Antonella Corradini - Azione Cattolica Brescia

Antonella Corradini
L’uomo: un animale tra gli altri
Nuove visioni scientifiche sull’uomo
(Dattiloscritto per uso strettamente interno)
L’attuale temperie naturalistica ha radici antiche, di cui si può trovare traccia già nel pensiero
greco. Ciò a cui assistiamo oggigiorno non consiste perciò nella proposta di visioni antropologiche
originali, quanto piuttosto nella loro scientificizzazione. Dal momento che quella scientifica è l’unica
forma di razionalità che il mondo contemporaneo riconosce come universalmente valida, ciò significa che
l’immagine naturalistica dell’uomo assume nella cultura odierna un prestigio e una credibilità che mai
forse ha avuto nei secoli passati.
Due scienze sono responsabili in particolare della “svolta naturalistica” a cui assistiamo: la
biologia e la psicologia. Scopo del mio intervento sarà mostrare su quali basi scientifiche poggia la
prospettiva antropologica naturalistica e sottolineare le differenze che la separano dalla visione
tradizionale dell’uomo.
La biologia evoluzionistica
Per inquadrare il problema che è oggetto di questa conferenza, ritengo opportuno compiere in
primo luogo un breve excursus storico sulla nozione di spiegazione nell’ambito delle scienze biologiche.
Si ha il succedersi di tre tipi diversi di spiegazione:
1. Spiegazione finalistica (Aristotele)
2. Spiegazione intenzionalistica (Linneo)
3. Spiegazione selezionistica (Darwin)
ad 1: Modello finalistico
Ad Aristotele dobbiamo la prima formulazione della biologia come scienza: lo Stagirita non
aveva semplici intenti descrittivi e/o classificatori, ma si proponeva di spiegare il mondo della vita,
soprattutto ricorrendo alla nozione di causa finale (oltre a formale, materiale e motrice).
“Ma nasce un dubbio: che cosa vieta che la natura agisca senza alcun fine e non in vista del
meglio, bensì come piove Zeus, non per far crescere il frumento, ma per necessità (difatti ciò che ha
evaporato, deve raffreddarsi e, una volta raffreddato, diventa acqua e scende giù; e che il frumento
cresca quando questo avviene, e un fatto accidentale)? (Fisica, II, 8, 198b).
Caratteri della causa finale aristotelica:
Causa finale = efficacia del piano del dover-essere su quello dell’essere. Un processo si
verifica perché un determinato ente raggiunga il suo compimento, la sua realizzazione. Tale
realizzazione, in quanto positiva per l’ente in questione, è il suo dover-essere, che esercita una
causalità (finale) sull’essere.
Modello aristotelico
Principio di efficienza del fine
Condizione valutativa
Condizioni di favore
Conclusione
Se è positivo per il seme diventare albero,
allora in condizioni favorevoli esso
diventa albero
È positivo per questo seme diventare
albero
Sono date le condizioni favorevoli
Questo seme diventa albero
Il finalismo o teleologia di cui parla Aristotele è universale, ossia riguarda tutti gli enti,
anche quelli non intelligenti, dunque incapaci di intenzionalità.
Tuttavia, Aristotele non concepisce un fine unico dell’universo, in quanto il dover-essere
è diverso per ogni ente: la finalità è intrinseca a ogni ente.
ad 2: Modello intenzionalistico o argomento del disegno
I filosofi moderni, come Bacone e Cartesio, sottopongono a critica la nozione di causa
finale. Con l’avvento della scienza galileiana, la causa finale aristotelica perde credibilità e la
spiegazione finalistica non viene più considerata una spiegazione scientifica.
Nell’ambito della biologia la spiegazione finalistica aristotelica viene sostituita da un altro
tipo di spiegazione che spesso viene chiamata anch’essa finalistica ma, come vedremo, non a
ragione.
L’ordine attestato nella natura non è frutto di una finalità intrinseca a ogni cosa, ma del
piano di un Ordinatore che intenziona nella propria mente il fine da raggiungere e i meccanismi
causali più adatti per conseguirlo. Perciò si tratta in realtà di una spiegazione intenzionalistica,
perché si basa sulle intenzioni di un Ordinatore.
