capitolo 1 - Facoltà di Scienze Politiche

CAPITOLO 1
INTRODUZIONE ALLO SVILUPPO: UN QUADRO D’INSIEME
2.1 INTRODUZIONE
Il tema dello Sviluppo è uno degli argomenti fondamentale nell’ambito dello studio
dell’Economia. Sin dal periodo del dopoguerra, vari studiosi hanno affrontato
l’argomento cercando, sostanzialmente, da una parte di spiegare il fenomeno del
sottosviluppo e fornire una risposta alla domanda perché alcuni paesi (il cosiddetto
Sud del mondo) non riescono a raggiungere i livelli di crescita registrati dai paesi del
Nord del mondo; e dall’altra, di formulare modalità o strategie politiche ed
economiche capaci di mettere i paesi del Sud nella condizione di ‘svilupparsi’ (cioè
crescere economicamente).
Prima di entrare nel merito della questione esplorando i suoi aspetti storici e teorici,
cerchiamo di capire a cosa ci si riferisce quando si parla di Sviluppo. Oggi il termine
è spesso inteso come sinonimo di ‘crescita’ (sebbene sempre più studiosi, politici ed
istituzioni contestino questa visione). Ad esempio il Dizionari Garzanti definisce il
termine ‘sviluppo’ come “espansione, ampliamento; crescita economica e sociale”.
Tuttavia, questa particolare accezione del termine si è avuta in periodi relativamente
recenti1. Al tempo degli antichi Greci, per esempio, l’idea di sviluppo era associata al
processo di maturità, sia come norma che come limite. In quest’ottica, un qualsiasi
organismo aspira a svilupparsi fino alla sua forma finale che è la maturità:
oltrepassare questa fase significava regredire, raggiungere uno stadio di ‘meno di
essere’. L’illimitato o l’infinito non erano l’obiettivo della vita umana, in quanto
stadi, appunto, di ‘meno essere’. Anche nel medioevo il termine fu inserito nel quadro
più generale della percezione ciclica (invece che lineare) della vita umana. Il
cristianesimo (ovvero la chiesa) evitava in questo senso di accordare valori
all’infinito (o l’illimitato). Nella religione medioevale, questa sfera apparteneva solo
alla divinità ed era irrilevante per la vita umana e sociale (l’infinito era utilizzato solo
per qualificare Dio).
Questa visione è cambiata, tuttavia, nel XVII secolo quando il termine ‘Sviluppo’
viene inserito in una visione non più ciclica dell’esistenza umana (vita-morte-vita),
ma in una lineare che si estende all’infinito. Il contesto ideologico che cambia
consiste, fondamentalmente, nell’ascesa del credo nei poteri illimitati della ragione e
della capacità umana di conoscere il mondo fisico tramite il linguaggio matematico.
Simultaneamente, con la nascita della Borghesia, si dà vita all’idea che non esistono
limiti alla crescita della produzione grazie all’applicazione della scienza e della
ragione umana nell’industria. Questi due avvenimenti hanno spinto la nascita
dell’ideologia del progresso inteso come assoluto, ‘meccanico’. Secondo questa
nuova ideologia, non esistono limiti alla capacità dell’uomo proprio perché non esiste
limite alla sua conoscenza. In questo quadro, anche il concetto di maturità cambia
definizione e viene concepito come la capacità di crescere senza fine.
1
Questo paragrafo si base su Mazzei, F. La nuova mappa teoretica delle relazioni internazionali.
L’Orientale editrice, Napoli, 2001 (pp. 145-150).
24
2.1.1 North-South Politics
Il dibattito sul tema dello sviluppo è cominciato quando ci si è resi conto delle enormi
differenze, ovvero, del divario (tra l’altro crescente) tra vari paesi nel mondo
(fondamentalmente tra le ex colonie -il Sud - e gli ex paesi colonialisti - il Nord),
soprattutto in termini economici. Il gruppo dei paesi cosiddetti del Sud non è un
gruppo omogeneo, come vedremo più avanti, nonostante ciò è caratterizzato da un
comune obiettivo: il desiderio di uscire dalla povertà e dal sottosviluppo. Inoltre,
questi paesi condividono spesso i seguenti caratteri: basso livello di reddito, problemi
di carestia, fame o malnutrizione, limitato accesso all’acqua potabile, scadenti sistemi
pubblici di istruzione e sanità, ecc. Uno dei problemi fondamentali che caratterizza
questi paesi (che a volte ha determinato la nascita di altri problemi) è quello della
mancanza di solide strutture e istituzioni nazionali, legittimate e riconosciute dalla
maggioranza della popolazione locale. In questa luce questi paesi hanno spesso
percepito lo sviluppo economico come un mezzo per raggiungere lo sviluppo politico,
e cioè per creare una forte sovranità, un’indipendenza politica e un’identità culturale.
In molti paesi decolonizzati, infatti, esistono tante tensioni religiose, etniche e sociali
(alcuni esempi sono Iraq, Sudan, Malesia) e lo sviluppo economico veniva visto come
un modo per garantire la fragile stabilità politica. In altre parole il successo
economico viene considerato come passo indispensabile per il raggiungimento del
successo politico.
Come già detto il Sud del mondo è tuttavia un insieme eterogeneo di paesi. Possiamo
individuare quattro categorie di paesi che vi appartengono:
petrolio (l’OPEC);
asiatico);
3)
2)
1)
i paesi che producono
le quattro tigri asiatiche (e altri paesi emergenti dall’est
i paesi sottosviluppati dell’Africa sub sahariana; e
4)
il resto del
cosiddetto Terzo mondo. L’analisi delle situazioni del Niger e dell’Oman ci può
servire per illustrare le forti differenza che esistono tra i paesi dei quattro sottogruppi.
Mentre l’Oman ha registrato, tra il 1965 e il 1989, un incremento del PIL del 6,4%, il
25
Niger, nello stesso periodo, ha registrato un decremento del -2,4%. Le differenze non
si verificano solo tra Paesi situati in diverse zone del mondo, ma anche tra Paesi che
appartengono alla stessa regione (per esempio, tra l’Indonesia e la Malesia o tra
l’Algeria e l’Egitto).
