200 ANNI 1816-2016 GUIDA AI PARCHI CITTADINI 03 PARCO MANTEGAZZA E CASTELLO DI MASNAGO ASSESSORATO ALL’AMBIENTE E VERDE URBANO. Area XI Attività Verde Pubblico La presente collana è stata curata dai tecnici dell’Attività Verde Pubblico del Comune di Varese Dott. For. Chiara Barolo, Arch. Lorenza Castelli, Dott. Agr. Ilaria Merico, Dott. For. Pietro Cardani. Si ringrazia Silvia Motta per l’attività di ricerca bibliografica riguardante la mitologia degli alberi svolta durante il periodo di servizio di leva civica regionale. PRESENTAZIONE Cari Varesini e cari turisti, Un ringraziamento al Geom. Michele Giudici dell’Area IX - Ufficio Sistema Informativo Territoriale. Riferimenti bibliografici • Botanica Forestale – Volume Primo e secondo – Romano Gellini e Paolo Grassoni – Cedam Padova 1997; • Cottini P. - “I Giardini della Città Giardino” – Edizione Lativa – dicembre 2004; • Sulla Condizione dei Parchi Pubblici della Città di Varese – Tomo I-II-III-IV a cura del Prof. Salvatore Furia – 1978- Atti in possesso del Comune di Varese - Attività Verde pubblico . • Mitologia degli alberi – Dal giardino dell’Eden al legno della Croce, Jacques Brosse – BUR Rizzoli Saggi, 1991 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A. Milano; • La Natura ed i suoi simboli – Piante, fiori e animali – Lucia Impelluso - Dizionari dell’Arte Edizioni Varese è la nostra città-giardino. E come poterla scoprire meglio se non con queste guide e mappe, molto comode e pratiche? I parchi sono un bene prezioso che negli ultimi anni abbiamo preservato e cercato di migliorare, anche ampliandone gli spazi verdi. Varesini e turisti hanno la possibilità di scoprirne la ricchezza, dal patrimonio arboreo e botanico alle peculiarità architettoniche presenti nei giardini principali. Non mancano le info turistiche per raggiungere i sei parchi cittadini. Palazzo Estense e Villa Mirabello, Villa Toeplitz, Villa Augusta, Castello di Masnago, Villa Baragiola e Villa Mylius: le guide passano dai cenni storico-artistici alla descrizione e al posizionamento, con le mappe, degli alberi monumentali. Grazie al lavoro attento dell’assessorato al Verde pubblico, le guide sono state ampliate e ristampate. Non mi resta che augurarVi un buon giro all’aria aperta accompagnato da un’ottima lettura. Il Sindaco di Varese Attilio Fontana Cari tutti, Della stessa collana Giardini Estensi e Parco di Villa Mirabello Parco di Villa Torelli Mylius “Achille Cattaneo” Parco di Villa Augusta Parco di Villa Baragiola Parco di Villa Toeplitz Progetto grafico e impaginazione: Magoot Comunicazione Costruttiva - www.magoot.com Stampa: Bosetti Group S.r.l. - Gorla Maggiore (VA) - Maggio 2016 In questo 2016, anno del Bicentenario dell’elevazione di Varese a Città, è un piacere avere l’opportunità di presentare al pubblico i libretti della collana, “Guide ai Parchi Cittadini” quale contributo per testimoniare la bellezza e la ricchezza della Città Giardino. Nelle guide si trovano aneddoti e cenni della storia delle famiglie che hanno creato questi parchi meravigliosi, che li hanno vissuti e che ce li hanno tramandati. Si trovano le descrizioni degli alberi autoctoni, di quelli esotici, dei più rari e più preziosi, oltre ai bellissimi alberi monumentali, tanto amati dalla Città, e alcuni vero e proprio simbolo Bosino. I Giardini sono Storia e Cultura insieme; rappresentano l’essenza della capacità e sensibilità degli uomini di plasmare il territorio nel rispetto della Natura dei luoghi, con l’obiettivo di poter godere appieno delle meraviglie che offre. Sono parchi pubblici, sono di tutti: ad ognuno di noi, quindi, il diritto di goderne appieno delle bellezze che offrono, ma anche il dovere di rispettarli e averne cura, per il presente, per il futuro. L’Assessore al Verde Pubblico e Tutela Ambientale Riccardo Santinon CENNI STORICI Il nome del luogo deriva da uno degli innumerevoli e fra i più recenti proprietari del castello, Angelo Mantegazza. Gli eredi di quest’ultimo cedettero il complesso al Comune di Varese nel 1981. Durante il Medio Evo il luogo era senz’altro fortificato, un castello come testimonia la massiccia torre quadrata tutt’oggi superstite, risalente al sec. XII. La torre, in collegamento con altre sul territorio, quali quella di Velate, doveva servire per avvistamenti e segnalazioni. Si deve alla famiglia Castiglioni, presente a Masnago già nel 1422, quello che risulta essere il tesoro più prezioso visionabile all’interno del castello: due interi cicli di affreschi, uno nella sala inferiore con scene di “svaghi all’aperto” nel lacustre paesaggio varesino, mirabile documento della vita cortese dei proprietari; l’altro nella sala superiore, con figure femminili simboleggianti vizi e virtù. L’insieme (riscoperto nel 1937 da Angelo Mantegazza) rappresenta uno dei pochi esempi di affreschi profani in Lombardia, espressione dello stile gotico internazionale. Incamminandosi lungo la salita che da via Caracciolo conduce alla sommità del colle si giunge all’attuale sede dei Musei civici comunali di Masnago. Nel corso dei secoli XVI-XVIII il castrum divenne una residenza di più nuclei familiari, gli alloggi dei quali sono oggi utilizzati dal Comune di Varese per scopi culturali. Nel ‘700, attorno alla residenza signorile, è accertata la presenza di verde agricolo con vigna e orti, presente spesso anche nelle aree paesaggisticamente più qualificate dei «deliziosi dossi collinari» ove la coltivazione era connotata, però, da criteri più redditizi e moderni con vite e gelsi. Poche tracce sono rimaste di uno stile formale del giardino settecentesco: uniche testimonianze due leoni in pietra, simbolo della famiglia Castiglioni, posti sui pilastri d’ingresso dalla via Caracciolo. Seguendo lo stile inglese, in voga nella seconda metà del XIX secolo, si abbandonò la progettazione e il mantenimento di parchi e giardini all’italiana, caratterizzati da disegni razionali e regole geometriche, per passare a una ricerca della naturalità attraverso la collocazione di specie arboree in modo apparentemente casuale a dare l’idea che l’impianto costruito fosse dovuto ad un disegno della natura stessa. Nel giardino all’inglese si esalta la regolare irregolarità della natura: i tracciati dei sentieri si snodano sinuosi, incrociandosi liberamente, la piantumazione ha schema libero spesso marginale ad estese superfici prative, non presenta geometrie precise, ma favorisce la creazione di effetti di luce. Si preferì, in quel periodo, una visione possibilmente “spontanea” della bellezza vegetale e nei giardini l’apporto umano era mascherato nel tentativo di rendere il più possibile naturali i dolci paesaggi creati da un’abile progettazione. Altre caratteristiche visibili nel Parco Mantegazza sono il movimento altimetrico del terreno eseguito con dolci cambiamenti di quote naturaliformi e senza terrazzamenti; l’utilizzo di masse arboree impenetrabili alla vista per separare una superficie erbosa da un’altra e per nascondere le recinzioni che delimitano il parco; gruppi isolati di alberi esemplari che fungono da punti focali per la loro non