Modello intenzionalistico (Linneo, Paley)
Principio di efficienza dell’intenzione
Condizione epistemica
Condizione di non impedimento
Conclusione
Se l’Ordinatore ritiene positivo per il
seme diventare albero, allora se non ci
sono impedimenti fà in modo che il seme
diventa albero
L’Ordinatore ritiene che sia positivo per
questo seme diventare albero
Non ci sono impedimenti di ordine fisico
L’Ordinatore fà in modo che ci sia un
processo tale che questo seme diventi
albero
È chiaro che un modello esplicativo di questo tipo non avrebbe senso se valesse la causa
finale aristotelica. Proprio perché manca un meccanismo di spiegazione intrinseca all’ente, è
necessario ricorrere a un meccanismo di spiegazione estrinseca al mondo della natura.
ad 3: Modello selezionistico
L’opera di Darwin segna nella biologia una rivoluzione paragonabile a quella che la
scienza galileiana ha rappresentato per la fisica. Con il selezionismo darwiniano viene infatti meno
ogni residuo di finalismo, comunque inteso, e si aprono le porte a una concezione meccanicistica
delle scienze della vita.
La spiegazione selezionistica comprende due fasi:
1. l’organismo si modifica, ossia nel caso di una popolazione di farfalle maculate, alcune di
esse assumono colore scuro. Darwin ignorava le cause della variazione. La genetica avrebbe poi
spiegato che si tratta di mutazioni casuali.
2. La variazione, nell’interazione con l’ambiente ha o non ha valore adattativo. A differenza
che per Linneo o anche Lamarck, molte variazioni non hanno carattere adattativo, quindi non
vengono selezionate e non passano alle generazioni successive.
Modello selezionistico
A. Precondizioni
i. Esiste una popolazione di farfalle maculate
ii. Le farfalle variano quanto al colore, chiaro o scuro.
iii. Le farfalle vengono predate dagli uccelli in un ambiente dove gli
alberi sono stati scuriti dalla fuliggine.
B. Interazione
iv. Le farfalle, in virtù di possedere o non possedere il colore scuro,
interagiscono in maniera differente con gli uccelli predatori.
v. Il colore scuro degli alberi influisce sull’interazione così che
C. Effetto
vi. Il possesso del colore scuro garantisce vantaggi alle farfalle quanto
alla sopravvivenza.
La spiegazione del perché le farfalle hanno il colore scuro varia dunque a seconda del tipo di
modello che viene posto a fondamento della spiegazione:
- Perché è il loro fine intrinseco acquisire il colore scuro e adattarsi
- Perché l’Ordinatore ha intenzionato la bontà del loro adattamento
- Perché si è verificata una variazione casuale (la comparsa del colore scuro), che è
stata selezionata nell’interazione con l’ambiente.
Tutti e tre questi paradigmi biologici includono anche l’uomo nelle loro considerazioni. Per i
primi due non si pone il problema di un conflitto.
“...percorrendo la serie delle cose create e considerando con quale previdenza sono state
fatte l’una per l’altra, scopriamo infine che tutte le cose sono state fatte per l’uomo affinché,
ammirando le opere del Creatore, egli esalti la Sua gloria e insieme goda di tutte le cose di cui ha
bisogno per trascorrere la vita in comodità e con gioia” (Linneo, Oeconomia naturalis, in Linneo,
L’equilibrio della natura, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 51.)
Ma che dire a proposito del paradigma selezionistico? Nell’opera L’origine dell’uomo e la
selezione sessuale (1871) Darwin estende la dottrina selezionistica anche all’uomo, sia per quanto
riguarda le capacità intellettuali, sia quelle morali (anche se è dimostrabile che sin dall’inizio
Darwin riteneva che l’uomo fosse incluso nel paradigma selezionistico).
Il problema di un possibile conflitto tra dati scientifici e immagine religiosa dell’uomo viene
talvolta risolto ricorrendo a una concezione separatistica. Un esempio è quella sostenuta dal
paleontologo e genetista Stephen Jay Gould nel testo: I pilastri del tempo. Sulla presunta
inconciliabilità tra fede e scienza, Il Saggiatore, Milano 2000.
Nel libro poc’anzi citato, Gould si occupa dei rapporti tra scienza e fede, ma anche in
realtà dei rapporti tra scienza ed etica. La scienza si occupa dei fatti, l’etica dei valori, mentre la
religione dà linfa alla tradizione entro cui si inserisce la riflessione morale.
