentavano patologie minori
che potrebbero essere state trattate con il modello See and Treat, mentre il restante 86%
(7370 pazienti) avrebbero dovute essere trattate secondo i canoni del Triage.
I dati raccolti incoraggiano verso l’apertura di un ambulatorio sperimentale di “S&T” presso
il PS di Arezzo. Nell’ambito di un bacino di utenza interessante al PS di Arezzo l’analisi dei
dati evidenzia l’esistenza di un campione di pazienti che in base alla loro patologia possono
essere inviati per il trattamento in modello S&T infermieristico, compreso l’interesse da
parte dei colleghi del PS e la loro disponibilità. Concludo proponendo che il modello
potrebbe essere oggetto di una sperimentazione, all’interno del contesto Regionale Toscano,
presso il PS di Arezzo, previo corso di formazione. Il processo formativo dovrebbe avere
come obiettivo quello di implementare l’appropriatezza clinica, assistenziale, organizzativa
per poter creare un modello omogeneo nel miglioramento delle prestazioni da erogare
nell’area di Emergenza-Urgenza ai codici minori, assicurando tempi di risposta più rapidi,
razionalizzando i trattamenti, migliorando l’appropriatezza dei professionisti sanitari
per ottenere, soprattutto, un alto livello di soddisfazione degli utenti. Per la valutazione
dell’attività e per il controllo di qualità saranno utilizzati i seguenti indicatori: numeri di
casi trattati; diminuzione dei pazienti trattati che richiedono un nuovo acceso in Pronto
Soccorso nelle successive 72 ore; grado di soddisfazione dei pazienti sottoposti a “S&T”;
completezza delle informazioni ricevute; tempi di transito dall’arrivo alla dimissione per
pazienti in regime di “S&T”; qualità delle prestazioni ricevute e facilità, dopo la dimissione,
di stabilire un contatto con l’ambulatorio del follow-up dei dimessi dal Pronto Soccorso.
STRATEGIA TERAPEUTICA NELLA
SEPSI
Introduzione
a sepsi rappresenta ancora oggi una grave complicanza che può causare la morte
del paziente. La maggiore diffusione di pratiche diagnostico e/o terapeutiche con
invasività del letto circolatorio, l’uso di dispositivi intravascolari e di materiali protesici,
L
Milena Bernardini
U.O. Medicina Interna e Geriatria
Ospedale San Donato USL8 Arezzo
Relazioni
21
Relazioni
22
il sempre maggiore utilizzo di terapie immunosoppressive, le modificazioni dell’ecologia
dei patogeni di comunità determina l’insorgenza di sepsi. Molto spesso il soggetto con
sepsi è anziano con gravi comorbidità, politrattato e quindi necessita di particolari scelte
terapeutiche oltre le assistenziali.
•Terapie di sostegno. Devono correggere l’instabilità emodinamica e l’ipoferfusione
tissutale. Cristalloidi o colloidi infusi rapidamente possono ristabilire il volume intravascolare.
è la prima terapia che deve essere attuata quando è presente ipotensione assoluta <90
mm Hg o relativa <di 40 mm Hg rispetto alla PA basale. Possono essere somministrati
vasocostrittori: Noradrenalina ed anche inotropi: Dopamina o Dobutamina in presenza di
adeguata portata cardiaca.
•Terapia antibiotica. Per via endovenosa dovrebbe essere attuata entro la prima ora dal
riconoscimento della sepsi grave e dopo il prelievo di appropriate colture.
La terapia antibiotica iniziale è empirica e deve includere uno o più farmaci attivi nei
confronti di possibili patogeni e deve agire efficacemente nei presunti focolai di sepsi.
La scelta degli antibiotici, battericidi, deve tenere conto della sensibilità dei microrganismi
presenti nella comunità e nell’ospedale di appartenenza all’agente antimicrobico.
La scelta empirica della terapia antibiotica è comunque legata all’anamnesi del paziente
(eventuali intolleranze ai farmaci, alle comorbidità, allo stato immunitario, alla funzionalità
epatica e renale) alla sindrome clinica ed al tipo di resistenze possedute dai microrganismi
nella comunità, nell’ospedale o in altre strutture sanitarie.
La terapia empirica è costituita da cefalosporine di terza e quarta generazione ed
aminoglicoside. I carbapenemici, le carbossipenicilline a largo spettro o ureidopenicilline
con inibitori delle betalattamasi devono essere usati nelle sepsi gravi. Glicopeptidi,
oxazolidioni devono essere inclusi nella terapia in caso di ipersensibilità ai betalattamici o
per resistenze di Gram +. La terapia empirica antimicotica è indicata soltanto in soggetti
selezionati con alto rischio di candidosi invasiva.
•Terapia steroidea. è efficace nei pazienti con shock settico, idrocortisone 200-300mg
/die endovena.
•Controllo della glicemia. Devono essere mantenuti livelli glicemici tra 80-110 mg/dl
con terapia insulinica.
•Somministrazione di emoderivati. La somministrazione di GR concentrati è
indicata se Hb < 7g/dl. L’eritropoietina non è raccomandata nell’anemia associata a sepsi
severa. L’uso di plasma fresco non è indicato per correggere le alterazioni coagulative
senza sanguinamento attivo o senza la programmazione di procedure invasive. Le piastrine
dovrebbero essere somministrate quando sono <5000 /mm3 o se ->5000 /mm3 quando
sono necessarie per procedure invasive o interventi chirurgici.
L’antitrombina (ATIII) ad azione anticoagulante, inibendo i fattori XIa e IX a della via
intrinseca, ed antinfiammatoria non è raccomandata nel trattamento della sepsi severa e
dello shock settico, ma è indicata solo in pazienti con deficit congenito di antitrombina.
I livelli di proteina C attivata sono ridotti nella sepsi grave e nello shock settico. La
terapia con proteina C umana ricombinante riduce il rischio relativo di mortalità del 22%
ed il rischio assoluto del 7,4%.
Il tissue factor-pathway inibitor (TFPI) è un inibitore naturale che modula la fase
d’inizio della coagulazione; l’uso di TFPI ricombinante è in corso di valutazione nella sepsi
grave, ma ad oggi i risultati sono insufficienti.
Afelimomab, anticorpo monoclonale anti TNF- alfa riduce modestamente la mortalità
nei soggetti con sepsi severa con tassi elevati di IL-6.
•Profilassi della TVP. deve essere attuata con piccole dosi di eparina non frazionata o
EBPM. Nei pazienti con controindicazioni all’eparina viene raccomandato l’uso di calze a
compressione graduata o sistemi di compressione intermittente.
•Profilassi dell’ulcera da stress. può essere usato sucralfato o H2 antagonisti, se non
possono essere somministrati sono usati gli inibitori di pompa protonica.
•Conclusioni. Malgrado i progressi nelle terapie antimicrobiche ed il miglioramento
tecnico della terapia di supporto delle funzioni vitali, la mortalità rimane elevata: 28-30%
nelle sepsi severe e di circa 50% nello shock settico.
SHOCK SETTICO E SINDROME
MULTIORGANO
Cesare Francois
Rossella Palmieri
Ospedale Alta Val d’Elsa
Premessa
a relazione è dedicata alla revisione della gestione della sequenza clinica da SIRS
a MOF, intesa come patologia tempo dipendente, nell’ Area Critica e non-Critica,
soffermandosi sugli aspetti peculiari dello shock settico e della sofferenza multiorgano.
•Epidemiologia e Definizione. Le definizioni dei singoli quadri clinici stressano, per
necessità nosologiche, le loro diversità che appaiano molto spesso sfumate nella iniziale
obbiettività del Paziente, richiamando quindi la massima attenzione degli Operatori
nell’individuare le situazioni verisimilmente prodromiche ai quadri gravi e/o irreversibili.
Tale attenzione, che deve essere posta sia al primo accoglimento del Paziente che durante la
sua degenza, si avvale non solo nella considerazione del ragionamento clinico ma anche di
sistemi di allerta codificati che permettano di riconoscere i quadri in fase di peggioramento
quali, per esempio, lo Early Warning Score. Dopo un primo accenno epidemiologico e
la definizione dei problemi che sottolinea coma si debbano considerare un continuum
evolutivo e non patologie a se stanti, come chiaramente ratificato dalla Consensus
Conference del 1992, ci si sofferma sulle recenti e complesse acquisizioni fisiopatologiche
dove si evidenziano le strette inter-relazioni tra agente patogeno e risposte dell’ospite in
quell‘incontro dove anche le rispettive caratteristiche determinano l’evoluzione contingente
(PIRO Predisposition - Insult infection - Response - Organ dysfunction).
•Fisiopatologia. Esotossine, parete ed endotossine dell’agente aggressore, leucociti,
epitelio, endotelio,mediatori infiammazione, fattori della coagulazione e secrezioni neuroendocrine dell’ospite giocano ognuna un ruolo fondamentale nel determinismo evolutivo
dalla SIRS o dall’infezione “banale” allo shock ed alla sofferenza mono-multiorgano, con
un transito non obbligato attraverso le caratteristiche espressioni della sepsi.
•Conclusioni. Gli aspetti diagnostici e terapeutici che come sempre, in situazione di E/U
progrediscono contemporaneamente, mostrano come a parte alcune limitate novità degli
uni (dosaggio Procalcitonina) e degli altri (Proteina C Attivata Ricombinante) la maggior
possibilità di esito positivo risieda prevalentemente nell’aspetto organizzativo (Early goldirected therapy) che non ha ancora trovato, nelle revisioni della letteratura, la diffusione
attesa.
L
VALUTAZIONE INFERMIERISTICA
DEL DELIRIO
Simona Papi,
Letizia Pietrucci
Ospedale S. Donato Arezzo
L
’intervento intende portare un contributo per il riconoscimento dei molteplici fattori
che determinano il delirio acuto (delirum), sindrome che si riscontra in un terzo degli
anziani ospedalizzati.
Il delirium è da considerarsi una sindrome grave, con priorità clinica, perché tale
patogenicità è sostenuta da cause somatiche ed indice prognostico non favorevole.
La sintomatologia, qualora non sia possibile correggere le cause scatenanti, tende a
permanere, non favorendo il ritorno al domicilio e richiedendo il ricovero in strutture
di lungodegenza o complicando il quadro di fragilità già presente, con ulteriori eventi
patologici quali ad esempio fratture conseguenti a cadute.
L’etiologia è multifattoriale e le caratteristiche cliniche comportano una complessità
interpretativa ed assistenziale.
Il delirium ha un forte impatto sugli outcames di salute quali la mortalità, la
Relazioni
23
istituzionalizzazione e la riospedalizzazione.
Il percorso assistenziale, in un modello organizzativo per intensità di cure, si sviluppa
attraverso una valutazione multidimensionale che richiede all’infermiere, essendo
l’operatore che più direttamente si trova a monitorare lo stato mentale del paziente, di
acquisire strumenti idonei per valutare eventuali cambiamenti nel comportamento, al fine
di migliorare la sensibilità diagnostica ed indirettamente migliorare la prognosi dei soggetti
affetti da delirium.
A. Morettini,
S. Galli, L. Giabbani
Azienda Ospedaliera Careggi Firenze
IL PAZIENTE POST-CHIRURGICO
INSTABILE
L
Relazioni
24
a sezione di Medicina Interna Perioperatoria (MIP), nata nell’ambito della Medicina
Interna 1 dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi-Firenze diretta dal Dr. A.
Morettini, dispone di 12 letti di degenza localizzati al terzo piano del padiglione Nuovo S.
Luca.
In questa relazione è riportata l’analisi dell’attività della sezione di MIP dal momento della
sua apertura, avvenuta nel novembre 2008, fino al giugno 2009 compreso. Le osservazioni
preliminari evidenziano che il contributo internistico “dedicato”, in sinergia con l’assistenza
anestesiologico-rianimatoria, è da ritenersi vantaggioso sull’evoluzione clinica e sul recupero
globale del paziente chirurgico, particolarmente in presenza di complicazioni mediche nel
periodo post-operatorio.
I pazienti proposti alla MIP dai reparti chirurgici, sono riconducibili essenzialmente alle
seguenti tipologie:
a) pazienti operati con complicazioni mediche;
b) pazienti chirurgici con importanti co-morbilità mediche;
c) pazienti non suscettibili di trattamento chirurgico immediato.
Seguendo gli indirizzi posti dalle direttive aziendali, al fine di ottenere una maggior
appropriatezza dei ricoveri nei reparti chirurgici, un’ottimizzazione dell’assistenza
“medica” nel soggetto operato ed una riduzione dei tempi di ricovero, è stata data maggior
disponibilità all’accoglienza dei pazienti provenienti dall’Open Space Chirurgico. Ogni
reparto di chirurgia ha potuto comunque usufruire, in misura variabile, del supporto
internistico della MIP, utilizzando il servizio di consulenza oppure disponendo il
trasferimento dei pazienti nella sezione medica stessa.
L’attività prevalente della MIP è stata rappresentata dalla cura di pazienti con complicanze
mediche nel periodo post-operatorio senza necessità di supporti e monitoraggi di tipo
intensivo. I pazienti afferiti alla MIP sono stati prevalentemente soggetti anziani, in
evidente concordanza con la maggior frequenza di co-morbilità, con una ridotta riserva
fisiologica dei vari organi e una ridotta capacità a mantenere le condizioni di omeostasi
nell’età avanzata.
Tra le complicazioni del post-operatorio che più spesso hanno condotto al trasferimento
dei pazienti presso la nostra unità di cura sono risultate la sepsi, le complicanze polmonari,
lo scompenso cardiaco e la malnutrizione.
Tra le co-morbilità dei pazienti con complicazioni post-operatorie sono state di
frequente riscontro il diabete, la BPCO, le cardiopatie. Solo in alcuni casi è stata richiesta
una valutazione preoperatoria specifica, mirata non tanto all’identificazione ed alla
quantificazione di malattie concomitanti, quanto ad ottimizzare le condizioni del paziente
con co-morbilità note significative e in scarso controllo.
La complessità assistenziale dei pazienti trattati ha comportato tempi di degenza media di
12 giorni.
Analizzando il gruppo dei pazienti con degenza superiore alla media è stato possibile
osservare correlazioni peculiari con l’età avanzata, con la patologia bilio-pancreatica, con
le neoplasie colo-rettali (ed i relativi trattamenti chirurgici) e con talune complicazioni
post-operatorie quali la sepsi, le complicanze respiratorie e cardiache e la malnutrizione
proteico-calorica sia preesistente al ricovero che acquisita in fase chirurgica.
Gli obiettivi particolari, condivisi dal personale medico-infermieristico della MIP, sono:
l’attivazione di un idoneo supporto fisioterapico per la prevenzione delle complicanze
respiratorie e per un recupero rapido dell’autonomia motoria, l’ottimizzazione dello
stato nutrizionale attraverso il supporto dietetico per os, NET e NPT, la prescrizione
di un’adeguata terapia antalgica, la corretta gestione delle ferite e dei presidi chirurgici
frequentemente ancora presenti al momento del trasferimento, il controllo delle infezioni
e, naturalmente, l’acquisizione di conoscenze specifiche.
PROSPETTIVE DI DIDATTICA
IN MEDICINA INTERNA OGGI
L
a didattica curriculare e post-curriculare in Medicina Interna è andata incontro negli
ultimi anni ad una ampia riconsiderazione che ha portato, al momento attuale, a
privilegiare una formazione medica integrata e multi-dimensionale che si avvale di una
componente di insegnamento sistematico e di una didattica attraverso “problem solving” e
di una educazione clinica per processi.
Questa multi-dimensionalità formativa è volta a garantire la messa a punto di spiccate
competenze inter-poli-transdisciplinari che possano assicurare sempre più elevati standard
di qualità assistenziale.
La Medicina Basata sulle Evidenze (Evidence Based Medicine, EBM) e la Medicina
Narrativa costituiscono due assi portanti del sistema formativo in Medicina Interna. L’EBM
è “L’uso coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze disponibili per prendere
decisioni sull’assistenza del singolo paziente sulla base dell’esperienza individuale”1.
Nelle ultime due decadi la “Evidence Based Medicine” è andata incontro ad una profonda
evoluzione ed oggi è sempre più chiamata ad integrarsi con la “Narrative Medicine”
(Medicina Narrativa), definita da uno dei suoi pionieri, Rita Charon, come una “Medicina
praticata con la competenza narrativa del riconoscere, interpretare e passare all’azione
sulla base delle situazioni difficili degli altri”2.
Evidence Based Medicine e Narrative Medicine non devono essere considerate in
contrapposizione, tanto che, in un suo recente testo, Giorgio Bert sostiene molto acutamente
che è stata proprio la crescente scientificità della medicina attuale a consentire e promuovere
la ripresa e la valorizzazione della dimensione relazionale dei “gesti” medico-sanitari3.
Importante inoltre considerare la didattica del “Knowledge management” (KM) che si basa
sulla esplicitazione completa del percorso logico che docente e discente seguono per porre
e risolvere un quesito clinico. Il KM in azione configura la chiara identificazione dei nodi
decisionali, la scomposizione ragionata delle associazioni (segni-patologie) e l’esclusione
progressiva di associazioni poco robuste la ricomposizione conclusiva del ragionamento
clinico.
La medicina diventa sempre più complessa, le conoscenze più vaste e ciò porta a una
frammentazione in specializzazioni di ambito sempre più ridotto.
Nella Laurea Specialistica in Medicina, c’è sempre meno spazio per i momenti di riflessione
complessiva sul paziente. Mentre l’Università inizia ad aprirsi al territorio (mediante
l’insegnamento della Medicina Generale), la formazione del futuro medico si basa ancora
largamente sul modello basato sulla cura, quasi sempre specialistica, della malattia acuta
in ospedale.
La sfida è quella di riuscire a coniugare la forza formativa di questo modello, indispensabile
per fornire una base di conoscenze, con esperienze specifiche nel campo della continuità
della cura con nuove esperienze formative al fine di assicurare anche la continuità del
Gian Franco Gensini,
Andrea A. Conti
Dipartimento di
Area Critica Medico Chirurgica,
Università degli Studi di Firenze
Fondazione Don Carlo Gnocchi,
IRCCS S. Maria agli Ulivi, Firenze
Centro Italiano per la
Medicina Basata sulle Prove
Beatrice Dilaghi
Dipartimento Emergenza Accettazione
Azienda Ospedaliero-universitaria
Careggi, Firenzei
Relazioni
25
curriculum e la continuità della supervisione.
La componente relazionale della medicina clinica, il “saper essere”, non può essere visto
disgiuntamente dal “sapere” (conoscenze teoriche), dal “saper fare” (competenze operative),
e dal “Saper far fare” in quanto, come ricordato, una è la medicina ed unico, e assai spesso
particolarmente complesso, è ogni singolo paziente della realtà assistenziale quotidiana4.
Bibliografia essenziale.
1. Sackett DL, Richardson WS, Rosenberg W, Haynes RB. Evidence-based Medicine. How to practice and
teach EBM. London, Churchill Livingstone, 1997.
2. Charon R. The narrative road to empathy. In Empathy and the medical profession: Beyond pills and the
scalpel. Edited by Howard Spiro. New Haven, Yale University Press, 1993 (pp. 147-59).
3. Bert G. Medicina Narrativa. Storie e parole nella relazione di cura. Roma, Il Pensiero Scientifico Editore,
2007.
4. Gensini GF, Conti AA, Conti A. La formazione del medico: perché e come rinnovarla. Recenti Progressi
Giuseppe Seghieri
Medicina Interna
Ospedale Del Ceppo Pistoia USL3
La gestione ospedaliera del
diabete
I
Relazioni
26
recenti studi di intervento non hanno chiarito in modo definitivo la questione riguardante
la intensità di intervento al fine di ridurre la glicemia in pazienti affetti da diabete o
non.
Questo aspetto appare particolarmente importante perché è oramai noto che la prognosi
immediata e a distanza è legata alla glicemia all’ingresso in ospedale. Vi sono studi che
evidenziano che livelli i più bassi possibili di glicemia sono di vantaggio almeno nelle corsie
dei reparti ad alta intensità di cura.
Altri studi smentiscono tutto questo evidenziando che il rischio reale di ipoglicemia
associato ai regimi terapeutici più intensivi, può addirittura portare ad un incremento della
mortalità.
Esiste poi tutto l’ampio spettro delle situazioni cliniche legate ai ricoveri in reparti ad
intensità di cura non elevata come rutinariamente avviene nei reparti di Medicina.
In questa review viene trattato in particolare quest’ultimo aspetto e cioè il trattamento del
paziente diabetico ricoverato nei reparti Ospedalieri di Medicina Interna.
Si inizia con la presentazione di studi epidemiologici condotti nella nostra regione,
introducendo il concetto di diabete come fattore di rischio per la prognosi e per la durata
di degenza in Ospedale.
Si discute, infine della necessità di terapia insulinica, soprattutto in rapporto alla nutrizione
parenterale ed entrale, della specifica problematica di alcune patologie importanti come
la cardiopatia ischemica, e delle altre malattie frequentemente rappresentate nei reparti
medici come l’insufficienza epatica, renale, la BPCO e l’encefalopatia ischemica acuta
(TIA ed ictus).
A tal proposito si ricordano i limiti e i vantaggi di una terapia insulinica aggressiva e si
menzionano le principali linee guida in proposito, riferendo dei target terapeutici e della
necessità di un’accurata diagnosi all’ingresso al fine di inquadrare la ‘iperglicemia’ come
pregresso diabete misconosciuto o come semplice ‘iperglicemia da stress’.
Il percorso assistenziale, in un modello organizzativo per intensità di cure, si sviluppa
attraverso una valutazione multidimensionale che richiede all’infermiere, essendo
l’operatore che più direttamente si trova a monitorare lo stato mentale del paziente, di
acquisire strumenti idonei per valutare eventuali cambiamenti nel comportamento, al fine
di migliorare la sensibilità diagnostica ed indirettamente migliorare la prognosi dei soggetti
affetti da delirium.
LA GESTIONE TERRITORIALE DEL
DIABETE verso uno sviluppo integrato
Luigi Triggiano
Medico di Medicina Generale
Unità di Cure Primarie di Civitella in Val di Chiana
dell’assetto organizzativo della medicina di famiglia
Premessa
l Diabete Mellito rappresenta una delle malattie prevalenti a livello territoriale con incidenza in aumento. Le problematiche ad essa correlate sia sul versante della qualità della
vita delle persone che ne sono affette sia sul versante del disease management, rappresentano motivo di grande impegno da parte del Medico di Famiglia e del Servizio Sanitario
locale nel suo insieme.
La problematica. La complessità della problematica che spazia dall’approccio preventivo (multifattorialità del rischio diabete e familiarità), alla diagnosi precoce, dalla educazione ad un sano stile di vita, al self management e alla terapia, alla diagnosi precoce e alla
cura delle complicanze, denotano la necessità di un approccio multi disciplinare e multi
professionale alla presa in carico dei pazienti che però non ha ancora visto nell’assetto
organizzativo del percorso assistenziale delle aziende sanitarie lo sviluppo di “setting” adeguati in termini di efficacia e di efficienza.
L’ipotesi di sviluppo. La dimensione proattiva che negli ultimi anni va sempre più
caratterizzando operatività della Medicina Generale ed il concomitante mutamento dell’assetto organizzativo della stessa sul territorio (rivolto a forme di integrazione e collaborazione multi professionali strutturate), vede nell’implementazione distrettuale del Chronic
Care Model una possibile innovazione assistenziale che permetta di perseguire maggiori
obiettivi di salute sull’intera popolazione di soggetti diabetici in carico alla MG e dunque
residenti su territorio, favorendo al contempo la valorizzazione ottimale delle risorse e di
tutti i contributi professionali disponibili.
I
IL PIEDE DIABETICO
Emanuele Bartolini,
Silvia Magi
Ospedale San Donato di Arezzo
I
l piede diabetico è una complicanza della patologia diabetica che insorge in associazione a problematiche di tipo vascolare, neuropatico, creando alterazioni di tipo anatomo-strutturali del piede stesso, spesso complicate da infezione. Anche in Italia si cerca di
affrontare questa patologia che purtroppo affligge gran parte dei pazienti diabetici. Sono
stati infatti organizzati in più strutture ospedaliere ambulatori di primo, secondo e terzo
livello in base anche alla disponibilità numerica di personale specializzato. Si tratta quindi
di fare uno screening dei pazienti diabetici, tutti ipotetici candidati al problema “piede diabetico”. Tutto ciò dovrebbe aiutare a dare tempestivamente una classificazione delle ulcere
diabetiche per chi già ne presenta e a classificare comunque ogni paziente diabetico in una
classe di rischio per problemi legati al piede. Anni di studio hanno portato alla scoperta
di medicazioni sempre più specifiche: medicazioni avanzate adatte ad ogni tipo di ulcera,
più o meno profonda, più o meno essudante, infetta. A questo proposito molto è stato fatto
per la terapia antibiotica, fondamentale nella cura delle ulcere più gravi, più profonde e
complicate da infezione. Allo stesso modo si è provveduto alla formazione di personale
sempre più specializzato e adeguato ad affiancare i medici specialisti dedicati alla cura del
piede diabetico. Un posto importante viene occupato dall’educazione al paziente, ai suoi
familiari, o collaboratori, perché da sempre se si conosce il problema si può risolvere e
l’educazione in questo gioca un ruolo fondamentale. Infine sono state istituite giornate per
la sensibilizzazione di tutti, per spiegare in maniera semplice che un intervento tempestivo
potrebbe davvero cambiare molto nella gestione di questa complicanza.
Relazioni
27
Emilio Santoro
Ospedale del Casentino Bibbiena
AUSL8 Arezzo
BPCO tra ospedale e territorio:
Ipotesi di percorsi
L
Relazioni
28
a Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) viene definita malattia prevenibile
e trattabile associata a significativi effetti extrapolmonari che possono contribuire alla
gravità della patologia nei singoli pazienti. La sua componente polmonare è caratterizzata
da una ostruzione persistente al flusso aereo che è generalmente progressiva e associata ad
una abnorme risposta infiammatoria del polmone all’inalazione di fumo di sigaretta o di
particelle nocive o gas. La BPCO è oggi la quinta causa di morte nel mondo ed è destinata a
diventare nei prossimi anni la terza. Il 4-6 % della popolazione Europea è affetta da BPCO:
3.0 milioni in Italia, 3.0 milioni in UK, 2.7 milioni in Germania, 2.6 milioni in Francia,
1.8 milioni in Spagna; 600 milioni nel mondo. In Toscana gli ultrasessantacinquenni
affetti da BPCO sono circa 178.000; 70.000 anziani poi hanno almeno tre comorbilità!
