Le zone d`ombra della giustizia costituzionale. I conflitti di

Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I conflitti
di attribuzione.
Modena, 13 ottobre 2006
Versione provvisoria
PARAMETRO E OGGETTO NEI CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE
di Stefania Parisi
«Una conseguenza dell’eterogeneità è comunque
il moltiplicarsi delle fratture politiche;
i conflitti divengono perciò un aspetto inevitabile delle vita politica
e vengono accettati dalla mentalità e dalle procedure politiche
come un elemento normale, non aberrante»
(R. DAHL, Democracy and its critics, Yale University, 1989
trad. it. La democrazia e i suoi critici, Roma, 1990, p. 302)
SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Di alcuni problemi relativi al parametro nei conflitti. Conflitti da
interferenza, leale cooperazione, giudizio di bilanciamento in concreto: un legame importante. 3.
Leale cooperazione e pluralismo comprensivo. 4.1. a) La leale cooperazione come “concerto” nella
sentenza n. 379 del 1992…4.1. b) … e nella sentenza n. 380 del 2003. 4.2. Conflitti interorganici su
atti giurisdizionali: davvero il metodo del pluralismo comprensivo è alternativo ad un sindacato sui
“limiti esterni” nell’esercizio del potere? I casi “Previti”, “Cito” e “Matacena” 4.3. Un’ipotesi di leale
cooperazione mancata: la sent. n. 200 del 2006. 5.1. I conflitti intersoggettivi come humus della leale
cooperazione 5.1. a) I casi in cui la formula collaborativa prevista dalla legge è considerata adeguata.
5.1. b) I casi in cui la modalità collaborativa prevista dalla legge necessita di un’ “integrazione”. 6. La
decostituzionalizzazione del parametro: un falso problema. 7. Quando l’oggetto condiziona l’accesso
del soggetto: conflitti tra poteri su atto legislativo e potere giudiziario.
Premessa.
Un’indagine critica sull’oggetto e sul parametro nei conflitti di attribuzione richiede
numerose opzioni preliminari, sul metodo e sul merito della ricerca.
Anzitutto, occorre chiedersi se è opportuno considerare i conflitti costituzionali
come problema unitario ovvero passibile di due differenti impostazioni a seconda della
sottospecie di conflitto costituzionale di cui si discute1.
1 Sulla trattazione unitaria dei conflitti intersoggettivi e interorganici, pur nel rilievo della loro
diversità (soprattutto sul piano del diritto positivo), cfr. A. PIZZORUSSO, voce Conflitto, in Novissimo Digesto
Italiano, App., II, Torino, 1981, spec. 367 e altresì S. GRASSI, Conflitti costituzionali, in Digesto Discipline
pubblicistiche, Torino, 1988, spec. 369, dove si sottolinea che «anche l’esperienza giurisprudenziale ha
dimostrato che il rapporto Stato-Regioni è sempre più un rapporto di collaborazione e coordinamento,
attraverso un vincolamento reciproco di funzioni in tutto analogo a quello riscontrabile nei rapporti tra poteri
dello Stato. (…) di qui la possibilità di utilizzare le elaborazioni della giurisprudenza costituzionale sui conflitti
costituzionali tra enti anche per i conflitti tra poteri, collegando alla diversa natura delle parti e delle
attribuzioni cui si riferiscono le differenze, che pure esistono, nella struttura processuale dei due tipi di
Stefania Parisi
A questo proposito sono possibili due approcci:
1) considerare i conflitti costituzionali sotto una prospettiva unitaria, ma non
monolitica: evidenziare i problemi comuni ad entrambe le competenze della Corte,
limitandosi, incidenter tantum, a rimarcare la cifra discriminatoria dell’uno o dell’altro.
2) considerare i conflitti uti singuli, setacciando in modo analitico tutti i problemi
inerenti all’oggetto e al parametro. Il vantaggio di questa impostazione è la creazione di una
“mappa” giurisprudenziale particolareggiata su specifiche (a volte minute…) questioni.
Però, lo svantaggio principale di questo impianto risiede nell’impossibilità di considerare
ogni aspetto in modo minuzioso, e nello smarrimento del ruolo che la Corte assume nei
conflitti, intrattenendosi su questioni dallo scarso rilievo pratico. Più che illuminare le sole
zone d’ombra, si finirebbe, così, per gettare un fascio di luce indistinto su tutti gli istituti:
queste considerazioni sembrano, pertanto, indirizzare la scelta verso la prima impostazione.
Sul merito, ora. Provare a delimitare l’ambito di un contributo dal titolo “parametro
e oggetto nei conflitti di attribuzione” è come recintare l’infinito, posto che la
giurisprudenza della Corte è in continua evoluzione ed ogni pronuncia è degna di
considerazione approfondita, per la mole di spunti che fornisce.
Poiché sono estranee a questo lavoro tanto una vocazione enciclopedica quanto
una pretesa di completezza, e considerati i limiti di battute disponibili, si è ritenuto
opportuno praticare una drastica selezione dei temi su cui dirottare la ricerca. Pertanto, le
questioni affrontate non rappresentano certamente le uniche zone d’ombra individuabili,
ma sono state considerate quelle su cui occorre concentrare maggiormente l’attenzione.
2. Di alcuni problemi relativi al parametro nei conflitti. Conflitti da interferenza, leale
cooperazione, giudizio di bilanciamento in concreto: un legame importante.
Occorre muovere da un dato incontrovertibile: se è vero che i conflitti
costituzionali derivano essenzialmente dal “cattivo uso del potere” in relazione ad ambiti
competenziali reciprocamente interferenti2, è indubbio allora che la leale cooperazione
possa essere agevolmente ricostruita come «figura sintomatica» di questa specie di conflitti3.
giudizio». Contro l’assimilazione tra i due conflitti, cfr. G. GROTTANELLI DE’ SANTI, I conflitti di attribuzione fra
Stato e Regioni e fra Regioni, Milano, 1961, 18 e F. SORRENTINO, I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, in
Riv. Trim. dir. Pubbl., 1967, 721. Individua nel pluralismo istituzionale (nella duplice declinazione di a) pluralità
degli organi costitutivi della forma di governo e b) pluralità dei soggetti costitutivi della forma di Stato) il
comune denominatore dei conflitti costituzionali, G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988,
spec. 333 ss., rilevando altresì come nei conflitti intersoggettivi sia prevalente il carattere tecnico-giuridico,
mentre in quelli interorganici prevalga il carattere politico del conflitto, il che comporta l’esistenza di
«significati istituzionali profondamente diversi tra i due conflitti».
2 Come abbondantemente rilevato in dottrina. Per tutti, vedi P. VERONESI, I poteri davanti alla Corte“Cattivo uso” del potere e sindacato costituzionale, Milano 1999. Sul rapporto tra conflitti da vindicatio e conflitti da
menomazione-interferenza, cfr. A. PISANESCHI, I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, Milano, 1992, 324
ss. e altresì F. BERTOLINI, L’invasione di competenza nei conflitti costituzionali, Milano, 2004.
3 Sulla competenza come «statica ripartizione dei poteri o diritti» e l’esistenza di un «momento
dinamico della collaborazione, della relazione tra organi ed enti», cfr. A. CERRI, Competenza, atto e rapporto nel
conflitto di attribuzioni, in AA. VV., Scritti su la giustizia costituzionale in onore di Vezio Crisafulli, Padova, 1985, spec.
180. Sul legame tra conflitti da interferenza e leale cooperazione, cfr. R. BIN, Il principio di leale cooperazione nei
rapporti fra poteri, in Rivista di diritto costituzionale, 2001; sul concetto di leale cooperazione come «figura
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Stefania Parisi
Questo legame è evidente nel conflitto intersoggettivo, dove le intersezioni tra gli
ambiti competenziali dello Stato e delle Regioni (soprattutto dopo la riforma del 2001)
sono sempre più fitte; ma lo è anche nel conflitto interorganico, nel quale è impensabile
ricostruire la separazione tra poteri come “assenza” di punti di contatto e di interferenza tra
le funzioni affidate ai vari organi costituzionali e come innalzamento di paratie giuridiche
sia tra organi che tra funzioni. Anzi, l’obbligo di un leale relazionarsi nell’esercizio delle
proprie funzioni pare strettamente connesso all’idea di separazione dei poteri intesa come
insieme di checks and balances concettualizzata dai padri costituenti statunitensi4. Lo stesso
Madison, rileggendo Montesquieu, affermava che il pensatore francese «non intendeva dire
che questi settori (i “settori” del potere politico N.d.A.) non dovessero avere alcuna
reciproca interferenza, nemmeno parziale e non dovessero avere alcun reciproco controllo»5;
anzi, dall’esame delle esperienze costituzionali degli stati membri della nuova
confederazione Egli rileva come «non si verifichi caso alcuno in cui i vari poteri siano
effettivamente tenuti assolutamente separati e distinti».
Quindi, se accettiamo l’idea che non si possa parlare di poteri separati neanche
nell’ordinamento costituzionale italiano6, bisogna anche ospitare la conseguenza di questa
impostazione e cioè che «attraverso il principio dei controlli e contrappesi, la separazione
dei poteri è stata declinata nella separazione degli “organi” piuttosto che delle “funzioni”
(appunto: separated institutions sharing powers »7). Questo spiega da un lato la possibilità di una
sintomatica» dei conflitti, cfr. P. VERONESI, Recenti tendenze in materia di conflitti fra poteri. Profili soggettivi e oggettivi,
in E. BINDI, M. PERINI (a cura di), Recenti tendente in materia di conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, Milano,
2003, spec. 43.
4 Cfr. sul punto la posizione di M. MAZZIOTTI, I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, I, Milano,
1972 135 ss. Sul rapporto tra equilibrio costituzionale tra gli organi e ruolo dei conflitti nel sistema, cfr. A.
RUGGERI- A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2001, 331 ss.
5 Cfr. A. HAMILTON, J. JAY, J. MADISON, Il federalista, ed. it. a cura di M. D’Addio e G. Negri, trad. di
B. M. Tedeschini Lalli, Bologna, 1980, 372.
6 Tra i primi contributi che si sono preoccupati di ricostruire il dibattito sulla separazione dei poteri
per svilupparlo in relazione all’istituto dei conflitti interorganici, cfr. F. SORRENTINO, I conflitti di attribuzione tra
i poteri dello Stato, cit., 671 ss. In particolare, nella rilettura di Montesquieu si evidenzia come il filosofo francese
«percepì chiaramente che, se la contrapposizione tra i vari poteri statali, comportando una limitazione
dell’uno rispetto agli altri, costituiva una sufficiente garanzia contro gli abusi dell’autorità, d’altra parte
occorreva che la contrapposizione stessa non fosse rigida, ma elastica, sia al fine di consentire una
collaborazione tra i vari poteri, onde evitare l’immobilismo, sia al fine di impedire che il potere detentore della
funzione principale potesse valersene a proprio vantaggio con pregiudizio degli altri». Anche il sistema
parlamentare italiano si ispira alla teoria della separazione dei poteri: questi cooperano in modo paritario,
senza rigide paratie interne: «in tal maniera il meccanismo della concezione originaria, fondato su una
tripartizione dei poteri e delle funzioni, si trasforma in un meccanismo molto più complesso, fondato su una
pluralità di centri di potere statuali ed extra statuali, i quali collaborano e si contrappongono l’uno all’altro,
non in quanto ad ognuno di essi sia assegnata una specifica funzione fondamentale, ma perché, anche
nell’ambito delle stesse funzioni, essi si trovano in rapporto di concorrenza o di complementarità di
competenze, così che le determinazioni fondamentali della pubblica autorità scaturiscono dalla cooperazione di due o più
volontà» (695-696, corsivo aggiunto).
Cfr. altresì la nozione di «ciclo funzionale» fornita da G. SILVESTRI, La separazione dei poteri, II,
Milano, 1984, 262 ss., spec. 267. In base a questa nozione «la fluidità dei rapporti politici rende meno decisi i
contorni delle manifestazioni funzionali». L’assenza di una rigida corrispondenza tra funzioni e organi implica
che questi ultimi possano assumere ruoli diversi in relazione al mutamento del ciclo funzionale.
7 L’espressione appartiene a S. FABBRINI, Il presidenzialismo degli Stati Uniti, Bari, 1993, 10 ss. che così
conclude, dopo aver riformulato ciò che R. Neustadt aveva scritto: «si ritiene generalmente che la
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«interdipendenza tra strutture decisionali tra loro distinte» e, dall’altro, la necessità che,
l’interdipendenza si componga a «sistema», creando «potenziali posizioni di veto».
Per questa ragione «positivamente ogni azione di governo implica cooperazione
consensuale delle istituzioni separate che condividono poteri di governo»; e
«negativamente, ogni azione di governo che non dispone del “minimo consenso” delle
istituzioni separate può essere interrotta (o posticipata) attraverso il ricorso alle risorse di
veto di cui ogni istituzione dispone». E, dunque, «attraverso il principio dei controlli e
contrappesi si è cercato di trasformare la natura conflittuale, insita nel principio di
separazione di poteri, in una natura cooperativa»8.
La separazione può essere solo cooperativa, altrimenti si traduce in una posizione di
veto insuperabile. La separazione è la cooperazione leale tra poteri.
Le affermazioni testé riportate potrebbero rifluire in una sorta di sillogismo, i cui
termini sono i seguenti: a) il dovere di leale cooperazione scaturisce
dall’interferenza/bilanciamento di funzioni; b) l’interferenza/bilanciamento si realizza
sempre; c) il dovere di leale cooperazione ha carattere generale; vige sempre; è immanente e
“consustanziale” al tema dei conflitti.
Il sillogismo appena riportato, invero, ci dice molto poco: esso, per lo più, è il
preludio per comprendere la spinta euristica sottesa al presente lavoro e che si traduce in
alcuni quesiti. In che modo deve realizzarsi il bilanciamento tra le opposte esigenze che si
manifestano in un conflitto? Quale criterio lo deve guidare? Di conseguenza, come deve
atteggiarsi l’interferenza tra competenze distinte?
3. Leale cooperazione e pluralismo comprensivo
È stato autorevolmente sostenuto che il principio di leale cooperazione non sia «né
parametro, né guida per il giudizio» ma che il giudizio che su di esso si fonda sia, in realtà,
«bilanciamento degli interessi applicato ai conflitti di attribuzione “per interferenza”»9.
La ricostruzione richiamata coglie un dato di realtà inconcusso: la leale
cooperazione implica una valutazione del caso concreto, che si traduce in un ad hoc
balancing, allorquando le competenze di organi (o di Enti) presentino punti di contatto, di
interferenza.
Ma se il giudizio di leale cooperazione “svapora” in un giudizio di bilanciamento in
concreto, c’è da chiedersi se tutti i problemi sono risolti; o se, invece, si deve ritenere che
questo non basti e che occorra – giunti a questo punto – caratterizzare maggiormente il
giudizio di bilanciamento, indicandone in modo più preciso i criteri ed il “verso”.
Del resto, che la mera riduzione della leale collaborazione al giudizio di
bilanciamento non basti è, forse, implicitamente dimostrato dallo stesso A. che la teorizza,
Convenzione Costituzionale del 1787 abbia creato un governo di ‘ poteri separati ’. Niente è più falso.
Piuttosto, essa ha creato un governo di istituzioni separate che condividono gli stessi poteri».
8 Questo virgolettato, come il precedente appartiene a S. FABBRINI, op. ult. cit., 11. Il corsivo è
aggiunto.
9 Così R. BIN, Il principio di leale cooperazione nei rapporti tra poteri, in Rivista di diritto costituzionale, 2001,
spec. 8 e 13.
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allorquando sottolinea che il fondamento costituzionale del principio di leale cooperazione
«affonda in strati più profondi dello stesso edificio costituzionale»10.
Ebbene, la ricostruzione che qui si intende suggerire tende a valorizzare il ruolo
della leale cooperazione, elevandola non già a prodotto ma a guida del giudizio di
bilanciamento in concreto e cercando, nel contempo, di capire fino a che punto essa trovi
un sostegno negli “strati profondi dell’edificio costituzionale”. Per fare ciò, il principio di
leale cooperazione sarà legato alla strategia interpretativa proposta in un contributo dello
studioso americano Michel Rosenfeld: quella del pluralismo comprensivo11.
Il metodo interpretativo del pluralismo comprensivo nasce dalla constatazione della
crisi dell’interpretazione giuridica nell’epoca del pluralismo complesso e dall’urgenza di
superarla, elevando lo stesso pluralismo a valore12: si intende, cioè, «trovare un modo
opportuno per eliminare il divario tra il sé e l’altro senza pregiudicare la diversità che deriva
dalla coesistenza di una pluralità di concezioni del bene». Constatata l’esistenza di un
“pluralismo di fatto” e considerato che «il fatto del pluralismo in sé (…) non ci dice nulla
su come dovremmo affrontare i conflitti che sorgono all’interno delle società pluraliste,
inclusi i conflitti sulle interpretazioni corrette», Rosenfeld propone l’approccio del
pluralismo normativo che «porta ad interpretazioni corrette facendo ricorso al pluralismo, o
più precisamente al pluralismo inteso in termini normativi sostanziali»13.
Questo (nuovo) metodo interpretativo si regge sul presupposto che il pluralismo di
fatto sia un bene e che «i conflitti che hanno luogo in una società pluralista di fatto devono
essere affrontati in modo da mantenere e favorire il pluralismo». In un certo senso, «il
pluralismo normativo – o , più precisamente, il pluralismo comprensivo – offr(e) i migliori
mezzi possibili per affrontare i conflitti all’interno di una società pluralista di fatto,
coerentemente all’etica della riconciliazione tra il sé e l’altro»14. In definitiva, il pluralismo
comprensivo, secondo l’idea di R., «produce il miglior criterio normativo possibile per la
riconciliazione del sé e dell’altro all’interno di una società pluralista di fatto (…). Quindi, la
perequazione e l’inclusione di tutte le concezioni del bene offrono lo standard normativo
rispetto al quale l’appello alla giustizia, la tensione verso l’altro e la ricerca di interpretazioni
corrette dovranno essere misurate» 15.
