INTERFACCIA La solidarietà tra famiglie Quello che funziona è uno stile di vita impostato sulla fiducia nell’altro Paola Springhetti Sempre più spesso i sociologi parlano di “capitale sociale” analizzano le possibilità di sviluppo di un territorio. Più cresce il capitale sociale, spiegano, più cresce sia l’economia, sia la qualità di vita complessiva di una città, un ambiente, un territorio. In parole semplici, si può dire che il capitale sociale è quell’insieme di relazioni e di reti che si costruiscono tra le persone e che si basano sostanzialmente sulla fiducia negli altri, la disponibilità al dialogo, la voglia di affrontare il futuro. Qual è il luogo privilegiato in cui si costruisce capitale sociale? La famiglia, naturalmente. Come ha scritto Pier Paolo Donati, è la prima realtà che offre «alla persona umana le opportunità necessarie per sperimentare e realizzare relazioni sociali affidabili, cioè con un alto potenziale di durata perché basate sulla fiducia e sulla reciprocità» (“Famiglia e capitale sociale nella società italiana”, San Paolo 2003, p. 100). Oggi la famiglia è fragile Ma esattamente come la persona non vive se non in relazione (con gli altri, con Dio, col mondo), così succede per la famiglia. Tanto che le cosiddette “virtù private” che in essa si dovrebbero coltivare (ascolto, apertura agli altri, accoglienza, gratuità), sono in realtà virtù sociali. Certo, oggi la famiglia è fragile. Il numero dei matrimoni cala, aumenta quello delle convivenze e delle separazioni, la capacità di educare appare sempre più rarefatta. E più la famiglia è fragile, più si chiude in se stessa, innescando un circolo vizioso, perché la chiusura porta ad ulteriore fragilità. Esempi? Potrebbe farne in quantità chi lavora nelle scuole, nelle parrocchie o comunque a contatto con i ragazzi. Alcune arrivano anche sui giornali. Un paio di anni fa, ad esempio, i giudici di Milano hanno disposto il sequestro dei beni dei genitori di cinque minorenni che avevano violentato una bambina di 11 anni. Quei genitori non solo non avevano vigilato sui figli, ma li avevano difesi, negando la gravità dei fatti. Sempre più spesso si incappa in casi di genitori che difendono l’indifendibile pur di “proteggere” i figli e trovano sempre il modo di dare la colpa ai compagni cattivi, agli insegnanti incapaci, alla Chiesa, ai carabinieri, alla società, agli immigrati, al primo che passa per strada. La famiglia: luogo di solidarietà sempre più “ristrette” D’altra parte, che la famiglia sia luogo di solidarietà sempre più “ristrette” è evidente anche in altri ambiti. Non so se qualcuno abbia mai contato il numero di cantanti, attori, uomini di spettacolo, scrittori che portano cognomi già noti. È in famiglia che si costruiscono molte carriere politiche. È in famiglia che si costruiscono, spesso, le carriere universitarie: pochi hanno dimenticato lo scandalo scoppiato nel 2005 (ma altri episodi analoghi sono emersi negli anni successivi) quando si scoprì che nell’Università di Bari c’era una famiglia che, tra genitori, figli e cugini aveva ben nove membri in cattedra o vicini a conquistarla. Ed è sempre in famiglia, del resto, che si costruisce anche la ricchezza della nazione: il nostro resta –nel bene e nel male- un paese la cui economia è fondata sul sistema delle piccole aziende, spesso “di famiglia”. La cultura del “familismo amorale” Nel ’58 Edward C. Banfield aveva coniato l’espressione “familismo amorale” per descrivere quella cultura, diffusa nell’Italia meridionale, in base alla quale i membri di una comunità sfruttano al massimo i vantaggi derivanti dai legami familiari, ignorando ogni rapporto fra questi e la dimensione civile della vita, in qualche modo negando ogni morale pubblica che possa entrare in collisione o semplicemente porre un limite al vantaggio proprio e del proprio nucleo. Sono passati cinquant’anni, nuotiamo nella globalizzazione, ma siamo tornati lì, al familismo amorale. A spingere in questo senso non è solo la fragilità affettiva ed educativa dei nuclei familiari. Ci sono molti fattori che creano insicurezza e paura. L’abbassarsi progressivo dei redditi medi e l’aumento del precariato, soprattutto fra le donne; un modello di maschio italiano che non ha ancora trovato un nuovo ruolo paterno e che non condivide la fatica del “lavoro familiare” con la propria moglie; la debolezza del welfare; l’aumento del prezzo delle case e l’abbassamento del livello delle pensioni… sono tutti elementi che, insieme a molti altri, creano ansia nei cittadini e scoraggiano da progetti per il futuro. Cresce la paura In più, gli italiani hanno paura. Se nel 1997 il 16% fra loro indicava la criminalità fra i due problemi più urgenti da affrontare (Osservatorio Ispo), nel 2007 il 40% poneva