Nonostante le differenze, a volte anche enormi, tra i vari Paesi che compongono il
Sud del mondo, essi hanno cercato (lungo la Storia) di costruire alleanze e condurre
azioni politiche comuni per poter meglio influenzare il sistema internazionale nonché
per creare una certa resistenza unitaria nei confronti di quello che è percepito come il
dominio culturale ed economico dell’Occidente. La prima tappa di questo percorso
storico è stata la Conferenza Afro-asiatica di Bandung in Indonesia nel 1955, che
rappresentò il primo passo verso l’unificazione dei paesi decolonizzati. Il risultato
concreto della conferenza fu la creazione nel 1961 (sotto la guida di leader storici del
Terzo mondo come Nehru per l’India, Tito per la Yugoslavia, Sukarno per
l’Indonesia e Nasser per l’Egitto) del Movimento dei paesi non allineati. Questo
movimento sarebbe stato il braccio politico dei paesi del Sud nelle loro ‘trattative’
con il Nord ‘neocolonialista’. Il movimento, inoltre, rappresentò lo strumento con cui
questi paesi riuscirono a porsi al di fuori del contesto della Guerra Fredda, ed a lottare
contro ogni forma di neocolonialismo. Nel 1964, il Movimento decise di fare ricorso
alle istituzioni internazionali e grazie ai suoi sforzi, nell’ambito dell’ONU, venne
creato l’UNCTAD (United Nation’s Commission on Trade and Development, che
doveva servire come una piattaforma per il dialogo tra Sud e Nord) ed il Gruppo dei
77 (nell’ambito dell’Assemblea Generale dell’ONU, che doveva rappresentare i paesi
del Sud presso UNCTAD). Nel 1974, dopo il trauma della crisi petrolifera, il Gruppo
dei 77 lancia il piano NIEO (New International Economic Order - Nuovo ordine
economico internazionale), un tentativo di porre il tema dello sviluppo economico del
Sud al vertice dell’agenda internazionale. Nonostante l’adozione del piano da parte
dell’Assemblea Generale dell’ONU, il suo successo è stato molto limitato, in parte
26
per l’opposizione dei paesi del Nord ai cambiamenti suggeriti nel piano, ed in parte
per i conflitti e la conflittualità d’interessi nazionali tra gli stessi paesi del Sud.
2.1.2 Il framework teorico
Nel corso della Storia gli approcci verso il cosiddetto Dilemma dello sviluppo sono
stati influenzati da quattro forze principali:
1)
le ferite coloniali (ed il successivo
sospetto nei confronti del mondo industrializzato);
2)
la resistenza al dominio
culturale, politico ed economico dell’Occidente come strumento per la creazione di
un’identità nazionale;
3)
la Guerra Fredda che ha dettato, a seconda dell’alleanza,
quale strategia adottare per ottenere lo sviluppo economico; 4) il successo economico
dei paesi industrializzati e il loro percorso di sviluppo, come strada attraente da
percorrere.
Un sistema così complesso ha determinato la formulazione di varie teorie e la
possibilità di realizzare approcci di tipo diverso nei confronti del problema dello
sviluppo (o della sua assenza) nel contesto dell’IPE. Si è cercato, da un lato, di
spiegare (diagnosticare) i problemi particolari che hanno condizionato lo sviluppo
economico del Sud (soprattutto di fronte ad una crescita esponenziale dell’economia
mondiale) e, dall’altro, di fornire delle soluzioni. Tra queste diverse teorie o approcci
vi sono: la Teoria della modernizzazione (o della crescita), di matrice neoclassica –
liberale; l’Economia dello sviluppo, che ha rifiutato l’idea che esista solo un percorso
di sviluppo ed ha sottolineato l’importanza della ridistribuzione della ricchezza; la
Teoria della dipendenza, ispirata dall’economia dello sviluppo vista attraverso
un’analisi di matrice neomarxista; il caso delle NIEs (Newly Industrialised
Economies) – o dello Stato sviluppista – caratterizzato da un miscuglio di elementi
liberali e mercantilisti; l’approccio Neoliberista che segnala il ritorno alla Teoria della
crescita, ma questa volta con più rigidità (dogmatismo, secondo alcuni) politica; e
infine, più recentemente, sono sorte due diverse percezioni del concetto di sviluppo:
27
quello dello sviluppo umano e quello dello sviluppo sostenibile (non esaminato in
questo saggio), che rappresentano le nuove, eterodosse teorie dello sviluppo,
prendendo in considerazione anche aspetti non pecuniari del benessere.
2.2 TEORIA DELLA CRESCITA (GROWTH THEORY)
La teoria della crescita (conosciuta anche come la teoria della modernizzazione) era
la teoria economica dominante dal periodo del Dopoguerra fino agli anni ’60, fino
all’ascesa dell’Economia dello sviluppo. L’analisi fornita dai teorici della crescita
sosteneva che la convergenza dei paesi del Sud (i cosiddetti paesi in via di sviluppo)
dovesse seguire lo stesso percorso di sviluppo seguito dai paesi del Nord
(sostanzialmente gli USA e l’Europa Occidentale). Alla base di questa teoria si trova
l’idea che per raggiungere la ‘Modernità’, il Sud deve fare il passo necessario per
passare da una società agraria, tradizionale e preindustriale ad una società moderna ed
industriale di consumi di massa. In quest’ottica, quindi, lo Sviluppo (ovvero la
Modernità) vuol dire “superare le barriere legate a produzione preindustriale e al
sistema di valori patriarcali”, creando una società caratterizzata da un certo livello di
ricchezza (cioè una capacità di ‘consumare’), da alti livelli di crescita economica
(misurata attraverso le variazioni percentuali del PIL) e da settori economici,
soprattutto industriali, efficienti e produttivi.
In quest’analisi, la mancanza di sviluppo (o il sottosviluppo) è il risultato delle
politiche adottate dagli stessi paesi del Sud, non in grado di gestire le loro economie
in modo efficiente. In altre parole, non è il sistema economico internazionale (o le
ragioni di scambio, come poi hanno sostenuto gli economisti dello sviluppo ed i
teorici della dipendenza) che ha determinato la loro arretratezza, ma l’esistenza di una
base produttiva, capitalistica e tecnologica piuttosto ‘anemica’, oltre la mancanza di
strutture istituzionali (sia di infrastrutture generali -come strade, porti, rete idriche
28
ecc.- che di sistemi governativi o educativi efficienti). Le radici del sottosviluppo,
quindi, sono endogene, non esogene.
Un’altra idea dietro la teoria della crescita è quella del trickle down (letteralmente
‘gocciolare’) che enfatizza i guadagni assoluti (una tipica percezione liberale del
sistema economico –ma anche politico– internazionale, che contrasta l’idea dei
guadagni relativi enfatizzata, invece, dai mercantilisti/realisti). I liberali credono che
la crescita imponente dell’economica mondiale (il cui andamento è riportato nel
seguente grafico) avrebbe prodotto effetti di crescita anche nei paesi meno sviluppati
(‘approfittando’ dalle ‘gocce’ di ricchezza mondiale). Non solo, ma secondo la teoria
della crescita, i paesi del Sud, in quanto Late-comers (‘quelli che sono arrivati tardi’)
sono in una posizione vantaggiosa rispetto al mondo Occidentale poiché possono
implementare le politiche necessarie allo sviluppo dopo aver imparato dagli errori
commessi dai paesi già sviluppati.
