Antonella Corradini L’uomo: un animale tra gli altri Nuove visioni scientifiche sull’uomo (Dattiloscritto per uso strettamente interno) L’attuale temperie naturalistica ha radici antiche, di cui si può trovare traccia già nel pensiero greco. Ciò a cui assistiamo oggigiorno non consiste perciò nella proposta di visioni antropologiche originali, quanto piuttosto nella loro scientificizzazione. Dal momento che quella scientifica è l’unica forma di razionalità che il mondo contemporaneo riconosce come universalmente valida, ciò significa che l’immagine naturalistica dell’uomo assume nella cultura odierna un prestigio e una credibilità che mai forse ha avuto nei secoli passati. Due scienze sono responsabili in particolare della “svolta naturalistica” a cui assistiamo: la biologia e la psicologia. Scopo del mio intervento sarà mostrare su quali basi scientifiche poggia la prospettiva antropologica naturalistica e sottolineare le differenze che la separano dalla visione tradizionale dell’uomo. La biologia evoluzionistica Per inquadrare il problema che è oggetto di questa conferenza, ritengo opportuno compiere in primo luogo un breve excursus storico sulla nozione di spiegazione nell’ambito delle scienze biologiche. Si ha il succedersi di tre tipi diversi di spiegazione: 1. Spiegazione finalistica (Aristotele) 2. Spiegazione intenzionalistica (Linneo) 3. Spiegazione selezionistica (Darwin) ad 1: Modello finalistico Ad Aristotele dobbiamo la prima formulazione della biologia come scienza: lo Stagirita non aveva semplici intenti descrittivi e/o classificatori, ma si proponeva di spiegare il mondo della vita, soprattutto ricorrendo alla nozione di causa finale (oltre a formale, materiale e motrice). “Ma nasce un dubbio: che cosa vieta che la natura agisca senza alcun fine e non in vista del meglio, bensì come piove Zeus, non per far crescere il frumento, ma per necessità (difatti ciò che ha evaporato, deve raffreddarsi e, una volta raffreddato, diventa acqua e scende giù; e che il frumento cresca quando questo avviene, e un fatto accidentale)? (Fisica, II, 8, 198b). Caratteri della causa finale aristotelica: Causa finale = efficacia del piano del dover-essere su quello dell’essere. Un processo si verifica perché un determinato ente raggiunga il suo compimento, la sua realizzazione. Tale realizzazione, in quanto positiva per l’ente in questione, è il suo dover-essere, che esercita una causalità (finale) sull’essere. Modello aristotelico Principio di efficienza del fine Condizione valutativa Condizioni di favore Conclusione Se è positivo per il seme diventare albero, allora in condizioni favorevoli esso diventa albero È positivo per questo seme diventare albero Sono date le condizioni favorevoli Questo seme diventa albero Il finalismo o teleologia di cui parla Aristotele è universale, ossia riguarda tutti gli enti, anche quelli non intelligenti, dunque incapaci di intenzionalità. Tuttavia, Aristotele non concepisce un fine unico dell’universo, in quanto il dover-essere è diverso per ogni ente: la finalità è intrinseca a ogni ente. ad 2: Modello intenzionalistico o argomento del disegno I filosofi moderni, come Bacone e Cartesio, sottopongono a critica la nozione di causa finale. Con l’avvento della scienza galileiana, la causa finale aristotelica perde credibilità e la spiegazione finalistica non viene più considerata una spiegazione scientifica. Nell’ambito della biologia la spiegazione finalistica aristotelica viene sostituita da un altro tipo di spiegazione che spesso viene chiamata anch’essa finalistica ma, come vedremo, non a ragione. L’ordine attestato nella natura non è frutto di una finalità intrinseca a ogni cosa, ma del piano di un Ordinatore che intenziona nella propria mente il fine da raggiungere e i meccanismi causali più adatti per conseguirlo. Perciò si tratta in realtà di una spiegazione intenzionalistica, perché si basa sulle intenzioni di un Ordinatore. Modello intenzionalistico (Linneo, Paley) Principio di efficienza dell’intenzione Condizione epistemica Condizione di non impedimento Conclusione Se l’Ordinatore ritiene positivo per il seme diventare albero, allora se non ci sono impedimenti fà in modo che il seme diventa albero L’Ordinatore ritiene che sia positivo per questo seme diventare