Dalla parte dell` Uomo - Associazione Erich Fromm Firenze

Associazione Erich Fromm
Un Nuovo Umanesimo al servizio dell’Uomo
Dalla parte dell’ Uomo
Rivista Trimestrale
giugno 2010
n° 2
Direttore: Paolo Cardoso
Direttore responsabile: Maurizio Gori
Comitato di Redazione: Paolo Cardoso
Maurizio Gori
Lucia Mattesini
Maddalena Poneti
Registrazione presso il Tribunale di Firenze n. 5756 del 18.02.2010
Viale Cialdini 19 - 50137 - Firenze -- [email protected] - 055670494 – 3389381870
Associazione Erich Fromm – Un nuovo Umanesimo al servizio dell’uomo
“DALLA PARTE DELL’UOMO”
EDITORIALE
Questo numero è dedicato specialmente ai problemi dell’adolescenza.
Le trasformazioni del nostro mondo sono troppo veloci. Le generazioni sono sempre più
diverse tra loro.
La tecnologia, i computer, i moderni mezzi di comunicazione creano modi e linguaggi di
comunicazioni sempre più nuovi che tracciano confini sempre più netti tra le generazioni e
la comunicazione diviene sempre più stringata e difficile.
L’insicurezza dovuta alla situazione politica ed economica mondiale, la volatilità del
mercato finanziario ha pesanti ripercussioni sulla sicurezza economica delle famiglie.
Le nuove povertà emergenti, derivate dalla perdita del posto di lavoro e dal livello sociale
acquisito, si ripercuotono pesantemente sui giovani.
Tutto ciò ha portato alla nascita od alla crescita di patologie adolescenziali sin’ora
sconosciute o limitate.
Basta pensare alla dipendenza da computer e da internet o all’arrivo anche nei paesi
occidentali di patologie come l’hikikomori (vedi articolo) che sembravano limitate al solo
Giappone.
Dobbiamo vedere tutto ciò come un problema complesso. Dobbiamo analizzarlo da tutti i
punti di vista, psicologico, morale, sociale filosofico perché vi sono trasformazioni epocali
in corso legate al progresso tecnologico., ma al contrario del passato, dove queste
trasformazioni erano lente, oggi sono velocissimi e non ci danno il tempo per fare analisi
approfondite.
La complessità, come ci ha insegnato Morin esige risposte articolate e se pensiamo di
aver trovato delle risposte semplici allora queste saranno sicuramente sbagliate.
Ci aspettano sfide enormi che solo se affronteremo i problemi insieme potremo superarli e
solo se metteremo al centro l’uomo e non il progresso e la tecnologia riusciremo a trovare
le risposte.
Il Presidente
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Associazione Erich Fromm – Un nuovo Umanesimo al servizio dell’uomo
“DALLA PARTE DELL’UOMO”
In questo numero troverete un articolo di un po’ di tempo fa, scritto a più mani, sul
fenomeno “Hikikomori”. Vi invito a leggerlo. Ho creato anche un blog :
http://blog.libero.it/Hikikomoriitalia/
Noi stiamo riprendendo lo studio dell’hikikomori anche in vista di un convegno che stiamo
organizzando sulle nuove dipendenze dal gioco e dal computer. Anche in Europa si
incominciano ad avere casi simili all’Hikikomori.
Chi fosse interessato può scrivermi alla mail [email protected] o può dare il
suo contributo con un post sul blog.
Grazie
Il Presidente
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
SOMMARIO
LA TECNICA PSICOTERAPEUTICA DELL’INCONTRO DIRETTO DI ERICH FROMM E LA SUA
INTERPRETAZIONE BIOFILA DA PARTE DI ROMANO BIANCOLI ........................................... 6
LA VALUTAZIONE DEI SERVIZI PER LA PERSONA CON DISABILITA’ INTELLETTIVA ........11
1.
Introduzione ..........................................................................................................................................................11
RISULTATI DEI SERVIZI ...............................................................................................................................................13
RISULTATI INDIVIDUALI...............................................................................................................................................13
2.
Evoluzione del concetto di qualità della vita .....................................................................................................14
3.
Utilità dell’applicazione del concetto alla disabilità intellettiva.......................................................................17
4.
Valutazioni di qualità di vita nelle persone con disabilità intellettiva.............................................................18
RICERCA ESPLORATIVA SULLE STRATEGIE DI ACCULTURAZIONE DEGLI IMMIGRATI
NELLA PROVINCIA DI PISA ........................................................................................................21
1.
L’immigrazione in Italia........................................................................................................................................21
2.
Presupposti teorici e obiettivi della ricerca .......................................................................................................22
3.
Partecipanti ...........................................................................................................................................................23
1.2
Grafici riassuntivi............................................................................................................................................24
4.
Strumenti e metodologia .....................................................................................................................................26
5.
Risultati e conclusioni .........................................................................................................................................26
6.
Bibliografia e sitografia........................................................................................................................................27
VERSO UN APPROCCIO MULTIDIMENSIONALE INTEGRATO: LA PROSPETTIVA
EVOLUTIVA ..................................................................................................................................28
1.
Abstract .................................................................................................................................................................28
1.2
Background....................................................................................................................................................28
1.2
Metodi ............................................................................................................................................................28
1.3 Risultati .................................................................................................................................................................28
1.4
Conclusioni ....................................................................................................................................................28
2.
Introduzione ..........................................................................................................................................................29
3.
Obiettivo ................................................................................................................................................................32
4.
Partecipanti ...........................................................................................................................................................32
5.
Procedura e strumenti .........................................................................................................................................32
4
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
6.
Metodi di analisi dei dati ......................................................................................................................................33
7.
Risultati .................................................................................................................................................................33
8.
