Diritto Penale

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Diritto Penale
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Estratto della pubblicazione
Estratto della pubblicazione
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Vietata la riproduzione anche parziale
Ideazione, organizzazione della collana a cura
del dott. Federico del Giudice (docente universitario)
Tutti i diritti di sfruttamento economico dell’opera appartengono alla Simone S.p.A. (art.
64, D.Lgs. 10-2-2005, n. 30)
Grafica di copertina a cura di Giuseppe Ragno
Prepararsi per un concorso è un’operazione complessa che
prevede uno studio differenziato dei diversi argomenti;
non tutti, infatti, ai fini della prova hanno lo stesso rilievo
in quanto i commissari, anche in base alle loro esperienze e
alla loro formazione, sono portati a esaminare su quei
contenuti che ritengono preminenti in vista dell'ingresso
nell’Agenzia delle Entrate.
Facendo tesoro dell’esperienza acquisita in materia di
concorsi con i volumi indirizzati ai precedenti concorsi,
abbiamo raccolto e ordinato sistematicamente i principali
argomenti delle prove orali.
Le domande riportate in questo volume non pretendono di
essere esaustive di tutti gli argomenti, ma costituiscono il
«nocciolo duro» indispensabile per dimostrare una buona
conoscenza della materia.
Consapevoli del limitato tempo a disposizione degli
aspiranti funzionari, abbiamo pubblicato questa
breve rassegna di domande a risposta aperta che costituisce
un prezioso e agile vademecum. Ciò per offrir loro la
possibilità di esercitarsi, in qualsiasi luogo e momento,
sulle materie di concorso e sulle domande più frequenti per
un esito favorevole della prova.
PARTE PRIMA
PRINCIPIO DI LEGALITÀ
1. Cosa si intende per «principio di legalità»? ...............................
1 bis. Nel nostro ordinamento quale connotazione assume in diritto penale il principio di legalità? 1 ter. Quale rilievo è ascritto al
principio di legalità in materia penale dalla Convenzione Europea per i diritti dell’uomo (CEDU)?
Pag.
5
2.
Cosa si intende per «riserva di legge»? ......................................
2 bis. Quali sono le fonti del diritto penale italiano? 2 ter. Cos’è
una norma penale in bianco? 2 quater. La norma penale in bianco è compatibile con il principio di riserva di legge? 2 quinquies.
L’art. 73 d.P.R. 309/90 è compatibile con il principio di riserva di
legge?
»
8
3.
Qual è la funzione del «principio di tassatività»? .....................
3 bis. Qual è la differenza tra «tassatività» e «determinatezza»?
3 ter. Il principio di tassatività è stato rispettato dal legislatore
penale?
»
13
4.
È ammessa l’ «analogia» in diritto penale? ................................
4 bis. È possibile l’applicazione analogica delle scriminanti?
»
15
5.
Come opera il «principio di irretroattività»? ............................
5 bis. Cosa si intende per successione di leggi modificative? 5 ter.
Cosa si intende per «disposizione più favorevole al reo»? 5 quater.
Quali sono gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di
una norma penale? 5 quinquies. Qual è la differenza tra abolitio
criminis e abrogatio sine abolitione? 5 sexies. Come opera l’art. 2
c.p. in occasione dell’introduzione del reato di associazione di
stampo mafioso? 5 septies. Come opera l’art. 2 c.p. in occasione
delle riforme legislative sui reati societari e fallimentari? 5 octies.
Quali sono i rapporti successori tra l’art. 644bis c.p. abrogato
dalla l.108/1996 e il nuovo art. 644 c.p.?
»
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1. Cosa si intende per «principio di legalità»?
Riferimento normativo: articoli 25 Cost., 1 c.p., 199 c.p.
Definizione: individuare la nozione di «principio di legalità» e il suo contenuto
sotto il profilo delle sue diverse interpretazioni.
Estratto della pubblicazione
6
Parte Prima
Elenco caratteri: precisare quali sono le caratteristiche del principio di legalità
in diritto penale:
aspetto formale
aspetto sostanziale
corollari
Domande consequenziali: applicazione del principio di legalità nell’ordinamento
penale italiano.
Articolazione della risposta
Il diritto penale italiano si fonda sul principio di legalità espresso dall’antico brocardo latino secondo cui «nullum crimen, nulla poena sine lege».
