03 parco mantegazza e castello di masnago

200 ANNI
1816-2016
GUIDA AI PARCHI CITTADINI
03 PARCO MANTEGAZZA
E CASTELLO
DI MASNAGO
ASSESSORATO ALL’AMBIENTE E VERDE URBANO.
Area XI Attività Verde Pubblico
La presente collana è stata curata dai tecnici dell’Attività Verde Pubblico del Comune di Varese Dott.
For. Chiara Barolo, Arch. Lorenza Castelli, Dott. Agr. Ilaria Merico, Dott. For. Pietro Cardani.
Si ringrazia Silvia Motta per l’attività di ricerca bibliografica riguardante la mitologia degli alberi svolta
durante il periodo di servizio di leva civica regionale.
PRESENTAZIONE
Cari Varesini e cari turisti,
Un ringraziamento al Geom. Michele Giudici dell’Area IX - Ufficio Sistema Informativo Territoriale.
Riferimenti bibliografici
• Botanica Forestale – Volume Primo e secondo – Romano Gellini e Paolo Grassoni – Cedam Padova
1997;
• Cottini P. - “I Giardini della Città Giardino” – Edizione Lativa – dicembre 2004;
• Sulla Condizione dei Parchi Pubblici della Città di Varese – Tomo I-II-III-IV a cura del Prof. Salvatore
Furia – 1978- Atti in possesso del Comune di Varese - Attività Verde pubblico .
• Mitologia degli alberi – Dal giardino dell’Eden al legno della Croce, Jacques Brosse – BUR Rizzoli
Saggi, 1991 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A. Milano;
• La Natura ed i suoi simboli – Piante, fiori e animali – Lucia Impelluso - Dizionari dell’Arte Edizioni
Varese è la nostra città-giardino. E come poterla scoprire meglio se non con
queste guide e mappe, molto comode e pratiche?
I parchi sono un bene prezioso che negli ultimi anni abbiamo preservato e
cercato di migliorare, anche ampliandone gli spazi verdi.
Varesini e turisti hanno la possibilità di scoprirne la ricchezza, dal patrimonio
arboreo e botanico alle peculiarità architettoniche presenti nei giardini principali.
Non mancano le info turistiche per raggiungere i sei parchi cittadini.
Palazzo Estense e Villa Mirabello, Villa Toeplitz, Villa Augusta, Castello di Masnago,
Villa Baragiola e Villa Mylius: le guide passano dai cenni storico-artistici alla
descrizione e al posizionamento, con le mappe, degli alberi monumentali.
Grazie al lavoro attento dell’assessorato al Verde pubblico, le guide sono state
ampliate e ristampate.
Non mi resta che augurarVi un buon giro all’aria aperta accompagnato da
un’ottima lettura.
Il Sindaco di Varese
Attilio Fontana
Cari tutti,
Della stessa collana
Giardini Estensi e Parco di Villa Mirabello
Parco di Villa Torelli Mylius “Achille Cattaneo”
Parco di Villa Augusta
Parco di Villa Baragiola
Parco di Villa Toeplitz
Progetto grafico e impaginazione: Magoot Comunicazione Costruttiva - www.magoot.com
Stampa: Bosetti Group S.r.l. - Gorla Maggiore (VA) - Maggio 2016
In questo 2016, anno del Bicentenario dell’elevazione di Varese a Città, è un
piacere avere l’opportunità di presentare al pubblico i libretti della collana,
“Guide ai Parchi Cittadini” quale contributo per testimoniare la bellezza e la
ricchezza della Città Giardino.
Nelle guide si trovano aneddoti e cenni della storia delle famiglie che hanno
creato questi parchi meravigliosi, che li hanno vissuti e che ce li hanno tramandati.
Si trovano le descrizioni degli alberi autoctoni, di quelli esotici, dei più rari e più
preziosi, oltre ai bellissimi alberi monumentali, tanto amati dalla Città, e alcuni
vero e proprio simbolo Bosino.
I Giardini sono Storia e Cultura insieme; rappresentano l’essenza della capacità e sensibilità degli uomini di plasmare il territorio nel rispetto della Natura
dei luoghi, con l’obiettivo di poter godere appieno delle meraviglie che offre.
Sono parchi pubblici, sono di tutti: ad ognuno di noi, quindi, il diritto di goderne
appieno delle bellezze che offrono, ma anche il dovere di rispettarli e averne
cura, per il presente, per il futuro.
L’Assessore al Verde Pubblico e Tutela Ambientale
Riccardo Santinon
CENNI STORICI
Il nome del luogo deriva da uno degli innumerevoli e fra i più recenti proprietari del castello,
Angelo Mantegazza. Gli eredi di quest’ultimo
cedettero il complesso al Comune di Varese
nel 1981. Durante il Medio Evo il luogo era
senz’altro fortificato, un castello come testimonia la massiccia torre quadrata tutt’oggi
superstite, risalente al sec. XII. La torre, in collegamento con altre sul territorio, quali quella
di Velate, doveva servire per avvistamenti e
segnalazioni. Si deve alla famiglia Castiglioni,
presente a Masnago già nel 1422, quello che
risulta essere il tesoro più prezioso visionabile
all’interno del castello: due interi cicli di affreschi, uno nella sala inferiore con scene di “svaghi all’aperto” nel lacustre paesaggio varesino,
mirabile documento della vita cortese dei proprietari; l’altro nella sala superiore, con figure
femminili simboleggianti vizi e virtù. L’insieme
(riscoperto nel 1937 da Angelo Mantegazza)
rappresenta uno dei pochi esempi di affreschi
profani in Lombardia, espressione dello stile
gotico internazionale. Incamminandosi lungo
la salita che da via Caracciolo conduce alla
sommità del colle si giunge all’attuale sede
dei Musei civici comunali di Masnago. Nel corso dei secoli XVI-XVIII il castrum divenne una
residenza di più nuclei familiari, gli alloggi dei
quali sono oggi utilizzati dal Comune di Varese
per scopi culturali.
Nel ‘700, attorno alla residenza signorile, è
accertata la presenza di verde agricolo con vigna e orti, presente spesso anche nelle aree
paesaggisticamente più qualificate dei «deliziosi dossi collinari» ove la coltivazione era connotata, però, da criteri più redditizi e moderni
con vite e gelsi. Poche tracce sono rimaste di
uno stile formale del giardino settecentesco:
uniche testimonianze due leoni in pietra, simbolo della famiglia Castiglioni, posti sui pilastri
d’ingresso dalla via Caracciolo. Seguendo lo
stile inglese, in voga nella seconda metà del
XIX secolo, si abbandonò la progettazione e il
mantenimento di parchi e giardini all’italiana,
caratterizzati da disegni razionali e regole geometriche, per passare a una ricerca della naturalità attraverso la collocazione di specie arboree in modo apparentemente casuale a dare
l’idea che l’impianto costruito fosse dovuto ad
un disegno della natura stessa. Nel giardino
all’inglese si esalta la regolare irregolarità della
natura: i tracciati dei sentieri si snodano sinuosi, incrociandosi liberamente, la piantumazione
ha schema libero spesso marginale ad estese
superfici prative, non presenta geometrie precise, ma favorisce la creazione di effetti di luce.
Si preferì, in quel periodo, una visione possibilmente “spontanea” della bellezza vegetale
e nei giardini l’apporto umano era mascherato
nel tentativo di rendere il più possibile naturali
i dolci paesaggi creati da un’abile progettazione. Altre caratteristiche visibili nel Parco Mantegazza sono il movimento altimetrico del terreno eseguito con dolci cambiamenti di quote
naturaliformi e senza terrazzamenti; l’utilizzo
di masse arboree impenetrabili alla vista per
separare una superficie erbosa da un’altra e
per nascondere le recinzioni che delimitano
il parco; gruppi isolati di alberi esemplari che
fungono da punti focali per la loro non comune
bellezza o imponenza. Con l’intensificarsi dei
commerci con le Americhe e l’Est asiatico, i
progettisti di tutta Europa, durante il secolo
XIX, si resero immediatamente conto delle
possibilità che le nuove specie di alberi offrivano, prima fra tutte il cromatismo stagionale
nonché la signorile rarità. Nei parchi “romantici”, “paesaggistici” o “all’inglese” è la pittura,
e meno l’architettura, che ispira il giardino. Il
parco diventa pittura, offrendo al visitatore una
serie di “scorci”, di vedute, definite e costruite
espressamente per essere “pittoresche”, categoria estetica precedentemente ignota all’arte
giardiniera.