Analisi dei dati ......................................................................................................................................................35
9.
Conclusione ..........................................................................................................................................................38
10.
Riferimenti bibliografici ...................................................................................................................................39
KABBALAH TRA CONSAPEVOLEZZA E STILE DI VITA...........................................................42
IL LIBRO DI ALICE .......................................................................................................................44
RIFLESSIONI SUL FILM-DOCUMENTARIO: “FRANK GEHRY. CREATORE DI SOGNI” DI S.
POLLACK......................................................................................................................................46
---------------------------------INSERTO SUL FENOMENO HIKIKOMORI--------------------------------------
ANALISI DELLA PATOLOGIA DEI RAGAZZI GIAPPONESI HIKIKOMORI DAL PUNTO DI
VISTA OCCIDENTALE .................................................................................................................54
1.
Alcune considerazioni storiche e sociologiche sul Giappone ........................................................................54
2.
Una descrizione della patologia “hikikomori”...................................................................................................55
3.
Analisi delle possibili cause del fenomeno “hikikomori” ................................................................................57
1.2
La società giapponese e il suo sistema d’educazione ..................................................................................57
1.2
L’ambiente scolastico ....................................................................................................................................60
4.
Conclusioni ...........................................................................................................................................................65
5.
Bibliografia ............................................................................................................................................................67
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
La tecnica psicoterapeutica dell’incontro diretto di Erich Fromm e la sua
interpretazione biofila da parte di Romano Biancoli
Rainer Funk
Nella sua ultima lettera, Romano Biancoli mi parlò della sua malattia, dei gravi sintomi dovuti alla
chemioterapia, della sua percezione della vita in quel momento. Scrisse: “Per me questo è già un
periodo di vita vissuto, pieno nei suoi limiti materiali, con amici ed interessi culturali. E poi sto
sperimentando un modo di essere che prima ignoravo”.
Il modo in cui Romano affrontava la sua malattia mi ricordò una risposta di Erich Fromm. Dopo il
terzo infarto da lui subito nel 1978, gli chiesi se a quel punto non fosse spaventato di ritrovarsi
faccia a faccia con la morte. Mi rispose con voce ferma e decisa: “Guarda, ho vissuto una vita
piena e posso dire con il salmista di essere pieno di vita”, e usò la parola tedesca ‘satt’, che
significa ‘sazio’. “Ho vissuto la mia vita con una tale ricchezza da non sentire il bisogno di
tenermela stretta, ma posso lasciarla andare”.
Il modo biofilo in cui sia Erich Fromm che Romano Biancoli hanno risposto al problema della
propria morte evidenzia il loro atteggiamento verso la vita. Immagino che entrambi abbiano avuto
a che fare con influenze avvelenanti sin dall’inizio della vita, ma sono riusciti a superare quelle
devitalizzazioni minacciose rinforzando il loro amore per la vita e concentrandolo (in particolare
nella pratica terapeutica) su ciò che è vivo.
Sebbene, per quanto io sappia, Romano Biancoli non abbia mai incontrato Erich Fromm di
persona, e non abbia quindi potuto sperimentare come Fromm praticasse la biofilia, ne fu un
praticante perfetto. Sono convinto che Biancoli abbia avuto una profonda intuizione, ossia abbia
capito che i concetti della modalità dell’essere e della biofilia possono essere apprezzati appieno
solamente nella pratica, dando cioè voce a quelle tendenze, spesso nascoste, che lottano per la
vita.
Le opere di Fromm proponevano infatti una cura contro quelle intossicazioni di cui Romano
soffriva come tutti noi, per motivi personali e soprattutto sociali. Fu proprio per questo che, dalla
metà degli anni Ottanta in poi, sentì il bisogno di trasmettere l’impatto della sua pratica di biofilia e
di tradurre questi vissuti nella sua pratica terapeutica. In tutta onestà, in quegli anni in Italia
nessuno meglio di Romano Biancoli seppe trasmettere questi vissuti biofili, o scrivere delle
psicodinamiche della biofilia e della loro importanza nell’approccio con i pazienti.
Abbiamo potuto vedere questa sua evoluzione non solo nella sua organizzazione dell’ Istituto
Erich Fromm di Bologna, ma anche con le sue pubblicazioni. Cito soli alcuni dei titoli che
mostrano il suo progresso. Nel 1991 intervenne ad un workshop a Verbania con “The Being Mode
in the Hour of Psychoanalysis” (La modalità dell’essere nell’ora psicoanalitica). Poco dopo aver
scoperto Groddeck e le conferenze tenute da Fromm al William Alanson White Institute nel 1959,
pubblicò “La correlazione ‘center-to-center’ in analisi”. Al nostro convegno congiunto tenuto ad
Ascona, in Svizzera, nel 1997, parlò di “L’idea di ‘uomo intero’”. Un altro suo intervento si
intitolava “Il sogno tra ‘qui-e-ora’ e ‘là-e-allora’”, mentre una delle sue ultime pubblicazioni si
concentrava su “La ricerca dell’identità nella modalità dell’essere”. La cosa più sorprendente
rimane quanto Romano abbia colto la tecnica dell’approccio diretto di Fromm, quasi fosse stato
formato da lui in persona a lungo.
Voglio darvi un’idea di questa relazione frommiana con il paziente traendo spunto dal mio primo
incontro con Fromm nel 1972 e da alcune descrizioni fornite da lui stesso, che potete trovare nelle
conferenze del 1959, pubblicate in italiano da Mondadori con il titolo “L’inconscio e la prassi
analitica” nel volume Anima e società.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Voglio iniziare con l’approccio diretto dimostrato da Fromm durante il nostro primo incontro,
quando andai a trovarlo per discutere con lui di alcuni miei dubbi a proposito della mia tesi di
laurea sul carattere sociale, la religione e l’etica.