comune bellezza o imponenza. Con l’intensificarsi dei commerci con le Americhe e l’Est asiatico, i progettisti di tutta Europa, durante il secolo XIX, si resero immediatamente conto delle possibilità che le nuove specie di alberi offrivano, prima fra tutte il cromatismo stagionale nonché la signorile rarità. Nei parchi “romantici”, “paesaggistici” o “all’inglese” è la pittura, e meno l’architettura, che ispira il giardino. Il parco diventa pittura, offrendo al visitatore una serie di “scorci”, di vedute, definite e costruite espressamente per essere “pittoresche”, categoria estetica precedentemente ignota all’arte giardiniera. Si ricorda che i dettami dei giardini all’Inglese, come quello a disposizione dei cittadini dal 1981 a Masnago, furono codificati da William Kent (1685-1748), Alexander Pope (16881744), Lancelot Brown (1715-1783) detto Capability Brown, Humphry Repton (1752-1818) e dal milanese Ercole Silva (1756-1840) con il suo testo “Dell’Arte de’ Giardini inglesi”. Sotto le mura del massiccio edificio a pianta rettangolare troviamo oggi un pregevole parco, in stile romantico, formato da prati su diversi livelli punteggiati da alberi sia giovani che secolari. Il parco contiene solo alcuni alberi vetusti fra i quali monumentali tassi, un bel faggio rosso nei pressi di una piccola cappella, un prege- vole esemplare di leccio e un raro esemplare monumentale di corbezzolo. La straordinaria ricchezza di specie vegetali è soprattutto frutto del lavoro di esemplare ringiovanimento ed arricchimento arboreo svolto al Parco Mantegazza dal Capo Giardiniere Alberto Broglia, lavoro che si deve continuare. Kim E.K.Wilkie, paesaggista inglese, afferma, infatti, che “Il restauro dei parchi e dei giardini storici è un fenomeno relativamente nuovo. I paesaggi creati nell’Ottocento hanno raggiunto la piena maturità e stanno cominciando ora a decadere”. Il necessario rinnovamento con ponderati impianti di alberi novelli a beneficio delle generazioni future, dovrà perpetuare quel collezionismo botanico e quegli scorci che ci sono stati lasciati, sostituendo alcune specie per motivi di ordine ecologico e di mal adattamento all’eccessiva vicinanza dell’uomo. Si dovranno porre a dimora alberi novelli recuperando la distanza temporale e quindi dimensionale fra gli esemplari maestosi che vediamo oggi e quelli che necessiteranno di 30/50 anni per assolvere le medesime funzioni paesaggistiche. Al Parco Mantegazza il lavoro è già visivamente iniziato: ben 103 differenti varietà di alberi e arbusti impreziosiscono quest‘area verde rendendola simile ad un piccolo giardino botanico. Si incontrano numerose piante rare e particolari come il cosiddetto “albero dei fazzoletti“ (Davidia involucrata), i cui frutti sono contornati da singolari foglie bianche pendenti. DESCRIZIONE BOTANICA 1. ABETE BIANCO DEL CAUCASO o DI NORDMAN *Fam. Pinaceae Abies nordmanniana (Stev.) Spach Specie molto decorativa, originaria del Caucaso e dell’Armenia, ove vegeta fra i 400 e i 2000 m s.l.m.formando foreste pure; raggiunge i 40 m di altezza e i 3 m di circonferenza, ha chioma piramidale meno espansa di quella dell’abete bianco, ma con rami molto fitti; gli aghi, lunghi 2-3 cm, sono disposti a spazzola, di colore verde brillante superiormente e argentati inferiormente grazie alle 2 larghe linee stomatifere; i coni sono molto resinosi, bruno scuri, lunghi 10-12 cm con lunghe brattee sporgenti dalle squame. Esistono diverse varietà coltivate a scopo ornamentale; è più resistente alla siccità rispetto all’abete bianco. Deve il suo nome al botanico finlandese Nordman che introdusse i semi in Europa nel 1838. 2. ABETE DEL COLORADO *Fam. Pinaceae Abies concolor (Gord.) Hildebrand Conifera originaria di Colorado, Arizona, California meridionale e Messico, raggiunge i 30 m di altezza. Gli aghi sono piuttosto lunghi, 4-5 cm, appiattiti, ricurvi, di colore verde glauco su entrambe le pagine che, se stropicciati, emanano profumo di limone; i coni, a maturità, raggiungono i 7-12 cm di lunghezza e possono diventare di colore porporino o giallo-verde. 3. ABETE DEL COLORADO AZZURRO *Fam. Pinaceae Picea pungens Engelm. f. glauca Originario delle Montagne Rocciose, raggiunge i 25-30 m di altezza e ha chioma allargata e rami verticillati; gli aghi sono sparsi intorno al rametto, lunghi 1,5-3 cm, radi, rigidi, incurvati e molto pungenti; i coni, di 6-10 cm, si riconoscono per le squame rombiche arricciate e di consistenza cartacea. Specie molto resistente al gelo, viene spesso coltivata come ornamentale nella varietà “glauca”, con aghi bluastri. 4. ABETE DI DOUGLAS o DOUGLASIA VERDE *Fam. Pinaceae Pseudotsuga menziesii (Mirbel.) Franco (= P. douglasii (Lindl.) Carr.) Proveniente dalla costa pacifica degli USA e dalla Sierra Nevada californiana, raggiunge notevoli altezze, sui 50-70 m; ha portamento simile all’abete rosso, con chioma molto fitta e fusto slanciato; la corteccia diventa rosso bruna negli esemplari adulti; gli aghi, appiattiti, di colore verde brillante o scuro, disposti in 2 serie diversamente inclinate, hanno consistenza erbacea e punta arrotondata; i fiori sono piccoli, solitari o a gruppi, verdi i femminili, giallo arancio i maschili; i coni, lunghi 6-8 cm, sono penduli, con brattee trifide sporgenti dalle squame, e cadono interi a terra dopo la disseminazione. Ha importanza sia come pianta forestale per l’utilizzo del legno (soprattutto nel Paese d’origine) sia come pianta ornamentale. Deve il suo nome al collezionista di piante David Douglas che ne introdusse i semi in Europa nel 1827. 5. ACERO RICCIO *Fam. Aceraceae Acer platanoides L. L’acero riccio, albero caducifoglio, è simile all’acero di monte, da cui si distingue per le foglie a 5 lobi con apici acuti, i fiori riuniti in corimbi terminali, eretti, che compaiono prima dell’emissione delle foglie, le samare ad ali più aperte. La specie si spinge, allo stato spontaneo, più a nord rispetto all’acero di monte, arrivando fino alla Scandinavia, mentre in Italia lo si ritrova soprattutto nelle regioni settentrionali e centrali. 6. ACERO SACCARINO *Fam. Aceraceae Acer saccharinum L. Questo acero è originario dell’America del nord: Stati Uniti orientali e Canada, ed è da noi coltivato nei parchi come specie ornamentale; raggiunge notevoli dimensioni, ha foglie divise in lobi profondi e acuti, argentate sulla pagina inferiore (caratteristica per la quale in America viene chiamato “silver maple”, cioè acero d’argento) che in autunno assumono un bel colore giallo; i rami sono facilmente danneggiabili con neve pesante e venti forti. Nonostante il nome della specie, l’acero argentato non produce zucchero, che si ottiene invece dall’Acer saccharum ed è utilizzato per la produzione dello sciroppo d’acero in Nord America. Introdotto come specie ornamentale nella prima metà del Settecento, ha conquistato parchi e giardini, prestandosi anche per le alberature stradali. 