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AGORÀIDEE
DOMENICA
16 OTTOBRE 2011
AGORÀIDEE
La teoria darwinista non implica
affatto la negazione di Dio, anzi:
tra i suoi sostenitori, così come
tra i suoi oppositori, si contano
Tre esperti si misurano
intorno a un contrasto
che è più ideologico
che reale. Perché
l’indagine sulla natura
e quella sul senso
dell’uomo e dell’universo
possono procedere
fianco a fianco:
senza pretese
di esclusione, e anzi
con la possibilità
di dar vita a un confronto
che arricchisce entrambe
le sponde del dibattito
sia credenti sia non credenti.
A farne una bandiera
dell’a-religiosità è stata
quella corrente scientista
che porta avanti il positivismo
ottocentesco e che ha fatto
del «caso» il proprio idolo.
Generando il suo opposto
simmetrico, quel «creazionismo
scientifico» di matrice americana
che usa la lingua delle scienze
naturali per fare teologia
DOMENICA
16 OTTOBRE 2011
L’uso di termini fuori contesto
è improprio in entrambi i casi.
Ecco perché anche la versione
«aggiornata» del creazionismo
scientifico, la teoria del «disegno
intelligente», va maneggiata
con cautela. Meglio piuttosto
guardare ai tentativi di sintesi
Dialogo sulla biologia
A
nticipiamo in queste colonne alcuni
stralci dei contributi di Evandro
Agazzi, filosofo della scienza e già
docente all’Università di Genova,
Ludovico Galleni, docente di Zoologia a Pisa
e di Evoluzione biologica alla Pontificia
università Gregoriana, e Gianfranco Ravasi,
presidente del Pontificio Consiglio della
Cultura, al volume L’evoluzione biologica.
Dialogo tra scienza, filosofia e teologia edito
da San Paolo (pagine 160, euro 14,00). Il
libro raccoglie gli interventi proposti
qualche mese fa a un convegno promosso
dall’Associazione medici cattolici della
diocesi ambrosiana; accanto ai contributi di
Agazzi (“L’evoluzione: dai dati, ai fatti, alle
spiegazioni, alle teorie e alle interpretazioni
filosofiche”), Galleni (“Dal creazionismo
scientifico alla scienza della creazione”) e
Ravasi (“L’uomo biblico e la scienza”), il
volume propone quelli di Giorgio Manzi
(“Evoluzione biologica: il caso-studio della
storia naturale dell’uomo”), di Antonio
Lattuada (“Riflessioni su evoluzione ed
evoluzionismo”), Santiago Sanz Sánchez (“È
la creazione una sfida per la creazione
oppure è la creazione una sfida per
l’evoluzione?”) e le considerazioni
conclusive di Alfredo Anzani.
LE PAROLE
LA «CREAZIONE DEGLI ANIMALI» DEL TINTORETTO
Da Wojtyla a Ratzinger
F
ede e ragione «sono come le due
ali con le quali lo spirito umano si
innalza verso la contemplazione
della verità», «vibrano di gioia
quando sono entrambe animate dalla
ricerca dell’intima unione con Dio»: così
si esprimeva Benedetto XVI il 28 ottobre
2009 richiamando l’enciclica Fides et
ratio di Giovanni Paolo II. Proprio papa
Wojtyla aveva scritto, nella lettera del
1988 al direttore della Specola vaticana,
che «è assolutamente importante è che
ciascuna disciplina continui ad arricchire,
nutrire e provocare l’altra ad essere più
pienamente ciò che deve essere e
contribuire alla nostra visione di ciò che
siamo e di dove stiamo andando». E il
suo successore, il 24 luglio 2007, ha
chiarito che non è vero che creazione ed
evoluzione sono «alternative che si
escludono: chi crede nel Creatore non
potrebbe pensare all’evoluzione e chi
invece afferma l’evoluzione dovrebbe
escludere Dio. Questa contrapposizione è
un’assurdità, perché da una parte ci sono
tante prove scientifiche in favore di
un’evoluzione che arricchisce la nostra
conoscenza della vita e dell’essere
come tale. Ma la dottrina dell’evoluzione
non risponde a tutti i quesiti
e non risponde soprattutto al grande
quesito filosofico: da dove viene tutto?