Si ricorda che i dettami dei giardini all’Inglese, come quello a disposizione dei cittadini dal
1981 a Masnago, furono codificati da William
Kent (1685-1748), Alexander Pope (16881744), Lancelot Brown (1715-1783) detto Capability Brown, Humphry Repton (1752-1818)
e dal milanese Ercole Silva (1756-1840) con il
suo testo “Dell’Arte de’ Giardini inglesi”. Sotto
le mura del massiccio edificio a pianta rettangolare troviamo oggi un pregevole parco, in stile romantico, formato da prati su diversi livelli
punteggiati da alberi sia giovani che secolari.
Il parco contiene solo alcuni alberi vetusti fra
i quali monumentali tassi, un bel faggio rosso
nei pressi di una piccola cappella, un prege-
vole esemplare di leccio e un raro esemplare
monumentale di corbezzolo.
La straordinaria ricchezza di specie vegetali è
soprattutto frutto del lavoro di esemplare ringiovanimento ed arricchimento arboreo svolto
al Parco Mantegazza dal Capo Giardiniere Alberto Broglia, lavoro che si deve continuare.
Kim E.K.Wilkie, paesaggista inglese, afferma,
infatti, che “Il restauro dei parchi e dei giardini
storici è un fenomeno relativamente nuovo. I
paesaggi creati nell’Ottocento hanno raggiunto la piena maturità e stanno cominciando ora
a decadere”. Il necessario rinnovamento con
ponderati impianti di alberi novelli a beneficio
delle generazioni future, dovrà perpetuare quel
collezionismo botanico e quegli scorci che ci
sono stati lasciati, sostituendo alcune specie
per motivi di ordine ecologico e di mal adattamento all’eccessiva vicinanza dell’uomo. Si
dovranno porre a dimora alberi novelli recuperando la distanza temporale e quindi dimensionale fra gli esemplari maestosi che vediamo
oggi e quelli che necessiteranno di 30/50 anni
per assolvere le medesime funzioni paesaggistiche.
Al Parco Mantegazza il lavoro è già visivamente
iniziato: ben 103 differenti varietà di alberi e
arbusti impreziosiscono quest‘area verde rendendola simile ad un piccolo giardino botanico.
Si incontrano numerose piante rare e particolari come il cosiddetto “albero dei fazzoletti“
(Davidia involucrata), i cui frutti sono contornati
da singolari foglie bianche pendenti.
DESCRIZIONE BOTANICA
1. ABETE BIANCO DEL CAUCASO o DI
NORDMAN
*Fam. Pinaceae
Abies nordmanniana (Stev.) Spach
Specie molto decorativa, originaria del
Caucaso e dell’Armenia, ove vegeta fra i
400 e i 2000 m s.l.m.formando foreste
pure; raggiunge i 40 m di altezza e i 3 m di
circonferenza, ha chioma piramidale meno
espansa di quella dell’abete bianco, ma con
rami molto fitti; gli aghi, lunghi 2-3 cm, sono
disposti a spazzola, di colore verde brillante
superiormente e argentati inferiormente grazie
alle 2 larghe linee stomatifere; i coni sono
molto resinosi, bruno scuri, lunghi 10-12 cm
con lunghe brattee sporgenti dalle squame.
Esistono diverse varietà coltivate a scopo
ornamentale; è più resistente alla siccità
rispetto all’abete bianco. Deve il suo nome al
botanico finlandese Nordman che introdusse i
semi in Europa nel 1838.
2. ABETE DEL COLORADO
*Fam. Pinaceae
Abies concolor (Gord.) Hildebrand
Conifera originaria di Colorado, Arizona,
California meridionale e Messico, raggiunge i
30 m di altezza. Gli aghi sono piuttosto lunghi,
4-5 cm, appiattiti, ricurvi, di colore verde glauco
su entrambe le pagine che, se stropicciati,
emanano profumo di limone; i coni, a maturità,
raggiungono i 7-12 cm di lunghezza e possono
diventare di colore porporino o giallo-verde.
3. ABETE DEL COLORADO AZZURRO
*Fam. Pinaceae
Picea pungens Engelm. f. glauca
Originario delle Montagne Rocciose, raggiunge
i 25-30 m di altezza e ha chioma allargata e
rami verticillati; gli aghi sono sparsi intorno al
rametto, lunghi 1,5-3 cm, radi, rigidi, incurvati
e molto pungenti; i coni, di 6-10 cm, si
riconoscono per le squame rombiche arricciate
e di consistenza cartacea. Specie molto
resistente al gelo, viene spesso coltivata come
ornamentale nella varietà “glauca”, con aghi
bluastri.
4. ABETE DI DOUGLAS o DOUGLASIA
VERDE
*Fam. Pinaceae
Pseudotsuga menziesii (Mirbel.) Franco (= P.
douglasii (Lindl.) Carr.)
Proveniente dalla costa pacifica degli USA e
dalla Sierra Nevada californiana, raggiunge
notevoli altezze, sui 50-70 m; ha portamento
simile all’abete rosso, con chioma molto fitta
e fusto slanciato; la corteccia diventa rosso
bruna negli esemplari adulti; gli aghi, appiattiti,
di colore verde brillante o scuro, disposti
in 2 serie diversamente inclinate, hanno
consistenza erbacea e punta arrotondata;
i fiori sono piccoli, solitari o a gruppi, verdi i
femminili, giallo arancio i maschili; i coni,
lunghi 6-8 cm, sono penduli, con brattee trifide
sporgenti dalle squame, e cadono interi a terra
dopo la disseminazione. Ha importanza sia
come pianta forestale per l’utilizzo del legno
(soprattutto nel Paese d’origine) sia come
pianta ornamentale. Deve il suo nome al
collezionista di piante David Douglas che ne
introdusse i semi in Europa nel 1827.
5. ACERO RICCIO
*Fam. Aceraceae
Acer platanoides L.
L’acero riccio, albero caducifoglio, è simile
all’acero di monte, da cui si distingue per le
foglie a 5 lobi con apici acuti, i fiori riuniti in
corimbi terminali, eretti, che compaiono prima
dell’emissione delle foglie, le samare ad ali
più aperte. La specie si spinge, allo stato
spontaneo, più a nord rispetto all’acero di
monte, arrivando fino alla Scandinavia, mentre
in Italia lo si ritrova soprattutto nelle regioni
settentrionali e centrali.
6. ACERO SACCARINO
*Fam. Aceraceae
Acer saccharinum L.
Questo acero è originario dell’America del
nord: Stati Uniti orientali e Canada, ed è da noi
coltivato nei parchi come specie ornamentale;
raggiunge notevoli dimensioni, ha foglie
divise in lobi profondi e acuti, argentate sulla
pagina inferiore (caratteristica per la quale in
America viene chiamato “silver maple”, cioè
acero d’argento) che in autunno assumono
un bel colore giallo; i rami sono facilmente
danneggiabili con neve pesante e venti forti.
Nonostante il nome della specie, l’acero
argentato non produce zucchero, che si ottiene
invece dall’Acer saccharum ed è utilizzato
per la produzione dello sciroppo d’acero
in Nord America. Introdotto come specie
ornamentale nella prima metà del Settecento,
ha conquistato parchi e giardini, prestandosi
anche per le alberature stradali.
