La Relativit`a Generale di Einstein `e una teoria geometrica della

annuncio pubblicitario
La Relatività Generale di Einstein è una teoria geometrica della gravitazione,
basata su una nuova concezione dello spazio e del tempo. Essa affonda le sue
radici in almeno tre complessi di idee assai differenti tra di loro:
a) la critica di Mach della teoria del moto di Newton, e soprattutto della sua
concezione dello spazio e del tempo assoluti,
b) la scoperta, venuta dalla Relatività Ristretta, del fatto che spazio e tempo
non sono entità distinte, ma sono fusi insieme nel continuo tetradimensionale
degli eventi;
c) la legge di Galilei sul moto dei gravi.
Nelle pagine che seguono, illustreremo brevemente in che modo l’intreccio di
queste idee abbia guidato Einstein alla costruzione della Teoria. Probabilmente,
la parte più ardua di questa vicenda è quella che ha condotto alla concezione
relativistica dello spazio e del tempo come indivisibile continuum tetradimensionale ed il modo più appropriato per iniziarne l’analisi è rammentare ciò che
Newton scrisse su spazio e tempo nella sua opera più famosa, i Principia mathematica philosophiae naturalis. A proposito dello spazio, egli scrisse: ” Lo spazio
assoluto, per sua propria natura e senza riferimento ad alcunchè di esterno,
rimane sempre costante ed immobile. Lo spazio relativo è una specie di dimensione mobile o misura di spazio assoluto, che i nostri sensi determinano tramite
la sua posizione rispetto ad altri corpi, e che viene comunemente preso per lo
spazio assoluto.” Questa descrizione appare subito chiara a chiunque, probabilmente perchè l’ambiente naturale nel quale la nostra specie si è evoluta in
milioni di anni, la superficie solida della terra, è caratterizzato da un elevato
grado di stabilità; molte cose intorno a noi mantengono relazioni di forma e dimensioni pressochè invariabili nell’arco delle nostre esistenze, e ci forniscono, per
astrazione, il modello di uno spazio immutabile, distinto dal tempo, lo spazio appunto della geometria euclidea. A proposito del tempo, invece, Newton scrisse:
”Il tempo assoluto, vero e matematico, in sè e per sua natura senza relazione ad
alcunchè di esterno, fluisce equalmente”. Dunque spazio e tempo sono assoluti,
ed indipendenti dalla materia. Queste concezioni sono alla base delle tre leggi
della meccanica di Newton:
1) Ciascun corpo persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, eccetto che sia costretto a mutare quello stato da forze impresse.
2) Il cambiamento di moto è proporzionale alla forza motrice impressa, ed
avviene lungo la linea retta secondo la quale la forza è stata impressa.
3) A ogni azione corrisponde un’azione uguale e contraria.
Consideriamo la prima legge del moto: esso ci informa che un corpo, non
soggetto a forze esterne, permane indefinitamente in uno stato di moto rettilineo uniforme. Il lato oscuro del principio sta però nel fatto che non viene
spiegato come stabilire se un dato corpo sia effettivamente libero. Non si può
risolvere la questione dicendo che per osservare un corpo libero basta allontanarlo a sufficienza dagli altri corpi, perchè allora si dovrebbe spiegare quale
distanza è abbastanza grande. Se si rispondesse a questa ulteriore domanda
dicendo: finchè il moto del corpo diventa rettilineo uniforme, si introdurrebbe
1
nell’argomento una evidente circolarità. Un altro aspetto oscuro è che il primo
principio è apparentemente una conseguenza del secondo, in quanto da esso
discende che, in assenza di forze esterne, non c’è accelerazione e quindi si ha
un moto rettilineo uniforme. Perchè allora la legge d’inerzia è enunciata come
un principio, e non come un semplice corollario della seconda legge? In realtà,
queste difficoltà sorgono dal fatto che i tre principi presuppongono che il moto
dei corpi venga riferito allo spazio ed al tempo assoluti descritti all’inizio, dando
per scontato che lo sperimentatore sappia come identificarli e farli oggetto di