albero Non ci sono impedimenti di ordine fisico L’Ordinatore fà in modo che ci sia un processo tale che questo seme diventi albero È chiaro che un modello esplicativo di questo tipo non avrebbe senso se valesse la causa finale aristotelica. Proprio perché manca un meccanismo di spiegazione intrinseca all’ente, è necessario ricorrere a un meccanismo di spiegazione estrinseca al mondo della natura. ad 3: Modello selezionistico L’opera di Darwin segna nella biologia una rivoluzione paragonabile a quella che la scienza galileiana ha rappresentato per la fisica. Con il selezionismo darwiniano viene infatti meno ogni residuo di finalismo, comunque inteso, e si aprono le porte a una concezione meccanicistica delle scienze della vita. La spiegazione selezionistica comprende due fasi: 1. l’organismo si modifica, ossia nel caso di una popolazione di farfalle maculate, alcune di esse assumono colore scuro. Darwin ignorava le cause della variazione. La genetica avrebbe poi spiegato che si tratta di mutazioni casuali. 2. La variazione, nell’interazione con l’ambiente ha o non ha valore adattativo. A differenza che per Linneo o anche Lamarck, molte variazioni non hanno carattere adattativo, quindi non vengono selezionate e non passano alle generazioni successive. Modello selezionistico A. Precondizioni i. Esiste una popolazione di farfalle maculate ii. Le farfalle variano quanto al colore, chiaro o scuro. iii. Le farfalle vengono predate dagli uccelli in un ambiente dove gli alberi sono stati scuriti dalla fuliggine. B. Interazione iv. Le farfalle, in virtù di possedere o non possedere il colore scuro, interagiscono in maniera differente con gli uccelli predatori. v. Il colore scuro degli alberi influisce sull’interazione così che C. Effetto vi. Il possesso del colore scuro garantisce vantaggi alle farfalle quanto alla sopravvivenza. La spiegazione del perché le farfalle hanno il colore scuro varia dunque a seconda del tipo di modello che viene posto a fondamento della spiegazione: - Perché è il loro fine intrinseco acquisire il colore scuro e adattarsi - Perché l’Ordinatore ha intenzionato la bontà del loro adattamento - Perché si è verificata una variazione casuale (la comparsa del colore scuro), che è stata selezionata nell’interazione con l’ambiente. Tutti e tre questi paradigmi biologici includono anche l’uomo nelle loro considerazioni. Per i primi due non si pone il problema di un conflitto. “...percorrendo la serie delle cose create e considerando con quale previdenza sono state fatte l’una per l’altra, scopriamo infine che tutte le cose sono state fatte per l’uomo affinché, ammirando le opere del Creatore, egli esalti la Sua gloria e insieme goda di tutte le cose di cui ha bisogno per trascorrere la vita in comodità e con gioia” (Linneo, Oeconomia naturalis, in Linneo, L’equilibrio della natura, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 51.) Ma che dire a proposito del paradigma selezionistico? Nell’opera L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1871) Darwin estende la dottrina selezionistica anche all’uomo, sia per quanto riguarda le capacità intellettuali, sia quelle morali (anche se è dimostrabile che sin dall’inizio Darwin riteneva che l’uomo fosse incluso nel paradigma selezionistico). Il problema di un possibile conflitto tra dati scientifici e immagine religiosa dell’uomo viene talvolta risolto ricorrendo a una concezione separatistica. Un esempio è quella sostenuta dal paleontologo e genetista Stephen Jay Gould nel testo: I pilastri del tempo. Sulla presunta inconciliabilità tra fede e scienza, Il Saggiatore, Milano 2000. Nel libro poc’anzi citato, Gould si occupa dei rapporti tra scienza e fede, ma anche in realtà dei rapporti tra scienza ed etica. La scienza si occupa dei fatti, l’etica dei valori, mentre la religione dà linfa alla tradizione entro cui si inserisce la riflessione morale. Tesi di Gould = scienza ed etica sono due dimensioni (magisteri) diversi, che sono chiamate a interagire tra di loro, ma senza sovrapporsi Ora, un modello separatistico così inteso a mio avviso è corretto nella misura in cui non è anche un modello concordistico, cioè tale da sostenere l’impossibilità a priori di un conflitto tra le due dimensioni. Gould sembra però propendere per un