7. ALBERO DEI FAZZOLETTI
*Fam. Davidiaceae
Davidia involucrata Baill.
Questo grazioso albero caducifoglio è originario
della Cina dove raggiunge i 18 m di altezza,
con chioma rotonda e uno spesso tronco. Le
foglie sono larghe, di consistenza morbida, con
margini dentati e con nervature evidenti; i fiori
sono provvisti di 2 grossi petali bianchi, da cui
il nome, seguiti da frutti simili a susine lunghi
3 cm.
8. ALBERO DI S. ANDREA
*Fam. Ebenaceae
Diospyros lotus L.
Albero caducifoglio originario della Cina, alto
sino a 12 m, con foglie verde scuro lucide,
piccoli fiori (maschili e femminili portati su
piante diverse) e frutti tondeggianti di 1-2 cm
nelle piante selvatiche, dapprima gialli e infine
porporini. Piante dello stesso genere sono il
caco (Diospyros kaki) e l’ebano (Diospyrus
ebenum).
9. CARPINO BIANCO
*Fam. Betulaceae
Carpinus betulus L.
Albero alto 15-20 m, non particolarmente
longevo in natura (150-200 anni). Ha fusto a
sezione irregolare per la presenza di costolature
e corteccia grigia e liscia molto simile a quella
del faggio, foglie che in inverno rimangono a
lungo secche sulla pianta; sopporta bene le
potature e può essere sagomato a piramide,
a colonna, a pergolato come nei Giardini
Estensi. Architetture vegetali tipicamente in
carpino erano i roccoli settecenteschi per
l’uccellagione. È distribuito in tutta l’Europa
centrale; in Italia è presente su tutto l’arco
alpino, in Liguria, Emilia e Toscana e meno
frequentemente nell’Appennino meridionale.
Insieme alla farnia (Quercus robur) costituiva la
specie tipica del bosco planiziale della pianura
padana. Carpino viene dal latino carpinus,
derivato a sua volta dal celtico car , legno, e
pin o pen, testa, perché il carpino serviva un
tempo a fare i gioghi per animali da lavoro.
Una delle poche leggende legate al carpino è la
seguente: Astolfo, re dei Longobardi, era solito
andare a caccia con il suo fedele falcone.
Un giorno lo lanciò, ma dopo poco l’animale
scomparve in un fitto bosco. Lo cercò in ogni
luogo, ma senza successo. Decise, allora, di
fare un voto: se lo avesse ritrovato avrebbe
fondato una città e una chiesa dedicata alla
Madonna. Dopo numerose ricerche lo vide
appollaiato sul ramo di un albero di carpino.
In quel luogo fu fondata la emiliana Carpi e
fu eretta una chiesa alla Madonna. Tipiche
architetture vegetali composte di carpino
sono i “berceaux” o “carpineti” tipici dei
giardini alla francese ove erano destinati
a piacevoli passeggiate al riparo dal sole:
l’abbronzatura avrebbe, infatti, compromesso
il ricercato colorito madreperlaceo tipico
della nobiltà settecentesca. I camminamenti
ombrosi che da Palazzo Estense salgono alla
collina modellata da 400 operai denominata
“Castellazzo” o “Belvedere” furono disegnati
dallo stesso Duca Francesco III D’Este nel
1770 che vi impiegò circa 4000 piantine di
carpino bianco. Il mantenimento in sagoma
del carpineto richiede potatura annuale e
sostituzioni periodiche degli alberi che via
via muoiono, spossati dalla mano dell’uomo.
Altra
celeberrima
architettura
vegetale
composta dal carpino bianco è il roccolo
per l’uccellagione, architetture da aucupio.
L’origine dei roccoli pare sia da circoscrivere al
territorio della Lombardia, durante l’epidemia
di peste diffusa nel corso del XVI secolo per
catturare con grandi reti stormi di uccelli
migratori, per lenire la carestia divampante.
Il ‘roccolo’ avrebbe dunque avuto origine nel
bergamasco (vedasi la tradizione culinaria
popolare: polenta e osei), per poi diffondersi
gradualmente, nei secoli successivi, in tutto
il nord Italia; furono gli uccellatori bresciani a
promuoverne la diffusione in Trentino e da lì,
fino all’area meridionale tedesca. Il ‘roccolo’ è
fondamentalmente composto da due elementi:
un’alberatura generalmente a forma circolare o
a ferro di cavallo (tondo), vario ed accogliente
per le diverse specie di volatili costituito
generalmente da un doppio filare di carpino
bianco (altrove faggio, larice) resistente alle
necessarie, numerose potature e con fogliame
mantenuto anche in autunno/inverno; ed una
costruzione a forma di torretta (casello) in
posizione preferibilmente elevata in funzione
delle linee di migrazione o delle aree di sosta
dei volatili e per individuare per tempo l’arrivo
degli stormi.
10. CIPRESSO DEL KASHMIR
*Fam. Cupressaceae
Cupressus cashmeriana Royle ex Carr.
Albero originario del Kashmir, è di aspetto
molto attraente grazie al fogliame verde
glauco piangente; le foglie inoltre sono molto
aromatiche. Esige clima temperato e umido
e cresce abbastanza velocemente nei primi
15 anni, ma successivamente può essere
facilmente danneggiato dal vento e addirittura
morire per temperature troppo alte o per
siccità.
11. CORBEZZOLO
*Fam. Ericaceae
Arbutus unedo L.
Arbusto o piccolo alberetto di origine
mediterranea, ha foglie sempreverdi di
color verde brillante; i fiori, riuniti in grappoli
penduli, bianco-rosati, compaiono in autunno,
contrastando con i rossi e tondi frutti
dell’anno precedente. Il bell’esemplare
presente nel parco Mantegazza, eccezionale
per le dimensioni, ha un’età superiore ai 100
anni. L’origine del nome generico, dovuto
probabilmente al sapore aspro del frutto e
delle foglie, ha radici antiche da ricercarsi nel
celtico ar (aspro) e butus (cespuglio). Inoltre
l’origine del nome specifico “unedo” deriva
da Plinio il Vecchio che, in contrasto con
l’apprezzamento che generalmente riscuote il
sapore del frutto, sosteneva che esso fosse
insipido e che quindi, dopo averne mangiato
uno (unum = uno ed edo = mangio) non veniva
voglia di mangiarne più. Dal nome greco del
corbezzolo (κόμαρος - Kòmaros) deriva il nome
del Monte Cònero, promontorio sulle cui pendici
settentrionali sorge la città di Ancona, la cui
vegetazione è ricca di piante di corbezzolo.
12. CORNIOLO DELL’ASIA
*Fam. Cornaceae
Cornus kousa Buerg. ex Hance
Arbusto o piccolo albero caducifoglio alto sino
a 6-7 m, proveniente da Giappone, Corea e Cina
centrale e occidentale; ha foglie opposte con
apice appuntito e nervature evidenti; fiorisce
in giugno-luglio con capolini di piccoli fiori
circondati da 4 brattee, bianco puro, appuntite.
13. CORNIOLO DA FIORE
*Fam. Cornaceae
Cornus florida L.
Questo arbusto, alto fino a 3-4 m, proviene
dalle regioni orientali del nord America; viene
coltivato per la bella fioritura in maggio,
costituita da capolini di piccoli fiori circondati
da 4 brattee bianche o rosa, seguiti da bacche
rosse in autunno, quando le foglie assumono
colorazione rosso scarlatta.
FAGGIO
*Fam. Fagaceae
Fagus sylvatica L.
Albero che raggiunge i 30-35 m di altezza
con diametro anche superiore a 1,5 m;
normalmente può vivere sino a 150 anni
di età, ma in circostanze particolarmente
favorevoli può raggiungere anche 300 anni.