Tesi di Gould = scienza ed etica sono due dimensioni (magisteri) diversi, che sono chiamate
a interagire tra di loro, ma senza sovrapporsi
Ora, un modello separatistico così inteso a mio avviso è corretto nella misura in cui non è
anche un modello concordistico, cioè tale da sostenere l’impossibilità a priori di un conflitto tra le
due dimensioni. Gould sembra però propendere per un modello concordistico, come si può vedere
da un esempio che egli stesso apporta.
Affrontando il tema dei rapporti tra cattolicesimo ed evoluzionismo, Gould ricorda i
pronunciamenti papali al riguardo, ossia l’enciclica Humani Generis (1950) di Pio XII e la più
recente dichiarazione di Giovanni Paolo II del 1996. Secondo Gould, entrambi i pronunciamenti
sono conformi al principio separatistico, in quanto condividono la dottrina evoluzionistica per
quanto riguarda l’evoluzione del corpo umano, ma non per quanto riguarda l’anima, in riferimento
alla quale si afferma che venga direttamente creata da Dio. Scienza e teologia devono in un certo
senso dividersi il lavoro: la scienza si occupa del corpo, la teologia dell’anima.
Si dà il caso tuttavia, che le cose non siano così semplici. È vero infatti che dell’anima si
occupa la teologia. Delle pre-condizioni affinché sia sensato parlare dell’anima si occupa però la
filosofia; e questa a sua volta, non può ignorare i dati che le fornisce la scienza.
Ora, la tesi di Darwin è che le capacità intellettuali e morali dell’uomo si differenziano solo
per grado e non per qualità da quelle degli animali. Il gradualismo darwiniano mina perciò l’idea
che l’uomo possegga caratteristiche qualitativamente differenti da quelle animali come quelle
attribuitegli dalla tradizione filosofica, ad esempio la capacità di intenzionamento dell’astratto, che
è alla base della conoscenza della dimensione meta-empirica e morale.
Di conseguenza, l’immagine darwinistica dell’uomo non fornisce le pre-condizioni affinché
si possa parlare di infusione dell’anima nel corpo umano. Scavando sotto la superficie emerge
quindi un contrasto possibile tra scienza e fede che non può essere risolto a priori.
Cercherò di argomentare a favore di questa tesi esaminando il concetto di razionalità che
emerge dalle opere di Darwin.
“Non vi è differenza fondamentale fra l’uomo e i mammiferi più elevati per ciò che riguarda
le loro facoltà mentali” (L’origine dell’uomo, p. 64).
“Fra tutte le facoltà della mente umana, si riconoscerà, credo, che la Ragione è la più
elevata. Sono pochi quelli che vorranno negare che gli animali siano forniti di un certo potere di
ragionare. Si possono vedere costantemente animali che si fermano, deliberano e risolvono. È un
fatto significativo che, quanto più un naturalista studia le abitudini di un dato animale, tanto più dà
spazio alla ragione e meno al semplice istinto” (L’origine dell’uomo, p. 74).
La razionalità non è propria solo dei primati superiori. “Alcuni animali assolutamente
inferiori danno apparenti prove di un certo grado di ragione” (L’origine dell’uomo, p. 74).
L’ultimo libro di Darwin, “La formazione della terra vegetale per azione dei lombrichi”
(1881, UTET 1882) porta l’autore alla conclusione che anche il verme agisce non solo per istinto
ma anche in base alla ragione. Risultato, afferma Darwin, “che mi ha arrecato maggior sorpresa che
non qualunque altro rispetto ai lombrichi” (p.16).
Cosa intende Darwin per razionalità?
Darwin = l’attribuzione di razionalità a un animale è una questione empirica, da appurare in
base ad adeguate situazioni sperimentali. Un animale, ad esempio, è razionale se si dimostra in
grado di risolvere i problemi che gli vengono posti, quando la soluzione non si può attribuire
all’istinto o a comportamenti per prova ed errore. Darwin dedica molte pagine della sua ultima
opera a discutere se il comportamento dei vermi, così come lui lo ha osservato, possa essere
considerato “intelligente”. Altri animali semplici non hanno lo stesso grado di intelligenza dei
lombrichi. Questo è il caso della vespa sphex: ha repertori di comportamento simili ai vermi, ma
non è in grado di affrontare situazioni modificate (p. 40).
Da ciò segue che la razionalità è 1. una questione empirica; 2. una questione di grado.
Quanto all’uomo, non è l’animale razionale, ma l’animale più razionale, semmai. Anche questo
tuttavia va indagato empiricamente. Non è detto che tutti i membri della specie umana siano più
razionali degli scimpanzé.