modello concordistico, come si può vedere da un esempio che egli stesso apporta. Affrontando il tema dei rapporti tra cattolicesimo ed evoluzionismo, Gould ricorda i pronunciamenti papali al riguardo, ossia l’enciclica Humani Generis (1950) di Pio XII e la più recente dichiarazione di Giovanni Paolo II del 1996. Secondo Gould, entrambi i pronunciamenti sono conformi al principio separatistico, in quanto condividono la dottrina evoluzionistica per quanto riguarda l’evoluzione del corpo umano, ma non per quanto riguarda l’anima, in riferimento alla quale si afferma che venga direttamente creata da Dio. Scienza e teologia devono in un certo senso dividersi il lavoro: la scienza si occupa del corpo, la teologia dell’anima. Si dà il caso tuttavia, che le cose non siano così semplici. È vero infatti che dell’anima si occupa la teologia. Delle pre-condizioni affinché sia sensato parlare dell’anima si occupa però la filosofia; e questa a sua volta, non può ignorare i dati che le fornisce la scienza. Ora, la tesi di Darwin è che le capacità intellettuali e morali dell’uomo si differenziano solo per grado e non per qualità da quelle degli animali. Il gradualismo darwiniano mina perciò l’idea che l’uomo possegga caratteristiche qualitativamente differenti da quelle animali come quelle attribuitegli dalla tradizione filosofica, ad esempio la capacità di intenzionamento dell’astratto, che è alla base della conoscenza della dimensione meta-empirica e morale. Di conseguenza, l’immagine darwinistica dell’uomo non fornisce le pre-condizioni affinché si possa parlare di infusione dell’anima nel corpo umano. Scavando sotto la superficie emerge quindi un contrasto possibile tra scienza e fede che non può essere risolto a priori. Cercherò di argomentare a favore di questa tesi esaminando il concetto di razionalità che emerge dalle opere di Darwin. “Non vi è differenza fondamentale fra l’uomo e i mammiferi più elevati per ciò che riguarda le loro facoltà mentali” (L’origine dell’uomo, p. 64). “Fra tutte le facoltà della mente umana, si riconoscerà, credo, che la Ragione è la più elevata. Sono pochi quelli che vorranno negare che gli animali siano forniti di un certo potere di ragionare. Si possono vedere costantemente animali che si fermano, deliberano e risolvono. È un fatto significativo che, quanto più un naturalista studia le abitudini di un dato animale, tanto più dà spazio alla ragione e meno al semplice istinto” (L’origine dell’uomo, p. 74). La razionalità non è propria solo dei primati superiori. “Alcuni animali assolutamente inferiori danno apparenti prove di un certo grado di ragione” (L’origine dell’uomo, p. 74). L’ultimo libro di Darwin, “La formazione della terra vegetale per azione dei lombrichi” (1881, UTET 1882) porta l’autore alla conclusione che anche il verme agisce non solo per istinto ma anche in base alla ragione. Risultato, afferma Darwin, “che mi ha arrecato maggior sorpresa che non qualunque altro rispetto ai lombrichi” (p.16). Cosa intende Darwin per razionalità? Darwin = l’attribuzione di razionalità a un animale è una questione empirica, da appurare in base ad adeguate situazioni sperimentali. Un animale, ad esempio, è razionale se si dimostra in grado di risolvere i problemi che gli vengono posti, quando la soluzione non si può attribuire all’istinto o a comportamenti per prova ed errore. Darwin dedica molte pagine della sua ultima opera a discutere se il comportamento dei vermi, così come lui lo ha osservato, possa essere considerato “intelligente”. Altri animali semplici non hanno lo stesso grado di intelligenza dei lombrichi. Questo è il caso della vespa sphex: ha repertori di comportamento simili ai vermi, ma non è in grado di affrontare situazioni modificate (p. 40). Da ciò segue che la razionalità è 1. una questione empirica; 2. una questione di grado. Quanto all’uomo, non è l’animale razionale, ma l’animale più razionale, semmai. Anche questo tuttavia va indagato empiricamente. Non è detto che tutti i membri della specie umana siano più razionali degli scimpanzé. Siamo già in grado a questo punto di scorgere alcuni punti nodali che differenziano la concezione darwiniana della razionalità da quella filosofica classica. Concezione classica = la razionalità non è una caratteristica empirica, ma