La pianta si riconosce facilmente per la
corteccia grigia e liscia, le foglie ovali dal
margine intero e leggermente ondulato di
colore verde scuro a maturità e rossastre in
autunno; i frutti, detti faggiole, a maturità si
aprono in 4 valve liberando 2 semi. Il faggio è
una delle specie più importanti in Italia sia per
l’estensione dei suoi boschi sia per l’uso del
legno nell’industria del mobile, nonché per la
sua bellezza ornamentale; è specie esclusiva
dell’emisfero settentrionale ed è presente in
tutta Europa, dalla Spagna all’Ucraina, fino alla
Norvegia meridionale. Un tempo si utilizzava
la corteccia del faggio, febbrifuga e tonica,
anche contro la dissenteria. Il catrame del suo
legno, distillato a secco, il creosoto, potente
antisettico scoperto nel 1832 da Reichenbach,
viene usato dall’industria farmaceutica come
disinfettante dei polmoni nella composizione
di molti sciroppi. La varietà Asplenifolia,
ornamentale, si caratterizza per le foglie a
margine molto inciso e lamina stretta; il faggio
pendulo, a differenza delle altre varietà, che si
distinguono per il colore e la forma delle foglie,
si caratterizza per il portamento del fusto e
dei rami, eretto fino a una certa altezza e poi
piangente; il faggio rosso ha foglie di colore
porpora al momento dell’emissione e violetto
scuro a maturità.
Nell’antica Roma l’esistenza di un quartiere
chiamato Fagutal, che ancora prima era stato
un bosco sacro di faggi (secolo I a. C.), fa
pensare che in epoche remote il faggio fosse
oggetto di culto. Così, anche cento anni più
tardi, all’epoca di Plinio, di fianco ad un faggio
sacro si trovava un tempio dedicato a Jupiter
Fagutalis (dal latino fagus). In Lorena e nelle
Ardenne lussemburghesi si credeva che non
ci fosse folgore che potesse colpire questo
albero, cosa che lo metteva in contrapposizione
con la quercia e il frassino.
In un settore geograficamente limitato che
comprende la Francia orientale, la Svizzera
e la Baviera, la naturale apparizione di
esemplari dalle foglie porporine destava
l’emozione popolare; si credeva fosse un
segno di deplorazione divina per l’annuncio di
feroci battaglie o per il sangue versato di un
delitto. Ancora oggi, nella foresta di Verzy, in
Francia, si possono ammirare dei vecchissimi
esemplari di faggio i cui tronchi e i rami più
bassi formano un ammasso confuso di linee
contorte e ritorte, malformazioni dovute ad
una presunta mutazione provocata dalla
caduta di un meteorite radioattivo, avvenuto
moltissimo tempo fa. A Terranova di Pollino,
in Lucania, nel mese di giugno si svolge la
festa della Pita, rito arboreo piuttosto antico
celebrato in onore di Sant’Antonio da Padova.
Nonostante Pita, nel dialetto locale, designi il
nome dell’abete, spesso è il faggio a fare da
protagonista. Si tratta della rappresentazione
rituale dell’unione tra due piante, una di
sesso maschile (solitamente un abete o
un faggio), l’altra di sesso femminile (una
“cima” generalmente sempreverde). Entrambe
vengono tagliate e, mentre la “sposa” viene
doverosamente ornata con fiori e nastri, il
faggio “sposo”, viene pulito dai rami, dalla
corteccia e levigato. Il faggio e la cima vengono
poi innestati, a sigillare il loro “rudimentale”
matrimonio, simbolo arcaico di rigenerazione
della natura, auspicio di fertilità. In seguito
vengono innalzati e i più coraggiosi, a suon
di braccia, si dilettano nell’arduo tentativo
di raggiungere la cima. I faggi che troviamo
nei giardini ottocenteschi (“romantici”,
“all’Inglese”) sono spesso delle varianti
della specie selvatica (morfotipi selezionati e
riprodotti a scopo ornamentale), ricercate dalle
famiglie facoltose proprio per la loro diversità
rispetto alla forma rurale: così s’incontrano
i faggi a foglia di felce (F.s. “Asplenifolia”); a
foglie profondamente e regolarmente dentate
(F.s. “laciniata” o “heterophylla”); a foglie
rosse (F.s. “Purpurea”); tricolori (F.s.”Tricolor”);
gialle dorate (F.s. “Zlatia”); a ramificazione
pendula-piangente (F.s. “Pendula”) o addirittura
colonnare (F.s. “Dawyck”); nana e prostrata
(F.s. “Cochleata”); a corteccia rugosa (F.s. var.
“Quercoides”).
Purtroppo, negli ultimi 15 anni, decine di faggi,
amanti del clima oceanico, intristiscono con
vistose microfillie, colpiti spesso da cancri
(lesioni) alla fragile corteccia devitalizzata dal
sole cocente del 2003 e del 2005 che li ha
predisposti ad attacchi di parassiti secondari
altrimenti confinati (carie del legno, marciumi
radicali, cancri rameali etc.). “Le temperature
registrate in Giugno e in Agosto sono RECORD.
Anche Luglio è stato molto caldo, ma ci sono
stati anni con temperature più alte. Record
anche i 35° di giugno e 36° di Agosto. Nel
complesso l’Estate 2003 è stata la più calda
dal 1965 grazie alle temperature dei mesi
di Giugno e di Agosto – Le precipitazioni
totali dell’Estate hanno raggiunto i 285.7
mm - contro una media estiva in 37 anni di
415,2 lt/mq - tra le più secche dal 1965”
con un deficit di 129,5 lt/mq” come da dati
in possesso del Centro Geofisico Prealpino. La
ancor peggiore siccità del 2005 con maggio di
oltre 2 gradi più caldo della media e un deficit
di acqua mensile di – 98,8 lt/mq quando la
vegetazione era in pieno sviluppo; tra giugno e
agosto il deficit idrico, rispetto ai dati registrati
dal 1965, è di 171,7 lt/mq. Si ricorda che ad
agosto 2005 vi fu l’abbassamento eccezionale
del livello del lago di Varese pari a – 1,5 m
dallo zero idrometrico che fece seccare molti
secolari carpini bianchi sull’Isolino Virginia.
Le siccità estive 2003-2005, alle quali si
aggiunge il calore estremo di luglio 2015, sono
state terribili anche per l’anziano patrimonio
botanico varesino: le conseguenze sono state
immediate ma si notano ancora a distanza di
anni, come è normale avvenga con gli alberi:
A subirne maggiormente gli effetti i soggetti
anziani, patriarchi, radicati nei centri urbani,
affetti da malattie croniche, vulnerabili agli
effetti delle alte temperature e delle ondate
di calore in funzione della «suscettibilità»
individuale (stato di salute, caratteristiche
ambientali), della capacità di adattamento e
del livello di esposizione (intensità e durata)”.
Come per l’uomo. In tutta la città di Varese,
invero, è evidente che vi siano vistosi e
documentabili segni di deperimento a carico
di alcune specie che denotano un precoce
invecchiamento multifattoriale non escluso
il termine della loro vitalità e vigoria in un
ambiente estraneo da migliaia di anni se non
da qualche milione di anni alla zona d’origine.
14. FAGGIO ROSSO
*Fam. Fagaceae
Fagus sylvatica L. f. purpurea (Ait.) Schneid.
Il faggio cultivar “Purpurea” ha foglie di colore
porpora al momento dell’emissione e violetto
scuro a maturità. Si rinvia a quanto detto per
il faggio a foglia di felce per quanto riguarda i
Giardini Estensi. Al parco Toeplitz un patriarca
è in fase di sostituzione dopo una lenta agonia
le cui ragioni sono indicate nella parte generale
riguardante la specie. Miglior stato di salute
mostrano due monumentali faggi rossi, uno
nei pressi del Castello Mantegazza e l’altro a
monte della Villa Baragiola. Discreto lo stato
fitosanitario di tre esemplari del parco Augusta,
perduti per sempre altri due soggetti dopo il
fortunale del 13 luglio 2011 che s’abbattè su
Giubiano, prontamente sostituiti con giovani
piante.