la "criminalità" al primo posto (Demos). Questo anche se in realtà negli ultimi quindici anni il numero dei reati, nell'insieme, non è cambiato. Anzi: gli omicidi volontari dal 1991 al 2006 si sono ridotti a un terzo, i furti in abitazione sono scesi dallo 3,6 al 2,4 per mille abitanti. Il ruolo dei media, ma anche della politica, nel far crescere la paura è stato determinate, e continuamente si analizza il gap tra il pericolo reale e il pericolo percepito. Ma reale o percepita che sia, la paura ha portato le famiglie a chiudersi ai rapporti con gli altri, e anche se l’Istat dice, ad esempio, che il 67,9% degli stupri è opera del partner e il 17,4% è opera di un conoscente, l’opinione pubblica teme gli immigrati e gli estranei in generale, perché è ad essi che danno spazio i media. Le famiglie diffidano degli altri, sono sempre sulla difensiva e incapaci di dialogo (è stato calcolato che il 70% dei condomini ha una causa in corso, in genere con qualcuno che ne fa parte). E così tutta la società si fa diffidente e intollerante, le reti di solidarietà informali – che tanti problemi risolvevano una volta- si rompono, la solitudine cresce, il capitale sociale muore. Uno stile di vita impostato sulla gratuità Per fortuna non è sempre così. Ci sono ancora famiglie che hanno impostato attorno al valore della gratuità il proprio stile di vita. Perciò vivono al proprio interno un po’ controcorrente: fuori prevalgono valori come il successo, la competitività, l’individualità, l’affermazione del più forte, dentro si coltivano gli affetti, la solidarietà, la ricerca del benessere comune, la difesa del più debole. Ma, attenzione, non si propongono come rifugio da un mondo cattivo e ingiusto, ma come realtà vive che impongono la propria logica, del dono, a una società improntata sullo scambio utilitaristico. Si tratta di famiglie che riescono a realizzare solidarietà forti tra le generazioni, che si aprono all’accoglienza, che hanno uno spiccato senso della partecipazione sociale e politica. Non è un caso che negli ultimi anni si sia sviluppata la riflessione sul volontariato fatto non da singoli, ma da interni nuclei familiari, e che nella Chiesa si moltiplichino le esperienze di coppie –anche con figli- che partono per le missioni. Fiducia che le cose possono cambiare Nel già citato rapporto “Famiglia e capitale sociale nella società italiana”, è pubblicato anche uno studio secondo il quale la maggior parte dei giovani impegnati nel sociale vengono da famiglie in cui i genitori erano a loro volta impegnati: quello che funziona non è solo il buon esempio, ma anche il fatto che si trasmette alle nuove generazioni un senso di responsabilità e al contempo di fiducia che le cose possono cambiare, e una visione tutto sommato serena del mondo, che non è visto come qualcosa da cui difendersi, ma qualcosa con il quale crescere. Inevitabilmente, la logica del dono tracima dai confini familiari e contagia la società, e parole come accoglienza, solidarietà, responsabilità diventano una proposta “politica”, nel senso che si offre alla “polis” un sistema di valori su cui fondarsi. Gli stili di vita che le nuove famiglie oggi sperimentano sono numerosi e si incarnano in scelte concrete. Vanno dalla scelta della sobrietà, al consumo di prodotti equi e solidali, alla realizzazione dei gruppi di acquisto solidale, alla scelta di fare una vita più comunitaria possibile, a quella impegnarsi nelle parrocchie e nella Chiesa o di fare volontariato. Gli stili di vita nuovi per le famiglie Non si deve pensare alle case-famiglia o alle esperienze dei “condomini solidali”: scelte importanti e benedette, ma non certo alla portata di molti. Si sono sperimentate in questi anni anche forme di volontariato familiare più “sostenibili”. Un esempio: un gruppo di volontariato si fa carico di un doposcuola in una periferia metropolitana. I volontari portano al doposcuola anche i propri figli, i quali stabiliscono immediatamente e spontaneamente rapporti di amicizia,e dunque alla pari, con gli altri ragazzi. L’atmosfera nel doposcuola migliora, il clima si distende, e le amicizie tra i ragazzi “tracimano” in rapporti tra adulti. Un altro esempio. Di fronte a una di quelle famiglie che vengono definite multiproblematiche, i servizi sociali chiedono aiuto a un’associazione di volontariato, che però manda non singoli volontari, ma una famiglia. In questo modo c’è la possibilità di stabilire relazioni di diverso tipo (i figli tra loro, le donne con le donne, e così via) e di essere maggiormente d’aiuto. L’importante è capire che non è necessario essere famiglie perfette per poter dare il proprio contributo a una società più accogliente: semplicemente, una famiglia aperta alle relazioni dà molto, ma molto di più riceve.