7. ALBERO DEI FAZZOLETTI *Fam. Davidiaceae Davidia involucrata Baill. Questo grazioso albero caducifoglio è originario della Cina dove raggiunge i 18 m di altezza, con chioma rotonda e uno spesso tronco. Le foglie sono larghe, di consistenza morbida, con margini dentati e con nervature evidenti; i fiori sono provvisti di 2 grossi petali bianchi, da cui il nome, seguiti da frutti simili a susine lunghi 3 cm. 8. ALBERO DI S. ANDREA *Fam. Ebenaceae Diospyros lotus L. Albero caducifoglio originario della Cina, alto sino a 12 m, con foglie verde scuro lucide, piccoli fiori (maschili e femminili portati su piante diverse) e frutti tondeggianti di 1-2 cm nelle piante selvatiche, dapprima gialli e infine porporini. Piante dello stesso genere sono il caco (Diospyros kaki) e l’ebano (Diospyrus ebenum). 9. CARPINO BIANCO *Fam. Betulaceae Carpinus betulus L. Albero alto 15-20 m, non particolarmente longevo in natura (150-200 anni). Ha fusto a sezione irregolare per la presenza di costolature e corteccia grigia e liscia molto simile a quella del faggio, foglie che in inverno rimangono a lungo secche sulla pianta; sopporta bene le potature e può essere sagomato a piramide, a colonna, a pergolato come nei Giardini Estensi. Architetture vegetali tipicamente in carpino erano i roccoli settecenteschi per l’uccellagione. È distribuito in tutta l’Europa centrale; in Italia è presente su tutto l’arco alpino, in Liguria, Emilia e Toscana e meno frequentemente nell’Appennino meridionale. Insieme alla farnia (Quercus robur) costituiva la specie tipica del bosco planiziale della pianura padana. Carpino viene dal latino carpinus, derivato a sua volta dal celtico car , legno, e pin o pen, testa, perché il carpino serviva un tempo a fare i gioghi per animali da lavoro. Una delle poche leggende legate al carpino è la seguente: Astolfo, re dei Longobardi, era solito andare a caccia con il suo fedele falcone. Un giorno lo lanciò, ma dopo poco l’animale scomparve in un fitto bosco. Lo cercò in ogni luogo, ma senza successo. Decise, allora, di fare un voto: se lo avesse ritrovato avrebbe fondato una città e una chiesa dedicata alla Madonna. Dopo numerose ricerche lo vide appollaiato sul ramo di un albero di carpino. In quel luogo fu fondata la emiliana Carpi e fu eretta una chiesa alla Madonna. Tipiche architetture vegetali composte di carpino sono i “berceaux” o “carpineti” tipici dei giardini alla francese ove erano destinati a piacevoli passeggiate al riparo dal sole: l’abbronzatura avrebbe, infatti, compromesso il ricercato colorito madreperlaceo tipico della nobiltà settecentesca. I camminamenti ombrosi che da Palazzo Estense salgono alla collina modellata da 400 operai denominata “Castellazzo” o “Belvedere” furono disegnati dallo stesso Duca Francesco III D’Este nel 1770 che vi impiegò circa 4000 piantine di carpino bianco. Il mantenimento in sagoma del carpineto richiede potatura annuale e sostituzioni periodiche degli alberi che via via muoiono, spossati dalla mano dell’uomo. Altra celeberrima architettura vegetale composta dal carpino bianco è il roccolo per l’uccellagione, architetture da aucupio. L’origine dei roccoli pare sia da circoscrivere al territorio della Lombardia, durante l’epidemia di peste diffusa nel corso del XVI secolo per catturare con grandi reti stormi di uccelli migratori, per lenire la carestia divampante. Il ‘roccolo’ avrebbe dunque avuto origine nel bergamasco (vedasi la tradizione culinaria popolare: polenta e osei), per poi diffondersi gradualmente, nei secoli successivi, in tutto il nord Italia; furono gli uccellatori bresciani a promuoverne la diffusione in Trentino e da lì, fino all’area meridionale tedesca. Il ‘roccolo’ è fondamentalmente composto da due elementi: un’alberatura generalmente a forma circolare o a ferro di cavallo (tondo), vario ed accogliente per le diverse specie di volatili costituito generalmente da un doppio filare di carpino bianco (altrove faggio, larice) resistente alle necessarie, numerose potature e con fogliame mantenuto anche in autunno/inverno; ed una costruzione a forma di torretta (casello) in posizione preferibilmente elevata in funzione delle linee di migrazione o delle aree di sosta dei volatili e per individuare per tempo l’arrivo degli stormi. 10. CIPRESSO DEL KASHMIR *Fam. Cupressaceae Cupressus cashmeriana Royle ex Carr. Albero originario del Kashmir, è di aspetto molto attraente grazie al fogliame verde glauco piangente; le foglie inoltre sono molto aromatiche. Esige clima temperato e umido e cresce abbastanza velocemente nei primi 15 anni, ma successivamente può essere facilmente danneggiato dal vento e addirittura morire per temperature troppo alte o per siccità. 11. CORBEZZOLO *Fam. Ericaceae Arbutus unedo L. Arbusto o piccolo alberetto di origine mediterranea, ha foglie sempreverdi di color verde brillante; i fiori, riuniti in grappoli penduli, bianco-rosati, compaiono in autunno, contrastando con i rossi e tondi frutti dell’anno precedente. Il bell’esemplare presente nel parco Mantegazza, eccezionale per le dimensioni, ha un’età superiore ai 100 anni. L’origine del nome generico, dovuto probabilmente al sapore aspro del frutto e delle foglie, ha radici antiche da ricercarsi nel celtico ar (aspro) e butus (cespuglio). Inoltre l’origine del nome specifico “unedo” deriva da Plinio il Vecchio che, in contrasto con l’apprezzamento che generalmente riscuote il sapore del frutto, sosteneva che esso fosse insipido e che quindi, dopo averne mangiato uno (unum = uno ed edo = mangio) non veniva voglia di mangiarne più. Dal nome greco del corbezzolo (κόμαρος - Kòmaros) deriva il nome del Monte Cònero, promontorio sulle cui pendici settentrionali sorge la città di Ancona, la cui vegetazione è ricca di piante di corbezzolo. 12. CORNIOLO DELL’ASIA *Fam. Cornaceae Cornus kousa Buerg. ex Hance Arbusto o piccolo albero caducifoglio alto sino a 6-7 m, proveniente da Giappone, Corea e Cina centrale e occidentale; ha foglie opposte con apice appuntito e nervature evidenti; fiorisce in giugno-luglio con capolini di piccoli fiori circondati da 4 brattee, bianco puro, appuntite. 13. CORNIOLO DA FIORE *Fam. Cornaceae Cornus florida L. Questo arbusto, alto fino a 3-4 m, proviene dalle regioni orientali del nord America; viene coltivato per la bella fioritura in maggio, costituita da capolini di piccoli fiori circondati da 4 brattee bianche o rosa, seguiti da bacche rosse in autunno, quando le foglie assumono colorazione rosso scarlatta. FAGGIO *Fam. Fagaceae Fagus sylvatica L. Albero che raggiunge i 30-35 m di altezza con diametro anche superiore a 1,5 m; normalmente può vivere sino a 150 anni di età, ma in circostanze particolarmente favorevoli può raggiungere anche 300 anni. La pianta si riconosce facilmente per la corteccia grigia e liscia, le foglie ovali dal margine intero e leggermente ondulato di colore verde scuro a maturità e rossastre in autunno; i frutti, detti faggiole, a maturità si aprono in 4 valve liberando 2 semi. Il faggio è una delle specie più importanti in Italia sia per l’estensione dei suoi boschi sia per l’uso del legno nell’industria del mobile, nonché per la sua bellezza ornamentale; è specie esclusiva dell’emisfero settentrionale ed è presente in tutta Europa, dalla Spagna