15. FICO
*Fam. Moraceae
Ficus carica L.
Albero che può raggiungere gli 8 m di
altezza, con tronco robusto e corteccia liscia
grigiastra; rami deboli con gemme terminali
di forma appuntita, portanti grandi foglie tripentalobate, rugose. La specie è presente
in due forme botaniche, che possono essere
definite semplicisticamente come piante
maschio e piante femmina. La prima, chiamata
anche caprifico, produce polline con frutti non
commestibili, mentre la seconda produce semi
contenuti nei frutti commestibili. Originario
dell’Asia occidentale è stato introdotto da
tempo immemorabile nell’area mediterranea.
In Italia è presente soprattutto in Puglia,
Campania e Calabria. Albero di grande
importanza per la religione cristiana, potrebbe
essere il famoso albero della conoscenza del
Bene e del Male che fu occasione del peccato
originale, non a caso il primo indumento
dell’uomo caduto è la sua foglia: “Allora gli
occhi di ambedue si aprirono e conobbero di
essere nudi e intrecciarono foglie di fico e se
ne fecero cinture”. Non soltanto presso gli
Ebrei, ma in tutto l’Oriente, il fico era l’icona
della scienza religiosa, rappresentando il dono
racchiuso nel cuore dell’uomo come il fiore
all’interno del frutto. Tuttavia nell’antichità
assunse spesso un significato osceno, mai
perduto del tutto; considerato sovente albero
impuro ed inquietante in Grecia apparteneva
a Dioniso, ma ancor più a Priapo, dio lubrico
della fecondità, mentre a Roma era un albero
oracolare consacrato al dio Marte, il più
romano degli dèi, considerato il vero fondatore
dell’Urbe, poiché si riteneva che avesse
originato Romolo e Remo. Frutto dai richiami
erotici per gli antichi Greci, stranamente ficus
ha generato in varie lingue neolatine “fegato”,
passando dal latino ficatum, in origine il fegato
d’oca. I Greci ingozzavano di fichi le oche per
ingrassarle, ottenendo così l’ingrossamento
del fegato. Per gli antichi il fegato era da una
parte sede delle passioni (in particolare ira
e violenza), dall’altra un organo ricolmo di
un umore amaro, la bile, che ricorda proprio
il latte aspro contenuto nel fico prima della
maturazione. Viene quasi spontaneo notare
un’allusione allo scroto, attributo maschile
per eccellenza e sorgente di un umore ricolmo
di seme, responsabile quanto il fegato delle
passioni e della violenza maschili. In greco la
parola sicofante era ingiuriosa e deriva proprio
dal fico. I sicofanti svolgevano un’attività
sacrilega, rivelando in pubblico segreti che
sarebbero dovuti essere taciuti e sostenendo
accuse anche false. Nell’uso comune è, non a
caso, adoperato nel senso di “calunniatore”.
Secondo i grecisti, in origine il termine designava
il denunciatore di quelli che esportavano fichi
di contrabbando, o di quelli che rubavano fichi
dagli alberi sacri. Inoltre, in Grecia, in certi culti
agrari primitivi esisteva la rivelazione del fico,
che consisteva probabilmente in un culto di
iniziazione ai segreti della fecondità.
16. GELSI
*Fam. Moraceae
Gen. Morus L.
Soprannominato l’albero più saggio per la
sua particolarità nel ritardare la schiusa delle
gemme, aspettando la fine del freddo, viene
citato da Ovidio nella storia di Piramo e Tisbe.
Questi erano due giovani innamorati che, per
via di un fraintendimento, andarono incontro ad
una triste sorte. A causa dell’opposizione delle
famiglie, un giorno si diedero appuntamento a
una fonte, sotto un gelso fecondo di bianca
frutta. Arrivata per prima, Tisbe scorse una
leonessa venuta ad abbeverarsi e, colta
dallo spavento, fuggì lasciando cadere il suo
velo; con le fauci sporche del sangue di una
preda, la leonessa lo lacerò. Piramo, giunto
dopo l’accaduto, trovando il velo squarciato e
insanguinato credette che Tisbe fosse morta
e, disperato, si affondò la spada nel cuore il cui
sangue tinse di rosso i frutti del gelso. Tornata
sui suoi passi, Tisbe scorse il corpo senza
vita dell’amato e, decisa a ritrovarlo nella
morte, chiese al gelso di serbare le macchie
del loro sangue e con esso renderne scuri i
frutti, in segno di lutto. La mora, moron, era
considerata funesta, infatti in Grecia il suo
nome era contiguo a moros, sventura. Varese
elenca personaggi illustri legati alla coltivazione
del gelso, della vite e alla bachicoltura: la
famiglia Torelli e in seguito il cav. Carlo Giorgio
Mylius, industriale della tessitura, residenti
color porpora scuro. Pianta molto simile al
gelso nero, dal quale si distingue per i rami
giovani glabri, per le foglie lucide sulla pagina
superiore e scarsamente pubescenti su quella
inferiore, e per il colore dei frutti.
GELSO NERO
*Fam. Moraceae
Morus nigra L.
Il gelso nero ha origini incerte, coltivato da
tempo immemorabile in Europa soprattutto per
i frutti, ma sembra possa provenire dalla Cina;
raggiunge dimensioni inferiori al gelso bianco
(intorno ai 10 m); ha grandi foglie decidue
cuoriformi, dentate, vellutate sulla pagina
inferiore, di colore verde scuro; i fiori hanno
dimensioni insignificanti, di colore verdastro, e
sono seguiti da frutti talmente impacchettati
insieme da sembrare un unico frutto simile
a una mora, di colore rosso scuro, di sapore
acidulo, dolce quando completamente maturi.
17. GINKGO
nell’omonino parco dei Miogni; Vincenzo
Dandolo e Giacomo Foscarini, operanti agli
inizi dell’Ottocento; Cristoforo Bellotti jr (18231919), una dei proprietari della Villa BellottiBaroggi-Bonetti; Carlo Pellegrini Robbioni,
proprietario dei Giardini Estensi, dopo la morte
del duca Francesco III d’Este; Silvestro Sanvito
e Andrea Ponti proprietario della villa dell’Arch.
Balzaretto, sede attuale della CCIAA di Varese
a Biumo Superiore.
GELSO BIANCO o GELSO COMUNE
*Fam. Moraceae
Morus alba L.
Albero a foglie caduche originario della Cina,
ma da molto tempo coltivato in altre regioni
orientali e nell’Europa meridionale come
pianta le cui foglie costituiscono il nutrimento
per i bachi da seta. Alto fino a circa 13 m. I fiori
si presentano in infiorescenze separate: quelle
maschili sono più lunghe delle femminili, le
quali misurano circa 1,2 cm. Le infruttescenze,
dette sorosii, sono composte da numerose
piccole drupe e sono lunghe 1,2-2,5 cm, in
generale di colore bianco o rosato, talvolta
*Fam. Ginkgoaceae
Ginkgo biloba L.
Questa
specie
caducifoglia,
unica
rappresentante della sua famiglia, è originaria
della Cina, dove veniva coltivata nei giardini
dei templi perché considerata albero sacro,
simbolo di immortalità, ed è grazie a ciò che ha
potuto arrivare fino ai giorni nostri. Il botanico
tedesco Engelbert Kaempfer (1651-1716)
descrisse per la prima volta la specie. Si tratta
di un albero antichissimo e primitivo, vivente
già almeno 200 milioni di anni fa, epoca a
cui risalgono i fossili ritrovati in giacimenti di
carbone. Raggiunse l’apogeo di diffusione sul
globo nel Giurassico e nel Cretaceo, ovvero
da 200 a 65 milioni di anni fa. Il nome del
genere Ginkgo pare derivi dal cinese yin kuo
che significa “albicocca d’argento”. Altro nome
scientifico è Salisburia adiantifolia (Smith):
il genere in onore del botanico inglese R. A.