10 Cfr. R. BIN, op. ult. cit., 12-13. l’affermazione è ripetuta con toni sostanzialmente analoghi poche
righe dopo, dove si afferma che «se è vero che principi di questo genere non esprimono nulla di nuovo, ma
danno un nome ed un volto normativo ad esigenze che stanno nello strato più profondo delle fondamenta su
cui si eleva l’edificio costituzionale, è laggiù che bisogna scendere».
11 Cfr. M. ROSENFELD, Just Interpretations. Law between Ethics and Politics, Berkley, University of
California Press, 1998, trad. it. (a cura di G. Pino), Interpretazioni. Il diritto tra etica e politica, Bologna, 2000.
12 Sulla necessità di una coesistenza di valori e principi e sul rapporto tra pluralismo e integrazione,
cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, spec. 11, dove afferma che «carattere assoluto assume
soltanto un meta-valore che si esprime nel duplice imperativo del mantenimento del pluralismo dei valori (per
quanto riguarda il loro aspetto sostanziale) e del loro confronto leale (per quanto riguarda l’aspetto
procedurale)».
13 V. M. ROSENFELD, op.ult.cit., 323.
14 Cfr. M. ROSENFELD, op.ult.cit., 324-325.
15 V. M. ROSENFELD, op.ult.cit., 336.
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La proposta di Rosenfeld si fonda sull’adesione al valore dell’eguale dignità e della
riconciliazione tra il sé e l’altro e ne consente un’implementazione positiva attraverso le
pratiche interpretative.
Applicare questo metodo interpretativo ai conflitti costituzionali consente di
spiegare a posteriori alcune pronunce della Corte e di valorizzare particolarmente il principio
di leale cooperazione: questo non si risolve semplicemente nel giudizio di bilanciamento,
ma in un certo senso ne diviene la guida dirottandone gli esiti verso il pluralismo
comprensivo16.
In particolare, calato nel contesto dei conflitti di attribuzione, la leale cooperazione
impone che ciascun potere (/Ente) deve esercitare le proprie competenze ricercando la
massima convergenza possibile 17con gli altri poteri (o Enti) titolari di competenze interferenti18.
Obiettivo di questa parte del contributo è dimostrare che questa concezione della
leale collaborazione (e delle connesse pratiche del bilanciamento) non solo non è estranea
alla giurisprudenza della Corte, ma è invece la chiave di lettura più utile per valutarne sia
pregi che difetti.
4.1. a) La leale cooperazione come “concerto” nella sentenza n. 379 del 1992…
L’indagine non può che muovere dalla sentenza n. 379/199219 nella quale la
definizione della leale cooperazione come principio costituzionale è il dato di maggior rottura
rispetto al timido riconoscimento che, inizialmente, ne era stato fatto nelle precedenti
pronunce.
Il caso è noto. Il C.S.M. lamentava il rifiuto opposto dal Ministro di dare corso,
mediante la proposta del relativo decreto del Presidente della Repubblica, alla nomina del
Presidente di Corte d’Appello di Palermo deliberata dallo stesso C.S.M. In particolare, la
controversia s’incentra sul significato da attribuire alla formula del “concerto”, prevista
dall’art. 11 della l. n. 195 del 1958: mentre la difesa del Ministro accreditava una nozione di
16 Ovviamente, il metodo interpretativo del pluralismo comprensivo non deve rimanere confinato
all’ambito dei conflitti e della “costituzione dei poteri”, ma può e deve essere esteso anche alla “costituzione
dei diritti”. Sulla non separabilità di queste due fondamentali partizioni del diritto costituzionale, vedi M.
LUCIANI, La “costituzione dei diritti” e la “costituzione dei poteri”. Noterelle brevi su un modello interpretativo ricorrente, in
Scritti per Vezio Crisafulli, II, Milano, 1985, 497 ss.
Un’applicazione di questo metodo interpretativo alla “costituzione dei diritti” (in particolar modo
alle questioni legate al principio di laicità e alla libertà religiosa) traspare dalle tesi di O. CHESSA, La laicità come
eguale rispetto e considerazione, in corso di pubblicazione nella Rivista di diritto costituzionale, 2006, ora disponibile su
www.associazionedeicostituzionalisti.it
17 Questa espressione è tratta proprio, come si vedrà di qui a breve, dalla giurisprudenza della Corte,
sent. n. 379 del 1992.
18 Questo esito non è diverso da quello proposto da P. PINNA, Relazione introduttiva a questo
convegno, 4 del paper, dove si afferma che «la leale cooperazione è l’applicazione all’organizzazione
costituzionale del principio fondamentale di massima inclusione».
19 Cfr. il dibattito apertosi in seguito alla pronuncia de qua e riportato su Giur. Cost., 1992, 3319, in
particolare L. CARLASSARE, La giustizia e il “suo”ministro, A. CERRI, Brevi note sul conflitto fra CSM e Ministro di
Grazia e Giustizia, F. SORRENTINO, Un conflitto deciso ma non ancora risolto. Cfr. inoltre il commento di A.
CARIOLA, A proposito della sentenza sul conflitto di attribuzione tra C.S.M. e Ministro Guardasigilli: una questione
giuridicizzata, ma non spoliticizzata, in Giur. cost., 1992, 3061.
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concerto come “accordo” sui nomi indicati dalla Commissione per il conferimento degli
incarichi direttivi degli uffici giudiziari, il C.S.M. lo ricostruiva, piuttosto, come “parere
(obbligatorio ma) non vincolante”.
Nel respingere entrambe le ricostruzioni, la Corte osserva che «il modulo
procedimentale del concerto (…) comporta che la relativa attività debba essere svolta nel
pieno rispetto del principio costituzionale di leale collaborazione (punto 6, considerato in
diritto)». Posta questa premessa, il giudice costituzionale accede ad una nozione
“intermedia” del concerto: esso non è né accordo, né parere non vincolante; piuttosto
rappresenta il metodo informato alla leale cooperazione che consente la salvaguardia
dell’autonomia, nella «correttezza dei rapporti reciproci» e, nel contempo, la ricerca di una
confluenza degli organi su posizioni tendenzialmente comuni20.
In particolare « il concerto …comporta un vincolo di metodo, non di risultato: un
vincolo che obbliga le parti ad una leale cooperazione, finalizzata alla ricerca della maggiore
convergenza possibile attraverso una discussione effettiva e costruttiva»(il corsivo è aggiunto) 21.
Il versante su cui il principio di leale cooperazione opera è duplice: da un lato, esso
guida la Corte verso lo scrutinio sulla lealtà dei comportamenti tenuti dalle parti; dall’altro,
20 Cfr. P. VERONESI, I poteri davanti alla Corte…, cit., spec. 76 ss. in queste pagine, l’A. delinea i casi in
cui la Corte fa un uso più penetrante della propria attività di indagine, impegnandosi in un maggiore sforzo
creativo. In tal senso, il conflitto deciso con la pronuncia de qua verte sulla nozione di “concerto”, rispetto alla
quale, la Consulta prospetta una ricostruzione differente da quella adoperata dai soggetti confliggenti. Il
risultato cui perviene la pronuncia è notevole: «il giudice costituzionale accoglie, insomma, una nozione di
concerto che avalla, in parte, sia la posizione del Ministro sia quella del Consiglio; a se stesso riserva invece un
ruolo di garante, da attivarsi caso per caso».
21 Fortemente critico nei confronti dell’operazione ermeneutica praticata dalla sentenza in esame è
R. TARCHI, Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, in R. ROMBOLI (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo
costituzionale (1990-1992), Torino, 1993, spec. 299 ss. il quale sostiene che «il principio di leale cooperazione
(…) viene a mancare di un preciso fondamento costituzionale», e che «è evidente, allora, (…) come si sia
capovolto il piano di indagine della Corte nell’individuazione del parametro del conflitto: anziché partire dalla
Costituzione, si è preso atto dell’esistenza di una disciplina normativa di attuazione non irragionevole e,
muovendo da essa, si è arrivati a costruire un principio costituzionale». L’A. è altresì critico sull’uso dello
strumento della leale cooperazione in sede di conflitto tra poteri, affermando testualmente che «la sua
trasposizione al settore dei rapporti tra organi costituzionali appare alquanto ardita e giustificata soltanto
dall’esigenza di garantire un andamento non conflittuale dei rapporti tra i diversi poteri dello Stato. Nel caso
di specie, inoltre, sembrano sussistere altre ragioni che rendono l’operazione interpretativa operata dalla Corte
assai criticabile; innanzitutto viene a mancare la matrice volontaristica che sta alla base dell’origine del
principio, risultando quella tra il Ministro ed il C.S.M. una forma di collaborazione etero-imposta: prima da
una puntuale disposizione legislativa, adesso dalla giurisprudenza costituzionale. In secondo luogo, poi, una
forma di collaborazione era già stata prevista dal legislatore e non si sentiva davvero il bisogno di trasformarla
in un principio costituzionale implicito» (nota 152, pp. 299, 300). Anticipando, però, una conclusione, in
merito si può affermare che la critica sembra incentrarsi su un falso problema; da un lato, non si comprende
in che senso il principio di leale cooperazione debba avere una matrice volontaristica: il fatto che essa sia stata
canonizzata in una disposizione legislativa, non significa che sia politicamente assente; esso diviene solo
giuridicamente necessario nell’interpretazione che la Corte dà del “concerto”. Inoltre, non si capisce perché si
discorra di “irrigidimento” del principio fino al punto di trasformarlo in principio costituzionale implicito:
esso ha già un fondamento implicito nella separazione dei poteri: nessun irrigidimento della Corte, dunque,
ma la conseguenza logica di un principio (non scritto ma ritenuto comunque) esistente. Questi argomenti
saranno meglio sondati in seguito.
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Stefania Parisi
inteso come tensione verso la massima convergenza possibile, funge da canone sul quale
misurare la portata semantica della formula legislativa22.
L’imperativo della massima inclusione possibile è, dunque, assunto tanto quanto
criterio interpretativo delle formule legislative che prevede modalità collaborative quanto
come criterio valutativo dei comportamenti concreti sussumibili nella formula legislativa.
Ciò è sufficiente per affermare la piena ed effettiva parametricità del suddetto
principio? È sicuramente abbastanza per dimostrare che la leale collaborazione non è
interamente convertibile nel giudizio di bilanciamento dei principi costituzionali. Ma forse
se ne può ricavare anche qualcosa di più.
La pronuncia della Corte, pur riferendosi espressamente al bilanciamento di
competenze interferenti apparentemente tace sul quomodo: non indica apertamente il
“verso” del giudizio di bilanciamento. Questo “verso”, però, si coglie agevolmente tra le
righe del discorso allorquando si afferma che, a fronte dell’incertezza interpretativa sulla
formula legislativa del “concerto”, essa va intesa come modalità intermedia rispetto a quelle
prospettate alternativamente dalle parti e che, meglio delle altre due, realizza la massima
convergenza possibile tra le contrapposte pretese dei soggetti confliggenti: è l’etica della
«riconciliazione tra il sé e l’altro» a guidare alfine la scelta della Corte.
Ma se il vincolo della massima convergenza possibile rappresenta un criterio
interpretativo della modalità collaborativa prescelta dal bilanciamento legislativo – e ha quindi
carattere normativo “ex se” – è mai possibile che esso non possa/debba operare altresì
come criterio guida per lo stesso bilanciamento legislativo?
Pensiamo alla stessa nozione di “concerto”: esso non è solo il mero non
irragionevole bilanciamento tra i principi enucleati dagli artt. 105 e 110 Cost.: esso è invero
l’esito di un bilanciamento orientato dal principio della “massima convergenza possibile”23.
Supponiamo infatti che la legge del ’58 avesse prescelto la formula del “parere non
vincolante” in luogo del “concerto” 24: sarebbe stata una scelta pienamente legittima, se il
bilanciamento degli interessi fosse inteso in modo “debole”, cioè come ricerca di una
soluzione “non irragionevole”.
Da una parte infatti, in ossequio al dettato dell’art. 105 Cost. (secondo cui «spettano
al CSM, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assegnazioni ed i trasferimenti,
le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati»), avrebbe
riconosciuto in capo al CSM la competenza esclusiva in ordine al conferimento degli
22 In merito alla lealtà dei comportamenti, la Corte si è imposta di valutare se essi siano stati
«coerenti e non contraddittori» sottolineando altresì che «le parti (…) non possono dare luogo ad
atteggiamenti dilatori, pretestuosi, ambigui, incongrui o insufficientemente motivati, di modo che il confronto
possa avvenire su basi di correttezza e di apertura alle altrui posizioni» (corsivo aggiunto).
23 Ovviamente, il presupposto di tutti questi ragionamenti è la tesi secondo cui anche le norme
costituzionali sulla competenza esprimono enunciati di principio suscettibili di bilanciamento. Criticamente,
vedi però S. BARTOLE, op.ult.cit., 3905, il quale sembra preferire che gli enunciati costituzionali relativi alle
competenze siano intesi alla stregua di precetti all-or-nothing fashion, per usare la terminologia dworkiniana, cioè
alla stregua di regole. Di talché: «una competenza o c’è non c’è».
24 Una soluzione di questo tipo è caldeggiata, per esempio, da F. SORRENTINO, Incertezze e
contraddizioni del principio di leale collaborazione, in Giur. cost., 2003, spec. 3910, anche perché offrirebbe una
“chiara e netta delimitazione delle competenze”, risultato che il concerto inteso quale “vincolo di metodo”
non garantirebbe…
8
Stefania Parisi
incarichi direttivi; dall’altra avrebbe comunque riconosciuto un ruolo al Ministro della
giustizia, in ossequio all’art. 110 (secondo cui, «ferme le competenze del CSM, spettano al
Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla
giustizia»). Sarebbe stata però la soluzione massimamente inclusiva? Indubbiamente no,
perché ferma restando la competenza consiliare ultima in materia di conferimento degli
incarichi direttivi, comunque sarebbe stato possibile immaginare forme più estese di
coinvolgimento ministeriale, qual è appunto il “concerto” rispetto al “parere non
vincolante”.
Quale conclusione se ne deve trarre? Questa: quando la Corte impiega
effettivamente come parametro la leale collaborazione non fa altro che applicare, nel
bilanciamento dei principi costituzionali coinvolti, il principio della “massima convergenza
possibile”. Questo principio ci dice che ciascun potere deve esercitare le proprie
competenze ricercando la massima convergenza possibile con le competenze interferenti di
altri poteri. La misura del “possibile” è data dalle regole che inequivocabilmente sono fraseggiate dal
dettato costituzionale e che definiscono il grado di differenziazione, autonomia, indipendenza di ciascun
organo e delle relative competenze25. Sono i “picchetti costituzionali”26 a contenere l’operatività
dell’imperativo della massima convergenza possibile.
Ritornando al caso emblematico della sentenza del ’92: la massima convergenza
possibile tra l’esercizio della competenza del CSM in ordine al conferimento degli incarichi
direttivi e le competenze ministeriali in ordine all’organizzazione e funzionamento dei
servizi giudiziari non può essere la modalità collaborativa dell’accordo sui nomi dei dirigenti
da nominare (che pure sarebbe la massima convergenza immaginabile): questo inveramento
della leale collaborazione svuoterebbe di senso la regola che inequivocabilmente si estrae
dall’art. 105, e con ciò negherebbe il grado di differenziazione dei poteri che è richiesto dal
testo costituzionale. In questo caso, il punto di massima convergenza possibile non può che
essere la modalità collaborativa del concerto, quale «vincolo di metodo e non di risultato».
In definitiva, il suddetto principio impone la più estesa applicazione del canone di leale
collaborazione compatibilmente con il grado di differenziazione dei poteri e delle competenze che risulta dal
testo costituzionale. Esso è quindi tanto criterio di giudizio dei bilanciamenti legislativi che
definiscono modalità collaborative tra poteri interferenti, quanto criterio interpretativo delle
stesse formule legislative.
Resta però ancora un punto di chiarire: è anche criterio di giudizio dei
comportamenti concreti che a tali formule si parametrano?
E dunque, le norme sulla competenza non esprimono solo principi, ma anche regole “dure”,
seppure minimali…
26 L’espressione è, come è noto, di R. BIN, L’ultima fortezza – Teoria della Costituzione e conflitti di
attribuzione, Milano, 1996, 62 ss. (spec. 66).
25
9
Stefania Parisi
4.1. b) … e nella sentenza n. 380 del 2003
Saldamente legata alla sentenza n. 379/1992 è la n. 380/2003, sia per gli organi
confliggenti che per gli argomenti spesi dal Giudice delle Leggi per risolvere il conflitto27.
Il conflitto, sollevato dal C.S.M. nei confronti del Ministro della giustizia, riguardava
una nota con cui quest’ultimo dichiarava di non poter dar corso al decreto del Presidente
della Repubblica di nomina del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Bergamo.
Nell’accogliere il ricorso, la Corte ribadisce che le disposizioni di legge ordinaria (gli
artt. 11, comma 3, 17 della l. n. 195 del 1958 sulla Costituzione e il funzionamento del
C.S.M.) fanno “corpo” e vanno interpretate in una con i principi ricavabili dagli artt. 105 e
110 Cost.: da questo corpus di disposizioni (legislative e costituzionali insieme…) si ricava
«una pluralità di vincoli e di doveri sia per il C.S.M. sia per il Ministro della giustizia, in un
sistema di precise attribuzioni di autonome sfere di competenza, collegate (…) da un
metodo procedimentale basato sulla leale collaborazione».
Poste queste premesse, la Corte si autoesonera (e non potrebbe fare diversamente,
a meno di non inaugurare un revirement…) dal re-interpretare la nozione di concerto, avendo
già provveduto a darne una nel 1992, poggiata (secondo l’interpretazione qui suggerita) sul
pluralismo comprensivo. Ma, si è detto, il pluralismo comprensivo non è solo criterio
interpretativo della formula legislativa e criterio guida per lo stesso bilanciamento legislativo:
esso è – rectius: dovrebbe essere – anche criterio valutativo dei comportamenti concreti.
Mentre nel ’92 la questione da affrontare era soprattutto la definizione del
“concerto”, in questo caso si tratta di sindacare i comportamenti concreti. In base ai dati
fattuali in suo possesso, la Corte ritiene che, nella specie, il C.S.M. abbia compiuto «un
adeguato approfondimento delle ragioni addotte dal Ministro, giungendo, con motivazione non
implausibile, alla conclusione di applicare una deroga, espressamente prevista
dall’ordinamento giudiziario ed attribuita al “giudizio” dello stesso Consiglio» (punto 4 del
considerato in diritto, corsivo aggiunto).