Siamo già in grado a questo punto di scorgere alcuni punti nodali che differenziano la
concezione darwiniana della razionalità da quella filosofica classica.
Concezione classica = la razionalità non è una caratteristica empirica, ma pertiene alla
struttura ontologica dell’uomo, secondo la definizione boeziana: persona = individua substantia
rationalis naturae. Il grado in cui un soggetto è razionale sotto il profilo empirico non interferisce
con la caratteristica ontologica della razionalità, che in quanto tale è propria della natura umana
tout-court.
DARWINISMO
L’uomo non ha un’essenza.
La natura umana è la sua
dotazione biologica.
Le differenze tra uomo e
animale sono di grado.
La razionalità è una
proprietà
di
tipo
comparativo.
Non esistono differenze di
valore assolute.
Si può ponderare il valore
degli animali e degli umani
e degli uomini tra loro.
METAFISICA
TEISMO
L’uomo ha un’essenza L’uomo
è
fatto
immutabile.
immagine di Dio
ad
Le differenze tra uomo e
animale sono di genere.
La razionalità è una
proprietà
di
tipo
classificatorio.
Esistono differenze di
valore assolute.
Tutti e solo gli esseri
umani
hanno
valore
assoluto nei confronti degli
animali e gli uni nei
confronti degli altri.
Oltre a ciò, se l’uomo è solo differente per grado dagli animali, non è giustificato attribuirgli
uno status morale speciale, in particolare una dignità che lo elevi sopra ogni altra creatura. Il
darwinismo, sotto questo profilo, mina la plausibilità anche delle categorie dell’etica tradizionale,
sia filosofica sia teologica. Tutto ciò è mostrato magistralmente da J. Rachels, Creati dagli
animali. Implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità 1996.
Rachels sostiene la prospettiva dell’individualismo morale:
“....sono la ricchezza e la complessità della vita individuale ad avere rilevanza morale.
Alcuni umani, sfortunatamente, non sono in grado di avere il complesso tipo di vita di cui stiamo
parlando. Un infante con gravi lesioni cerebrali, per esempio, pur essendo in grado di sopravvivere
per molti anni, potrebbe non giungere mai a parlare, né a sviluppare facoltà mentali al di là di un
livello molto primitivo. In realtà, le sue capacità psicologiche potrebbero essere notevolmente
inferiori a quelle di una normale scimmia rhesus. In questo caso, l’individualismo morale non
vedrebbe ragioni per preferire la sua vita a quella della scimmia” (Rachels, p. 222-3).
Un bilancio provvisorio ci consente di affermare che biologia evoluzionistica e filosofia di
ispirazione metafisica approdano a due diverse e reciprocamente incompatibili concezioni della
natura umana.
La scienza cognitiva
Questo esito di incompatibilità viene rafforzato dall’analisi del quadro antropologico che
scaturisce dalla scienza cognitiva.
Parlando del darwinismo, non abbiamo esaminato tutti gli aspetti rilevanti della discussione
sulla razionalità. Un “metafisico” potrebbe essere d’accordo sul fatto che l’uomo ha una capacità di
“problem solving” superiore solo di grado rispetto a quella di uno scimpanzé o di un lombrico.
Potrebbe però anche aggiungere che l’uomo ha oltre a ciò una capacità di apertura intellettiva
all’orizzonte dell’essere nella sua totalità che è solo sua. Per citare Tommaso: ...unaquaequae
intellectualis substantia est quodammodo omnia, inquantum totius entis comprehensiva est suo
intellectu: quaelibet autem alia substantia particularem solam entis partecipationem habet” (Summa
Contra Gentiles, libro II, cap. 112, 2860).
Per un metafisico ciò che caratterizza la razionalità umana è la sua capacità di intenzionare
l’astratto, che viene invece negata dal naturalista. Questo è il problema che vogliamo ora esaminare
alla luce della riflessione delle scienze cognitive. Questo problema ha conseguenze di rilievo anche
per la filosofia della mente: se si può dimostrare che l’uomo ha capacità diverse per genere da
quelle animali, ciò potrà costituire un argomento forte a favore di posizioni dualistiche nell’ambito
mente-corpo (operari sequitur esse); se non si può dimostrare, ricadremmo necessariamente in
qualche forma di monismo ontologico.
La scienza cognitiva nasce negli anni Cinquanta di questo secolo dall’incontro tra la
psicologia cognitiva e l’intelligenza artificiale.