Nella figura sotto riportato possiamo vedere quanto effettivamente è cresciuta
l’economia mondiale nel suo complesso (la cosiddetta torta), soprattutto nel XX
secolo. Questo aumento è stato possibile per una serie di motivi concatenati:
innovazioni e cambiamenti tecnologici hanno permesso un aumento nella produzione
di beni e servizi che, a loro volta, hanno permesso un aumento nella specializzazione
della produzione. Questo sviluppo ha fatto si che l’importanza dei mercati crescesse e
ha agevolato lo scambio di beni nonché la diffusione delle tecnologie (grazie anche
ad un notevole miglioramento nella tecnologia dei trasporti e della comunicazione).
Nel grafico si osserva, usando la stima convenzionale del PIL, che tra il 1900 e il
2000, il PIL mondiale è cresciuto di circa 19 volte (una media annuale del 3%).
Dall’altra parte, anche il tasso di crescita della popolazione è aumentato, sebbene
‘solo’ di 4 volte, da 1,6 miliardi di abitanti all’inizio del periodo si è passati a 6,3
miliardi alla fine del XX secolo (una media annuale del 1,4% rispetto allo 0,1%
osservabile prima della rivoluzione industriale).
29
Figura 1: Crescita del PIL reale pro capite e della popolazione mondiale (1750-2000)
Fonte: Bradford J. DeLong, “Estimating World GDP, One Million B.C.–Present”
Sito: http://econ161.berkeley.edu)
La soluzione fornita dalla Teoria della crescita al problema dello sviluppo si
sostanzia nell’istituzione di un mercato libero dall’intervento statale; negli
investimenti nei settori ‘moderni’ (ad esempio, nell’agricoltura intensiva di
coltivazioni orientate verso i mercati internazionali – cash crops– o nel settore
industriale); e nell’apertura al mercato internazionale, specialmente con il mondo
sviluppato (incoraggiando gli Investimenti diretti dall’estero dalle corporazioni
multinazionali e aprendo il paese al trasferimento di tecnologie e capitale umano).
W. Rostow è uno dei più noti teorici della crescita. In un saggio del 1960, dal titolo
The Stages of Economic Growth: A Non-Communist Manifesto, Rostow individua il
percorso esatto che un paese non sviluppato deve seguire per raggiungere la
cosiddetta modernità. Il cd. ‘cambiamento evolutivo’ di tali società (dall’arretratezza
alla modernità) sarebbe, secondo Rostow, il risultato di un preciso processo composto
da cinque stadi di crescita economia.
30
Nella prima fase del ‘cambiamento evolutivo’ la società tradizionale si trova in una
situazione Pre-Newtoniana, nel senso che non ha ancora superato lo spartiacque
rappresentato dal momento in cui l’umanità si è resa conto di poter conoscere il
mondo tramite il linguaggio matematico, codificandolo con una serie di leggi (e la
successiva nascita dell’idea del progresso). In questa fase non evoluta, la società può
svilupparsi e crescere (produrre, scambiare merci, migliorare la qualità della vita della
popolazione), ma solo fino ad un certo punto dato il mancato accesso alle nuove
tecnologie e le ‘barriere mentali’ rappresentati da valori patriarcali.
Nel secondo stadio dello sviluppo (‘le pre-condizioni per il decollo’) la società
tradizionale entra in una fase transitoria dello sviluppo: concetti di scienza moderna
cominciano ad essere tradotti in nuove funzioni di produzione (nell’agricoltura e nella
produzione di manufatti). Inoltre, in questa fase si diffonde l’idea che il progresso
economico non sia solo possibile, ma anche una condizione necessaria per ottenere
altri obiettivi importanti, come l’orgoglio nazionale, il profitto privato, il benessere
generale o per il sistema d’istruzione. Rostow credeva che, in questa fase, lo sviluppo
politico del paese (la creazione di un apparato politico centralizzato e effettivo che
prenderebbe il posto del regionalismo oppure del colonialismo dominante nella
società tradizionale) avesse un ruolo decisivo e indispensabile nello sviluppo
economico. In quest’ottica, lo Stato deve aumentare la spesa pubblica per l’istruzione,
incentivare le attività di imprenditori e di banche, investire nello sviluppo dei
trasporti, delle comunicazioni, delle materie prime (che rappresentano spesso il
vantaggio comparato dei paesi del Sud) ed alzare il livello dell’attività commerciale.
In questo stadio, quindi, i semi dello sviluppo vengono piantati, sebbene la società
tradizionale continui ad esistere – con i suoi valori, strutture e metodi di produzione.
Nella terza fase (‘il decollo’) il ritmo del cambiamento è accelerato e la transizione
alla modernità prende corpo. Lo spirito imprenditoriale diventa più dominante e sorge
una nuova classe capitalistica che avvia nuove attività economiche (nuovi processi di
31
produzione, industrializzazione e modernizzazione nell’estrazione delle materie
prime e nell’agricoltura, ecc.). Rostow sottolinea che in questa fase il tasso di
risparmio dovrebbe aumentare da circa il 5% (del reddito nazionale) a circa il 10% o
più. Nella teoria di Rostow, questo terzo stadio del cambiamento evolutivo è
altamente significativo per il mutamento sociale–culturale della società; è proprio in
questa fase che l’influenza dei valori tradizionali diminuisce in modo significativo.
La quarta fase del ‘cambiamento evolutivo’ (‘la spinta alla maturità’) prevede un
utilizzo più intensivo di tecnologie avanzate e un tasso ancora più alto di investimenti
e risparmi (intorno al 15-20% del PNL). Inoltre, l’economia trova il suo posto nel
sistema economico internazionale (producendo beni precedentemente importati,
esportando nuove merci, ecc.). Secondo Rostow, ci vogliono circa sessant’anni per
raggiungere la ‘maturità’ che egli definisce come “la fase in cui l’economia è in grado
di andare oltre le industrie originali [che hanno dato la spinta al suo decollo] e di
assimilare e applicare in modo efficace (su un’ampia gamma di risorse) le più
avanzate tecnologie moderne”. In questa fase l’economia mostra di essere in grado di
produrre tutto ciò che essa vuole produrre.
La quinta ed ultima fase del percorso (‘l’età di alto livello di consumo di massa’) è
caratterizzata, appunto, da consumi di massa e da una crescita auto-sostenuta. In
questa fase la società si sposta verso la produzione di beni di consumo durevoli e di
servizi. In una società che raggiunge questo stadio, un numero elevato di persone
riesce ad ottenere una capacità di consumo che trascende le esigenze di base. Nello
stesso tempo, la struttura del mercato del lavoro cambia ed include non solo un
aumento della popolazione nelle zone urbane, ma anche un crescente numero di
persone che lavora in uffici o esegue lavori qualificati. Secondo Rostow, in questa
fase della ‘post maturità’, attraverso il processo politico, le società occidentali hanno
deciso di allocare più risorse al welfare e alla sicurezza.