Tuttavia, com’è stato osservato, «la Corte non spiega perché mai l’approfondimento
è stato adeguato e in che consista la non implausibilità della motivazione»28. Nel caso di
specie, «sembra piuttosto incline a dare enfasi al profilo procedurale dello scambio di
informazioni ed opinioni che a sottolineare l’importanza della ricerca di una posizione comune
su questa o quella nomina»29 (corsivo aggiunto).
Nel caso in esame, cioè, si ha l’impressione che la Corte non adoperi lo
strumentario che il metodo interpretativo del pluralismo comprensivo le suggerisce: la
27 Intende questa pronuncia come «banco di prova del principio di leale cooperazione», B. PEZZINI,
Leale collaborazione tra ministro della giustizia e C.S.M. alla prova: chi controlla il concerto?, in Giur. cost., 2003, 3915.
Cfr. altresì i commenti di F. SORRENTINO, Incertezze e contraddizioni del principio di leale collaborazione, cit., e S.
BARTOLE, Consiglio superiore della Magistratura e Ministro della giustizia: bilanciamenti legislativi e bilanciamenti giudiziali,
cit., 3905 ss.
28 Entrambi i virgolettati sono di S. BARTOLE, Consiglio superiore della Magistratura…, cit., spec. 3906 3907.
29 Cfr. ancora S. BARTOLE, op.ult.cit., 3908.
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Stefania Parisi
valutazione del comportamento tenuto in concreto, infatti, è molto più blanda e
l’imperativo della massima convergenza possibile si converte, semmai, in ottativo30.
Il quesito aperto da questa pronuncia è, allora, il seguente: per quale ragione la
Corte, pur richiamando l’esigenza della massima convergenza possibile – che le darebbe i
mezzi per un giudizio stringente e incisivo – quando valuta i comportamenti tenuti in
concreto dalle parti non svolge un sindacato penetrante volto a verificare se c’è stata la
«ricerca di una posizione comune»?
4.2. Conflitti interorganici su atti giurisdizionali: davvero il metodo del pluralismo comprensivo è
alternativo ad un sindacato sui “limiti esterni” nell’esercizio del potere? I casi “Previti”, “Cito” e
“Matacena”
In questo trend di (apparente?) self restraint della Corte si innesta la pronuncia che ha
deciso il caso “Previti”: la n. 225/200131.
La vicenda è nota: la Camera dei deputati aveva sollevato conflitto di attribuzione
tra poteri dello Stato nei confronti del giudice per le indagini preliminari del tribunale di
Milano, in funzione di giudice dell’udienza preliminare, in ragione e per l’annullamento di
alcune ordinanze e in particolare delle conformi decisioni di rigetto di richieste di rinvio
avanzate dalla difesa dell’On. Previti. In particolare, la ricorrente chiedeva alla Corte di non
riconoscere all’autorità giudiziaria la spettanza del potere di non considerare assoluto
impedimento alla partecipazione del deputato alle udienze penali il diritto-dovere di
assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea.
La difesa della Camera aveva, nel caso di specie, prospettato la lesione del principio
di leale cooperazione dei rapporti tra poteri e sottolineato la necessità di un bilanciamento
tra il corretto esercizio della funzione di parlamentare e quello della funzione del giudice.
Anche la difesa del Senato, con argomenti adesivi a quelli della Camera, aveva sostenuto
che «le attribuzioni costituzionali del Parlamento non sono estranee rispetto alle
funzioni che il giudice è chiamato a svolgere. Il principîo di leale cooperazione impone
a tutti i poteri dello Stato di svolgere le proprie funzioni valorizzando anche interessi
che la Costituzione affida ad altri poteri,
nell’esercizio delle autonomie
costituzionali loro riconosciute. Il dovere di collaborare lealmente si pone come
principîo generale cui necessariamente deve ispirarsi l’esercizio di funzioni
costituzionalmente riconosciute,
tanto più che la flessibilità che discende
dall’applicazione del metodo collaborativo non potrebbe certamente condurre a
deroghe o impedimenti dell’esercizio di una delle funzioni interferenti e, in specie, della
30 Ed infatti, nel punto 3 del considerato in diritto, la Corte si limita a verificare che i comportamenti
non siano «dilatori, pretestuosi, incongrui o contraddittori o insufficientemente motivati». Analoga
osservazione, pur se con riferimento al problema della rappresentanza del potere giudiziario nei conflitti
intersoggettivi, viene svolta da C. PADULA, Indipendenza della magistratura, indipendenza del potere esecutivo e principio
di «leale collaborazione»: un bilanciamento mancato, in Giur. cost., 2000, 2339 ss. L’A. nota che talora la Corte
manifesta un eccessivo self restraint nell’applicare la tecnica del bilanciamento in alcune decisioni.
31 Sulla pronuncia, cfr. spec. il commento di G. BRUNELLI, “Caso Previti: ultimo atto (del conflitto), in
Giur. cost., 2001, 2012 ed ivi pure M. A. CABIDDU, “Ceci n’est pas l’arrêt Previti, o del surrealismo costituzionale,
2005, e G. SPANGHER, Funzione giurisdizionale e attività parlamentare alla ricerca di possibili contemperamenti, 2002.
11
Stefania Parisi
funzione giurisdizionale. Nel caso di specie, è la stessa disciplina del processo penale che,
nel consentire di valutare l’assolutezza o meno dell’impedimento a comparire
dell'indagato,
costituirebbe indicazione positiva nel senso del necessario
coordinamento tra l’organo giurisdizionale e l’organo la cui attività può giustificare
l’impedimento in questione».
Nel ricorso delle Camere la leale cooperazione viene ritratta come una forma di
coordinamento necessario, basato su un momento dialogico cardine, nel quale ciascuna
parte espone le proprie esigenze all’altra, evitando con ciò di intaccare l’autonomia di
funzioni costituzionalmente garantite. Nel caso di specie si lamenta che il giudice «aveva la
possibilità di adoperare l’art. 486 c.p.p. come strumento capace di stabilire un
coordinamento con le autonomie parlamentari» (punto 7, ritenuto in fatto): si poteva, cioè,
leggere questa norma in un senso tale da consentire di salvaguardare anche l’autonomia
della funzione di parlamentare.
Di tutt’altro segno, ovviamente, è la difesa proposta dal giudice resistente. Pur
riconoscendo la speciale rilevanza della funzione del parlamentare, si obietta che non
minore rilevanza deve riconoscersi alla funzione del giudice e che, pertanto, la soluzione
non dovrebbe essere « “quella di dare prevalenza all’attività parlamentare a scapito delle
esigenze di celebrazione del processo”, bensì, al contrario, quella di considerare
“prioritario” – s’intende, anche rispetto alle esigenze dell’attività parlamentare – il
valore dell’effettività della giurisdizione, e pertanto di negare il carattere di assolutezza
dell’impedimento dedotto».
Alle difese dell’autorità giudiziaria e delle Camere corrispondono rispettivamente
due logiche contrapposte: quella che potremmo definire meramente oppositiva e quella,
invece, tendenzialmente più inclusiva perché volta a bilanciare le opposte esigenze
manifestate dalle parti e reciprocamente interferenti in vista del perseguimento del risultato
più comprensivo e rispettoso delle attribuzioni dei poteri confliggenti.
La Corte sposa evidentemente quest’ultima affermando che «il giudice ha leso le
attribuzioni dell’istituzione parlamentare, il cui rispetto esige che ogni altro potere,
allorquando agisce nel campo suo proprio e nell’esercizio delle sue competenze, tenga
conto non solo delle esigenze della attività di propria pertinenza, ma anche degli
interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri, che vengano in considerazione ai fini
dell’applicazione delle regole comuni»32. Se manca il dialogo con l’altro potere, se il
contraddittorio e la ricerca della soluzione più inclusiva non si realizzano, facilmente si può
indulgere nella menomazione di funzioni costituzionalmente tutelate: e il “contrappeso”
diventa “menomazione”, cioè collaborazione non leale.
Di tenore sostanzialmente analogo, sono le due sentenze successive, i casi
“Matacena” (sent. n. 263/2003) e “Cito”(sent. n. 284/2004), nelle quali si ritrovano ampie
citazioni testuali della sent. 225 del 2001: anche in questi casi, oggetto del conflitto erano
provvedimenti giurisdizionali con i quali il magistrato di volta in volta competente ha
rigettato le richieste di rinvio delle udienze presentate dalla difesa dell’imputato, alla base
delle quali vi era un impedimento assoluto a comparire, derivante dalla qualità di
32
Punto 5 del considerato in diritto. Il corsivo è aggiunto.
12
Stefania Parisi
parlamentare. Anche in questi casi, la Corte riafferma alcuni principi cardine: è compito del
giudice interpretare ed applicare le regole processuali e stabilire in che misura gli
impedimenti dell’imputato siano equiparabili a “cause di forza maggiore” ex art. 486 c.p.p.;
il giudice ha l’onere di effettuare un ragionevole bilanciamento tra gli interessi coinvolti,
senza ignorare integralmente le esigenze sottese all’esercizio della funzione parlamentare33.
Queste pronunce, riconoscendo una sorta di “delega di bilanciamento” in capo
all’autorità giudiziaria, sembrano sconfessare la chiave di lettura che si è cercato di veicolare
finora: quella per cui la Corte interviene nei conflitti interorganici per interpretare le
disposizioni legislative in senso massimamente inclusivo e per valutare se il principio di
massima convergenza possibile sia stato recepito nella formula contenente il bilanciamento
legislativo.
In realtà, esse possono, anzi, essere interpretate come un passo ulteriore che
completa il disegno sul metodo del pluralismo comprensivo.
Anche qui compare il principio della massima inclusione come criterio
interpretativo del dettato legislativo: in base alle regole scandite dal codice di procedura
penale (art. 486), spetta indubbiamente al giudice il potere di valutare se sussista un
impedimento a comparire dell’imputato e, in tal caso, di concedere il rinvio dell’udienza34.
Quando, però, l’esercizio di questa competenza (legata all’attribuzione costituzionale in
tema di giurisdizione) interferisce con le competenze collegate ad altre attribuzioni
costituzionali, in tal caso occorre tenere conto « non solo delle esigenze della attività di
propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri, che
vengano in considerazione ai fini dell’applicazione delle regole comuni».
Il giudice, dunque, deve interpretare ed applicare le regole processuali (che fondano
e definiscono la sua competenza) in modo da perseguire la massima convergenza possibile
con l’esercizio dell’altrui competenza (anch’essa, peraltro, agganciata ad un’attribuzione
costituzionale).
Rimane però una questione aperta: per quale ragione la Corte indica al GUP il
metodo del bilanciamento volto alla soluzione massimamente inclusiva, ma si guarda bene
dallo scrutinarne fino in fondo gli esiti? Perché si limita a “suggerirlo”, ma non ad
operarlo?35
Perché il ruolo della Corte non è quello di esercitare una competenza al posto del
soggetto cui questa spetta (in virtù di norme legislative e costituzionali). Il suo compito è,
Cfr. sul punto le osservazioni di E. MALFATTI, Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato in R.
ROMBOLI (a cura di ), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2002-2004), Torino, 2005, spec. 314, dove si
afferma che nei casi descritti si realizza «non un giudizio sul fatto, da parte della Corte, ma nemmeno un
esame troppo pregnante della motivazione (come fa la Cassazione quando ne rileva l’eventuale
contraddittorietà o illogicità), bensì – si potrebbe dire- un rilievo sul difetto “assoluto” di motivazione, dal
punto di vista del mancato bilanciamento (che la Corte non effettua direttamente ma pretende di riscontrare
in quanto necessario)».
34 Sul punto E. MALFATTI, op.ult.cit., 315, afferma che «se la Corte ha annullato provvedimenti
giurisdizionali non è perché il giudice fosse tenuto a concedere il rinvio, ma (semplicemente) perché non gli
spettava.
35 Secondo l’osservazione di E. MALFATTI, op.ult.cit., 311.
33
13
Stefania Parisi
piuttosto, volto in due direzioni: a) verificare se la modalità di esercizio prevista dalla legge
sia conforme all’imperativo della massima convergenza possibile quando contempla ipotesi
di interferenza con altre attribuzioni costituzionali; b) interpretare la formula collaborativa
prevista dalla legge nel senso più inclusivo possibile.
Quando però si tratta di valutare l’applicazione in concreto della disciplina
(legislativa e non), in tal caso deve limitarsi a verificare che essa non sia palesemente inconferente
con l’imperativo della massima convergenza possibile. Laddove quest’ultima evenienza
dovesse verificarsi, la Corte non potrebbe mai esercitare attribuzioni di altri poteri,
compiendo essa stessa le valutazioni di merito che hanno originato la decisione contestata:
in questo caso è doveroso richiamare solo figure sintomatiche come la (non) implausibilità
o la pretestuosità delle motivazioni addotte a sostegno dell’atto o della competenza
controversa.
Se la Corte, in definitiva, non si limitasse ad un “sindacato esterno”, ad una “delega
di bilanciamento”, la dimensione – anch’essa fondamentale – della differenziazione,
dell’autonomia, del pluralismo sarebbe irresistibilmente compressa a vantaggio di quella
dell’integrazione.
Ciascun potere titolare di una competenza riconducibile ad attribuzioni
costituzionali deve poter godere di un margine di relativa autonomia nel compiere le scelte
discrezionali attraverso le quali consegue la differenziazione del proprio ruolo e della
propria posizione nel sistema. Se la Corte, pur di implementare il canone della massima
convergenza possibile, si spingesse oltre la valutazione della “non implausibilità” della
motivazione le ragioni dell’autonomia e del pluralismo non sarebbero adeguatamente
considerate.
In definitiva, il principio della massima convergenza possibile impone uno scrutinio
intenso sui bilanciamenti legislativi, con cui si definiscono le modalità di esercizio e
collaborative di competenze interferenti (non bastando, in base a quanto sostenuto sinora,
la mera “non irragionevolezza” della formula legislativa). Ma se lo scrutinio della Corte ha
ad oggetto condotte concrete, allora la necessità di preservare la differenziazione e il
pluralismo degli indirizzi perseguiti autonomamente dagli attori costituzionali impone che
esso sia deferential.
Muovendo da queste considerazioni si comprende anche la ragione per cui, nella
seconda pronuncia sul concerto (la n. 380/2003) la Corte ha mantenuto un atteggiamento
di self restraint: un sindacato penetrante avrebbe finito per svilire il ruolo degli organi
costituzionali in conflitto, anteponendo le ragioni dell’integrazione a quelle del pluralismo,
laddove la visione “più inclusiva possibile” tende, comunque, a preservare il pluralismo
come valore in sé36.
Per un’ulteriore giustificazione dei casi in cui la Corte mantiene un approccio deferential, pur se nel
diverso contesto dei conflitti tra enti relativi ad atti giurisdizionali, cfr. G. ZAGREBELSKY, La giustizia
costituzionale, cit., 350 il quale rileva che la Corte in questi casi «ha negato (…) che si possa sindacare il modo di
esercizio del potere giurisdizionale in un caso in cui non venivano in considerazione regole di competenza
costituzionale, ma semplicemente regole attinenti al quomodo della decisione» e S. GRASSI, Il giudizio
costituzionale sui conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni, Milano, 1985, spec. 217, dove si sottolinea
36
14
Stefania Parisi
In definitiva, questo sembra confermare che un sindacato sui “limiti esterni” non
entra in corto circuito con le dinamiche del pluralismo comprensivo: anzi, sembra quasi
una sua declinazione, nel momento in cui restituisce un ruolo a tutti gli attori costituzionali
(non alla sola Corte).
4.3. Un’ipotesi di leale cooperazione mancata: la sent. n. 200 del 2006
La recentissima sentenza sulla titolarità del potere di grazia, n. 200/2006, può essere
letta come un’ipotesi di leale cooperazione mancata37 e di “non-applicazione” del metodo
del pluralismo comprensivo.
La vicenda è originata dal rifiuto opposto dal Ministro della Giustizia di «dar corso
alla determinazione, da parte del Presidente della Repubblica, di concedere la grazia a
Ovidio Bompressi»: la risposta della Corte è l’occasione per ripensare, oltre alla natura e alle
finalità sottese all’istituto della concessione della grazia, anche al ruolo del Capo dello Stato,
al valore della controfirma ed alla stessa nozione di separazione dei poteri.
La legittimazione passiva del (solo) Ministro della giustizia rinviene il suo
fondamento direttamente nella previsione dell’art. 110 Cost.: la Corte chiarisce che nelle
attribuzioni contemplate in tale norma devono essere inclusi «i compiti che al Ministro
spettano in forza di precise disposizioni normative, purché esse siano in rapporto di
strumentalità rispetto alle funzioni “afferenti all’organizzazione e al funzionamento dei
servizi relativi alla giustizia” ».
Dopo questo chiarimento iniziale, la Corte afferma che il thema decidendum non è la
titolarità del potere, bensì le concrete modalità del suo esercizio, posto che il Presidente della
Repubblica ne è il dominus esclusivo e che il ruolo del Ministro si sostanzia in un’attività
meramente istruttoria: in tal senso la Corte ravvede un dovere di collaborare unidirezionale
del Ministro col Capo dello Stato.
Successivamente, la Consulta procede alla ricostruzione storica dell’istituto38,
proponendosi, nel punto 6 del considerato in diritto, di stabilire quale ruolo rivesta il
Ministro e a che titolo egli partecipi di questo complesso procedimento. In realtà, in questa
parte della pronuncia, la Corte si preoccupa per lo più di addurre argomenti per negare la
natura sostanzialmente governativa del potere di grazia e quindi per (provare a) dimostrare
l’asserzione iniziale della titolarità presidenziale di questo potere.
Gli argomenti possono essere ricondotti ai seguenti ordini di ragioni, che hanno la
lucida evidenza di un sillogismo: a) la prima attiene alla finalità della grazia: l’esercizio della
grazia risponde a «eccezionali ragioni umanitarie» e, dunque, l’uso frequente che ne era
che il conflitto «può essere sollevato per definire i limiti esterni del potere, non per sindacare il concreto
esercizio all’interno di tali limiti, del potere medesimo».