all’Ucraina, fino alla Norvegia meridionale. Un tempo si utilizzava la corteccia del faggio, febbrifuga e tonica, anche contro la dissenteria. Il catrame del suo legno, distillato a secco, il creosoto, potente antisettico scoperto nel 1832 da Reichenbach, viene usato dall’industria farmaceutica come disinfettante dei polmoni nella composizione di molti sciroppi. La varietà Asplenifolia, ornamentale, si caratterizza per le foglie a margine molto inciso e lamina stretta; il faggio pendulo, a differenza delle altre varietà, che si distinguono per il colore e la forma delle foglie, si caratterizza per il portamento del fusto e dei rami, eretto fino a una certa altezza e poi piangente; il faggio rosso ha foglie di colore porpora al momento dell’emissione e violetto scuro a maturità. Nell’antica Roma l’esistenza di un quartiere chiamato Fagutal, che ancora prima era stato un bosco sacro di faggi (secolo I a. C.), fa pensare che in epoche remote il faggio fosse oggetto di culto. Così, anche cento anni più tardi, all’epoca di Plinio, di fianco ad un faggio sacro si trovava un tempio dedicato a Jupiter Fagutalis (dal latino fagus). In Lorena e nelle Ardenne lussemburghesi si credeva che non ci fosse folgore che potesse colpire questo albero, cosa che lo metteva in contrapposizione con la quercia e il frassino. In un settore geograficamente limitato che comprende la Francia orientale, la Svizzera e la Baviera, la naturale apparizione di esemplari dalle foglie porporine destava l’emozione popolare; si credeva fosse un segno di deplorazione divina per l’annuncio di feroci battaglie o per il sangue versato di un delitto. Ancora oggi, nella foresta di Verzy, in Francia, si possono ammirare dei vecchissimi esemplari di faggio i cui tronchi e i rami più bassi formano un ammasso confuso di linee contorte e ritorte, malformazioni dovute ad una presunta mutazione provocata dalla caduta di un meteorite radioattivo, avvenuto moltissimo tempo fa. A Terranova di Pollino, in Lucania, nel mese di giugno si svolge la festa della Pita, rito arboreo piuttosto antico celebrato in onore di Sant’Antonio da Padova. Nonostante Pita, nel dialetto locale, designi il nome dell’abete, spesso è il faggio a fare da protagonista. Si tratta della rappresentazione rituale dell’unione tra due piante, una di sesso maschile (solitamente un abete o un faggio), l’altra di sesso femminile (una “cima” generalmente sempreverde). Entrambe vengono tagliate e, mentre la “sposa” viene doverosamente ornata con fiori e nastri, il faggio “sposo”, viene pulito dai rami, dalla corteccia e levigato. Il faggio e la cima vengono poi innestati, a sigillare il loro “rudimentale” matrimonio, simbolo arcaico di rigenerazione della natura, auspicio di fertilità. In seguito vengono innalzati e i più coraggiosi, a suon di braccia, si dilettano nell’arduo tentativo di raggiungere la cima. I faggi che troviamo nei giardini ottocenteschi (“romantici”, “all’Inglese”) sono spesso delle varianti della specie selvatica (morfotipi selezionati e riprodotti a scopo ornamentale), ricercate dalle famiglie facoltose proprio per la loro diversità rispetto alla forma rurale: così s’incontrano i faggi a foglia di felce (F.s. “Asplenifolia”); a foglie profondamente e regolarmente dentate (F.s. “laciniata” o “heterophylla”); a foglie rosse (F.s. “Purpurea”); tricolori (F.s.”Tricolor”); gialle dorate (F.s. “Zlatia”); a ramificazione pendula-piangente (F.s. “Pendula”) o addirittura colonnare (F.s. “Dawyck”); nana e prostrata (F.s. “Cochleata”); a corteccia rugosa (F.s. var. “Quercoides”). Purtroppo, negli ultimi 15 anni, decine di faggi, amanti del clima oceanico, intristiscono con vistose microfillie, colpiti spesso da cancri (lesioni) alla fragile corteccia devitalizzata dal sole cocente del 2003 e del 2005 che li ha predisposti ad attacchi di parassiti secondari altrimenti confinati (carie del legno, marciumi radicali, cancri rameali etc.). “Le temperature registrate in Giugno e in Agosto sono RECORD. Anche Luglio è stato molto caldo, ma ci sono stati anni con temperature più alte. Record anche i 35° di giugno e 36° di Agosto. Nel complesso l’Estate 2003 è stata la più calda dal 1965 grazie alle temperature dei mesi di Giugno e di Agosto – Le precipitazioni totali dell’Estate hanno raggiunto i 285.7 mm - contro una media estiva in 37 anni di 415,2 lt/mq - tra le più secche dal 1965” con un deficit di 129,5 lt/mq” come da dati in possesso del Centro Geofisico Prealpino. La ancor peggiore siccità del 2005 con maggio di oltre 2 gradi più caldo della media e un deficit di acqua mensile di – 98,8 lt/mq quando la vegetazione era in pieno sviluppo; tra giugno e agosto il deficit idrico, rispetto ai dati registrati dal 1965, è di 171,7 lt/mq. Si ricorda che ad agosto 2005 vi fu l’abbassamento eccezionale del livello del lago di Varese pari a – 1,5 m dallo zero idrometrico che fece seccare molti secolari carpini bianchi sull’Isolino Virginia. Le siccità estive 2003-2005, alle quali si aggiunge il calore estremo di luglio 2015, sono state terribili anche per l’anziano patrimonio botanico varesino: le conseguenze sono state immediate ma si notano ancora a distanza di anni, come è normale avvenga con gli alberi: A subirne maggiormente gli effetti i soggetti anziani, patriarchi, radicati nei centri urbani, affetti da malattie croniche, vulnerabili agli effetti delle alte temperature e delle ondate di calore in funzione della «suscettibilità» individuale (stato di salute, caratteristiche ambientali), della capacità di adattamento e del livello di esposizione (intensità e durata)”. Come per l’uomo. In tutta la città di Varese, invero, è evidente che vi siano vistosi e documentabili segni di deperimento a carico di alcune specie che denotano un precoce invecchiamento multifattoriale non escluso il termine della loro vitalità e vigoria in un ambiente estraneo da migliaia di anni se non da qualche milione di anni alla zona d’origine. 14. FAGGIO ROSSO *Fam. Fagaceae Fagus sylvatica L. f. purpurea (Ait.) Schneid. Il faggio cultivar “Purpurea” ha foglie di colore porpora al momento dell’emissione e violetto scuro a maturità. Si rinvia a quanto detto per il faggio a foglia di felce per quanto riguarda i Giardini Estensi. Al parco Toeplitz un patriarca è in fase di sostituzione dopo una lenta agonia le cui ragioni sono indicate nella parte generale riguardante la specie. Miglior stato di salute mostrano due monumentali faggi rossi, uno nei pressi del Castello Mantegazza e l’altro a monte della Villa Baragiola. Discreto lo stato fitosanitario di tre esemplari del parco Augusta, perduti per sempre altri due soggetti dopo il fortunale del 13 luglio 2011 che s’abbattè su Giubiano, prontamente sostituiti con giovani piante. 