E come il tutto prende un cammino
che arriva finalmente all’uomo?».
ambiti. Poiché l’oggetto dell’indagine
è in fondo sempre lo stesso,
i due percorsi devono rimanere
sì distinti, ma non per questo isolati
Evoluzione
Scienza e fede alla prova dell’
IL FILOSOFO
IL BIBLISTA
Agazzi: «Errato
escludere a priori
l’idea di finalità»
Ravasi: «Né lotta
né interferenza:
i saperi dialoghino»
di Evandro Agazzi
IL LIBRO
che non pretendono che la scienza
detti i limiti della metafisica
o viceversa, ma che sono consapevoli
della costante permeabilità dei due
L
a contrapposizione di scienza
e religione è un fenomeno
recente (se misurato con il
metro della storia). Esso è
l’arma di cui si serve oggi di
preferenza una posizione
ideologica che, questa sì,
esiste in certo senso da
sempre dentro tutte le
culture, ossia la concezione
antireligiosa del mondo e della vita.
Si tratta in sostanza di una fede
atea che cerca di convincere la
gente che la scienza contraddice la
religione e che questa cerca di
contrastare il progresso scientifico.
Il terreno fu preparato da un
movimento di scarso spessore
filosofico, ma facile da orecchiare, il
positivismo ottocentesco, che si
presentò come paladino della
scienza contro le remore
oscurantiste delle religioni e delle
filosofie “metafisiche”. In realtà,
ben più che il paladino della scienza
(che non ha mai avuto bisogno di
propagandisti e difensori, essendo
perfettamente capace di imporsi da
sola), il positivismo ne era il
parassita. La situazione attuale non
è molto diversa. I sostenitori
dell’incompatibilità fra scienza e
religione si riducono a far leva su
due esempi storici, il processo di
Galileo e l’evoluzionismo. Nel primo
si assistette per davvero ad un
intervento censorio dell’autorità
ecclesiastica nei confronti di una
teoria scientifica. Si trattò
comunque di un episodio isolato.
Nel caso dell’evoluzionismo non ci
fu mai una contrapposizione
intrinseca con la religione, poiché
sin dagli inizi ci furono fautori e
oppositori delle teorie
dell’evoluzione tanto religiosi
quanto atei. Invece parecchi
intellettuali antireligiosi, diedero
un’interpretazione in senso ateomaterialista che pretesero di far
passare per una conseguenza logica
delle conoscenze scientifiche, anche
se in realtà non lo è. Proprio il fatto
che spesso la teoria darwiniana
dell’evoluzione viene presentata
come confutazione scientifica della
religione, in quanto ha confutato il
“creazionismo”, ha prodotto una
reazione di segno opposto (non
meno scorretta). Infatti alcuni
gruppi di credenti, impegnati a
difendere la tesi della creazione
divina del mondo, ritennero di
doverlo fare attaccando
l’evoluzionismo. Così è nata la nota
vicenda della catena di processi
innescata negli Stati Uniti nel 1925
circa l’insegnamento del darwinismo
nelle scuole pubbliche. Inizialmente
tale insegnamento era addirittura
vietato in diversi Stati e al suo
posto si insegnava il racconto
biblico della creazione. In seguito si
ripiegò sulla richiesta che il
racconto biblico si insegnasse come
altra teoria accanto e in
contrapposizione alla teoria
darwiniana e, affinché questa
proposta fosse plausibile, venne
sviluppandosi il cosiddetto
“creazionismo scientifico” che
cercava di dare veste scientifica a
questo progetto. La lunga serie di
processi terminò nel 2005 con un
giudizio della corte federale di
Harrisburgh in Pennsylvania, la
quale vietò l’insegnamento del
creazionismo scientifico non
riconoscendo in esso i requisiti di
di Gianfranco Ravasi
una teoria scientifica. In questo
caso si è voluto estrapolare in
campo scientifico un concetto
teologico, facendogli svolgere un
ruolo non corrispondente alle sue
caratteristiche definitorie e quindi,
alla fine, scientificamente improprio
(in sostanza perché introduceva
cause soprannaturali nel discorso
scientifico). Proprio di fronte alle
inadeguatezze emerse
nell’esecuzione del loro progetto, i
difensori del creazionismo
scientifico vollero mitigarne il
riferimento esplicitamente religioso
e lo vennero sostituendo con la
dottrina del “disegno intelligente”.