pertiene alla struttura ontologica dell’uomo, secondo la definizione boeziana: persona = individua substantia rationalis naturae. Il grado in cui un soggetto è razionale sotto il profilo empirico non interferisce con la caratteristica ontologica della razionalità, che in quanto tale è propria della natura umana tout-court. DARWINISMO L’uomo non ha un’essenza. La natura umana è la sua dotazione biologica. Le differenze tra uomo e animale sono di grado. La razionalità è una proprietà di tipo comparativo. Non esistono differenze di valore assolute. Si può ponderare il valore degli animali e degli umani e degli uomini tra loro. METAFISICA TEISMO L’uomo ha un’essenza L’uomo è fatto immutabile. immagine di Dio ad Le differenze tra uomo e animale sono di genere. La razionalità è una proprietà di tipo classificatorio. Esistono differenze di valore assolute. Tutti e solo gli esseri umani hanno valore assoluto nei confronti degli animali e gli uni nei confronti degli altri. Oltre a ciò, se l’uomo è solo differente per grado dagli animali, non è giustificato attribuirgli uno status morale speciale, in particolare una dignità che lo elevi sopra ogni altra creatura. Il darwinismo, sotto questo profilo, mina la plausibilità anche delle categorie dell’etica tradizionale, sia filosofica sia teologica. Tutto ciò è mostrato magistralmente da J. Rachels, Creati dagli animali. Implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità 1996. Rachels sostiene la prospettiva dell’individualismo morale: “....sono la ricchezza e la complessità della vita individuale ad avere rilevanza morale. Alcuni umani, sfortunatamente, non sono in grado di avere il complesso tipo di vita di cui stiamo parlando. Un infante con gravi lesioni cerebrali, per esempio, pur essendo in grado di sopravvivere per molti anni, potrebbe non giungere mai a parlare, né a sviluppare facoltà mentali al di là di un livello molto primitivo. In realtà, le sue capacità psicologiche potrebbero essere notevolmente inferiori a quelle di una normale scimmia rhesus. In questo caso, l’individualismo morale non vedrebbe ragioni per preferire la sua vita a quella della scimmia” (Rachels, p. 222-3). Un bilancio provvisorio ci consente di affermare che biologia evoluzionistica e filosofia di ispirazione metafisica approdano a due diverse e reciprocamente incompatibili concezioni della natura umana. La scienza cognitiva Questo esito di incompatibilità viene rafforzato dall’analisi del quadro antropologico che scaturisce dalla scienza cognitiva. Parlando del darwinismo, non abbiamo esaminato tutti gli aspetti rilevanti della discussione sulla razionalità. Un “metafisico” potrebbe essere d’accordo sul fatto che l’uomo ha una capacità di “problem solving” superiore solo di grado rispetto a quella di uno scimpanzé o di un lombrico. Potrebbe però anche aggiungere che l’uomo ha oltre a ciò una capacità di apertura intellettiva all’orizzonte dell’essere nella sua totalità che è solo sua. Per citare Tommaso: ...unaquaequae intellectualis substantia est quodammodo omnia, inquantum totius entis comprehensiva est suo intellectu: quaelibet autem alia substantia particularem solam entis partecipationem habet” (Summa Contra Gentiles, libro II, cap. 112, 2860). Per un metafisico ciò che caratterizza la razionalità umana è la sua capacità di intenzionare l’astratto, che viene invece negata dal naturalista. Questo è il problema che vogliamo ora esaminare alla luce della riflessione delle scienze cognitive. Questo problema ha conseguenze di rilievo anche per la filosofia della mente: se si può dimostrare che l’uomo ha capacità diverse per genere da quelle animali, ciò potrà costituire un argomento forte a favore di posizioni dualistiche nell’ambito mente-corpo (operari sequitur esse); se non si può dimostrare, ricadremmo necessariamente in qualche forma di monismo ontologico. La scienza cognitiva nasce negli anni Cinquanta di questo secolo dall’incontro tra la psicologia cognitiva e l’intelligenza artificiale. Il programma delle scienze cognitive si basa su due ipotesi fondamentali: 1. La natura computazionale della cognizione 2. Il carattere astratto delle computazioni ad 1: La nostra mente funziona come una macchina di Turing. Si tratta di una macchina ideale, di un ente