misura. Ma in concreto, Newton intendeva forse dire che lo spazio assoluto è in
realtà quello solidale alla Terra? E se no, come fare allora a identificare il vero
spazio assoluto? La risposta è che lo spazio ed il tempo assoluti sono definiti
implicitamente dai tre principi: se il moto viene riferito allo spazio ed al tempo
assoluti, l’osservazione di un’accelerazione nel moto di ciascun corpo può essere
ricondotta ad una o più forze imputabili all’azione, sul corpo considerato, di uno
o più altri corpi. Sottolineiamo che la capacità di associare ogni forza con una
causa materiale ben determinata, come la presenza di una fune che tira il corpo,
o di una molla deformata che lo prema, è essenziale. L’espressione matematica
precisa di questo fatto è che le forze devono essere funzioni delle proprietà di
altri corpi, ad esempio delle loro masse, del loro stato di deformazione, posizione
o velocità. Per contro, se il moto viene riferito ad un riferimento rigido in moto
accelerato rispetto allo spazio assoluto, compariranno, nelle equazioni del moto,
delle forze apparenti non riconducibili a cause materiali. Si chiarisce in questo
modo la funzione del primo principio: per evitare (apparentemente) di subordinare l’identificazione dello spazio assoluto al difficile problema di riconoscere
le cause materiali di tutte le forze agenti su un corpo in interazione con altri, si
immagina di disporre di corpi liberi, ossia esenti da forze esterne. Osservando
il moto dei corpi liberi, anche se non si può individuare lo spazio assoluto, si
possono almeno identificare quei riferimenti che non accelerano rispetto allo
spazio assoluto, perchè essi sono tutti e soli i riferimenti rispetto ai quali ogni
corpo libero appare muoversi di moto rettilineo e uniforme. Lo stesso Newton
illustrò, in un altro passo famoso dei suoi Principia, un semplice esperimento
che permette di stabilire se un certo corpo sia o no in rotazione rispetto allo
spazio assoluto. L’esperimento è quello del secchio: ”Se un secchio, sospeso ad
una lunga fune, viene rigirato su se stesso in modo da torcere fortemente la
fune, ed è poi riempito d’acqua e mantenuto in quiete assieme all’acqua; se a
questo punto, per azione di una seconda forza, viene improvvisamente messo
in rotazione nel verso contrario, e se esso persiste in questo moto per qualche
tempo, in modo che la fune si distenda, la superficie dell’acqua resterà inizialmente ben livellata, esattamente come prima che il secchio iniziasse a muoversi;
ma in seguito, il secchio, comunicando gradualmente il suo moto all’acqua, le
imprimerà una rotazione ben percepibile, e l’acqua allora si ritrarrà poco a poco
dal centro e si solleverà ai bordi del secchio, la sua superficie assumendo una
forma concava (Ho eseguito io stesso questo esperimento)...Al principio, mentre
era massimo il moto relativo dell’acqua rispetto al secchio, quel moto non pro2
duceva (nell’acqua) alcuna tendenza a recedere dall’asse, e l’acqua non mostrava
alcuna tendenza a muoversi verso l’alto in direzione della circonferenza, sollevandosi ai bordi del secchio, ma restava invece livellata, e per quella ragione
il suo vero moto circolare non era ancora iniziato. Ma successivamente, allorquando il moto relativo dell’acqua era diminuito, il sollevamento dell’acqua
presso i bordi del secchio indicava uno sforzo ad allontanarsi dall’asse; e questa
sforzo rivelava il moto circolare reale dell’acqua, moto continuamente crescente
fino a quando non raggiungeva il suo punto massimo, allorchè l’acqua era immobile relativamente al secchio.” Rendiamo ancor più esplicito il ragionamento di
Newton: in quest’esperimento, l’acqua ed il secchio sono in quiete l’una rispetto
all’altro in due momenti distinti, cioè all’inizio, prima che il secchio abbia iniziato a muoversi, ed in seguito, allorchè il secchio, posto in rotazione dalle forze
di torsione della fune, ha finalmente trasmesso il suo moto anche all’acqua.