Il principio di legalità è previsto dall’articolo 25 della Costituzione per
un’esigenza di prevenzione generale e di certezza delle incriminazioni e di
tutela della libertà personale che può essere compressa solo mediante atti
che siano espressione di un potere riconducibile alla rappresentanza politica, e cioè alla sovranità popolare. Pertanto, per soddisfare queste molteplici esigenze, il riferimento alla legge contenuto nell’art. 25 Cost. va inteso
nel senso di atto emanato all’esito del tipico procedimento di formazione
degli atti legislativi previsto nella stessa Costituzione in conformità al sistema democratico volto a tutelare l’individuo contro gli abusi dello Stato.
Tradizionalmente si distingue tra principio di legalità formale e sostanziale al fine di stabilire se per reato debba intendersi quel fatto previsto dalla
legge come tale ovvero un fatto antisociale.
Il principio di legalità formale esprime il divieto di punire un qualsiasi
fatto che, al momento della sua commissione, non sia espressamente previsto come reato dalla legge e con pene che non siano dalla legge espressamente stabilite. Ne deriva che esso risponde ad una scelta politica individualistico-garantista e dunque all’esigenza di salvaguardare la libertà del
singolo individuo (favor libertatis).
Il principio di legalità sostanziale implica che costituisca reato quel fatto
considerato socialmente pericoloso, ancorchè non espressamente previsto
dalla legge, e che ad esso si applicano le pene adeguate allo scopo. Questa
interpretazione esprime una scelta politica destinata alla tutela della «difesa sociale» (favor societatis).
I corollari del principio di legalità sono rappresentati da alcuni sottoprincipi:
— riserva di legge
— tassatività
— irretroattività.
Estratto della pubblicazione
Principio di legalità
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1 bis. Nel nostro ordinamento quale connotazione assume in diritto
penale il principio di legalità?
Il «principio di legalità» nel diritto penale implica la necessaria predeterminazione
di precetto e sanzione rispetto al momento in cui il reato sia poi commesso.
Tale principio ha valenza costituzionale in quanto la sanzione penale incide
fortemente su valori della persona sacrificabili solo sulla base di scelte di
politica criminale espresse dai rappresentanti del popolo e, quindi, mediante
quel procedimento di formazione dell’atto normativo frutto di una dialettica
parlamentare sottoposto anche alla pubblica opinione.
A norma dell’art. 25 Cost. e dell’art. 1 c.p. secondo cui nessuno può essere
punito per un fatto che non sia espressamente previsto dalla legge come
reato, il nostro ordinamento accoglie una concezione di legalità intesa in
senso formale improntata al principio di tipicità: al giudice è demandato
solo il potere di accertare la conformità del fatto concreto alla fattispecie
astratta tipizzata dalla norma incriminatrice.
Quest’interpretazione è propria di uno Stato di diritto, dal momento che il
nostro sistema a Costituzione rigida impone un necessario bilanciamento,
che solo la legge può operare, tra libertà personale e patrimoniale, che
sono limitate dalla sanzione penale, e altri beni giuridici che la norma
incriminatrice mira a tutelare.
Pertanto la necessità che l’incriminazione sia contenuta in un atto normativo
di rango primario esclude la compatibilità con il nostro ordinamento del
principio di legalità cd. sostanziale secondo cui reato sarebbe non solo ciò
che è punito espressamente come tale, ma anche ciò che il giudice ritenga
socialmente pericoloso.
Laddove si volesse accogliere una concezione del principio di legalità in
senso formale-sostanziale, bisognerebbe intenderlo nel senso che il legislatore possa adottare la sanzione penale sempre che questa sia necessaria
per la tutela o di beni di rango costituzionale o, comunque, di beni non
incompatibili con la Costituzione.
1ter. Quale rilievo è ascritto al principio di legalità in materia
penale dalla Convenzione Europea per i diritti dell’uomo
(CEDU)?
L’art. 7 della CEDU («Nessuna pena senza legge») al primo comma, nell’esaminare il profilo dell’efficacia nel tempo della legge penale, sancisce
Estratto della pubblicazione
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Parte Prima
che i cittadini dei Paesi membri della Convenzione non possono essere
assoggettabili a pene più gravi di quelle applicabili al momento della commissione del fatto: «Nessuno può essere condannato per una azione o una
omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato
secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è
stato commesso».
La stessa Corte Europea ha osservato che il comma I del suddetto articolo
non si limita a regolare l’applicazione della legge penale nel tempo, ma
consacra in modo generale il principio di legalità in ordine ai delitti e
alle pene e quello che impone la non applicazione estensiva o analogica
della legge penale a sfavore dell’imputato; dunque, anche la CEDU richiede che ciascun illecito debba essere definito in modo chiaro dalla legge.
Di certo il principio di legalità, così come previsto, non sembra che presenti profili di peculiare innovatività, confermando piuttosto un dato comune agli ordinamenti giuridici degli Stati membri del Consiglio d’Europa, sebbene si atteggi con modalità a varianti diverse all’interno dei sistemi di civil law o common law.