Fromm mi guardò in modo così diretto che i miei tentativi di fare conversazione cessarono subito
e qualsiasi comportamento di ruolo divenne superfluo. Ci eravamo incontrati di persona solo
qualche minuto prima, ma si era già instaurata una relazione di fiducia ed intimità. Non mi era più
possibile evitare i problemi ai quali mi ero avvicinato cautamente. Gli occhi di Fromm, circondati
dalle rughe, che mi fissavano così intensamente, riuscirono in qualche modo ad avviare una
conversazione che placò le mie ansie e mi permise di concentrarmi completamente.
I miei dubbi iniziali sulla tesi di laurea passarono in secondo piano. Fromm volle sapere della mia
situazione professionale, del perché fossi così interessato al suo pensiero, in particolare all’etica.
Le sue domande volevano svelare le mie preoccupazioni e i miei interessi più profondi. Fromm
voleva comprendere il mio essere interiore, se e cosa amassi, odiassi, tenessi in gran conto,
cercassi, valutassi criticamente, rifiutassi, cosa mi piacesse, incoraggiasse, stimolasse e facesse
arrabbiare, cosa mi eccitasse, mi rendesse nervoso, mi spaventasse o mi facesse sentire
colpevole. Lo interessavano i miei sentimenti, i miei bisogni, le mie passioni ed i miei interessi.
L’interessamento di Fromm aveva come scopo di entrare in contatto con i miei sentimenti e le mie
tendenze interiori, in modo da considerarli portatori di energia e non ostacoli. Sebbene le forze
emotive non fossero lusinghiere e impedissero di pensare ed agire in modo razionale, individuarle
e comprenderle era di cruciale importanza. Solo in questo modo potevano essere individuati
un’intensa gelosia o un paralizzante senso di inferiorità, così da rilasciare quell’energia trattenuta
in vista di un atteggiamento razionale e amorevole.
Fromm, con le sue domande, voleva mettersi in contatto con il mio mondo interiore, le mie
tendenze razionali ed irrazionali, latenti e manifeste. Per raggiungere questo scopo, usava il
contatto visivo. Tutti abbiamo imparato ad esprimere i nostri ambiti più interiori con lo sguardo,
siano essi emozioni, sentimenti, bisogni o reazioni.
Il modo in cui mi guardava, parlava con me e focalizzava la conversazione, tuttavia, aveva
qualcosa di molto peculiare. Nonostante fosse molto diretto, quasi duro, nello scoprire la mia
anima, non mi sentii affatto interrogato, messo all’angolo, giudicato, smascherato o esposto. Capii
subito che con me si stava rapportando in modo piacevole, con comprensione ed affetto, senza
che io mi sentissi in dovere di giustificarmi o nascondermi. Cercava di entrare in contatto con me
e, con sincero interesse, mi fece capire che non c’era motivo di temere il proprio mondo interiore.
Un senso di solidarietà e gentilezza traboccava da ogni parola e da ogni sguardo.
Questo tipo di incontro umano fu per me il primo del suo genere. Questo modo di parlare, di
essere con l’altro, di avventurarsi in quel mondo di sentimenti che si trova dietro i nostri pensieri,
sempre rassicurato da uno sguardo amorevole dell’altro, rendevano chiacchiere o tentativi di
nascondersi completamente superflui.
Più o meno vent’anni dopo, in qualità di suo esecutore letterario, stavo preparando alcuni dei
mano scritti inediti di Fromm per la pubblicazione, quando mi imbattei per la prima volta negli
scritti delle conferenze che aveva tenuto, come già detto, al William Alanson White Institute di
New York nel 1959. E lì descriveva proprio il suo vissuto di solidarietà:
Il senso di solidarietà è una delle esperienze terapeutiche più importanti che possiamo far vivere
al paziente, perché in quei momenti il paziente non si sente più isolato. In ogni nevrosi, o in
qualsiasi malattia che il paziente possa avere, il senso di isolamento, che egli ne sia cosciente o
meno, è il problema cruciale delle sue sofferenze. Nell’istante in cui egli intuisce che io le
condivido con lui e posso dire: “Tu sei questo”, e lo dico in un modo che non è né gentile né
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
sgradevole, si verifica una vera liberazione dal suo isolamento. Ciò è dovuto al fatto che un’altra
persona dice “Tu sei questo”, gli sta vicina, vive con lui1.
Quello che Fromm afferma sulla relazione terapeutica in generale era vero anche per lui.
Qualsiasi tipo di relazione dovrebbe basarsi su un approccio diretto, un incontro faccia a faccia. Il
volto di una persona rivela il suo mondo interiore. Un incontro faccia a faccia va ben oltre la
superficie, rendendo possibile una “relazionalità centrale” tra due soggetti. L’altro “non è più una
cosa estranea, ‘là fuori’, che io osservo, ma mi si presenta nella sua pienezza, e io mi presento a
lui totalmente, e allora non c’è più possibilità di sfuggire2”.
L’incontro “diretto” facilita l’entrata in contatto con i sentimenti e le passioni dell’altro, in modo da
poterlo sentire come persona completa. Fromm riteneva che questo tipo di incontro diretto con
l’altro avesse una caratteristica decisiva, ovvero che “Chi riesce a vedere veramente una
persona… ha smesso di giudicare3”, sempre a patto di vedere quella persona nella sua interezza.
Nonostante che, nel vivere e nel difendere la nostra esistenza, siamo spesso obbligati a giudicare
ciò che vogliamo e ciò a cui ci opponiamo, tuttavia, in un incontro “diretto”, dobbiamo trattenerci
dal giudicare, se davvero vogliamo vedere l’altra persona,. “Chiunque noi siamo, a questo punto
cessa il senso di colpa, perché sentiamo che ‘io sono questo’4”.