Il programma delle scienze cognitive si basa su due ipotesi fondamentali:
1. La natura computazionale della cognizione
2. Il carattere astratto delle computazioni
ad 1: La nostra mente funziona come una macchina di Turing. Si tratta di una macchina
ideale, di un ente matematico, costituita da un nastro e da un cursore, che elabora le informazioni
provenienti dall’esterno (input) facendo muovere il cursore attraverso un numero finito di stati sino
al risultato (output). Esempio: procedura attraverso cui si aggiunge 1 a un numero naturale come 3,
dando il risultato 4. Tutti i nostri processi conoscitivi, anche ad esempio la visione, sono di questo
tipo, sono cioè algoritmi. Gli stati della macchina sono però sempre in numero finito. Come può
rendere questo modello la capacità umana di cogliere l’infinito, non estensionalmente, ma
intenzionalmente, cioè cogliendo ad esempio il significato del concetto numero?
Le scienze cognitive negano che l’uomo sia dotato di procedure cognitive non finite, non
algoritmiche. La capacità di intenzionare l’astratto è solo apparente, in realtà è ricostruibile in
termini puramente sintatticistici.
ad 2: Si distingue tra livello dell’algoritmo e dell’implementazione. La stessa funzione si
può realizzare in sostrati materiali differenti, ad esempio l’hardware di un computer, oppure
l’umetteria della mente umana (requisito di realizzabilità multipla).
Nell’ambito della filosofia della mente la posizione che corrisponde a questa seconda ipotesi
è il funzionalismo. I processi mentali si caratterizzano per il loro ruolo funzionale, non per il
materiale di cui sono costituiti.
Questa posizione si differenzia sia dal materialismo (non è necessario che il supporto sia
rappresentato dal cervello), ma anche dal dualismo, perché condivide l’assunto del carattere
computazionale della cognizione.
Se, come afferma Diego Marconi nel suo libro Filosofia e Scienza Cognitiva,
Laterza, Roma-Bari 2001, le scienze cognitive contribuiscono al ritorno della natura umana perché
svelano meccanismi cognitivi comuni alla specie, ciò avviene perciò esclusivamente in senso
empiristico e anti-metafisico, quindi solidale con il concetto di natura umana che emerge dalla
biologia evoluzionistica.
Marconi sembra anzi pensare che in futuro si possa (o si debba) superare la tesi del carattere
astratto della computazione e comprendere i processi cognitivi a partire dal funzionamento del
cervello. Le scienze cognitive dovrebbero quindi essere sostituite dalle neuroscienze, in un’ottica
più francamente materialistica.
Riflessioni conclusive
Come può un pensiero filosofico ispirato cristianamente rispondere alla sfida che pone
l’odierno naturalismo?
- Considerazioni sulla filosofia.
Oggigiorno si assiste a un fenomeno preoccupante: il ruolo della filosofia viene o
eccessivamente sottostimato o eccessivamente sovrastimato.
Correnti naturalistiche = della filosofia si può fare a meno. La scienza ci può dire tutto
quanto ci serve: come si conosce, cosa si conosce, nonché cosa si può conoscere, che cosa esiste
nonché può esistere, financo a cosa possiamo/dobbiamo credere per risolvere i nostri dilemmi
esistenziali. In ambito naturalistico non tutti ma molti autori sostengono un punto di vista
eliminativistico, non solo in riferimento al mentale, ma anche in riferimento alla filosofia.
Correnti irrazionalistiche = L’altro estremo dello spettro non è a mio parere meno
discutibile. Si fa filosofia come se la scienza non esistesse. Per così dire si volgono gli occhi altrove
per non confrontarsi con ciò che potrebbe rivelarsi inquietante per la propria visione del mondo. In
altre parole ci si chiude in un ghetto. Ignorare la scienza significa infatti al giorno d’oggi isolarsi dal
dibattito culturale, confinarsi in una torre d’avorio in cui si va alla ricerca solo di rassicuranti
autoconferme.
La mia opinione è che alla filosofia si debba restituire il ruolo che le è proprio. La filosofia è
metafisica, cioè indagine sistematica sulla struttura fondamentale della realtà ed è ontologia, ossia
studio delle categorie generali dell’essere. L’antropologia, la filosofia della mente ricadono sotto il
dominio dell’ontologia perché si occupano dello statuto ontologico degli esseri umani. Chi sostiene
di fare a meno della metafisica non fa altro che usarne una implicita, e perciò non giustificata.