Pertanto, si è ritenuto che l’inclusione di tale principio nella Convenzione
Europea sia stato dettato dall’esigenza di assicurare la positivizzazione di
una sorta di minimo comune denominatore di legalità idoneo ad evitare
deviazioni dello Stato di diritto, senza offrire però un modello legale capace di incidere in positivo sulle tradizioni penali dei Paesi membri.
Ciò nonostante, non può dirsi che l’art. 7 co. I CEDU sia una norma di
basso profilo o di scarsa importanza. La giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha assegnato, infatti, significativi contenuti al principio di legalità enunciato nella richiamata disposizione, al fine di ottenere
un rafforzamento della portata garantistica dei principi di legalità ed
irretroattività, sebbene già positivizzati nei sistemi nazionali.
2. Cosa si intende per «riserva di legge»?
Riferimento normativo: articolo 25 Cost.
Definizione: principio secondo cui la legge è l’unica fonte normativa in materia
penale.
Caratteristiche: carattere assoluto e relativo della riserva.
Estratto della pubblicazione
Principio di legalità
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Domande consequenziali: fonti del diritto penale e ammissibilità della cd. norma penale in bianco.
Articolazione della risposta
Il principio di riserva di legge coinvolge la tematica delle fonti del diritto penale poiché esprime il divieto di punire un determinato fatto in assenza di una legge preesistente che lo configuri come reato e che ne preveda la
relativa sanzione (nullum crimen, nulla poena sine lege poenali scripta).
La riserva di legge attiene alla fonte che può introdurre, modificare, abrogare una determinata fattispecie incriminatrice. Si tratta, infatti, di quel corollario
del principio di legalità che afferma il monopolio del legislatore in ordine alle scelte incriminatrici al fine di tutelare la libertà personale contro
possibili arbitri del potere giudiziario e di quello esecutivo.
La riserva di legge in via di principio implica l’esclusione di fonti diverse
dalla legge e dagli atti aventi forza di legge.
In dottrina da tempo si è discusso e tuttora si discute se la riserva di legge
contenuta nell’art. 25 Cost. debba ritenersi assoluta o relativa, cioè se
solo la legge possa disciplinare la materia riservata, con esclusione dell’intervento di norme sub legislative, oppure se al legislatore spetti soltanto il
compito di fissare le linee fondamentali della disciplina affidandone il
completamento ad altre fonti di rango subordinato (ad es. regolamenti).
Secondo un primo orientamento, oggi prevalente, la riserva di legge è assoluta dal momento che il ricorso a fonti secondarie comporterebbe una
lesione alle esigenze di garanzia cui risponde il principio di legalità. Un
secondo orientamento ammette una riserva relativa di legge purchè sia la
legge a determinare i caratteri, i limiti e i contenuti degli atti dell’organo
non legislativo.
In dottrina prevale la tesi della natura assoluta della riserva proprio in
virtù della ratio sottesa al principio di legalità, ossia il favor libertatis.
2 bis. Quali sono le fonti del diritto penale italiano?
Il concetto di «legge» espresso dall’art. 25 co. II Cost. e dall’art. 1 c.p.
viene inteso in senso estensivo, volto a ricomprendere sia la legge in senso
tecnico sia gli atti ad essa equiparati. Le fonti del diritto penale sono:
— le leggi formali, cioè la Costituzione, le leggi costituzionali e le leggi
ordinarie emanate dal Parlamento;
Estratto della pubblicazione
10
Parte Prima
— le leggi materiali, cioè gli atti emanati da organi diversi dal potere legislativo ma aventi forza di legge (decreti legge, decreti legislativi, decreti governativi emanati in tempo di guerra).
Pertanto, in primo luogo risultano escluse le fonti comunitarie a causa
dell’assenza della rappresentanza politica nella produzione normativa comunitaria che è di spettanza del Consiglio e non del Parlamento Europeo.
Non viene garantita, infatti, l’espressione della sovranità popolare che, come
noto, rappresenta la ratio di fondo dell’art. 25 Cost. In secondo luogo, per
la stessa ragione della mancanza della rappresentanza politica, non rientrano nel novero delle fonti del diritto penale gli atti normativi secondari emanati dal potere esecutivo (ad es. i regolamenti governativi). Inoltre, la dottrina e la giurisprudenza, interpretando la riserva come riserva di
«legge statale», escludono anche le leggi regionali perché sarebbe altrimenti violato il principio di eguaglianza previsto dall’art. 3 Cost., con il
rischio di un trattamento sanzionatorio penale differenziato da Regione a
Regione. Infine, non può costituire fonte del diritto penale la consuetudine poiché, mancando in tal caso la di fissazione della regola di comportamento in un atto scritto, al giudice verrebbe lasciata di volta in volta la
scelta incriminatrice con inevitabili disparità di trattamento.