Ecco una descrizione dell’incontro “diretto”: “Chi può vedere se stesso o gli altri nella loro
pienezza, non per questo giudica, perché è totalmente conquistato da questo sentimento, da
questa esperienza: ‘Tu sei questo’, e anche da quest’altro sentimento: ‘Chi potrebbe ancora
giudicare?’. In realtà non si arriva nemmeno all’idea di porsi questa domanda, perché quando io
provo veramente questa esperienza dell’altro, provo l’esperienza di me stesso. Dico: ‘Così, tu sei
questo’, e in qualche modo sento molto chiaramente: ‘E anch’io sono questo!’5”.
Quanto un incontro diretto con il sé sia cruciale e quali conseguenze possa avere sono due
fenomeni che ho avuto la possibilità di vedere in Fromm stesso. Non passava giorno che non
provasse a mettere in pratica questo tipo di incontro con se stesso. Di solito si riservava un’ora in
tarda mattinata per i suoi “esercizi”. Si trattava di esercizi fisici e contemplativi, che ha poi
descritto in Da avere a essere6 come pratiche che promuovono l’attenzione e la percezione di sé,
esercizi di consapevolezza sensoriale, Tai-Chi, oltre all’autoanalisi. Si concentrava sui movimenti
del corpo, sulla respirazione, cercando di svuotare la mente e meditare. Si sforzava inoltre di
percepire quello che risuonava emotivamente in lui e lo preoccupava mentalmente: un senso di
disagio che si protraeva dopo un’intervista, ad esempio, o l’impulso di scrivere una lettera al
direttore di The New York Times. Cercava di decifrare i messaggi dei sogni che ricordava dalla
notte prima, in modo da confrontarsi con le proprie tendenze, fantasie, forze emotive e conflitti
inconsci.
Gli effetti di questi esercizi alla ricerca dell’incontro diretto con sé erano lampanti, non solo per
Fromm ma anche per coloro che gli stavano attorno. L’esempio che mi ha colpito di più fu la
relazione di apertura che Fromm tenne ad un convegno a Locarno-Muralto nel maggio 1975.
Nelle settimane precedenti, Fromm si era rotto un braccio, evento che metteva in dubbio la sua
presenza al convegno. Alla fine improvvisò un discorso di due ore su “Il significato della
1
Fromm, E., Dealing with the Unconscious in Psychotherapeutic Practice (3 Lectures 1959), in: International Forum of
Psychoanalysis, Vol. 9 (No. 3-4, October 2000) pp. 167-186, p. 178
2
Fromm, E., “L’inconscio e la prassi psicoanalitica” in: Anima e società, Milano (Arnoldo Mondadori Editore) 1993, pp. 91-143,
p. 123
3
Ivi, p. 121.
4
Ivi, p. 174.
5
Ivi, p. 178.
6
Erich Fromm, Da avere a essere. Tutti gli scritti esclusi da “Avere o essere?”, Milano (Arnoldo Mondadori Editore: Oscar Saggi
233) 1991.
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psicoanalisi per il futuro7”. Quando successivamente gli chiesi dove avesse trovato la
concentrazione e l’energia necessaria, mi rispose, in modo tutt’altro che pretenzioso: “Beh,
stamattina ho fatto gli esercizi per il doppio del tempo”. Una persona che pratica l’incontro diretto
con se stessa può trarne energia per l’incontro con altre persone, facendosi assorbire da un
argomento o da un’altra persona. È però vero anche il contrario.
Una persona che pratica l’incontro diretto con gli altri fa delle esperienze che facilitano l’incontro
con l’altro e con lo sconosciuto all’interno di se stessa.
L’espressione del volto di Fromm rendeva palese che lui era esperto in entrambe le cose, e
pertanto capace di essere con se stesso e con gli altri. Dopo la sua morte, trovai tutta una serie di
fotografie scattate con una tecnologia innovativa (un meccanismo riavvolgente a batteria), la
quale permetteva di ottenere diversi scatti a distanza di pochi secondi l’uno dall’altro. Sulla
pellicola dei negativi c’era una fotografia nella quale Fromm aveva gli occhi chiusi, seguita da
un’altra dove guardava direttamente nell’obiettivo. Fromm avrà probabilmente chiuso gli occhi per
un mezzo secondo durante questi scatti in sequenza, ed è stato ripreso proprio in quell’azione. Ad
un’analisi più attenta, la fotografia ritrae un volto completamente concentrato sul proprio sé
interiore, un volto immerso nella propria interiorità. Nella fotografia successiva, quella con gli occhi
ben aperti, si ha l’impressione che Fromm concentri completamente la propria attenzione
sull’osservatore. Nella prima è completamente con se stesso, nella seconda con l’altro.
Le fotografie dimostrano quanto Fromm abbia praticato l’incontro diretto, per riuscire ad essere
con se stesso e con l’altro. Dimostrano inoltre l’importanza di questa pratica per la realizzazione
dell’uomo e dell’esistenza sociale. Indipendentemente dal tipo di relazione in cui si compie
l’incontro diretto o faccia a faccia, sia essa con gli altri, nel lavoro accademico o scientifico, in
compiti artistici o terapeutici, nel contatto con la natura o con i nostri poteri interiori, l’incontro
diretto rilascia sempre energie per incontri diretti in altri ambiti.