37 Analogamente, cfr. A. GRATTERI, I doveri di leale cooperazione, 15 del paper. Sulla pronuncia e, più in
generale, sul fondamento e la giustiziabilità del dovere di leale cooperazione cfr. B. DE MARIA, Sanzionabilità e
giustiziabilità dei doveri costituzionali, relazione tenuta al Convegno annuale dell’Associazione “Grupo di Pisa” dal
titolo “I doveri costituzionali”, Acqui terme, 9-10 giugno, 2006, 39 ss del paper.
38 Sul punto, cfr. M. SICLARI, Alcuni interrogativi suscitati dalla sentenza n. 200 del 2006 della Corte
Costituzionale, in www.costituzionalismo.it, e G. GEMMA, Grazia e rieducazione del condannato: una dissentine opinion,
in www.forumcostituzionale.it .
15
Stefania Parisi
stato fatto fino alla metà degli anni ’80, per fini di politica penitenziaria, era il frutto di una
prassi distorsiva; b) di conseguenza, è necessario riconoscere l’esercizio di questo potere al
Capo dello Stato «quale organo super partes (…) estraneo a quello che viene definito il
“circuito” dell’indirizzo politico governativo» (punto 7.1. del considerato in diritto); c) per
questa ragione è necessario estromettere il Governo dall’adozione di provvedimenti aventi
efficacia “ablativa” di un giudicato penale.
A sostegno di questo motivo la Corte propone (la sua ricostruzione del) il principio
di separazione dei poteri: quest’ultimo (e nell’interpretazione che la stessa Corte ne fa in
alcune sentenze precedenti) «esclude ogni coinvolgimento di esponenti di Governo nella
fase dell’esecuzione delle sentenze penali di condanna, in ragione della sua
giurisdizionalizzazione ed in ossequio al principio secondo il quale solo l’autorità giudiziaria
può interloquire un materia di esecuzione penale»39.
Il quesito di fondo, allora, è questo: gli argomenti allegati dalla Corte – che sono più
che validi per negare la natura sostanzialmente governativa del potere di grazia – sono validi
anche per negare la natura duumvirale dell’atto (che invero sarebbe certamente la soluzione
più inclusiva)? Si può, servendosi esclusivamente dell’interpretazione del testo
costituzionale, includere il potere di grazia tra gli atti propriamente presidenziali?
In realtà, sembra che questa operazione non possa riuscire servendosi del solo
appiglio testuale dell’art. 87 Cost.: in questo è detto pure chiaramente che il Presidente della
Repubblica «emana gli atti aventi forza di legge e i regolamenti», senza che sia stata mai
negata la natura sostanzialmente governativa di questi atti.
Allora, posto che anche la Corte fa appello all’interpretazione sistematica per
sciogliere la questione della titolarità del potere di grazia, bisogna capire se questi argomenti
possano anche validamente escludere la natura duumvirale dell’atto.
Se la ragione dell’esclusiva titolarità presidenziale del potere di grazia risiede – oltre
che nelle finalità umanitarie – nel principio di separazione dei poteri, c’è da dire che esso è
stato qui inteso in modo assai peculiare: non sembra concepito dalla Corte come l’insieme
di checks and balances, di reciproche posizioni di veto, ma come rigida divisione di poteri e di
funzioni, incomunicabili tra loro.
Non si tiene conto, pertanto, di un dato di realtà: l’interferenza e l’intreccio tra le
competenze dei diversi attori costituzionali. Tanto più che la stessa Corte ha affermato che
il Ministro gioca un ruolo nel procedimento di concessione della grazia, alla luce delle
norme legislative – la cui legittimità non è contestata – che gli conferiscono almeno una
funzione istruttoria.
Certo, se il potere di grazia fosse sostanzialmente governativo, l’esecutivo avrebbe
nelle mani uno strumento formidabile per vanificare a proprio piacimento gli esiti della
giurisdizione penale (pur se – non bisogna dimenticarlo – egli sarebbe comunque
responsabile politicamente del proprio operato tramite la controfirma): ma l’identificazione
del potere di grazia come potere presidenziale non pone lo stesso ordine di problemi in
relazione, però, al Capo dello Stato? Il Presidente della Repubblica potrebbe, in ipotesi,
39
Punto 7.1. del considerato in diritto.
16
Stefania Parisi
concedere la grazia a chicchessia e sarebbe per giunta svincolato da qualunque forma di
responsabilità politica per quest’atto40.
Nella ricostruzione della Corte, cioè, non si tiene conto del “convitato di pietra”: il
potere giudiziario. Sarebbero gli atti di quest’ultimo (le sentenze penali di condanna) ad
essere vanificati: e se si scegliesse la strada dell’esclusiva titolarità in capo ad uno solo dei due
poteri – senza tenere conto, cioè, delle reciproche interferenze funzionali tra di essi – non si
potrebbero evitare prassi distorsive da ambo i lati.
Sotto questo profilo (quello, cioè, della separazione dei poteri) la soluzione dell’atto
“complesso eguale” costituisce la migliore garanzia per le funzioni del potere giudiziario:
mentre il contributo governativo sarebbe un rimedio contro eventuali arbitri di un
Presidente “irresponsabile”, viceversa, il contributo presidenziale sarebbe il rimedio contro
l’uso governativo della grazia come ordinario rimedio di politica giudiziaria e/o come mezzo
per ribaltare gli esiti della giurisdizione penale41.
Ma questa non è soltanto la soluzione più coerente con la logica della separazione
dei poteri e del checks and balances: La tesi dell’atto duumvirale realizzerebbe inoltre la
massima convergenza possibile, compatibilmente col ruolo consegnato ai poteri in gioco
dal dettato costituzionale.
Tuttavia, anche volendo accedere alla ricostruzione proposta dalla Corte, resterebbe
una “zona d’ombra” da illuminare.
Nella sentenza è detto a chiare lettere che «il Presidente della Repubblica (…) nella
delineata ipotesi in cui il Ministro Guardasigilli gli abbia fatto pervenire le sue motivate
valutazioni contrarie all’adozione dell’atto di clemenza, ove non le condivida, adotta
direttamente il decreto concessorio, esternando nell’atto le ragioni per le quali ritiene di dover
concedere ugualmente la grazia, malgrado il dissenso espresso dal Ministro»: un onere di motivazione,
dunque.
Ma quale funzione sarebbe chiamata ad assumere questa motivazione? In quale
sede potrebbe essere sindacata? Da un lato, infatti, l’onere di motivazione dovrebbe
40
Anche se adoperate in un contesto diverso – relativo al dibattito sulle modifiche all’art. 89.3 Cost
– sono qui utili le considerazioni di R. BIN, Della grazia e di altri atti che vanno controfirmati, in
www.forumcostituzionale.it , nel quale si paventa l’inquietante ipotesi che il Presidente della Repubblica potrebbe
decidere di graziare un noto criminale mafioso. Il quesito potrebbe agilmente rivolgersi all’analisi del caso in
esame: chi è responsabile, alla luce della ricostruzione della Corte, se il Capo dello Stato dovesse decidere di
agire così “irresponsabilmente”?
Sul rapporto tra potere e (ir)responsabilità presidenziale, cfr. T. F. GIUPPONI, Potere di grazia e
controfirma ministeriale: là dove (non) c’è la responsabilità, là c’è il potere…, in www.forumcostituzionale.it.
41 Si vedano le considerazioni di R. BIN, π. Le ragioni esoteriche di un match nullo, in R. BIN, G.
BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI, La grazia contesa. Titolarità ed esercizio del potere di clemenza individuale,
Torino, 2006. L’A. parte dall’idea che se il nostro costituente ha previsto «che per attivare il meccanismo
eccezionale del potere di grazia è necessario adottare il sistema della doppia chiave, non è pensabile che da
esso si possa evadere». E, dunque, nessuno dei due organi può avanzare la pretesa di estromettere l’altro dal
procedimento di concessione della grazia ergendosi ad esclusivo dominus del relativo potere. L’A. procede
sostenendo l’inevitabile conclusione “in pari” della partita tra i due organi perché «sbaglia il ministro quando
rivendica un potere esclusivo di avviare la procedura e rifiuta di collaborare lealmente al provvedimento di
grazia promosso dal Presidente della Repubblica; sbaglia il Presidente quando a sua volta rivendica un potere
esclusivo di decidere la grazia, relegando il ministro al compimento di “atti dovuti”».
17
Stefania Parisi
assolvere al compito di “tutelare” il Governo a fronte di una decisione del Presidente
palesemente arbitraria. Dall’altro, però, il Ministro non avrebbe modo per reagire – pur
ritenendo insufficiente la motivazione del Capo dello Stato – perché dovrebbe comunque
controfirmare l’atto di concessione della grazia – in linea con l’idea che la controfirma sia
atto dovuto.
È stato detto efficacemente che la presenza di un onere di motivazione sarebbe
ammantata di almeno due contenuti: potrebbe rappresentare uno stimolo ad adoperare con
il dovuto self restraint il potere di grazia; e, inoltre, costituirebbe lo strumento con cui la
Corte potrebbe valutare la ragionevolezza del provvedimento42. In questo modo sarebbe
possibile, attraverso la motivazione, valutare un cattivo uso del potere di grazia, ossia
“distorto” rispetto ai fini umanitari posti in Costituzione.
Ma ragionando secondo quest’ordine di idee, non si può sfuggire ad un’aporia. Essa
nasce dal fatto che, da una parte, la Corte esclude recisamente che il Ministro possa usare il
diniego della controfirma come strumento inibitorio o potere di veto (è atto dovuto,
infatti), dall’altra, però, quasi per controbilanciare un’evidente inclinazione per le ragioni
presidenziali, pone in capo al Capo dello Stato un onere di motivazione a garanzia della
posizione governativa: se ciò significa che la Corte dichiara di poter giudicare ammissibile
un’eventuale impugnazione governativa del decreto presidenziale per motivazione
insufficiente (o inadeguata, incongrua, ecc.), ci si troverebbe dinanzi alla curiosa circostanza
di un governo che impugna il decreto subito dopo averlo controfirmato. Il Ministro, in
sostanza, già dispone di uno strumento efficace nel caso in cui ritenga che il Capo dello
Stato ha fatto “cattivo uso” del potere, piegandolo a fini diversi rispetto a quelli umanitari:
il diniego di controfirma43.
La possibilità di impugnare un decreto appena controfirmato non sembra,
insomma, la soluzione più immediata.
Perché, allora (e sempre ragionando con le premesse teoriche della Corte), non
adottare la soluzione del ’92, e cioè consentire al Ministro di opporre il diniego della
controfirma a tutela delle proprie attribuzioni, fermo restando per il Presidente che
allegasse la ragione (prevalentemente?) umanitaria e non politica della grazia il rimedio del
conflitto? Questa soluzione è indubbiamente quella che più di ogni altra appare coerente,
42 Cfr. il commento di F. BENELLI, La decisione sulla natura presidenziale del potere di grazia: una sentenza di
sistema, in www.associazionedeicostituzioanlisti.it/cronache/giurisprudenzacostituzionale.
43 Posto, inoltre, che la controfirma è anche atto con il quale il Ministro si assumerebbe la
responsabilità politica di un atto, con il diniego di controfirma il Ministro potrebbe anche lamentare la
circostanza che la concessione della grazia, in quel caso, potrebbe non essere “a fini umanitari”, ma “politici”
e rivendicare (o disconoscere), in tal modo, una forma di paternità dell’atto. Sul problema della finalità della
grazia cfr. le considerazioni di N. ZANON, Un’opinione (vagamente) dissenziente sul potere di grazia, in
www.forumcostituzionale.it. L’A., in specifico riferimento alla concessione della grazia a Sofri e Bompressi si
domanda «ma siamo sicuri che la grazia a un personaggio eminente e noto, che (…) quasi simbolicamente
porta alle sue spalle il peso di una vicenda storica collettiva, tragica e tormentata, sia un atto “estraneo
all’indirizzo politico” di un governo e di una maggioranza?».
Di “tre differenti tipi di grazia («a) “politica”, b) “giusta”, e c) “paragiurisdizionale”») discorre R.
ROMBOLI, Alla ricerca della regola in ordine alle competenze in materia di concessione del provvedimento di grazia, in AA.
V.V., Il rispetto delle regole- Scritti degli allievi in onore di Alessandro Pizzorusso, Torino, 2005, spec. 233.
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Stefania Parisi
nel caso dato, con l’imperativo della massima convergenza possibile suggerito dal metodo
interpretativo del pluralismo comprensivo.
5. I conflitti intersoggettivi come humus della leale cooperazione
La più robusta mole di pronunce e di riflessioni teoriche riguardanti la leale
cooperazione nel conflitto tra enti potrebbe scoraggiare dalla lettura della giurisprudenza
della Corte. Una tassonomica ricerca dei casi risolti dal Giudice dei Conflitti potrebbe,
infatti, rivelarsi una strada infruttuosa e antieconomica perché costellata di ripetizioni e
tecniche consolidatesi nel corso del tempo.
Così, invece di ripercorrere tutta la giurisprudenza che, già prima della riforma del
Titolo V, richiamava come parametro il principio di leale cooperazione, pare opportuno
“pre-orientare” la ricerca verso alcune pronunce soltanto – quelle ritenute più significative
– per dimostrare che l’assunto sotteso all’applicazione del metodo del pluralismo
comprensivo segue, anche nei conflitti tra Enti, la medesima logica che ha nei conflitti tra
poteri44.
Che la leale cooperazione nei conflitti intersoggettivi abitasse una “zona d’ombra”
della giustizia costituzionale, era già stato intuito da tempo45; ma la lettura del dato
44 Per un diverso punto di vista, cfr. A. GRATTERI, I doveri di leale cooperazione, …. L’A. sostiene che il
pluralismo istituzionale assume un «diverso carattere (…) nel riparto verticale ed orizzontale dei poteri» e, di
conseguenza la leale cooperazione operi diversamente. A sostegno di questo argomento vengono addotti tre
ordini di ragioni: il primo riguarda l’idea che lo Stato e le regioni siano «portatori di interessi differenziati,
definiti e influenzati non solo dalla Costituzione ma anche dall’indirizzo politico perseguito»; la seconda
ragione riguarda la «diversa coesione» che, a dire dell’A., presentano i poteri dello Stato, dovuta alla
circostanza che gli interessi di cui sono portatori i singoli poteri «non possono essere valutati senza tenere
conto delle esigenze di unitarietà di indirizzo politico dello Stato». Infine, la terza ragione, connessa alle due
precedenti, implica che «l’opera di bilanciamento della Corte deve tenere conto di tale differenza».
Non pare questa la sede per contestare adeguatamente le ragioni addotte dall’A. citato, volte a
distinguere la diversa struttura del pluralismo nei rapporti intersoggettivi e interorganici: bisognerebbe capire
cosa si intende per indirizzo politico e perché questo dovrebbe essere “unitario” in rapporti che non
sembrano presupporne l’esistenza; si pensi alle vicende relative ai rapporti tra C.S.M. e Ministro della giustizia
o ai rapporti tra potere giudiziario e potere esecutivo: non sembra che qui si faccia “questione di unitarietà di
indirizzo politico”. Questa visione sembra presupporre un’idea di “Stato” come persona giuridica unitaria, che
non pare condivisibile.
Diverse paiono le considerazioni di R. BIN, Il principio di leale cooperazione nei rapporti tra poteri, cit. Egli,
più che affermare il «diverso carattere che il pluralismo assume nel riparto orizzontale e verticale dei poteri»
(v. sopra), sembra fare leva sulla diversità delle regole che presiedono ai rapporti intersoggettivi e interorganici.
Infatti, l’A. sostiene che «le regole che la Corte trae dal principio di leale cooperazione sono integrative delle
regole fissate dal legislatore, e riguardano il modo con cui esse vanno applicate quando c’è interferenza tra i
poteri dello Stato»; di conseguenza, «ciò spiega perché sia assai più difficile che la Corte utilizzi il principio di
leale cooperazione quando manchino regole da integrare». La differente operatività della leale cooperazione,
dunque, viene ricondotta alla diversità delle discipline dei due tipi di conflitto, più che al diverso valore del
pluralismo.
45 Così, testualmente, A. ANZON, «Leale cooperazione» tra Stato e Regioni, modalità applicative e controllo di
costituzionalità, in Giur. cost. 1998, 3531 ss. Per una ricostruzione delle tappe evolutive del principio
cooperativo, cfr. S. AGOSTA, L’indissolubile intreccio tra il principio di leale collaborazione e le intese tra lo Stato e le
Regioni: gli incerti (quando non contraddittori) riflessi del nuovo Titolo V nei più recenti sviluppi giurisprudenziali, in AA.
VV., Scritti dei dottorandi in onore di Alessandro Pizzorusso, Torino, 2005.
19
Stefania Parisi
giurisprudenziale, guidata dal principio della massima inclusione possibile, potrebbe aiutare
a restringere questa area.
Una volta ammesso che la tutela delle ragioni del pluralismo non può seguire
logiche distinte in base ai due conflitti e che, tutt’al più, il giudizio della Corte varia in
ragione della maggiore o minore presenza di regole da integrare, si deve cercare di capire in
che misura la leale cooperazione ha rappresentato una zona d’ombra e in che modo la si
può illuminare usando come guida interpretativa il pluralismo comprensivo.
Il problema della leale cooperazione come parametro implica un’analisi ad ampio
spettro della conflittualità Stato-Regioni: il giudizio sull’adeguatezza della modalità
collaborativa imposta dalla formula legislativa non può andare disgiunto dalla valutazione
dell’interferenza-menomazione che, in concreto, si fa valere attraverso il conflitto.