matematico, costituita da un nastro e da un cursore, che elabora le informazioni provenienti dall’esterno (input) facendo muovere il cursore attraverso un numero finito di stati sino al risultato (output). Esempio: procedura attraverso cui si aggiunge 1 a un numero naturale come 3, dando il risultato 4. Tutti i nostri processi conoscitivi, anche ad esempio la visione, sono di questo tipo, sono cioè algoritmi. Gli stati della macchina sono però sempre in numero finito. Come può rendere questo modello la capacità umana di cogliere l’infinito, non estensionalmente, ma intenzionalmente, cioè cogliendo ad esempio il significato del concetto numero? Le scienze cognitive negano che l’uomo sia dotato di procedure cognitive non finite, non algoritmiche. La capacità di intenzionare l’astratto è solo apparente, in realtà è ricostruibile in termini puramente sintatticistici. ad 2: Si distingue tra livello dell’algoritmo e dell’implementazione. La stessa funzione si può realizzare in sostrati materiali differenti, ad esempio l’hardware di un computer, oppure l’umetteria della mente umana (requisito di realizzabilità multipla). Nell’ambito della filosofia della mente la posizione che corrisponde a questa seconda ipotesi è il funzionalismo. I processi mentali si caratterizzano per il loro ruolo funzionale, non per il materiale di cui sono costituiti. Questa posizione si differenzia sia dal materialismo (non è necessario che il supporto sia rappresentato dal cervello), ma anche dal dualismo, perché condivide l’assunto del carattere computazionale della cognizione. Se, come afferma Diego Marconi nel suo libro Filosofia e Scienza Cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2001, le scienze cognitive contribuiscono al ritorno della natura umana perché svelano meccanismi cognitivi comuni alla specie, ciò avviene perciò esclusivamente in senso empiristico e anti-metafisico, quindi solidale con il concetto di natura umana che emerge dalla biologia evoluzionistica. Marconi sembra anzi pensare che in futuro si possa (o si debba) superare la tesi del carattere astratto della computazione e comprendere i processi cognitivi a partire dal funzionamento del cervello. Le scienze cognitive dovrebbero quindi essere sostituite dalle neuroscienze, in un’ottica più francamente materialistica. Riflessioni conclusive Come può un pensiero filosofico ispirato cristianamente rispondere alla sfida che pone l’odierno naturalismo? - Considerazioni sulla filosofia. Oggigiorno si assiste a un fenomeno preoccupante: il ruolo della filosofia viene o eccessivamente sottostimato o eccessivamente sovrastimato. Correnti naturalistiche = della filosofia si può fare a meno. La scienza ci può dire tutto quanto ci serve: come si conosce, cosa si conosce, nonché cosa si può conoscere, che cosa esiste nonché può esistere, financo a cosa possiamo/dobbiamo credere per risolvere i nostri dilemmi esistenziali. In ambito naturalistico non tutti ma molti autori sostengono un punto di vista eliminativistico, non solo in riferimento al mentale, ma anche in riferimento alla filosofia. Correnti irrazionalistiche = L’altro estremo dello spettro non è a mio parere meno discutibile. Si fa filosofia come se la scienza non esistesse. Per così dire si volgono gli occhi altrove per non confrontarsi con ciò che potrebbe rivelarsi inquietante per la propria visione del mondo. In altre parole ci si chiude in un ghetto. Ignorare la scienza significa infatti al giorno d’oggi isolarsi dal dibattito culturale, confinarsi in una torre d’avorio in cui si va alla ricerca solo di rassicuranti autoconferme. La mia opinione è che alla filosofia si debba restituire il ruolo che le è proprio. La filosofia è metafisica, cioè indagine sistematica sulla struttura fondamentale della realtà ed è ontologia, ossia studio delle categorie generali dell’essere. L’antropologia, la filosofia della mente ricadono sotto il dominio dell’ontologia perché si occupano dello statuto ontologico degli esseri umani. Chi sostiene di fare a meno della metafisica non fa altro che usarne una implicita, e perciò non giustificata. Ma la metafisica non può ignorare la scienza, soprattutto la scienza che dice direttamente qualcosa di rilevante sull’uomo, come la biologia, le scienze cognitive. Spetta alla