L’esperienza derivata dalla pratica dell’incontro diretto ha ispirato Fromm a sviluppare il concetto
di “orientamento produttivo del carattere”, “biofilia” e “modalità dell’essere dell’esistenza”. Come
scrive Fromm in Psicoanalisi dell’amore8, “La persona che ama la vita pienamente è attratta dal
processo vitale e dalla crescita in qualsiasi ambito”. Ho scoperto che riportare alla mente gli effetti
degli incontri faccia a faccia con lui mi sono stati di grande aiuto per comprendere pienamente i
suoi concetti di “produttività”, “ragione ed amore come poteri propri”, “biofilia” o “modalità
dell’essere dell’esistenza”.
Che Fromm fosse portato per gli incontri faccia a faccia spiega anche il successo avuto dalle sue
opere, soprattutto per coloro che hanno difficoltà a comprendere testi concettuali e teorie astratte.
Una volta Fromm confessò di non essere assolutamente portato per il pensiero astratto. Riusciva
a pensare solo quei pensieri che erano collegati a cose sperimentabili. Proprio per questo Fromm
cercò di attuare un incontro diretto anche nell’affrontare i problemi e gli argomenti delle sue opere.
Tuttavia, prima di iniziare a scrivere, si sforzava di trovare un collegamento mentale ma anche
emotivo con quello che era già stato scritto sull’argomento. Riteneva estremamente importante il
poter mettersi in relazione con quello che leggeva, quando sfogliava fonti primarie. Con alcuni
autori questo succedeva praticamente sempre. In particolare, Sigmund Freud e Karl Marx, Baruch
Spinoza e Meister Eckhart. Con altri, invece, accadeva raramente, come ad esempio con Hegel,
Heidegger, Adorno e la maggior parte dei sociologi.
Quando finalmente si metteva a scrivere, Fromm di solito scriveva tutte le idee che aveva
sull’argomento in una volta sola. Il giorno dopo, poi, rileggeva quello che aveva scritto e iniziava
7
Erich Fromm, Il significato della psicoanalisi per il futuro, in: Anima e società, Milano (Arnoldo Mondadori Editore) 1993, pp.
145-175.
8
Erich Fromm, Psicoanalisi dell’amore. Necrofilia e biofilia
nell’uomo, Roma (Paperbacks saggi 159, Newton
Compton Editori) 1985, p. 61.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
da capo se sentiva di non aver espresso quello che voleva. Continuava a provarci fino a sentirsi
tutt’uno con l’argomento. Fromm cercava l’incontro diretto anche mentre scriveva, con gli
argomenti, le idee, i concetti. La copia scritta a mano non veniva consegnata alla segretaria, in
modo che essa potesse batterla a macchina, finché non sentiva di aver espresso correttamente la
propria opinione.
Molti dei lettori di Fromm si sono sentiti coinvolti e capaci di avere un dialogo interiore con quanto
leggevano nelle sue opere proprio perché i suoi scritti derivavano da un incontro interiorizzato e
diretto con le opere di altri scrittori, e non da processi di pensiero astratti.
Fu così anche per Romano Biancoli, il quale non solo lesse le opere di Fromm, ma cercò anche di
praticare l’incontro diretto mettendo in pratica i suoi insegnamenti.
Fromm visse e sentì quello che disse e scrisse. L’insegnamento e la vita erano strettamente legati
sia nelle sue opere che in lui, proprio perché entrambi richiedevano la pratica dell’incontro diretto.
Questa è l’eredità che Fromm ha lasciato a tutti coloro che lavorano nel campo della terapia. Ed è
anche l’eredità di Romano Biancoli.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
LA VALUTAZIONE DEI SERVIZI PER LA PERSONA
CON DISABILITA’ INTELLETTIVA
Il presente draft è stato elaborato dal dr. Giampaolo La Malfa e dal dr. Stefano Lassi. Ha carattere
riservato. Ogni utilizzazione deve essere preventivamente autorizzata dagli autori
1. Introduzione
La Disabilità Intellettiva (DI) è una condizione caratterizzata da un quoziente intellettivo
significativamente ridotto, da una capacità adattativa anch'essa significativamente ridotta e da
un'insorgenza prima dei 18 anni di vita.
L'algoritmo teorico generalmente seguito, pone la persona con le sue caratteristiche di
funzionamento e i bisogni di supporto in varie aree (vulnerabilità) -cognitiva, adattativa, di
partecipazione, di salute- in rapporto con il contesto (ambiente) nel quale vive. L'ambiente può
svolgere un'azione positiva, fornendo i supporti per sostenere i bisogni della persona, oppure
un'azione negativa.
Il rapporto tra la vulnerabilità e l'ambiente è di centrale importanza nel lavoro con la DI. Da un lato,
infatti, ci rende conto delle possibili complicazioni di salute (fisica e psicologica) che questi
pazienti possono presentare e ci indirizza verso una corretta valutazione, diagnosi e trattamento.
Da un altro punto di vista, tale rapporto ci è di guida nel proposito di incrementare l'identità di
questi soggetti, la loro reale partecipazione al lavoro e all'abitare. Tale percorso ha, come fine
ultimo, la promozione della Qualità di Vita della persona.
I servizi per la persona con Disabilità Intellettiva
In passato si riteneva che i bisogni di salute delle persone con DI potessero essere
adeguatamente soddisfatti dai servizi generali per la salute. L'esperienza ha ampiamente
dimostrato che questo non accade e oggi è generalmente riconosciuta la necessità di servizi
specialistici. Attualmente viene dibattuto lo stile dei servizi offerti. Schematicamente quattro sono
i principali modelli, nati da circostanze e filosofie differenti.
A – gruppi di lavoro specialistici
B – gruppi di lavoro specialistici integrati nei servizi generali
C – piccoli servizi specialistici locali, con i loro accessi facilitati
D – servizi specialistici complessi regionali o subregionali
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Per l'organizzazione dei servizi per le persone con DI, appare realisticamente utile l'applicazione
del “matrix model”. Tale modello prevede una griglia di valutazione dell’imput, dello svolgimento e
dell’output a differenti livelli (personale, di comunità,nazionale).