Nonostante l’identità di moto relativo nelle due situazioni, si osserva però che il
comportamento dell’acqua non è affatto lo stesso, perchè solo nel secondo caso
essa si solleva verso i bordi. Newton deduce da questo che debbono esistere effetti dinamici non imputabili al solo moto relativo dei corpi, perchè allora l’acqua
dovrebbe comportarsi esattamente allo stesso modo nelle due situazioni. La sua
conclusione è che il comportamento dell’acqua deve dipendere dal suo stato di
moto rispetto allo spazio assoluto, che è differente nelle due situazioni, nullo nel
primo caso e rotatorio nel secondo.
Questa concezione del moto assoluto fu oggetto di critiche già da parte dei
contemporanei di Newton, in particolare di Leibnitz, ma colui che più sistematicamente ne mise in luce le debolezze fu E. Mach. In un passo della sua
La scienza della meccanica egli scrisse, a proposito dell’esperimento del secchio:
”L’esperimento di Newton con il secchio pieno d’acqua ci informa semplicemente
del fatto che la rotazione relativa dell’acqua rispetto alle pareti del secchio non
produce forze centrifughe apprezzabili, ma che invece tali forze sono prodotte
dal suo moto di rotazione, relativamente alla massa della Terra e degli altri
corpi celesti. Nessuno è autorizzato a dire come procederebbe l’esperimento se
si incrementassero lo spessore e la massa delle pareti del secchio, fino a farlo
diventare di diverse leghe.” Dunque, secondo Mach, i riferimenti privilegiati,
rispetto ai quali la descrizione dei fenomeni meccanici assume la forma più semplice, non dovrebbero essere determinati dal loro stato di moto rispetto ad un
intangibile spazio immobile, esistente a prescindere dalla materia ed indifferente
ad essa, ma piuttosto dal loro stato di moto relativo rispetto a tutta la materia
presente nell’Universo. Egli non fu in grado, però, di articolare le sue idee in
una teoria coerente del moto, alternativa a quella di Newton, ma nonostante
questo, la sua critica della visione newtoniana esercitò una profonda influenza
sul pensiero di Einstein.
Storicamente, i primi tentativi di superare la teoria newtoniana della gravitazione furono compiuti nell’Ottocento, con lo scopo di rimediare ad un altro
aspetto della legge di gravitazione universale, che aveva suscitato grandi perplessità già tra i filosofi meccanicisti dell’epoca di Newton, e cioè il suo carattere
3
di azione a distanza. Questi filosofi naturali, influenzati soprattutto dalla meccanica di Cartesio, consideravano inconcepibile, e quasi magica, la possibilità di
un’azione istantanea a distanza tra due corpi, senza che vi fosse un contatto diretto, o senza che fra essi fosse interposto un mezzo materiale capace di trasmettere l’interazione. In realtà, fino alla prima metà dell’Ottocento, il mistero delle
azioni a distanza non riguardava solo la forza gravitazionale; accanto ad essa,
stavano le forze elettrostatiche tra corpi carichi, già note ai Greci, e le interazioni
tra circuiti percorsi da corrente, scoperte in quegli anni; entrambe le interazioni,
sebbene influenzate dal mezzo, parevano capaci di trasmettersi anche nel vuoto.
La descrizione, da parte di Faraday, dei fenomeni elettrodinamici in termini
di campi elettromagnetici e la successiva scoperta, da parte di Maxwell, delle
equazioni che li descrivono, parvero tuttavia ricondurre le interazioni elettrodinamiche nell’ambito meccanicista delle azioni per contatto. Le equazioni di
Maxwell sono, infatti, equazioni locali di campo, che descrivono come i campi
elettromagnetici variano da un punto all’altro dello spazio e da un istante di
tempo all’altro, analogamente alle equazioni dell’elesticità o dell’idrodinamica.