2 ter. Cos’è una norma penale in bianco?
La norma penale incriminatrice è costituita da una parte precettiva (precetto) ed una parte sanzionatoria (sanzione). Il precetto integra il divieto
di tenere una determinata condotta o di cagionare un determinato evento o
talvolta il comando di compiere un determinato atto; la sanzione è la conseguenza giuridica che deriva dalla violazione del precetto.
Talora il legislatore affida la descrizione del precetto a fonti extrapenali,
cioè a norme che provengono da altri rami dell’ordinamento, ad es. dal
diritto amministrativo. Si tratta del fenomeno della norma penale in bianco nella quale la scelta incriminatrice viene compiuta pur sempre dal legislatore penale che si limita a prevedere la sanzione rinunciando a descrivere il precetto la cui descrizione, invece, è demandata ad una fonte
extrapenale. In questo caso il legislatore descrive con assoluta genericità
il dovere di osservare la fonte extrapenale anche di rango inferiore cui rimanda.
Estratto della pubblicazione
Principio di legalità
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L’art. 650 c.p. costituisce una tipica ipotesi di norma penale in bianco
laddove sanziona il comportamento di «chiunque non osservi un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza
pubblica, o di ordine pubblico o di igiene» con «l’arresto fino a tre mesi o
con l’ammenda fino a € 206». L’articolo integra pertanto una norma in cui
il precetto è formulato in modo generico, richiedendosi l’osservanza di un
generico «provvedimento legalmente dato dall’Autorità», mentre la sanzione è specificamente e precisamente determinata.
2 quater. La norma penale in bianco è compatibile con il principio
di riserva di legge?
Più volte nel nostro ordinamento si è posto il problema della legittimità
costituzionale delle norme penali in bianco, in relazione alla loro compatibilità col principio di riserva di legge. Talora, infatti, il legislatore ha
demandato l’integrazione del precetto ad atti normativi secondari o, addirittura, ad atti non normativi (ad esempio provvedimenti amministrativi),
in apparente contrasto con la riserva assoluta di legge.
Al fine di risolvere la questione, nel corso del tempo si sono avvicendate molteplici interpretazioni. In un primo momento, si è fatto riferimento alla «concezione sanzionatoria» del diritto penale secondo cui la riserva di legge riguarderebbe solo la sanzione e non il precetto, potendo quest’ultimo rintracciarsi negli
altri rami dell’ordinamento, risultando così compatibile col principio costituzionale. Oggi prevale, invece, la «concezione costitutiva» del diritto penale in virtù
della quale la riserva di legge investe anche il precetto in quanto il legislatore è
tenuto sempre a riqualificare i precetti posti dagli altri rami dell’ordinamento.
Successivamente, allora la Corte Costituzionale ha risolto il problema
accogliendo la natura assoluta della riserva di legge dandone una interpretazione ampia, intendendo per «legge» non solo la legge penale ma anche
la legge extrapenale.
Oggi, anche la Corte di Cassazione riconosce la compatibilità della norma penale in bianco con il principio di riserva di legge poichè il regolamento o il provvedimento amministrativo, che disciplinano il precetto, in
quanto richiamati nella norma penale in bianco, perdono la loro origine
extrapenale e assumono natura penale proprio grazie alla loro funzione
integratrice dell’intera fattispecie.
Estratto della pubblicazione
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Parte Prima
2quinquies. L’art. 73 d.P.R. 309/90 è compatibile con il principio di
riserva di legge?
Recentemente il TAR Lazio è intervenuto sul rapporto tra principio di
riserva di legge e disciplina degli stupefacenti, con la pronuncia 2487
del 21 marzo 2007.
Il principio di riserva di legge circoscrive e garantisce il «monopolio» parlamentare dell’azione penale escludendo, dal novero delle fonti incriminatrici,
quelle norme diverse dalla legge e dagli atti ad essa equiparati.
La norma penale in bianco è un particolare caso, interessante sono soprattutto settori altamente specializzati e tecnici, in cui un atto normativo,
contenente un precetto generico su un obbligo di obbedienza, viene completato dalla normazione secondaria integrando così il precetto al fine
di garantire una migliore azione nei confronti dell’evoluzione sociale.