Occorre a nostro avviso integrare questa griglia valutativa generale, con un end-point forte,
condiviso, che riteniamo essere rappresentato dal concetto di Qualità di Vita. (QoL)
La QoL è un concetto complesso, che implica aspetti oggettivi e soggettivi. In sintesi è il rapporto
tra interesse,opportunità, soddisfazione e potere decisionale.
Per quanto riguarda la programmazione dei servizi per la persona con DI, la sfida rappresentata
dal concetto di QoL è data, in ultima analisi, dalla credenza che tale concetto sia:
-
realistico
-
un concreto obbiettivo per tutte le persone, compreso quelle con DI
Tre sono attualmente i principi “forti” su cui si basa l'approccio tipo QoL :
I. si è andata via via affermando l'importanza degli aspetti psicologici e sociali nella percezione del
benessere, inclusi i fattori correlati al supporto e all'integrazione sociale, ai rapporti interpersonali,
alla autonomia/indipendenza, alle aspirazioni/aspettative e ai valori più generali, riguardanti la
famiglia, il lavoro, la vita.
II. La DI e i cambiamenti ad essa connessi sono condizioni che influenzano la capacità della
persona nel fare scelte autodeterminate e di vivere pienamente la vita. Per questi individui, vivere
una vita ordinaria, richiede supporti che vanno oltre quelli necessari alle altre persone della stessa
età. Fornire questi supporti è la principale funzione dei programmi educativi, di salute e umani. In
questo caso il concetto di QoL è di grande aiuto.
III. Gli individui con DI spesso sperimentano problemi riguardanti la partecipazione nella società.
Ciò significa che queste persone e le loro famiglie corrono il rischio di essere escluse da molte
situazioni e opportunità che sono normalmente accessibili per gli altri.
Predittori della Qualità di Vita
Un tema molto importante è il rilevamento di fattori predittivi di una buona QoL, in quanto possono
essere ipoteticamente utilizzati nella valutazione dei servizi. Schematicamente i predittori fino ad
ora individuati sono raggruppabili in tre aree.
A – Caratteristiche personali
astato di salute
aindice di comportamento adattativo
aindicatori di comportamenti maladattativi/di sfida
B- Caratteristiche ambientali
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
asupporto sociale ricevuto
atipo di setting residenziale
anumero di attività casalinghe cui il soggetto partecipa
aguadagni
aattività integrate
C – Caratteristiche degli assistenti
alivello di stress dei lavoratori
asoddisfazione nel lavorare con i clienti
asoddisfazione del lavoro
-
Valutazione dei risultati
Come è importante ottenere elementi predittivi, è altrettanto importante la valutazione dei risultati
(outcome). I risultati possono essere suddivisi in risultati a breve termine (6 mesi – 1 anno) e a
lungo termine (molti anni). Si dovrebbe poi distinguere i risultati dei servizi e quelli del cliente.
RISULTATI DEI SERVIZI
A – Valutazione della prestazione
a1 – efficacia (raggiungimento degli obiettivi)
a2 – efficienza (sostenibilità dei costi del servizio e dei supporti)
a3 – stabilità (continuità dello staff, finanziamenti)
B Apprezzamento del cliente
b1 – accesso al servizio*
b2 – soddisfazione dell'utente
b3 – competenza dello staff
b4 collegamento tra servizi e supporti
b5 – effettivo adeguamento del servizio al modello
RISULTATI INDIVIDUALI
A- valutazione funzionale
a1 benessere fisico (stato di salute, indicatori di benessere)
a2 benessere materiale (impiego, abitazione, educazione)
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a3 – stato clinico (cambiamento/riduzione dei sintomi)
a4 – attività giornaliere (a casa/fuori casa)
B Apprezzamento individuale
b1 – benessere emozionale
b2- sviluppo personale
b3 – autodeterminazione
b4 – relazioni interpersonali
b5 – inclusione sociale
Le prospettive
Due sono gli argomenti attualmente in grande evoluzione. Il primo riguarda il progressivo
affermarsi del concetto di “qualità dei programmi” sulla base della soddisfazione dei clienti e dei
loro risultati personali. Il secondo è lo sviluppo di nuovi modelli di intervento e di servizi fondati sul
concetto di QoL.
2. Evoluzione del concetto di qualità della vita
E’ sostenibile che l’azione del medico e di ogni altro operatore sanitario sia costantemente
sottesa, in modo più o meno consapevole, da uno propensione ad aiutare le persone ad essere
soddisfatte della propria vita. E’ anche ipotizzabile che tale propensione sia antica quanto le
prime forme di intervento. Eppure la teorizzazione della Qualità di vita (QdV) come concetto
fondamentale per la pratica sanitaria è estremamente recente e siamo ancora lontani da una reale
e diffusa applicazione.
L’origine del concetto di QdV è forse identificabile nella definizione di salute data
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948 (WHO, 1948): “uno stato di completo
benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente assenza di malattia o di infermità”, ma
l’espressione è stata usata per la prima volta in una rivista medica, solo nel 1966 da Elkinton
(Elkinton, 1966).
All’inizio gli sforzi di attuazione sono stati limitati e solo sporadici protocolli di valutazione di
programmi di intervento socio-comunitario includevano domande tese ad elicitare il vissuto
soggettivo degli utenti (Fairweather et al., 1969; Test e Stein, 1977). Negli anni 80 il concetto ha
vissuto un fortunato periodo di revisione e sviluppo, soprattutto negli Stati Uniti, dove con una
certa frequenza venivano seguiti percorsi applicativi (Lehman et al., 1982, 1983; Baker e
Intagliata, 1982; Bigelow et al., 1982) e dove, in occasione della produzione del Patient Outcome
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Research Act, la QdV venne obbligatoriamente inclusa nei protocolli di ricerca come misura di
esito degli interventi (Congresso degli Stati Uniti, 1989).