15. FICO *Fam. Moraceae Ficus carica L. Albero che può raggiungere gli 8 m di altezza, con tronco robusto e corteccia liscia grigiastra; rami deboli con gemme terminali di forma appuntita, portanti grandi foglie tripentalobate, rugose. La specie è presente in due forme botaniche, che possono essere definite semplicisticamente come piante maschio e piante femmina. La prima, chiamata anche caprifico, produce polline con frutti non commestibili, mentre la seconda produce semi contenuti nei frutti commestibili. Originario dell’Asia occidentale è stato introdotto da tempo immemorabile nell’area mediterranea. In Italia è presente soprattutto in Puglia, Campania e Calabria. Albero di grande importanza per la religione cristiana, potrebbe essere il famoso albero della conoscenza del Bene e del Male che fu occasione del peccato originale, non a caso il primo indumento dell’uomo caduto è la sua foglia: “Allora gli occhi di ambedue si aprirono e conobbero di essere nudi e intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”. Non soltanto presso gli Ebrei, ma in tutto l’Oriente, il fico era l’icona della scienza religiosa, rappresentando il dono racchiuso nel cuore dell’uomo come il fiore all’interno del frutto. Tuttavia nell’antichità assunse spesso un significato osceno, mai perduto del tutto; considerato sovente albero impuro ed inquietante in Grecia apparteneva a Dioniso, ma ancor più a Priapo, dio lubrico della fecondità, mentre a Roma era un albero oracolare consacrato al dio Marte, il più romano degli dèi, considerato il vero fondatore dell’Urbe, poiché si riteneva che avesse originato Romolo e Remo. Frutto dai richiami erotici per gli antichi Greci, stranamente ficus ha generato in varie lingue neolatine “fegato”, passando dal latino ficatum, in origine il fegato d’oca. I Greci ingozzavano di fichi le oche per ingrassarle, ottenendo così l’ingrossamento del fegato. Per gli antichi il fegato era da una parte sede delle passioni (in particolare ira e violenza), dall’altra un organo ricolmo di un umore amaro, la bile, che ricorda proprio il latte aspro contenuto nel fico prima della maturazione. Viene quasi spontaneo notare un’allusione allo scroto, attributo maschile per eccellenza e sorgente di un umore ricolmo di seme, responsabile quanto il fegato delle passioni e della violenza maschili. In greco la parola sicofante era ingiuriosa e deriva proprio dal fico. I sicofanti svolgevano un’attività sacrilega, rivelando in pubblico segreti che sarebbero dovuti essere taciuti e sostenendo accuse anche false. Nell’uso comune è, non a caso, adoperato nel senso di “calunniatore”. Secondo i grecisti, in origine il termine designava il denunciatore di quelli che esportavano fichi di contrabbando, o di quelli che rubavano fichi dagli alberi sacri. Inoltre, in Grecia, in certi culti agrari primitivi esisteva la rivelazione del fico, che consisteva probabilmente in un culto di iniziazione ai segreti della fecondità. 16. GELSI *Fam. Moraceae Gen. Morus L. Soprannominato l’albero più saggio per la sua particolarità nel ritardare la schiusa delle gemme, aspettando la fine del freddo, viene citato da Ovidio nella storia di Piramo e Tisbe. Questi erano due giovani innamorati che, per via di un fraintendimento, andarono incontro ad una triste sorte. A causa dell’opposizione delle famiglie, un giorno si diedero appuntamento a una fonte, sotto un gelso fecondo di bianca frutta. Arrivata per prima, Tisbe scorse una leonessa venuta ad abbeverarsi e, colta dallo spavento, fuggì lasciando cadere il suo velo; con le fauci sporche del sangue di una preda, la leonessa lo lacerò. Piramo, giunto dopo l’accaduto, trovando il velo squarciato e insanguinato credette che Tisbe fosse morta e, disperato, si affondò la spada nel cuore il cui sangue tinse di rosso i frutti del gelso. Tornata sui suoi passi, Tisbe scorse il corpo senza vita dell’amato e, decisa a ritrovarlo nella morte, chiese al gelso di serbare le macchie del loro sangue e con esso renderne scuri i frutti, in segno di lutto. La mora, moron, era considerata funesta, infatti in Grecia il suo nome era contiguo a moros, sventura. Varese elenca personaggi illustri legati alla coltivazione del gelso, della vite e alla bachicoltura: la famiglia Torelli e in seguito il cav. Carlo Giorgio Mylius, industriale della tessitura, residenti color porpora scuro. Pianta molto simile al gelso nero, dal quale si distingue per i rami giovani glabri, per le foglie lucide sulla pagina superiore e scarsamente pubescenti su quella inferiore, e per il colore dei frutti. GELSO NERO *Fam. Moraceae Morus nigra L. Il gelso nero ha origini incerte, coltivato da tempo immemorabile in Europa soprattutto per i frutti, ma sembra possa provenire dalla Cina; raggiunge dimensioni inferiori al gelso bianco (intorno ai 10 m); ha grandi foglie decidue cuoriformi, dentate, vellutate sulla pagina inferiore, di colore verde scuro; i fiori hanno dimensioni insignificanti, di colore verdastro, e sono seguiti da frutti talmente impacchettati insieme da sembrare un unico frutto simile a una mora, di colore rosso scuro, di sapore acidulo, dolce quando completamente maturi. 17. GINKGO nell’omonino parco dei Miogni; Vincenzo Dandolo e Giacomo Foscarini, operanti agli inizi dell’Ottocento; Cristoforo Bellotti jr (18231919), una dei proprietari della Villa BellottiBaroggi-Bonetti; Carlo Pellegrini Robbioni, proprietario dei Giardini Estensi, dopo la morte del duca Francesco III d’Este; Silvestro Sanvito e Andrea Ponti proprietario della villa dell’Arch. Balzaretto, sede attuale della CCIAA di Varese a Biumo Superiore. GELSO BIANCO o GELSO COMUNE *Fam. Moraceae Morus alba L. Albero a foglie caduche originario della Cina, ma da molto tempo coltivato in altre regioni orientali e nell’Europa meridionale come pianta le cui foglie costituiscono il nutrimento per i bachi da seta. Alto fino a circa 13 m. I fiori si presentano in infiorescenze separate: quelle maschili sono più lunghe delle femminili, le quali misurano circa 1,2 cm. Le infruttescenze, dette sorosii, sono composte da numerose piccole drupe e sono lunghe 1,2-2,5 cm, in generale di colore bianco o rosato, talvolta *Fam. Ginkgoaceae Ginkgo biloba L. Questa specie caducifoglia, unica rappresentante della sua famiglia, è originaria della Cina, dove veniva coltivata nei giardini dei templi perché considerata albero sacro, simbolo di immortalità, ed è grazie a ciò che ha potuto arrivare fino ai giorni nostri. Il botanico tedesco Engelbert Kaempfer (1651-1716) descrisse per la prima volta la specie. Si tratta di un albero antichissimo e primitivo, vivente già almeno 200 milioni di anni fa, epoca a cui risalgono i fossili ritrovati in giacimenti di carbone. Raggiunse l’apogeo di diffusione sul globo nel Giurassico e nel Cretaceo, ovvero da 200 a 65 milioni di anni fa. Il nome del genere Ginkgo pare derivi dal cinese yin kuo che significa “albicocca d’argento”. Altro nome scientifico è Salisburia adiantifolia (Smith): il genere in onore del botanico inglese R. A. Salisbury, il nome della specie ad indicare la somiglianza delle foglie con quelle del capelvenere (Adiantum capillus-veneris). Fu introdotta in Olanda intorno al 1730 ed il primo esemplare in Italia, pare, presso l’Orto Botanico di Padova; qui viene coltivata a scopo ornamentale: può raggiungere i 30 m di altezza e anche i 6 m di diametro, le foglie hanno tipica forma di ventaglio; si tratta di una specie con individui maschili e femminili; i frutti sono costituiti da un involucro carnoso, di odore molto sgradevole a maturità. Le foglie di ginkgo contengono numerose sostanze (terpeni, polifenoli, flavonoidi) utilizzate in medicina e in cosmetica. Sei esemplari di Ginkgo, ancora esistenti, sono sopravvissuti alle radiazioni prodotte dalla bomba atomica caduta sulla città di Hiroshima; questa pianta è inoltre il simbolo della città di Tokyo. Si presta ad un utilizzo in città perché tollera bene l’inquinamento, non manifesta debolezza nei confronti di patologie fungine e parassiti animali, sopporta bene la siccità e temperature invernali fino a -35°C. In Giappone i semi vengono arrostiti e mangiati come rimedio agli effetti di abbondanti libagioni. L’esemplare dei Giardini Estensi fu messo a dimora dal proprietario di allora Cesare Veratti, ovvero fra il 1850 ed il 1882. L’esemplare del Parco Mirabello è stato verosimilmente piantato fra il 1865 ed il 1875 ad opera di Gaetano Taccioli. 