Elena Landoni, Questo deserto, quell’infinita felicità. La lingua poetica leopardiana oltre materialismo e
nichilismo, Edizioni Studium Roma, 2000, p. 38 e sgg.
(…)
Qui importa soprattutto mettere a fuoco la distinzione operata dal Recanatese tra le parole, adatte alla
poesia e alla scrittura letteraria e i termini, caratteristici della scienza, della filosofia, delle arti, ecc.
Tornando più volte sull'argomento, Leopardi riconosce che i termini «ci destano un'idea quanto più si
possa scompagnata, solitaria e circoscritta» dell'oggetto, mentre le parole «esprimono un’idea composta di
molte parti e legata con molte idee concomitanti » Interrogandosi sui motivi da cui dipende l'apporto delle
«idee concomitanti» alle parole, il poeta indica due linee prioritarie:
1. Le infinite idee ricordanze ecc. annesse a dette parole, derivanti dal loro uso giornaliero, e indipendenti affatto
dalla loro particolare natura, ma legate all'assuefazione, e alle diversissime circostanze in cui quella parola s'è udita o
usata.
2. Le idee contenute nelle metafore. La massima parte di qualunque linguaggio umano è composto di metafore,
perché le radici sono pochissime, e il linguaggio si dilatò massimamente a forza di similitudini e di rapporti (1701-1702, 159-1821).
Si fa sempre più evidente l'eccedenza di significato rispetto al veicolo significante, a causa di un limite
verbale sofferto soprattutto dai termini. Pur costrette nella stessa finitezza materiale, infatti, le parole per
loro stessa vocazione creano legami «con molte idee concomitanti», esponendosi quindi alla possibilità
di una plurisignificazione simultanea.
Si pensi all'altra linea di incremento semantico enunciata da Leopardi, quella metaforica: il portato concettuale delle parole è amplificato anche grazie al procedimento duplicativo di senso innescato dalla
metafora, istituendo rapporti e connettendo idee e cose distanti tra loro. È lo stesso compito, lo vedremo
meglio tra poco, assunto dall'immaginazione, anche in ordine alle potenzialità cognitive.
È alla poesia, sede privilegiata dell'immaginazione, che si guarda come al luogo di moltiplicazione
del significato. Non si può non ricordare la famosissima p. 4418 del diario, datata 30-11-1828, in cui si
descrive come all’'uomo vissuto «sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in
certo modo doppi», in maniera tale che «in questo secondo genere di obbietti [quelli visti o sentiti
attraverso l'immaginazione] sta tutto il bello e il piacevole delle cose». Bello, piacevole, immaginazione,
sdoppiamento sono tutte categorie connesse con la poesia, e che addirittura alluderebbero ad una fruizione
della realtà come serbatoio segnico che sembra essere vicino ad alcuni tra gli ultimi canti11. Ma soprattutto
"doppia" è la possibilità offerta dal linguaggio, che consente al poeta di essere «inattuale» e di fornire
un'immagine «altra» del mondo.
[…]
11
A iniziare dal Pensiero dominante, dove «ogni più bel volto» sembra una «finta imago» della donna amata, la quale a sua
volta, senza più ombra di dubbio, viene scambiata in Aspasia per «l'amorosa idea, / che gran parte d'Olimpo in sé racchiude, / tutta
al volto ai costumi alla favella / pari alla donna che il rapito amante / vagheggiare ed amar confuso estima». Ma anche in Sopra il
ritratto di bella donna la bellezza femminile pare «quale splender vibrato / da natura immortai su queste arene / di sovrumani fati,
/ di fortunati regni e d'aurei mondi / segno e sicura spene».