Di fatto la QdV è diventata un ambito significativo della ricerca medica solo dalla seconda metà
degli anni 90. A fronte di una ricchezza di produzione in riferimento alle patologie organiche,
specialmente cardiopatie e neoplasie, solo pochi sono stati gli studi effettuati sui pazienti con
problemi psichiatrici. La maggior parte di questi ha avuto come oggetto i disturbi psichici implicanti
una maggiore compromissione del funzionamento, dove la valutazione presentava più difficoltà
(Martin, 1995 ; De Girolamo, 2001, Bertelli, 2002). I risultati sono stati sorprendenti: contro tutte le
probabilità e le valutazioni esterne, le autovalutazioni di pazienti con gravi disabilità indicavano
un’elevata QdV.
Questo ‘paradosso della disabilità’ ha trovato possibili spiegazioni nel cambiamento del metro di
giudizio dei pazienti gravi rispetto alla propria vita, nello sviluppo di meccanismi di adattamento,
rassegnazione e di coping rispetto alla negatività degli eventi, nella disponibilità di un consistente
supporto sociale e nei limiti delle metodologie di studio utilizzate. Questo paradosso ha sollevato e
solleva un ampio dibattito sulla discrepanza fra valutazioni di QdV condotte dagli stessi valutandi
e da altre persone, ovvero tra auto ed etero valutazione, tra approccio soggettivo e oggettivo.
Negli ultimi 5 anni la letteratura sulla QdV ha avuto un incremento straordinario e oggi il concetto
sembra porsi al crocevia di tutte le strategie di intervento nei vari settori della medicina in generale
e della psichiatria in particolare. Sono stati prodotti numerosi strumenti di valutazione per tutti i
settori di applicazione: statistiche demografiche, QdV legata alla salute, valutazione di gruppi
specifici di soggetti o di settori professionali, QdV della singola persona e indicizzazione
economica.
Contrariamente all’apparente semplicità, legata alla banalizzazione del suo uso frequente,
l’espressione QdV può dunque esprimere una molteplicità di significati, tanto da risultare
impossibile parlarne senza una precisazione di senso specifico.
Nell’ambito generale delle comunicazioni di massa il concetto di QdV viene continuamente
omologato a quello di vita di qualità, in riferimento ad un ideale universale di eccellenza negli
ambiti più materiali e commercializzabili : oggetti posseduti, carriera lavorativa, ambienti
frequentati, vacanze, performance fisiche, ecc. Spesso viene addirittura usata come sinonimo di
felicità (Veenhoven, 2001).
In ambito medico la QdV deve invece essere considerata come una modalità di approccio al
sistema paziente-persona. Qui vengono generalmente distinti due metodi principali, uno oggettivo
e l’altro soggettivo. La dimensione oggettiva della QdV di una persona corrisponde alle condizioni
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di vita come appaiono ad un osservatore esterno. La loro descrizione non pone particolari
problemi epistemologici. Diversamente la QdV soggettiva corrisponde alla percezione individuale
di soddisfazione rispetto all’esistenza e non può essere valutata che attraverso l’opinione della
persona stessa.
I modelli teorici di QdV proposti per l’ambito socio-sanitario sono numerosi, ma quelli che hanno
avuto maggior fortuna sul piano esecutivo sono i seguenti tre: il modello della soddisfazione,
quello della funzionalità di ruolo e quello dell’ importanza/soddisfazione.
Il modello della soddisfazione, sviluppato da Lehman (Lehman et al., 1982) e dalla coppia Baker e
Intagliata (1982), si fonda sul cosiddetto ‘gap di Calman’ [dal nome dell’autore che l’ha descritto
(Katschnig, 2000)], sull’idea cioè che la soddisfazione rispetto alla vita sia proporzionata alla
riduzione del divario fra condizioni di vita attuali e desideri soggettivi. Il modello trova limiti
difficilmente superabili nell’eccessiva soggettività, nella mancata considerazione dei processi
psicologici di adattamento e rassegnazione, nella mancata attenzione alle opportunità di
sviluppare ambiti di interesse, interpretabili come predittori alla soddisfazione stessa.
Il modello della funzionalità di ruolo, proposto da Bigelow nel 1982, prende le mosse dalla teoria
dei bisogni di Maslow (1954) e sostiene che felicità e soddisfazione siano legate al
conseguimento delle condizioni sociali ed ambientali (ruolo) richieste per soddisfare i bisogni
umani di base. Tale modello, che contrariamente a quello della soddisfazione è sostanzialmente
oggettivista, prevede una gerarchizzazione dei bisogni, soprattutto nel senso che la soddisfazione
dei bisogni psicologici superiori dipende dalla soddisfazione di quelli basilari. Sussistono forti
dubbi che siano realmente identificabili bisogni applicabili, in una precisa gerarchia, alla vita di
tutte le persone, soprattutto quando queste si trovino a vivere una condizione di disabilità da
malattia (Estroff, 1981). Il modello ha comunque il merito di aver introdotto la possibilità di
superare il limite della soggettività dei riferimenti di valutazione della QdV ipotizzando parametri di
riferimento applicabili alla vita di tutte le persone.