Le più frequenti comorbilità della BPCO sono lo scompenso cardiaco, il diabete mellito,
l’osteoporosi, il tumore polmonare, l’ipertensione arteriosa. E non dimentichiamo che solo
il 25% dei casi di BPCO è diagnosticato: pazienti e medici sottostimano i sintomi (tosse
ed espettorazione,talora dispnea) considerandoli una “normale” conseguenza del fumo di
sigaretta e dell’invecchiamento. La sottodiagnosi, si associa al sottotrattamento: solo il 17,5%
del totale dei pazienti con BPCO riceve un qualsiasi trattamento, solo il 70% dei trattati
riceve un trattamento adeguato e regolare, il 50% non assume correttamente i farmaci
per via inalatoria. In Italia la BPCO è risultata al quarto posto per i ricoveri ospedalieri: la
media di degenza ospedaliera è di circa 10,6 giorni. In uno studio italiano la mortalità dei
pazienti ospedalizzati con BPCO è risultata essere del 14 %, maggiore di quella per infarto
del miocardio. L’impatto socioeconomico è pesante: le patologie respiratorie sono al terzo
posto tra le cause di assenza dal lavoro per malattia, aumentando notevolmente i costi
nella prospettiva sociale per conseguente invalidità, perdita di produttività, peggioramento
della Qualità della Vita progressivo. Le riacutizzazioni poi e l’insufficienza respiratoria
possono rendere necessario sia il ricovero in ospedale sia il ricorso a terapie molto costose e
complesse. Nel 2003 risultano in Italia 130.000 ricoveri per BPCO con spesa di 321.000.000
di euro! La BPCO pertanto rappresenta un enorme problema sanitario per la comunità,
condizionando negativamente il paziente e la sua famiglia, il mondo del lavoro,quello delle
istituzioni e, l’intera società nel suo complesso: il cost of illness laddove è stato calcolato
dimostra che la BPCO rappresenta una forma morbosa ad elevatissimo impegno di risorse
sanitarie. In genere è stato valutato che i pazienti affetti da BPCO producono un costo
annuo dovuto ad ospedalizzazione superiore del 250% rispetto a quello di altri pazienti
cronici e del 160% in termini di consumo di servizi ambulatoriali. Un moderno approccio
alle cronicità ed alla BPCO in particolare è condizionato dalla mission dell’ospedale
diventato per “acuti” o “riacutizzati” e che vede il superamento del reparto verso le aeree
per intensità di cura: ciò permette un approccio diverso al paziente.
Sul versante ospedaliero la scommessa consiste nell’ospedale per intensità di cure che
deve favorire un approccio multidisciplinare, centrato sul malato, per superare una visione
“d’organo”, che il reparto monodiscipliare tende ad esprimere. Attraverso la realizzazione
di aree di ricovero “aperte e variabili”, graduate per intensità di bisogno assistenziale, sarà
possibile superare le criticità, frequentemente riscontrabili in ospedale, legate alla gestione
del posto letto. Il superamento del concetto di reparto non significa però sminuire o peggio
rinunciare al ruolo delle equipe specialistiche. Al contrario, non dovendo necessariamente
“costituire uno specifico reparto”, si rende più facile il superamento, specie negli ospedali
medio – piccoli, del principale ostacolo alla costituzione di poli specialistici cui affidare,
secondo criteri di appropriatezza clinica, la gestione del paziente. Gli ospedali devono
essere in grado di governare i flussi che il PS detta: il DEA come componente integrata
di un sistema organico fortemente interconnesso.Il Day Service rappresenta poi un ponte
ospedale territorio per quelle cronità come la BPCO che solo attraverso percorsi definiti di
diagnosi,terapia e follow-up possano permettere al paziente di sentirsi protetto, cioè essere
preso in cura. Ciò ha senso e da risultato se il “Territorio” è presente con i suoi operatori ed
entra in sintonia con il paziente nel suo ambiente attraverso una “visione proattiva” della
gestione clinica che solo una Unità di Cure Primarie adeguata e colta può interpretare con
i suoi Operatori Sanitari (medici e non, generalisti e specialisti) capaci di integrarsi tra di
loro e con le altre realtà sanitarie attraverso una saggia interpretazione del Chronic Care
model. I percorsi dovranno essereTerritorio-Ospedale-Territorio: ciò implica una nuova
alleanza tra specialistica ospedaliera e medicina territoriale che consenta di trasferire
competenze cliniche e complessità assistenziale nel territorio comprese le valenze sociosanitarie.
BPCO - Epidemiologia e
Linee Guida Regionali per la
gestione territoriale
Alessandro Bussotti
MMG - Agenzia per la Continuità
Assistenziale, Azienda Ospedaliera
Universitaria Careggi - Firenze
L
a BPCO e l’insufficienza respiratoria, che ne è la conseguenza, rappresentano una
delle più frequenti cause di ricoveri ospedalieri ripetuti, dovuti alla difficoltà di gestire
e trattare la patologia a domicilio. Questo è possibile solo con un modello di intervento
multidisciplinare e multiprofessionale e con una medicina di iniziativa, come viene sostenuto
e delineato nel modello del Chronic Care Model, individuato nell’attuale Piano Sanitario
Regionale Toscano come lo strumento per la gestione delle malattie croniche.
I problemi principali nella gestione della BPCO sono:
- identificazione precoce dei casi e costruzione di un registro di patologia. La patologia
viene spesso, specie nelle fasi inziali, sottodiagnosticata e sottotrattata;
- scarso uso dell’esame spirometrico nonostante sia ormai definito in tutte le linee guida
come l’esame gold standard per la diagnosi ed il follow up della BPCO;
- scarsa efficacia, se non sui sintomi, della terapia farmacologia: l’unico intervento su cui
devono essere puntati gli sforzi per interrompere il peggioramento della malattia è la
lotta al fumo;
- maggior interesse verso la qualità di vita del paziente e, quindi sulla dispnea e sulla
resistenza allo sforzo, piuttosto che sull’andamento degli esami strumentali.
Un miglioramento del trattamento di patologie croniche e molto complesse da gestire,
come la BPCO, si può ottenere solo con la collaborazione dei vari soggetti che seguono il
paziente: infermiere, specialista, MMG.
ANIMO: GESTIONE BPCO
Ilenia Pisani
U.O. Medicina Interna,
P.O. Cecina USL 6 Livorno
Valentina Pucci
L
a BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) è una malattia respiratoria cronica
prevenibile e trattabile associata a significativi effetti e comorbidità extrapolmonari che
possono contribuire alla sua gravità nei singoli pazienti. Ha una storia naturale variabile,
generalmente, comunque, è una malattia progressiva. (GOLD 2008). L’impatto della malattia
su ciascun paziente, dipende quindi non solo dalla componente polmonare caratterizzata
da una limitazione cronica al flusso aereo, ma anche dalla gravità dei sintomi, dagli effetti
sistemici e dalle comorbidità (Adattamento italiano delle Linee Guida GOLD 2006).
Da ciò è facile evincere l’importanza di garantire un’assistenza infermieristica globale,
mettendo in atto e promuovendo (in collaborazione con le altre professionalità) appropriati
e personalizzati interventi assistenziali ed educazionali, per tutti i livelli di dispnea: corrette
tecniche di assunzione della terapia farmacologica e dell’ossigenoterapia, strategie per
U.O. Pneumologia e Gastroenterologia,
P.O. ASL 11 Empoli
Relazioni
29
la clearance delle secrezioni e per la conservazione delle energie, strategie nutrizionali e
controllo del BMI, tecniche di rilassamento per il controllo della dispnea, strategie per la
cessazione dell’abitudine tabagica, vaccinazione, riabilitazione respiratoria (RNAO. Nursing
care of dyspnea 2005). L’obiettivo è quello di assicurare un approccio multidisciplinare
integrato rivolto ai bisogni della persona; una appropriata valutazione e gestione del
livello di dispnea; il controllo dei sintomi e la promozione dell’autogestione della malattia;
ottimizzando lo stato di salute, la qualità di vita e la performance del paziente. (RNAO.
Nursing care of dyspnea 2005) (COPDX 2008). La riacutizzazione di BPCO si definisce
come un evento, che si manifesta nel normale decorso della malattia, caratterizzato da una
modificazione dei livelli basali di dispnea, tosse e/o espettorazione, che và oltre alle abituali
variazioni giornaliere, che induce una correzione del trattamento (ATS/ERS 2004) e che
non infrequentemente, richiede l’utilizzo di un supporto ventilatorio meccanico. (Plant
PK, Owen JL, Elliott MW. Thorax 2000).
L’assistenza infermieristica al paziente con BPCO in trattamento con la ventilazione
meccanica non invasiva (NIV) deve focalizzarsi su almeno tre punti fondamentali:
- Far comprendere al paziente l’importanza della NIV al fine di ottenerne la collaborazione
nell’esecuzione. Tale collaborazione è infatti la conditio sine qua non affinché la NIV risulti
efficace. Nell’immaginario comune infatti, il termine TERAPIA è riferito unicamente a
quella farmacologica: in molti casi questo comporta che il paziente, poco dopo l’inizio
del trattamento (non appena ne avverte i primi benefici), chieda di ridurre il tempo
prescritto per la ventilazione o, addirittura, rifiuti di eseguirla. L’infermiere dovrà
dunque aiutare la persona a comprendere che la NIV è, per la sua patologia, TERAPIA
(e spesso proprio quella risolutiva).
- Aiutare il paziente (o il care-giver) ad eseguire correttamente la NIV.
- Aiutare il paziente (o il care-giver) a riconoscere i segni e/o sintomi indicatori
dell’inefficacia o della non corretta esecuzione della NIV.
Qualora il paziente non sia in grado di comprendere i punti sopra citati l’ infermiere dovrà
sostituirsi ad esso, in parte o in tutto,al fine di garantire la massima efficacia della NIV.
Fa da sfondo a tutto questo la relazione tra infermiere e paziente. L’infermiere, anche
in caso di crisi respiratoria acuta, non dovrà mai dimenticare che davanti a sé non ha
solo una patologia da trattare ma una persona; spesso in preda alla forte paura dettata
dalla sensazione di soffocamento dovuta alla crisi respiratoria. Fondamentale sarà dunque
stabilire una relazione di fiducia, spiegando al paziente di volta in volta, cosa stiamo
facendo al fine di ridurne la paura e il senso di perdita di controllo. Alla stabilizzazione
della fase acuta, deve necessariamente seguire la fase di programmazione ed organizzazione
individualizzata della dimissione e della eventuale assistenza domiciliare con un piano
assistenziale infermieristico che tenga in considerazione il profilo clinico della persona,
ma anche il suo livello di autonomia, le sue disabilità e la complessità dei presidi di cui
necessita. (Bonarini A. PAIUC. 2004)
Salvatore Lenti
Centro Ipertensione Arteriosa,
Medicina d’Urgenza
Ospedale San Donato USL8 Arezzo
Fattibilità ed operatività di
una cartella clinica
Informatizzata per il rischio
cardiovascolare
Progetto FATO - VIRC Regione Toscana
Relazioni
30
Razionale.
e malattie cardiovascolari sono la prima causa di morbilità e mortalità in Italia.
Questo fenomeno è in gran parte attribuibile alla prevalenza dei fattori di rischio
L
cardiovascolare (ipertensione, diabete, dislipidemia, fumo, sedentarietà) ed al loro scarso
controllo nella popolazione.
A sua volta, lo scarso controllo dei fattori di rischio citati è spesso amplificato dalla non
sufficiente attenzione del medico, il quale utilizza poco gli strumenti disponibili, come le
varie carte del rischio, anche perché le ritiene poco affidabili.
In questo processo hanno giocato un ruolo anche le istituzioni proponendo strumenti
fino ad oggi poco efficaci per la valutazione del rischio cardiovascolare nella popolazione
generale (ad esempio il Progetto Cuore del Istituto Superiore di Sanità).
Da queste considerazioni nasce la necessità di utilizzare uno strumento comune, semplice,
di raccolta ed elaborazione dei dati clinici in modo da permettere la pianificazione di
programmi di prevenzione (stile di vita, terapia farmacologica) e di razionalizzazione delle
risorse e della spesa sanitaria. Questo strumento dovrà permettere di conoscere la reale
situazione del profilo di rischio cardiovascolare della popolazione e quindi successivamente
di verificare l’effetto di interventi terapeutici basati sulle modificazioni dello stile di vita e
sulla terapia farmacologia sul profilo di rischio cardiovascolare.
Lo strumento scelto è quello di una cartella clinica informatizzata che possa essere
semplice ed allo stesso tempo completa nella rilevazione degli elementi anamnestici,
obiettivi e strumentali per la caratterizzazione del rischio cardiovascolare e degli interventi
terapeutici.
La scelta di validare la cartella clinica informatizzata negli ambulatori dei Medici di
Medicina Generale permetterà l’utilizzo di questa cartella come unico strumento per la
valutazione del rischio cardiovascolare nella Regione Toscana.
Inoltre, l’utilizzo negli Ambulatori Specialistici offrirà la possibilità di aggiungere elementi
di indagini di II e III livello atte ad una migliore stratificazione del rischio cardiovascolare
e di proporre interventi terapeutici mirati multifattoriali in pazienti a rischio più elevato.
•Obiettivo
In dettaglio lo studio vuole valutare la praticità d’uso di una cartella computerizzata in
modo da proporne l’utilizzo su larga scala. La cartella clinica computerizzata è la cartella
VIRC realizzata dall’Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche
di Pisa.
•Disegno e durata dello Studio
Studio epidemiologico pilota, osservazionale, prospettico, multicentrico, trasversale, in
aperto, della durata di 3 mesi (da Giugno a Ottobre 2009), interessanti 3 Ambulatori
Specialistici (Arezzo, Pisa, Pescia), che dovranno arruolare 300 pazienti per Centro per
un totale di 900 pazienti) e 6 Medici di Medicina Generale (2 di Arezzo, 2 di Pisa e 2
di Pescia, che dovranno arruolare 100 cadauno per un totale di 600 pazienti: quindi il
numero totale dei pazienti dello studio sarà di 1500 pazienti (con età superiore a 18 anni
affetti da ipertensione arteriosa) e in un sottogruppo di pazienti afferenti ai Centri (circa 50
per Centro) sarà eseguita una visita di controllo a distanza di 2 mesi.
•Conclusioni
La cartella clinica informatizzata dovrà rappresentare uno strumento semplice ed allo stesso
tempo completo per la rilevazione degli elementi anamnestici, obiettivi e strumentali per
la caratterizzazione del paziente afferente ai vari Ambulatori partecipanti allo studio, in
termini di valutazione del profilo di rischio cardiovascolare. Tali dati fanno comunque parte
della routine della visita e della diagnostica nell’approccio clinico corretto del paziente. I
dati clinici saranno raccolti tramite un software dedicato. La cartella clinica è suddivisa in
“schede” riguardanti l’anagrafica, l’anamnesi, l’esame obiettivo, gli esami ematochimici e
strumentali, la terapia.
Il software è protetto da password specifica per ciascun utente abilitato degli Ambulatori
partecipanti allo studio ed è conforme alle normative sulla tutela dei dati personali.
La scheda Anagrafica prevede un campo in cui lo sperimentatore conferma l’avvenuta
sottoscrizione del consenso informato da parte del paziente. L’attivazione di tale campo
permette l’accesso alla restante parte della Cartella, che altrimenti viene bloccata.
Lo Studio verrà condotto in accordo con la Dichiarazione di Helsinki (1964) emendamento
di Somerset West, Sudafrica (1996).
Relazioni
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Andrea Santini
Medico di Medicina Generale
Prato
IPERTENSIONE COME GESTIONE
AMBULATORIALE: Linee Guida Regionali
•Introduzione
l paziente affetto da ipertensione arteriosa è, senza dubbio, il paziente cronico che il
medico di medicina generale gestisce con maggior frequenza nel proprio ambulatorio.
La caratteristica attuale della Medicina Generale italiana è quella di favorire contatti
ripetuti nel tempo non programmati o solo parzialmente programmati, mentre invece uno
dei principali problemi delle patologie cardiovascolari curabili o correggibili è quello di
raggiungere la maggior parte della popolazione affetta, tramite la medicina di iniziativa e
il modello del Chronic Care Model.
•Linee Guida Regionali
Il progetto si rivolge ai:
- soggetti a rischio di sviluppare ipertensione arteriosa
- soggetti con diagnosi iniziale di ipertensione arteriosa
- pazienti ipertesi già diagnosticati, senza danni d’organo
- pazienti ipertesi già diagnosticati, con danni d’organo
Come illustrato nella relazione, è previsto un team multidisciplinare composto dal MMG,
dal medico specialista, dall’infermiere territoriale e dal medico di Sanità Pubblica. Il team,
tenendo conto anche delle preferenze e delle scelte del soggetto iperteso, organizza e
gestisce una serie di azioni predeterminate ad intervalli periodici su:
- soggetti sani
- soggetti con rischio cardiovascolare aumentato
- soggetti con diagnosi iniziale di ipertensione
- pazienti ipertesi
- paziente iperteso con ipertensione secondaria o con danno d’organo o comunque
complicato
- paziente con crisi ipertensiva.
Allo scopo di prevenire, diagnosticare, curare e seguire nel tempo il paziente iperteso, al
miglior livello di qualità possibile.
•Criticità
La costruzione di un modello di intervento attivo nei confronti del paziente iperteso o a
rischio di sviluppare ipertensione arteriosa non è esente da criticità e difficoltà di percorso.
In sintesi, possiamo evidenziare alcune tra le principali criticità:
- la ricerca di una maggior qualità professionale e assistenziale purtroppo si scontra con
innegabili ritardi e trascuratezze nei confronti delle Cure Primarie in Italia. Nonostante
siano presenti i Medici di medicina generale e, almeno in Toscana, i Distretti Sanitari,
con personale che vi opera, gli investimenti in adeguate strutture territoriali o iniziative
assistenziali di qualità latitano
- la difficoltà del team multidisciplinare a lavorare in reciproca sintonia e nel rispetto
della scelte del paziente
- la carenza di personale infermieristico adeguatamente formato per il territorio, quindi
con cultura, prassi e metodi molto diversi dalla cultura, prassi e metodologia ospedaliera
o universitaria
•Conclusioni
La gestione territoriale del paziente cronico e, quindi, del paziente iperteso, è una scommessa.
Una scommessa che si può vincere solo attraverso la programmazione e la coordinazione
multidisciplinare di tutti gli “attori” che vi partecipano. Ma occorre fare un patto “a priori”
tra utilizzatori (soggetti a cui è indirizzata l’iniziativa), attori (team multidisciplinare) e SSR
(coordinatore e finanziatore): la medicina generale non può essere lasciata sola a proporre,
gestire e attuare iniziative senza una profonda riforma legislativa riguardante ruolo e
competenze e senza una adeguata proposta di ristrutturazione dell’assistenza territoriale.
I
Relazioni
32
DAY SERVICE… Il paziente al centro di un
percorso assistito ed integrato
Giovanna Innocenti
Ospedale San Donato
USL8 Arezzo
I
l Day Service (DS) è una modalità di gestione organizzativa della struttura ambulatoriale
attivabile nei confronti di pazienti affetti da problemi clinici complessi che non presentino
condizioni tali da rendere appropriato il ricovero ospedaliero. Il modello si applica in
risposta a bisogni clinici di tipo diagnostico o terapeutico che necessitino di prestazioni
multiple integrate non occorrendo però una sorveglianza medico/infermieristica protratta
per tutta la durata dei singoli accessi. Questo ha portato le Aziende sanitarie ad individuare
dei percorsi diagnostici condivisi ed organizzati dai professionisti interessati con la
successiva formalizzazione delle Direzioni Sanitarie; ciò a garanzia del cittadino che vedrà
assicurata uniformità di trattamento in occasione delle medesime caratteristiche cliniche.
Occorre però mantenere costante la personalizzazione del percorso a garanzia delle
singole necessità. L’individuazione dei Front Office organizzativi strutturati all’interno
delle Aziende si sovrappongono a quelle dei Day Hospital ricalcandone le caratteristiche
• Utilizzo di “corsie preferenziali” nell’erogazione delle prestazioni.
• “presa in carico” dell’utente al fine di evitarne la frammentazione delle prestazioni e gli
accessi impropri.
• “personalizzazione” della programmazione per limitare al minimo gli accessi del
paziente nella struttura erogante.
Da questo se ne deduce come tale modello organizzativo impatti fortemente con i servizi
diagnostici della struttura sanitaria nel quale opera.
Risulta pertanto indispensabile la definizione della rete dei servizi in risposta alle priorità
assistenziali (ricovero ordinario-Day Hospital-Day Service-Specialistica Ambulatoriale
Semplice) onde evitare un disequilibrio nelle risposte stesse.
All’interno dell’ospedale infatti le modalità di integrazione che devono essere strutturate
sono molteplici:
• condivisione tra specialisti dei protocolli assistenziali
• avvallo e condivisione della Direzione Sanitaria di tali percorsi in risposta ad una
“mission aziendale” precedentemente strutturata
• coinvolgimento dei servizi eroganti le prestazione come risposta all’integrazione fra
strutture di cura e servizi diagnostici.
Nel contesto extra ospedaliero la rete si intende finalizzata alla condivisione del percorso
con i medici di Medici di Medicina Generale che vedono rafforzato il proprio ruolo di
referenti poiché proponenti principali verso il Medico Attivatore di D.Se. La sostenibilità
del percorso è gestita in larga misura dal personale infermieristico dei F.O.
La mission operativa del percorso definita nella nostra Azienda si identifica con “la presa in
carico” del paziente che si struttura all’interno del percorso per le competenze delle varie
figure professionali che partecipano: Mediche, Infermieristiche ed Amministrative.
Percorso Ospedale
Territorio nella gestione
dello scompenso di cuore
L
o scompenso cardiaco è una condizione clinica che si manifesta con una penosa qualità
della vita per il paziente affetto e, contestualmente, con un oneroso costo gestionale
per il SSN. Nella popolazione anziana rappresenta un problema sanitario rilevante per
l’incidenza, le multiple riospedalizzazioni e i costi. Gli studi disponibili confermano una
L. Abate, P. Biagi
U.O. Medicina Interna
Ospedali Riuniti
della Val di Chiana senese
Montepulciano (Siena)
Relazioni
33
forte discontinuità tra ospedale e territorio oltre ad una estrema eterogeneità nei percorsi
intra- ed extraospedalieri nelle diverse realtà italiane.
Quando un paziente è ricoverato in ospedale a causa di uno SC acuto, è dapprima accolto
presso un’unità di degenza intensiva, poi in degenza ordinaria e infine, quando necessario,
in reparto di riabilitazione. Alla dimissione dall’ospedale ha a sua disposizione, nella realtà
attuale del nostro paese, quattro possibilità di proseguimento delle cure:
• il MMG,
• lo specialista ambulatoriale,
• l’ambulatorio ospedaliero,
• il cardiologo personale.
Ognuna di queste soluzioni propone non una “cura” ma una semplice consulenza, spesso
nemmeno fornita al momento del bisogno reale, ma dopo un’attesa di giorni, di settimane
o persino di mesi. Invece, alla dimissione gli deve essere offerta, presso le strutture
extraospedaliere, la continuità assistenziale, intesa come un progetto personalizzato di cura
e presa in carico (un paziente con SC non deve avere il medesimo iter gestionale se giovane
o anziano, se vive solo o in famiglia, in città o in montagna, in una casa al piano terra o
al quinto piano senza ascensore) e affrontato in maniera multidisciplinare, coinvolgendo
accanto al personale medico (MMG e specialisti), anche Infermieri e personale dei servizi
sociali.
•Modelli gestionali
Nel corso degli ultimi anni sono state numerose le esperienze di gestione di questa patologia
consegnate alla letteratura. Tutte si sono dimostrate efficaci nel ridurre la morbilità ed i
ricoveri ospedalieri tramite un riconoscimento precoce ed adeguamento terapeutico nei
prevedibili momenti di instabilizzazione emodinamica.
Come in ogni esperienza, accanto a modelli ad alto costo, sono stati ideati altri dai costi
più contenuti ma egualmente efficaci, tutti però accomunati dall’obiettivo primario di
mirare al raggiungimento del cosiddetto paziente e/o del caregiver esperto, unico mezzo
per l’autogestione di questo quadro sindromico. Infatti, la comprensione della malattia
in termini semplici, il trasferimento dei mezzi culturali per una precoce individuazione
dei segni e sintomi cui assegnare il giusto significato, la conoscenza del perché assumere
una politerapia con le prescrizioni ad una sua corretta assunzione, l’insegnamento ad
una consapevole autogestione del diuretico rappresentano i cardini per porre in atto un
idoneo ed efficace modello gestionale. Purtroppo, è noto che la difficoltà maggiore emersa
in queste esperienze è l’inevitabile affievolirsi nel tempo, delle energie, degli entusiasmi e
quant’altro anima i primi momenti di attuazione di un programma gestionale.
Questo ne ha rappresentato il tallone di Achille che ha portato spesso al loro arenarsi dopo
i primi incoraggianti risultati e, pertanto, deve costituire il motivo per una più profonda
riflessione atta ad impedire che ciò avvenga.
Stefania Stoppioni,
Giuseppe Pettinà
Ospedale del Ceppo
di Pistoia
ANIMO: Modello assistenziale
dello Scompenso Cardiaco
Ipotesi
o Scompenso Cardiaco (SC) è una patologia di attualità per ragioni di ordine
epidemiologico e per le importanti acquisizioni nel campo della ricerca. Riveste inoltre
rilevanza nell’ambito dell’assistenza ospedaliera per le implicazioni di tipo gestionale
ed economico. In linea con la letteratura esistente, l’equipe infermieristica del reparto
di Medicina Interna del Presidio Ospedaliero di Pistoia ha promosso l’attuazione di un
progetto di educazione all’autocura dello SC, al fine di garantire attraverso una migliore
gestione della malattia la riduzione della morbilità e il miglioramento della qualità di vita
del paziente.
L
Relazioni
34
•Materiali e Metodi. In ambito assistenziale i medici sono individuati come tutor e gli
infermieri come referenti dei pazienti con SC. Il coinvolgimento del paziente nella gestione
della malattia è finalizzato: a modificare lo stile di vita; a migliorare la compliance alla
terapia; a riconoscere i sintomi e i segni che indicano un peggioramento delle condizioni
cliniche. Il medico tutor segnala all’infermiere referente e definisce con un’apposita scheda
le caratteristiche del paziente (eziologia, classe NYHA, fattori di rischio, patologie
concomitanti, terapia….ecc). L’infermiere presa visione della segnalazione programma
una sessione di counselling della durata di 40-60 minuti in cui viene sempre coinvolto un
familiare e/o il caregiver. L’azione dell’infermiere si sviluppa in due fasi: la prima rivolta ad
analizzare: la condizione sociale del paziente, grado di conoscenza della patologia, cause,
segni e sintomi, la terapia e lo stile di vita.