filosofia valutare la portata ontologica dei risultati di queste scienze, certo. Ma perché questo sia possibile, si dovrà naturalmente in primo luogo informarsi accuratamente su quello che le scienze ci dicono. Questo significa che ogni cultore di filosofia sistematica al giorno d’oggi dovrà specializzarsi in non più di uno o due settori o filosofie seconde. Questo non perché la filosofia consista solo nelle filosofie seconde, ma perché si fa della buona metafisica solo se si è in grado di valutare criticamente la rilevanza che le singole scienze hanno per la visione globale della realtà. Il confronto con la scienza, lo abbiamo detto, porta a esiti non prevedibili in partenza e talvolta intellettualmente inquietanti. Se ci lasciamo sfidare dalla scienza non abbiamo più - come affermava O. Neurath in un altro contesto - un porto sicuro dove riparare la nostra nave. Tuttavia, non è affatto detto che una disamina epistemologica confermi necessariamente le interpretazioni materialistiche che oggi furoreggiano. Immagino che furoreggino perché ben pochi filosofi di ispirazione cristiana, almeno qui in Italia, si impegnano in un confronto critico con l’evoluzionismo o le scienze cognitive. Il numero delle interpretazioni materialistiche della scienza è direttamente proporzionale al numero di studiosi di ispirazione cristiana che si disinteressano della scienza. Quale approccio alla critica del modello naturalistico? Non critica del modello selezionistico in ambito biologico, richiamandosi in maniera nostalgica al finalismo aristotelico o all’argomento del Disegno. Il modello biologico è cambiato e chi fa metafisica: 1. o ignora totalmente la scienza; 2. oppure si vuole confrontare con la scienza e allora deve spiegare come concilia una teoria -oggetto scientifica antifinalistica con una metateoria metafisica finalistica. Un altro punto fondamentale è che la biologia darwiniana è a-valutativa, mentre la metafisica finalistica è caratterizzata da passaggi spesso inavvertiti e logicamente scorretti dall’essere al dover-essere. Due in particolare sono i nodi epistemologici da tenere presenti: - Il rapporto tra piano empirico e meta-empirico (tra una metafisica finalistica e una biologia anti-finalistica); - Il rapporto tra piano descrittivo e piano normativo (dando ragione dell’esigenza di fondazione delle norme che scaturiscono dalla natura umana). La critica al modello naturalistico può scaturire a mio parere dal tentativo di mostrare come non tutto si possa spiegare selezionisticamente, in particolare la mente umana. Già all’interno delle scienze cognitive si è mostrato come queste vengano a capo con difficoltà della dimensione del significato, della soggettività, della coscienza (argomento della stanza cinese di Searle, la prospettiva in prima persona di Nagel). Al di fuori delle scienze cognitive vi è un filone interno alla metamatematica che giunge a una critica degli assunti delle scienze cognitive muovendo dai teoremi di Gödel (Lucas, Penrose). Si sostiene che il funzionamento della mente è diverso da quello della macchina, perché il primo è un modello infinitario, che ricorre all’astratto, mentre il secondo è un modello finitario, che rifiuta la dimensione dell’astratto. Si tratta quindi di un confronto tra una scienza e un’altra scienza, non tra psicologia scientifica e psicologia del senso comune. Se emendata, la nozione “classica” di natura umana può svolgere un ruolo di grande rilievo nel sanare la schizofrenia in cui versa l’odierna cultura: da una parte si registra un individualismo libertario che considera il soggetto la fonte unica delle scelte esistenziali e valoriali; dall’altra si assiste allo strapotere della scienza, in particolare nell’ambito delle scienze che abbiamo appena citato, che oggettivizza l’ambito dei valori - riconducendolo in ultima analisi a quelli della sopravvivenza e della riproduzione - ma limita essenzialmente lo spazio della libertà individuale, considerata il retaggio di una visione antiquata dell’uomo o espressione della “folk psychology”. Ci si prospetta una sfida: sapremo coniugare l’oggettivismo non riduzionistico dei valori con una visione dell’uomo in cui abbia ancora senso parlare di libertà, volontà, intenzionalità e apertura all’orizzonte della trascendenza?