Decisiva fu la predizione teorica dell’esistenza di onde elettromagnetiche che si
propagano nel vuoto con velocità finita, che condusse all’inclusione dei fenomeni
luminosi tra quelli elettrodinamici. La semplice esistenza delle equazioni di
campo di Maxwell parve prova convincente del fatto che lo spazio fosse riempito
da un mezzo elastico onnipresente, sede appunto delle vibrazioni luminose, che
fu chiamato etere. Appariva seducente, a questo punto, la possibiltà che l’etere
potesse fornire il riferimento spaziale assoluto che Newton aveva postulato per la
sua meccanica. Il quadro sarebbe stato completo se si fosse riusciti a riformulare
anche la teoria della gravitazione universale come una teoria di campo, sul modello delle equazioni di Maxwell. Non deve stupire che lo stesso Maxwell si sia
cimentato nell’impresa. Vista la somiglianza tra la legge di Newton dell’inverso
del quadrato e la legge di Coulomb, si potrebbe supporre che la legge di gravitazione universale sia il limite statico di una teoria dinamica della gravitazione,
descritta da equazioni della stessa forma di quelle del campo elettromagnetico.
Il campo gravitazionale newtoniano corrisponderebbe al campo elettrico, ma si
dovrebbe introdurre un nuovo campo analogo al campo magnetico, non presente nella teoria newtoniana, e responsabile di nuove interazioni gravitazionali
tra corpi in moto (vedremo che la presenza di nuove interazioni è anche una
caratteristica della teoria di Einstein). Si tratterebbe solo di fare in modo che
la forza gravitazionale risultasse sempre attrattiva. Ciò si può ottenere facilmente, sostituendo la densità di carica e corrente elettrica con l’opposto della
densità e corrente di massa ed imponendo la condizione che la densità di massa
sia sempre positiva. Questo è effettivamente ciò che Maxwell fece, ma dopo un
breve esame della teoria, egli fu indotto ad abbandonarla da una constatazione
disastrosa: per effetto del cambio di segno, la densità d’energia del campo gravitazionale risulta essere negativa, e non positiva come nel caso elettromagnetico.
Quella costruita da Maxwell è solo il primo esempio di teoria vettoriale della
gravità, in contrapposizione con la teoria di Newton, che è una teoria scalare, in
4
quanto il campo gravitazionale è descritto in termini del solo potenziale scalare.
Dopo Maxwell, altri si sono cimentati nella costruzione di teorie tensoriali per
la gravità sul modello dell’elettromagnetismo, ma tutte si sono scontrate con il
problema della positività dell’energia per il campo gravitazionale.
Nonostante questi fallimenti, la strada che condusse Einstein alla sua teoria
della gravitazione passa comunque per la teoria elettromagnetica di Maxwell,
anche se in una maniera assai sottile, che coinvolge il principio di relatività di
Galilei e ci riporta alla questione dei sistemi di riferimento. Anche se Newton
aveva parlato di uno spazio assoluto, la sua teoria del moto non permetteva in
realtà di distinguere un sistema di riferimento in quiete nello spazio assoluto da
uno che si fosse trovato in moto rettilineo uniforme rispetto ad esso. Il primo
ad essersi reso conto del fatto che il moto uniforme non era distinguibile dalla
quiete fu Galileo Galilei, come è testimoniato dal celebre episodio della nave
nei suoi Dialoghi sopra i massimi sistemi del mondo. L’equivalenza dei sistemi
di riferimento inerziali rispetto ai fenomeni meccanici non sembrava estendersi,
apparentemente, ai fenomeni elettromagnetici. La teoria di Maxwell prevedeva
infatti che la luce dovesse propagarsi con una velocità finita, uguale in tutte le
direzioni. L’interpretazione della luce come vibrazione dell’etere faceva allore
apparire ovvio che essa si sarebbe comportata a questo modo solo nel sistema
locale di riferimento che si fosse trovato a condividere lo stato di moto dell’etere,
mentre in ogni altro riferimento, in moto rispetto al primo, essa avrebbe dovuto
propagarsi con velocità differenti in direzioni diverse. Tuttavia, nessuno degli
esperimenti effettuati con la luce ai primi del secolo fu in grado di rivelare alcun
moto della terra rispetto all’etere, il che portò alcuni ad ipotizzare che la terra
trascinasse con sè l’etere che attraversava. Einstein scelse invece una strada
più radicale: egli assunse che il principio di relatività di Galilei valeva anche
per i fenomeni elettromagnetici, e che di conseguenza le leggi di propagazione
della luce dovevano essere le stesse in tutti i riferimenti inerziali. Per realizzare
questa idea, fu necessario sottoporre ad una revisione radicale i concetti di tempo
e velocità ereditati dalla fisica newtoniana, una operazione questa già intrapresa
da Poincarè. Einstein evidenziò che le misure di velocità classiche si basavano
inconsapevolmente su due ipotesi:
1) che il tempo è assoluto, cioè che l’intervallo di tempo tra due eventi è lo stesso
per tutti i sistemi inerziali (una volta che si scelga opportunamente l’unità di
misura);
2) che le lunghezze di intervalli spaziali sono assolute.