Nella seconda parte invece vengono sviluppate le conoscenze in particolare: sull’utilità
dei farmaci, la loro azione e i possibili effetti collaterali, e le modalità di assunzione per
migliorare l’aderenza alla terapia; la dieta a basso contenuto di sodio; l’introduzione di
liquidi; il controllo del peso; il riconoscimento dei sintomi sentinella e allertamento del
MMG oppure 118 nella comparsa di sintomi più gravi.
Al termine viene consegnato al paziente un’opuscolo informativo ideato per rafforzare
l’aderenza allo stile di vita; viene inoltre proposto una visita ambulatoriale presso
l’ambulatorio per lo SC di Medicina Interna dopo 10-15 giorni dalla dimissione.
•Risultati. Il campione che abbiamo perso in esame, è stato di 80 pazienti, per un periodo
di un anno, seguito da un follow-up con contatto telefonico a 6 mesi e a un anno distanza. Il
campione era il 51% sesso maschile, con età media di 70/80 anni ma se si pone attenzione
al campione, si evince che il maggior numero di pazienti si colloca in età >81anni.
L’eziologia dello SC è prevalentemente ipertensiva ed ischemica.
Le cause precipitanti lo SC sono principalmente la non aderenza allo stile di vita nel
64% dei casi, seguito dall’ipertensione arteriosa e dalla scarsa aderenza al trattamento
farmacologico. La maggior parte dei pazienti 88%, ha riferito di aver rispettato gli obiettivi
prefissati riguardanti: peso, dieta iposodica, restrizione dei liquidi, attività motoria, aderenza
alla terapia nei primi 6 mesi, l’aderenza si riduce al 66% a un anno di distanza.
•Conclusioni. Il processo di apprendimento ha dimostrato di avere un tempo di
decadimento, diverso nei vari soggetti, per cui l’adesione alle regole dell’autocura si
riduce progressivamente. Ciò richiede che vengano programmate delle sedute di rinforzo,
effettuate dall’infermiere all’interno di un’attività ambulatoriale ospedaliera dedicata allo
SC oppure in ambito territoriale.
Non esiste forse un modello assistenziale ottimale, alla fine tutto funziona sul paziente con
malattia cronica e in particolare con il paziente fragile, la cosa importante è “prendersi cura”
del paziente che deve essere un impegno costante nel tempo.
UNA STRATEGIA COMUNE Per il
counselling antitabagico
Ipotesi
l fumo rappresenta la prima causa di morte evitabile nei paesi sviluppati. Il tabagismo
considerato fino ad oggi un’abitudine socialmente accettata, rappresenta con più di un
miliardo di fumatori, la tossicodipendenza più diffusa nel mondo.
In questo contesto ai medici e a tutti gli operatori sanitari viene riconosciuto ed
affidato un ruolo determinante nella sua “cura”: in letteratura è ampiamente
dimostrato, secondo comprovate evidenze scientifiche, che un consiglio breve
di circa 2-3 minuti ai pazienti possa incrementare il numero dei fumatori che
fanno seri tentativi di smettere. Qualsiasi operatore sanitario, indipendentemente
dalla sua attività professionale specifica, è tenuto a svolgere in maniera corretta, almeno
Mauro Ruggeri
SIMG Prato
I
Relazioni
35
Relazioni
36
un intervento minimo di counselling per incentivare la motivazione a smettere dei pazienti
fumatori.
Il percorso assistenziale per il fumatore è delineabile a partire dal Medico di Medicina
Generale o da altri Medici ed Operatori sanitari ospedalieri e territoriali, per giungere, nei
casi più gravi, ai Centri Antifumo di II livello.
Pertanto sono necessari strumenti gestionali che facilitino l’attività di counselling
antitabagico intrapresa nel I livello, raccordandola con quella del II.
•Materiali e metodi
In questo contesto grazie alla collaborazione tra SIMG (Società Italiana di Medicina
Generale), ISPO (Istituto per lo Studio e la Prevenzione Oncologica), ITT (Istituto Toscano
Tumori), con finanziamento della Regione Toscana è stato realizzato dalla ASL 4 di Prato
un software denominato Winsmoke che ha come principale obiettivo quello di facilitare
l’attività di counselling antitabagico applicabile al setting della Medicina Generale.
Il software permette di:
1. attuare un counselling guidato per il paziente fumatore
2. fornire un “help” gestionale con indicazioni terapeutiche e consigli comportamentali
3. registrare l’attività antitabagica svolta nei confronti dei propri pazienti
4. fornire al medico, in tempo reale, un report aggiornato dei propri pazienti fumatori
suddivisi secondo il loro stadio motivazionale rispetto alla cessazione dal fumo,
utilizzando lo schema classificativo di di Prochaska e Di Clemente
5. consentire l’importazione rapida ed automatizzata dell’elenco anagrafiche dei pazienti
dalla cartella clinica informatizzata Millewin utilizzata dalla maggioranza dei Medici di
Medicina Generale
6. inviare i dati raccolti, opportunamente criptati ad un centro di elaborazione e raccolta
dati.
Winsmoke è costituito da 5 sezioni:
Medico: permette di registrare i dati del medico.
Pazienti: permette di registrare i dati anagrafici del paziente e i dati relativi al percorso di
counselling e di utilizzare l’help gestionale, se ritenuto necessario.
Estrazione: permette di estrarre i dati del lavoro già svolto.
Report: permette di visualizzare il numero dei pazienti visitati suddivisi secondo il loro
stadio motivazionale.
Risorse: fornisce i link ai principali siti di interesse sul tabagismo e dà accesso alla stampa
di alcuni test sul fumo. Il software è stato realizzato in 4.000 copie che verranno distribuite
a tutti i Medici di Medicina Generale della Toscana. È stato inoltre realizzato il sito internet
www.winsmoke.it che oltre a fornire informazioni e documentazione specifica, permette di
scaricare il software stesso.
•Risultati
Winsmoke è stato utilizzato per la sua validazione da 14 Medici di Medicina Generale
per un totale di 301 pazienti. è stato possibile per ogni paziente raccogliere oltre i dati
anagrafici, il numero delle sigarette fumate, il grado di dipendenza, lo stadio motivazionale
rispetto alla disassuefazione, il tipo d’intervento attuato dal medico. Si è osservata una
evoluzione positiva del grado di motivazione.
Il software è stato giudicato positivamente da tutti gli sperimentatori. In particolare non
sono state riscontrate particolari difficoltà di utilizzo. Anche il tempo necessario per ogni
singola visita è stato considerato adeguato ai tempi dell’ambulatorio.
Conclusioni
Il software sviluppato ha grandi potenzialità poiché consente al medico di attivarsi più o
meno intensamente a seconda della capacità di interazione col paziente, in funzione del suo
livello di motivazione alla cessazione predisponendo un efficace intervento personalizzato
di disassuefazione.
Questo strumento creato per il Medico di Medicina Generale potrebbe essere
utilizzato efficacemente, nell’ambito di una strategia comune, anche dagli
altri Medici ed Operatori sanitari coinvolti nel I livello di cura del paziente
fumatore.
Poster Medici
Poster MEDICI
1.
Iperferritinemia: una strana combinazione nella
“Sindrome iperferritinemia – cataratta”
Veronica De Crescenzo, Chiara Benvenuti, Alessandra Amendola, Veronica Chiasserini,
Filippo Risaliti, Fabrizio Rossi, Maurizio Manini
U. O. C. Medicina Interna Ospedale Petruccioli - Pitigliano
2. Sindrome toracica acuta in una paziente con
emoglobinosi: Una delicata diagnosi differenziale
Ospedale Santa Maria alla Gruccia AUSL 8 Zona Valdarno - Montevarchi
* Ospedale San Donato AUSL 8 Arezzo
5.
TVP ILIACO – CAVALE DX: STATO TROMBOFILICO O GENESI
MULTIFATTORIALE?
Maria Cristina Andreucci, Giovanni Brunelleschi
U.O. Medicina Interna - Ospedale di Lucca
6.
La Febbre: questa sconosciuta!!!! Un caso insolito
Protocolli gestionali di integrazione DEA- territorio
nel trattamento della BPCO riacutizzata:
l’esperienza del Valdarno
Fabrizio Bottino*, Alberto Cuccuini*, Marco Biagini**
*Ospedale Valdarno USL8 Arezzo Montevarchi **Pneumologia Territoriale USL8 Arezzo
8.
PATOLOGIA NODULARE TIROIDEA IN VALDINIEVOLE
R. Bassu, D. Belliti, M. Checchi, R. Culli *, P. Apicella *, G. Panigada
U.O.C. Medicina Interna, Ospedale:“SS.Cosma e Damiano” Pescia (PT)
* U.O.C. Anatomia Patologica Azienda USL3 Pistoia
9. Cartella multidisciplinare per la valutazione del
rischio cardiovascolare globale: dati di popolazione
in Valdinievole
M. Straniti, R. Giovannetti, L. Tonarelli, A. Birindelli, R. Pierotello, R. Bassu, G. Panigada
" 45
" 45
" 46
" 46
" 47
" 47
" 48
C.M. Zucchi, R. Fedi, A. Tempestini, A. Pesci, F. Peruzzi, A. Moggi Pignone
AOU Careggi Firenze
7.
" 44
Marco Cei*, Paola Marelli**, Raffaella Fabbri**, Stefano Giuntoli*,
Maria Cristina Mandolesi*, Ornella Marino *
* UO Medicina Generale 1, PO di Livorno, ASL 6 Livorno
** UO Anatomia Patologica, PO di Livorno, ASL 6 Livorno
4. Sindrome da encefalopatia posteriore reversibile
post-partum: immagini, aspetti clinici, controversie
fisiopatologiche
R. Carloni, B. Calchetti, C. Fondelli, G. Cuneo*, E. Romanelli, A. Cuccuini
Marco Cei, Guido Bassano, Anna Maria Crestini, Roberta Guglielmini
UO Medicina Generale 1, PO di Livorno - ASL 6 Livorno
3. Un caso di mielofibrosi primaria associata a
traslocazione bilanciata tra i cromosomi 1 e 4,
caratterizzato da sopravvivenza eccezionalmente lunga
Pag. 44
UOC Medicina Interna, Ospedale: “SS.Cosma e Damiano” Pescia Azienda USL3 Pistoia
poster medici
39
Pag. 48
10. Score di stratificazione del rischio tromboembolico
come parte integrante della cartella clinica
in Medicina Interna
" 49
11. Gestione Ambulatoriale di una trombosi venosa
profonda prossimale con CCUS negativa
" 49
"
50
A. Alessandrì, R. Bassu, R. Pierottello, A. Capitanini°, G. Silvestri^, A. Viviani*, G. Panigada
U.O.C Medicina Interna, °Nefrologia, *Radiologia, ^Urologia
Ospedale SS Cosma e Damiano Pescia Azienda USL3 Pistoia
12. Trombosi Venosa Profonda a sede atipica in paziente
con sindrome trombofilica
R. Bassu, A. Alessandrì, I. Lucchesi, L. Teghini, L. Tonarelli, G. Panigada
UOC Medicina Interna, Ospedale: “SS.Cosma e Damiano” Pescia Azienda USL3 Pistoia
S. Boccacci, R. Castro
U.O. Medicina Interna Abbadia S. Salvatore - Siena
13. ENDOCARDITE DA STAFILOCOCCO AUREO:
PRESENTAZIONE DI UN CASO CLINICO
Roberta Mastriforti, Maida Lucarini, Bianca Tarantini, Rossella Nassi
Ospedale della Valtiberina, Sansepolcro
"
50
14. MACROPROLATTINOMA: UN CASO NELL’INFANZIA
"
51
15. FEOCROMOCITOMA: UNA DIAGNOSI SEMPRE DIFFICILE?
"
51
"
52
"
53
"
53
poster medici
40
G. Tintori *, A. Fabbri, C. Bozzano 1*, R. Mastriforti 2*, S. Meini 3*, A. Montagnani 4*.
UOC Medicina Generale 5°, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, UOC Medicina
Interna e Geriatria, Ospedale S. Donato ASL 8 Arezzo1, UOC Medicina Interna, Osp. Val
Tiberina, ASL 8 Arezzo2, UOC Medicina Interna, Osp Santa Maria Maddalena di Volterra, ASL 5 Pisa3, UOC Medicina Interna, Osp. Misericordia, ASL 9 Grosseto4.
* Partecipanti toscani al master FADOI-Univ. LIUC in “Governo Clinico per
la Medicina Interna”
18. UN INSOLITO CASO DI CIRROSI
Franco Pieralli, Francesco Tarchi, Alberto Cuccuini
Rossella Nassi, Marianna Turrini, Roberta Mastriforti, Maida Lucarini
Ospedale Valtiberina - Arezzo
17. Una tecnica antica per un ruolo attuale: la semeiotica
fisica come discrimine di appropriatezza per
l’esecuzione di esami strumentali
Bianca Tarantini, Marianna Turrrini, Rossella Nassi
Ospedale Valtiberina Sansepolcro - Arezzo
16. SINDROME DI POEMS: CASO CLINICO E REVISIONE DELLA
LETTERATURA
Rossella Nassi, Chiara Vezzosi, Bianca Tarantini
Endocrinologia Sansepolcro - Arezzo
U.O. Medicina Interna/Urgenza Ospedale Santa Maria alla Gruccia Montevarchi (AR)
19. UN RARO CASO DI SINDROME DI BEHçET COMPLICATA
DA PATERGIA E PYODERMA GANGRENOSO
A. Corsi *, A. Lagi *, S. Cencetti *, G. Visi *, R. Cassino **, E. Ricci **, B. Tumiati ***
* Ospedale “S. M. Nuova”, Firenze
** Clinica “San Luca”, Torino
*** Arcispedale “S. M. Nuova”, Reggio Emilia
20. RABDOMIOLISI: DESCRIZIONE DI UN CASO CLINICO
21. PANCREATITE ACUTA IN MEDICINA INTERNA: DIMENSIONE DEL
PROBLEMA
" 56
" 56
" 57
" 57
" 58
Carlo Passaglia, Salvatore De Marco, Giancarlo Tintori, A. Fabbri, A. Pampana*
UO Medicina 5° Ospedaliera Az Ospedaliera Universitaria Pisa
* UO Medicina, Presidio Ospedaliero di Cecina (LI)
29. Istiocitoma Fibroso maligno: Descrizione di un caso
S. De Marco, E. Pea, A. Pampana°, C. Passaglia
Azienda Ospedaliero Universitaria Pisa
° Ospedale di Cecina
28. COLEcistite acuta in pazienti trattati con TACE per
epatocarcinoma
" 55
G. Parca, G. Bacci, F. Cappelli, M. Genovesi, MP. Rosito, S. Stanganini, A. Tufi, E. Santoro
SC Medicina Interna Ospedale del Casentino – Bibbiena AUSL 8
27. DILATAZIONE DELLE VIE BILIARI DA PATOLOGIA CISTICA DEL
PANCREAS
R. Fiusti, M. Lanigra, C. Zeloni, G. Manco, G. Vannoni, A. Cruciani, M. Becheri
U.O. Emergenza e Accettazione Azienda USL 4 Prato
26. Implementazione delle iniziative per la gestione del
rischio clinico: l’Audit Clinico in Medicina Interna
" 55
Giulio Ozzola, Emilio Santoro, Ciro Sommella
Ospedale del Casentino - Bibbiena
25. Prevalenza di patologie nella popolazione cinese
afferente al Pronto Soccorso dell’Ospedale
“Misericordia e Dolce” di Prato
Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro
Ospedale del Casentino - Bibbiena
24. CORRELAZIONE TRA FUNZIONALITÀ TIROIDEA E RENALE IN
DONNE AL PRIMO TRIMESTRE DI GRAVIDANZA
" 54
Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro
Ospedale del Casentino - Bibbiena
23. Carcinoma indifferenziato dell’etmoide sinistro:
descrizione di un caso
Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito, C. Belcari, A. Pampana, G. Rinaldi, S. Suppressa
Gruppo Gastroenterologico FADOI
22. BENEFici della terapia radiorecettoriale nei tumori
carcinoidi: descrizione di un caso
Pag. 54
Roberta Mastriforti, Marianna Turrini, Maida Lucarini, Rossella Nassi
Ospedale Valtiberina Sansepolcro - Arezzo
"
58
Maria Pia Rosito, Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro
Ospedale del Casentino – Bibbiena
poster medici
41
Pag. 59
30. STATO confusionale acuto in corso di ipomagnesiemia
ed ipocalcemia gravi da malassorbimento in
gastroresecato: Descrizione di un caso
Maura Genovesi, Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro
Ospedale del Casentino – Bibbiena
" 59
31. Epilessia o sincope comiziale? Descrizione di un caso
Francesca Cappelli, Giuseppe Bacci, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro
Ospedale del Casentino - Bibbiena
" 60
32. UNA NUOVA LETTERA NELL’ALFABETO DELLE EPATITI: EPATITE
ACUTA DA PARVOVIRUS B19. UNA CAUSA POCO DIAGNOSTICATA
DI EPATITE VIRALE
"
60
M. Paci, S. Meini, L. Mangano, A. Tafi
UO Medicina Interna, Ospedale di Volterra
33. Embolia Polmonare: diagnosi complessa. Descrizione di
un caso
Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro
Ospedale del Casentino – Bibbiena
"
61
34. Incidentalomi addominali
"
61
35. SOLO UN PERCORSO APPROPRIATO GARANTISCE
L’ADEGUATEZZA DIAGNOSTICA E TERAPEUTICA:
UN CASO DI Sindrome IPEREOSINOFILA
P. Pasquinelli, P. Taddei, S. Giuntoli, R. Guglielmini, M. Cei
Ospedale Livorno
"
62
G. Sibilia, S. Meini, M. Paci, N. Scopetani, M. Norpoth, L. Mangano, A. Tafi
Ospedale S.Maria Maddalena di Volterra ASL 5 di Pisa
36. Ruolo della Tomografia ad Emissione di Positroni
nella patologia non neoplastica:
un utilizzo inconsueto
A. Bontempo, A. Ciolli, L. Giachetti, R. Lammel, P. Pantaleo, B. Alterini
"
62
S.O.D. Medicina e Riattivazione. Dipartimento del Cuore e dei Vasi
Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi – Firenze
37. COLANGITE SCLEROSANTE PRIMITIVA
"
63
38. EMBOLIA POLMONARE ED INTERAZIONI GENETICHE
"
63
"
64
poster medici
42
S. Pacini, P. Biagi
U.O. Medicina ASL - 7 Siena – Ospedali Riuniti della Valdichiana Senese - Montepulciano (SI)
39. UN CASO DI MALATTIA CELIACA SIERONEGATIVA NELL’ADULTO
S. Pacini, P. Biagi
S. Pacini, P. Biagi
U.O. Medicina ASL - 7 Siena – Ospedali Riuniti della Valdichiana Senese - Montepulciano (SI)
U.O. Medicina ASL - 7 Siena – Ospedali Riuniti della Valdichiana Senese - Montepulciano (SI)
40. UNO STUDIO SULLA IODURIA IN UNA VALLE APPENNINICA
Giulio Ozzola, Emilio Santoro, Ciro Sommella
Ospedale del Casentino – Bibbiena
41. OSTEOPOROSI nel PAZIENTE DIABETICO
42. Un caso di coma chetoacidosico in un alcolista
" 66
" 66
" 67
" 67
" 68
Gabriele Ciuti, Francesca Peruzzi, Alessandra Pesci, Lorenzo Zanasi, Francesca Pallini,
Maria Serena Lombardo, Aureliano Becucci
SOD di Medicina Interna 3 – Dipartimento di Emergenza Urgenza AOU Careggi - Firenze
48. CLONIE DELL’EMIVOLTO DI SINISTRA: UNICA MANIFESTAZIONE
CLINICA DI UN MENINGIOMA
Chiara Bozzano, Nunzia Zuccone, Ilario Lancini, Dino Vanni, Claudio Pedace
Ospedale San Donato, Arezzo
47. POLIRADICOLONEVRITE ACUTA MIELINOPATICA
SENSITIVO-MOTORIA A TIPO SINDROME DI GUILLAIN-BARRÈ
IN PAZIENTE CON MIELOFIBROSI IDIOPATICA
" 65
Angela Lesi, Liliana Pasqui, Simona Campioni, Paolo Corradini
U.O. Medicina Interna Ospedale di Casteldelpiano AUSL9 Grosseto
46. AFFRONTARE LA CRONICITÀ: LA VALUTAZIONE
MULTIDIMENSIONALE IN MEDICINA INTERNA
F. Pieralli, A. Mancini, F. Luise, T. Fintoni, V. Verdiani, E. Catini, O. Para,
M. Castelli, C. Nozzoli
Medicina Interna e d’Urgenza - AOU Careggi, Firenze
45. L’INDICE DI COMPLESSITÀ ASSISTENZIALE COME INDICATORE
DI PERCORSO NELL’INTENSITÀ DI CURA
" 65
F. Pieralli, A. Mancini, F. Luise, V. Verdiani, E. Catini, O. Para, M. Grazzini, C. Nozzoli
Medicina Interna e d’Urgenza – AOU Careggi, Firenze
44. Un caso di mielite trasversa paraneoplastica associata
a carcinoma della mammella
F. Pieralli, L. Sammicheli, F. Luise, V. Verdiani, E. Catini, O. Para, F. Bacci,
C. Nozzoli
Medicina Interna e d’Urgenza – AOU Careggi, Firenze
43. La subintensiva internistica dipartimentale
nell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi
Pag. 64
A. Montagnani, M. Alessandri, M. Cipriani
U.O. Medicina Interna, Ospedale Misericordia, Grosseto
M. S. Lombardo, V. Nanni, F. Peruzzi, A. Pesci, L. Zanasi, R. Fedi
AOU Careggi di Firenze
poster medici
43
Iperferritinemia: una strana combinazione nella “sindrome
iperferritinemia - cataratta”
Veronica De Crescenzo, Chiara Benvenuti, Alessandra Amendola, Veronica Chiasserini,
Filippo Risaliti, Fabrizio Rossi, Maurizio Manini
U. O. C. Medicina Interna Ospedale Petruccioli – Pitigliano
1
Introduzione. L’iperferritinemia ha molteplici cause: emocromatosi ereditaria con accumulo di ferro
nell’organismo; altre non sempre associate ad un sovraccarico di ferro: alcolismo, sindrome metabolica,
epatiti acute e croniche, condizioni infiammatorie e neoplastiche. La sindrome iperferritinemia - cataratta
è una rara patologia ad ereditarietà autosomica dominante per una mutazione nella sequenza IRE (iron
responsive element) del gene della L ferritina, localizzato sul cromosoma 19q13.3–q13.4; clinicamente
caratterizzata da cataratta bilaterale prima dei 50 anni e da incremento della ferritina (subunità L) con
sideremia e percentuale di saturazione della trasferrina normali, in assenza di sovraccarico parenchimale
di ferro.
Caso clinico. PF, uomo, 73 anni, giunge per sospetto di patologia epatica con iperferritinemia.
Anamnesi: ex fumatore e bevitore di circa 500 ml di vino/die; gastroresecato per ulcera duodenale
e colecistectomizzato; pregresso IMA in ipercolesterolemico. Cataratta bilaterale operata a 65 anni.
E.O: epatomegalia. Laboratorio: ferritina = 5083 ng/ml; sideremia e trasferrina e % Sat. normali.
Componente monoclonale sierica IgM k 0.21 gr/dl. HbSAg e HCVAb negativi. GGT = 274 U/I, AST,
ALT, FA, indici di flogosi (VES 14 mm/h), emocromo, funzione renale e glicemia normali. Ecografia
addome: Epatomegalia per steatosi, non splenomegalia. EGDS esiti di gastroresezione. Ecocardiografia:
Circoscritta alterazione della cinesi segmentaria con funzione sistodiastolica normale. RMN addome: non
alterazioni dell’intensità si segnale del parenchima epatico diffuso o focale, riferibile ad emocromatosi.
Analisi molecolare per la determinazione del genotipo per emocromatosi negativa (geni HFE, TFR2,
FPN1); l’analisi molecolare delle regioni regolative (IRE) del gene della catena leggera della ferritina
(FTL) evidenzia mutazione 168 G>A (+32 da sito di inizio della trascrizione) in eterozigoti di IRE della
L ferritina.
Risultati. Il riscontro della mutazione suddetta nel nostro paziente ci ha indotto ad eseguire screening
familiare con rilievo della medesima mutazione nella figlia di anni 43, affetta da cataratta bilaterale.
Conclusioni. é importante riconoscere tale patologia per: 1. distinguerla da altre in cui l’iperferritinemia
è indicativa di un sovraccarico di ferro o di malattie infiammatorie o tumorali. 2. evitare i salassi che
comporterebbero solo una anemizzazione del paziente; 3. permettere di identificare con il dosaggio della
ferritina coloro che in ambito familiare potranno sviluppare la cataratta.
Sindrome toracica acuta in una paziente con emoglobinosi:
una delicata diagnosi differenziale
Marco Cei, Guido Bassano, Anna Maria Crestini, Roberta Guglielmini
UO Medicina Generale 1, PO di Livorno - ASL 6 Livorno
2
44
Caso Clinico. Una donna afroamericana di 75 anni giunge in Ospedale per dolori agli arti inferiori e
dispnea acuta, insorti durante una crociera per nave. La diagnosi d’ingresso recita “edema polmonare
acuto”. In anamnesi ipertensione arteriosa ed emoglobinosi SC, quiescente da circa un anno. I valori
abituali di Hb sono 10 g/dL con 30% di ematocrito.
Materiali e Metodi. La paziente viene sottoposta agli accertamenti di routine, ad ecocuore, Rx torace
e TC torace. Il trattamento comprende idratazione, trasfusione di GRC, ossigeno e antibiotici.
Risultati. L’Hb all’ingresso è di 7.3 g/dL e scende a 6.6 in seconda giornata;la saturazione dell’ossigeno
è 92% in aria e a riposo. L’aptoglobina è consumata e sono presenti gli altri segni di emolisi. È evidente
una marcata leucocitosi (24.700 GB/mmc). L’Rx e la TC del torace dimostrano congestione, infiltrati,
versamento pleurico bilaterale e lesioni costali di tipo osteoaddensante. Alla dimissione l’Hb è 12.0 g/dL
e i GB sono 8900/mmc.
Conclusioni. Il quadro clinico delle anemie falciformi può complicarsi con una sindrome toracica
acuta, che pone delicati problemi di diagnosi differenziale, di trattamento e medico-legali. Infatti questa
paziente presentava la necessità di essere rimpatriata negli USA mediante un lungo viaggio aereo, evento
che deve essere adeguatamente preparato per evitare gravi complicazioni durante il volo.