La «norma penale in bianco» deve però rispettare talune regole: in primo
luogo, la norma rinviante deve essere completa in tutti gli elementi
costitutivi; inoltre, il rinvio deve essere fatto soltanto al fine di puntualizzare
un elemento tecnico/costitutivo già individuato dalla norma rinviante.
Dunque la compatibilità di una norma penale in bianco con il generale
principio di riserva di legge è garantito dai limiti di contenuto imposti
dalla legge di rinvio all’atto integrativo successivo.
Un esempio tipico di norma penale in bianco è l’art. 73 del d.P.R. 309/
1990, oggi modificato dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49 e dal Decreto del
Ministero della Salute 4 agosto 2006 (Decreto Turco), che contiene, infatti,
tutti gli elementi costitutivi (soggetti destinatari, condotta di cessione o
importazione o detenzione non per uso personale) ed opera un rinvio ad un
atto integrativo per individuare le sostanze stupefacenti ed il quantitativo,
adeguato mediante un «moltiplicatore» (superato detto limiti si presume
che lo stupefacente non sia destinato all’uso personale).
A seguito del ricorso proposto contro il Decreto Turco, il Tar del Lazio ha
affermato che «solo ritenendo che l’atto amministrativo che individua i
limiti massimi di quantità di principio attivo di sostanza stupefacente
detenibile ad uso esclusivamente personale costituisca esercizio di
discrezionalità tecnica, e quindi è basato su elementi scientifici in certo
senso vincolanti, potrà ritenersi conforme al principio di riserva di legge
… ove al contrario si ritenesse che tale atto implichi l’esercizio di un potere «politico» altamente discrezionale, la norma penale che conferisse all’amministrazione tale potere sarebbe incostituzionale».
Estratto della pubblicazione
Principio di legalità
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3. Qual è la funzione del «principio di tassatività»?
Riferimento normativo: art. 25 Cost., art. 1 c.p, art. 14 disp.prel. c.c.
Definizione: canone per accertare la legittimità costituzionale della legge penale in relazione alla loro formulazione tecnica.
Caratteristiche: grado di sufficiente determinatezza della legge penale, analogia.
Domande consequenziali: differenza con il concetto di «determinatezza», divieto di analogia, rispetto del «principio di tassatività» da parte del legislatore.
Articolazione della risposta
La tassatività attiene alla tecnica di formulazione della fattispecie, rilevante ai fini del riscontro della tipicità. Il «principio di tassatività» è rispettato allorchè la norma incriminatrice raggiunga un grado di determinatezza
necessario e sufficiente per consentire al giudice di individuare il tipo
di fatto concreto dalla norma disciplinato.
Si tratta di quel principio, costituzionalmente garantito dall’art. 25 Cost., che
tutela la libertà personale (favor libertatis) contro il possibile arbitrio del
giudice nel riscontro della conformità tra fatto concreto e fattispecie astratta.
Sul legislatore incombe l’obbligo di prevedere i fatti costituenti reato e,
congiuntamente, di delineare in modo preciso il contenuto della norma penale, al fine di garantire ai consociati la conoscenza di un quadro normativo certo e ben definito. Laddove, quindi, la norma si rivelasse eccessivamente vaga e indefinita, l’interpretazione da parte del giudice
si trasformerebbe in un’attività di creazione del diritto, in contrasto con le
garanzie costituzionali di legalità riconosciute ai cittadini. La ratio del principio medesimo è rappresentata dalla esigenza di certezza del diritto che
a sua volta assicura l’eguaglianza giuridica dei cittadini a parità di condotte, l’accertamento della colpevolezza, la funzione general-preventiva del
diritto penale e la possibilità di conoscere la norma da parte dei consociati.
Si comprende, dunque, che mentre il principio di riserva di legge presiede alla individuazione delle fonti del diritto penale, il principio di tassatività
concerne la tecnica di formulazione di queste fonti.
3 bis. Qual è la differenza tra «tassatività» e «determinatezza»?
I termini tassatività e determinatezza sono generalmente utilizzati come
sinonimi, pur essendo considerati da alcuni Autori concetti ben distinti.
14
Parte Prima
Una parte della dottrina, infatti, ritiene che la «tassatività» attenga al divieto di analogia e che la «determinatezza» riguardi, invece, la doverosa
redazione dei precetti penali con contenuto definito. Secondo questa tesi,
la tassatività ha come destinatari diretti il legislatore ed il giudice, in quanto
vieta, in primo luogo, di costruire la norma in modo non puntuale ed in
forma esemplificativa, in secondo luogo, di applicare analogicamente la
fattispecie normativa a fatti non sussumibili nella sua formulazione astratta; diversamente, la determinatezza consente di verificare la possibilità di
applicare la norma incriminatrice al fatto concreto.