18. IPPOCASTANO *Fam. Hippocastanaceae Aesculus hippocastanum L. L’ippocastano nasce spontaneamente nel nord della Grecia, in Macedonia, Albania e Bulgaria. Viene chiamato anche “marrone d’India” per una sua supposta, ma errata, origine più orientale. È un albero imponente, capace di giungere oltre i 35 metri di altezza ed i 5 metri di circonferenza del tronco. Fu portato in Europa dai Bizantini: si iniziò la coltivazione nei giardini imperiali di Vienna nel 1576, quando ne furono inviati i semi da Costantinopoli da parte dell’Ambasciatore del Sacro Romano Impero, Von Ungnad. A Parigi il primo ippocastano fu portato dal botanico Bachelier che lo impiantò nel 1615. Successive sono quindi le introduzioni a Versailles e presso i Giardini del Lussemburgo di Maria de’ Medici, oggi sede del Senato francese. I primi esemplari italiani furono coltivati nell’Orto botanico di Padova già dal 1557. Il botanico naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605) chiamò la specie “Castanea equina” quando la vide nel giardino mediceo di Pratolino. Il richiamo al cavallo è duplice: la cicatrice fogliare somiglia ad uno zoccolo di cavallo; ai cavalli con malattie polmonari, febbricitanti, veniva fornito sollievo con la farina delle “castagne matte” non commestibili, ovvero il seme dell’ippocastano (il frutto è la capsula verde-marrone, spinosa e globosa che lo avvolge). I lunghi fiori in pannocchie di 20-30 cm sono bisessuali, ricordano dei candelabri. Dapprincipio i petali bianchi presentano delle macchie gialle per attirare le api e altri imenotteri; con l’esaurimento del nettare i petali assumono colore arancione e poi rosso, colore non più percepibile dagli insetti. Il seme amaro e non commestibile per l’uomo è stato utilizzato per l’alimentazione del bestiame. L’alto contenuto in saponina naturale ne ha permesso l’utilizzo per lavare la biancheria. Alla fine del XIX secolo i medici scoprirono la efficace azione della “castagna equina” nei disturbi di origine venosa, in generale come rimedio delle malattie dovute ad una circolazione difettosa. I guaritori raccomandavano di tenere in tasca un marrone dell’ippocastano per i medesimi motivi. Il legno dell’ippocastano è fragile (il peggior comportamento alla resistenza alla compressione longitudinale in campioni di legno verde pari a ca. 1,4 q.li/cmq contro i 2,8 e i 2,7 q.li/cmq della rovere e del platano), dal comportamento poco elastico prima della rottura, poco durevole. La specie è geneticamente poco incline a riparare le ferite inferte al tronco e alla chioma, ferite che diventano vie di colonizzazione di funghi da carie capaci di mangiare i tessuti legnosi e minando, in tal modo, la stabilità meccanica dell’intero albero. Per tali difetti, nel tempo, i filari ottocenteschi sono stati sostituiti da alberate composte dai più addomesticabili e resistenti tigli e platani. I più grossi esemplari del Parco Mirabello sono stati impiantati dopo la costruzione delle scuderie (ex Liceo Musicale, oggi sede di Varese Corsi), ovvero dopo il 1839, più verosimilmente fra il 1865 ed il 1875 ad opera di Gaetano Taccioli. 19. LARICE *Fam. Pinaceae Larix decidua Mill. Albero alto fino a 40 m con tronco cilindrico leggermente ricurvo e chioma aperta e rada. Le foglie aghiformi sono distribuite a spirale in fascetti di 20-40 aghi, di 2-4 cm ciascuno. In condizioni ottimali vive tra i 1000 e i 2500 metri di quota in climi freddi e continentali; si tratta dell’unica conifera europea decidua, con aghi verde chiaro che in autunno diventano giallo-oro. Fin dall’antichità il legno di larice era noto per la durezza e la robustezza, tanto che i Romani lo utilizzavano per costruire imbarcazioni. Importante per le popolazioni alpine, probabilmente un tempo fu oggetto di culto, in analogia ai rituali arborei che ancora nel secolo scorso mantenevano gli Ostiaci siberiani con il larice siberiano che vegeta spontaneamente nel nord della Russia. Pare che questi possedessero un luogo sacro, costituito da un gruppo di sette larici, e chiunque l’attraversasse doveva deporvi una freccia, mentre ai rami venivano appese pellicce preziose in grandi quantità. Questa popolazione siberiana considerava il larice albero cosmico, lungo il quale scendevano il Sole e la Luna sotto forma di uccelli d’oro e d’argento. credeva che fosse oracolare, così nell’Aventino si estendeva un bosco di lecci, presunta dimora di una ninfa, Egeria, la soprannaturale consigliera in scienze sacre del re Numa. Un leccio molto antico, antecedente alla fondazione della città di Roma, si innalzava sul monte Vaticano, detto anche la collina degli indovini; portava un’iscrizione etrusca in bronzo secondo la quale la pianta era stata oggetto di un culto religioso da parte dei predecessori dei Romani. Tre querce ancora più antiche erano venerate a Tivoli, presso le quali venne consacrato re l’eroe Tiburnus, fondatore della città. Albero oggetto di venerazione, assunse nel tempo un carattere funesto. In Acarnania, regione storica della Grecia occidentale, e nelle isole Ionie si narrava che, quando a Gerusalemme fu deciso di crocifiggere Cristo, tutti gli alberi rifiutarono di donare il loro legno per lo strumento del sacrilego supplizio, ma tra questi vi era un Giuda. Quando fu il momento di tagliare la croce, tutti i tronchi andarono in mille pezzi tranne la quercia leccio, che rimase in piedi lasciando che il suo tronco diventasse lo strumento della Passione. 