Un caso di mielofibrosi primaria associata a traslocazione
bilanciata tra i cromosomi 1 e 4, caratterizzato da
sopravvivenza eccezionalmente lunga
Marco Cei*, Paola Marelli**, Raffaella Fabbri**, Stefano Giuntoli*,
Maria Cristina Mandolesi*, Ornella Marino*
*UO Medicina Generale 1, PO di Livorno, ASL 6 Livorno
**UO Anatomia Patologica, PO di Livorno, ASL 6 Livorno
Caso clinico. Un uomo di 72 anni giunge all’osservazione chirurgica per dolore addominale in
epigastrio-ipocondrio dx. All’esame fisico si rileva una cospicua splenomegalia, fin oltre l’ombelicale
trasversa. Dalla ricostruzione anamnestica emerge una biopsia osteomidollare eseguita 16 anni prima
per trombocitosi e dimostrativa di mielofibrosi idiopatica. Il paziente non è stato mai sottoposto ad alcun
tipo di trattamento.
Materiali e metodi. In aggiunta agli esami di routine il paziente viene sottoposto ad ecografia
addominale, a TC dell’addome e ad un completo esame midollare (aspirato con May-Grunwald-Giemsa;
cariotipo con coltura in sospensione per 24 e 48 ore e colorazione differenziale con bandeggio QFQ;
biopsia con colorazione per la reticolina e immunoistochimica per mieloperossidasi e CD34). Inoltre
si esegue conteggio cellule CD34+ circolanti e la ricerca della mutazione V617F della Janus Kinasi 2
(JAK2).
Risultati. Gli accertamenti eseguiti escludono la presenza di complicazioni come l’infarto splenico e
la trombosi porto-mesenterica. Gli esami midollari confermano la diagnosi di mielofibrosi primaria,
associata ad una translocazione t(1;4), (p13;p12) apparentemente bilanciata. Paziente trattato con 6-MP
+ Talidomide.
Conclusioni. A nostra conoscenza non sono presenti altri casi segnalati in letteratura di mielofibrosi
associati a tale mutazione e con così lunga sopravvivenza, ed anzi la presenza di un tale cariotipo avrebbe
dovuto conferire, secondo gli attuali standard prognostici, una sopravvivenza inferiore alla media.
3
Sindrome da encefalopatia posteriore reversibile
post-partum: immagini, aspetti clinici,
controversie fisiopatologiche
R. Carloni, B. Calchetti, C. Fondelli, G. Cuneo*, E. Romanelli, A. Cuccuini
Ospedale Santa Maria alla Gruccia AUSL 8 Zona Valdarno
* Ospedale San Donato AUSL 8 Arezzo
Ipotesi. La sindrome da encefalopatia posteriore reversibile (PRES) si caratterizza per cefalea,
convulsioni, deficit del visus, sopore, segni neurologici focali e reperti neuroimaging di aree di edema nel
territorio vascolare posteriore dell’encefalo. Si associa a diverse condizioni cliniche tra cui la eclampsia.
La patogenesi della PRES è oggetto di discussione e due meccanismi, citotossico e vasogenico, sono allo
studio. Nel presente lavoro confrontiamo i due meccanismi.
Materiali e Metodi. Paziente di 38 anni con due episodi comiziali subentranti, stato confusionale e
disturbi del visus insorti a distanza di 12 ore da parto gemellare con taglio cesareo è stata sottoposta a
monitoraggio emodinamico, neuroradiologico e bioumorale.
Risultati. Gli esami evidenziavano leucocitosi, trombocitopenia, aumento transaminasi e LDH con
normalizzazione in 2-3^ giornata. Alla TC encefalo erano presenti chiazze di ipodensità equivalenti a
iperdensità della RM compatibili con edema occipitale bilaterale, centro semiovale, splenio corpo calloso
e regione frontale sx. Tali reperti si riducevano in 7^ giornata con risoluzione completa a 3 mesi. I valori
di pressione arteriosa erano alterati (200/100) all’insorgenza dei sintomi.
Conclusioni. Lo studio sottolinea il coinvolgimento di zone atipiche dell’encefalo nella sindrome
PRES. Le alterazioni ematiche compatibili con disfunzione endoteliale e i valori di pressione arteriosa
media sotto la soglia di autoregolazione cerebrale avvalorano la patogenesi citotossica dell’edema e non
ipertensiva. Le caratteristiche di reversibilità confermano che la sindrome PRES non si associa a danno
ischemico.
4
45
Tvp iliaco - cavale dx: stato trombofilico o genesi
multifattoriale?
Maria Cristina Andreucci, Giovanni Brunelleschi
U.O. Medicina Interna - Ospedale di Lucca
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Ipotesi. Trombosi della VCI in giovane paziente maschio di 16 anni che praticava attività sportiva: si
presenta alla nostra osservazione per dolore e tumefazione alla coscia dx, nei giorni precedenti era stato
diagnosticato uno stiramento muscolare. Familiarità di 1° grado per TVP in età giovanile. Al PS Eco
Color Doppler evidenzia: T.v.p. Iliaco-Femorale destra e Cavale Inferiore. Ndn all’eco addome.
Materiali e Metodi eseguti: eco addome, eco color doppler venoso, tc addome con
contrasto, rm cardiaca (per anomalie r.v. all’ecg standard), screening trombofilico.
Risultati. La presenza di tumefazione unilaterale (destra) in corso di TVP Cavale ha fatto sospettare la
presenza di circoli collaterali, come via di deflusso, del sistema venoso arto inferiore si sinistra. L’ECD
ha evidenziato la presenza di circoli collaterali tra Vena Iliaca Comune sinistra - Vene Lombari e Vena
Renale Sinistra. La Tc addome ha evidenziato trombosi Iliaco Cavale con ritorno venoso attraverso
circoli collaterali
lombari, renali, sistema azygos-emiazygos.Eco addome: VCI pervia in sede sottodiaframmatica, normale
il flusso nelle vene sovraepatiche. RM CARDICA: nella norma. Screening trombofilico: omocisteina>,
V Leiden>, Lupus>
Conclusioni. Gli effetti combinati del V Leiden e del gene della protrombina 20210A aumentano
il rischio di TEV in pazienti con doppia eterozigoti, soprattutto giovani. La precocità e la ricorrente
insorgenza della trombosi possono essere spiegate dall’associazione dei fattori trombofilici (V Leiden e
gene G20210A della protrombina) con quelli ambientali.
La febbre: questa sconosciuta!!!! Un caso insolito
C.M. Zucchi, R. Fedi, A. Tempestini, A. Pesci, F. Peruzzi, A. Moggi Pignone
AOU Careggi Firenze
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46
Ipotesi. Pz di 60 aa, recente politrauma della strada determinante frattura della base cranica interessante
la rocca petrosa sn con emotimpano, emoseno sfenoidale, ESA, fratture costali multiple, PNX, contusioni
polmonari, frattura della clavicola sn; decorso ospedaliero complicato da TVP ascellare e omerale. Viene
instaurata terapia con gardenale in via preventiva. Viene poi ricoverata presso la SOD Medicina Interna
per febbre e rush eritematoso comparso durante ciclo riabilitativo.
Materiali e metodi. Rx torace e addome (negativa); esami di laboratorio: anemia, leucopenia con
linfopenia, anemia normocitica normocromica; successivo incremento di transaminasi, GGT e ALP,
degli indici di flogosi. L’emocoltura positiva per Stafilococco coagulasi negativo. Viene intrapresa terapia
antibiotica mirata; successive emocolture negative e procalcitonina con valori nei limiti della norma.
Per il persistere della febbre nonostante modifica della terapia antibiotica è stata eseguita TC toraceaddome, che non ha evidenziato né raccolte ascessuali, né ematomi, né focolai infettivi. Controlli seriati di
ferritina e PCR risultavano sempre incrementati. È stato eseguito anche ecocardiogramma transtoracico
e transesofageo con studio delle valvole che risultava negativo per endocardite.
Risultati. Nel sospetto di febbre a genesi farmacologica è stata sospesa terapia con fenobarbitale
con graduale riduzione dell’eritema, progressiva normalizzazione delle transaminasi, GGT, ALP e
sfebbramento della paziente. Il controllo delle emocolture e della procalcitonina risultava nella norma.
Conclusioni. La persistenza della febbre associata a incremento delle transaminasi, GGT, ALP, rush
cutaneo eritematoso diffuso non pruriginoso, emocolture negativizzatesi con terapia antibiotica mirata
con procalcitonina negativa sono suggestivi per febbre con risposta infiammatoria sistemica e con
coinvolgimento epatico da idiosincrasia a terapia con fenobarbitale (Dress sindrome).
Protocolli gestionali di integrazione DEA- territorio
nel trattamento della BPCO riacutizzata:
l’esperienza del Valdarno
Fabrizio Bottino *, Alberto Cuccuini *, Marco Biagini **
* Ospedale Valdarno USL8 Arezzo ** Pneumologia Territoriale USL8 Arezzo
Ipotesi. Ogni anno circa l’8% dei paziente BPCO accede in pronto soccorso per riacutizzazione.
L’elevato numero di comorbidità, la difficoltà di inquadramento/trattamento in DEA e l’elevato carico
assistenziale per la gestione domiciliare di questi pazienti hanno comportato negli ultimi anni un marcato
incremento del numero dei ricoveri ospedalieri.
Materiali e Metodi. In linea con il progetto contenuto nel PSR 2008-2010 (Chronic Care Model)
abbiamo cercato di creare nella nostra struttura percorsi intra e extra- ospedalieri, attraverso un approccio
multidisciplinare, per il rapido inquadramento diagnostico e la corretta identificazione del setting di
trattamento dei paziente con BPCO riacutizzata.
Risultati. Nel II semente del 2008 (confermato dai dati del I semestre del 2009) abbiamo riscontrato
una riduzione dei ricoveri per BPCO riacutizzata ed una riduzione del numero di accessi in DEA dei
pazienti trattati e segnalati alla pneumologia territoriale alla momento della dimissione (DEA o Medicina
d’Urgenza).
Conclusioni. La creazione di percorsi gestionali condivisi tra il DEA ed il territorio rappresenta un
approccio innovativo nella gestione della BPCO riacutizzata in grado di rispondere alle esigenze delle
strutture ospedaliere con riduzione degli accessi in DEA e riduzione del numero dei ricoveri, e dei
pazienti fornendo loro l’assistenza medica ed il setting di trattamento più corretti in ogni fase della
malattia.
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Patologia nodulare tiroidea in Valdinievole
R. Bassu, D. Belliti, M. Checchi, R. Culli*, P. Apicella*, G. Panigada
U.O.C. Medicina Interna, Ospedale:“SS.Cosma e Damiano” Pescia (PT)
* U.O.C. Anatomia Patologica Azienda USL3 Pistoia
Ipotesi. La patologia nodulare tiroidea ha un’elevata prevalenza nella popolazione generale. Il tasso
di malignità dei noduli tiroidei rimane basso e stabile, circa il 5%. L’esame citologico eseguito su
agobiopsia ecoguidata con ago sottile è l’unica indagine capace di differenziare una lesione benigna da
una maligna.
Il nostro studio si propone di analizzare, retrospettivamente, i risultati di citoaspirati di noduli tiroidei per
valutarne il tasso di malignità nel nostro territorio.
Materiali e metodi. Nel periodo 2004-2009 sono stati esaminati 1018 pazienti, sottoposti a
citoaspirato di uno o più noduli presso l’ambulatorio di Endocrinologia dell’Ospedale di Pescia. Tutti gli
agoaspirati sono stati eseguiti sotto guida ecografica. I preparati sono stati fissati in aria e alcool, colorati
con Papanicolau e May Grunwald-Giemsa e esaminati nella Anatomia Patologica aziendale.
Risultati. Su 1459 noduli esaminati 982 sono risultate lesioni benigne, 83 carcinoma papillare, 6
carcinoma midollare, 106 proliferazioni follicolari/oncocitarie, 46 sono risultati dubbi e 16 sospetti.
L’esame citologico, infine, è risultato indeguato in 210 casi, pari al 14%. Inoltre su 10 pazienti (6 con
lesione sospetta, 5 dubbia e 2 follicolare) l’esame istologico dopo intervento chirurgico di tiroidectomia
totale era compatibile con carcinoma papillare.
Conclusioni. I risultati del nostro studio, in accordo con i dati riportati in letteratura, confermano
l’utilità dell’esame citologico nella diagnosi delle patologie tiroidee e l’importanza della correlazione
con l’esame istologico nei casi in cui gli esami citologici siano risultati non diagnostici. Tale metodica ci
permette un’efficace valutazione per questa patologia sempre più frequente nella popolazione.
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Cartella multidisciplinare per la valutazione del rischio
cardiovascolare globale: dati di popolazione in Valdinievole
M. Straniti, R. Giovannetti, L. Tonarelli, A. Birindelli, R. Pierotello, R. Bassu, G. Panigada
UOC Medicina Interna, Ospedale: “SS.Cosma e Damiano” Pescia Azienda USL3 Pistoia
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Premesse. In prevenzione primaria, gli interventi vanno modulati in funzione del cosiddetto Rischio
Cardiovascolare Globale. Fino a poco tempo fa il RCV veniva trattato in maniera settoriale nei vari
ambiti specialistici col rischio di non univoca predizioni del livello.
Materiali e Metodi. Nella nostra U.O. utilizziamo un’unica cartella ambulatoriale che permette una
valutazione condivisa del rischio globale allo scopo di massimizzare l’efficacia dell’intervento nell’ambito
della prevenzione cardiovascolare. Tale strumento raccoglie dati anagrafici, anamnestici sui fattori di
RCV e una valutazione di altezza, peso, BMI, circonferenza vita, PAS, PAD, parametri umorali, patologie
pregresse o in atto, trattamenti farmacologici.
Risultati. Abbiamo valutato 96 pazienti nel periodo 1/9/’08 al 30/6/’09: Maschi = 38 pari al 40% (età
media=49.4); Femmine = 58 pari al 60% (età media= 59.2). Fumatori 52%M, 10% F; Familiarietà per
dislipidemia 76%M,58%F; WC 97M, 84F; PAS 130 / 125 mmhg, PAD 78/72 mmhg; Trattamento con
statine/fibrati 57%M, 52%F; Colesterolo totale 249/264 mg/dl; LDLC 133,127 mg/dl; TG 322/126
mg/dl.
Conclusioni. La popolazione afferente ai nostri ambulatori di prevenzione primaria presenta bassa
età media, elevata prevalenza di s. metabolica, elevato profilo di rischio globale non identificato
precedentemente e conseguentemente una alta percentuale di soggetti non ‘a target’ nel trattamento.
Score di stratificazione del rischio tromboembolico come
parte integrante della cartella clinica in medicina interna
R. Bassu, A. Alessandrì, I. Lucchesi, L. Teghini, L. Tonarelli, G. Panigada
UOC Medicina Interna, Ospedale: “SS.Cosma e Damiano” Pescia Azienda USL3 Pistoia
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Premesse e scopo dello studio. Negli ultimi 40 anni a fronte di una marcata riduzione degli eventi
TEV nei reparti chirurgici (78%), non si è assistito ad analogo successo in quelli internistici (15%)
verosimilmente in rapporto ad una sotto-prescrizione della profilassi trombo embolica (30-50% nei
pazienti con indicazione), conseguenza della difficoltà della stratificazione del rischio in classi omogenee,
e dell’elevato rischio emorragico. Difficile pertanto l’applicazione di modelli di stratificazione nella
pratica clinica.
Materiali e metodi. Dal settembre 2008 fa parte integrante della cartella clinica del nostro reparto
un modello di stratificazione a punti che valuta il rischio sommando fattori predisponenti individuali e
fattori legati all’evento e suggerisce la modalità di profilassi nonché la necessità del prolungamento a
domicilio.
Risultati. I dati di confronto sui primi 100 pazienti e ulteriori 100 a 10 mesi rilevano alla costanza dei
fattori di rischio per numero e peso, un incremento dell’uso della profilassi in reparto e alla dimissione.
Conclusioni. L’utilizzo di un modello di stratificazione del rischio trombo embolico come parte
integrante della cartella clinica mantiene nel tempo la sua efficacia, migliora l’aderenza alle linee guida
non solo durante il ricovero ma anche alla dimissione e ne è pertanto auspicabile una sua ampia nei
reparti internistici.
Gestione ambulatoriale di una trombosi venosa profonda
prossimale con CCUS negativa
A. Alessandrì, R. Bassu, R. Pierottello, A. Capitanini.°, G. Silvestri ^, A. Viviani *, G.Panigada
U.O.C Medicina Interna, °Nefrologia, *Radiologia, ^Urologia
Ospedale SS Cosma e Damiano (Pescia) Azienda USL3 Pistoia
Caso clinico. Maschio di 74 anni inviato all’ambulatorio vascolare da MMG con percorso preferenziale
per sospetta trombosi venosa profonda. All’anamnesi: recente sinistro stradale con trauma contusivo
ginocchio sin, da circa una settimana dolore al fianco e comparsa di edema. All’esame obiettivo edema
di tutto l’arto inferiore sinistro.
CCUS negativa. ECD: assenza di materiale trombotico ma rallentamento del flusso nelle vene iliache. D
Dimero nella norma. Ecografia addominale: idronefrosi sin, dilatazione aorta addominale sottorenale.
TC addome: Aneurisma aorta addominale (diametro 42 mm), fibrosi retroperitoneale con idronefrosi
bilaterale e TV iliaca sinistra. Terapia steroidea alla dose di 1 mg /kg, EBPM 200 U/Kg/die per 1 mese.
Stent ureterali. A un mese: RNM miglioramento del quadro.
La Fibrosi Retroperitoneale è una malattia del connettivo caratterizzata dallo sviluppo di un tessuto fibroinfiammatorio a livello retro peritoneale. Nel 75% dei casi idiopatica, è conseguenza di una reazione
autoimmune locale nei confronti di alcuni componenti delle placche aterosclerotiche o manifestazione
locale di un processo autoimmune sistemico.
Conclusioni. L’internista che valuta un paziente nel sospetto di TEV non deve fermarsi all’esecuzione
dell’ECD anche completo, ma in base al quadro clinico, all’anamnesi e all’esame obiettivo avviare un
percorso in Day Service che permetta di ottenere una diagnosi patogenetica corretta e di impostare la
terapia adeguata.
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Trombosi venosa profonda a sede atipica in paziente con
sindrome trombofilica
S. Boccacci, R. Castro
U.O. Medicina Interna Abbadia S. Salvatore – Siena
Caso clinico. Donna di 49 anni con anamnesi di 3 aborti spontanei consecutivi ed 1 figlio nato da parto
prematuro alla 34° settimana; da circa 5 anni in trattamento continuativo con etinilestradiolo-gestodene.
Da una settimana presenta dolore all’emitorace sinistro associato a febbre con successiva comparsa di
edema dolente in regione mammaria e laterocervicale di sinistra; nega traumi recenti.
Gli esami di laboratorio all’ingresso sono sostanzialmente nella norma ad esclusione del D-dimero (855
ng/ml) e dell’antitrombina III (73%).
Gli esami strumentali (eco-color-Doppler, ecografia del collo, TAC torace sono concordi nella diagnosi
di trombosi venosa profonda (T.V.P.) in atto giugulare, succlavia ed ascellare di sinistra.
La paziente, alla quale nel frattempo è stata sospesa la terapia ormonale, è stata trattata efficacemente
con enoxaparina sodica 6000 U.I. x 2 e successiva embricazione con warfarin (target I.N.R tra 2 e 3) da
proseguire a tempo indefinito.
Lo studio della trombofilia ha evidenziato un deficit coagulativo combinato caratterizzato, oltre che
da carenza di antitrombina III, da carenza di proteina S (62%) e da screening Lupus Anticoagulant
positivo.
Conclusioni. Le sindromi trombofiliche possono decorrere asintomatiche fino a quando una concausa
concorre a determinare l’evento trombotico.
È noto che l’associazione tra assunzione di estroprogestinici e trombofilia determina un aumento del
rischio di tromboembolismo venoso e che tale rischio è ulteriormente aumentato nel caso di deficit
coagulativi combinati; in questi ultimi casi inoltre è più frequente la localizzazione a carico degli arti
superiori ed in sedi atipiche.
Questo caso conferma come un’attenta anamnesi avrebbe potuto impedire la prescrizione inappropriata
di un farmaco riducendo il rischio di un successivo sviluppo di complicanze.
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Endocardite da stafilococco aureo: presentazione di un caso
clinico
Roberta Mastriforti, Maida Lucarini, Bianca Tarantini, Rossella Nassi
Ospedale della Valtiberina, Sansepolcro
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Introduzione. L’endocardite da stafilococco aureo è malattia grave con tasso di mortalità elevato ad
esordio clinico acuto; più rare le forme subacute con febbricola o assenza di febbre, in paziente anziani o
gravemente defedati. È frequente nelle valvole protesiche o per l’uso di cateteri endovascolari; come altri
ceppi altamente virulenti, lo stafilococco aureo può aderire all’endotelio illeso. Descriviamo il caso di
un’endocardite da stafilococco aureo decorsa in forma subacuta in una paziente anziana senza patologie
favorenti la localizzazione endocardica del batterio, la cui porta di ingresso rimane incerta.
Materiali e metodi. Una donna di 88 anni, ricoverata per anemia sideropenica con esami endoscopici
negativi, presentava febbricola serotina da circa un anno. La paziente, in buone condizioni generali, era
portatrice di tre protesi articolari, posizionate 15-20 anni prima. Non risultavano nell’anamnesi manovre
invasive.
Risultati. Gli esami di routine erano nel complesso normali, ma tre emocolture risultavano positive
per Staphylococcus Aureus. Con ecocardiogramma transesofageo si evidenziavano vegetazioni
endocarditiche mitraliche ed aortiche. Molteplici accertamenti comprendenti il leuco-scan non
permettevano di identificare il focolaio di partenza. Il trattamento con teicoplanina e gentamicina
(quest’ultima sostituita dopo 14 giorni con rifampicina) otteneva rapida negativizzazione delle emocolture
e più lenta scomparsa della febbre.
Conclusioni. L’endocardite da stafilococco aureo, condizione più spesso acuta e legata a manovre
invasive, può presentarsi, come nel nostro caso, con sintomi attenuati, rimanendo patologia grave ad
alto rischio di mortalità. Da qui l’importanza di considerare tale ipotesi diagnostica anche in presenza di
sintomi modesti, soprattutto negli anziani.
Macroprolattinoma: un caso nell’infanzia
Rossella Nassi, Chiara Vezzosi, Bianca Tarantini
Endocrinologia – Arezzo
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Introduzione. Anche se sono i più frequenti adenomi ipofisari secernenti, i prolattinomi hanno bassa
prevalenza. Addirittura rari i macroprolattinomi quando si verificano nell’infanzia. Il quadro clinico
che ne deriva è diverso da quello dell’adulto, in particolare in epoca puberale per l’effetto inibente l’asse
ipofisi-gonadi esercitato dalla PRL. Inoltre i prolattinomi osservati in giovane età sono più spesso inseriti
nell’ambito di una MEN. Descriviamo il caso di un macroprolattinoma da noi recentemente osservato
in un bambino di 10 anni e mezzo.
Materiali e metodi. Il paziente è giunto alla nostra osservazione perché, per cefalea, era stato
sottoposto a RM dell’encefalo con evidenza di macroadenoma ipofisario esteso alle cisterne sovrasellari.
Il bambino era completamente impubere, con statura al 90º centile, normale BMI, senza elementi
clinici significativi. Presente iperprolattinemia (3360 mUI/l) con restante assetto ormonale normale, in
particolare la funzione ipofisaria, compresa la riserva funzionale valutata con i test di stimolo. Al test con
GnRH, la risposta delle gonadotropine appariva di tipo prepuberale. Normale il campo visivo. Negativo
lo studio genetico per la MEN1.
Risultati. La terapia con cabergolina (0.5 mg/sett) normalizzava rapidamente la PRL. La RM dopo
6 mesi evidenziava netta riduzione dell’adenoma, limitato allo scavo sellare, con cisterne sovrasellari
libere; allo stimolo con GnRH si evidenziava, questa volta, risposta delle gonadotropine compatibile
con iniziale attivazione puberale, in accordo con il dato clinico di incremento volumetrico testicolare e
comparsa di fine peluria pubica.
Conclusioni. Per quanto raro, il prolattinoma deve essere escluso sempre nei ritardi puberali; il suo
riconoscimento e la terapia prontamente instaurata permettono di ottenere un normale sviluppo puberale
e di evitare la conseguenza dell’ulteriore crescita della neoplasia.
Feocromocitoma: una diagnosi sempre difficile?
Bianca Tarantini, Marianna Turrrini, Rossella Nassi
Ospedale Valtiberina –AR
Ipotesi. Il feocromocitoma, tumore cromaffine secernente catecolamine, si presenta clinicamente
in maniera polimorfa. La triade caratteristica (cefalea, palpitazioni, sudorazione) può associarsi a
ipertensione stabile, parossistica, alternata a ipotensione, poco responsiva ai farmaci o anche assente. Da
qui la difficoltà della diagnosi di questa malattia, spesso simulante patologie diverse, tanto da meritarsi
l’appellativo di “grande mimo”. Descriviamo un caso di feocromocitoma osservato recentemente nel
nostro reparto.
Materiali e Metodi. Donna di 45 anni, ipertesa da 3 anni, in terapia con olmesartan con buon
controllo della pressione, che risulta stabile e senza sintomi e segni abituali nel feocromocitoma, effettua
accertamenti per riscontro ecografico incidentale di massa surrenalica di 5 cm.
Risultati. Sostituito il sartanico con calcio-antagonista, vengono dosati renina, aldosterone, androgeni,
cortisolo e ACTH plasmatici, tutti nella norma. Normale anche la soppressione del cortisolo con
desametazone. Elevate le metanefrine urinarie (normetanefrina 4407 e 4412 µg/24 h in due controlli).
Alla TC dei surreni si conferma massa surrenalica destra solida, trattata chirurgicamente per via
laparoscopica con normalizzazione della pressione. Negativo lo screening per MEN 2.
Conclusioni. Nel caso in esame la difficoltà della diagnosi era legata alla “normalità” dell’ipertensione
anche se l’età relativamente giovane della paziente e l’assenza di chiara familiarità potevano indirizzare
verso gli accertamenti specifici. Il riscontro di massa surrenalica è stato l’elemento che ha portato alla
diagnosi e, del resto, una delle indicazioni alla ricerca del feocromocitoma è proprio rappresentata
dall’incidentaloma surrenalico.