1
[…] la riscoperta della poesia leopardiana va di pari passo con la riscoperta di quelle pagine zibaldoniane
in cui la poesia è vista come la possibilità espressiva più autentica. Il punto focale è costituito ancora
una volta dall'idea di infinito, messo in relazione con l'elaborata speculazione sul piacere presente nel
diario. Antonio Prete (PRETE, 1980) sintetizza molto bene la questione: l'uomo è mosso dal desiderio
"del piacere", non di "un piacere" particolare. L'esperienza consente però solo piaceri determinati,
perpetuando uno scarto tra il desiderio e la possibilità di soddisfarlo pienamente: «... si tratta di una
condizione vuota, e la si può spiegare solo col fatto che proprio quell'esperienza che potrebbe
colmare il desiderio, l’esperienza dell’infinito, è ‘materialmente’ impossibile» 14. In questo permanente
stato di dolore entra in gioco l'immaginazione:
la "facoltà immaginativa" agisce su due piani: da una parte offre al desiderio immagini di piaceri impossibili («ella può
figurarsi dei piaceri che non esistono, e figurarseli infiniti») e dunque semina di obiettivi irraggiungibili i percorsi del
desiderio, dall'altra "supplisce" alla drammatica esperienza dello scarto, proponendosi come facile, compensatoria, oasi,
dove è possibile rendere pieno il desiderio: «II piacere infinito che non si può trovare nella realtà si trova così nella
immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ecc.»15.
È esattamente quanto viene raccontato nella Storia del genere umano; ma anche quanto contribuisce a
sospingere i simulacri della felicità nelle due direzioni eccentriche rispetto all'unico momento possibile
(l'adesso) per la realizzazione: il passato e il futuro. L’immaginazione trasferisce l'ipotesi del piacere in
questa lontananza, che subito si fa riconoscere come la lontananza a cui attinge la poesia: la
rimembranza, l'attesa, la familiarità con parole vaghe e indefinite «irridono ogni esercizio di scrittura
che voglia porsi come specchio del presente»16. È la traiettoria dei Canti. Se dunque filosofia e scienza
hanno il compito di svelare il vuoto esistenziale, la poesia si incarica di colmarlo.
,
14
PRETE, 1988, p. 19.
15
Ibid.
16
PRETE, 1988, p. 45.
2
(…) Leopardi aveva già detto che la parola non ha forza sufficiente per esprimere tutte le implicazioni
(«vaghe» e «infinite») del sentimento. Ciò che il linguaggio si lascia sfuggire è insomma una parte
cospicua della realtà, la più profonda; e addirittura un settore fondamentale dell'esperienza, quello che
viene sentito con certezza ma che resta inesprimibile. Ragionamenti e dimostrazioni possono essere
veicolati solo dal linguaggio, e puntualmente Leopardi nota che «Non si pensa se non parlando» (2212, 3-121821); ma il linguaggio penalizza l'essere proprio nella sua dimensione immateriale, quella a più connessa col
problema del destino, dell’uomo e della sua felicità.
Nella strada verso il raggiungimento della verità, il pensiero logico procede elaborando i dati più
superficiali, costretto a fare a meno di quel repertorio profondo di certezze afferrato dal "sentire", e che
lingua mortal non dice. A questo si aggiunga che il filosofo, deputato per compito e ruolo alla ricerca della
verità, si trova ulteriormente svantaggiato rispetto al poeta, in quanto i termini di cui si deve avvalere sono
per natura più analitici e circoscritti delle parole poetiche.
La distinzione tra parole e termini comincia a delinearsi prestissimo nello Zibaldone:le parole presentano
anche immagini accessorie e sono adatte alla letteratura e alla bellezza; i termini offrono l'idea circoscritta,
definiscono la cosa e perciò caratterizzano il codice scientifico:
Le parole [...] non presentano la sola idea dell'oggetto significato, ma quando più quando meno immagini accessorie.