Ma la metafisica non può ignorare la scienza, soprattutto la scienza che dice direttamente
qualcosa di rilevante sull’uomo, come la biologia, le scienze cognitive. Spetta alla filosofia valutare
la portata ontologica dei risultati di queste scienze, certo. Ma perché questo sia possibile, si dovrà
naturalmente in primo luogo informarsi accuratamente su quello che le scienze ci dicono. Questo
significa che ogni cultore di filosofia sistematica al giorno d’oggi dovrà specializzarsi in non più di
uno o due settori o filosofie seconde. Questo non perché la filosofia consista solo nelle filosofie
seconde, ma perché si fa della buona metafisica solo se si è in grado di valutare criticamente la
rilevanza che le singole scienze hanno per la visione globale della realtà.
Il confronto con la scienza, lo abbiamo detto, porta a esiti non prevedibili in partenza e
talvolta intellettualmente inquietanti. Se ci lasciamo sfidare dalla scienza non abbiamo più - come
affermava O. Neurath in un altro contesto - un porto sicuro dove riparare la nostra nave. Tuttavia,
non è affatto detto che una disamina epistemologica confermi necessariamente le interpretazioni
materialistiche che oggi furoreggiano. Immagino che furoreggino perché ben pochi filosofi di
ispirazione cristiana, almeno qui in Italia, si impegnano in un confronto critico con l’evoluzionismo
o le scienze cognitive. Il numero delle interpretazioni materialistiche della scienza è direttamente
proporzionale al numero di studiosi di ispirazione cristiana che si disinteressano della scienza.
Quale approccio alla critica del modello naturalistico?
Non critica del modello selezionistico in ambito biologico, richiamandosi in maniera
nostalgica al finalismo aristotelico o all’argomento del Disegno. Il modello biologico è cambiato e
chi fa metafisica: 1. o ignora totalmente la scienza; 2. oppure si vuole confrontare con la scienza e
allora deve spiegare come concilia una teoria -oggetto scientifica antifinalistica con una metateoria
metafisica finalistica. Un altro punto fondamentale è che la biologia darwiniana è a-valutativa,
mentre la metafisica finalistica è caratterizzata da passaggi spesso inavvertiti e logicamente scorretti
dall’essere al dover-essere.
Due in particolare sono i nodi epistemologici da tenere presenti:
- Il rapporto tra piano empirico e meta-empirico (tra una metafisica finalistica e una biologia
anti-finalistica);
- Il rapporto tra piano descrittivo e piano normativo (dando ragione dell’esigenza di
fondazione delle norme che scaturiscono dalla natura umana).
La critica al modello naturalistico può scaturire a mio parere dal tentativo di mostrare come
non tutto si possa spiegare selezionisticamente, in particolare la mente umana.
Già all’interno delle scienze cognitive si è mostrato come queste vengano a capo con
difficoltà della dimensione del significato, della soggettività, della coscienza (argomento della
stanza cinese di Searle, la prospettiva in prima persona di Nagel).
Al di fuori delle scienze cognitive vi è un filone interno alla metamatematica che giunge a
una critica degli assunti delle scienze cognitive muovendo dai teoremi di Gödel (Lucas, Penrose). Si
sostiene che il funzionamento della mente è diverso da quello della macchina, perché il primo è un
modello infinitario, che ricorre all’astratto, mentre il secondo è un modello finitario, che rifiuta la
dimensione dell’astratto.
Si tratta quindi di un confronto tra una scienza e un’altra scienza, non tra psicologia
scientifica e psicologia del senso comune.
Se emendata, la nozione “classica” di natura umana può svolgere un ruolo di grande rilievo
nel sanare la schizofrenia in cui versa l’odierna cultura: da una parte si registra un individualismo
libertario che considera il soggetto la fonte unica delle scelte esistenziali e valoriali; dall’altra si
assiste allo strapotere della scienza, in particolare nell’ambito delle scienze che abbiamo appena
citato, che oggettivizza l’ambito dei valori - riconducendolo in ultima analisi a quelli della
sopravvivenza e della riproduzione - ma limita essenzialmente lo spazio della libertà individuale,
considerata il retaggio di una visione antiquata dell’uomo o espressione della “folk psychology”.
Ci si prospetta una sfida: sapremo coniugare l’oggettivismo non riduzionistico dei valori con
una visione dell’uomo in cui abbia ancora senso parlare di libertà, volontà, intenzionalità e apertura
all’orizzonte della trascendenza?