32
L’idea principale alla base della teoria di Rostow (e degli altri studiosi della teoria
della crescita) è la credenza che il modello evolutivo dell’Europea Occidentale e degli
Stati Uniti valga per tutti i paesi; essi credevano, inoltre, che il ‘motore della crescita’
fosse il commercio internazionale (e la conseguente integrazione nel sistema
economico internazionale). Il commercio, in quanto diffonde nuove tecnologie,
genera investimenti e permette l’evoluzione in una società moderna (incoraggiando
più produttività e più efficienza), stimola la crescita economica e quindi lo sviluppo
di un paese. Concludendo, secondo la Teoria della crescita, se i paesi sottosviluppati
seguissero questo preciso percorso di sviluppo, essi riuscirebbero a ‘raggiungere’ i
livelli di sviluppo del mondo industrializzato (un risultato di catch-up).
Figura 2: Crescita della disuguaglianza salariale (PIL pro capite, 1990, $PPP)
Fonte: Bradford J. DeLong, “Estimating World GDP, One Million B.C.–Present”,
Sito: http://econ161.berkeley.edu)
33
Nella realtà, tuttavia, tale processo di catching-up non si è verificato. Il grafico in
figura 2 lo dimostra riepilogando la crescita salariale nelle varie ‘regioni’ nel mondo
raggruppando le popolazioni dei paesi secondo il loro PIL pro capite.
I dati riportati nella figura 2 mostrano come il quartile dei paesi più ricchi abbia visto
crescere il proprio reddito di ben 6 volte dall’inizio del secolo. Viceversa l’ultimo
quartile (quello composto dai paesi più poveri) è cresciuto molto più lentamente. Fu
proprio questo aspetto della crescita economica (la sua distribuzione ineguale) a
spingere altri studiosi ed economisti alla ricerca di teorie e modelli alternativi di
sviluppo.
2.3 ECONOMIA DELLO SVILUPPO (DEVELOPMENT ECONOMICS)
Gli economisti dello sviluppo hanno analizzato il sistema economico mondiale in
modo diverso dai loro colleghi della Teoria della crescita, aggiungendo all’analisi un
fattore: la ridistribuzione della ricchezza. In altre parole, per questi studiosi, apparsi
soprattutto -ma non solo- negli anni ’50, non ci potrebbe essere sviluppo senza
uguaglianza. Nella tabella sotto riportata possiamo vedere come, in effetti, sia
cresciuto nel mondo il divario tra i ricchi e i poveri nel periodo 1860-1960.
Tabella 1: La distribuzione del reddito nel mondo, 1860-1960
1860
1913
1960
Quarto più ricco
57,8%
68,9%
72,1%
Secondo quarto
15,5%
17,2%
17,9%
Terzo quarto
14,2%
7,8%
6,8%
Quarto più povero
12,5%
6,1%
3,2%
Fonte: Zimmerman, J. Rich Lands, Poor Lands: The Widening Gap. New York: Random House, 1965
34
Alla luce di questi dati, gli economisti dello sviluppo sostenevano che, invece di un
processo di Catching up (previsto dai teorici della crescita), ciò che si era verificato
era una situazione di Lagging behind, cioè un’incapacità dei paesi del Sud del mondo
d’integrarsi nel sistema economico mondiale e raggiungere i livelli di sviluppo dei
paesi industrializzati. L’Economia dello sviluppo, quindi, è nata, in un certo senso,
come una reazione alla mancata convergenza economica dei paesi poveri.
La teoria dello sviluppo consisteva in realtà in tanti rami teorici, uno diverso
dall’altro. Tuttavia, vi sono due elementi fondamentali (oltre l’importanza attribuita al
concetto di guadagni relativi) che accomunano la loro analisi: in primo luogo,
l’assunto secondo il quale i paesi del Sud sono fondamentalmente diversi dai paesi
del Nord ed operano secondo principi economici (ma anche sociali, politici e
culturali) completamente diversi. Le condizioni particolari di queste economie
nascono da vari fallimenti di mercato (concorrenza imperfetta, monopoli, ecc.) e
potrebbero, per esempio, verificarsi nella forma di eccesso di lavoro, bassa
produttività nel settore agricolo, bassi tassi di risparmio, scadenti sistemi d’istruzione,
mancanza di iniziativa privata, scarso accesso al credito, e così via. L’immediata
implicazione di quest’assunto è che lo sviluppo dei paesi non industrializzati
dovrebbe seguire un percorso diverso da quello dei paesi Occidentali.
In secondo luogo, la maggior parte dei teorici dello sviluppo credevano che l’origine
del sottosviluppo non si trovasse (come sostenevano i teorici della crescita)
nell’incapacità od inefficienza dei paesi poveri, ma piuttosto andasse ricercata in
fattori al di fuori del loro controllo. In questo quadro, una delle cause principali del
sottosviluppo, in una tipica analisi ‘sviluppista’, sono le sfavorevoli ragioni di
scambio (che sono alla base del ‘pessimismo commerciale’ di questi studiosi). Nella
sua analisi del problema del sottosviluppo dell’America Latina, Raul Prebisch (primo
Segretario Generale dell’UNCTAD ed ispiratore della teoria della dipendenza),
sosteneva, appunto, che i motivi principali per il sottosviluppo dovessero essere
35
ricercati nella struttura del commercio internazionale e nella divisione internazionale
del lavoro. In altre parole, i paesi del Sud sono destinati a rimanere ‘indietro’ perché
nell’attuale divisione del lavoro loro si sono specializzati nell’esportazione di materie
prime (mentre i paesi del Nord esportano manufatti). Nel lungo periodo, secondo
l’analisi di Prebisch, le ragioni di scambio del Sud diventeranno sempre meno
favorevoli: col tempo, un tipico paniere di prodotti primi riuscirà a comprare meno
prodotti manufatti. Quindi, mentre per gli studiosi della Teoria della crescita, il
commercio internazionale e il settore privato servono come un indispensabile ‘motore
della crescita’, gli economisti dello sviluppo sostengono che nelle condizioni
particolari dei paesi del Sud, il ‘motore della crescita’ debba essere ricercato altrove.
Per molti economisti appartenenti a questo ramo dell’economia, il Sud è una vittima
della sindrome dello ‘sviluppo tardivo’, cioè è entrato troppo tardi nel ‘gioco’ per
poter competere con il Nord (è un concetto opposto alla tesi del Late comers proposta
dai liberali). Inoltre, va detto, che gli economisti dello sviluppo hanno una visione
positiva del sistema politico-economico mondiale (ottimismo antropologico).