Salisbury, il nome della specie ad indicare
la somiglianza delle foglie con quelle del
capelvenere (Adiantum capillus-veneris). Fu
introdotta in Olanda intorno al 1730 ed il
primo esemplare in Italia, pare, presso l’Orto
Botanico di Padova; qui viene coltivata a
scopo ornamentale: può raggiungere i 30 m
di altezza e anche i 6 m di diametro, le foglie
hanno tipica forma di ventaglio; si tratta di
una specie con individui maschili e femminili;
i frutti sono costituiti da un involucro carnoso,
di odore molto sgradevole a maturità. Le foglie
di ginkgo contengono numerose sostanze
(terpeni, polifenoli, flavonoidi) utilizzate in
medicina e in cosmetica. Sei esemplari di
Ginkgo, ancora esistenti, sono sopravvissuti
alle radiazioni prodotte dalla bomba atomica
caduta sulla città di Hiroshima; questa pianta
è inoltre il simbolo della città di Tokyo. Si
presta ad un utilizzo in città perché tollera
bene l’inquinamento, non manifesta debolezza
nei confronti di patologie fungine e parassiti
animali, sopporta bene la siccità e temperature
invernali fino a -35°C. In Giappone i semi
vengono arrostiti e mangiati come rimedio agli
effetti di abbondanti libagioni. L’esemplare
dei Giardini Estensi fu messo a dimora dal
proprietario di allora Cesare Veratti, ovvero
fra il 1850 ed il 1882. L’esemplare del Parco
Mirabello è stato verosimilmente piantato fra il
1865 ed il 1875 ad opera di Gaetano Taccioli.
18. IPPOCASTANO
*Fam. Hippocastanaceae
Aesculus hippocastanum L.
L’ippocastano nasce spontaneamente nel nord
della Grecia, in Macedonia, Albania e Bulgaria.
Viene chiamato anche “marrone d’India” per
una sua supposta, ma errata, origine più
orientale. È un albero imponente, capace
di giungere oltre i 35 metri di altezza ed i 5
metri di circonferenza del tronco. Fu portato in
Europa dai Bizantini: si iniziò la coltivazione nei
giardini imperiali di Vienna nel 1576, quando ne
furono inviati i semi da Costantinopoli da parte
dell’Ambasciatore del Sacro Romano Impero,
Von Ungnad. A Parigi il primo ippocastano
fu portato dal botanico Bachelier che lo
impiantò nel 1615. Successive sono quindi le
introduzioni a Versailles e presso i Giardini del
Lussemburgo di Maria de’ Medici, oggi sede
del Senato francese. I primi esemplari italiani
furono coltivati nell’Orto botanico di Padova
già dal 1557. Il botanico naturalista bolognese
Ulisse Aldrovandi (1522-1605) chiamò la
specie “Castanea equina” quando la vide nel
giardino mediceo di Pratolino. Il richiamo al
cavallo è duplice: la cicatrice fogliare somiglia
ad uno zoccolo di cavallo; ai cavalli con malattie
polmonari, febbricitanti, veniva fornito sollievo
con la farina delle “castagne matte” non
commestibili, ovvero il seme dell’ippocastano
(il frutto è la capsula verde-marrone, spinosa
e globosa che lo avvolge). I lunghi fiori in
pannocchie di 20-30 cm sono bisessuali,
ricordano dei candelabri. Dapprincipio i petali
bianchi presentano delle macchie gialle
per attirare le api e altri imenotteri; con
l’esaurimento del nettare i petali assumono
colore arancione e poi rosso, colore non più
percepibile dagli insetti. Il seme amaro e non
commestibile per l’uomo è stato utilizzato per
l’alimentazione del bestiame. L’alto contenuto
in saponina naturale ne ha permesso l’utilizzo
per lavare la biancheria. Alla fine del XIX
secolo i medici scoprirono la efficace azione
della “castagna equina” nei disturbi di origine
venosa, in generale come rimedio delle
malattie dovute ad una circolazione difettosa.
I guaritori raccomandavano di tenere in tasca
un marrone dell’ippocastano per i medesimi
motivi. Il legno dell’ippocastano è fragile (il
peggior comportamento alla resistenza alla
compressione longitudinale in campioni di
legno verde pari a ca. 1,4 q.li/cmq contro
i 2,8 e i 2,7 q.li/cmq della rovere e del
platano), dal comportamento poco elastico
prima della rottura, poco durevole. La specie
è geneticamente poco incline a riparare le
ferite inferte al tronco e alla chioma, ferite
che diventano vie di colonizzazione di funghi
da carie capaci di mangiare i tessuti legnosi
e minando, in tal modo, la stabilità meccanica
dell’intero albero. Per tali difetti, nel tempo,
i filari ottocenteschi sono stati sostituiti da
alberate composte dai più addomesticabili e
resistenti tigli e platani. I più grossi esemplari
del Parco Mirabello sono stati impiantati
dopo la costruzione delle scuderie (ex Liceo
Musicale, oggi sede di Varese Corsi), ovvero
dopo il 1839, più verosimilmente fra il 1865 ed
il 1875 ad opera di Gaetano Taccioli.
19. LARICE
*Fam. Pinaceae
Larix decidua Mill.
Albero alto fino a 40 m con tronco cilindrico
leggermente ricurvo e chioma aperta e rada.
Le foglie aghiformi sono distribuite a spirale
in fascetti di 20-40 aghi, di 2-4 cm ciascuno.
In condizioni ottimali vive tra i 1000 e i 2500
metri di quota in climi freddi e continentali; si
tratta dell’unica conifera europea decidua, con
aghi verde chiaro che in autunno diventano
giallo-oro. Fin dall’antichità il legno di larice
era noto per la durezza e la robustezza, tanto
che i Romani lo utilizzavano per costruire
imbarcazioni. Importante per le popolazioni
alpine, probabilmente un tempo fu oggetto di
culto, in analogia ai rituali arborei che ancora
nel secolo scorso mantenevano gli Ostiaci
siberiani con il larice siberiano che vegeta
spontaneamente nel nord della Russia.
Pare che questi possedessero un luogo
sacro, costituito da un gruppo di sette larici,
e chiunque l’attraversasse doveva deporvi
una freccia, mentre ai rami venivano appese
pellicce preziose in grandi quantità. Questa
popolazione siberiana considerava il larice
albero cosmico, lungo il quale scendevano il
Sole e la Luna sotto forma di uccelli d’oro e
d’argento.
credeva che fosse oracolare, così nell’Aventino
si estendeva un bosco di lecci, presunta
dimora di una ninfa, Egeria, la soprannaturale
consigliera in scienze sacre del re Numa.
Un leccio molto antico, antecedente alla
fondazione della città di Roma, si innalzava
sul monte Vaticano, detto anche la collina degli
indovini; portava un’iscrizione etrusca in bronzo
secondo la quale la pianta era stata oggetto
di un culto religioso da parte dei predecessori
dei Romani. Tre querce ancora più antiche
erano venerate a Tivoli, presso le quali venne
consacrato re l’eroe Tiburnus, fondatore della
città. Albero oggetto di venerazione, assunse
nel tempo un carattere funesto. In Acarnania,
regione storica della Grecia occidentale, e
nelle isole Ionie si narrava che, quando a
Gerusalemme fu deciso di crocifiggere Cristo,
tutti gli alberi rifiutarono di donare il loro legno
per lo strumento del sacrilego supplizio, ma tra
questi vi era un Giuda. Quando fu il momento
di tagliare la croce, tutti i tronchi andarono in
mille pezzi tranne la quercia leccio, che rimase
in piedi lasciando che il suo tronco diventasse
lo strumento della Passione.
20. LECCIO o ELCE
21. NOCCIOLO
*Fam. Fagaceae
Quercus ilex L.