Se si accettano queste due ipotesi si giunge necessariamente alla conclusione
che la velocità della luce non può essere la stessa in tutti i sistemi di riferimento
inerziali. Di conseguenza, per estendere il principio di relatività di Galilei ai
fenomeni luminosi, è necessario abbandonare una o entrambe le ipotesi precedenti. Per stabilire come andassero modificate, Einstein si affidò al principio
della costanza della velocità della luce per definire una procedura operativa per la
misura di tempi e distanze, basata sullo scambio di segnali luminosi. Il risultato
dell’analisi fu che nè l’intervallo temporale tra due eventi, nè la distanza spaziale
5
tra due eventi simultanei hanno un significato oggettivo, cioè indipendente dal
sistema di riferimento inerziale. In particolare non esiste una definizione di simultaneità uguale per tutti i riferimenti inerziali. L’unica quantità invariante è
la seguente combinazione degli intervalli temporali e spaziali tra due eventi:
∆s2 = −(∆t)2 + (∆x)2 + (∆y)2 + (∆z)2
.
(1)
La conseguenza logica di questo fatto è che non esiste una maniera oggettivamente valida di separare lo spazio dal tempo, come veniva assunto nella
teoria newtoniana. La sola entità dotata di significato oggettivo è il continuo
tetradimensionale degli eventi, assieme alla “distanza” invariante (1). In realtà, anche nella fisica newtoniana, l’applicazione coerente del principio di relatività di Galilei non consente di dare un significato oggettivo all’affermazione
che due eventi non simultanei si verificano nello stesso luogo e questo implica
che l’idea intuitiva di spazio come insieme di punti non ha fondamento neppure
nell’Universo newtoniano. Ciò che ha impedito a lungo di riconoscere che la
sola realtà oggettiva è costituita dal continuo tetradimensionale degli eventi è
il ruolo privilegiato conservato dal tempo, nella teoria prerelativistica. Sarebbe
scorretto dire però che il tempo assoluto scompare dalla scena: in Relatività
Ristretta il tempo proprio misurato da un orologio in moto qualsiasi è una quantità assoluta, nel senso che due orologi ideali, di costituzione qualsiasi, che si
muovano appaiati, segneranno sempre lo stesso tempo. In questo senso, si può
ancora dire del tempo proprio ciò che Newton diceva del tempo assoluto, ovvero
che ”fluisce equalmente senza relazione ad alcunchè di esterno”. Ciò di cui la
Relatività Risretta ha mostrato l’impossibiltà è l’esistenza di una regola universale per confrontare le indicazioni di tempo proprio fornite da orologi situati in
luoghi diversi o in condizioni di moto diverse. Il problema della simultaneità è
cioè soltanto un problema di coordinazione di osservazioni temporali.