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Sindrome di Poems: caso clinico e revisione della
letteratura
Rossella Nassi, Marianna Turrini, Roberta Mastriforti, Maida Lucarini
Ospedale Valtiberina – Arezzo
Ipotesi. La sindrome POEMS è definita dalla presenza di disordine monoclonale delle plasmacellule
e neuropatia periferica, associati ad altre manifestazioni paraneoplastiche, le più comuni delle quali
includono organomegalia, endocrinopatie, alterazioni cutanee, pletora, papilledema, trombocitosi. Non
tutti gli elementi sono necesari per la diagnosi, essendo sufficiente l’associazione di 2 criteri maggiori e
uno o più minori (Dispenzieri et al - POEMS syndrome: definition and long-term outcome. Blood. 2003).
L’esordio è spesso caratterizzato dalla comparsa della polineuropatia e la diagnosi può essere difficile.
Descriviamo un caso di sindrome di POEMS osservato recentemente nella nostra Unità Operativa.
Materiali e metodi. Una donna di 68 anni, ricoverata per cardiopatia dilatativa fibrillante scompensata,
con ipotiroidismo postchirurgico per K papillare (follow up negativo), presenta lesioni osteosclerotiche in
vari segmenti ossei, che alla biopsia risultano dovute a mieloma. Non documentabile paraproteinemia,
né neuropatia, che comparirà, a distanza di un anno, agli arti inferiori con danno prevalentemente
sensitivo. La presenza di segni minori (trombocitosi, pletora, papilledema), conferma la diagnosi di
POEMS.
Conclusioni. La POEMS è sindrome rara, da considerare in presenza di una neuropatia, cercando le
altre manifestazioni, in particolare il disordine proliferativo plasmacellulare, non sempre con componente
M (come nel nostro caso) e quasi sempre con lesioni osteosclerotiche.
Il caso in esame si caratterizza per il ritardo nella comparsa nella neuropatia rispetto agli altri elementi, in
particolare al mieloma, la cui diagnosi è stata d’altra parte casuale per l’evidenza di lesioni osteosclerotiche
in un esame radiologico routinario.
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Una tecnica antica per un ruolo attuale: la semeiotica fisica
come discrimine di appropriatezza per l’esecuzione
di esami strumentali
G. Tintori*, A. Fabbri, C. Bozzano1, R. Mastriforti2, S. Meini3, A. Montagnani4.
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*Partecipanti toscani al master FADOI-Univ. LIUC in “Governo Clinico per la Medicina Interna”
1
UOC Medicina Generale 5°, Az. Ospedaliero-Universitaria Pisana, UOC Medicina Interna e Geriatria, Osp. S.Donato ASL 8 (Ar)
2
UOC Medicina Interna, Osp. Val Tiberina, ASL 8 Arezzo
3
UOC Medicina Interna, Osp Santa Maria Maddalena di Volterra, ASL 5 Pisa
4
UOC Medicina Interna, Osp. Misericordia, ASL 9 Grosseto
Premesse e scopo dello studio. Nei sistemi sanitari pubblici, caratterizzati da una spesa costantemente
crescente a fronte di una stazionarietà, nella migliore delle ipotesi, delle risorse disponibili, il problema
della sostenibilità finanziaria è diventato cruciale e rischia nell’immediato futuro di far “saltare” il
sistema.
In quest’ottica appare fondamentale il concetto operativo di appropriatezza delle procedure assistenziali,
specialmente in un epoca di esplosione tecnologica in medicina. In questo studio, eseguito in uno specifico
setting clinico, abbiamo valutato la capacità di una semplice manovra di semeiotica fisica, la palpazione,
di discriminare chi appropriatamente sottoporre ad un esame strumentale.
Materiali e metodi. In maniera prospettica sono stati valutati i pazienti consecutivamente afferenti
al nostro ambulatorio di ecografia nel periodo settembre 2007/dicembre 2008 con richiesta di ecografia
parti molli per ricerca di linfoadenopatie. Un medico ha eseguito una palpazione sistematica delle sedi
da indagare in max 5 min; successivamente un altro medico, in cieco rispetto al primo, ha effettuato
l’esame ecografico. Sia per l’esame fisico che per quello ecografico sono stati valutati la presenza o meno
di linfonodi e, in caso di presenza, la sede e le caratteristiche degli stessi. Quindi sono stati confrontati i
dati delle due metodologie di rilevazione.
Risultati. Sono stati arruolati 204 pazienti (98 femmine, 106 maschi; età media 57.2, range 16-94).
L’indicazione più frequente all’esame era il follow-up di LNH. All’esame fisico 101 pz sono risultati
negativi per la ricerca di linfoadenopatie.
Alla valutazione ecografica in 75 pz non si evidenziavano linfoadenopatie; dei 129 pz con evidenza
di linfonodi 79 presentavano linfoadenopatie chiaramente reattive, 50 linfoadenopatie patologiche o
dubbie. Tutti i pazienti negativi alla palpazione (101) all’esame ecografico sono risultati senza evidenza
di linfonodi o con linfoadenopatie chiaramente reattive.
Dei pz positivi alla palpazione (103), all’ecografia 52 presentavano linfoadenopatie reattive, 50
linfoadenopatie patologiche o dubbie, 1’assenza di linfonodi.
Conclusioni. Posto come l’appropiatezza rappresenti attualmente una necessità organizzativa
inderogabile per i sistemi sanitari pubblici, appare sicuramente onere e onore del medico clinico stabilirne
i confini ed i contenuti affinché ci sia il giusto equilibrio tra efficacia ed efficienza, senza che prevalga, in
modo dannoso per i pazienti, la pura esigenza economica.
Questa è l’ottica in cui è stato realizzato questo studio e il dato maggiormente rilevante che ne emerge
è che tutti i pz negativi alla palpazione sono risultati indenni da linfoadenopatie patologiche o dubbie
all’ecografia. Ciò sembrerebbe indicare che, in questo set di pazienti, in presenza di negatività ad un
semplice e rapido esame palpatorio, l’accertamento ecografico non sia in grado di offrire un valore
diagnostico aggiuntivo e costituisca quindi un inutile consumo di risorse del sistema sanitario e del pz
stesso.
Appare invece indicato riservare l’esame strumentale ai positivi alla palpazione per l’ulteriore
caratterizzazione diagnostica del reperto, là dove l’ecografia sicuramente fornisce un’utilità clinica
aggiuntiva rispetto all’esame fisico.
A giudizio degli autori questo rappresenta un semplice esempio di come la tecnica clinica classica
(anamnesi, esame obiettivo, sintesi clinica), a torto oggi sminuita o addirittura quasi sostituita dall’uso
delle tecnologie, specialmente in ambiente specialistico, possa invece rappresentare la vera linea guida
della buona e appropiata pratica clinica.
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Un insolito caso di cirrosi
Franco Pieralli, Francesco Tarchi, Alberto Cuccuini
U.O. Medicina Interna/Urgenza Ospedale Santa Maria alla Gruccia Montevarchi (AR)
Viene descritto un caso di cirrosi epatica di un giovane maschio legato ad un difetto del metabolismo del
rame compatibile con malattia di Wilson da noi osservato.
Il morbo di Wilson o degenerazione epato lenticolare è una causa rara di cirrosi epatica: è una malattia
rara con una prevalenza omozigote di 1/30.000-1/300.000. La Sardegna è la regione Italiana con
maggiore prevalenza omozigote: 1/10.000-1/6000. Prevalenza eterozigoti in Sardegna è stimata
intorno a 1/90. é una malattia ereditaria a carattere autosomico recessivo e si caratterizza per ridotta
escrezione di rame per via biliare e accumulo di rame in diversi tessuti dell’organismo in particolare nel
fegato (cirrosi) nel SNC (alterazioni neuro psichiche) e nell’occhio (anello di Kaiser-Fleischer).
La malattia è asintomatica nei primi anni: si ha quindi in primo luogo l’accumulo epatico: quando il
fegato non riesce a contenere più l’eccesso di rame questo viene massivamente immesso in circolo ed
invade il SNC. La Biopsia Epatica sarebbe indicata per la conferma della diagnosi ma spesso non viene
effettuata subito per persistenti bassi valori di Attività Protrombinica.
Il gene che determina la malattia è il gene ATP 7 B localizzato nel cromosoma 13 in posizione q14-q21,
codifica per l’ATPasi 7b che regola il trasporto del rame attraverso le membrane cellulari.
Sono descritte oltre 200 mutazioni (in Sardegna la mutazione più frequente è sulla regione promoter):
per tale motivo gli Studi Genetici sono limitati allo screening dei familiari dei pazienti. La maggior
parte dei pazienti presenta mutazioni diverse in ognuno dei due cromosomi. La diagnosi comprende
la determinazione di Ceruplasminemia <20 mg/dl*, Cupremia totale <60 μg/dl (scarso significato
clinico), Cupruria /24 h >100μg Cupruria post carico con D-penicillamina 300 mg x 2 die > 650
µg/24 h. La ceruloplasmina può essere normale nel 15% dei casi. Recentemente ha preso importante
lo score diagnostico di Ferenti che tiene conto della clinica (sintomi neurologici, anello Kayser Fleischer,
anemia emolitica) dei test di laboratorio ematici ed urinari, dei reperti di istochimica su epatobiopsia e
dei test genetici (analisi delle mutazioni). Il reperto istochimico comprende Rame epatico tissutale >250
μg/g.t.s. Identificazione del Cu mediante colorazione con Rodanina, Orceina, TIMM. Rigonfiamento e
glicogenazione dei nuclei cellulari. Alterazioni pleiomorfe dei mitocondri (megamitocondri). La terapia
attuale oltre ai classici chelanti deve prendere in considerazione nei giovani il trapianto di fegato.
18
Un raro caso di sindrome di Behçet complicata
da patergia e pyoderma gangrenoso
A. Corsi*, A. Lagi*, S. Cencetti*, G. Visi*, R. Cassino**, E. Ricci**, B. Tumiati***
*Ospedale “S. M. Nuova”, Firenze **Clinica “San Luca”, Torino ***Arcispedale “S. M. Nuova”, Reggio Emilia
La Sindrome di Beçhet è una vasculite sistemica rara e cronica, di origine autoimmune, coinvolgente,
oltre ad arterie e vene di calibro diverso, anche la mucosa orale e genitale (dove si manifesta con
afte), l’intestino, il sistema nervoso centrale, l’apparato oculare e la cute. La localizzazione cutanea
può complicarsi con insorgenza di ulcerazioni croniche, di difficile gestione e richiedenti tempi di
guarigione prolungati. Il caso clinico che presentiamo riguarda una giovane donna con diagnosi certa
di S. di Beçhet, giunta all’osservazione del Dipartimento di Emergenza Accettazione dell’Ospedale “S.
M. Nuova” di Firenze in seguito a importante reazione allergica a puntura di insetto, complicata da
rapidissima insorgenza di necrosi cutanea nel punto di contatto con il veleno, e immediata evoluzione
della stessa in Pyoderma Gangrenoso. Il quadro clinico iniziale, caratterizzato da importante dispnea per
broncospasmo, acidosi respiratoria e ipotensione, è stato rapidamente stabilizzato in DEA, e la paziente
è stata trattenuta presso la nostra Degenza Breve per osservazione. Dimessa il giorno successivo, è stato
quindi attivato un programma terapeutico multidisciplinare, per una rivalutazione della patologia di
base, l’aggiustamento della terapia e il monitoraggio dell’evoluzione della lesione cutanea. Il complesso
quadro clinico della paziente, ulteriormente complicato dal fenomeno della patergia per le lesioni cutanee,
ci ha permesso di evidenziare alcune criticità in area di emergenza e nel successivo percorso vulnologico
per la corretta gestione delle lesioni stesse. In particolare è stata fornulata un’ipotesi di percorso per
un corretto inquadramento terapeutico multidisciplinare e multicompartimentale e un’idonea presa in
carico in ambito territoriale.
19
53
Rabdomiolisi: descrizione di un caso clinico
Roberta Mastriforti, Marianna Turrini, Maida Lucarini, Rossella Nassi
Ospedale Valtiberina - Arezzo
20
Ipotesi. La rabdomiolisi è caratterizzata dalla lesione dei muscoli striati con conseguente passaggio in
circolo dei loro costituenti enzimatici e metabolici. Può essere causata da numerose condizioni tra cui
ricordiamo un’intensa attività fisica, uso di farmaci e droghe, traumi, ustioni, infezioni batteriche e virali,
disordini genetici. Descriviamo un caso osservato recentemente nel nostro reparto.
Materiali e metodi. Una donna di 40 anni giungeva alla nostra osservazione per la comparsa di
dolori muscolari diffusi intensi ed emissione di urina di colore scuro; riferiva di avere praticato attività
fisica in palestra (circa 1 ora di spinning) senza alcun allenamento precedente. Non riferiva assunzione
di farmaci o sostanze stupefacenti.
Risultati. All’esame obiettivo le masse muscolari erano dolenti alla palpazione con notevole riduzione
della forza agli arti inferiori. Gli esami ematochimici mostravano GOT 1490 UI/l, GPT 481 UI/l,
azotemia 0.24 g/l, creatinina 0.76 mg/dl, CPK >10000 UI/l, LDH 1958 UI/ml, mioglobina 8600 mcg/
l. Veniva instaurata idratazione con soluzione fisiologica associando diuretici dell’ansa e bicarbonato di
sodio con progressivo miglioramento della sintomatologia dolorosa, recupero dell’autonomia motoria e
normalizzazione degli indici di lisi muscolare.
Conclusioni. Numerose sono le segnalazioni in letteratura di sindromi rabdomiolitiche sia in soggetti
che svolgono attività fisica sia agonistica che non agonistica; tali quadri clinici non devono essere
sottovalutati in quanto possono comportare gravi complicanze quali insufficienza renale che viene
descritta nel 20-30% dei casi.
Pancreatite acuta in medicina interna:
dimensione del problema
C. Belcari, A. Pampana, G. Rinaldi, S. Suppressa
Gruppo Gastroenterologico FADOI
21
54
Ipotesi. Scopo dello studio è valutare la incidenza di Pancreatite acuta nelle UU.OO. di Medicina
Interna di quattro PP.OO della nostra Regione (P.O Pontedera, P.O. Cecina, P.O. Valle del Serchio, P.O.
Pistoia) e di valutare il ruolo delle UU.OO. Mediche nella gestione di questa patologia.
Materiali e metodi. Lo studio, retrospettivo,ha preso in esame il periodo 01/01/2009 – 30/06/2009.
(per il P.O. di Cecina il periodo Maggio-Luglio 2009) ed ha valutato la prima diagnosi (pancreatite
acuta), l’eziologia e la U.O di destinazione dei Pazienti. Non essendo stato possibile discriminare tra
primo episodio, recidive e rericoveri, lo studio non consente una indagine epidemiologica sulla incidenza
della malattia, ma solo una valutazione del “peso assistenziale” di questa nelle UU..OO. considerate.
Risultati. I DRG 204 “Pancreatite acuta” nel periodo considerato sono stati 72: Biliari 41 (57.6%),
Alcooliche 12 (16,4%) Altra eziologia 19 (26,0%). Max incidenza per età: 72-85 anni con range 15-91
anni.
Conclusioni. Le 72 pancreatiti acute osservate nelle UU.OO. di Medicina Interna rappresentano la
maggioranza (mediamente 3/4) dei casi afferiti ai singoli PP.OO. essendo le UU.OO.
Chirurgia solitamente interessate solo ai casi eligibili per ERCP d’urgenza o a quelli, più rari, risovibili
solo chirurgicamente per complicanze.
È intento di questo G.O.FADOI costituire un osservatorio epidemiologico che formalizzi standard
diagnostici ed approcci terapeutici comuni alla patologia.
Benefici della terapia radiorecettoriale
nei tumori carcinoidi: descrizione di un caso
Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca,
Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro
Ospedale del Casentino – Bibbiena
RI, donna 72a., affetta da neoplasia neuroendocrina (carcinoide a partenza pancreatica con secondarismi
epatici, prevalentemente sub-glissoniani ed ossei) diagnosticata (agosto 2007) con biopsia eco-guidata di
lesione secondaria epatica. Alla PET: captazione a livello epatico, di un linfonodo pancreatico, VI°
costa di destra e di D11. Alla RM del rachide: lesione litica a livello di D10 (trattata con radioterapia).
Sottoposta a terapia con Capacitabina risultata inefficace. TC total Body (17/04/08): incremento delle
lesioni epatiche ipervascolari con tendenza alla confluenza, aspetto infiltrativo a livello della confluenza
delle vene sovraepatiche di maggiore entità rispetto al controllo precedente. OCTREOSCAN (maggio
2008): multipli accumuli a livello epatico, in regione mesogastrica e in una piccola area in sede
mediastinica anteriore. La spiccata positività per i recettori della somatostatina ha posto indicazione alla
terapia radiorecettoriale con 90Y-DOTATOC (5 cicli). La scintigrafia globale corporea post-terapia, con
tracciante immunologico recettoriale (Ittrio 90Y DOTA-TOC), analogo radiomarcato della somatostatina
post IV° ciclo di terapia radiorecettoriale, ha evidenziato regolare distribuzione del radiofarmaco a livello
corporeo (in precedenza rilievo di iperaccumuli del radiofarmaco in regione epatica ed epigastrica di
intensità ridotta rispetto all’ulteriore precedente scintigrafico eseguito il 23/09/08; non più evidente il
modesto accumulo in regione mediastinica, precedentemente segnalato).
Controllo TC torace e addome completo con e senza mdc (10/02/2009): “rispetto al precedente eseguito
in data 17/04/2008 si rileva un netto miglioramento del quadro epatico; in particolare le multiple
lesioni precedentemente segnalate appaiono ridotte di volume in una percentuale superiore al 50% ed
appare modificato anche il grado di enhancement delle stesse…” Vista la efficacia terapeutica e la buona
tollerabilità completerà un quinto ciclo di terapia radiorecettoriale.
22
Carcinoma indifferenziato dell’etmoide sinistro:
descrizione di un caso
Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca,
Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro
Ospedale del Casentino - Bibbiena
C.R., uomo 68a., falegname. Pregresse pancreatiti, precedenti TPSV, artrosi polidistrettuale con ernie
discali multiple. Agosto 2008: cervicobrachialgia sx dopo sforzo fisico con dolore di severa entità, lieve
deficit motorio ed irradiazione in sede interscapolo vertebrale sinistra.
Tra gli esami: TC toraco mediastinica, negativa per processi espansivi eteroplasici, EMG agli arti
superiori ed RM del rachide cervicale evidenzianti radicolopatia compressiva C3-C4, C4-C5, C5-C6.
Settembre2008: sensazione di ripienezza nasale, epifora, iposmia, gocciolamento nasale di mucopus e
tracce di sangue; difficoltà respiratoria nel decubito supino. ValutazioneORL con rinoscopia diretta:
sinusopatia flogistica in poliposi. Successiva diplopia nello sguardo verso il basso: proptosi del bulbo
oculare dx.TC del massiccio facciale con mdc: neoformazione delle cavità naso-etmoidali con struttura
disomogenea ed interessamento prevalente dei turbinati medio superiore e delle celle etmoidali a dx con
osteolisi della parete mediale del seno mascellare omollaterale; erosione della lamina papiracea dx con
invasione della regione orbitaria, compressione del muscolo retto mediale spinto a contattare il nervo
ottico con proptosi oculare dx. In alto superamento della lamina cribrosa etmoidale con aggetto nella
fossa cranica anteriore a livello del lobo olfattorio. Posteriormente interessamento del seno sfenoidale dx.
A livello naso-etmoidale superamento della linea mediana con espansione sul versante controlaterale.
Biopsia: carcinoma anaplastico ulcero-necrotico dell’etmoide sx. Rilievo TC di lesioni secondarie
epatiche, polmonari e dei linfonodisottomandibolari dx. Chemioterapia: cisplatino ed etoposide. Esito
infausto dopo tre mesi.
Conclusioni. Neoplasia rara, correlata all’esposizione alle polveri di legno. Simulazione di sinusopatie
flogistiche. Nel sospetto: rinofibroscopia. Diagnosi: endoscopia ed esami radiologici con evidenza di
usure ossee, inesistenti nelle sinusiti. Ritardo diagnostico medio di 4-12 mesi.
23
55
Correlazione tra funzionalità tiroidea e renale in donne al
primo trimestre di gravidanza
Giulio Ozzola, Emilio Santoro, Ciro Sommella
Ospedale del Casentino - Bibbiena
24
Ipotesi. La tiroide ha la capacità di regolare la funzionalità renale, cosa importante in gravidanza in
quanto causa di gravi complicanze. Oggi la funzione renale si può studiare tramite formule quali la
MDRD. Scopo del lavoro è verificare l’influenza che la funzionalità tiroidea ha su quella renale in donne
all’inizio della gravidanza.
Materiali e metodi. Si è effettuato uno studio su 700 donne in gravidanza da circa otto settimane alle
quali è stato dosato il TSH e la funzionalità renale tramite MDRD.
Risultati. Il valore medio di TSH riscontrato è di 2.23+/-6.2 mUI/L (mediana=1.58 mUI/L e range
= 9.94 mUI/L) e quello del MDRD è di 95.2+/-13.8 mL/min/1.73^2. La correlazione tra TSH e
MDRD risulta di - 0.0978 con livello di significatività pari a p<0.01.
Discussione e conclusioni. Vari studi indicano che la funzionalità tiroidea influenza anche quella
renale e che in gravidanza vi possono essere gravi complicanze legate a questa. Si è valutato se vi è
correlazione TSH e MDRD ed è risultato che le due variabili sono tra loro inversamente correlate e che
tale correlazione è statisticamente significativa.
Prevalenza di patologie nella popolazione cinese afferente al
pronto soccorso dell’ospedale “Misericordia e Dolce” di Prato
R. Fiusti, M. Lanigra, C. Zeloni, G. Manco, G. Vannoni, A. Cruciani, M. Becheri
U.O. Emergenza e Accettazione Azienda USL 4 Prato
25
1
http://www.provincia.prato.
it/w2d3/internet/download/
provprato/intranet/utenti/
domini/risorse/documenti/
store--20090716135840041/
Residenti+stranieri+al+31.12
.2008.pdf
56
Premessa. L’ Azienda USL 4 di Prato eroga servizi sanitari per l’intera provincia con una popolazione
residente di 246.035 cittadini1. Di questi 28.971 (11.7%) sono nati in altri stati. I cittadini cinesi residenti
in tutta la Provincia sono 10914 (4.43%).
Materiali e metodi. Con il presente studio abbiamo voluto valutare la percentuale di cittadini cinesi
che afferiscono al Pronto Soccorso di Prato (l’unico dell’intera Provincia) e le patologie che si riscontrano
più frequentemente in questa popolazione. Per tale motivo, abbiamo utilizzato il programma FIRST
AID, estrapolando dallo stesso i dati sottostanti grazie alla codifica con il sistema ICD9-CM, inserito
come step obbligatorio che il medico deve effettuare prima di chiudere il verbale ed inserendo nella
raccolta dati solo i pazienti nati in Cina.
Risultati. Dal 1.1.2009 al 31.8.2009 sono afferiti al PS di Prato 50.568 pazienti; di questi 4784
(9.46%) sono nati in Cina; 2220 (46.4%) sono di sesso maschile e 2564 (53.6%) di sesso femminile;
l’età media è di 22 anni +-17. A questo numero va aggiunta nello stesso periodo una quota di circa 300
pazienti registrati come “pazienti ignoti” non in grado di fornire, per i motivi più disparati (barriera
linguistica, stato di coma etc.) i loro dati anagrafici. Inoltre non sono stati conteggiati i figli dei cinesi
nati in Italia. Le patologie prevalenti riscontrate sono: traumi/contusioni/ferite/fratture 1048 (21.9%);
dolore addominale 664 (13.9%); coliche renali 464 (9.7%); patologie correlate alla gravidanza 368
(7.7%); infezioni vie aeree superiori 208 (4.3%); cefalea 160 (3.3%); febbre 136 (2.84%); allergia 148
(3%); vomito 128 (2.7%); polmoniti 72 (1.5%); dolore toracico (1.3%); intossicazioni varie 64 (1.3%);
lombalgia 64 (1.3%) Inoltre 560 pazienti (11.7%) non hanno ricevuto codifica adeguata. 336 (7.1%)
risultano “inviato ad ambulatorio”: si tratta per lo più di patologie oculistiche e parte pediatriche, 208
(4.3%) sono risultati assenti alla chiamata.
Conclusioni. I nostri dati evidenziano che 4784 pazienti di origini cinesi (43.8% dei residenti) sia ricorso
alle cure del PS nel periodo 1.1.2009-31.08.2009. Essi costituiscono il 9.46% degli accessi totali dello
stesso periodo. In realtà questo dato percentuale è reso inattendibile dalla enorme numero dei cittadini
cinesi non residenti o non censiti che pure afferiscono al PS (dati ufficiosi stimano almeno altri 15-20.000
cittadini cinesi presenti nel territorio pratese). Le patologie più frequenti sono quelle traumatiche seguite
dai dolori addominali e dalle coliche renale. Le patologie o sintomi più prettamente di natura “internistica”
(dolore toracico 1.3%, sincope 1%, ipertensione 1%, cefalea 3.3%, febbre 2.8%) costituiscono solo il
9.4% del totale. Tale diversa epidemiologia, con bassa percentuale di patologie o sintomi di natura più
internistica, può essere legata anche alla età media che risulta sensibilmente più bassa rispetto a quello della
popolazione italiana residente. Non è stato possibile per motivi informatici valutare in una popolazione
omogenea di residenti italiani o di altra nazionalità, con le stesse caratteristiche, le patologie riscontrate.
Implementazione delle iniziative per la gestione del rischio
clinico: l’Audit Clinico in Medicina Interna
G. Parca, G. Bacci, F. Cappelli, M. Genovesi, MP. Rosito, S. Stanganini, A. Tufi, E. Santoro
SC Medicina Interna Ospedale del Casentino – Bibbiena AUSL 8
Premessa. I dati della letteratura internazionale da alcuni anni affermano la gravità del problema del
RISCHIO CLINICO: della possibilità, cioè, che nel sistema sanitario possa derivare un danno all’utente
causato non dalla malattia ma dalla gestione sanitaria della stessa.
La segnalazione degli eventi avversi (Incident Reporting) e le discussioni critiche su di essi (Audit Clinici:
AC) rappresentano gli strumenti fondamentali del Risk Management.
Risultati. L’ AC è una “iniziativa condotta da clinici, che cerca di migliorare la qualità e gli outcomes dell’assistenza
attraverso una revisione fra pari, strutturata, in cui in clinici esaminano la propria attività ed i propri risultati in confronto
a standard espliciti, e la modificano se necessario” (NHS, 1996).
L’ iniziativa si propone di revisionare eventi significativi, con l’obierttivo di identificare eventuali criticità
e di proporre ipotesi di miglioramento. In altre parole l’AC è prassi di ricerca clinica, avente per oggetto
il riesame di procedure e comportamenti, al fine di individuare criticità da correggere.