La giurisprudenza, tuttavia, non accoglie questa distinzione, sulla base
della assunta equivalenza ontologica delle espressioni «tassatività» e
«determinatezza», utilizzandole così in ogni sua pronuncia come sinonimi.
3 ter. Il principio di tassatività è stato rispettato dal legislatore penale?
Il legislatore nella descrizione di fattispecie incriminatrici può utilizzare
tre distinte categorie di elementi: rigidi, elastici, indeterminati.
Gli elementi rigidi, di carattere descrittivo (di tipo naturalistico o numerico),
non pongono problemi di compatibilità con il principio di tassatività, perché
rispetto ad essi la riconduzione del caso concreto risulta agevole ed immediata.
Gli elementi elastici (che esprimono una realtà quantitativa o temporale
circoscritta), invece, lasciano al giudice un margine di apprezzamento meno
vincolato rispetto a quelli rigidi, ma comunque rispondente al canone costituzionale di tassatività, in quanto assicurano l’adeguamento del dato giuridico alla realtà sociale soggetta a continua evoluzione.
Gli elementi indeterminati si rivelano incompatibili con il principio di
tassatività, poiché lo stesso carattere di indeterminatezza, del tutto inidoneo ad individuare la condotta penalmente rilevante, rimette di fatto all’arbitrio dell’interprete l’identificazione del comportamento incriminato.
La Corte Costituzionale è intervenuta più volte su quest’ultimo punto, in
un primo tempo, non rilevando alcuna questione di legittimità costituzionale e, successivamente, dichiarando l’illegittimità costituzionale di talune
fattispecie criminose per contrasto con il principio di tassatività. La Corte,
infatti, rileva che talora il ricorso a elementi vaghi e indeterminati non
consente all’interprete, nel ricondurre un’ipotesi concreta alla norma di
legge, di esprimere un giudizio di corrispondenza sorretto da un fondamento normativo riscontrabile nell’ordinamento (Corte Costituzionale sent. n. 6, 8-6-1981).
Estratto della pubblicazione
Principio di legalità
15
4. È ammessa l’«analogia» in diritto penale?
Riferimento normativo: 14 disp.prel. c.c., art. 25 Cost.
Divieto di analogia: carattere assoluto o relativo del divieto, analogia in bonam
partem e analogia in malam partem.
Articolazione della risposta
L’analogia è il procedimento attraverso cui vengono risolti i casi non
previsti espressamente dalla legge estendendo ad essi la disciplina dettata per i casi simili (analogia legis) o altrimenti desunta dai principi
generali del diritto (analogia iuris).
Infatti, l’analogia legis costituisce un fenomeno volto ad assegnare alla
previsione normativa un significato più ampio rispetto a quello risultante
dalla portata letterale della stessa, mentre l’analogia iuris garantisce lo
stesso risultato utilizzando i principi generali dell’ordinamento.
Nei sistemi penali fondati sul principio di legalità formale, come quello
italiano, il meccanismo dell’analogia non può trovare applicazione per
colmare le lacune di previsione normativa. L’art. 14 disp.prel. c.c., infatti,
stabilisce che «le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati». Anche se solo implicitamente, questo divieto trova fondamento costituzionale nell’art. 25 Cost., in quanto è destinato ad eliminare qualsiasi
rischio di arbitrio da parte sia del potere giudiziario sia dello stesso legislatore nell’interpretazione ed applicazione delle norme penali incriminatrici.
La ratio sottesa al divieto di analogia in ambito penale è rappresentata
proprio dall’esigenza di tassatività della fattispecie, dal momento che
l’analogia è in contrasto con l’obbligo del giudice di punire solo i comportamenti tassativamente previsti dalla legge.
In dottrina e in giurisprudenza si discute in ordine al carattere assoluto o
relativo del divieto di analogia: ci si chiede se riguardi anche le norme
poste a favore dell’imputato (analogia in bonam partem) ovvero se sia
circoscritto alle sole norme sfavorevoli (analogia in malam partem).
I sostenitori del carattere assoluto del divieto di analogia invocano la prioritaria
esigenza di certezza e univocità del diritto penale, che diversamente sarebbe
compromessa mediante il ricorso al procedimento analogico.