Sostanzialmente, all’inizio credevano che i paesi del Nord volessero aiutare i paesi
del Sud a svilupparsi (vedremmo più avanti come i teorici della Dipendenza hanno
abbandonato questo ottimismo).
Tenendo conto di quest’analisi, completamente diversa da quella fatta dai teorici della
crescita, qual’è la ‘soluzione’ avanzata dagli economisti dello sviluppo alla mancata
convergenza? Molti di questi studiosi ritengono che il processo di catching up dei
paesi del Sud sia un target irraggiungibile senza l’introduzione di misure
straordinarie. L’economista Gunnar Myrdal (1957), per esempio, sostiene che
attraverso l’attuazione di ‘misure straordinarie’ le economie del Sud possano uscire
dal circolo vizioso della povertà in cui si sono imprigionate (povertà Æ bassi saggi di
risparmio Æ bassi saggi di investimento Æ industrie inefficienti e non competitive Æ
bassi tassi di crescita della produttività Æ povertà).
36
Ma quali sarebbero queste ‘misure straordinarie’? Le ‘soluzioni’ avanzate dagli
economisti dello sviluppo sono fondamentalmente due. In primo luogo, ci vuole uno
Stato forte e interventista che sia in grado di gestire e controllare direttamente
l’economia nazionale. A questo proposito, Paul Rosenstein-Rodan (già nel 1943,
inaugurando, in un certo senso l’Economia dello sviluppo), proponeva la strategia del
‘Big Push’ (la grande spinta): egli sottolineava l’importanza del ruolo svolto da parte
dello Stato nei paesi poveri (egli stesso era d’origine rumena), per superare i vari
fallimenti di mercato (mancanza di imprenditori, basso tasso di risparmio, molteplici
incertezze, ecc.). Sotto le condizioni particolari dei paesi del Sud solo lo Stato deve
assumere un ruolo chiave nell’economia diventando un ‘grande imprenditore’ e
promuovendo gli investimenti pubblici. In questo quadro generale (necessità di avere
uno Stato forte), Raul Prebisch sosteneva che i paesi del Sud dovessero costruirsi una
forte struttura industriale e che questo obiettivo potesse essere raggiunto solo al riparo
di alte barriere doganali. Quest’analisi politica è diventata, in ultima analisi, la base
teorica della strategia di sostituzione delle importazioni (Import Substitution
Industrialisation) (una politica che promuove la produzione locale di beni importati).
Questa strategia ha l’obiettivo di limitare un eventuale influenza da parte dei paesi del
Nord sull’economia locale (impostando barriere doganali o limitando l’attività delle
Corporazioni multinazionali) per promuovere l’autosufficienza e lo sviluppo interno
del paese (facendo riferimento, ad esempio, ad concetto di ‘industria nascente’ di
List). Questo approccio era molto popolare tra i paesi dell’America Latina come ad
esempio Brasile o Messico.
La seconda ‘soluzione’ avanzata da molti economisti dello sviluppo si basava sul loro
ottimismo antropologico: l’importanza dei paesi ricchi. In altre parole, per agevolare
lo sviluppo dei paesi del Sud ci vuole una generosa assistenza da parte della comunità
internazionale
(assistenza
tecnica,
finanziaria,
estensione
commerciali, ecc.) che non pretenderebbe delle misure reciproche.
37
delle
preferenze
2.3.1 La Teoria della dipendenza
La teoria della Dipendencia trova la sua base teorica nell’Economia dello sviluppo e
prende una strada indipendente negli anni ’60-’70. Come gli economisti dello
sviluppo, anche i sostenitori della teoria della dipendenza sostengono che non ci si
possa attendere che lo sviluppo dei paesi del Sud segua lo stesso percorso scelto dai
paesi occidentali. Tuttavia, essi hanno una visione più scettica della volontà dei paesi
del Nord di assumere un ruolo nello sviluppo del Sud (pessimismo antropologico).
Facendo riferimento all’analisi neomarxista delle relazioni internazionali, la loro
critica principale (innovativa rispetto all’economia dello sviluppo) attiene ai
meccanismi di dipendenza (sotto diverse forme) che lo sviluppo capitalistico nei
paesi del Nord crea nei paesi del Sud. Per questi studiosi, mentre l’un-development
(non-sviluppo) è solo l’oggettiva mancanza di sviluppo, l’under-development
(sottosviluppo) è la diretta conseguenza della struttura economia internazionale. In
questo quadro, sviluppo e sottosviluppo sono le due facce della stessa medaglia (cioè
la struttura economia globale): entrambi si realizzano simultaneamente ed entrambi
sono funzionalmente legati. Conseguentemente, la principale barriera allo sviluppo
dei paesi del Sud non è la produzione preindustriale o il sistema tradizionale di valori
patriarcali, come sostengono i liberali, ma il ‘sottosviluppo’ (l’altra faccia del
capitalismo) perpetuato tramite vari meccanismi di dipendenza.
Per quanto attiene alle ‘soluzioni’, i teorici della Dipendenza si dividono su due tipi
di approcci: l’approccio radicale e l’approccio moderato. Al gruppo dell’approccio
radicale appartengono studiosi come André Gunder Frank, Samir Amin e Immanuel
Wallerstein. Secondo tale approccio, i paesi del Sud dovrebbero interrompere (o
limitare severamente) tutti i legami con il mercato del mondo capitalista: essi
dovrebbero contare su se stessi e cooperare tra loro. Le politiche precise proposte
sono varie: Gunder Frank, per esempio, propone una rivoluzione per creare un
sistema economico mondiale basato sul socialismo. Questo modello riprende le
38
politiche economiche della Cina nel periodo che va dagli anni ’60 fino al 1972,
periodo in cui la Cina esercitò un controllo quasi ermetico sull’economia nazionale,
troncando i legami col mondo capitalista e mantenendo quelli reciprocamente
favorevoli con i paesi socialisti. Samir Amin, invece, propone il modello di selfreliance (sviluppo autocentrato): un modello economico ‘misto’ che si base sulla
prospettiva di una crescita economica accompagnata da un notevole sforzo per la
ridistribuzione salariale. Nel tentativo di creare una forte base economica
(soddisfacendo, prima di tutto, le esigenze umanitarie di base), lo Stato deve
promuovere i legami col mondo esterno solo se essi possono essere sottoposti ad un
suo severo controllo. Questo modello è vicino in termini politici alla Import
substitution Industrialisation strategy.
Nell’approccio moderato nell’ambito della Teoria della dipendenza troviamo autori
come Cardoso e Faletto che sostengono che un certo grado di sviluppo economico sia
possibile anche in presenza di legami di dipendenza esterna.