Albero sempreverde che può raggiungere
i 25 m di altezza e 1 m di diametro, ma più
spesso lo si trova come piccolo albero; è
però assai longevo, potendo vivere oltre i
500 anni. Le foglie sono spesse e coriacee,
di colore verde lucente sulla pagina superiore,
bianco tomentose su quella inferiore; sulle
piante giovani le foglie sono spesso dentate
al margine, su quelle adulte sono a contorno
per lo più intero. Il suo areale gravita intorno
al bacino del Mediterraneo, in cui è la specie
principale e più rappresentativa della macchia
mediterranea, ma piccoli nuclei spontanei
isolati si possono trovare in Val Padana, fra
cui le coste dei laghi insubrici. In Arcadia,
regione storica della Grecia meridionale, la
quercia leccio era dedicata a Pan; divinità della
natura selvaggia, il cui nome significa “tutto”,
era ritenuto figlio di Driope, nome che viene
da drus, la quercia, la quale probabilmente
era una ninfa del leccio. In tempi remoti si
*Fam. Betulaceae
Corylus avellana L.
Il suo nome scientifico deriva dal greco Kerys
(= casco), dalla cupola che ricopre il frutto, e
da Abella (= Avellino, dove il nocciolo è stato
coltivato fin dall’antichità). Arbusto deciduo,
alto fino a 4-7 m, con elevata capacità
pollonifera, ramificato sin dalla base, raggiunge
i 60-70 anni di età. Le foglie hanno margini
grossolanamente dentati; i fiori compaiono
in pieno inverno: quelli maschili sono portati
in lunghi amenti gialli penduli, mentre quelli
femminili sono costituiti da una gemma
globosa da cui fuoriescono corti stimmi rossi.
Allo stato spontaneo è pianta comunissima
in tutti i boschi cedui, diffuso dalla pianura
alle montagne; il suo areale comprende
quasi tutta l’Europa, arrivando fino all’Asia
Minore e all’Algeria. Estesamente coltivato in
Campania, Sicilia e Piemonte. Albero sacro per
i Celti, il suo frutto, la nocciola, era simbolo
della saggezza interiore; così si diceva che
mangiare nocciole procurasse la conoscenza
delle arti e delle scienze segrete. I druidi e i
bardi usavano, come supporto d’ispirazione,
delle tavolette divinatorie in legno di nocciolo
ove vi incidevano gli ogam, le lettere magiche.
Il rametto biforcuto di nocciolo, usato dai
rabdomanti ancora oggi, è da sempre servito
come bacchetta magica: non consentiva solo
di scoprire l’acqua, i minerali e i tesori nascosti
sotto terra, ma anche i criminali e i ladri e
chi l’adoperava aveva la facoltà di divenire
invisibile.
22. OLIVO
*Fam. Oleaceae
Olea europaea L.
Pianta sempreverde, assai longeva, può
facilmente raggiungere alcune centinaia d’anni.
Il tronco è contorto, la corteccia, grigia e liscia,
tende a sgretolarsi con l’età. La chioma, che
assume senza intervento antropico la forma
tipicamente conica, ha foglie lanceolate,
coriacee, disposte in verticilli ortogonali tra
di loro, di colore verde glauco e glabre sulla
pagina superiore, mentre presentano peli
stellati su quella inferiore che le conferiscono
il tipico colore argentato e la preservano
dall’eccessiva traspirazione durante le calde
estati mediterranee. I fiori ermafroditi, piccoli,
bianchi e privi di profumo sono raggruppati
in infiorescenze dette mignole di 10-15 fiori
ciascuna. Il frutto è una drupa ovale che può
pesare da 2-3 gr per le cultivar da olio, fino
a 4-5 gr nelle cultivar da tavola. L’esocarpo
(la buccia) varia il suo colore dal verde al
violaceo; il mesocarpo (la polpa) è carnoso e
contiene il 25-30% di olio, raccolto all’interno
delle sue cellule, sotto forma di piccole
goccioline (è l’unico frutto da cui si estrae un
olio); il seme è contenuto in un endocarpo
legnoso, anch’esso ovoidale, ruvido e di colore
marrone. Sebbene sia considerata una pianta
prettamente mediterranea, grazie alla sua
capacità di ambientarsi molto bene nel bacino
mediterraneo (comprendente Italia, sud della
Spagna e della Francia, Grecia e alcuni Paesi
mediorientali che si affacciano sul Mediterraneo
orientale) si ritiene sia di origine sud caucasica
(12.000 a.C.). Nonostante sembri inseparabile
dal paesaggio greco, l’olivo ha il suo habitat
originario nell’Asia Minore dove forma vere
e proprie foreste che, partendo dall’Arabia
meridionale, risalgono
passando
dalla
penisola del Sinai, dalla Palestina, la Siria e
la costa meridionale della Turchia, fino ai piedi
del Caucaso. Non sorprende perciò trovarne
una prima menzione nei capitoli della Genesi
in cui è narrato il Diluvio, dove si racconta di
una colomba che portò a Noè un ramoscello
d’olivo a simboleggiare il rinverdimento della
vegetazione e la cessazione dello sdegno
di Dio. Fin dalle origini, dunque, l’olivo fu
considerato uno dei doni più preziosi di Jahvé,
il simbolo dell’alleanza con gli uomini. L’olio
d’oliva fungeva quindi da consacrazione, così
l’inviato di Dio veniva chiamato il Messia,
in ebraico Maschiak, l’Unto del Signore,
tradotto in greco con Kristos, colui che ha
ricevuto l’unzione dell’olio. Albero cosmico
per eccellenza nell’Islam, centro e pilastro
del mondo, rappresenta l’Uomo universale,
il Profeta. Viene considerato soprattutto
fonte della luce grazie all’olio che si produce
attraverso la spremitura dei suoi frutti. È anche
definito l’asse immobile del mondo creato,
poiché si ritiene che non sia in rapporto con
la rotazione della Terra. Rappresenta inoltre
un segno di alleanza attraverso Abramo, il
padre dei fedeli e antenato comune di Ebrei,
Cristiani e Musulmani. Così, salire nell’ulivo
sacro significa rientrare nel “seno di Abramo”,
ritornare alla fonte. L’olio veniva adoperato
dai greci per i più disparati motivi: grandi
quantitativi erano utilizzati per l’illuminazione,
se ne faceva utilizzo nella cura del corpo, nella
medicina e nella magia, veniva adoperato
durante la preparazione delle salme e
addirittura se ne ungevano le statue. I rami
dell’olivo selvatico coronavano i vincitori dei
Giochi Olimpici e potevano essere tagliati solo
mediante un falcetto d’oro, da un giovinetto di
nobili natali, i cui genitori fossero ancora vivi.
Pare che questa usanza sia entrata in uso a
partire dalla settima Olimpiade, in seguito a
un ordine dato dall’oracolo di Delfi, mentre in
precedenza si usavano rami di melo in frutto
a simboleggiare una promessa d’immortalità.
I PINI
*Fam. Pinaceae
Gen. Pinus L.
Alberi indizio di morte, perché una volta tagliati
non ributtano mai più, ma anche promessa di
immortalità grazie all’estrema resistenza che
permette loro di prosperare negli ambienti
meno favorevoli, rappresentano il vigore e la
permanenza della vita vegetativa. Oltre alla
pianta stessa, nell’antichità anche la pigna
assumeva più significati: chiusa rappresentava
l’emblema della castità, mentre aperta
indicava l’esaltazione della potenza vitale
e la glorificazione dell’invincibile fecondità.