Un importante contributo nella chiarificazione della struttura dello spaziotempo relativistico fu portato dal matematico Minkowski: egli mostrò che esso
poteva essere concepito come uno spazio geometrico del tutto analogo allo spazio
fisico usuale, quello della geometria euclidea. Pensando agli eventi come ai punti
dello spazio euclideo, ed all’invariante (1) come alla distanza euclidea, si potevano definire le nozioni di retta, parallelilsmo, angolo tra rette etc.. Il vantaggio
metodologico derivante da questa concezione è che essa ci libera dalla necessità
di ricorrere alle coordinate per immaginare le relazioni spazio-temporali, esattamente come non abbiamo bisogno delle coordinate cartesiane per immaginare le
figure geometriche della geometria euclidea. In un certo senso il cammino storico
compiuto nella geometria euclidea, dalla visione sintetica di Euclide a quella algebrica di Cartesio, è stato percorso in senso inverso, grazie a Minkowski, nella
teoria relativistica dello spazio-tempo: qui, è venuto prima il metodo delle coordinate, e solo dopo si è scoperta la geometria intrinseca dello spazio-tempo.
Una volta formulata la teoria della Relatività Ristretta, divenne presto chiaro
che la teoria della gravitazione universale di Newton non poteva essere mantenuta, essendo la nozione di azione istantanea a distanza incompatibile con
6
l’assenza della simultaneità assoluta nello spazio-tempo relativistico. Si contarono, negli anni successivi, un numero di tentativi di costruire teorie della
gravitazione Lorentz-invarianti, del tipo di quella proposta mezzo secolo prima,
da Maxwell. La strada scelta da Einstein, e che lo portò dopo dieci anni ad enunciare la teoria della Relatività Generale, è invece totalmente diversa. In questo
egli fu soprattutto influenzato da due ispirazioni, una di carattere filosofico e
l’altra sperimentale. La spinta filosofica proveniva dall’opera di Mach ed investiva in pieno la appena scoperta Relatività Ristretta. Infatti, anche se la
fusione dello spazio con il tempo in un continuo tetradimensionale rappresentava la grande novità concettuale introdotta dalla Relatività Ristretta, le ragioni delle critiche machiane alla concezione newtoniana dello spazio assoluto
restavano intatte, poichè, anche nella nuova teoria, la geometria dello spaziotempo era data a priori, e indipendentemente dalla materia. In particolare,
l’accelerazione di una particella restava un assoluto, proprio come avveniva nella
teoria newtoniana: la sola differenza stava nel fatto che essa era, nella nuova
teoria, una quantità quadridimensionale, invece che tridimensionale. Profondamente influenzato dalle idee di Mach, Einstein era consapevole che, sotto questo
riguardo, la relatività ristretta non era superiore alla teoria di Newton.
La seconda grande intuizione era, in verità, sotto gli occhi di tutti, sin da
quando Galilei l’aveva svelata nella sua opera I principi della nuova meccanica:
si trattava del fatto che tutti i corpi pesanti si muovono allo stesso modo sotto
l’azione della gravità. Cioè:
Legge di Galilei: se si prendono due corpi pesanti qualsiasi e li si lancia dallo
stesso luogo e nello stesso istante, con la stessa velocità iniziale, avendo cura di
ridurre al minimo la resistenza dell’aria, si osserva che essi procedono appaiati
e passano per gli stessi punti contemporaneamente.
Nella teoria di Newton, questo fatto non aveva una spiegazione, ma veniva semplicemente accolto, assumendo che l’inerzia dei corpi è sempre proporzionale
al loro peso. Si deve sottolineare che la legge di Galilei vale esclusivamente
per i corpi che si muovano sotto l’azione della sola gravità, che cioè siano in
caduta libera, e cessa di essere vera se sono presenti altri campi, come un campo
elettrico e magnetico. Si dovrebbe anche precisare che i corpi dovrebbere essere
abbastanza piccoli da non influenzare apprezzabilmente il campo gravitazionale.