Conclusioni. L’AC non è una semplice procedura ma un modo di pensare e di lavorare. Presuppone
un processo formativo diffuso, protratto ed interprofessionale, che possa portare a considerare l’errore
come occasione di apprendimento e quindi punto di partenza per un miglioramento.
Nella nostra U.O. stiamo incrementando questo tipo di attività, consapevoli dell’impegno che questa scelta
comporta, ma fiduciosi di poter avere da queste iniziative un positivo impatto sulla pratica organizzativa
e sulla qualità delle cure.
26
Dilatazione delle vie biliari da patologia cistica
del pancreas
S. De Marco, E. Pea, A. Pampana °, C. Passaglia
Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana
° Ospedale di Cecina
l Wirsung. EGDS: neoformazione rotondeggiante della seconda porzione duodenale.
Tc addome: IPMN di tipo combinato della testa del pancreas che disloca la papilla duodenale maggiore,
associato a pancreas divisum. Dilatazione delle VBI e del coledoco e del Wirsung.
Rmn addome: spiccata dilatazione del sistema duttale pancreatico; lesione cistica dominante di 7
cm di diametro, comunicante con dotto principale. Lieve ectasia delle VB intraepatiche, dilatazione
del coledoco (11 mm) con stop a livello cefalopancreatico. La lesione pancreatica impronta la seconda
porzione duodenale.
In data 15/2 us il paziente è stato sottoposto a cefalopacreasectomia con conservazione del piloro. Es
istologico: intraductal papillary mucinous neoplasm in assenza di note di cancerizzazione.
Questo case report vuole stigmatizzare alcuni concetti:
a) di fronte ad una stenosi del sistema biliare pensare non solo all’adenoCa della testa
pancreatica
b) il riscontro di cisti del pancreas necessita di una accurata diagnosi anche istologica ed un
accuratissimo follow up
c) non tutti gli IPMN cancerizzano
27
57
Colecistite acuta in pazienti trattati con TACE
per epatocarcinoma
Carlo Passaglia, Salvatore De Marco, Giancarlo Tintori, A. Fabbri, A. Pampana*
UO Medicina 5° Ospedaliera Az. Ospedaliera Universitaria Pisana *UO Medicina, Presidio Ospedaliero di Cecina (LI)
28
La colecistite acuta ischemica è una rara complicanza (1%) in corso di procedura di chemioembolizzazione
arteriosa transcatetere, in pazienti affetti da epatocarcinoma, gravata però da significativa morbilità, e
potenzialmente fatale, indotta dalla embolizzazione delll’ arteria colecistica.
Materiali e metodi. Dal 1993 nel nostro reparto, sono state praticate oltre 300 trattamenti TACE, per
HCC. La quasi totalità dei pazienti trattati (>80%) erano pazienti affetti da cirrosi epatica c, il rimanente
20% riguardava pazienti affetti da cirrosi epatica B, etanolica o di altra natura (emocromatosica,
autoimmunitaria).
Risultati. In tre casi trattati (donna di 70 aa affetta da HCC multifocale su cirrosi epatica C, uomo di
63 aa affetto da HCC multifocale cirrosi epatica B, donna di 68 aa affetta da HCC su cirrosi epatica C) i
pazienti hanno sviluppato entro le 24 ore successive al trattamento, dolore all’ipocondrio dx, con notevole
alterazione della citolisi epatica, leucocitosi, febbre, e quadro ecografico compatibile con colecistite acuta
(ispessimento e stratificazione della parete colecistica, e distensione del viscere). In tutti e tre i casi la
TACE aveva coinvolto, fra gli altri, il 5° segmento epatico. In due casi la terapia conservativa ha risolto
il quadro. In un caso, in cui tra l’altro l’arteria cistica originava dalla a. epatica sinistra, la paziente è
stata sottoposta a colecistectomia e necrosectomia epatica con successivo sviluppo di fistola biliare, con
progressivo deterioramento clinico sino all’exitus.
Istiocitoma fibroso maligno: descrizione di un caso
Maria Pia Rosito, Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca,
Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro
Ospedale del Casentino – Bibbiena
29
58
Donna di 67 anni. Fumatrice di circa 20 sigarette al giorno. APR: ipertensione arteriosa,
ipercolesterolemia, intolleranza glucidica. Pregressa ulcera peptica. Noduli tiroidei in eutiroidismo.
Luglio 2009: episodio di dispnea al risveglio seguita da perdita di coscienza, con perdita di urina e con
rapida e spontanea risoluzione. Esegue: Rx torace che mostra slargamento del mediastino superiore
da possibile gozzo tiroideo immerso; Tc cranio diretta con riscontro di area ipodensa in sede temporoparietale dx con componente iso-iperdensa nel suo contesto; Visita cardiologia ed ecocardiogramma
che non mostrano reperti patologici degni di nota; RMN encefalo che mostra estesa area ipodensa
in sede temporo-parietale dx, prevalentemente sottocorticale, con esteso edema perilesionale di più
probabile natura secondaria. Ricovero in reparto medico: inizia terapia antiedemigena con steroidi e
mannitolo. EsegueTc collo-torace-addome: multiple linfoadenopatie in regione laterocervicale inferiore
e sovraclaveare bilateralmente. Lobo dx della tiroide di dimensioni aumentate e presenza nel suo contesto
di multiple aree disomogenee in parti confluenti. Marcato ispessimento della pleura diaframmatica di
dx. Linfoadenopatie, di circa 40 mm, si apprezzano nel mediastino superiore tra i vasi epiaortici, in sede
paratracheale superiore dx e precarenale. Biopsia escissionale di linfonodo sovraclaveare dx: “malignità
epiteliomorfa, pleomorfa, con anaplasia a grandi cellule, a pattern solido con estesi fenomeni di necrosi
ed angioinvasività. L’immunoistochimica non depone per nessuna origine né di sede né di natura
della neoplasia”. Viene concordata revisione istologica presso Anatomia Patologica di Siena. Prosegue
iter diagnostico. Broncoscopia negativa; Mammografia nei limiti; EGDS: esiti di ulcera duodenale;
Pancolonscopia: negativa. PET/TC: tessuto eteroplasico ad elevato metabolismo glucidico in sede
encefalica, linfonodale del collo, del torace, dell’addome e del surrene. La fissazione tiroidea è altamente
sospetta per natura eteroplasica non potendo escludere tuttavia la natura benigna. La revisione istologica
depone per Istiocitoma fibroso maligno (IFM) o Sarcoma pleiomorfo indifferenziato.
Commento. L’IFM rappresenta circa il 20% di tutti i sarcomi. Origina prevalentemente dai tessuti molli
profondi: da cute e sotto-cute, da sedi quali laringe, cervello, reni, polmoni, pleure, fegato, ossa, cuore,
mammelle, tiroide e mediastino. L’aspetto istologico è caratterizzato da intenso pleiomorfismo cellulare.
Il quadro tipico mostra cellule fusate, aree di aspetto mixoide e, tra queste, tipici elementi istiocitici.
Raramente il tumore appare costituito interamente da istiociti. Qualunque sia il quadro morfologico, è
presente di solito un certo grado di anaplasia. La prognosi è poco favorevole con elevata frequenza di
recidiva locale dopo l’escissione chirurgica e presenza di metastasi ai linfonodi regionali e ai polmoni.
Stato confusionale acuto in corso di ipomagnesiemia
ed ipocalcemia gravi da malassorbimento in
gastroresecato: descrizione di un caso
Maura Genovesi, Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Gino Parca,
Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro
Ospedale del Casentino – Bibbiena
F.M., uomo di 74 a. Pregresso intervento di gastroresezione per carcinoma gastrico, anemia ipocromica
microcitica lieve, cardiopatia ischemica post-infartuale. Luglio 2009: ricovero in Cardiologia/ UTIC
per IMA non Q in corso di edema polmonare. Evidenziata coronaropatia non critica di IVA. Durante
il ricovero comparsa di stato confusionale. Esegue anche TC cranio diretta che evidenzia in sede
sovratentoriale alcune microlacune vascolari nei nuclei grigi e nella sostanza bianca paraventricolare.
Non emorragie in atto. Rx torace: non alterazioni pleuroparenchimali di attuale evidenza radiologica
diretta, cuore con prevalenza ventricolare sinistra, nei limiti il circolo polmonare aortosclerosi. Normale
saturazione di O2. Successivo trasferimento in UOC Medicina Interna. Persiste lo stato confusionale e
compare irritabilità e aggressività marcata: tra gli esami ematochimici: Hb 10.3 g/dl, proteine totali 8.2
g/dl, creatinina 1.86 mg/dl,glicemia, natriemia e kaliemia nella norma. Una Emogasanalisi conferma
buon compenso respiratorio ed evidenzia calcemia bassa. Successiva conferma in laboratorio di calcemia
3.7 mg/dl e magnesiemia 1.71. Il dosaggio di paratormone, fosforemia e ormoni tiroidei sono risultati nei
limiti della norma. Risoluzione dello stato confusionale d 12-24 ore dopo infusione di calcio gluconato
ev.
Conclusioni. Ipocalcemia ed ipomagnesemia secondari a sindrome da malassorbimento in paziente
gastroresecato. In caso di stato confusionale prima di eseguire valutazioni strumentali (TC, EEG….) è
indispensabile valutare alcuni parametri metabolici. L’esecuzione di una emogasanalisi può orientare la
diagnosi rapidamente.
30
Epilessia o sincope comiziale? Descrizione di un caso
Francesca Cappelli, Giuseppe Bacci, Maura Genovesi, Gino Parca,
Maria Pia Rosito, Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro
Ospedale del Casentino - Bibbiena
P.A. uomo di 73 aa. Pregresso intervento per carcinoma del cavo orale con recidiva in sede mandibolare
in trattamento radioterapico, portatore di Pace-maker bicamerale. Nel Febbraio 2009 ricovero per
episodio di perdita di coscienza associata a movimenti involontari interpretati a domicilio, al Ps-DEA, dal
consulente neurologo ed in reparto medico come crisi epilettica generalizzata. Tra gli esami: TC cranio:
nulla di rilevante. Rx torace: non alterazioni pleuroparenchimali in fase acuta. Immagine cardiaca e
vascolare nei limiti della norma. Pace-maker bicamerale correttamente posizionato e normofunzionante
Esami ematochimici: nei limiti della norma. L’interpretazione iniziale condiziona, ripetendosi le crisi
ad iniziare terapia antiepilettica con carbamazepina e a somministrare generosi dosi di diazepam; gli
episodi si ripetono con le stesse caratteristiche condizionati dal cambio di postura con riscontro di netta
riduzione della pressione arteriosa al passaggio dalla posizione clinostatica a quella ortostatica. Una
anamnesi più approfondita rivela che molti anni prima il paziente era stato studiato in ambiente spe
cialistico(neurologico) per i suoi disturbi di perdita di coscienza, peraltro recidivanti dall’infanzia, ed
era stata fatta diagnosi di disautonomia familiare in terapia con DL-threo-diidrossifenilserina (Dops)
100 mg 2 cp x 2 /die; portava saltuariamente calze elastiche a compressione graduata,cercava di avere
estrema cautela nel passare dalla posizione clinostatica a quella ortostatica, assumeva abbondanti liquidi
e cercava di condire con sale da cucina i suoi alimenti.
Conclusioni. sincope comiziale in paziente con disautonomia familiare, peraltro già nota e valutata
molti anni prima in ambiente specialistico. Una anamensi più approfondita è fondamentale sempre, in
particolare nell’approccio alla sincope.
Nella diagnostica differenziale della sincope pensare anche alle alterazioni del sistema nervoso autonomo
(SNA). L’esame clinico deve comprendere i test di valutazione funzionale di questo sistema (test di
funzione cardio-vagale, risposta alla manovra di Valsalva e head up tilt test)
31
59
Una nuova lettera nell’alfabeto delle epatiti: epatite acuta
da parvovirus b19. Una causa poco diagnosticata di epatite
virale
M. Paci, S. Meini, L. Mangano, A. Tafi
UO Medicina Interna, Ospedale di Volterra
32
Ipotesi. L’infezione da Parvovirus B19 è una patologia comune, trasmessa per via respiratoria ed ematica,
che interessa prevalentemente l’età pediatrica con sintomi vari che vanno da una reazione eritematosa
a sintomi influenzali aspecifici, ma spesso asintomatica. Nell’adulto, soprattutto in giovani donne, può
causare una poliartropatia e nell’immunocompromesso può determinare una cronica o ricorrente
mielosoppressione. L’infezione acuta frequentemente può però anche determinare ipertransaminasemia
ed ittero transitori.
Materiali e metodi. Donna di 55 anni, giunge alla nostra osservazione per febbre elevata fino 40.5°C
e disorientamento dopo una lunga camminata (10 Km). APR muta. Agli esami ematici rilievo di elevati
livelli di mioglobina (6150 ng/mL) e CK (9155 U/L), ipertransaminasemia (AST 2661 U/L, ALT 2208
U/L) con modesto aumento degli indici di colestasi, lieve incremento della creatinina, riduzione del PT
(40%), trombocitopenia e lieve anemia normocitica, VES e PCR nella norma, emocolture negative.
Agli esami strumentali (Rx torace, Eco addome, TC cranio) non alterazioni degne di nota.
Risultati. Come approfondimenti vengono richiesti i dosaggi (anticorpali, antigenemia e genoma) dei
marcatori virali dell’epatite, del CMV, HSV 1 e 2, Herpes 7 e 8, HIV, EBV, Varicella Zoster, Adenovirus,
Virus dell’Influenza (A, B), Parainfluenza 1 e 2, Enterovirus, Coxsackievirus B1-6 e Parvovirus B19, tutti
negativi per infezione acuta ad eccezione delle IgM anti Parvovirus B19.
Conclusioni. Di fronte ad un’epatite acuta ricordiamo di ricercare la sierologia per Parvovirus B19,
anche per non rifugiarsi nell’abusata diagnosi di epatite acuta criptogenetica, aggiungendo la lettera P
all’alfabeto delle epatiti.
Embolia Polmonare: diagnosi complessa.
Descrizione di un caso
Giuseppe Bacci, Francesca Cappelli, Maura Genovesi, Gino Parca, Maria Pia Rosito,
Samuela Stanganini, Angela Tufi, Emilio Santoro
Ospedale del Casentino – Bibbiena
33
60
Maschio di anni 74. APR: cardiomiopatia ipertrofica non ostruttiva; episodiche aritmie ipercinetiche
ventricolari complesse; recente frattura del malleolo tibiale gamba sinistra, immobilizzato con gambaletto
gessato. Aprile 2009, due settimane dopo rimozione gesso, comparsa improvvisa dispnea sotto sforzo di
lieve entità (camminare in salita) prima ben tollerato. Rx torace: cardiomegalia senza prevalenza di
singole sezioni e con piccolo circolo ridistribuito verso gli apici, con modesto ispessimento interstiziale in
sede perilare; associato versamento pleurico basale sinistro ed ispessimento delle scissure (compatibili con
il sospetto clinico di insufficienza cardiaca). Eco-color-doppler venoso arti inferiori: normalità a carico
del circolo venoso profondo, bilateralmente.
Ecocolordoppler cardiaco: marcata ipetrofia del VS soprattutto a carico del setto e dei segmenti apicali,
senza significativo gradente telesistolico all’efflusso; lieve ipocinesia inferiore basale ed infero-laterale
basale con conservata funzione di pompa. Sezioni destre di normali dimensioni, con normali indici di
funzione del VD (TAPSE: 24 mm); all’esame doppler lieve insufficienza mitralica; non segni indiretti di
ipertensione polmonare (non significativo gradiente Vdx-Adx); indici di fase diastolica come da alterato
rilasciamento.ECG: RS 70/m con extrasistole ventricolari isolate con atriogramma ai limiti e PR 0.24;
ventricologramma: EAS. EGA: ph 7.45, pCO2 33.3 mmhg, pO2 64.7 mmhg. D-Dimero francamente
elevato. Uno score di Wells da probabilità intermedia, il versamento pleurico a Sx in presenza di D-Dimero
elevato hanno indotto ad eseguire angio TC torace che ha evidenziato piccoli difetti di riempimento
rilevabili nelle arterie polmonari segmentarie dei lobi inferiori, maggiormente evidenti a dx, da riferire a
tromboenbolia periferica, moderato versamento pleurico bilaterale. L’angioTc torace è il gold standard
della diagnosi di embolia polmonare. Il sospetto clinico è fondamentale. Il D-Dimero ha esclusivamente
alto valore predittivo negativo.
Incidentalomi addominali
P. Pasquinelli, P. Taddei, S. Giuntoli, R. Guglielmini, M. Cei
Ospedale Livorno
è di comune evenienza, durante la pratica clinica, il rilievo incidentale (con le Rx o più spesso con
l’ecografia dell’addome) di formazioni, a volte di piccole dimensioni a volte occupanti spazio, che
vengono definite “incidentalomi”.
Caso Clinico. Il paziente, S.M. di 50 anni, asintomatico ed in buona salute, esente da patologie
significative (non diabete mellito né ipertensione arteriosa,non dislipidemie) salvo un recente episodio
di tromboflebite post-traumatica all’arto inferiore sinistro, si è ricoverato perché è caduto dallo scooter
dopo essere stato colpito da un pedone (prob.psicopatico) mentre era fermo al semaforo.
Portato al PS. di Livorno ha eseguito i primi esami: ha eseguito TAC encefalo (negativa), Rx del torace
parenchimale ed osseo (rilievo di frattura scomposta della 3° costa di ds) e per la presenza di dolore
addominale è stato sottoposto ad ecografia dell’addome (FAST) e successivamente a TAC addome
completo.
Risultati. Niente di significativo si è evidenziato dagli esami ematici ad eccezione di lieve ipopotassiemia
poi normalizzata, normale il dosaggio dell’Aldosterone plasmatico in orto- e clinostasi.
La TAC ha evidenziato:
a) un ingrandimento del surrene ds di tipo isodenso di diametro max 4 cm
b) la presenza di un nodulo captante il mdc di circa 2 cm in sede intercavo-aortica.
Successivamente la RMN dell’addome e una scintigrafia con octreotide hanno confermato la presenza
delle due lesioni, risultate captanti il tracciante.
Conclusioni. Il paziente sta bene ed è stato dimesso. Il quadro clinico è suggestivo di localizzazioni
multiple, surrenalica ed extrasurrenalica, di paragamglioma. In tali casi, viste anche le dimensioni della
lesione surrenalica, è indicata una valutazione chirurgica.
34
Solo un percorso appropriato garantisce l’adeguatezza
diagnostica e terapeutica: un caso di sindrome
ipereosinofila
G. Sibilia, S. Meini, M. Paci, N. Scopetani, M. Norpoth, L. Mangano, A. Tafi
Ospedale S.Maria Maddalena di Volterra ASL 5 di Pisa
Ipotesi. Con il termine S. ipereosinofila si definisce un gruppo di malattie caratterizzate da persistente
eosinofilia, definita come più di 1500 cellule/microl persistente per più di 6 mesi, in assenza di seconda
causa. nota di ipereosinofilia (malattie parassitarie, allergiche, immunologiche, neoplastiche), con
coinvolgimento d’organo, associata a segni e sintomi di impegno multisistemico (cuore, polmone, sistema
nervoso centrale, apparato digerente, midollo osseo, cute).
Materiali e metodi: Il paziente, di anni 58, giungeva alla nostra attenzione, trasferitoci dalla
Chirurgia, con ascite e peritonismo, in anamnesi storia di asma. Le indagini strumentali evidenziavano
ispessimento dei mesi e linfoadenopatie mesenteriche, gli esami ematochimici mostravano ipereosinofilia
e movimento degli enzimi pancreatici. Il paziente effettuò TAC toraco- addominale, ECG, Ecocuore,
EGDS e BOM.
Risultati. La D.D. si poneva tra S. di Churg-Strauss, (vista anche la storia di asma), S. ipereosinofila e m.
linfoproliferativa. In attesa della risposta BOM abbiamo chiesto anche la consulenza reumatologica, in
ambito universitario, che ha supportato la prima ipotesi. Il referto istologico, invece, “Spiccata iperplasia
maturante della serie granulocitaria prevalentemente sostenuta dallo stipite eosinofilo” ha confermato il
sospetto diagnostico di S. ipereosinofila.
Conclusioni. Si ribadisce come, solo un corretto iter diagnostico-terapeutico possa condurre
all’appropriatezza clinica.
35
61
Ruolo della Tomografia ad Emissione di Positroni nella
patologia non neoplastica: un utilizzo inconsueto
A. Bontempo, A. Ciolli, L. Giachetti, R. Lammel, P. Pantaleo, B. Alterini
S.O.D. Medicina e Riattivazione. Dipartimento del Cuore e dei Vasi - Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi – Firenze
36
La Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) rappresenta una metodica in grado di individuare aree
ad elevato metabolismo che possono essere correlate alla presenza di patologia neoplastica ma anche
di altra natura. Ed è proprio nell’ambito della patologia non neoplastica che la PET risulta talora in
grado di risolvere enigmi diagnostici altrimenti non decifrabili. B.R. di anni 61, maschio, recentemente
sottoposto ad impianto di derivazione ventricolo-peritoneale per idrocefalo comunicante, è giunto alla
nostra osservazione per febbre. L’intervento di derivazione era stato complicato da febbre persistente di
cui non fu individuata l’origine, trattata con antibioticoterapia, alla cui sospensione era seguita recidiva.
Il paziente era stato nuovamente studiato con metodiche “tradizionali” di diagnostica per immagini
e di laboratorio, senza identificare una sicura origine del quadro. Il continuo successivo ripetersi di
episodi settici senza che potesse essere evidenziata la presenza di un chiaro focolaio infettivo, tramite
le metodiche strumentali comunemente impiegate ha imposto lo studio con PET che ha dimostrato
la presenza di attività ad elevato metabolismo glicidico sul terminale peritoneale della derivazione
ventricolo-peritoneale. Il drenaggio è stato rimosso ed il paziente è giunto a guarigione. La PET ha
consentito di ottenere una certezza diagnostica dimostrando la capacità di individuare focolai settici
anche di modeste dimensioni, altrimenti non identificabili.
Colangite sclerosante primitiva
S. Pacini, P. Biagi
U.O. Medicina ASL - 7 Siena – Ospedali Riuniti della Valdichiana Senese - Montepulciano (SI)
37
62
La colangite sclerosante primitiva (CSP) è una malattia colestatica cronica del fegato con fibrosi attorno
ai dotti biliari intraepatici e/o extraepatici. CSP è caratterizzata da una progressiva fibrosi periduttale
obliterante e restringimento del dotto biliare. CSP colpisce soprattutto uomini giovani e di mezza età
ed è spesso associata con una malattia infiammatoria cronica silente dell’intestino. In casi particolari, la
CSP può avere una prognosi favorevole, ma nella maggior parte dei casi la patologia è progressiva e vede
indicato il trapianto di fegato.
La mediana di sopravvivenza senza trapianto è di circa 18 anni. Recentemente, i pazienti con CSP dei
piccoli dotti, che hanno caratteristiche biochimiche ed istologiche simili agli altri pazienti con CSP, ma
colangiografia normale hanno dimostrato di avere una prognosi migliore di quelli con CSP dei dotti
maggiori.
La CSP è complicata dal colangiocarcinoma (CCA) nel 10-30% dei casi. Non esistono consensus sulle
strategie di screening. Attualmente, non esiste terapia specifica per la CSP tranne il trapianto di fegato.
D.A.M.I., donna di 48 anni, affetta da diabete mellito i tipo! Giunge alla nostra osservazione per
febbricola,
ipotensione e stato confusionale. Gli esami ematici rilevano iperglicemia (559 mg%), aumento della
fosfatasi alcalina (1074 U/L), SGOT (171 UI/L), SGPT (192 UI/L), bilurubina totale, bilurubina
diretta (1,40 mg%), gammaGT (273 UI/L). L’ecografia addome e la colangioRM sono nella norma.
L’agobiopsia ecoguidata del fegato ha deposto per colangite sclerosante cronica. Una colonscopia ha
confermato il sospetto di malattia infiammatoria cronica concomitante alla biopsia eseguita su lieve ed
aspecifico ispessimento della mucosa del ceco.
La clinica migliora rapidamente, ma i dati di laboratorio confermano gli elevati indici di colestasi, pur
rimanendo stabili. La paziente è asintomatica con l’ottimizzazione della terapia insulinica e l’acido
ursodesossicolico (450 mg t.i.d.)
Embolia polmonare ed interazioni geniche
S. Pacini, P. Biagi
U.O. Medicina ASL - 7 Siena - Ospedali Riuniti della Valdichiana Senese - Montepulciano (SI)
L’embolia polmonare (EP) è una patologia frequente che si associa ad elevata morbidità e mortalità se non
trattata. I fattori di rischio convenzionali per la trombosi venosa sono la gravidanza, l’immobilizzazione,
l’intervento chirurgico, il trauma e la trombofilia. Alterazioni acquisite o ereditarie del sistema della
coagulazione predispongono alla trombosi. Lo stato di ipercoagulabilità è determinato da alterazioni
dei meccanismi anticoagulanti, che prevengono la produzione della trombina e la sua progressione a
formare trombi. Associazioni statisticamente significative con EP sono state identifiche per il fattore V
G1691A (OR: 9,45), fattore V A 4070G (OR: 1,24), protrombina G20210A (OR: 3,17), protrombina
G11991A (OR: 1,17), PAI-I 4G/5G (OR: 1,62), alfa- fibrinogeno T312A (OR: 1,37), tutti nella
popolazione Caucasica. La mutazione MTHFR C677T è stata trovata in associazione con l’EP in
maniera statisticamente significativa nella popolazione cinese/Thai. L’eterozigosi MTHFR C677T
ha una prevalenza del 42-46% in Europa. La co-presenza della eterozigosi per le mutazioni C677T e
A1298C induce una riduzione del 50% dell’attività della MTHFR. F.A, donna di 69 anni, in appare
benessere senza alcun precedente clinico importante, giunge alla nostra attenzione per malessere,
flushing, ipertensione arteriosa e dolore epigastrico. L’ ECG, la radiografia del torace e la TC cranio sono
risultati nella norma. Tutti gli esami ematochimici di routine sono risultati nei limiti della norma, tranne
elevati valori di D-dimero (4.6 m/L – valori normali inferiori a 0,55). Visti i dati clinici aspecifici ed il
riscontro di questi valori del D-dimero abbiamo effettuato una angio-TC polmonare, che ha rilevato la
presenza di microemboli. Abbiamo intrapreso immediatamente terapia con nadroparina 6000 UI b.i.d.