Per gli antichi il pino era un albero divino, se
non addirittura un dio. Attis, il pino sacro (in
specifico il pino da pinoli o parasole), moriva
e resuscitava sacrificando sé stesso. Se la
pigna evocava di per sé il fallo in erezione,
quella del pino da pinoli, che era di gran lunga
la più suggestiva per via del caratteristico
colore rossastro e lucido, raffigurava l’organo
che il dio si recideva da sé. Questo sacrificio
corrispondeva
soprattutto
al
salasso
dell’albero, ovvero alla raccolta della resina
definita resinatura a morte, operazione che
veniva praticata nel periodo in cui si celebravano
le feste di Attis. Durante queste celebrazioni
il sommo sacerdote si incideva il braccio e
presentava il suo sangue come offerta, mentre
gli altri sacerdoti si scatenavano in danze
sfrenate, flagellandosi fino a sanguinare,
lacerandosi con coltelli. Alcuni neofiti, al colmo
dell’eccitazione, si amputavano l’organo virile
e lo lanciavano come oblazione alla statua
di Cibele, dea asiatica e madre degli déi in
Frigia che i Romani assimilarono a Rea. Quei
ricettacoli di fecondità venivano in seguito
rispettosamente avvolti e sotterrati o posti
in camere sotterranee dedicate alla dea. Il
rito rianimava il dio morto e con lui tutta la
natura che germogliava nel sole primaverile.
Nell’antica Grecia era l’albero favorito di Rea,
la Terra Divinizzata, ma in seguito, in quanto
emblema sessuale, fu messo in rapporto con
Pan, il dio della sessualità selvaggia. È proprio
per sfuggire alla lubricità di Pan che la ninfa Piti
si mutò in pino nero, anche se un’altra leggenda
vuole che la ninfa preferisse Pan a Borea, il
vento del nord che, indispettito, si vendicò col
suo soffio violento e la fece precipitare giù da
raggiungono in 2 anni i 3-5 cm di lunghezza e i
2-3 di larghezza, contengono piccoli semi alati.
Ha un areale molto vasto, in cui si distingue
in varie razze dal portamento molto variabile,
dall’Europa centrale e nordoccidentale all’Asia
nordoccidentale, con nuclei disgiunti in
Scozia, Germania occid., Spagna settentr.; in
Italia si trova solo su Alpi e Prealpi, oltre ad
alcune stazioni dell’Appennino ligure-emiliano.
Sopporta bene il freddo e le forti escursioni
termiche, ma anche l’aridità e le estati calde
e lunghe.
24. SEQUOIA
una scarpata. Fu Pan a scoprirla e a tramutarla
immediatamente in un pino (o in un abete). Si
dice che, quando in autunno soffia la Borea,
la ninfa pianga: lo testimoniano le gocce di
resina che lacrimano dalle pigne.
23. PINO SILVESTRE
*Fam. Pinaceae
Pinus sylvestris L.
Si riconosce facilmente per la corteccia
arancione o bruno rossastra, la chioma rada
verde grigia, che nelle piante adulte tende
a limitarsi alla parte superiore del fusto
per potatura naturale. Può raggiungere 3540 m di altezza, e diametri max di 1 m, in
montagna può vivere fino a 200 anni; gli aghi,
a 2 a 2, sono corti (5-7 cm), ritorti, a sezione
semicircolare, rigidi e brevemente appuntiti,
di colore verde glauco; i fiori maschili, riuniti
all’ascella delle foglie in gruppi compatti,
sono di colore giallo, mentre quelli femminili
sono rossi e in posizione terminale; i coni
*Fam. Taxodiaceae
Sequoia sempervirens (D. Don) Endl.
L’albero più alto della terra, potendo raggiungere
e superare i 100 m di altezza, la sequoia è
originaria della California e dell’Oregon; gli aghi
sono di 2 tipi: simili a scaglie e appressati
quelli sui rametti dell’anno, appiattiti e portati
orizzontalmente quelli sui rametti più vecchi,
che sono leggermente penduli; i coni sono
piccoli, dapprima verdi, a maturità legnosi
e marroni, lunghi fino a 2 cm; la corteccia è
spessa e fessurata, di colore rossastro, non
a caso gli americani la chiamano “Redwood”.
La pianta cresce velocemente nei primi anni
di vita, richiedendo molta acqua e umidità,
per rallentare in seguito. È specie longeva con
esemplari che superano i 2000 anni; ha un
areale che va dall’Oregon meridionale fino al
di sotto della baia di Monterey in California,
dal livello del mare fino a circa 900 m. È un
areale distribuito lungo la cosiddetta “fog
belt” (fascia delle nebbie, così chiamata
per l’elevata frequenza di questo fenomeno
meteorologico). L’esemplare più alto di questa
specie si trova nell’Humboldt Redwoods State
Park e raggiunge un’altezza di 111 m e un
diametro di 6,30 m.
25. TASSO
*Fam. Taxaceae
Taxus baccata L.
Arbusto o albero alto fino a 12-15 m, con
diametri considerevoli negli esemplari molto
vecchi; è specie a lenta crescita e molto
longeva (può raggiungere anche 2000 anni);
in Europa esistono individui di 1500 anni. Il
tronco può essere indiviso o ramificato sin
dalla base, la corteccia si desquama in piccole
placche; le foglie sono lineari, flessibili, acute
ma non pungenti. Le foglie e i semi del tasso
sono altamente tossici, mentre la parte rossa
del seme (arillo) dolce e gradevole è uno dei
cibi preferiti dai piccoli passeriformi. Ha legno
molto forte ed elastico che, anticamente,
veniva utilizzato per la fabbricazione di archi.
Sopporta bene le potature, per cui può
essere foggiato in varie sagome. Il suo areale
comprende Europa, Caucaso e Himalaya;
proprio della fascia montana temperata, si
mescola al faggio, all’agrifoglio e agli aceri. In
natura è una specie protetta, anche se diviene
più frequente sulla Majella, sul Gran Sasso, sul
Gargano. Insieme all’agrifoglio, è una specie
relitta del periodo terziario. Protettore dei
defunti, veniva chiamato albero della morte,
in quanto velenoso e si credeva che chi si
fosse addormentato sotto i suoi rami sarebbe
morto. Distrutto quasi dovunque non solo per
utilizzarne il legno per la costruzione di armi,
ma anche per la tossicità delle sue foglie, è
sopravvissuto fino ai tempi moderni grazie alla
protezione dei morti: è proprio il suo utilizzo nei
cimiteri ad avergli permesso di attraversare i
secoli. Dotato di una vita prodigiosa costituiva
all’opposto una promessa di immortalità. Data
la longevità di alcuni esemplari rinvenuti in
Francia è molto probabile che il tasso sia stato
anticamente oggetto di culti pagani, inoltre,
essendo un albero sacro del druidismo, molti
oggetti cultuali, compreso il bastone druidico,
erano fatti di legno di tasso. Shakespeare lo
cita sia nell’Amleto, in quanto pianta velenosa
utilizzata per avvelenare il re, sia nel Macbeth,
in cui le streghe inglesi utilizzavano le talee nel
“calderone di Ecate”. È proprio alla dea degli
Inferi che i Romani sacrificavano dei tori neri
decorati con ghirlande di tasso per placare gli
spiriti infernali.
26. TSUGA
*Fam. Pinaceae
Tsuga canadensis (L.) Carr.
Proveniente dalle fredde regioni nordorientali
del Nord America, questa conifera raggiunge
i 25 m di altezza, con una chioma di forma
piramidale e sottili rami penduli all’estremità;
gli aghi sono lunghi 6-12 mm, di colore verde
scuro con 2 bande grigiastre sulla pagina
inferiore; i coni maschili sono piccoli, quelli
femminili, lunghi sino a 2 cm, liberano in
autunno i semi alati che vengono dispersi dal
vento.
Giuseppe
Il parco Mantegazza e il Castello di Masnago si
trovano in località Masnago, nella zona Nord-Ovest
della città.
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INFORMAZIONI TURISTICHE
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Linee urbane
Orari di apertura al pubblico
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primavera/estate
8.00 - 20.00
Via Crispi: P
P.za M. Grappa: tutte
autunno/inverno
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