La legge di Galilei si presenta sotto una luce tutta nuova se, rinunciando a separare il tempo dallo spazio, operazione illusoria secondo la Relatività Ristretta,
la formuliamo in termini spazio-temporali. Il moto di una particella materiale
ci si presenta allora come una curva nello spazio-tempo tetradimensionale e la
legge dei gravi di Galilei ci dice che, in questo continuo a quattro dimensioni,
esiste una famiglia infinita di curve privilegiate, che sono appunto le traiettorie
descritte dai corpi in caduta libera. Il fatto che tali curve non dipendono dalla
costituzione fisica o chimica dei corpi, ma sono date una volta e per tutte, fa
supporre che tali curve descrivano proprietà geometriche dello spazio-tempo e
non dei corpi in questione. Dopotutto, questo è quello che facciamo quando, in
geometria euclidea, parliamo della retta che congiunge due punti, senza riferirci
7
ad un materiale particolare per realizzarla nella realtà, sia che si tratti dello
spigolo di legno di un tavolo, o di una funicella tesa o di una sottile linea
d’inchiostro. Un’analogia ancora più illuminate e però quella tra la legge di
Galilei ed il principio d’inerzia: per apprezzarla, è però necessario formulare
il principio d’inerzia in una maniera leggermente differente da quella usuale.
Nella sua versione usuale, infatti, si pone l’enfasi sul fatto che le traiettorie
spaziali di tutte le particelle in moto libero sono rettilinee, indipendentemente
dalla velocità: se cioè due particelle libere transitano per lo stesso punto dello
spazio (non necessariamente nello stesso istante) muovendosi nella stessa direzione, esse percorrono in seguito la retta (spaziale) passante per quel punto ed
avente tangente parallela alla velocità. A seconda della velocità, tale retta sarà
percorsa con legge oraria diversa. E’ evidente che questa forma del principio
d’inerzia non si può modificare in modo che valga anche per i corpi in caduta
libera. Se due particelle in caduta libera transitano per un dato punto dello
spazio, anche simultaneamente, con velocità parallele, ma differenti in modulo,
esse descriveranno in seguito traiettorie spaziali differenti. Per mettere in luce
l’analogia tra moti liberi e moti di caduta libera, è necessario includere anche il
tempo, e descrivere il moto delle particelle con curve dello spazio-tempo, e non
dello spazio soltanto. Se si fa questo nel principio d’inerzia, si vede subito che
due particelle libere che transitano per lo stesso punto dello spazio, muovendosi
nella stessa direzione, ma o non contemporanemamente o non con la stessa velocità, percorrono curve diverse nello spazio-tempo. Se però le due particelle
transitano per un dato punto nello stesso istante e con la stessa velocità vettoriale, esse descrivono esattamente la stessa curvsa di mondo. Rimandando al
seguito il problema di stabilire in che senso tali curve dello spazio-tempo sono
rettilinee, notiamo subito un fatto importante: con la nuova formulazione della
legge d’inerzia, se nell’enunciato della legge di Galilei, si sostituisce l’aggettivo
pesanti con liberi, esso diventa uguale in tutto alla legge d’inerzia, nella nuova
formulazione. Per sfruttare più a fondo l’analogia, risaminiamo più da vicino
questo principio, nel linguaggio dello spazio-tempo. Il principio d’inerzia stabilisce che le traiettorie spazio-temporali di una particella libera sono descritte,
nelle coordinate cartesiane associate con un riferimento inerziale, dalle equazioni
parametriche:
xµ (s) = aµ s + bµ ,
(2)
dove s è un parametro arbitrario lungo la curva, ed aµ e bµ sono costanti che
individuano le traiettorie. Minkowski aveva mostrato che le curve (2) sono,
nello spazio-tempo quadridimensionale, l’analogo delle rette della geometria euclidea, nel senso che esse rappresentano, rispetto alla distanza (1), i cammini
di lunghezza minima tra due punti assegnati, sono cioè geodetiche. Dunque,
nella Relatività Ristretta, il principio d’inerzia si può riformulare dicendo che
le particelle libere descrivono geodetiche dello spazio-tempo di Minkowski. Le
geodetiche dello spazio-tempo della Relatività Ristretta condividono un’altra
proprietà delle rette usuali dello spazio di Euclide: due rette parallele, cioè due
8
curve del tipo (2), con uguali aµ , ma diversi bµ , non si incontrano mai e la distanza tra di esse, misurata mediante segnali luminosi, è uguale per tutti i loro
punti.