2.3.2 Il caso dello stato sviluppista (Export-oriented industrialisation)
Negli ultimi decenni si è osservato un cambiamento significativo nello sviluppo
economico di alcuni paesi del Sud soprattutto nell’Est asiatico (le cosiddette ‘quattro
tigre asiatiche’: Hong Kong, Corea del Sud, Singapore e Taiwan e più recentemente,
anche Stati come la Tailandia o la Malesia). La crescita economica di questi paesi
‘newcomers’ (nuovi arrivati) ha stupito e incuriosito molti poiché non si era mai
verificato nella Storia un simile fenomeno. Il modello politico-economico di questi
paesi si basa su presupposti sia liberali (il commercio come ‘motore della crescita’)
che mercantilisti (uno Stato interventista che controlla l’economia) e, in tutti i casi, il
percorso di sviluppo economico si realizza attraverso fasi comuni:
•
Prima fase: una politica basata sulla strategia dell’industria nascente (cioè
proteggere le industrie locali dalla concorrenza internazionale tramite l’istituzione di
39
barriere doganali) per creare una forte base industriale manifatturiera di beni di
consumo. In questa fase il governo fornisce un sostanziale supporto finanziario,
incentivando proprio tale settore. L’aspetto ‘rivoluzionario’ di questo modello
politico è la decisione presa coscientemente dal governo di cambiare in modo
stravolgente la struttura e la composizione della produzione (verso i manufatti).
L’obiettivo fondamentale di questa politica è spesso quello di aumentare il tasso di
occupazione e successivamente la stabilità politica.
•
Seconda fase: lo Stato comincia ad incoraggiare l’esportazione di certi beni
(beni di consumo durevoli), eliminando alcune barriere doganali (incentivando, così,
l’importazione di alcune materie prime necessarie per la produzione dei manufatti).
Anche questa fase è caratterizzata da un forte intervento da parte dello Stato (che
mantiene uno stretto controllo sul consumo pubblico e privato, con l’auspicabile
risultato di un basso deficit di bilancio e di un basso livello d’inflazione)
accompagnato da una politica di svalutazione della moneta locale per rendere la
produzione nazionale più competitiva nel mercato globale.
•
Terza fase: si avvia l’espansione delle industrie a maggiore intensità
tecnologica (p.e. automobili, acciaio, petrolchimici). Successivamente, lo Stato
promuove, da un lato, alti livelli di risparmio (stabilendo, come è stato fatto in Corea
per esempio, alti tassi d’interesse sui risparmi personali) e, dall’altro, alti livelli di
investimento (soprattutto in R&S, Ricerca e sviluppo). In questo modo, questi paesi
sono riusciti a creare il capitale (fisico, finanziario ed umano) necessario per uno
sviluppo durevole.
Altri fattori (oltre a quelli ‘culturali’ esaminati da Chalmers Johnson nella sua analisi
sullo Stato sviluppista, che non esamineremo in questo saggio) che hanno contribuito
al ‘miracoloso’ sviluppo economico di questi paesi includono, in primo luogo, il
contesto della Guerra Fredda (rilevante soprattutto nel caso della Corea del Sud o del
Taiwan, due paesi che hanno ricevuto un notevole aiuto finanziario dall’Occidente).
40
In secondo luogo, si è osservato un marcato investimento nell’istruzione pubblica e
nella formazione al lavoro (nel 1972, per esempio, la Corea del Sud ha investito il
16% del PNL nel sistema educativo, mentre nel 1984 la Malesia ha investito il 23%).
Questi investimenti hanno creato, in termini economici, più efficienza, più flessibilità
industriale e più uguaglianza economica.
Il successo economico del cd. Polo confuciano rappresentava una grande sorpresa
(nonostante l’esempio precedente fornito dal Giappone). Gli studiosi ed i politici
hanno puntato le loro aspettative e speranze di sviluppo verso un’altra zona:
l’America Latina. Tuttavia, il percorso di sviluppo intrapreso dai paesi latino
americani ha una natura completamente diversa. In quest’area del mondo, con il
predominio intellettuale dell’UNCTAD (e il conseguente scetticismo nei confronti
del principio del vantaggio comparato), i paesi hanno deciso di adottare una politica
basata sulla sostituzione delle importazioni. In altre parole, sebbene le politiche
seguite nella prima fase dello sviluppo delle 4 tigre asiatiche possono essere
considerate analoghe a quelle seguite dai paesi latino americani, l’allontanamento tra
i due modelli avviene proprio nella seconda fase (con più protezionismo e chiusura
nei confronti del mercato globale osservati nel caso latino americano). Secondo molti
analisti, paesi come Brasile e Messico sono riusciti ad ottenere tassi abbastanza alti di
crescita fino agli anni ’80 grazie all’elevato consumo domestico. Questa tendenza,
secondo alcuni studiosi, è uno dei fattori che hanno contribuito alla crescente
disuguaglianza in questi paesi. Inoltre, va notato che la dipendenza di questi paesi
dalle esportazioni delle materie prime ha fatto si che per essi, la diversificazione
dell’economia fosse un processo più difficile da effettuare.
Il caso dei paesi africani, invece, è ancora più clamoroso. Nella maggior parte dei
casi non si può individuare una chiara e coerente strategia di sviluppo. Spesso, le
caratteristiche di questi paesi e le loro condizioni particolari sono all’origine della
mancanza di sviluppo. In primo luogo, questi paesi soffrono della carenza di
41
istituzioni politiche legittime e riconosciute dalle popolazioni: ciò ha fatto si che i
governi fossero più preoccupati per la loro sopravvivenza politica piuttosto che per lo
sviluppo economico dei loro cittadini. Infatti, al contrario dei paesi estasiatici,
l’obiettivo di molti governi di paesi africani era il potere e la stabilità politica e non lo
sviluppo economico. In secondo luogo, in questi paesi si osserva una dipendenza
quasi esclusiva dalle materie prime (e quindi dalla produzione agricola). Questa
dipendenza rende le economie africane particolarmente soggette ai prezzi stabiliti dai
meccanismi del mercato internazionale e rende i processi di diversificazione
dell’economia più difficili. Inoltre, i paesi africani si sono storicamente trovati in una
permanente crisi finanziaria.
2.4 LA TEORIA NEOLIBERALE E LE NUOVE TEORIE DELLA CRESCITA
Le difficoltà dei paesi del Sud di convergere e sostenere alti livelli di crescita
economica è scoppiata nel suo aspetto più devastante nel 1982, quando il Messico si è
trovato di fronte ad una crisi finanziaria che il sistema economico internazionale non
era in grado di gestire seguendo le politiche tradizionali. La crisi (conosciuta come la
crisi del debito) si è diffusa poi dal Messico in quasi tutti i paesi non industrializzati.