L’orientamento maggioritario, invece, predilige l’opposta interpretazione
secondo cui il divieto di analogia è relativo, limitato alla sola analogia in
16
Parte Prima
malam partem. Il divieto di analogia è concepito a tutela del favor
libertatis compromesso solo dall’applicazione dell’analogia in malam
partem. Del resto, per «leggi penali» di cui all’art. 14 disp.prel. c.c. bisogna intendere esclusivamente le norme incriminatrici, quelle sulle quali
cioè si fonda la previsione di un reato o di una sanzione penale. Pertanto,
l’unica forma di analogia ammissibile in diritto penale è quella in bonam
partem, nel rispetto dei limiti di corrispondenza dell’eadem ratio dell’incriminazione, del necessario grado di determinatezza della disposizione oggetto di applicazione analogica, del divieto di analogia delle norme
eccezionali.
4bis. È possibile l’applicazione analogica delle scriminanti?
Molteplici sono le ragioni addotte contro o a favore della tesi sulla
ammissibilità dell’applicazione analogica delle scriminanti.
Invero, superato l’argomento fondato sull’assolutezza del divieto di analogia in ambito penale, non è mancato chi ha comunque escluso l’ammissibilità
dell’applicazione analogica delle scriminanti in considerazione del ritenuto carattere eccezionale delle stesse.
Tuttavia, si preferisce la tesi secondo cui il rapporto tra norma incriminatrice
e scriminante non sia di regola-eccezione non solo per la mancanza della
necessaria unità di materia, ma anche perché le scriminanti, lungi dal derogare alle norme penali in base a contrari principi regolatori, sono esse stesse espressione di principi generali.
Sennonché, la rispondenza a principi generali e l’esclusione del carattere
generale non bastano a fondare la loro indiscriminata applicazione analogica; non si può trascurare, infatti, che nel settore delle cause di giustificazione alla prevalenza del favor libertatis corrisponde sempre il sacrificio del bene giuridico di un terzo.
L’analogia è, dunque, esclusa per le scriminati che la stessa legge prevede
nella loro massima portata, come nei casi di esercizio del diritto e adempimento del dovere (art. 51 c.p.); allo stesso modo è preclusa rispetto alle
norme che il legislatore ha costruito in maniera tassativa, per cui il
superamento di uno degli elementi costitutivi della scriminante farebbe
venir meno la eadem ratio della disciplina, con inammissibile creazione di
nuove scriminanti.
Ciò accade, ad esempio, in tema di uso legittimo delle armi laddove il
legislatore descrive una fattispecie «satura o esclusiva»: la norma, cioè,
Estratto della pubblicazione
Principio di legalità
17
dettando una disciplina per il caso descritto, ad esclusione di quelli simili,
non risulta suscettibile di applicazione analogica.
Risultano, invece, concordemente estensibili analogicamente le scriminanti
dello stato di necessità anticipata e della legittima difesa anticipata (artt. 54
e 52 c.p.).
In questi casi l’analogia si fonderebbe, pur in assenza della richiesta attualità del pericolo, sull’eadem ratio: si è in presenza di una situazione
solo analoga allo stato di necessità e alla legittima difesa contemplate dal
legislatore allorchè, pur non essendo ancora in atto il pericolo, si abbia
tuttavia la certezza della non differibilità dell’intervento difensivo, senz’altro
vano se ritardato in attesa dell’insorgere del rischio. È il caso del sequestrato che uccide il guardiano per fuggire, sapendo che presto verrà ucciso,
attesa la mancata corresponsione del riscatto.
L’assunto è stato condiviso in giurisprudenza dal Tribunale di Trento nel
2004, secondo cui in materia di stato di necessità non osta alla sua applicazione la mancata perfetta configurabilità dell’elemento dell’attualità del
pericolo, poiché non rappresenta difformità dal diritto l’allargamento analogico della previsione dei casi su cui la scriminante può adattarsi. Invero,
la mancanza del presupposto dell’attualità del pericolo di danno grave alla
persona è surrogata, ai fini dell’eadem ratio, dal fatto che l’attendere che il
pericolo si attui, rende impossibile o molto ardua la possibilità di salvarsi
dal danno.
5. Come opera il «principio di irretroattività»?
Riferimento normativo: art. 25 Cost., art 2 c.p., art. 11 disp.prel. c.c.
Nozione: la legge penale si applica solo a fatti commessi dopo la sua entrata in
vigore e non può essere applicata a fatti anteriori.
Caratteristiche: irretroattività della legge sfavorevole, retroattività della legge
favorevole, successione delle leggi nel tempo, abolitio criminis.
Domande consequenziali: operatività della successione di leggi nel tempo,
differenze tra modifica e abolizione
Articolazione della risposta
Il principio di irretroattività opera sul piano della validità della legge
penale nel tempo: la legge penale si applica solo ai fatti commessi dopo la
Estratto della pubblicazione
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Parte Prima
sua entrata in vigore e non può essere perciò applicata a fatti ad essa
anteriori.