Questa conserva le caratteristiche di
una concezione metafisica (di cui è
testimonianza il fatto stesso di
utilizzare il predicato “intelligente”
che non ha un posto nel
vocabolario delle scienze naturali),
e in essa è altresì chiara
l’intenzione di giustificare il
riferimento a Dio come autore di
tale “disegno”, pur senza alcun
riferimento esplicito a una concreta
religione. Essa è stata altresì
formulata utilizzando un corredo
non banale di concettualizzazioni,
argomentazioni teoriche e
riferimenti empirici conformi allo
stile della ricerca scientifica che si
compie in biologia; tuttavia non ha
incontrato sinora il credito della
maggior parte della comunità
scientifica dei biologi.
I
N
on intendiamo
certamente esprimere un
giudizio sulla validità
scientifica di questa
dottrina. Possiamo anzi
ammettere che le sue
credenziali scientifiche
siano deboli, ma con ciò
non sarebbe intaccata la
legittimità di parlare di un disegno
intelligente a livello di
interpretazione filosofica del mondo
naturale e neppure la legittimità di
operare un “conferimento di senso”
di natura religiosa a questo
disegno. Bisognerebbe in
particolare analizzare fino a che
punto il rigetto della teoria del
disegno intelligente sul piano
scientifico sia la conseguenza di
autentiche falle che essa presenta,
o non piuttosto il riflesso di quel
rifiuto aprioristico della categoria di
finalità che fa catalogare
automaticamente come
“scientificamente errato” o
semplicemente “non scientifico”
ogni discorso in cui traspaia la
categoria di finalità. Sarebbe più
ragionevole l’accettazione del
concetto di disegno intelligente
utilizzato sul terreno filosofico e
teologico, senza lasciarlo debordare
sul terreno scientifico. Il che, d’altro
canto, non esclude che anche in
campo scientifico si possa tentare
di darne una precisazione accurata e
scevra da riferimenti espliciti ad
interpretazioni filosofiche o ad
immagini antropomorfiche, come è
stato fatto nella scienza per tanti
concetti, e potrebbero derivarne
allargamenti fecondi di prospettive
teoriche e linee di ricerca fuori da
ogni ibrida mescolanza di scienza,
filosofia e fede, le quali possono
reciprocamente arricchirsi nella
misura in cui siano chiare le loro
specifiche differenze non meno che
i possibili punti d’incontro.
UNA SIMBOLICA RAPPRESENTAZIONE DELLE ORIGINI DELL’UOMO AL MUSEO DI STORIA NATURALE DI NEW YORK
LO ZOOLOGO
Galleni: «È sterile
lo scontro tra “disegni”
intelligenti e stupidi»
di Ludovico Galleni
I
l primo nodo cruciale va individuato nel
confronto tra la parola della scienza e la
parola della Bibbia, per capire come sia stato
possibile cadere nell’equivoco di ritenere che
fosse la lettura fissista quella che meglio
rispondesse alle necessità del credente.
Possiamo ricordare il racconto più antico della
Genesi: Dio mostra le varie specie ad Adamo
ed egli dà loro un nome. Questo vuol dire che
lo scrittore della Genesi usa la scienza del suo
tempo che mostrava la discontinuità delle specie
in natura, ne mostrava la costanza delle
caratteristiche morfologiche, caratteristiche tali
da permettere l’individuazione precisa delle varie
specie, così precisa che ad esse poteva essere
dato un nome. Ma quella scienza non era in
grado di mostrare la variazione nel tempo perché
i tempi conosciuti dalla biologia erano molto
brevi. Erano quelli che derivavano dalla memoria
degli anziani della tribù. La Bibbia racchiude un
contenuto teologico ma, per trasmetterlo,
utilizza gli strumenti scientifici del tempo. La
Bibbia, quindi, non va vista come libro di
scienza, ma come documento di storia della
scienza, un testimone delle conoscenze
scientifiche del tempo in cui viene redatta.
Questo elimina qualsiasi possibilità nei riguardi
del cosiddetto “creazionismo scientifico”. L’altro
aspetto, più problematico perché proposto in
maniera estremamente abile, concerne il
cosiddetto “disegno intelligente”. Questa teoria
afferma che la complessità delle strutture
naturali è tale da far pensare ad un loro
montaggio compiuto seguendo un disegno
esterno alla natura definito da un qualche
disegnatore intelligente. Si tratta di una visione
interventista all’interno dell’indagine scientifica,
che disturba la spiegazione razionale della
complessità delle strutture che è affidata alla
scienza. Si collega con il problema della teologia
naturale, che tanta parte ha avuto nello sviluppo
della scienza occidentale, ma del quale oggi la
scienza non ha più bisogno. Ma in fondo è
innanzi tutto la teologia a non averne più
bisogno.