Altri studi clinici sono stati condotti: l’esofagogastroduodenoscopia, la colonscopia, l’ecografia addome e
della tiroide che sono risultati nella norma, così come i markers oncologici e gli anticorpi antifosfolipidi
ed anticardiolipina. Lo screening per la trombofilia ha rilevato la presenza di eterozigosi per C677T,
A1298C e PAI-I 5G/4G. Visti tali dati abbiamo prescrito terapia a lungo termine con warfarin.
38
Un caso di malattia celiaca sieronegativa nell’adulto
S. Pacini, P. Biagi
U.O. Medicina ASL - 7 Siena - Ospedali Riuniti della Valdichiana Senese - Montepulciano (SI)
La malattia celiaca (MC), è tradizionalmente considerata una rara patologia dell’infanzia che si presenta
con sindrome da malassorbimento, mentre è una malattia multisistemica autoimmunitaria quando si
manifesta nell’età adulta, colpisce l’1% della popolazione ed è legata all’espressione genetica dell’antigene
di istocompatibilità (HLA) DQ 2 e DQ8. La presentazione nell’adulto avviene, spesso, intorno ai 40-60
anni. La diagnosi istologica non richiede l’atrofia dei villi dell’intestino tenue. La classificazione di Marsh
riconosce come pattern di enteropatia da glutine la presenza di infiltrazione leucocitaria nell’epitelio e
l’iperplasia delle cripte con villi conservati. La risposta immunitaria alla transglutaminasi tissutale (TTG)
è cruciale per il processo patologico e i test sierici per il dosaggio degli autoanticorpi per la MC (antiendomisio-EMA ed anti-TTG) hanno rivoluzionato la diagnosi. Comunque, un importante numero di
pazienti con MC non ha il quadro classico della sindrome da malassorbimento, test sierologici positivi
e atrofia dei villi intetsinali: attualmente il 10% dei pazienti con MC sono sieronegativi, in particolare
quelli senza evidente atrofia villosa. Quindi, la negatività dei tests sierologici per la MC non esclude la
diagnosi di MC, che può essere confermata, solamente, dai reperti istologici.
L.M., donna di 40 anni, giunge alla nostra attenzione in seguito a riscontro di grave anemia ipocromica
(Hb= 7,2 g/dL; MCV= 68,1; MCH= 19,1) che ha richiesto l’emotrasfuzione di due sacche di globuli
rossi concentrati. I dati di laboratorio hanno mostrato marcata riduzione della sideremia (20 μg%) e
della ferritinemia (30,1 ng/ml), assenza di sangue occulto nelle feci, il dosaggio della vitamina B 12 e dei
folati è risultato nella norma, così come la funzione tiroidea ed i markers di neoformazione. Gli anticorpi
anti-gliadina-IgA (3,2 U/ml), IgA (282 mg%), e anti-TTG- IgA e IgG (2 e 2,6 UA/ml, respectively) sono
risultati nella norma. La definizione HLA ha mostrato eterozigosi DQ2 (DQB1*02).
La esofagogastroduodenoscopia è risultata nella norma, ma la biopsia della seconda porzione duodenale
ha mostrato un non corretto orientamento delle ghiandole di Brunner, normali le caratteristiche dei
villi, aumento (>25%) dei linfociti CD3+ intraepitealiali e aumento dei livelli di linfociti e plasmacellule
nella tonaca propria Queste lesioni possono essere classificate come MC infiltrativa tipo I in accordo con
Marsh/Oberhyber o lesione grado A secondo Corazza e Villanacci. La paziente ha iniziato la dieta priva
di glutine. Attualmente gli esami ematici sono nei limiti della norma.
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63
Uno studio sulla ioduria in una valle appenninica
Giulio Ozzola, Emilio Santoro, Ciro Sommella
Ospedale del Casentino – AR
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Ipotesi. L’Istituto Superiore Sanità indica le vallate appenniniche come zone a lieve rischio di endemia
gozzigena ed il Casentino (AR) potrebbe essere una valle a rischio. Una causa di gozzo è la carenza di
iodio nella alimentazione per cui con questo lavoro si vuole valutare se la popolazione sana casentinese
in età fertile ha un adeguato apporto dietetico di iodio.
Materiali e Metodi. È stato valutato il livello di ioduria in 200 persone considerate sane in quanto
donatori di sangue e quindi, previa visita medica ed esami ematochimici, sono risultati esenti da evidenti
patologie acute in atto. Tali persone hanno fornito, previa firma del consenso informato, un campione
di urina per la determinazione della ioduria. I soggetti in esame erano provenienti da tutte le zone della
valle e per il 68% erano di sesso maschile.
Risultati. I valori di ioduria riscontrati dimostrano una amplia dispersione (minimo: 17 mcgr/die
- massimo: 312 mcgr/die) ed un valore medio di 75.43 mcgr/die.. Non vi sono significative differenze
nella escrezione urinaria di iodio tra maschi e femmine. Il 45.4% dei donatori riferiva di fare uso abituale
di sale iodato.
Conclusioni. Il valore medio di ioduria riscontrato in soggetti adulti e sani è risultato di 75.43 mcg/die
e quindi, in base a quanto indicato dalla OMS, si tratta di zona a rischio di endemia gozzigena di grado
1 (dal 10% al 19.9% di popolazione potrebbe sviluppare un gozzo palpabile). Va comunque ricordato
che dal 2005 è in vigore una legge finalizzata alla prevenzione del gozzo endemico che favorisce l’ uso
del sale iodato e quindi potrà essere utile ripetere, tra qualche anno, lo stesso studio.
Osteoporosi nel paziente diabetico
A. Montagnani, M. Alessandri, M. Cipriani
U.O. Medicina Interna, Ospedale Misericordia, Grosseto
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64
Il Diabete mellito (DM) e le fratture interessano un’ampia popolazione di adulti ed anziani.
Recenti studi hanno dimostrato come il diabete tipo 1 (DM1) e quello di tipo 2 (DM2) siano associati ad
un rischio di frattura aumentato rispetto alla popolazione generale.
I pazienti con DM1 mostrano una riduzione della densità minerale ossea (BMD), al contrario di quanto
si osserva nel DM2. L’apparente contraddizione di una maggiore BMD ed un incremento dell’incidenza
di frattura nel DM2 potrebbe essere dovuta al fatto che a parità di densità ossea il paziente con DM2
mostra una maggiore fragilità ossea. Infatti, studi su modelli animali hanno dimostrato che il tessuto osseo
del paziente diabetico ha caratteristiche di resistenza alla sollecitazione fisica significativamente minori
rispetto alla popolazione generale. Inoltre, la maggiore tendenza a cadere e le numerose comorbilità
presentate dai pazienti diabetici sono altre possibili cause dell’aumento di incidenza delle fratture
osteoporotiche nel DM.
Il controllo metabolico del paziente con DM sembra avere effetti positivi sul metabolismo osseo. Risultati
di trial clinici hanno dimostrato che l’impiego di antidiabetici orali come la metformina e la glibenclamide
riducono il rischio di frattura, al contrario i tiazolidinedioni (TZD) aumentano lievemente il rischio di
frattura nelle donne in postmenopausa, ma non nell’uomo.
I TZD riducono la formazione ossea aumentando la formazione di adipociti a scapito della componente
osteoblastica a partire dalla cellula mesenchimale comune. Una migliore conoscenza di meccanismi con
i quali il DM ed il suo trattamento influenzano il metabolismo osseo potrebbe migliorare la prevenzione
delle frattura ossea nel paziente diabetico.
Un caso di coma chetoacidosico in un alcolista
F. Pieralli, L. Sammicheli, F. Luise, V. Verdiani, E. Catini, O. Para, F. Bacci, C. Nozzoli
Medicina Interna e d’Urgenza – AOU Careggi, Firenze
Introduzione. Il coma si verifica nel 10% delle chetoacidosi diabetiche. Presentiamo un caso di insolita
persistenza di coma nonostante la normalizzazione del quadro metabolico.
Motivo del ricovero. Uomo di 47 anni, giunge dal DEA con diagnosi di coma chetoacidosico.
Anamnesi. diabete mellito. Etilismo cronico.
EO Scadenti condizioni igieniche, alitosi etilica, mucose disidratate. Assenti segni di trauma, assenti
segni neurologici focali, pupille reagenti alla luce, riflesso corneale presente; Babinsky assente, ROT
torpidi e simmetrici. Assenti segni di irritazione meningeale. Restante EO nei limiti. GCS 6. FR 42 min;
FC 130 min R; PA 105/90 mmHg; SatO2 99%; TC 35,5 °C..
Decorso. TC cranio, Rx torace e ecaoddome negativi. ECG: Tachicardia sinusale 130 min. Glicemia
721 mg/dL; Etanolemia ai limiti superiori, ammonio nella norma, GB 18.000/mm3. Quadro di
laboratorio (EGA, es. urine) all’ingresso di chetoacidosi diabetica.
Nelle 12 h successive il quadro metabolico si normalizza con infusione di liquidi ed insulina, ma il quadro
neurologico rimane invariato con un GCS massimo di 8 senza segni neurologici focali. Una nuova
TC risulta sempre negativa. Si esegue rachicentesi: liquor limpido, proteinorrachia, leucocitosi (800
elementi/mm3). Isolata Listeria monocytogenes.
Commento. Nel coma chetoacidosico il quadro neurologico si normalizza rapidamente con il
normalizzarsi del quadro metabolico. Se ciò non accade è necessario ricercare approfonditamente delle
concause. L’infezione da L. monocytogenes è una causa emergente di meningo-encefalite specie in
pazienti immunodepressi e defedati, spesso resistente alla terapia empirica con cefalosporine.
42
La subintensiva internistica dipartimentale nell’azienda
ospedaliero-universitaria Careggi
F. Pieralli, A. Mancini, F. Luise, V. Verdiani, E. Catini, O. Para, M. Grazzini, C. Nozzoli
Medicina Interna e d’Urgenza – AOU Careggi, Firenze
Introduzione e scopo dello studio. L’organizzazione per intensità di cure vede il ruolo della
Medicina Interna mutare dedicandosi sempre più alla gestione di malati critici. Lo scopo di questo studio
è stato quello di valutare la casistica osservata in una Subintensiva Internistica Dipartimentale (SID).
Materiali e metodi. In questo studio presentiamo la casistica dei primi 6 mesi di attività (giugno 2008agosto 2009). La SID è costituita da letti con possibilità di monitoraggio continuo invasivo e non invasivo
delle funzioni vitali. Un medico è dedicato h 8-20, mentre h 20-8 il medico è di guardia per l’intero
reparto. Un infermiere è dedicato all’assistenza di 4 pazienti h 24.
Risultati. In totale sono stati ricoverati 317 pazienti (maschi 84, 64.6%); età media 65.5+19.3 anni)
provenienti da: Pronto Soccorso (n=152, 48.8%), Rianimazione DEA (n=97, 28.7%), Reparti Medici
(n=50, 16.7%), altre Rianimazioni (n=18, 5.8%). La diagnosi principale è stata: Sepsi severa/shock
settico (n=45, 14.2%), Politrauma (n=73, 22.8%), Insuf. Respiratoria (n=43, 13.6%), Scompenso
cardiaco (n=36, 11.4%), Polmonite (n=29, 9.2%), S. emorragica acuta (n=12, 3.8%), Aritmia (n=8,
2.5%), S. coronarica acuta (n=12, 3.8%), Stroke (n=10, 3.1%), Tromboembolia polmonare (n=5, 1.5%),
miscellanea (44, 14.1%). La degenza media è stata di 6.0+5.8 giorni. Sono deceduti 23 pazienti (7.2%);
10 pazienti (3.1%) sono stati trasferiti in Rianimazione.
Conclusioni. Il medico internista, per le peculiari capacità di inquadramento e trattamento delle
molteplici patologie, svolge un ruolo centrale nella gestione del malato critico. La SID ha un ruolo
peculiare nella moderna concezione di ospedale “per acuti” organizzato per livelli di intensità di cure.
43
65
Un caso di mielite trasversa paraneoplastica associata a
carcinoma della mammella
F. Pieralli, A. Mancini, F. Luise, T. Fintoni, V. Verdiani, E. Catini, O. Para, M. Castelli, C. Nozzoli
Medicina Interna e d’Urgenza – AOU Careggi, Firenze
44
Introduzione. La mielite trasversa (MT) è una rara sindrome paraneoplastica (SPN). Presentiamo un
caso di una paziente con MT cervico-dorsale e carcinoma mammario.
Motivo del ricovero. LF, donna, 46 anni, giunge alla nostra osservazione per parestesie e ipostenia
degli arti inferiori, associate a disestesia dorsale.
Anamnesi. Pregressa gravidanza gemellare a termine. Quattro mesi prima trattamento con radioiodio
per ipertiroidismo autoimmune.
EO: afebbrile, GCS 15. Ipostenia agli arti inferiori, più marcata a dx, Babinsky a dx, ipereflessia destra,
non segni di meningismo, livello sensitivo T5-T6. Nodulo mammario solido nel QSE destro, con
adenopatia ascellare omolaterale. Nei limiti il restante EO.
Decorso. Una EMG/PEM ed una RMN del midollo hanno evidenziato segni compatibili con MT
a livello C5-C7. L’esame chimico-fisico del liquor è risultato normale; negativa la ricerca di agenti
infettivi e bande oligo-clonali. ANA e ENA negativi. Niente di rilevante agli esami ematochimici; gli
anticorpi onconeurali ANNA1-2 sono risultati negativi, gli ANNA-3 dubbi. L’agobiopsia percutanea ha
confermato la diagnosi di carcinoma mammario con metastasi linfonodali omolaterali sospettato all’EO.
È stata eseguita terapia con boli di steroidi ad alto dosaggio con remissione quasi completa dei disturbi
neurologici.
Commento. La MT è una rara sindrome neurologica, la cui eziologia più frequente è post-infettiva o
infettiva acuta. L’assenza di elementi diagnostici chiari all’esame clinico e laboratoristico deve sempre far
sospettare la possibile origine paraneoplastica e indurre ad una ricerca attenta di una neoplasia occulta.
Il contributo diagnostico della ricerca degli antigeni onconeurali non è ancora stabilito con esattezza.
L’indice di complessità assistenziale come indicatore di
percorso nell’intensità di cura
Angela Lesi, Liliana Pasqui, Simona Campioni, Paolo Corradini
U.O. Medicina Interna Ospedale di Casteldelpiano AUSL9 Grosseto
45
66
Premessa. Nell’ambito sanitario toscano, in applicazione delle normative Regionali, l’organizzazione
dei presidi ospedalieri si sta delineando per “Intensità di Cura”, orientando la propria Mission verso
l’acuzie e intensificando la rete territoriale per fornire risposte alla cronicità.
Materiali e metodi. L’Ospedale di Casteldelpiano GR da più di due anni è stato organizzato per Livelli
di Intensità di Cura, tarati sulla Complessità Assistenziale. Per i Professionisti Infermieri è necessario
adottare la registrazione delle attività assistenziali e utilizzare strumenti idonei alla misurazione che
rendano oggettivo e visibile l’agire professionalein una visione Multiprofessionale. È stato proposto,
studiato e sperimentato un modello originale di valutazione dell’Indice di Complessità Assistenziale
(ICA).
Risultati. Per l’utilizzo dell’ICA è indispensabile la Pianificazione Assistenziale mediante il PRN87
che permette di codificare un preciso Peso Assistenziale per ogni Paziente, tradotto in uno Score, e ne
connota le necessità assistenziali e di conseguenza anche la corrispondente assegnazione ai Settori di
Intensità di Cura.
Conclusioni. Il modello I.C.A. sperimentato si basa su 4 Dimensioni: patologia, grado di dipendenza,
tempo assistenza, complessità della procedura. Può essere applicato all’accettazione e quotidianamente
durante la degenza, ogni volta che si modificano i parametri, orientando il percorso di cura e rivalutando
eventuali assegnazioni ai livelli assistenziali. La registrazione quotidiana dell’I.C.A. è documentata su un
modulo che ricalca l’impostazione della Scheda Unica di Terapia.
Affrontare la cronicità: la valutazione multidimensionale in
medicina interna
Chiara Bozzano, Nunzia Zuccone, Ilario Lancini, Dino Vanni, Claudio Pedace
Ospedale San Donato, Arezzo
Ipotesi. La Valutazione Multidimensionale (VMD) è una metodologia che ben si adatta ai malati
internistici, sempre più frequentemente anziani e pluripatologici, disabili o fragili, spesso cronici
riacutizzati.
Materiali e metodi. Studio osservazionale di coorte su un gruppo di pazienti ricoverati consecutivamente
nei reparti di medicina interna dell’Ospedale di Arezzo. I pazienti sono stati sottoposti a VMD per
l’analisi delle condizioni cliniche, funzionali, nutrizionali e socio-demografiche.
Risultati. 413 pazienti (56% dei quali donne) con età media di 80 anni (SD 11) e degenza media di 11
giorni (SD 9). I pazienti con Indice prognostico di Flugelman ≥17, erano più anziani (83±12 vs 78±11
anni, p<0,001), avevano degenza media superiore (11±8 vs 10±7giorni, p<0,05) e maggiore dipendenza
nelle attività della vita quotidiana prima e dopo l’evento acuto. A un anno dalla dimissione la mortalità
complessiva era del 38%. Dall’analisi multivariata la mortalità a un anno è risultata correlata all’età (HR
1,046; 95% IC=1,009-1,083), al numero di re-ricoveri (HR 3,065; 95% IC=1,842-5,101) e di giornate
totali di degenza (HR 0,932; 95% IC=0,890-0,977). Anche la maggior perdita di capacità funzionali a
seguito dell’evento acuto, si associava a maggior rischio di morte a 12 mesi.
Conclusioni. La VMD fornisce un linguaggio semplice, omogeneo e facilmente comprensibile da
parte di ogni operatore coinvolto nella gestione del malato cronico.
Permette la comprensione dello stato premorboso, la rilevazione di bisogni espressi o inespressi, nonchè
considerazioni di tipo prognostico.
46
Poliradicolonevrite acuta mielinopatica sensitivo-motoria a
tipo sindrome di Guillain-Barrè in paziente con
mielofibrosi idiopatica
Gabriele Ciuti, Francesca Peruzzi, Alessandra Pesci, Lorenzo Zanasi,
Francesca Pallini, Maria Serena Lombardo, Aureliano Becucci
SOD di Medicina Interna 3 – Dipartimento di Emergenza Urgenza AOU Careggi - Firenze
Presentiamo il caso di un paziente di sesso maschile di 54 anni giunto alla nostra attenzione per la
comparsa improvvisa di ipostenia dei quattro arti con impossibilità a deambulare e disfagia ingravescenti.
Il paziente, commerciante, da circa un mese presentava splenomegalia (24 cm diametro maggiore) con
marcata leucocitosi neutrofila; in tale occasione l’ematologo aveva escluso una leucemia mieloide cronica
(esame FISH BCR/ABL negativo). Non riferita febbre né disturbi gastroenterici. Giunto in reparto,
all’esame obiettivo si rilevava epatomegalia (3 cm dall’arco costale) e splenomegalia, ipostenia degli arti
superiori e inferiori prossimali, riflessi osteotendinei bicipitale, tricipitale ridotti, rotulei e achillei assenti.
La TC del cranio era nei limiti. Gli esami ematici mostravano un incremento degli indici di flogosi con
leucocitosi neutrofila spiccata (34% su 39,1 x10^9/L); non erano presenti componenti monoclonali.
L’elettromiografia mostrava diffusi segni di sofferenza neurogena tronculare globale, maggiore agli arti
inferiori, di aspetto prevalentemente mielinopatico sia sul versante sensitivo che su quello motorio. In
accordo con il neurologo, il quadro era suggestivo di una poliradicolonevrite mielinopatica sensitivomotoria a tipo S. di Guillain-Barrè, confermato anche dall’esame del liquor che dimostrava presenza di
proteinorrachia. La ricerca dei virus e batteri che comunemente si associano alla patologia era risultata
negativa. È stata iniziata infusione di immunoglobuline e boli di corticosteroidi per ev con progressivo
miglioramento clinico. In considerazione della leucocitosi e del recente rilievo di splenomegalia, è stata
effettuata una biopsia osteo-midollare (BOM) con rilievo di fibrosi midollare e mutazione Jak-2 all’esame
genetico suggerendo la diagnosi di mielofibrosi idiopatica. Al momento della dimissione, il paziente
presentava netto miglioramento clinico e deambulava autonomamente. In conclusione, la discussione di
questo caso clinico è interessante perché ad oggi non esiste in letteratura alcuna associazione tra la S. di
Guillain-Barrè e la mielofibrosi idiopatica.
47
67
Clonie dell’emivolto di sinistra: unica manifestazione
clinica di un meningioma
M. S. Lombardo, V. Nanni, F. Peruzzi, A. Pesci, L. Zanasi, R.Fedi
AOU Careggi di Firenze
48
68
Il meningioma è il prototipo dei tumori extrassiali e rappresenta il 15-20% dei tumori endocranici
primitivi. Coinvolge generalmente la quinta-sesta decade di età e nel 50% dei casi interessa la convessità
emisferica.
Riportiamo il caso di una paziente di 69 anni ricoverata per clonie a carico dell’emivolto sinistro iniziate
circa 12 ore prima, avvenute in più episodi della durata di circa 30 secondi, a regressione spontanea
con residua parestesia della zona interessata. All’ingresso in reparto l’esame obiettivo neurologico era
completamente negativo e, durante la visita, si sono verificate clonie dei muscoli mimici dell’emivolto di
sinistra, in particolare dell’emilato sinistro del muscolo orbicolare, nel corso delle quali si sono osservate
deviazione della rima buccale e della lingua verso sinistra, a regressione spontanea.
La paziente non ha mai perso coscienza. La TC cranio diretta eseguita in regime di urgenza non ha
evidenziato alterazioni a carico delle strutture encefaliche. Un EEG urgente ha rilevato, su aree anteriori
destre, la comparsa di un’attività ritmica di basso voltaggio, seguita, sul piano clinico, dalla comparsa
di clonie labiali sinistre, della durata di circa 60 secondi. Tale esame risultava perciò indicativo di crisi
epilettica parziale. È stata dunque eseguita RMN encefalo con mdc che ha rilevato una lesione espansiva
extrassiale, con ampia base di impianto sulla convessità frontoparietale destra, di circa 2 cm di diametro,
con disomogenea impregnazione dopo mdc, in rapporto a piccole aree di aspetto cistico.
La paziente è stata sottoposta ad intervento neurochirurgico di rimozione della lesione, con dimostrazione
istopatologica di un meningioma. In conclusione, l’insorgenza “de novo” di una crisi epilettica parziale
in paziente con anamnesi muta per episodi analoghi ed esame obiettivo neurologico negativo nel periodo
intercritico, merita approfondimento diagnostico alla ricerca di una lesione espansiva responsabile della
manifestazione clinica, anche in caso di Tc cranio diretta negativa.
poster infermieri
Poster Infermieri
1.
La dimissione programmata come strumento di
integrazione ospedale territorio
S. Ercolini, F. Bottaini, R. Gentili, S. Lucchesi, M. Muratori, G. Panigada
U.O.C Medicina Interna Ospedale SS Cosma e Damiano - Pescia Azienda USL3 Pistoia
Pag. 73
La medicina interna oggi: come è cambiato il
ruolo dell’infermiere nella gestione del paziente
nell’ospedale organizzato per livelli di intensità di
cura
Cinzia Lassi, Barbara Tedeschi, Natalia Herrera
Area Medica Asl 11 Empoli
" 73
IL PIEDE DIABETICO: PROTOCOLLO PER LA PREVENZIONE E
CURA DELLE ULCERE IN SPERIMENTAZIONE PRESSO L’U.O.
MEDICINA E DH MEDICO DI SANSEPOLCRO
Sara Mercatelli, Doriana Fonti, Brunella Del Furia
Ospedale Sansepolcro Ausl8- Arezzo
" 74
IL DITO SULLA PIAGA: PROTOCOLLO SULLA PREVENZIONE E
GESTIONE DELLE LESIONI DA PRESSIONE IN ATTO PRESSO U.O.
MEDICINA DELLA VALTIBERINA
Sara Mercatelli, Rosa Belfiore, Doriana Fonti
Ospedale Sansepolcro Ausl8- Arezzo
" 74
5. Chronic Care Model dell’Ipertensione Arteriosa:
ruolo dell’Infermiere
Veronica Cincinelli *, Salvatore. Lenti **, Paolo Corradini ***, Patrizia Monaco *
* Corso di Laurea Infermieristica Arezzo, ** Centro Ipertensione Arteriosa USL8 Arezzo,
*** Medicina Interna USL9 Ospedale Casteldelpiano
" 75
6.
See and Treat e rialzi pressori in Pronto Soccorso
Susanna Pietrelli, Salvatore Lenti
Medicina d’Urgenza – Ospedale San Donato USL8 Arezzo
" 75
7.
Riorganizzazione dell’aria dell’emergenza: quale
impatto organizzativo ha determinato l’istituzione
dei Posti letto di Medicina d’urgenza e Accettazione
presso l’area dell’emergenza-urgenza dell’ospedale
San Donato di Arezzo
Roberto Francini & Gruppo Infermieri S.C. Medicina e Chirurgia d’urgenza e accettazione
Asl 8 Arezzo S.C. Medicina e Chirurgia d’urgenza e accettazione
" 76
2.
3.
4.
poster infermieri
71
Pag. 77
8.
" 77
9.
" 78
La medicina interna oggi: cosa è cambiato?
R. Arrighi, A. Balatresi, S. Faraoni, L. Giuliani, E. Iacopini, G. Bagnoli, D. Nidiaci,
S. Rossi, V. Spada, E. Passerini
Infermieri Area Medica, Asl 11 Empoli
LA MEDICINA INTERNA OGGI: Esperienza di disease
management dello scompenso cardiaco
Stefania Stoppioni, Donatella Lenzi, Mariangela Altieri, Giuseppe Pettinà
Medicina I - Ospedale di Pistoia
10. USO DEI PICC IN REPARTO DI MEDICINA INTERNA: LA NOSTRA
ESPERIENZA
Elisabetta Landi, Serena Lotti
U.O. Medicina Interna – Ospedale Santa Maria Nuova Firenze
"
78
11. LA CARTELLA CLINICA INTEGRATA COME STRUMENTO
MODERNO DI GESTIONE DEL RICOVERO
Simona Cambioni, Angela Lesi, Liliana Pasqui, Paolo Corradini
U.O. Medicina Interna Ospedale di Casteldelpiano AUSL 9 Grosseto
"
79
12. LA FRAGILITÀ SOCIALE NEL PAZIENTE RICOVERATO: ITEMS DI
DIMISSIONE DIFFICILE E INDICATORI DI PROCESSO
Personale Infermieristico
U. O. Medicina Generale e Degenza Breve Asl 11 Empoli
"
79
13. APPLICABILITÀ DEL SIX-MINUTE WALK TEST NEI REPARTI DI
MEDICINA INTERNA: Un’esperienza infermieristica
E. Russo, A. Chiarello, F. Martelli, L. Cini
UO SC Medicina Generale 1 – ASL 6 Livorno
La dimissione programmata come strumento di
integrazione ospedale territorio
S. Ercolini, F. Bottaini, R. Gentili, S. Lucchesi, M. Muratori, G. Panigada
U.O.C Medicina Interna Ospedale SS Cosma e Damiano - Pescia Azienda USL3 Pistoia
Premesse. Alta la percentuale di pazienti cronici con polipatologia ricoverati in Medicina Interna che,
anche in considerazione della sempre minor durata delle degenze medie, al momento della dimissione
presentano ancora problemi assistenziali aperti che richiedono tempestiva attivazione dei servizi
territoriali
Materiali e metodi. Sono stati presi in considerazione i ricoveri del primo semestre del 2009 con
analisi della documentazione integrata medico/infermieristica e dell’archivio informatico del Servizi
Territoriale Dimissioni Ospedaliere Programmate (STDOP) per la caratterizzazione degli interventi
richiesti.