Consideriamo adesso la superficie di una sfera, e domandiamoci quali siano
i cammini più brevi che possiamo percorrere tra due suoi punti, senza mai
distaccarci da essa: si tratta evidentemente della circonferenza massima che li
connette. Dunque, le circonferenze massime sono, per la sfera, quello che le rette
sono per un piano. Adesso, però, notiamo una cosa notevole: consideriamo le
geodetiche passanti per due punti dell’equatore e dirette verso il polo Nord della
sfera. E’ evidente, che al principio, esse procederanno parallelamente, nel senso
che manterranno una distanza invariata l’una dall’altra, ma, a mano a mano
che si procede verso il polo, si osserva che esse si avvicinano l’una all’altra.
Un’osservatore sulla superficie della sfera, che non sapesse di trovarsi su una
superficie curva e che ragionasse in termini newtoniani, dedurrebbe da questa
osservazione che la causa di questo avvicinamento è una qualche forza agente
sulle due particelle. In realtà, non c’è alcuna forza, e le due particelle vanno
“dritte” quanto più possono; l’avvicinamento è solo una conseguenza della curvatura della superficie. Se si confronta il comportamento delle due geodetiche
sulla superficie della sfera, con il moto di due corpi pesanti lasciati cadere da
punti diversi situati a diverse altezze sulla stessa verticale, si scoprono analogie
sorprendenti. Per cogliere esattamente l’analogia, dobbiamo pensare il moto
dei due corpi nello spazio-tempo. Per facilitare la visualizzazione, sopprimiamo
le due dimensioni spaziali nel piano orizzontale, in modo da poter pensare lo
spazio-tempo come una superficie bidimensionale, come era il caso della sfera.
Notare che le due dimensioni spaziali sulla sfera, corrispondono qui alla dimensione temporale ed all’unica dimensione spaziale considerata, la verticale. E
adesso viene la cosa importante: poichè il campo di gravità della Terra aumenta
di intensità avvicinandosi al centro della Terra, le due particelle, pur percorrendo la stessa verticale, si allontaneranno lentamente l’una all’altra. Come nel
caso delle due geodetiche sulla sfera, anche qui le distanze tra le due curve non
rimane costante! L’idea della Relatività Generale è che, come nel caso della
sfera, tale comportamento non va imputato alla presenza di un campo di forze,
ma è la manifestazione della curvatura dello spazio tempo. La legge di Galilei,
in questo modo, acquista una spiegazione assai semplice: si tratta solo di dire
che le traiettorie spazio-temporali dei corpi in caduta libera sono geodetiche
dello spazio-tempo. Poichè tali curve sono definite a partire dalle proprietà geometriche dello spazio-tempo, non si dovrebbe chiedere perchè tutte le particelle
pesanti si muovono allo stesso modo sotto l’azione di un campo gravitazionale,
più di quanto ci si chieda perchè ciò accade per le particelle libere. La legge
di Galilei è una generalizzazione del principio d’inerzia: la sola differenza tra
le due situazioni è che, quando è presente un campo gravitazionale, lo spaziotempo è curvo. E poichè i campi gravitazionali sono generati dalla materia, si
può dire che, secondo la Relatività Generale, la materia determina le proprietà
geometriche dello spazio-tempo. E’ interessante notare che quest’idea non rap9
presentava una novità, di per sè: già alla metà dell’Ottocento, uno dei padri
della geometria non-euclidea, B. Riemann, aveva preso in considerazione, ma
senza articolarla oltre, la possibilità che la curvatura dello spazio potesse essere
deteriminata dalla materia. C’è però una differenza determinante con la relatività Generale: mentre in questa teoria la curvatura di cui si parla è quella
dello spazio-tempo, Riemann si riferiva soltanto allo spazio. Nessuno ai suoi
tempi metteva in dubbio il concetto newtoniano di tempo assoluto. Questo fa
capire il ruolo determinante svolto dalla Relatività Ristretta, con la sua nozione
di spazio-tempo tetradimensionale, nell’aprire la strada verso la teoria Generale.
10
Scarica