Ed è pregio sommo della lingua l'aver di queste parole. Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel
tale oggetto, e perciò si chiamano termini perché determinano e definiscono la cosa da tutte le parti? Quanto più una
lingua abbonda di parole, tanto più è adatta alla letteratura e alla bellezza ecc. ecc. e per lo contrario quanto più abbonda di
termini, dico quando questa abbondanza noccia a quella delle parole, perché l'abbondanza di tutte due le cose non fa
pregiudizio. Giacché sono cose ben diverse la proprietà delle parole e la nudità o secchezza, e se quella da efficacia ed
evidenza al discorso, questa non gli da altro che aridità (109-110, 30-4-1,820).
Da questo momento in poi, ogni volta che torna sulla differenza tra parole e termini il Leopardi cerca di
rendere più stringenti le rispettive caratterizzazioni, con lo sguardo rivolto alla pertinenza linguisticoletteraria ma anche alle sue ripercussioni sulla felicità dell'uomo. Solo poche righe più avanti rivela infatti
come la filosofia e l'uso della pura ragione,
che si può paragonare ai termini e alla costruz. regolare, abbia istecchito e isterilito questa povera vita, e come tutto il
bello di questo mondo consista nella immaginaz. che si può paragonare alle parole e alla costruz. libera varia ardita e
figurata (111, 30-4-1820).
Di più: il bello, tipico della poesia, è collegato al piacere proprio perché la tensione al piacere è infinita,
per cui «l'anima preferisce in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite» (170, 12/23-7-1820); in
sintonia con un desiderio del piacere senza limiti, e con l'inclinazione dell'uomo all'infinito.
Proprio questi addentellati con l'infinito sono quanto tipicizza la parola poetica rispetto al resto
del linguaggio: a questo proposito Io Zìbaldone intraprende un itinerario mai interrotto di analisi e
riconferme, che qui può essere sintetizzato solo per sommi capi.
Diventa sempre più chiaro, ad esempio, che ufficio dei poeti è coprire al massimo la nudità delle cose,
mediante l'espressione del maggior numero possibile di idee simultanee, mentre quello degli scienziati e dei
filosofi è il rivelarla (1226, 26-6-1821), giacché la filosofia ha per oggetto il vero, e la poesia il bello, cioè il
falso: «perché il vero (così volendo il tristo fato dell'uomo) non fu mai bello» (1228, 26-6-1821).
Del resto la funzione dei termini è quella di definire le cose separate nei loro elementi costitutivi, a
differenza delle parole, atte a far errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni," e perciò
nel vago, indeterminato, incircoscritto.
La bellezza [...della poesia consiste nel destarci gruppi di idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine
delle concezioni, e nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto. Il che si ottiene colle parole proprie,
ch'esprimono un’idea composta di molte parti, e legata con molte idee concomitanti; ma non si ottiene colle parole
precise o co' termini (sieno filosofici, politici, diplomatici, spettanti atte scienze, manifatture, arti ecc. ecc.) i quali
esprimono un'idea più semplice e nuda che si possa. Nudità e secchezza distruttrice e incompatibile cotta poesia, e
proporzionatamente, cotta betta letteratura (1235-36, 28-6-1821).
Ecco allora che la lettura della vera poesia lascia l'animo meno desideroso, perché lo riempie di
idee «vaghe e indefinite e vastissime e sublimissime e mal chiare ecc.» (1574, 27-8-1821); e si sa che è
appunto un modo di parlare indefinito «o non ben definito, o sempre meno definito del parlar prosaico o
volgare» che distingue il linguaggio poetico (1900-01, 12-10-1821). Quest'ultimo deve molta della sua
piacevolezza alla folla di idee concomitanti, che convergono nella parola grazie alla vivacità di
impressioni che hanno accompagnato quel determinato lessema nella fanciullezza e grazie alla fecondità
dell'immaginazione nell'età giovanile (1705, 15-9-1821; 1241-42, 3-11-1821); idee concomitanti che variano
quindi a seconda degli individui (1706) e delle circostanze (3952, 7-12-1823), sia nella genesi che negli
effetti.
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