G
ià John H. Newman aveva ricordato che
l’argomento del disegno insegna tre soli
attributi di Dio: sapienza, potenza e
benevolenza e di questi molta potenza
e poca benevolenza. Inoltre ci dice
poco o nulla di altri aspetti della
divinità: la santità, l’onniscienza, la
giustizia, la pietà, la fedeltà. Ci dice
ben poco delle cause finali, non ci parla
di doveri e di coscienza, nulla ci dice delle cose
ultime. Insomma non ci dice assolutamente nulla
del cristianesimo. E con questo aveva chiuso
qualunque spazio per ipotesi del tipo del
disegno intelligente. Oggi il disegno intelligente,
o meglio intelligent design dato che si è
sviluppato negli ambienti di lingua inglese,
ritorna, per fortuna al di fuori del mondo
culturale cattolico che se ne salva, grazie anche
alle disposizioni dottrinali del Concilio
ecumenico Vaticano II. È una versione più abile
del creazionismo scientifico, e che più che altro
trova una sponda polemica in un’interpretazione
che grossolanamente, attraverso l’evoluzione,
cerca di negare la necessità di un Creatore, in
particolare accentuando il ruolo del caso. Si
tratta di una vera e propria a-teologia naturale
che potremmo chiamare la teoria dello “stupid
design”: se vi è spazio per eventi drammatici,
quali la selezione naturale e la lotta per
l’esistenza, allora non c’è più spazio per la
presenza di Dio.
l “caso Galileo” rimane – nonostante
tutte le puntualizzazioni e le
precisazioni storiografiche – una sorta
di vessillo sempre sventolato e il
tribunale della storia è ancora aperto
non tanto per un giudizio sul passato,
quanto piuttosto come monito
minaccioso e mai archiviato per il
presente e il futuro dei rapporti tra
scienza e teologia. Sostanzialmente
possiamo dire che queste relazioni
hanno visto l’affermarsi di una triplice
tipologia (spesso in contemporanea a
livello storico): l’alternativa polemica, il
parallelo distaccato, il dialogo
sorvegliato. Il risultato auspicabile
dovrebbe essere quello fatto balenare
nella celebre battuta di Albert Einstein
nel suo scritto autobiografico Out of My
Later Years (1950): «La scienza senza la
religione è zoppa, la religione senza la
scienza è cieca». Un pensiero
echeggiato nel discorso di Giovanni
Paolo II in occasione del centenario
della nascita dello stesso Einstein. Il
Papa, infatti, citando la Gaudium et
spes, ricordava: «Anche la vita religiosa
è sotto l’influsso delle nuove situazioni
un più acuto senso critico la purifica da
ogni concezione magica del mondo e
dalle sopravvivenze superstiziose».
Ancor più sintetico ed esplicito il
famoso scienziato Max Planck nel suo
saggio sulla Conoscenza del mondo fisico
affermava che «scienza e religione non
sono in contrasto, ma hanno bisogno
una dell’altra per completarsi nella
mente di un uomo che pensa
seriamente». Da un lato, è, allora,
necessario che lo scienziato lasci cadere
quell’orgogliosa autosufficienza che lo
spinge a relegare la filosofia e la
teologia nel deposito dei relitti di un
paleolitico intellettuale e quell’hybris
che lo illude di dichiarare la capacità
onnicomprensiva della scienza nel
conoscere, circoscrivendo ed esaurendo
la totalità dell’essere e dell’esistere, del
senso e dei valori. Ma, d’altro lato, si
deve vincere anche la tentazione del
teologo desideroso di perimetrare i
campi della ricerca scientifica e di
finalizzarne o piegarne i risultati
apologeticamente a sostegno delle sue
tesi. Come scriveva il filosofo tedesco
Friedrich Schelling a proposito del
rapporto tra storia e fede, potremmo
ribadire la necessità che scienziato e
teologo «custodiscano castamente la
loro frontiera», rimanendo aderenti ai
loro specifici canoni di ricerca, pronti
però anche a rispettare e a tenere in
considerazione i metodi e i risultati
degli altri approcci alla realtà in esame.