20. LECCIO o ELCE 21. NOCCIOLO *Fam. Fagaceae Quercus ilex L. Albero sempreverde che può raggiungere i 25 m di altezza e 1 m di diametro, ma più spesso lo si trova come piccolo albero; è però assai longevo, potendo vivere oltre i 500 anni. Le foglie sono spesse e coriacee, di colore verde lucente sulla pagina superiore, bianco tomentose su quella inferiore; sulle piante giovani le foglie sono spesso dentate al margine, su quelle adulte sono a contorno per lo più intero. Il suo areale gravita intorno al bacino del Mediterraneo, in cui è la specie principale e più rappresentativa della macchia mediterranea, ma piccoli nuclei spontanei isolati si possono trovare in Val Padana, fra cui le coste dei laghi insubrici. In Arcadia, regione storica della Grecia meridionale, la quercia leccio era dedicata a Pan; divinità della natura selvaggia, il cui nome significa “tutto”, era ritenuto figlio di Driope, nome che viene da drus, la quercia, la quale probabilmente era una ninfa del leccio. In tempi remoti si *Fam. Betulaceae Corylus avellana L. Il suo nome scientifico deriva dal greco Kerys (= casco), dalla cupola che ricopre il frutto, e da Abella (= Avellino, dove il nocciolo è stato coltivato fin dall’antichità). Arbusto deciduo, alto fino a 4-7 m, con elevata capacità pollonifera, ramificato sin dalla base, raggiunge i 60-70 anni di età. Le foglie hanno margini grossolanamente dentati; i fiori compaiono in pieno inverno: quelli maschili sono portati in lunghi amenti gialli penduli, mentre quelli femminili sono costituiti da una gemma globosa da cui fuoriescono corti stimmi rossi. Allo stato spontaneo è pianta comunissima in tutti i boschi cedui, diffuso dalla pianura alle montagne; il suo areale comprende quasi tutta l’Europa, arrivando fino all’Asia Minore e all’Algeria. Estesamente coltivato in Campania, Sicilia e Piemonte. Albero sacro per i Celti, il suo frutto, la nocciola, era simbolo della saggezza interiore; così si diceva che mangiare nocciole procurasse la conoscenza delle arti e delle scienze segrete. I druidi e i bardi usavano, come supporto d’ispirazione, delle tavolette divinatorie in legno di nocciolo ove vi incidevano gli ogam, le lettere magiche. Il rametto biforcuto di nocciolo, usato dai rabdomanti ancora oggi, è da sempre servito come bacchetta magica: non consentiva solo di scoprire l’acqua, i minerali e i tesori nascosti sotto terra, ma anche i criminali e i ladri e chi l’adoperava aveva la facoltà di divenire invisibile. 22. OLIVO *Fam. Oleaceae Olea europaea L. Pianta sempreverde, assai longeva, può facilmente raggiungere alcune centinaia d’anni. Il tronco è contorto, la corteccia, grigia e liscia, tende a sgretolarsi con l’età. La chioma, che assume senza intervento antropico la forma tipicamente conica, ha foglie lanceolate, coriacee, disposte in verticilli ortogonali tra di loro, di colore verde glauco e glabre sulla pagina superiore, mentre presentano peli stellati su quella inferiore che le conferiscono il tipico colore argentato e la preservano dall’eccessiva traspirazione durante le calde estati mediterranee. I fiori ermafroditi, piccoli, bianchi e privi di profumo sono raggruppati in infiorescenze dette mignole di 10-15 fiori ciascuna. Il frutto è una drupa ovale che può pesare da 2-3 gr per le cultivar da olio, fino a 4-5 gr nelle cultivar da tavola. L’esocarpo (la buccia) varia il suo colore dal verde al violaceo; il mesocarpo (la polpa) è carnoso e contiene il 25-30% di olio, raccolto all’interno delle sue cellule, sotto forma di piccole goccioline (è l’unico frutto da cui si estrae un olio); il seme è contenuto in un endocarpo legnoso, anch’esso ovoidale, ruvido e di colore marrone. Sebbene sia considerata una pianta prettamente mediterranea, grazie alla sua capacità di ambientarsi molto bene nel bacino mediterraneo (comprendente Italia, sud della Spagna e della Francia, Grecia e alcuni Paesi mediorientali che si affacciano sul Mediterraneo orientale) si ritiene sia di origine sud caucasica (12.000 a.C.). Nonostante sembri inseparabile dal paesaggio greco, l’olivo ha il suo habitat originario nell’Asia Minore dove forma vere e proprie foreste che, partendo dall’Arabia meridionale, risalgono passando dalla penisola del Sinai, dalla Palestina, la Siria e la costa meridionale della Turchia, fino ai piedi del Caucaso. Non sorprende perciò trovarne una prima menzione nei capitoli della Genesi in cui è narrato il Diluvio, dove si racconta di una colomba che portò a Noè un ramoscello d’olivo a simboleggiare il rinverdimento della vegetazione e la cessazione dello sdegno di Dio. Fin dalle origini, dunque, l’olivo fu considerato uno dei doni più preziosi di Jahvé, il simbolo dell’alleanza con gli uomini. L’olio d’oliva fungeva quindi da consacrazione, così l’inviato di Dio veniva chiamato il Messia, in ebraico Maschiak, l’Unto del Signore, tradotto in greco con Kristos, colui che ha ricevuto l’unzione dell’olio. Albero cosmico per eccellenza nell’Islam, centro e pilastro del mondo, rappresenta l’Uomo universale, il Profeta. Viene considerato soprattutto fonte della luce grazie all’olio che si produce attraverso la spremitura dei suoi frutti. È anche definito l’asse immobile del mondo creato, poiché si ritiene che non sia in rapporto con la rotazione della Terra. Rappresenta inoltre un segno di alleanza attraverso Abramo, il padre dei fedeli e antenato comune di Ebrei, Cristiani e Musulmani. Così, salire nell’ulivo sacro significa rientrare nel “seno di Abramo”, ritornare alla fonte. L’olio veniva adoperato dai greci per i più disparati motivi: grandi quantitativi erano utilizzati per l’illuminazione, se ne faceva utilizzo nella cura del corpo, nella medicina e nella magia, veniva adoperato durante la preparazione delle salme e addirittura se ne ungevano le statue. I rami dell’olivo selvatico coronavano i vincitori dei Giochi Olimpici e potevano essere tagliati solo mediante un falcetto d’oro, da un giovinetto di nobili natali, i cui genitori fossero ancora vivi. Pare che questa usanza sia entrata in uso a partire dalla settima Olimpiade, in seguito a un ordine dato dall’oracolo di Delfi, mentre in precedenza si usavano rami di melo in frutto a simboleggiare una promessa d’immortalità. I PINI *Fam. Pinaceae Gen. Pinus L. Alberi indizio di morte, perché una volta tagliati non ributtano mai più, ma anche promessa di immortalità grazie all’estrema resistenza che permette loro di prosperare negli ambienti meno favorevoli, rappresentano il vigore e la permanenza della vita vegetativa. Oltre alla pianta stessa, nell’antichità anche la pigna assumeva più significati: chiusa rappresentava l’emblema della castità, mentre aperta indicava l’esaltazione della potenza vitale e la glorificazione dell’invincibile fecondità. Per gli antichi il pino era un albero divino, se non addirittura un dio. Attis, il pino sacro (in specifico il pino da pinoli o parasole), moriva e resuscitava sacrificando sé stesso. Se la pigna evocava di per sé il fallo in erezione, quella del pino da pinoli, che era di gran lunga la più suggestiva per via del caratteristico colore rossastro e lucido, raffigurava l’organo che il dio si recideva da sé. Questo sacrificio corrispondeva soprattutto al salasso dell’albero, ovvero alla raccolta della resina definita resinatura a morte, operazione che veniva praticata nel periodo in cui si celebravano le feste di Attis. Durante queste celebrazioni il sommo sacerdote si incideva il braccio e presentava il suo sangue come offerta, mentre gli altri sacerdoti si scatenavano in danze sfrenate, flagellandosi fino a sanguinare, lacerandosi con coltelli. Alcuni neofiti, al colmo dell’eccitazione, si amputavano l’organo virile e lo lanciavano come oblazione