Le radici di questa crisi vanno ricercate negli shock petroliferi del 1973 e del 1979,
quando il prezzo del petrolio (in base ad una decisione presa dai paesi dell’OPEC)
aumentò repentinamente di oltre il 400%. Ciò causò pesanti disavanzi nella bilancia
dei pagamenti dei paesi del Sud così costretti a ricorrere all’indebitamento con
banche dei paesi ricchi. La situazione cominciò a diventare insostenibile quando nel
1979, dopo la seconda crisi petrolifera, la Federal Reserve (la banca centrale degli
USA) decise di attuare una politica monetaria più rigida alzando i tassi di interesse
sui prestiti, per sconfiggere l’elevato tasso d’inflazione che stava minando l’economia
Statunitense. In seguito a tale azione, gli interessi sui prestiti contratti dai PVS
42
diventarono altissimi e -considerando anche la recessione mondiale e le perdite di
reddito dalle esportazioni- in pratica impossibili da ripagare.
In un certo senso, questa crisi segnò il fallimento della strategia della sostituzione
delle importazioni nonché dell’approccio che ha accreditato una significativa
importanza allo Stato (che era l’agente che prendeva i prestiti). Più tardi, con il crollo
nel 1989 del Muro di Berlino e successivamente dell’URSS, è crollata anche l’idea
che uno stato interventista potesse produrre crescita e progresso.
Tabella 2: Indici finanziari per alcuni paesi debitori, 1991
Il paese
Debito esterno totale (in
$US)
Debito (% dal PNL)
Brasile
116 miliardi
36,9%
Messico
101 miliardi
28,8%
Indonesia
73 miliardi
66,4%
India
71 miliardi
29,3%
Polonia
52 miliardi
68,5%
Nigeria
34 miliardi
108,8%
Nicaragua
10 miliardi
153,5%
Fonte: Banca Mondiale, World Development Report, 1993
Il contesto della crisi del debito ha agevolato l’ascesa del neoliberalismo e il suo
successivo ‘trionfo’. La rinascita di questo approccio economico segnala il ritorno ai
principi di base della teoria della crescita, accompagnato da un durissimo attacco
contro l’approccio Keynesiano (per vari motivi, come per esempio, quello di non aver
preso in considerazione il settore monetario, ma solo quello reale o di aver ignorato il
concetto di disoccupazione frizionale, ecc.). Sia l’approccio Keynesiano che
l’economia dello sviluppo (perciò che riguarda l’intervento pubblico) vengono
43
pesantemente attaccati per il loro fallimento (fondamentalmente legato agli effetti
devastanti della crisi del debito). L’ascesa del neoliberalismo, che risulta nella
scomparsa quasi completa dei ‘vecchi’ economisti dello sviluppo e della dipendenza,
si snoda attraverso seguenti tappe:
La svolta teorica: secondo il nuovo approccio dominante, la teoria economica è una
sola. In altre parole, essa deve essere percepita come una scienza universale,
applicabile a tutte le società. Di nuovo, l’enfasi è sulla razionalità degli individui
(ovunque), sul principio dell’utilità marginale (l’utilità per il consumatore dall’ultima
unità di bene acquistato) e sull’importanza dei prezzi relativi (stabiliti tramite il
meccanismo di domanda e offerta).
La svolta politica: secondo questi teorici il sottosviluppo è il risultato dell’intervento
pubblico. Essi accentuano non i fallimenti di mercato, ma piuttosto i fallimenti dello
stato, tra cui si trova la responsabilità per tassi di inflazione eccessivamente alti e per
gli enormi debiti pubblici (due impedimenti importanti all’attività di imprenditori
locali). I teorici di questo approccio sostengono quello che lo Stato deve fare è:
1)
non alterare i prezzi; 2) fare affidamento sui fondamenti del mercato; 3) non mettere le
mani nell’economia;
4)
aprire il mercato alla concorrenza internazionale. Tali
indicazioni furono messe in pratica, negli anni ottanta, da Ronald Reagan negli USA
e Margaret Thatcher in Gran Bretagna.
Ritornando al contesto di una grave crisi internazionale, l’approccio neoliberista
avvia una nuova strategia per risolverla: riforme strutturali piuttosto che prestiti a
breve termine. L’approccio prende corpo quando nel 1985 James Baker, Ministro del
Tesoro USA, lancia la dottrina dell’aggiustamento strutturale (Structural adjustment).
Secondo tale dottrina, un paese debitore che richiede l’assistenza del Fondo
monetario internazionale o della Banca mondiale deve prima impegnarsi a realizzare
diverse riforme macroeconomiche, soprattutto nel settore pubblico, per ridurre il
ruolo dello Stato nell’economia. La dottrina dell’aggiustamento strutturale è basata
44
sul cosiddetto Consenso di Washington (un termine originariamente coniato
dall’economista John Williamson nel 1990). Tale consenso, nella sua formulazione
originaria, postula la necessità di seguire riforme nelle seguenti aree: deficit fiscale;
priorità di spesa pubblica; riforma fiscale; tassi d’interesse; tasso di cambio; politica
commerciale; investimenti diretti all’estero; privatizzazione; deregolamentazione;
diritti di proprietà. L’enfasi, ovviamente, è sul libero mercato, sulla liberalizzazione
degli scambi, su un ruolo ridotto dello Stato nell’economia, sull’apertura al mondo e
alla concorrenza, e in fine, sulla lotta contro la corruzione.
Il ruolo crescente del FMI e della BM
Inizialmente, dopo gli accordi di Bretton Woods, il ruolo del Fondo monetario
internazionale (FMI) era gestire il sistema dei cambi fissi (approvando gli
aggiustamenti dei tassi di cambio) e concedere prestiti a breve termine, soprattutto per
risolvere problemi di bilancia dei pagamenti e di liquidità temporanea. Per oltre
trent’anni, questo ruolo fu svolto con notevole successo. Dopo la crisi del debito e
quando la crisi assume caratteristiche più difficili da gestire, il FMI comincia a
concedere prestiti anche a medio termine nel tentativo di aiutare le varie nazioni ad
evitare un collasso finanziario (a causa degli alti pagamenti da restituire) diventando,
così, un lender of last resort (prestatore di ultima istanza). Tuttavia, l’aiuto del FMI è
condizionato. Solitamente, si tratta di condizioni che richiedono politiche economiche
più austere: tassi più alti, spesa pubblica ridotta, tagli nei sussidi, meno barriere
doganali, privatizzazione di enti e aziende pubbliche, ecc. (la cosiddetta
Condizionalità). Queste riforme tendono a ridurre la qualità della vita in un paese nel
breve periodo, ma sono, secondo le previsioni del Fondo, di grande efficacia nel
garantire la stabilità fiscale e quindi lo sviluppo di lungo periodo. In tale ottica il FMI
2.5 NUOVE TEORIE DELLO SVILUPPO: LO SVILUPPO UMANO E SOSTENIBILE
Dal 1990 l’ONU, tramite l’UNDP (United Nations Development Programme),
pubblica annualmente un rapporto sulla dimensione umana dello sviluppo. Il
Rapporto sullo Sviluppo Umano è il risultato di una forte presa di coscienza e della
riscoperta di un dato essenziale: l’uomo è il fine ultimo dello sviluppo, non un mezzo
45
per creare ricchezza e crescita economica. Nell’ottica di questi rapporti, se la crescita
del PNL è considerata obiettivo intermedio ed indispensabile, diventa di
fondamentale importanza studiare il modo in cui questa crescita, in società differenti,
si traduca – o manchi di tradursi – in Sviluppo Umano. In questa prospettiva si
colloca la necessità di un migliore rapporto tra crescita economica e Sviluppo
Umano, rapporto che non va considerato automatico.