Sin dalle prime pronunce che invocavano la leale cooperazione come parametro, la
Corte ha sottolineato la presenza di un ampio cromatismo di forme collaborative,
necessarie ogni volta che si verificasse un’intersezione di ambiti competenziali tra Stato e
Regioni. Sia le leggi ordinarie che i diversi Statuti speciali ordinavano gli strumenti
collaborativi in una gamma che andava dal parere fino alle intese: questa molteplicità di
congegni volti a realizzare sinergie cooperative, nelle ipotesi in cui competenze statali e
regionali si intersecassero, è sempre stata chiara alla Corte che in diverse pronunce ha
affermato che «il principio di leale cooperazione, che informa la normativa relativamente al
raccordo fra competenze regionali e competenze statali (sentenza n. 153 del 1986) e che va
dall’adempimento di un “dovere di mutua informazione” (sentenza n. 359 del 1985) alla
realizzazione di una previa intesa»46, e anche che possono esserci «svariate misure di
raccordo o di coordinamento paritario – come ad esempio, le intese, le consultazioni, le
richieste di parere, le convenzioni, le informazioni reciproche – le quali sono in perfetta
armonia con il principio fondamentale di “leale collaborazione”, che questa Corte, con
giurisprudenza costante e ormai consolidata (…) ritiene essere alla base dei rapporti tra
Stato e Regioni e, in particolare, di quelli fra essi ordinati su base paritaria, cioè i cd.
rapporti orizzontali»47.
La modulazione scalare delle forme collaborative si è realizzata, nella giurisprudenza
della Corte relativa al giudizio in via principale, attraverso l’apposizione del limite della
ragionevolezza-proporzionalità delle misure cooperative elette dalla legge per comporre gli
interessi in gioco48. Dal tono didascalico, ad esempio, è la sent. n. 139/1990 in cui la Corte
chiarisce la portata del suo ruolo nel sindacare la leale cooperazione. Nel decidere su alcuni
La citazione è della Sent. n. 232 del 1991.
Questa citazione è tratta dalla sent. n. 214/1988 relativa ad un giudizio in via d’azione. La Corte,
quindi, già dalla sua più risalente giurisprudenza salda la leale cooperazione alle dinamiche del pluralismo.
Non solo. L’esistenza di “rapporti orizzontali” tra gli Enti sottolineata dal Giudice delle leggi sembra
anticipare la formula che icasticamente è stata adoperata per indicare l’attuale assetto dei rapporti
interistituzionali scolpito nell’art. 114: quella del “pluralismo istituzionale paritario”. La felice espressione
appartiene a M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo titolo V della Costituzione, in Le Regioni,
2001, 1274.
48 Cfr. sentt. nn. 1031 del 1988, 85 e 139 del 1990, 206 del 1997 e 242 del 1997. Sulla modulazione
tra le forme collaborative, cfr. (criticamente) A. D’ATENA, Sulle pretese differenze tra intese «deboli» e pareri nei
rapporti tra Stato e Regioni, in Giur. cost., 1991, 3908 ss.
46
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Stefania Parisi
ricorsi sollevati da diverse Regioni che si dolevano della loro esclusione dalla
determinazione del programma statistico nazionale (che intersecava in più punti ambiti
materiali di propria competenza), si dice a chiare lettere che: «quando alla Corte
costituzionale si chiede di verificare se un certo meccanismo di cooperazione fra Stato e
Regioni risponda, nella sua natura o nella sua composizione, ai principi costituzionali che
ne stanno a fondamento, in realtà si chiede di verificare se tra il meccanismo prescelto dal
legislatore o la sua conformazione, da un lato, e l’interferenza prodotta dal potere statale
nei confronti delle competenze regionali, dall’altro, non sussista un’irragionevole
sproporzione»49.
Di conseguenza, i confini del giudizio della Corte paiono inafferrabili perché la
valutazione d’idoneità della modalità cooperativa è lasciata quasi interamente al Giudice
delle Leggi.
In proposito, è stato affermato che «mentre resta difficilmente contestabile il potere
della Corte di dichiarare illegittima tout court la totale mancanza di qualsiasi forma di
collaborazione nelle situazioni in cui essa è costituzionalmente imposta, assai opinabile –
anche perché in genere non sorretta da congrua motivazione – appare la sua pretesa, in tali
ipotesi, di prescrivere essa stessa la necessaria modalità collaborativa, come opinabili
appaiono il contenuto e i confini del suo giudizio quando essa debba soffermarsi a valutare
se la specifica modalità collaborativa prevista sia o meno adeguatamente calibrata»50.
Sent. n. 139 del 1990, punto 12 del considerato in diritto.
Il giudizio è espresso da A. ANZON, «Leale cooperazione» tra Stato e Regioni …, cit., 3537. L’A.
richiama in proposito la sent. n. 398 del 1998 intervenuta sulla vicenda del regime comunitario delle quotelatte, rilevando come, «in una materia di asserita spettanza regionale, in quattro ipotesi di asserita mancanza di
forme di collaborazione delle Regioni (e province Autonome) con lo Stato la Corte ha dato risposte diverse,
senza peraltro che appaiano chiare le ragioni per le quali nei singoli casi è stata ritenuta costituzionalmente
doverosa questa o l’altra forma cooperativa».
Con toni analoghi, e con specifico riferimento ai conflitti intersoggettivi, E. MALFATTI, S. PANIZZA,
R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, Torino, 2003, spec. 224, dove si afferma che il ruolo della motivazione,
per comprendere la diversa calibratura della modalità cooperativa, è fondamentale per enucleare i criteri di
giudizio della Corte ma che «talvolta si è dato adito a perplessità della dottrina perché quei criteri non sono
apparsi sufficientemente determinati».
Già prima della novella del 2001, la Corte faceva appello, anche nei conflitti intersoggettivi, alla leale
cooperazione per giustificare l’(in)adeguatezza delle formule organizzatorie e collaborative previste anche da
atti non legislativi. In questa direzione può essere addotto come esempio quanto deciso nella sent. n. 127 del
1995. Il conflitto era stato sollevato dalla Regione Puglia nei confronti del Presidente del Consiglio dei
ministri in relazione al decreto con il quale il Governo aveva dichiarato lo stato di emergenza ambientale nella
suddetta Regione dal 27 ottobre 1994 al 31 dicembre 1995 e in relazione all’ordinanza emessa in pari data con
cui il Prefetto di Bari era stato delegato a predisporre il programma degli interventi. (Nel caso di specie è da
rilevare che, in via subordinata, la difesa regionale aveva chiesto che la Corte sollevasse dinanzi a sé stessa
questione incidentale, perché la l. n. 225 del 1992, all’art. 5 violava gli artt. 1, 5, 11, 70, 76, 77, 117, 118 e 119
della Costituzione: la Corte, in questo caso, “salva” il parametro legislativo “aggiustando” la modalità
cooperativa sul caso. Quindi, solo l’ordinanza del prefetto cade sotto la scure della Corte, a causa
dell’insufficienza della modalità cooperativa). Constatata l’invasività dell’ordinanza, la Corte rileva
l’inadeguatezza dello strumento del parere come modalità di coinvolgimento della Regione e accoglie il
conflitto, addirittura forgiando un procedimento sul caso concreto: «il conflitto va quindi accolto in
riferimento all'art. 1, nella parte in cui statuisce solo il parere, e non l’intesa con la Regione, per quanto attiene
alla programmazione degli interventi, fermo restando che in caso di mancato accordo entro un congruo lasso
di tempo vi potrà essere – assistita da adeguata motivazione – un’iniziativa risolutiva dell’organo statuale, per
49
50
21
Stefania Parisi
Suffragato, talora, da un controllo implicito sulla proporzionalità dello strumento
collaborativo rispetto all’intersezione di competenze, il principio cooperativo si è spesso
imposto negli argomenti della Corte, anche se non sempre in modo chiaro ed univoco, al
punto di non riuscire a sfuggire a qualche (fondata?) accusa di autoreferenzialità51.
Questa, dunque, la zona d’ombra: come sfuggire al ricorsivo appello alla leale
cooperazione? Come può la Corte giustificare teoricamente l’operazione ermeneutica con
cui valuta l’adeguatezza-proporzionalità del bilanciamento contenuto nella formula
legislativa? Come può dire che una formula collaborativa è più idonea rispetto ad un’altra a
salvaguardare le competenze regionali incise in un ambito materiale? Basta uno scrutinio
sulla non irragionevolezza della formula legislativa o la leale cooperazione potrebbe, invece,
essere adoperata in modo diverso?
5.1. Quale discrimen tra le forme collaborative? Le coordinate della giurisprudenza più recente
La giurisprudenza più recente in tema di conflitti intersoggettivi può servire a
tessere le coordinate entro cui la Corte si muove per decidere i ricorsi che invocano la leale
cooperazione come parametro.
Il postulato teorico di queste pronunce è quello della sostanziale parità degli enti
territoriali (anche alla luce della formula recepita dall’art. 1141 Cost.)52: l’«eguale dignità tra il
sé e l’altro»53 è il presupposto per consentire alle ragioni del pluralismo di emergere
adeguatamente.
Le sentenze seguono due diversi percorsi. Si danno, infatti: a) casi in cui la modalità
collaborativa prevista dalla formula legislativa presa a parametro è considerata adeguata – e
su questo presupposto la Corte decide il conflitto; e b) casi in cui la modalità collaborativa
manchi o sia carente – e la Corte provvede ad integrarla.
5.1. a) I casi in cui la formula collaborativa prevista dalla legge è considerata adeguata
Fermandoci ai casi sub a) è necessario chiedersi quando la Corte ritiene che la
modalità collaborativa prescritta nella legge sia adeguata al caso, in ragione dell’interferenza
di ambiti materiali tra Stato e Regioni. Per rispondere al quesito, non si può prescindere dal
riparto di competenze legislative previsto in Costituzione e dal modo in cui esso è stato
evitare rischi di paralisi decisionale (sentt. nn. 116 del 1994 e 355 del 1993)» (punto 6 del considerato in
diritto).
51 Cfr. S. BARTOLE, Principio di collaborazione e proporzionalità degli interventi statali in ambiti regionali, in
Giur. cost. 2003, spec. 261 - 262, dove si rileva il legame di “strumentalità tecnica” tra principio di
proporzionalità e principio cooperativo. L’A., inoltre, lo compara al principio di ragionevolezza perché
consente di modulare l’intervento collaborativo. L’accusa di autoreferenzialità viene mossa alla Corte allorché
essa giustifica, nel caso deciso dalla sent. 39/2003, la compressione delle attribuzioni della Regione siciliana
«non con elementi desunti aliunde per misurarne la congruità e proporzione, ma con quel principio di
collaborazione di cui, a sua volta, spetta alla Corte di valutare l’adeguata utilizzazione nel caso di specie».
52 Cfr. sul punto P. BIANCHI, Il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni e tra Regioni, spec. 285, in R.
ROMBOLI (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2002-2004), Torino, 2005.
53 Nella formula descritta da Rosenfeld (v. sopra, par. 3)
22
Stefania Parisi
reso flessibile attraverso il principio di sussidiarietà54, secondo le modalità scandite dalla
Corte nella sentenza n. 303/2003.
Da un lato, infatti, la presenza di un elenco di materie di potestà esclusiva statale
non elide in radice la possibilità che vi siano interferenze con competenze regionali: è ciò
che avviene con i titoli di intervento ccdd. “trasversali”. Dall’altro, l’interferenza è evidente
anche nei casi in cui vi sia attrazione in sussidiarietà, nelle materie concorrenti.
Questo doppio livello di interferenza di ambiti materiali statali e regionali comporta
la necessaria predisposizione di strumenti collaborativi destinati ad evitare il deflagrare di
conflitti tra Enti. Come viene calibrata la modalità collaborativa adeguata? La Corte ritiene
sostanzialmente che quando si verifica l’ipotesi dell’attrazione in sussidiarietà di funzioni
amministrative e legislative appartenenti alla potestà concorrente delle Regioni, la modalità
collaborativa deve essere l’intesa forte, la codecisione: questa è, difatti, l’unica formula in
grado di bilanciare adeguatamente l’avvenuta attrazione in sussidiarietà delle competenze
regionali da parte dello Stato55.
Nel caso in cui si versi in ambiti materiali esclusivo-trasversali, invece, pur non
potendosi estromettere totalmente la Regione, tuttavia si deve evitare che la sua posizione
si traduca in un veto nell’esercizio di una potestà che la Costituzione affida allo Stato. Di
conseguenza, il modulo collaborativo che meglio contempera la dimensione
dell’integrazione con le esigenze del pluralismo, in questi ambiti materiali, è l’ intesa debole56.
54 Sul legame tra principio di leale collaborazione e sussidiarietà, cfr. A. SPADARO, Sui principi di
continuità dell’ordinamento, di sussidiarietà e di cooperazione fra Comunità/Unione Europea, Stato e Regioni, in Riv. trim.
dir. pubbl., 1994, spec. 1080, cui adde O. CHESSA, Sussidiarietà ed esigenze unitarie: modelli teorici e giurisprudenziali a
confronto, in Le Regioni, 2004 e inoltre S. PAJNO, I poteri sostitutivi nei confronti degli enti territoriali, in G. CORSO-V.
LOPILATO (a cura di), Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionale, Parte generale, Milano, 2006.
55 Per un’affermazione di questo principio, cfr. s. n. 285 del 2005. Nel caso di specie, le Regioni
Emilia-Romagna e Toscana avevano impugnato numerose disposizioni del decreto legislativo 22 gennaio
2004, n. 28 (Riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche, a norma dell'art. 10 della legge 6
luglio 2002, n. 137). Una delle censure aveva come parametro l’art. 118 Cost. e l’assenza, nel predetto decreto,
di formule concertative coinvolgenti le Regioni in una materia che pure sarebbe di potestà concorrente
(valorizzazione dei beni culturali). Nello scrutinare la formula legislativa, la Corte ritiene «ineludibile che
questi atti (previsti dai capoversi precedenti, N.d.A.) vengano adottati di intesa con la Conferenza StatoRegioni, in modo da permettere alle Regioni (in materie che sarebbero di loro competenza) di recuperare
quantomeno un potere di codecisione nelle fasi delle specificazioni normative o programmatorie. Pertanto,
deve essere dichiarata l'illegittimità costituzionale delle disposizioni ora richiamate, nella parte in cui non
prevedono che gli atti indicati siano adottati previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni»(punto 9 del
considerato in diritto).
O ancora, si vedano le affermazioni analoghe contenute nella sent. n. 383 del 2005. Nella prima si
dice «non è dubbio che la disposizione impugnata intervenga nell'ambito della materia “produzione, trasporto
e distribuzione nazionale dell'energia”, ma che, al tempo stesso, la “chiamata in sussidiarietà” da parte dello
Stato del potere di determinare gli indirizzi può essere giustificata sulla base della necessità che in questa
materia sia assicurata una visione unitaria per l'intero territorio nazionale. Peraltro, la rilevanza del potere di
emanazione degli indirizzi per lo sviluppo delle reti nazionali di trasporto dell'energia elettrica e di gas naturale
sulla materia energetica e la sua sicura indiretta incidenza sul territorio e quindi sui relativi poteri regionali,
rende costituzionalmente obbligata la previsione di un’intesa in senso forte fra gli organi statali e il sistema
delle autonomie territoriali rappresentato in sede di Conferenza unificata».
56 Cfr. P. PINNA, Il diritto costituzionale della Sardegna, II ed. in corso di pubblicazione, che sviluppa, sul
punto, una considerazione presente già in M. SIAS, Titoli di intervento statali e “sussidiarietà razionalizzata” (o da
razionalizzare?), in Le Regioni, 2005, 1010 ss. L’A. nel distinguere potestà legislativa trasversale e concorrente
afferma che «la differenza (..) va ricercata nel diverso valore che assume il concorso statale. (…) Nell’ambito
23
Stefania Parisi
Tenendo fermo questo assunto, si possono citare diversi esempi del primo di tipo
di pronunce, in cui la Corte presuppone la validità dello strumento collaborativo dell’intesa
forte prevista dalla legge in casi di attrazione in sussidiarietà della funzione amministrativa.
Tra questi, significativo è il caso deciso con la sentenza n. 233 del 200457, dove
particolarmente evidente è anche il legame tra conflitto intersoggettivo e giudizio di
legittimità della norma legislativa assunta come parametro, precedentemente scrutinata con
la celebre sentenza n. 303/2003. La Regione Emilia Romagna aveva sollevato conflitto nei
confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri in relazione alla delibera del Comitato
interministeriale per la programmazione economica accusata di aver violato diversi
parametri costituzionali (artt. 117 e 118 Cost.) e legislativi (in particolare l’art. 3, comma 6
lett. b), del d. lgs. 190 del 2002) oltre al principio di leale cooperazione. La Corte accoglie il
ricorso sulla base dei principi affermati nella sent. n. 303 del 2003: nel caso di attrazione in
sussidiarietà della funzione amministrativa e della relativa funzione legislativa da parte dello
Stato «per giudicare se una legge statale sia invasiva delle attribuzioni regionali o non
costituisca invece applicazione dei principi di sussidiarietà ed adeguatezza, diviene elemento
valutativo essenziale la previsione di un’intesa fra lo Stato e le Regioni interessate, alla quale
sia subordinata l’operatività della disciplina». Inoltre, la Corte ricorda di aver già valutato,
sempre nella sentenza n. 303/2003, la legittimità costituzionale della norma legislativa
assunta come parametro nel conflitto deciso con la sentenza n. 233 del 2004, ritenendo che
la procedura contemplata da questa legge, prevedendo l’intesa forte, fosse «idonea ad
assicurare alle Regioni un’adeguata possibilità di rappresentare la propria posizione, nel
rispetto del principio di leale collaborazione». In particolare, ove l’infrastruttura risulti di
concorrente interesse regionale è consentito alla regione di paralizzare l’approvazione del
progetto o la localizzazione dell’opera.