alla statua di Cibele, dea asiatica e madre degli déi in Frigia che i Romani assimilarono a Rea. Quei ricettacoli di fecondità venivano in seguito rispettosamente avvolti e sotterrati o posti in camere sotterranee dedicate alla dea. Il rito rianimava il dio morto e con lui tutta la natura che germogliava nel sole primaverile. Nell’antica Grecia era l’albero favorito di Rea, la Terra Divinizzata, ma in seguito, in quanto emblema sessuale, fu messo in rapporto con Pan, il dio della sessualità selvaggia. È proprio per sfuggire alla lubricità di Pan che la ninfa Piti si mutò in pino nero, anche se un’altra leggenda vuole che la ninfa preferisse Pan a Borea, il vento del nord che, indispettito, si vendicò col suo soffio violento e la fece precipitare giù da raggiungono in 2 anni i 3-5 cm di lunghezza e i 2-3 di larghezza, contengono piccoli semi alati. Ha un areale molto vasto, in cui si distingue in varie razze dal portamento molto variabile, dall’Europa centrale e nordoccidentale all’Asia nordoccidentale, con nuclei disgiunti in Scozia, Germania occid., Spagna settentr.; in Italia si trova solo su Alpi e Prealpi, oltre ad alcune stazioni dell’Appennino ligure-emiliano. Sopporta bene il freddo e le forti escursioni termiche, ma anche l’aridità e le estati calde e lunghe. 24. SEQUOIA una scarpata. Fu Pan a scoprirla e a tramutarla immediatamente in un pino (o in un abete). Si dice che, quando in autunno soffia la Borea, la ninfa pianga: lo testimoniano le gocce di resina che lacrimano dalle pigne. 23. PINO SILVESTRE *Fam. Pinaceae Pinus sylvestris L. Si riconosce facilmente per la corteccia arancione o bruno rossastra, la chioma rada verde grigia, che nelle piante adulte tende a limitarsi alla parte superiore del fusto per potatura naturale. Può raggiungere 3540 m di altezza, e diametri max di 1 m, in montagna può vivere fino a 200 anni; gli aghi, a 2 a 2, sono corti (5-7 cm), ritorti, a sezione semicircolare, rigidi e brevemente appuntiti, di colore verde glauco; i fiori maschili, riuniti all’ascella delle foglie in gruppi compatti, sono di colore giallo, mentre quelli femminili sono rossi e in posizione terminale; i coni *Fam. Taxodiaceae Sequoia sempervirens (D. Don) Endl. L’albero più alto della terra, potendo raggiungere e superare i 100 m di altezza, la sequoia è originaria della California e dell’Oregon; gli aghi sono di 2 tipi: simili a scaglie e appressati quelli sui rametti dell’anno, appiattiti e portati orizzontalmente quelli sui rametti più vecchi, che sono leggermente penduli; i coni sono piccoli, dapprima verdi, a maturità legnosi e marroni, lunghi fino a 2 cm; la corteccia è spessa e fessurata, di colore rossastro, non a caso gli americani la chiamano “Redwood”. La pianta cresce velocemente nei primi anni di vita, richiedendo molta acqua e umidità, per rallentare in seguito. È specie longeva con esemplari che superano i 2000 anni; ha un areale che va dall’Oregon meridionale fino al di sotto della baia di Monterey in California, dal livello del mare fino a circa 900 m. È un areale distribuito lungo la cosiddetta “fog belt” (fascia delle nebbie, così chiamata per l’elevata frequenza di questo fenomeno meteorologico). L’esemplare più alto di questa specie si trova nell’Humboldt Redwoods State Park e raggiunge un’altezza di 111 m e un diametro di 6,30 m. 25. TASSO *Fam. Taxaceae Taxus baccata L. Arbusto o albero alto fino a 12-15 m, con diametri considerevoli negli esemplari molto vecchi; è specie a lenta crescita e molto longeva (può raggiungere anche 2000 anni); in Europa esistono individui di 1500 anni. Il tronco può essere indiviso o ramificato sin dalla base, la corteccia si desquama in piccole placche; le foglie sono lineari, flessibili, acute ma non pungenti. Le foglie e i semi del tasso sono altamente tossici, mentre la parte rossa del seme (arillo) dolce e gradevole è uno dei cibi preferiti dai piccoli passeriformi. Ha legno molto forte ed elastico che, anticamente, veniva utilizzato per la fabbricazione di archi. Sopporta bene le potature, per cui può essere foggiato in varie sagome. Il suo areale comprende Europa, Caucaso e Himalaya; proprio della fascia montana temperata, si mescola al faggio, all’agrifoglio e agli aceri. In natura è una specie protetta, anche se diviene più frequente sulla Majella, sul Gran Sasso, sul Gargano. Insieme all’agrifoglio, è una specie relitta del periodo terziario. Protettore dei defunti, veniva chiamato albero della morte, in quanto velenoso e si credeva che chi si fosse addormentato sotto i suoi rami sarebbe morto. Distrutto quasi dovunque non solo per utilizzarne il legno per la costruzione di armi, ma anche per la tossicità delle sue foglie, è sopravvissuto fino ai tempi moderni grazie alla protezione dei morti: è proprio il suo utilizzo nei cimiteri ad avergli permesso di attraversare i secoli. Dotato di una vita prodigiosa costituiva all’opposto una promessa di immortalità. Data la longevità di alcuni esemplari rinvenuti in Francia è molto probabile che il tasso sia stato anticamente oggetto di culti pagani, inoltre, essendo un albero sacro del druidismo, molti oggetti cultuali, compreso il bastone druidico, erano fatti di legno di tasso. Shakespeare lo cita sia nell’Amleto, in quanto pianta velenosa utilizzata per avvelenare il re, sia nel Macbeth, in cui le streghe inglesi utilizzavano le talee nel “calderone di Ecate”. È proprio alla dea degli Inferi che i Romani sacrificavano dei tori neri decorati con ghirlande di tasso per placare gli spiriti infernali. 26. TSUGA *Fam. Pinaceae Tsuga canadensis (L.) Carr. Proveniente dalle fredde regioni nordorientali del Nord America, questa conifera raggiunge i 25 m di altezza, con una chioma di forma piramidale e sottili rami penduli all’estremità; gli aghi sono lunghi 6-12 mm, di colore verde scuro con 2 bande grigiastre sulla pagina inferiore; i coni maschili sono piccoli, quelli femminili, lunghi sino a 2 cm, liberano in autunno i semi alati che vengono dispersi dal vento. Giuseppe Il parco Mantegazza e il Castello di Masnago si trovano in località Masnago, nella zona Nord-Ovest della città. el lo io cc ra M on t Ca Bolchini INFORMAZIONI TURISTICHE Via Via Vi a lo Via M G iu s ep pe tta s ie As a ni Vi pp oli Am en do la Via co Gio va nn i es Nie vo I c an Fr ta na ali Sc Cris pi Rie nz o o i Rienz ola D Via C Via Cola Di Rienzo F. ni r to Be Fr a nce sco te on Mo ng Ca Via ci Via P ie mon Ca n Via regg io ire o Via i ell at Fr Via Vela Vinc enz a Vi nze Via Vela Vinc e Via Can to Piazzale Staffora Via to r eg gio co aga Via te s ce Carn sco an Fr gio Via F nce o ol Via Ca nto reg Fra Via lfo gue Mon ac ar C lio pi a Vi Giu ga Piazzale rna a della Riana a C ll de a Vi Gio van ni Via P eg gio lo rlo Ca nto r co Vi a om Cris ue lfo em Pi a Vi Am Gio v la anni do en Vi a a Vi Via lli Di Ro nch e Co la to Piazza Ferrucci F. ar zo ra ti ch i Via Via Petracchi Francesco Bo l a Vi nzo Linee urbane Orari di apertura al pubblico Via Caracciolo: E primavera/estate 8.00 - 20.00 Via Crispi: P P.za M. 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