È, dunque, importante, proporre
innanzitutto una sorta di “coesistenza
pacifica” tra scienza e fede, lasciando
alle spalle quello scontro che ha un
vertice (o una sorgente) nel positivismo
del filosofo francese Auguste Comte,
negatore della «legittimità di ogni
interrogazione al di là della fisica». Un
impulso ulteriore a questa discrasia
radicale è riconoscibile nel
neopositivismo del Novecento. Il
Tractatus logico-philosophicus di Ludwig
Wittgenstein dichiarava come prive di
senso le proposizioni della metafisica,
dell’etica e dell’estetica, perché esse
non sono immagine di nessun fatto del
mondo. I neopositivisti del Circolo di
Vienna (Schlick, Neurath, Carnap e così
via) andarono oltre e interpretarono in
senso svalutativo radicale l’affermazione
di Wittgenstein riguardo ai discorsi non
scientifici. In realtà, per il filosofo
viennese – che non era certo un
agnostico – si tratta solo di
un’“ineffabilità” insita in quelle
proposizioni, per cui «su ciò di cui non
si può parlare, si deve tacere», e non
certo di una loro assurdità. Anche se
sopravvivono ancora ben vigorosi
epigoni delle tesi del Circolo, come
Dawkins e altri difensori di uno
scientismo a oltranza, tale impostazione
viene ormai considerata come marginale
e semplificatoria. Infatti ci si muove
sempre di più secondo un reciproco e
coerente rispetto tra i due campi: la
scienza si dedica ai fatti, ai dati, alla
“scena”, al “come”; la metafisica e la
religione si consacrano ai valori, ai
significati ultimi, al “fondamento”, al
“perché”, secondo specifici protocolli di
ricerca. È quella che lo scienziato
statunitense Stephen J. Gould, morto
nel 2002, ha sistematizzato nella
formula dei Non-Overlapping Magisteria
(Noma), ossia della non-sovrapponibilità
dei percorsi della conoscenza filosoficoteologica e della conoscenza empiricoscientifica. Essi incarnano due livelli
metodologici, epistemologici, linguistici
che, appartenendo a piani differenti,
non possono intersecarsi, sono tra loro
incommensurabili, risultano
reciprocamente intraducibili e si
rivelano in tal modo non conflittuali.
Entrambe, scienza e teologia (o
filosofia), hanno in comune l’oggetto
della loro investigazione (l’uomo,
l’essere, il cosmo) e – come ha
osservato acutamente Michal Heller nel
suo bel saggio Nuova fisica e nuova
teologia – «la distinzione dei livelli non
dovrebbe legittimare l’esclusione
aprioristica della possibilità di qualsiasi
sintesi».
È
così che ha preso vigore, accanto
alla sempre valida (a livello di
metodo) “teoria dei due livelli”,
una sussidiaria “teoria del dialogo”
propugnata da Józef Tischner che
fa leva sul fatto che ogni uomo è
dotato di una coscienza unificante
e, quindi, ogni ricerca sulla vita
umana e sul rapporto con
l’universo esige una pluralità armonica
di itinerari e di esiti che si intrecciano
tra loro nell’unicità della persona. Non è
soddisfacente, allora, per una più
compiuta risposta dissociare
radicalmente i contributi scientifici da
quelli filosofici e viceversa, pena una
perdita della vera “concretezza” della
realtà e dell’autenticità della stessa
conoscenza umana che non è monodica,
cioè solo razionale e formale, ma anche
simbolico-affettiva (le pascaliane
«ragioni del cuore»). Questa “teoria del
dialogo” – che, per altro, faceva parte
dell’eredità dell’umanesimo classico – è
fatta balenare anche nella Lettera che
Giovanni Paolo II aveva indirizzato nel
1988 al direttore della Specola Vaticana:
«Il dialogo [tra scienza e fede] deve
continuare e progredire in profondità e
in ampiezza. In questo processo
dobbiamo superare ogni tendenza
regressiva che porti verso forme di
riduzionismo unilaterale, di paura e di
autoisolamento. Ciò che è
assolutamente importante è che
ciascuna disciplina continui ad
arricchire, nutrire e provocare l’altra ad
essere più pienamente ciò che deve
essere e contribuire alla nostra visione
di ciò che siamo e di dove stiamo
andando». Distinzione ma non
separatezza, dunque, tra scienza e fede.
Il “fenomeno” a cui si dedica la scienza,
ossia la “scena” come sopra si diceva,
non è indipendente dal “fondamento” e,
quindi, esperienza e “trascendenza”
sono distinte nei livelli ma non isolate e
incomunicabili.
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