Dopo aver sottolineato che «il mancato rispetto della procedura prevista dall’art. 3
del d. lgs. 190 del 2002 costituisce sicura violazione del principio di leale collaborazione, la
cui osservanza è tanto più necessaria in un ambito come quello di una procedura che
integra l’esercizio in sussidiarietà da parte di organi statali di rilevanti poteri in materie di
competenza regionale», la Corte annulla la delibera del CIPE, intervenuta senza previa
della potestà concorrente il contributo regionale non può essere mai escluso: si realizza col contributo della
legge regionale, quindi con la ripartizione funzione legislativa tra lo stato e la regione che lasci uno spazio
adeguato alla disciplina regionale, oppure con l’intesa forte, con la codecisione». Di conseguenza «La potestà
esclusiva si differenzia da quella concorrente non tanto perché l’intervento regionale sia escluso (…) quanto
perché esso non possiede uno spazio costituzionalmente garantito». In tal modo, «poiché manca la garanzia
della ripartizione della funzione legislativa, non occorre l’intesa forte con la regione. È tuttavia necessario il
coinvolgimento della regione secondo la forma dell’intesa debole specie se si dispone, oltre la disciplina
unitaria, anche l’esercizio unitario della funzione amministrativa, in base all’art. 118 della Costituzione. Lo
impone il principio di leale collaborazione che, provenendo dal principio fondamentale della massima
inclusione possibile, è strettamente legato a quello di sussidiarietà». Sul concetto di intesa “debole” cfr. le
diverse ricostruzioni di M. CECCHETTI, La Corte e il modello di rapporto tra Stato e Regioni con particolare riferimento
alla tutela dell’ambiente: il contributo della sentenza n. 116 del 1994, in Riv. giur. dell’ambiente, 1995, spec. 80 ss. e di S.
AGOSTA, Dall’intesa in senso debole alla leale cooperazione in senso forte? Spunti per una riflessione alla lue della più
recente giurisprudenza costituzionale tra (molte) conferme e (qualche) novità, in www.federalismi.it, 2004, n. 6, spec. 10.
57 Su cui, v. il commento di I. RUGGIU, Trasporti a Bologna e leale cooperazione: metro pesante… per una
Metro leggera, in Le Regioni, 2004.
24
Stefania Parisi
intesa.
Questa pronuncia costituisce un esempio evidente del caso che si è indicato sopra,
sub a), ossia di applicazione del parametro legislativo che, si ritiene, abbia introdotto una
modalità collaborativa adeguata (e particolarmente intensa, dato l’ambito materiale in cui
interviene). L’intesa forte rappresenta il frutto della massima convergenza possibile per
ambiti materiali nei quali vi sia stata l’attrazione in sussidiarietà delle funzioni
amministrativa e legislativa da parte dello Stato. La formula dell’intesa debole rappresenta,
invece, la formula più inclusiva possibile per in casi in cui si versi in ambiti esclusivi statali,
nei quali, tuttavia, non si può estromettere del tutto la Regione, perché essa è titolare di
competenze interferenti: in questi casi, il “picchetto” costituzionale rappresentato dall’art.
1172 Cost. frena la codecisione, ma non preclude del tutto forme di intervento regionale,
anche se nella forma più blanda dell’intesa debole58.
5.1. b) I casi in cui la modalità collaborativa prevista dalla legge necessita di un’integrazione. Le
due ipotesi dell’auto e dell’eterointegrazione.
Ci sono poi casi, segnalati sub b), in cui la modalità collaborativa è carente (o del
tutto assente59): qui, la Corte provvede a integrare la formula cooperativa nel senso più
inclusivo possibile, mantenendo tendenzialmente il discrimen che sopra si è detto (a seconda
che si verta in ambiti materiali esclusivo-trasversali o concorrenti). In realtà, gli strumenti
per inverare il principio di leale cooperazione sono molteplici: essi vengono spesso
modulati e testati sul caso concreto60.
Per questa proposta ricostruttiva, cfr. ancora P. PINNA, op. ult. cit..
I casi sono piuttosto rari, ma non mancano, al punto tale che si è parlato di «previsione pretoria di
raccordi cooperativi da parte della Corte»: l’espressione è di S. DE GÖTZEN, Interpretazione costituzionale, principio
di buon andamento e individuazione giurisprudenziale del fondamento positivo del principio di leale cooperazione, in Le Regioni,
1992, 709. Una pronuncia significativa, prima della formale introduzione del principio di leale cooperazione in
Costituzione, che indica il meccanismo dell’intesa come possibile anche se non è espressamente previsto è la
n. 286 del 1985. In essa, la Consulta ha deciso quattordici ricorsi per conflitto di attribuzioni promossi dallo
Stato contro diverse Regioni e aventi ad oggetto la competenza dello Stato ovvero delle Regioni e delle
Province autonome nella formazione degli strumenti urbanistici, quanto al mutamento di destinazione dei
beni pubblici statali (demaniali e patrimoniali indisponibili). Nel caso in questione, la Provincia Autonoma di
Bolzano aveva sostenuto l’applicabilità del meccanismo dell’intesa ai soli casi specificamente previsti (nella
specie dall’art. 81, secondo comma, d.P.R. 616/1977): dopo aver affermato che l’intesa è un istituto «tipico e
generale del diritto pubblico», la Corte afferma altresì che la norma citata dalla Provincia resistente «si riferisce
invero ad una fattispecie particolare, che non esclude certo l’impiego dell'istituto (il quale, come s'è detto, è di
portata generale) tutte le volte che esso costituisce strumento idoneo a realizzare la sua funzione ora detta»
(corsivo aggiunto), concludendo che «non spetta alle Regioni ed alle Province autonome approvare gli
strumenti urbanistici senza che, nelle parti in cui essi prevedono il mutamento di destinazione degli immobili
pubblici appartenenti allo Stato, sia previamente intervenuta un’intesa con i competenti organi centrali». In
relazione a questa pronuncia, parla di «complessa ricostruzione del parametro» e di «parametro costituzionale
dell’intesa liberamente creato dalla Corte», F. SORRENTINO, La giurisprudenza della Corte nei conflitti tra lo Stato e
le Regioni, in AA. VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte Costituzionale- Atti del Convegno svoltosi a Trieste, 2628 maggio 1986, Milano, 1988, spec. 219.
60 In tal senso P. PINNA, Relazione..., cit., spec. 6 del paper., dove afferma «la leale collaborazione non
si identifica con alcun particolare procedimento, quale l’intesa, il parere, la concertazione, ecc. Questi sono
l’esito del giudizio, cioè la regola inclusiva che risolve il conflitto. La leale collaborazione è il principio in base
al quale si stabilisce la regola inclusiva del rapporto controverso».
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59
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Stefania Parisi
In realtà si potrebbe distinguere tra “autointegrazione” e/o “eterointegrazione” del
parametro, a seconda che la Corte decida essa stessa come integrare la modalità
collaborativa ovvero faccia riferimento ad altri luoghi nei quali i soggetti istituzionali si sono
confrontati (ad es.: le Conferenze). Come esempio del primo tipo – e fermandosi alle
pronunce successive alla riforma del titolo V parte II – si possono citare le varie sentenze
relative agli atti di nomina. La prima è la n. 27 del 200461, il cui dispositivo trova conferma
in altre sentenze successive relative a casi analoghi62.
Questa pronuncia decide un conflitto di attribuzioni nei confronti del Presidente
del Consiglio dei Ministri e del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio
deducendo che non spetta a quest’ultimo nominare il Commissario straordinario dell’Ente
Parco dell’Arcipelago toscano – prevedendo una permanenza in carica dello stesso “fino
alla nomina del Presidente dell’Ente medesimo” – in mancanza dell’intesa con il Presidente
della Regione Toscana prevista dall’art. 9, comma 3, della legge n. 394/1991.
La Corte dichiara fondato il ricorso considerando però che: il Presidente dell’Ente è
nominato con decreto del Ministro dell’Ambiente, d’intesa col presidente della Regione in
cui ricada il parco; nessuna disposizione è prevista per la nomina del Commissario, ma
niente esclude che la nomina di quest’ultimo possa avvenire da parte del Ministro
dell’Ambiente, in quanto detto potere di nomina «costituisce attuazione del principio
generale (…) del superiore interesse pubblico al sopperimento, con tale rimedio, degli
organi di ordinaria amministrazione, i cui titolari siano scaduti o mancanti».
Nonostante nessuna norma disciplini le modalità di nomina del Commissario
straordinario, la Corte però afferma che ciò «non legittima (…) né la tesi erariale secondo
cui la nomina del commissario sarebbe giustificata dal solo fatto che non si sia raggiunta
l’intesa per la nomina del Presidente – perché in questo modo si finirebbe per attribuire al
Governo il potere di aggirare l’art. 9, comma 3, l. n. 394 del 1991, scegliendo come
Commissario la persona non gradita dal Presidente della Regione – né quella della
61 Cfr. l’annotazione di M. CECCHETTI, Le intese tra Stato e Regioni su atti necessari. Come preservare il valore
della “codecisione paritaria” evitandone gli effetti perversi, in Le Regioni, 2004.
62 Cfr. sent. n. 339/2005, nella quale si fa riferimento ad un caso analogo a quello risolto con sent. n
27/2004, relativo alla nomina di un Commissario straordinario in attesa della nomina del Presidente
dell’Autorità portuale (d’intesa con la Regione interessata): in essa si specifica come « da un lato, di norma,
l’adozione del provvedimento (di nomina del Presidente dell’Autorità Portuale, N .d .A.) presuppone l’avvio e
lo sviluppo – in termini di leale cooperazione – di reiterate trattative volte a raggiungere l’intesa; e che questa
non sia stata conseguita, malgrado la più ampia disponibilità che tutti gli enti od organismi coinvolti sono
chiamati non soltanto a manifestare, ma anche a perseguire in concreto. Dall’altro lato, le accennate trattative
devono proseguire anche dopo l’adozione del provvedimento di nomina del Commissario, rappresentando,
questo, un epilogo interinale, che non arresta né impedisce l’ordinario procedimento di nomina; ma ne
richiede un’effettiva prosecuzione. Conseguentemente, la natura necessariamente transitoria della gestione
commissariale e l’esigenza di non frustrare il pronto ripristino della autorità ordinaria, comportano che essa
abbia una durata ragionevole. Nel caso di specie – e come già questa Corte ebbe modo di segnalare nel
precedente richiamato dalla Regione ricorrente – “l'illegittimità della condotta dello Stato non risiede (...) nella
nomina in sé di un Commissario straordinario senza la previa intesa con il Presidente della Regione Toscana”,
ma nel mancato concreto sviluppo della procedura della intesa per la nomina del Presidente dell'Autorità
portuale di Livorno: procedura la quale, come già si è sottolineato, esige “lo svolgimento di reiterate trattative
volte a superare, nel rispetto del principio di leale cooperazione tra Stato e Regione, le divergenze che
ostacolino il raggiungimento di un accordo e che sole legittimano la nomina del primo (v. la già citata
sentenza n. 27 del 2004)”».
26
Stefania Parisi
ricorrente, per la quale occorre procedere all’intesa, non potendo estendersi – in difetto di
espressa enunciazione della necessità della stessa ed in presenza di diverse modalità di
nomina di altri organi dell’ente – la disposizione di cui all’art. 9, comma 3, prevista per la
nomina del Presidente».
In sostanza, la Corte ragiona secondo lo stesso schema che, nel conflitto
interorganico deciso con la sentenza n. 379/1992, l’aveva condotta a prospettare una
nozione di “concerto” equidistante sia dall’“accordo” che dal mero “parere non
vincolante” e consistente, piuttosto, in un « un vincolo di metodo, non di risultato: un vincolo
che obbliga le parti a una leale cooperazione, finalizzata alla ricerca della maggiore
convergenza possibile attraverso una discussione effettiva e costruttiva».
Infatti, rigettando entrambe le tesi prospettate dalle parti – quella massimamente
inclusiva della Regione e quella totalmente esclusiva del Ministro – la Corte si ferma a dire
che, nel caso di specie, «l’illegittimità della condotta dello Stato non risiede (…) nella
nomina in sé di un Commissario straordinario, senza la previa intesa con il Presidente della
Regione Toscana, ma nel mancato avvio e sviluppo della procedura dell’intesa per la
nomina del Presidente, che esige, laddove occorra, lo svolgimento di reiterate trattative volte a
superare, nel rispetto del principio di leale cooperazione tra Stato e Regione, le divergenze che ostacolino il
raggiungimento di un accordo che sole legittimano la nomina del primo»: un vincolo di metodo, non di
risultato, appunto. La condizione di legittimità per la nomina del Commissario è l’avvio e/o
la prosecuzione delle procedure per la nomina del Presidente63.
Quindi, la soluzione massimamente inclusiva in assoluto (l’intesa) è esclusa perché si
sarebbe forzata la lettera della legge; ma neanche la soluzione “esclusiva” è legittima perché
si aggirerebbe la ratio sottesa all’art. 9, comma 3, l.n. 394 del 1991; la soluzione più inclusiva
possibile è l’imposizione del vincolo “comportamentale” di metodo delle reiterate trattative
per la nomina del Presidente.
Quanto alla seconda ipotesi citata, quella definita di “eterointegrazione” del
parametro, se ne trova traccia nella sent. n. 31 del 2006, che ha deciso un giudizio per
conflitto sollevato dalla Regione Lombardia contro un decreto dell’Agenzia del demanio
con il quale si disciplinava l’alienazione di aree situate nel territorio della stessa Regione. La
Corte evidenzia preliminarmente la natura “evolutiva” del principio cooperativo: «la sua
elasticità e la sua adattabilità lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo
dinamico i rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti»;
subito dopo, ammette che «la genericità di questo parametro (…) richiede tuttavia continue
precisazioni e concretizzazioni. Queste possono essere di natura legislativa, amministrativa o
giurisdizionale, a partire dalla ormai copiosa giurisprudenza di questa Corte. Una delle sedi
più qualificate per l’elaborazione di regole destinate ad integrare il parametro della leale
collaborazione è attualmente il sistema delle Conferenze Stato- Regioni e autonomie locali.
Al suo interno si sviluppa il confronto tra i due grandi sistemi ordinamentale della Repubblica, in esito al
63 Sottolinea il punto M. CECCHETTI, op. ult. cit., dove afferma che nel caso di specie era mancata una
«condizione di legittimità “minima” su cui misurare l’esercizio concreto del potere in questione» , ossia lo
svolgimento di «reiterate trattative volte a superare, nel rispetto del principio di leale cooperazione tra Stato e
Regione, le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo».
27
Stefania Parisi
quale si individuano soluzioni concordate di questioni controverse» (corsivo aggiunto).
L’affermazione appena riportata sembra celare l’apologia della vittoria del canale
“politico” su quello “giuridico”: in realtà, con essa la Corte, da un lato, riconosce
implicitamente la propria attività di concretizzazione del parametro; dall’altro, avvisa che,
quando le strade del dialogo politico sono aperte è bene percorrere prima queste e obbedire
agli esiti del dialogo interistituzionale, per addivenire ad una soluzione il più possibile
condivisa e preventivamente discussa nelle stanze informali della Conferenza64.
In tal senso, il ruolo di catalizzatore svolto dalla Conferenza fornisce alla Corte gli
strumenti per testare la correttezza dei comportamenti dei soggetti istituzionali. L’apparente
self restraint della Corte, insomma, significa solo che Essa non pretende di sostituirsi agli
attori costituzionali, ma di saggiare la lealtà dei loro comportamenti alla luce delle risultanze
manifestate in sede di Conferenza. Anche in questo caso l’approccio deferential del giudice
costituzionale (unitamente alla tecnica della “delega di bilanciamento”) sembra confermare
che l’autonomia e la differenziazione dei soggetti costituzionali sono valori importanti tanto
quanto quello dell’unità e della collaborazione65. Quanto basta per affermare che il compito
della Corte nel farsi interprete delle dinamiche del pluralismo è il medesimo in entrambi i
conflitti: la tensione verso la massima inclusione possibile non deve mai valorizzare la
dimensione dell’integrazione a discapito di quella del pluralismo66.
6. La decostituzionalizzazione del parametro: un falso problema.
A questo punto, è necessario aggiungere qualche indicazione ulteriore a proposito
della decostituzionalizzazione del parametro nei conflitti.
Il tema è stato appena sfiorato nei paragrafi precedenti, quando si è detto – in
modo piano – che la Corte talora applica, per la definizione dei giudizi per conflitto, anche
norme prodotte da fonti ordinarie. Che i conflitti debbano ancorarsi a norme costituzionali,
è circostanza positivizzata dagli artt. 37 e 39 della l. n. 87/1953: questo requisito dovrebbe
segnare il confine discriminante tra il giudizio della Corte e i giudizi comuni. Ma che il
parametro si potesse dilatare fino a comprendere anche norme formalmente non
costituzionali è un fenomeno spiegato con la sostanziale “incompletezza” delle norme
In merito alle funzioni delle Conferenze «sul piano della “procedimentalizzazione “della leale
cooperazione» e sul peso esercitato dal parere ivi acquisito come strumento per prevenire i conflitti, cfr. R.
BIN, I conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni (1997-2001), in Le Regioni, 2002, spec. 1378.
65 A questo proposito, si rinvia a quanto detto nella sent. n. 380 del 2003.
66 È evidente però che la tensione tra collaborazione e differenziazione, tra integrazione e
pluralismo, va ben oltre l’ambito dei rapporti tra poteri ed enti: probabilmente essa costituisce un dato
ineliminabile delle esperienze costituzionali contemporanee. Per una enunciazione di questa tesi vedi O.
CHESSA, Corte costituzionale e trasformazioni della democrazia pluralistica, in V. TONDI DELLA MURA – M. CARDUCCI
– R. G. RODIO (a cura di), Corte costituzionale e processi di decisione politica, Atti del seminario di Otranto – Lecce
svoltosi il 4-5 giugno 2004, Torino, 2005, spec. 62, laddove osserva che: «la dialettica, mai definitivamente
risolta e mai risolvibile, tra pluralismo competitivo e pluralismo discorsivo è la cifra espressiva del nuovo
paradigma democratico e dell’idea di costituzione che lo sottende».
64
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Stefania Parisi
costituzionali attributive di competenza67. Da qui, le soluzioni della dottrina volte a
salvaguardare il “tono costituzionale”68 del conflitto e a sottolineare l’importanza che la
norme poste da fonte non formalmente costituzionale abbiano «il valore di strumenti di
concretizzazione, di “messa in opera” dei precetti costituzionali, in modo che la sfera di
competenza delle Regioni e, per esclusione, dello stato, risulta non soltanto da norme
costituzionali, ma da queste così come sviluppate in concreto da norme attuative,
integrative o esecutrici»69 o che sussista un «rapporto di strumentalità necessaria tra la fonte
stessa e le norme costituzionali sulla competenza»70.