Risultati. Nel primo semestre 2009 sono stati ammessi 1620 pazienti nella U.O. di Medicina Interna.
Di questi il 45% è stato segnalato al STDOP. Gli interventi richiesti sono risultati nel 10% terapia e.v. a
domicilio, nel 25% continuità assistenziale per patologie croniche, 10% per necessità di ausili/presidi a
domicilio.
Conclusioni. La valutazione mirata e tempestiva delle esigenze del paziente consente d’identificare il
grado di rischio di dimissione difficile o ritardata; è utile in tal senso elaborare un piano personalizzato
con strategie e tempistica coinvolgendo il paziente e i familiari con presa in carico dei problemi presenti e
potenziali per attivare le risorse necessarie alla dimissione e assicurare il successivo follow – up domiciliare.
Globalmente risulta appropriata la gestione delle dimissioni programmate, con interpretazione adeguata
della domanda; giusta valutazione del livello di dipendenza del paziente e conseguentemente degli
interventi sanitari richiesti.
1
La medicina interna oggi: come è cambiato il ruolo
dell’infermiere nella gestione del paziente nell’ospedale
organizzato per livelli di intensità di cura
Cinzia Lassi, Barbara Tedeschi, Natalia Herrera
Area Medica Asl 11 Empoli
Ipotesi. Il modello organizzativo dell’intensità di cura voluto dalla Regione Toscana con la Legge n.
40 del febbraio 2005 ha dato il via ad un grande cambiamento che interessa tutta la sanità in generale.
L’obiettivo è la centralità dell’utente con tutti i suoi bisogni, espressi o meno; attraverso l’implementazione
di questo modello organizzativo emergono nuove figure con competenze tali da prendersi cura della
persona, dei suoi problemi e di come questi possono essere affrontati durante il ricovero per garantire
un adeguato decorso a livello domiciliare, tramite la compliance del singolo utente e/o del care-giver e
dell’intero nucleo familiare evitando così frequenti e ripetuti ricoveri fonte di conseguenze spesso anche
gravi, che interessano i singoli utenti e le loro famiglie.
Materiali e metodi. La figura dell’infermiere, da sempre importante per il paziente affetto da
patologia cronica, assume quindi un ruolo centrale nella rilevazione e gestione di una serie di situazioni
che richiedono un intervento di educazione/informazione rivolto al singolo utente e/o al care-giver
per valutare e trasferire le competenze necessarie per la gestione ottimale in ambito domiciliare della
patologia e delle sue complicanze.
Risultati. Una corretta valutazione della situazione dell’utente e delle competenze che questo o il caregiver devono necessariamente possedere per dare risposte pertinenti ai bisogni emersi, è da ritenersi un
comportamento fondamentale per permettere una maggiore permanenza al domicilio riducendo gli
episodi di ripetuta ospedalizzazione.
Conclusioni. La valutazione da parte dell’infermiere, delle competenze possedute dall’utente e/o caregiver, per la gestione di situazioni croniche, è fondamentale per individuare quelle che sono le necessità
di tipo educativo/informativo per ridurre o evitare i ripetuti ricoveri, che sono generati spesso da una
scarsa capacità di affrontare e gestire i bisogni a livello domiciliare.
2
73
Il piede diabetico: protocollo per la prevenzione e cura delle
ulcere in sperimentazione presso l’U.O. Medicina e DH
medico di Sansepolcro
Sara Mercatelli, Doriana Fonti, Brunella Del Furia
Ospedale Sansepolcro Ausl8- Arezzo
3
Ipotesi. Grazie ai progressi nella cura della patologia del diabete le aspettative di vita dei pazienti
diabetici sono sovrapponibili a quelle della popolazione non diabetica. Tuttavia si deve prestare particolare
attenzione alle complicanze croniche del diabete, tra queste quella del piede diabetico è una delle maggiori
in quanto è tra le prime cause di amputazione e di conseguenza di ricoveri ospedalieri. L’utilizzo di idonee
medicazioni, di un accurato piano di educazione sanitaria personalizzato e il coinvolgimento di tutte le
professionalità necessarie, possono incidere in modo significativo sull’evoluzione di tale patologia.
Materiali e metodi. In seguito alla rilevazione del fabbisogno formativo degli operatori dell’U.O.
Medicina e DH Medico è stato espresso il desiderio di approfondire le conoscenze sulla gestione del
piede diabetico, è stata quindi individuata un’infermiera per effettuare uno stage presso l’ambulatorio
del piede diabetico U.O. diabetologia di Arezzo. Successivamente abbiamo svolto un’accurata revisione
bibliografica (Pub Med, Med Line). Questo percorso ci ha permesso di elaborare un protocollo sulla
prevenzione e cura del piede diabetico. Attualmente e in fase sperimentale presso l’U.O. Medicina e DH
Medico di Sansepolcro.
Risultati. I pazienti sono stati motivati all’autocontrollo, così pure il contesto familiare, c’è una attenta
informazione ed educazione sulle regole fondamentali per la prevenzione delle lesioni del piede. Il
protocollo sulle medicazioni si sta dimostrando un valido strumento nel trattamento di tali lesioni.
Conclusioni. In un ottica di benchmarking, di confronto e diffusione delle conoscenze finalizzato
alla buona pratica, la gestione del piede diabetico rappresenta sicuramente un banco di prova nella
valutazione della qualità dell’assistenza e nella soddisfazione dell’utente. Il ruolo dell’infermiere assume
naturalmente un ruolo cruciale all’interno di questo percorso.
Il dito sulla piaga: protocollo sulla prevenzione e gestione
delle lesioni da pressione in atto presso U.O. Medicina della
Valtiberina
Sara Mercatelli, Rosa Belfiore, Doriana Fonti
Ospedale Sansepolcro Ausl8- Arezzo
4
74
Ipotesi. Le persone affette da lesioni da pressione ogni anno sono più di 500.000. Chi deve rimanere
ricoverato in ospedale a causa di una malattia spesso soffre disagi maggiori non legati ai sintomi del
male, ma dell’essere costretti a letto con il rischio di sviluppare piaghe da decubito, laddove non siano
già presenti al momento del ricovero. Tale problema potrebbe essere molte volte evitato applicando
specifiche regole di prevenzione e trattamento.
Materiali e metodi. Dopo aver effettuato un accurata revisione bibliografica (Pub Med, Medline,
linee guida della Regione Toscana 2005, linee guida AHRQ), abbiamo provveduto alla redazione di un
protocollo inerente la prevenzione e la gestione delle lesioni da pressione.
Risultati. Da un anno dall’applicazione del protocollo non abbiamo avuto insorgenza di lesioni da
decubito durante il periodo di degenza e, nei pazienti dove le lesioni erano presenti fin dal momento del
ricovero c’è stato, nella maggior parte dei casi, un sostanziale miglioramento.
Conclusioni. Il problema delle lesioni da pressione può essere evitato applicando scrupolosamente
delle regole di prevenzione ed apposite procedure di medicazione; ciò che nella nostra realtà si è rilevato
particolarmente importante è stata anche la trasmissione delle informazioni ai colleghi dell’assistenza
territoriale attraverso la dimissione infermieristica dove sono descritte le eventuali medicazioni o
precauzioni da continuare a domicilio.
Chronic Care Model dell’Ipertensione Arteriosa:
ruolo dell’Infermiere
Veronica Cincinelli*, Salvatore. Lenti**, Paolo Corradini***, Patrizia Monaco*
*Corso di Laurea Infermieristica Arezzo, **Centro Ipertensione Arteriosa USL8 Arezzo,
***Medicina Interna USL9 Ospedale Casteldelpiano (GR)
Scopo dello studio. L’Infermiere riveste un ruolo fondamentale nel Chronic Care Model
dell’ipertensione arteriosa, in quanto si integra nel modello assistenziale come maggior esperto di
counseling per un miglior empowerment nella riduzione del rischio cardiovascolare.
Metodi. Sulla base di queste premesse è stato formato un Infermiere per la valutazione del carico
pressorio, gestione della misurazione clinica della Pressione Arteriosa (PA) e dell’automisurazione,
attraverso la formazione e il controllo della compliance terapeutica del paziente; inoltre, attraverso focus
group, ha approfondito e delineato i fattori di rischio e lo stile di vita adeguato.
Risultati. In un mese sono stati arruolati 120 pazienti affetti da ipertensione arteriosa, 51% uomini e
49% donne, con un’età media di 62 anni: a tutti sono stati raccolti i dati riguardanti le abitudini di vita,
i fattori di rischio associati, misurata la PA clinica e somministrati questionari sulla qualità di vita e sulle
modalità di automisurazione. Poi in maniera random sono stati suddivisi in 2 gruppi di 60 pazienti:
controllo (53% donne e 47% uomini, 60 anni di media) e sperimentale (46% donne e 54% uomini, 63
anni di media). Solo al gruppo sperimentale è stata somministrata la formazione, una volta al mese, con
focus group fatti di lezione partecipata.
Dopo 3 mesi tutti e 120 pazienti sono stati sottoposti a un post-test. Il gruppo di controllo non ha
modificato lo stile di vita, il 42% si è recato dal medico per rialzi pressori, ha misurato una volta al mese
la PA ed ha avuto il 40% di cambio terapeutico, nonostante il 60% consideri l’ipertensione una malattia
grave. Mentre il gruppo sperimentale ha misurato correttamente una volta alla settimana la PA con 3
misurazioni in ogni seduta, non ha presentato shift farmacologici, il 40% ha smesso di fumare, il 39% ha
effettuato una attività fisica regolare, il 48% ha assunto più verdure e meno zuccheri, il 26% ha diminuito
di 7 kg il proprio peso corporeo e non si è recato neanche una volta dal proprio medico per rialzi pressori.
Infine tutti i pazienti hanno espresso la volontà di continuare questo tipo di strategia educazionale.
Conclusioni. Questo nostro studio pilota ha voluto dimostrare come il modello di assistenza integrata
a 3 attori porti necessariamente ad un miglior empowerment di educazione sanitaria, in quanto oltre
alla figura del Medico soprattutto è l’Infermiere che gestisce in prima persona la formazione e istruzione
del paziente, il quale diviene a sua volta lui stesso “esperto” nella gestione del proprio stato di salute,
ottenendo una vera e propria certificazione. Tutto ciò potrebbe portare ad un miglioramento in termini
di efficienza del sistema (anche sul versante economico-sanitario) per un appropriato utilizzo di farmaci
ed interventi.
5
See and Treat e rialzi pressori in Pronto Soccorso
Susanna Pietrelli, Salvatore Lenti
Medicina d’Urgenza – Ospedale San Donato USL8 Arezzo
Scopo dello studio. La Regione Toscana ha approvato, nel 2008, un modello sperimentale di
See and Treat in Pronto Soccorso in materia di emergenza sanitaria, in cui si pongono le basi per la
riorganizzazione dell’area assistenziale per i codici a bassa priorità ed in cui viene introdotta la figura
infermieristica “formata e esperta” nella gestione di alcune patologie in modo da ridurre i tempi di
attesa. I rialzi pressori asintomatici, che rappresentano circa il 10% degli accessi in Pronto Soccorso,
sono stati inseriti nella delibera regionale come urgenze minori appropriate al trattamento in area See
and Treat.
Scopo del nostro studio è stato quello di vedere l’applicabilità di questo modello sulla gestione, da parte
del Medico e dell’Infermiere in area di See and Treat, dei rialzi pressori asintomatici in una popolazione
di cittadini che si sono presentati in Pronto Soccorso.
6
75
Metodi. Sono stati arruolati, in 3 mesi, 284 pazienti (153 M e 131 F, con un’età media di 64.5 anni)
che presentavano valori di Pressione Arteriosa (PA) 160/120 mmHg e suddivisi in maniera random in
2 gruppi: il gruppo di controllo gestito dal Medico e il gruppo sperimentale gestito dall’infermiere, nella
medesima area di See and Treat.
A tutti, dopo un periodo di relax di 10 minuti, è stata misurata la PA clinica in posizione seduta (3
misurazioni a distanza di 2 minuti), effettuata l’anamnesi personale e farmacologica; nessun paziente
riferiva sintomatologia associata.
Risultati. Nel gruppo di controllo abbiamo ottenuto una riduzione dei valori pressori medi a 148/90
mmHg nel 62% dei pazienti, mentre nel restante 38% (54 pazienti) i valori di PA sono risultati > 160/120
mmHg.
Nel gruppo sperimentale invece il 88% dei pazienti ha avuto riduzione dei valori pressori medi a 144/84
mmHg, mentre solo il 12% (17 pazienti) non ha presentato riduzione significativa.
Quindi su 284 pazienti solo il 25% (71 pazienti) ha avuto bisogno di ulteriore approfondimento
medico.
Conclusioni. Questo nostro studio pilota ha voluto confermare la ben nota quasi totalità di assenza
dell’effetto camice bianco da parte della misurazione effettuata dall’infermiere, ma ha soprattutto voluto
evidenziare come l’utilizzo dell’area di See and Treat da parte di un infermiere adeguatamente formato
abbia ridotto i tempi di attesa per i codici a bassa priorità, identificando il See and Treat come un’efficace
modalità di risposta assistenziale per quanto riguarda i rialzi pressori asintomatici, al fine di migliorare
la qualità precepita e garantendo una pronta risposta medica e/o infermieristica con l’immediata presa
in carico del paziente.
Il See and Treat richiede naturalmente una puntuale e completa definizione scientifica-professionale e
medico-legale.
Riorganizzazione dell’aria dell’emergenza: quale impatto
organizzativo ha determinato l’istituzione dei posti letto di
medicina d’urgenza e accettazione presso l’area
dell’emergenza-urgenza dell’ospedale San Donato di Arezzo
Roberto Francini & Gruppo Infermieri S.C. Medicina e Chirurgia d’urgenza e accettazione
Asl 8 Arezzo S.C. Medicina e Chirurgia d’urgenza e accettazione
7
76
Premessa. Nel Febbraio del 2008 è nata L’U.O. Medicina e chirurgia d’urgenza. Questa nuova struttura
ha rivoluzionato l’intera organizzazione dell’ospedale San, Donato di Arezzo, sia in termini di riduzione
dei posti letti generali all’interno delle varie U.O. che sulla degenza media per gruppi di ricoveri per
gruppi di Drg’s.
Scopo. Lo scopo di tale ricerca è quella di analizzare, a distanza di 12 mesi dall’apertura, quale
impatto organizzativo ha determinato l’istituzione di 8 posti letto di Medicna d’urgenza e 4 di HDU
(Higt dependency Unit), sull’organizzazione generale e come questa abbia portato ad una ridefinizione
dell’assetto generale del presidio ospedaliero.
Materiali e metodi. Questo disegno di ricerca, è uno studio retrospettivo osservazionale .
Per analizzare i dati è stato utilizzato Epi-info; sono stati quindi valutati, sia la distribuzione dei ricoveri
per fasce di età, che le patologie, i DRG’S e gli interventi ICD9 CM relativi ai ricoveri del periodo . I
dati sono stati poi incrociati con i dati dello stesso periodo precedente all’istituzione della nuova realtà
organizzativa.
Risultati e conclusioni. Da tale confronto emerge che, oltre ad una evidente riduzione della
degenza media per patologia, si è riscontrata una riduzione del Tasso grezzo di ospedalizzazione, con il
conseguente aumento, visto i flussi, dell’indice di tour over.
Tutto questo ha impattato positivamente sulle strutture di degenza, aumentando l’appropriatezza dei
ricoveri.
Altro dato emergente è quello che la nuova U.O. ha determinato una ridistribuzione delle risorse, con
l’accorciamento dei percorsi e una riduzione dei tempi di risposta ai bisogni di salute della popolazione.
D’altro campo il tasso dei ri-accessi a 1-5-7- giorni per la stessa patologia, nonostante la contrazione della
degenza media, è sovrapponibile a quello dei ricoveri dei 12 mesi messi a confronto.
La medicina interna oggi: cosa è cambiato?
R. Arrighi, A. Balatresi, S. Faraoni, L. Giuliani, E. Iacopini, G. Bagnoli,
D. Nidiaci, S. Rossi, V. Spada, E. Passerini
Infermieri Area Medica, Asl 11 Empoli
Nonostante si voglia caratterizzare l’ospedale come luogo privilegiato per la gestione dell’acuzie, non
possiamo fare a meno di renderci conto che questo contesto sempre più si occupa e si occuperà della
gestione della cronicità. Gli utenti della Medicina Interna, si caratterizzano spesso per avere una età
avanzata, condizioni di invalidità legate a patologie croniche e fragilità da un punto di vista sociale.
Il bisogno che l’utente o il care giver possa essere educato in modo da portare avanti a livello domiciliare
una gestione ottimane della patologia cronica e di tutti i suoi aspetti diventa un aspetto fondamentale
nella pianificazione di un programma terapeutico-assistenziale.
L’educazione è una delle funzioni proprie dell’infermiere, quindi tale figura si configura come un
professionista che può modificare in modo positivo l’evoluzione di una patologia con andamento cronico.
Una tra le cause più frequenti di ricovero e re-ricovero, in medicina interna, è lo scompenso diabetico
e spesso, nel momento dell’accertamento infermieristico emergono una serie di difficoltà nella gestione
domiciliare della patologia legate a scarse conoscenze e a difficoltà nel mantenere valori glicemici a livelli
accettabili.
Il ruolo dell’infermiere in questi casi diventa fondamentale e consiste nel rilevare il problema e prendere
in carico il paziente e/o il care giver non solo informandolo ma attuando un vero e proprio processo
educativo per promuovere una modificazione dello stile di vita.
8
La medicina interna oggi: esperienza di disease
management dello scompenso cardiaco
Stefania Stoppioni, Donatella Lenzi, Mariangela Altieri, Giuseppe Pettinà
Ospedale di Pistoia Medicina I
Ipotesi. Lo Scompenso Cardiaco (SC) rappresenta uno dei maggiori problemi di salute pubblica dei
Paesi industrializzati. In linea con la letteratura esistente, l’èquipe infermieristica del nostro reparto, ha
promosso l’attuazione di un progetto multiprofessionale di educazione all’autocura dello SC, al fine di
garantire attraverso una migliore gestione della malattia a riduzione della morbilità e il miglioramento
della qualità del paziente.
Materiali e metodi. Il Medico tutor segnala all’infermiere referente il pz con SC, il quale programma
una sessione di counselling in cui viene coinvolto anche il caregiver.
Durante il colloquio vengono concordati degli obiettivi da raggiungere per aumentare l’aderenza
alla terapia e il riconoscimento dei sintomi precoci dello SC. Al termine viene consegnato materiale
informativo e diario di controllo dei parametri vitali. Il rinforzo all’autocura, viene fatto tramite visita
ambulatoriale con il medico e contatto telefonico.
Risultati. La maggior parte dei paziente presi in esame hanno raggiunto gli obiettivi stabiliti.
Conclusioni. Esistono molti studi sullo SC, con raccomandazioni di efficacia più o meno valide.
Ma niente alla fine è più vero dell’altro, perché tutti gli studi ottengono dei buoni risultati, semplicemente
perché viene presa in carico la persona nella sua complessità.
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Uso dei Picc in reparto di medicina interna:
la nostra esperienza
Elisabetta Landi, Serena Lotti
U.O. Medicina Interna – Ospedale Santa Maria Nuova Firenze
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Ipotesi. Migliorare la gestione della terapia infusiva negli utenti dei reparti di medicina interna,
diminuire i rischi di complicanze, aumentare il comfort dell’utente.
Materiali e metodi. Informazione e formazione mirata presso associazioni competenti (GaveCelt),
acquisizione della tecnica di impianto e della gestione post-impianto e training di addestramento,
disponibilità dell’ecografo in reparto di medicina interna, disponibilità di tutoraggio medico esperto in
reparto.
Risultati L’uso dei Picc nel reparto ha permesso di garantire il giusto piano terapeutico in pazienti con
scarso patrimonio venoso periferico (problematica spesso presente nei pazienti con patologie croniche), e
ha facilitato il lavoro dell’infermiere offrendogli un accesso venoso sempre disponibile sia per la terapia
che per i prelievi.
Non abbiamo risultati quantificabili, essendo l’utilizzo nel nostro reparto estremamente recente.
Conclusioni. L’implementazione dell’utilizzo dei Picc sugli utenti dei reparti di medicina interna
ha sicuramente apportato un significativo e vantaggioso aiuto nella gestione della terapia infusiva da
parte dell’infermiere; ha aumentato la soddisfazione dell’utente, che non è più soggetto ad innumerevoli
cambi di accessi venosi periferici; ha diminuito il rischio di complicanze meccaniche alla inserzione e
complicanze batteriemiche rispetto ad un catetere venoso centrale diretto
La cartella clinica integrata come strumento moderno di
gestione del ricovero
Simona Cambioni, Angela Lesi, Liliana Pasqui, Paolo Corradini
U.O. Medicina Interna Ospedale di Casteldelpiano AUSL 9 Grosseto
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Ipotesi. Nell’ambito dell’organizzazione dell’Ospedale per Intensità di Cure è necessario uno strumento
adeguato per la gestione dell’assistenza: la Cartella Clinica Integrata (C.C.I.) Medico-Infermieristica,
completamente nuova ed originale, che risponde alle esigenze attuali dell’Assistenza Medica ed
Infermieristica.
Materiali e metodi. La C.C.I. è composta da Schede integrate medico-infermieristiche per la
rilevazione dei dati all’ingresso; un Diario del decorso compilato contestualmente da tutte le figure
professionali contraddistinte da appositi timbri; Piano di Assistenza personalizzato; Scheda di Terapia
Unica; Lettere di dimissione Medica e Infermieristica; Schede opzionali per rilevazione lesioni da
pressione, valutazione del dolore, terapia anticoagulanti orali.
Risultati. La C.C.I. dopo una fase sperimentale di 11 mesi, da Settembre 2005, viene applicata sul
100% dei ricoverati nell’Area Unica di Degenza di Casteldelpiano, AUSL 9, Grosseto.
Conclusioni. La C.C.I. ha modificato profondamente la prassi medica e infermieristica, ha consentito
una concreta applicazione dei moderni principi di gestione degli atti clinici, ha reso visibile e trasparente
il Processo di Nursing. Tutti gli operatori dell’equipe dispongono in tempo reale delle informazioni per
l’assistenza.
La fragilità sociale nel paziente ricoverato: items di
dimissione difficile e indicatori di processo
Personale Infermieristico
U. O. Medicina Generale e Degenza Breve Asl 11 Empoli
Uno dei fenomeni che assorbe risorse sia in termini umani che economici e che richiede una attenzione
e una monitorizzazione sempre maggiore è l’aumento progressivo della popolazione anziana associato
ad un costante aumento degli anziani fragili e non autosufficienti.
La condizione di fragilità sociale nell’anziano spesso rimane latente e non viene prontamente individuata
quando il paziente si ricovera in ospedale: questo genera ritardi nella dimissione con l’attivazione di una
serie di conseguenze che si riflettono in modo negativo sull’utente stesso e sulla sua famiglia.
La necessità di individuare al tempo zero e quindi già al momento del ricovero, l’esistenza di tale situazione
attraverso l’utilizzo di specifici items, diventa condizione indispensabile per garantire una dimissione nei
tempi dovuti, un rientro al domicilio in condizioni di sicurezza e una riduzione dei costi.
Gli ambiti in cui è necessario indagare per rilevare un quadro di fragilità sociale sono:
1) Quanto l’evento acuto che ha determinato il ricovero può modificare in modo negativo la
condizione clinica pre-esistente (molto, poco, per niente);
2) Con chi viveva la persona prima del ricovero (solo, in famiglia, con persona dedicata, in
struttura);
3) In quale condizione di autonomia era la persona prima dell’evento (autonoma, badato, assistito,
dipendente).
L’accertamento delle condizioni generali della persona effettuato dal personale infermieristico al momento
del ricovero,diventa uno strumento importante per la presa in carico della utente e per poter pianificare
una serie di interventi mirati volti a dare una risposta al problema legato alla fragilità sociale.
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Applicabilità del six-minute walk test nei reparti di
medicina interna: un’esperienza infermieristica
E. Russo, A. Chiarello, F. Martelli, L. Cini
UO SC Medicina Generale 1 – ASL 6 Livorno
Ipotesi. Numerosi pazienti ricoverati in Medicina Interna, a causa dell’età e delle numerose comorbidità
spesso presenti, non possono essere spesso valutati sotto il profilo funzionale. Il Six Minute Walk Test (6MWT) è un test validato per esaminare la performance di pazienti affetti da varie patologie di interesse
internistico. In questo studio abbiamo applicato il test ad una serie di pazienti ricoverati per patologie
acute, affidandone l’esecuzione per intero al personale infermieristico.
Materiali e metodi. Pazienti ammessi in un Reparto di Medicina Interna per acuti sono stati sottoposti
al 6-MWT come da linee guida dell’American Thoracic Society. Criteri di inclusione sono stati lo
scompenso cardiaco, la BPCO, l’arteriopatia obliterante periferica. FC e saturazione % dell’ossigeno
sono stati misurati con pulsossimetro BCI International, Waukesha, Wisconsin; la PA è stata misurata in
posizione seduta con sfigmomanometro a mercurio. Dispnea e fatica sono stati misurati con la scala di
Borg. La distanza percorsa è stata calcolata in metri.
Risultati. I parametri registrati prima e dopo il test sono stati analizzati con metodiche di statistica
parametrica e non parametrica.
Conclusioni. Il 6-MWT è risultato di facile applicazione e gradito sia ai pazienti che agli operatori
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Grafica e stampa: L.P. Grafiche -Ar
Redazione: Salvatore Lenti
U.O. Medicina d’Urgenza Arezzo
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