Nonostante, molti sostengano che l’indice sviluppato nei rapporti di Sviluppo Umano
non cambia radicalmente la posizione di un paese nella classifica mondiale, tale
Indice aiuta nel ridefinire un ordine di priorità nella spesa pubblica. Infatti,
l’esperienza insegna che raggiungono un livello accettabile di sviluppo umano quei
paesi che destinano mediamente il 20% della loro spesa pubblica al soddisfacimento
dei bisogni più basilari dello sviluppo umano (servizi sociali come l’istruzione
elementare e l’assistenza medica di base). È in quest’ottica che i Rapporti dell’UNDP
hanno cercato di indicare strategie politiche adeguate per l’attuazione degli auspicati
cambiamenti.
Le considerazioni degli economisti sui mezzi necessari a raggiungere elevati standard
di crescita hanno offuscato il fatto che l’obiettivo principale dello sviluppo è quello di
offrire vantaggi alle persone, non solo in termini di crescita del reddito. Naturalmente
tra le varie cose che migliorano il livello di vita delle persone vi è anche un reddito
maggiore ma, come si sostiene nel Rapporto sullo sviluppo umano dal 1991, “il
reddito non è la somma totale della vita dell’uomo”. Perciò, sostiene lo stesso
Rapporto, “Lo Sviluppo Umano è un processo di ampliamento delle scelte delle
persone e del livello di benessere da loro raggiunto”.
Le tre opzioni (scelte)
considerate essenziali per lo Sviluppo Umano sono: 1) possibilità di condurre una vita
lunga e sana, 2) possibilità di acquistare conoscenze e 3) accesso alle risorse
necessarie per condurre una vita dignitosa. Nell’analisi condotta dall’UNDP vengono
subordinate alla disponibilità di questi requisiti minimi tutte le altre opzioni che
46
possono migliorare la qualità della vita. Lo Sviluppo Umano, comunque, non si ferma
a questa prima sintetica definizione. Una più ampia definizione comprenderà una
serie di opzioni aggiuntive quali la libertà politica, economica e sociale, la garanzia
dei diritti umani, la possibilità di essere creativi o produttivi e di godere di autostima.
Da quest’analisi deriva che il reddito è solo una delle tante componenti o opzioni che
le persone dovrebbero avere. L’UNDP analizza le esperienze di vari paesi, alcuni
caratterizzati da alti livelli di Sviluppo Umano e bassi livelli di reddito, altri con bassi
livelli di Sviluppo Umano ma con redditi discretamente alti. Tutto questo dimostra
come non esista un collegamento automatico tra crescita economica e Sviluppo
Umano. Il rapporto tra queste varianti si trova nel fatto che persone istruite ed in
buona
salute possono,
attraverso
una
occupazione produttiva,
contribuire
maggiormente alla crescita economica. In quest’ottica, la crescita economica rimane
di fondamentale importanza: “se il fine dello sviluppo non è la crescita, l’assenza di
crescita spesso ne rappresenta la fine”. Tuttavia, essa non deve essere considerata
come un mero incremento contabile.
Una crescita è auspicabile se è:
ƒ Partecipata, cioè che lasci ampi margini all’iniziativa individuale e coinvolga il
maggior numero di persone possibile;
ƒ Ben distribuita, in modo che i vantaggi raggiungano tutti i membri della
collettività (equità intra-generazionale);
ƒ Sostenibile, cioè che l’aumento della produttività odierna non infici la
produttività futura (equità inter-generazionale).
Ciascun paese avrà la propria strategia d’azione per implementare lo Sviluppo
Umano, ma il principio di fondo sarà uguale per tutti: mettere le persone al centro
dello sviluppo e concentrarsi sulle loro necessità e sul loro potenziale.
47
2.6 CONCLUSIONI
Con l’avvio della rivoluzione industriale, lo sviluppo acquista la sua concezione
moderna nel pensiero economico, politico e sociale. Secondo tale concezione esso
non ha più come obiettivo il raggiungimento della ‘maturità’, ma piuttosto di
garantire una ‘crescita infinita’. In un’ottica di continuo progresso scientifico e
tecnologico, si sviluppa un credo nei poteri illimitati della ragione umana
nell’interpretare il mondo fisico. Quest’idea, fondamentalmente scientifica, è stata poi
applicata anche alle discipline socio-economiche con l’idea della crescita illimitata
della produzione.
Il vero balzo della crescita è avvenuto soltanto nell’ultimo secolo con il boom
economico degli anni ’50. Tuttavia, sebbene in questo periodo il ritmo della crescita
del PIL ha notevolmente superato quello della crescita della popolazione, si è
registrato un forte aumento della disuguaglianza tra il Nord e il Sud del mondo. Nel
2001, ad esempio, un sesto (il 15%) della popolazione mondiale produceva il 78% del
PIL globale (pari a circa 70$ giornalieri pro capite). D’altronde i tre quinti della
popolazione mondiale residente nei 61 paesi meno sviluppati riceveva solo il 6% del
PIL globale (pari a circa 2$ giornalieri pro capite). Inoltre, tra il 1987 ed il 1998 la
percentuale di persone povere nei paesi del Sud è passata dal 28% al 24%, anche se
non è cambiato il numero assoluto di persone che vivono sotto la soglia di povertà.
Le varie teorie economiche e politiche esplorate in questo capitolo rappresentano le
modalità teoriche avanzate per fornire delle soluzioni al problema, da una parte della
distribuzione ineguale delle ricchezze del mondo e dall’altra del sottosviluppo e
saranno oggetto di analisi nei prossimi capitoli.
48