Ma da quanto finora esaminato, si può agevolmente desumere che la cd.
“decostituzionalizzazione” del parametro di giudizio nel conflitto di attribuzioni è, in realtà,
un’illusione ottica. Tutto dipende, infatti, da cosa s’intende per “parametro di rango
costituzionale”.
Se con questo sintagma si intende fare riferimento alla norma direttamente
ricavabile da disposizioni del solo testo costituzionale (la costituzione formale), è evidente
che l’espressione “decostituzionalizzazione” non è impropria.
Ma se per “parametro costituzionale” intendiamo, oltre ai cd “picchetti”71, cioè le
regole che espressamente, direttamente ed inequivocabilmente ricaviamo dal testo, anche
tutte quelle norme che nel tempo hanno formato quel corpus cui diamo il nome di
“costituzione vivente”72, ecco che la cd. decostituzionalizzazione del parametro non esiste.
67 Sul ricorso a norme di legge ordinaria per integrare il parametro costituzionale, cfr. la posizione di
A. PACE, Strumenti e tecniche di giudizio della Corte Costituzionale nel conflitto tra poteri, in AA. VV., Strumenti e tecniche
di giudizio della Corte Costituzionale, Atti del Convegno, Trieste, 26-28 maggio, 1986, Milano, 1988, spec. 165 ss.
68 L’espressione è adoperata da C. MEZZANOTTE, Le nozioni di «potere» e «conflitto» nella giurisprudenza
della Corte costituzionale, in Giur. cost., I, 1979, nel contesto del conflitto tra poteri, ma può pacificamente riferirsi
al conflitto tra Enti. Si può intuire come il problema riguardi, essenzialmente, la «polverizzazione del
conflitto», ossia la presenza di ricorsi su atti per lo più individuali che sarebbero illegittimi, più che
incostituzionali e quindi la compatibilità del giudizio su conflitto dinanzi alla Corte con il giudizio dinanzi al
giudice amministrativo. Il virgolettato del periodo precedente è di R. BIN, Conflitti di attribuzione (Aspetti
sostanziali), in Foro Italiano, 1997, I, 2769. Sul rapporto tra conflitto e giudizio amministrativo (e quindi sul
“tono costituzionale” del conflitto), cfr. V. COCOZZA, Conflitto di attribuzioni, giudizio amministrativo, sindacato sul
corretto esercizio del potere, in Le Regioni, 1986.
69 Il virgolettato appartiene a G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., 347 - 348. L’A.
prosegue sottolineando la circostanza per cui le norme ordinarie che integrano il parametro costituzionale
assumano, così, “rilevanza costituzionale”, secondo il lessico che la stessa Corte adopera, in varie pronunce: s.
nn. 82/1958; 65/1959; 97 e 103/1977 etc. Cfr. altresì R. ROMBOLI, Il conflitto di attribuzione tra enti nel biennio
1995-96 (aspetti procedurali), in Foro Italiano, 1997, I, 2773, il quale ricorda che la Corte ha sempre fatto proprio
la possibilità di integrazione del parametro costituzionale attraverso il riferimento a leggi generali dello Stato,
che seppure formalmente ordinarie, risultano essere strettamente ed inscindibilmente connesse a principî
costituzionali: ma «la natura costituzionale del conflitto non vale ad evitare che, trattandosi comunque di
garantire la sfera di competenza della regione o dello Stato, si ponga, con particolare riguardo a certi tipi di atti
impugnati, il problema del rapporto tra la giurisdizione costituzionale e quella amministrativa e della
indicazione di criteri per distinguere i “due livelli” di giudizio». Il problema si propone anche per i conflitti
interorganici.
70 Così A. RUGGERI- A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., 361.
71 L’espressione è di R. BIN, L’ultima fortezza, cit., 66.
72 E che, per usare ancora una volta un’espressione di R. BIN, op. ult. cit., 69 ss. si può descrivere
come l’insieme delle «linee di congiunzione dei picchetti». Sul “diritto vivente costituzionale” e il ruolo della
Corte nella «manipolazione dei parametri», cfr. A. RUGGERI, La Costituzione allo specchio: linguaggio e “materia”
costituzionale nella prospettiva della riforma, Torino, 1999, spec. 193 ss.
29
Stefania Parisi
Insomma, se entro la linea di demarcazione del “diritto costituzionale” si include anche il
complesso degli elementi meta-testuali, elaborati dall’interpretazione giurisprudenziale, la
decostituzionalizzazione diventa, appunto, solo un falso problema.
Bisogna chiedersi, però, quale ruolo occupa il parametro che la Corte ricostruisce
sulla base di discipline dal rango formalmente legislativo. Il problema investe tutti i casi in
cui si verifica una sorta di “ascesa di rango” della norma legislativa, il che accade
allorquando si intenda ricavare una nuova norma di diritto costituzionale vivente da una
norma legislativa preesistente. A ben vedere, però, il problema descritto si interseca con
quello della creazione giurisprudenziale del diritto: il giudice che assume la norma legislativa
come parametro nei conflitti e ne interpreta il significato, sta in realtà trasformando la
norma legislativa in diritto di creazione giurisprudenziale73. Quindi il problema diventa
quello di capire fino a che punto può spingersi la creazione giurisprudenziale del diritto74.
Com’è noto, per spiegare la parametricità delle norme di rango legislativo nei
conflitti, la dottrina ha fatto ricorso alla dicotomia tra “attribuzione” e “competenza”, ossia
tra astratta titolarità del potere, quale risulta da disposizioni costituzionali, e concreta
modalità di esercizio dello stesso, quale risulta da norme legislative75. Tuttavia, può ben
accadere che «l’oggetto del conflitto sia una “competenza” fissata dalla legge (…) e non
“agganciabile” alla costituzione se non attraverso percorsi troppo lunghi per essere
pienamente persuasivi»76 e dunque, difficilmente, si potrà spiegare la parametricità di quella
norma legislativa e rivestirla con l’ etichetta di “norma costituzionalmente obbligatoria”.
In questi casi, allora, si ritorna al problema esposto sopra: come è possibile
enucleare una nuova norma di diritto costituzionale vivente da una norma legislativa
preesistente?
Una prima soluzione è fornita da Bin già ne L’ultima fortezza: se «questa competenza
è contesa da due soggetti che hanno sicuramente un ruolo garantito dalla costituzione, il
problema non è allora se la competenza controversa sia sussumibile in un’attribuzione
E’ un’operazione analoga a quella che la Corte fa quando si appella a norme consuetudinarie o al
diritto extratestuale in generale. Sul richiamo alla consuetudine per integrare il parametro nei conflitti, cfr.
l’intuizione di V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II2, Padova, 1974. Vedi pure il lavoro più
recente di A. SIMONCINI, Alcune considerazioni su consuetudini e convenzioni costituzionali come parametro del giudizio
della Corte, in G. PITRUZZELLA - F. TERESI - G. VERDE (a cura di), Il parametro nel giudizio di costituzionalità, Atti
del Seminario di Palermo, 28-29 maggio 1998, Torino 2000, 581 ss. Sull’atteggiamento di
“deresponsabilizzazione dell’interprete” che si genera attraverso il richiamo di fonti consuetudinarie, cfr. R.
BIN, L’ultima fortezza, cit., spec. 53.
74 La risposta che R. BIN dà ne L’ultima fortezza è molto chiara: Assumendo gli enunciati
costituzionali come limite negativo dell’attività dell’interprete – come “picchetti”, appunto – l’A. sottolinea
l’esistenza di un “significato proprio” delle parole, che non può essere eluso. L’atteggiamento ermeneutico
proposto è volto a tracciare le “linee di congiunzione dei picchetti” attraverso un’ipotesi interpretativa che, da
un lato, non sia incompatibile col senso proprio del testo e, dall’altro, sia volto a fornire la regola per il caso.
Per fare ciò, si assume l’idea che la Corte (e, più in generale, l’interprete) debba divenire “lemmaincorporator” ossia sviluppare la soluzione del caso in modo da riscriverla ogni volta che si presenti
un’eccezione da “incorporare”. L’indicatore positivo della validità di una teoria interpretativa è la sua
coerenza interna, ossia la capacità di spiegare il testo come “sistema”.
75 Com’è noto, la ricostruzione è di A. PISANESCHI, I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, cit.,
317 ss.
76 Cfr. R. BIN, op.cit., 34.
73
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costituzionale, quanto piuttosto se l’esercizio di quella competenza possa modificare
l’assetto costituzionale dei poteri o direttamente (incidendo quindi sull’esercizio delle
attribuzioni costituzionali) o indirettamente (modificando l’equilibrio fissatosi nell’attuale
assetto dei poteri, che pure non è l’unico costituzionalmente possibile, lasciandolo
“sbilanciato”)».
In sostanza «non si può dire che la Corte giudichi gli eventi in base a quelle norme,
ma che quelle norme entrano nel sistema di pesi e contrappesi che la Corte deve tenere
presente, giudicando»: quindi, le norme legislative sono parametro nella misura in cui
rafforzano l’equilibrio dei rapporti instaurati tra gli organi costituzionali. Sembra quasi che il
parametro sia l’ equilibrio tra i poteri.
Nello scritto successivo su La leale cooperazione nei rapporti fra poteri, l’A., nel
constatare l’adiacenza tra conflitto e giudizio sulle leggi, rileva che la norma legislativa, che
fissa una modalità collaborativa, deve delineare un assetto bilanciato – equilibrato dunque –
tra i poteri77. In sostanza, l’equilibrio fra i poteri viene identificato con la formula legislativa
che individua un meccanismo cooperativo, ma solo nella misura in cui questa delinei un
ragionevole bilanciamento tra due esigenze in conflitto.
Provando a collegare le indicazioni diluite nei suoi scritti, si potrebbe concludere
che per Bin la parametricità delle norme legislative è consentita laddove queste ultime
implementino modalità collaborative tra poteri interferenti, determinate attraverso un
ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti.
Nella parte che precede, però, si è cercato di dimostrare che lo schema del
bilanciamento degli interessi, da solo, non basta: è pure necessario che la disciplina
legislativa che prescrive la modalità collaborativa rappresenti il frutto della massima
convergenza possibile78, ossia implementi le dinamiche del pluralismo comprensivo.
In tal senso, allora, la norma legislativa viene elevata a parametro perché detta una
formula collaborativa volta ad applicare, nel bilanciamento dei principi costituzionali
coinvolti, il principio della “massima convergenza possibile”.
Il ruolo delle norme legislative e del diritto di creazione giurisprudenziale, dunque,
si interseca in un punto mediano rappresentato dalla massima inclusione. Non basta che la
formula legislativa sia “non irragionevole”; è necessario pure che sia inveramento del
principio di massima convergenza possibile. Se questa condizione è soddisfatta, essa entra a
comporre il corpus del diritto costituzionale vivente; a comporre, unitamente alle
disposizioni del testo costituzionale, una sorta di bloc de constitutionnalité.
L’adiacenza col giudizio incidentale consisterebbe nella circostanza che l’assetto dei poteri scolpito
nella formula legislativa potrebbe rivelarsi sbilanciato e ciò consentirebbe alla Corte di sollevare dinanzi a sé la
questione di legittimità; cfr. R. BIN, ibidem, 9.
78 Dove la misura del possibile è risultante, come detto sopra, dall’insieme delle regole che
chiaramente regole che inequivocabilmente sono fraseggiate dal dettato costituzionale e che definiscono il
grado di differenziazione, autonomia, indipendenza di ciascun organo e delle relative competenze.
77
31
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7. Quando l’oggetto condiziona l’accesso del soggetto: conflitti tra poteri su atto legislativo e
potere giudiziario.
Dopo aver esaminato alcune questioni concernenti il parametro, si vorrebbe, in
questa sezione, mettere in luce qualche elemento problematico che ancora permane sui
profili stricto sensu oggettivi79: profili, cioè, relativi ad alcuni atti sottoposti a conflitto.
Non sembra più costituire una zona “franca” della giustizia costituzionale quella
relativa al conflitto interorganico su atto legislativo: la sua definitiva ammissione in alcune
pronunce della Corte ha rappresentato un revirement di notevole impatto sulla fisionomia dei
conflitti costituzionali.
Saranno qui ripercorse solo le tappe salienti dell’itinerario seguito dalla Corte, per
evitare di appesantire queste considerazioni rammentando cose note80. Il percorso si snoda
a partire dall’iniziale chiusura della Corte nel 1989, con la sentenza n. 40681, pronuncia che,
pur negando il conflitto su atto legislativo o atti equiparati, attraverso l’inciso «in linea di
Sulla necessità di discorrere di oggetto in senso ampio del conflitto (specie interorganico) e di
«distinguere dagli atti e dai comportamenti ritenuti dal ricorrente specificamente lesivi delle proprie
attribuzioni», cfr. E. MALFATTI, Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, in R. ROMBOLI (a cura di),
Aggiornamenti in tema di processo costituzionale(1999-2001), Torino, 2002, spec. 191.
80 Per una ricostruzione analitica della giurisprudenza della Corte sul punto cfr. P. VERONESI, I poteri
davanti alla Corte, cit., e, più recentemente, L. BUFFONI, Il conflitto di attribuzione tra poteri dello stato avente per
oggetto atti legislativi: lo stato dell’arte in dottrina e giurisprudenza, in Giur. Cost., 2002, 2269 ss.
81 Il conflitto era stato sollevato dalla Corte dei Conti sia contro un decreto legislativo che, secondo
quanto previsto dall’art. 16 della l. n. 400/1988, non era stato sottoposto al suo vaglio preventivo di legittimità
sia contro lo stesso art. 16, lamentandosi la lesione dell’art. 1002 Cost. Sulla pronuncia cfr almeno i commenti
di S. CICCONETTI, L’esclusione della legge dal giudizio sui conflitti tra poteri dello Stato in una discutibile sentenza della
Corte costituzionale, in Giur. Cost., 1989, I, 1869; A. PUGIOTTO, La Corte dei Conti in conflitto con gli organi di
indirizzo politico: profilo soggettivo, profilo oggettivo e soluzione di merito, in Giur. Cost., 1989, II, 2172; A. PISANESCHI,
Conflitto di attribuzioni tra Corte dei Conti, Parlamento e Governo, in Riv. Corte dei Conti, 1990, 275. S. NICCOLAI, Il
conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato, in R. ROMBOLI (a cura di), aggiornamenti in tema di processo costituzionale
(1987-1989), Torino, 1990, 259 ss. In essa, la Corte aveva dichiarato l’esclusione “in linea di principio” della
sindacabilità della legge in base ad alcuni argomenti: il primo è relativo alla «ragionevole esigenza di bilanciare
la relativa latitudine della cerchia degli organi abilitati al conflitto fra poteri (non necessariamente organi
costituzionali) con una più rigorosa delimitazione dell’ambito oggettivo del conflitto stesso.» (punto 3
considerato in diritto); il secondo argomento addotto dalla Corte rileva come «la sperimentabilità del conflitto
contro gli atti suindicati finirebbe con il costituire un elemento di rottura del nostro sistema di garanzia
costituzionale, sistema che, per quanto concerne la legge (e gli atti equiparati), è incentrato nel sindacato
incidentale.». Cfr. sul punto E. MALFATTI, Il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in R. ROMBOLI (a cura
di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale 1994-1996), Torino, 1997, la quale rileva altresì che un terzo
argomento su cui la Corte fa perno riguarda «la difficoltà di coordinare le misure previste da un lato per la
soluzione dei conflitti nel merito e dall’altro per la dichiarazione di illegittimità delle leggi» e che questo si
presenterebbe come il più fragile atteso che – come autorevolmente sottolineato da A. PIZZORUSSO,
Commento alla sent. n. 161 del 1995, in Corriere Giuridico, 1995, 824 ss. – tra annullamento e dichiarazione di
illegittimità costituzionale non ci sia alcuna differenza di portata giuridica.
Sulle tecniche decisorie adoperate della Corte in questo contesto, cfr. M. CECCHETTI, Problemi
dell’accesso al giudizio sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, in A. ANZON- P. CARETTI- S. GRASSI ( a cura
di), Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale, Torino, 2000, spec. 367.
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principio» sembrava già preconizzare l’eventualità di future deroghe: insomma, una sorta
di“clausola di sicurezza”82.
L’apertura successiva della Corte si giustifica, nella sentenza n. 161 del 1995, con la
circostanza che oggetto del giudizio era un decreto legge e che la motivazione addotta nella
sent. del 1989 «mal si attaglia ad un atto quale il decreto legge, che la stessa Costituzione
viene a qualificare come “provvedimento provvisorio”» e per il quale «il profilo della
garanzia si presenta essenziale e tende a prevalere (…) su ogni altro». Dunque, la prevalenza
del profilo della garanzia e la necessità di adoperare il conflitto come «forma necessaria per
apprestare una difesa in grado di unire all’immediatezza l’efficacia», spingono la Corte verso
questa nuova stagione dei conflitti interorganici83.
Da tempo la dottrina aveva mostrato tutti i possibili risvolti positivi dell’esperibilità
del conflitto su atto legislativo e la Corte, riconoscendo in tal modo natura residuale allo
strumento del conflitto84, si è trovata, da ultimo, a sostenere l’ammissibilità dei conflitti su
atti legislativi ogni volta che «da essi possano derivare lesioni dirette dell’ordine
costituzionale delle competenze e non esista un giudizio nel quel tale norma debba trovare
applicazione e quindi possa essere sollevata la questione incidentale sulle leggi»85. Posto che
anche un atto legislativo può incidere sull’ordine delle competenze e che dal “cattivo uso”
del potere può discendere una menomazione- interferenza dell’attribuzione riconosciuta ad
altri organi, si giustifica l’esperibilità, in questi casi, del conflitto tra poteri86.
Ma è necessario suggerire che se la zona “franca” sembra essere scomparsa, una
zona “d’ombra” ancora resta87: essa, per lo più, concerne il profilo soggettivo dell’accesso al
conflitto su atto legislativo da parte del potere giudiziario.
Già dalle pronunce successive alla 116 del 1995, la Consulta ha piantato una serie di
“paletti”, consentendo ad una parte della dottrina di parlare, a tal proposito, di “regole
diverse” riferibili a questo tipo di conflitti88.