L’art. 25 co. II Cost. dispone, infatti, che «nessuno può essere punito se
non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso», l’art. 11 disp.prel. c.c. sancisce la generale irretroattività della legge, e
infine l’art. 2 c.p. è volto ad enunciare i criteri di risoluzione dei vari problemi che il tema della successione delle leggi penali nel tempo è destinato
a creare.
La ratio sottesa al «principio di irretroattività» della legge penale è quella
di preservare la libertà individuale (favor libertatis) da possibili arbitrii
dello stesso potere legislativo, configurabile laddove si susseguano maggioranze parlamentari tra un mandato e l’altro. Inoltre, il principio assolve anche ad una funzione di prevenzione generale in virtù della quale la
norma incriminatrice deve essere già in vigore al momento del fatto commesso, proprio per la necessità che l’efficacia dissuasiva dell’incriminazione
si produca prima del compimento del fatto.
Pur essendo un principio generale per tutti gli atti normativi, assurge al rango
costituzionale solo in materia penale e quindi il legislatore ordinario giammai
potrebbe prevedere, neppure indirettamente, la retroattività delle sue disposizioni, ciò che invece può accadere in tutti gli altri settori dell’ordinamento. Per
questi ultimi il principio è, infatti, posto solo dall’art. 11 disp.prel. c.c., quindi
da una fonte primaria che ben può essere derogata da una fonte di pari rango.
In materia penale, la ratio del «principio di irretroattività» è tale da limitarne l’ambito applicativo solo alle nuove incriminazioni oppure, in caso di
successione di leggi penali incriminatrici, a quella più sfavorevole al reo.
L’art. 2 c.p., infatti, oltre a consacrare al I comma il principio di
irretroattività delle norme penali incriminatrici, stabilisce al II comma
il principio di retroattività della norma penale favorevole, salvo il limite del giudicato, con ciò intendendo l’irretroattività solo in termini relativi;
il III comma (introdotto dalla l. 85/2006), derogando alla regola che individua nel giudicato di condanna un limite alla retroattività della disposizione favorevole, dispone che se vi è stata condanna a pena detentiva e la
legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva
inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria;
il IV comma, infine, contempla l’ipotesi di successione di leggi modificative prevedendo l’applicazione della legge più favorevole al reo.
Estratto della pubblicazione
Principio di legalità
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5 bis. Cosa si intende per successione di leggi modificative?
Il IV comma dell’art. 2 c.p. disciplina il fenomeno della successione di
leggi modificative: talora l’introduzione di nuove norme penali non
elimina fattispecie criminose preesistenti né ne individua delle nuove,
ma disciplina diversamente fatti già costituenti reato e destinati ancora ad esserlo. A tal riguardo, l’articolo in questione dispone che «se la
legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si
applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia
stata pronunciata sentenza di condanna». La successione di leggi penali
importa così una abrogatio sine abolitione, ovvero una modifica della disciplina di una fattispecie senza l’eliminazione tout court della norma
preesistente.
Ne consegue una profonda distinzione tra modifica favorevole, come tale
retroattiva, e modifica sfavorevole per cui opera il «principio di irretroattività». Questo binomio retroattività della legge favorevole –
irretroattività della legge sfavorevole conferma il carattere relativo del
«principio di irretroattività» anche in ambito di successione di leggi
modificative (abrogatio sine abolitione), così che la retroattività della norma penale successiva più favorevole è ritenuta anch’essa un principio di
rango costituzionale sia pure implicito nell’art. 25 Cost. proprio perché
ispirato alla stessa ratio di garanzia di libertà individuale.
5 ter. Cosa si intende per «disposizione più favorevole al reo»?
La dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la valutazione
per stabilire quale di due o più disposizioni sia la più favorevole al reo va
fatta in concreto, mettendo a confronto i risultati che deriverebbero dall’applicazione di ciascuna delle norme alla fattispecie concreta: più favorevole sarà
la norma che, applicata al fatto oggetto dell’esame del giudice, apparirà condurre, secondo parametri prettamente oggettivi, a conseguenze meno gravose.
La determinazione del carattere più o meno favorevole di una norma
nei confronti di un’altra va operata in relazione sia al precetto che alla
sanzione, secondo parametri oggettivi, senza tener conto dell’interesse
dell’imputato all’applicazione di una data norma. Una volta individuata la legge più favorevole, essa dovrà essere applicata anche se successivamente sia stata nuovamente modificata in senso sfavorevole per l’imputato; inoltre, dovrà essere applicata in toto, dal momento che non è possibile
disciplinare certi aspetti con parte di una legge ed altri con parte dell’altra.
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