Cfr. R. BIN, Un nuovo «ricorso diretto» contro le leggi?, in Giur. Cost., 1999, 3919 ss.
Sottolinea che l’apertura ancora su base emergenziale e che «si è ancora lontani da una
dichiarazione di ammissibilità di conflitti interorganici su atti legislativi a livello sistemico» L. BUFFONI,
op.ult.cit., 2284. Sull’idea che conflitti di questo genere sono stati sollevati, nella maggior parte dei casi, dalla
Corte dei Conti in sede di controllo sulle leggi di spesa e in qualità di titolare della competenza a salvaguardare
l’equilibrio della finanza pubblica, cfr. V. ONIDA, Legittimazione della Corte dei Conti limitata «per parametro» o
conflitto di attribuzioni, in Giur. cost., 1991, 4168 ss.
84 Secondo una delle note tesi espresse da R. BIN, L’ultima fortezza, cit., spec. 113 ss.
85 Questa affermazione è contenuta nella sent. n. 221 del 2002 che rinvia, a sua volta, alla n. 457 del
1999.
86 Anzi, in alcuni casi esso sembrerebbe il solo rimedio esperibile: si pensi alle leggi qualificate “di
indirizzo politico” per le quali difficilmente potrebbe essere esperito il rimedio del giudizio incidentale per
l’assenza di una incidenza diretta sulle situazioni giuridiche soggettive; per questa visione, cfr. F. PIERANDREI,
voce Corte Costituzionale, in Enc. Dir., Milano, 1962, 936 - 7. Oppure, si pensi ancora alle leggi interpretative
abnormi,su cui cfr. la tesi di A. PUGIOTTO, La legge interpretativa e i suoi giudici- Strategie argomentative e rimedi
giurisdizionali, Milano, 2003. O, ancora, all’inquietante ipotesi prospettata da R. BIN, op.ult.cit., 154-155.
87 Sulla necessità di distinguere “zone franche” e “zone d’ombra” della giustizia costituzionale, cfr.
da ultimo A. RUGGERI, Presentazione del Seminario “Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sulle leggi”,
Genova, 10 marzo 2006, 2 del paper.
88 L’espressione è di F. BIONDI, Le «regole diverse» alla base dei conflitti tra poteri promossi dagli organi
giudiziari, in Giur. Cost., 2000, 1377 ss.
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La Corte ha infatti affermato che la legittimazione di ciascun organo giurisdizionale
ad esser parte di un conflitto del genere, stante la natura “diffusa” del potere giudiziario,
presuppone «che esso sia attualmente investito del processo, in relazione al quale i singoli
giudici si configurano come “organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del
potere cui appartengono”, ai sensi dell’art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87»89.
In questo modo, anche il conflitto tra poteri avente ad oggetto un atto legislativo
sarebbe riconducibile alla formula dell’ “incidentalità”90.
E’ stato fatto notare che questo requisito comporterebbe alcuni esiti significativi: da
un lato, costituirebbe un elemento ulteriore con cui il conflitto interorganico su atto legislativo
(sollevato dal potere giudiziario) deve misurarsi; dall’altro, implicherebbe una «piana
equiparazione (…) tra conflitti e sindacato incidentale»91.
Questo ha portato a compendiare il ragionamento della Corte in alcuni assunti: «i
giudici possono sollevare conflitto solo in via incidentale(…); la legge può (ormai
pacificamente) costituire oggetto di un conflitto di attribuzioni; i giudici, però, non possono
sollevare conflitto contro un atto legislativo laddove siano incardinati in un processo,
dovendo sempre e comunque, in questi casi, impugnare la legge sotto forma di quaestio di
legittimità (…) ergo: i giudici sono letteralmente sprovvisti della possibilità di impugnare la
legge in conflitto»92.
La descrizione degli esiti cui addiviene la Corte è seguita, nella ricostruzione
succitata, da un elenco puntuale di alcuni «corollari poco nitidi», ossia di precondizioni
necessarie affinché i giudici possano sollevare conflitti ammissibili93. In particolare, l’idea di
residualità veicolata dal Giudice delle Leggi appare oscura, posto che potrebbe avere
molteplici significati. Con esso potrebbe intendersi che il conflitto è attivabile a) quando
non esistono rimedi diversi; b) quando sono stati esperiti preventivamente gli altri rimedi
La citazione testuale è tratta dall’ord. n. 144 del 2000.
Due gli indirizzi dottrinari relativi alla possibilità per i giudici di sollevare conflitto su atto
legislativo: uno favorevole all’accesso incidentale; un altro, all’opposto, volto a ribadire la possibilità che il
giudice possa difendere anche le proprie competenze “staticamente intese”. Per un’accurata ricostruzione
delle due teorie e una loro analisi critica, cfr. P. VERONESI, Conflitto o quaestio?I giudici e la legge che viola la loro
competenza, in Giur. Cost., 1997, 2550 ss.
91 La tesi e il virgolettato del testo sono di P. VERONESI, Recenti tendenze in materia di conflitti di
attribuzione tra poteri. Profili soggettivi e oggettivi, spec. 17, in E. BINDI- M. PERINI (a cura di), Recenti tendenze in
materia di conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, Milano 2003. L’A. peraltro evidenzia un sorta di
contraddizione interna alla giurisprudenza della Corte perché l’ordinanza citata nel testo (la n. 144/2000)
confliggerebbe con la sentenza n. 420 del 1995: quest’ultima, nel decidere un conflitto promosso dal
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli nei confronti dei Ministri dell’Interno e di Grazia e
Giustizia avverso un regolamento riguardante l’istituto del programma di protezione a favore dei ccdd.
“collaboratori di giustizia”, aveva ritenuto sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del conflitto il semplice
interesse ad agire. Il problema, però, è fino a che punto le situazioni decise con le due pronunce (l’ord.
144/2000 e la sent. 420/1995) siano effettivamente assimilabili, atteso che l’oggetto nel primo caso è una
legge, nel secondo un regolamento: diverse potrebbero essere le modalità di reazione avverso i due atti.
92 Il riferimento e la necessaria citazione appartengono a P. VERONESI, op.ult.cit., 25.
93 Sempre nel lessico di P. VERONESI, op.ult.cit., 25.
89
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previsti dall’ordinamento; c) quando è difficile attivare rimedi diversi; d) quando non è
possibile adottare in singoli casi rimedi di altro tipo94.
Altro corollario riguarda l’idea di incidentalità, di “esercizio attuale” del potere
come requisito per consentire ai giudici di sollevare conflitto: questo escluderebbe che il
giudice possa difendersi da atti che incidono sul suo status e non attengono specificamente
all’esercizio della funzione giurisdizionale (e neanche potrebbe difendersi da interferenze
rivolte alla funzione giurisdizionale staticamente intesa)95.
Quali indicazioni si traggono dalla giurisprudenza della Corte? Quale idea di
residualità viene, infine, veicolata nelle sue ultime pronunce?
Talora, la Corte ha affermato che, al di fuori dei casi che l’avevano indotta nel 1995
a sostenere che «in casi eccezionali di “situazioni non più reversibili né sanabili” e in vista
della tempestività della garanzia costituzionale di diritti fondamentali, il conflitto di
attribuzioni possa affiancarsi al sindacato incidentale», il giudice può adire la Corte con lo
strumento del giudizio e non del conflitto «quando già dispone della possibilità di attivare il
giudizio incidentale sulla costituzionalità della legge» (la citazione è tratta dall’ord. 278 del
1997). Da questo inciso, la Corte sembra voler dire che la residualità del conflitto è legata a
due requisiti: la possibilità di sollevare giudizio incidentale; la disponibilità (in concreto,
dunque) di questo strumento per impugnare le leggi (ad eccezione dei casi simili a quelli
decisi con la sentenza n. 161 del 1995).
Queste affermazioni sono parzialmente confermate dalla giurisprudenza successiva.
Anche nel 1998 (ord. n. 220), la Corte ribadisce l’orientamento dell’ord. precedente.
Ma sia nella sent. n. 221 del 2002 che nell’ord. n. 343 del 2003 qualcosa sembra
cambiare: si dice che «il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sia configurabile
anche in relazione ad atti di rango legislativo, ove da essi possano derivare lesioni dirette
all’ordine costituzionale delle competenze, ma solo nel caso in cui non esista un giudizio nel
quale questi debbano trovare applicazione e quindi possa essere sollevata la questione di
legittimità costituzionale in via incidentale (si vedano le sentenze n. 221 del 2002 e n. 457
del 1999)»; l’(in)esistenza di un giudizio è requisito diverso, più radicale, rispetto alla possibilità
e disponibilità concrete affermate in precedenza, anche se, nel caso di specie, le due valutazioni
sembrano confondersi96.
94 Così P. VERONESI, op.ult.cit., 26 che riprende sul punto A. PUGIOTTO, Leggi interpretative e funzione
giurisdizionale, 86 ss.
95 Cfr. P. VERONESI, Conflitti o quaestio?I giudici e la legge che viola la loro competenza, in Giur. Cost. 1997,
2550 ss.
96 Nel caso specifico il conflitto aveva numerose peculiarità soggettive e oggettive. Restando a queste
ultime, esso riguardava alcune disposizioni della legge n. 352 del 25 maggio 1970 “ed in particolare gli art. 42 e
seguenti”, laddove prevedono che la richiesta di referendum dovesse essere presentata anche da Comuni diversi
da quello direttamente interessato e che il referendum andasse indetto sulla totalità della popolazione delle due
Regioni interessate, malgrado l'intervenuta modifica della disposizione costituzionale; Ma la Corte dimostra
che «la presentazione di una questione incidentale di legittimità costituzionale all'Ufficio centrale per il
referendum rispetto alle disposizioni legislative di attuazione del secondo comma dell'art. 132 Cost., appare non
solo possibile, sulla base della natura giuridica dell'Ufficio e della funzione da questo svolta (secondo quanto
lo stesso Ufficio ha più volte riconosciuto in passato), ma è stata in concreto posta in essere proprio dal
“delegato effettivo” del Comune di San Michele al Tagliamento; che, nonostante la pur significativa riforma
dell'art. 132, secondo comma, della Costituzione introdotta dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3,
35
Stefania Parisi
Più recentemente, poi, è intervenuta la sentenza n. 284 del 200597.
Il conflitto viene dichiarato inammissibile sulla scorta della considerazione che «il
CSM, nel corso di uno dei giudizi comuni che possono (corsivo aggiunto) essere attivati dagli
interessati a seguito dell'adozione, da parte dello stesso CSM, dei provvedimenti regolati
dalle norme de quibus, o comunque a seguito dell’inerzia serbata su istanze tendenti alla
emanazione di tali provvedimenti, dispone della possibilità di eccepire, in via incidentale,
l’illegittimità costituzionale delle norme legislative presentate in questa sede come
asseritamente lesive delle proprie attribuzioni. La possibilità (corsivo aggiunto) che le
disposizioni contestate siano scrutinate in via incidentale nel corso di simili giudizi, nei quali
il Consiglio superiore può far valere le proprie ragioni, comporta, pertanto, la dichiarazione
di inammissibilità del ricorso per conflitto di attribuzione».
Nuovamente, si fa strada l’idea che dove sia possibile (ma stavolta anche astrattamente,
immaginando, cioè, che “gli interessati” dai provvedimenti regolati dalle norme denunciate
attivino un procedimento dinanzi al CSM stesso) sollevare questione incidentale, è preclusa
la strada del conflitto. Quindi, la giurisprudenza della Corte è ondivaga sull’idea di
residualità (che oscilla tra i poli possibilità concreta nel singolo caso – (in)esistenza di altri rimedi –
possibilità astratta), ma è ferma nel negare la legittimazione a sollevare conflitto del potere
giudiziario (inteso in senso lato).
Dunque, posto che ci sono dei vincoli precisi al potere giudiziario (e che la Corte
non sembra attualmente orientata verso ulteriori revirement), bisogna capire come giustificare
le ragioni che conducono a questi approdi e quali alternative si presentano in concreto alla
Corte, rispetto alla strada intrapresa98.
l'Ufficio centrale per il referendum ha ritenuto di affermare la manifesta infondatezza della proposta questione
di legittimità costituzionale; che, comunque, è dimostrata l’esistenza di un giudizio nel quale possa essere
sollevata la questione incidentale di legittimità costituzionale sulle disposizioni legislative attuative dell'art. 132,
secondo comma, della Costituzione». In tal modo, però, il requisito dell’esistenza sembra confondersi con
quello della possibilità.
97 In essa è la Corte stessa a “suggerire” la via d’accesso al CSM. Nel caso di specie, Il Consiglio
superiore della magistratura aveva sollevato conflitto lamentando la lesione delle proprie attribuzioni
costituzionali, in relazione agli artt. 77, 97, 105 Cost., nonché al principio di leale collaborazione ad opera
dell'art. 3, comma 57, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2004), nonché dell'art. 2, comma 3, del decreto legge 16
marzo 2004, n. 66 (Interventi urgenti per i pubblici dipendenti sospesi o dimessisi dall'impiego a causa di
procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento), convertito in legge, con
modificazioni, dall’art. 1 della legge 11 maggio 2004, n. 126, «nella parte in cui prevedono che il CSM debba,
senza procedere ad alcuna valutazione, riammettere in servizio il magistrato prosciolto in sede penale con una
formula piena dopo che questi sia volontariamente cessato, a causa di tale pendenza, dall'ordine giudiziario, e
laddove stabiliscono che a questi venga conferita, in casi di anzianità non inferiore a dodici anni nell’ultima
funzione esercitata, una funzione di livello immediatamente superiore, previa valutazione della sola anzianità
di ruolo e delle attitudini desunte dalle ultime funzioni esercitate, e, nel caso di anzianità inferiore, una
funzione, anche in soprannumero, dello stesso livello». Sulla pronuncia, cfr. il commento di R. BONANNI,
Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato: quali limiti all’impugnazione della legge?, in Giur. Cost., 2005, 2771 ss.
98 Cfr. altresì A. PISANESCHI, Ancora a proposito del rapporto tra giudizio incidentale e conflitto di attribuzioni,
in Giur. Cost., 1998, 1750 ss. Relativamente alla pronuncia annotata, ad esempio, l’A. sottolinea che per
almeno tre ordini di ragioni la Corte è stata fortemente restrittiva in ordine all’ammissione del conflitto
sollevato dai giudici avverso atti con forza di legge: la prima è legata alla natura del conflitto come giudizio di
parti legato all’interesse ad agire che non consentirebbe di assumere quella «funzione generale di tutela
dell’ordinamento costituzionale tipica del giudizio incidentale»; inoltre, va ricordato che la natura “diffusa” del
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Stefania Parisi
L’orientamento seguito dalla Corte può giustificarsi se solo si riflette su (e valorizza
il) il concetto di idoneità lesiva dell’atto legislativo, facendo ruotare il problema attorno alla
polarità tra disposizione e norma.
Infatti, come può una disposizione legislativa che ancora non si è tradotta in norma –
perché ancora non è stata interpretata – ledere in concreto le attribuzioni di un organo? In
altri termini, come può essere impugnato mediante conflitto un atto che ancora non ha
manifestato la sua attitudine lesiva in concreto? Il rischio potrebbe essere quello di dar
luogo a conflitti interorganici meramente virtuali – perché la legge non ha ancora trovato
applicazione – o comunque fondati sull’astrattezza e generalità di una disposizione, a
prescindere da un suo concreto inveramento nella norma.
Un’ulteriore spiegazione dell’orientamento della Corte potrebbe rinvenirsi
ragionando a contrario e partendo da premesse opposte a quelle incorporate nelle sue
pronunce.
Proviamo, infatti, a cancellare virtualmente dalla giurisprudenza della Corte i
requisiti dell’incidentalità e della residualità per elevare conflitto interorganico su atto
legislativo da parte del potere giudiziario e immaginiamo che, dunque, ogni singolo giudice,
comportandosi in tal modo da istituzione “contromaggioritaria”, decida di sollevare
conflitto avverso una legge che ritiene lesiva della propria sfera di competenza. In questo
caso, il timore, più che quello di una crescita esponenziale della conflittualità tra
magistratura e gli altri poteri dello Stato99, sarebbe quello di assistere ad una trasfigurazione
(surrettizia perché implicitamente convalidata dalla Corte) del nostro sistema di giustizia
costituzionale (conflitti inclusi). Si andrebbe, cioè, verso un giudizio astratto e preventivo sulla
legge, svalutando la natura attuale e concreta tipica del conflitto tra poteri.
In definitiva, non sembra che sia la diversa posizione del giudice a fare le “regole
diverse”, ma piuttosto la peculiarità oggettiva dell’atto da impugnare tramite conflitto: in
questo modo, la giurisprudenza costituzionale potrebbe essere letta in bonam partem.
Quindi, la zona d’ombra resta: o si consente anche al giudice di impugnare una
legge senza le strettoie dell’incidentalità e della residualità – ma allora si ammette un ricorso
diretto contro le leggi; o i requisiti suddetti permangono – e non resta che accettare le
“regole diverse”, almeno fino a quando la Corte non riterrà che, in quella fattispecie, sia
impossibile in concreto/inesistente/ impossibile in astratto un giudizio incidentale, aprendo, così, la
strada al conflitto. In questo secondo caso, la residualità acquisterà, allora, un altro senso.
potere giudiziario «cristallizza la stessa “quantità e qualità” di garanzia costituzionale spettante all’intero ordine
giudiziario» e implica la necessità di «attribuire eguale tutela a tutti gli organi giudicanti avverso atti che
incidano sulle attribuzioni di un organo giurisdizionale determinato»: di conseguenza, quando il giudice agisce
avverso l’atto legislativo, atto generale per eccellenza, agirebbe in difesa delle attribuzioni dell’intera
magistratura, non come potere diffuso» (argomento, quest’ultimo, speso anche da N. ZANON, Giudici,
legislatore e «volontà parlamentare» di fronte alla Corte Costituzionale. (In tema di conflitti di attribuzione tra poteri in via
incidentale), in Giur. Cost., 1992, 3288 ss.).
99 Timore che, sempre secondo P. VERONESI, op.ult.cit., 17 - 18, sarebbe uno dei motivi che ha
mosso la Corte a formulare le “regole diverse”.
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