Il modello dell’importanza/soddisfazione, elaborato da Becker nel 1993 (Becker et al, 1993), parte
dalla constatazione che per ciascuna persona difficilmente potrà essere motivo di soddisfazione
una cosa che non interessa. Pertanto gli autori sostengono che siano definibili degli ambiti di vita
applicabili alla vita di tutte le persone e che la relazione tra la percezione individuale
dell’importanza attribuita a questi ambiti e la percezione individuale della soddisfazione provata
negli stessi costituisca il modo più completo ed efficace di valutare la QdV. Il modello ha il pregio
di combinare riferimenti oggettivi e soggettivi di valutazione e di introdurre la considerazione delle
opportunità per lo sviluppo degli interessi. Rimane il limite della autenticità dell’autovalutazione
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rispetto agli eventuali succitati meccanismi di adattamento, rassegnazione e coping tipici della
psicologia umana, o rispetto a difetti di consapevolezza o di giudizio legati alla malattia.
Per superare le divergenze tra percezione soggettiva e valutazione esterna della QdV
dell’individuo, Zissi e Barry (Zissi et al., 1998) hanno proposto un modello di integrazione o
‘mediazione’. Secondo questo modello la misura più attendibile di QdV deriverebbe da un sistema
in cui, accanto all’autovalutazione, avrebbero un ruolo significativo anche le valutazioni eseguite
da informatori-chiave come familiari, assistenti o operatori socio-sanitari molto vicini al paziente.
3. Utilità dell’applicazione del concetto alla disabilità intellettiva
Nonostante l’ampia diffusione teorica e la crescente considerazione nella ricerca, la QdV non
trova ancora applicazione alla pratica sanitaria. Oggi l’intervento terapeutico è ancora orientato
quasi esclusivamente alla restituzione di tutte le funzioni lese dalla malattia, senza grandi
considerazioni per la percezione individuale dello stato di benessere. Questa tendenza alla
normalizzazione è invalsa tanto per le menomazioni fisiche quanto per le disfunzioni psicologiche
e il modo di vivere che ne deriva. Mentre è relativamente facile pensare giusto restituire ad un
organo del corpo un equilibrio anatomo-funzionale simile a quello della maggior parte delle
persone, un po’ meno facile è pensare terapeutico portare tutte le persone ad avere lo stesso
assetto psicologico, offrire gli stessi ambiti d’interesse e pretendere che abbiano, in questi ambiti,
la stessa vita di soddisfazione.
Nel caso specifico della Disabilità Intellettiva (DI), in cui è presente un’incapacità strutturale a
svolgere funzioni implicanti l’intelligenza, l’idea che l’intervento terapeutico debba consistere in
uno sforzo alla restituzione di un’intelligenza normale toglie addirittura senso all’intervento stesso.
Ugualmente appare bizzarro considerare terapeutico cercare di condurre i portatori di DI a vivere
nel modo più simile possibile a quello delle persone normodotate. Non è un caso che spesso le
terapie offerte alle persone con DI siano approssimative, sintomatiche, contenitive o si trasformino
in interventi assistenziali, proprio perché limitate dalla nozione di irrecuperabilità rispetto ad un
procedere terapeutico che tende alla normalizzazione.
Se l’esperire soddisfazione e gioia per la propria vita potesse esser considerato il principale
parametro di salute, come sostiene l’approccio sanitario a tipo QdV, allora l’intervento terapeutico
dovrebbe tendere anzitutto a restituire tale esperienza, ridimensionando la convinzione che sia
impossibile farlo senza una dote psicofisica simile a quella della maggior parte delle persone.
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Non crediamo che si possa interagire con i portatori di DI senza esser convinti che anche per loro
debba esser fatto il massimo sforzo per il miglioramento dell’esistenza. Tale sforzo difficilmente
può nascere dalla convinzione al perseguimento della normalizzazione ma molto più facilmente
dall’attenzione alla relazione tra interessi e soddisfazioni nella vita delle singole persone (Hatton,
1998).
L’intervento sulla QdV è al tempo stesso un intervento sulla clinica che, in gran parte, è
rappresentata da disfunzioni comportamentali in competenze e capacità mai valorizzate o
considerate impossibili dall’ambiente circostante il disabile. Tale scarsa valorizzazione e tale
giudizio di impossibilità dipendono spesso proprio dalla difficoltà ad accettare come valida una
modalità di funzionamento diversa da quella ‘normale’.
Oltre a queste considerazioni al limite della filosofia e dell’etica professionale ci sono molti altri
motivi per cui il perseguimento della QdV si sta imponendo all’attenzione degli operatori del
campo della DI. Alcuni sono l’utilizzo di sempre più sofisticate tecnologie biomediche e
riabilitative, l’aumento della sopravvivenza alla disabilità e della durata media di vita, l’incremento
di cronicizzazioni e invalidità che ne derivano, i costi elevati dell’assistenza sanitaria che
cinicamente richiedono, nella maggior parte dei paesi occidentali, valutazioni precise d’efficacia.
Impegnarsi a rispondere al bisogno di cura delle persone con DI significa anzitutto essere in grado
di misurare, con sufficiente approssimazione, la distanza che intercorre tra le aspettative
individuali nei diversi ambiti di vita e gli obiettivi terapeutici raggiungibili (La Malfa et al., 1998 a; La
Malfa et al., 1998 b). Nel caso di incompatibilità di interessi, tale sforzo dovrebbe anche
permettere di individuare e privilegiare gli ambiti d’importanza maggiore e quelli capaci di offrire
maggior soddisfazione.
4. Valutazioni di qualità di vita nelle persone con disabilità intellettiva
Il succitato problema della validità della valutazione della QdV è più che mai pressante quando si
fa riferimento alla persona con DI. Questa infatti presenta spesso gravi difficoltà di comprensione
e di comunicazione dei propri vissuti (Schalock, 1996; Maes, 2000).
Per le valutazioni finora eseguite in ambito di DI lo strumento che ci è sembrato più utile è stato il
Quality of Life Instrument Package, prodotto dal Centro per la Salute Pubblica dell’Università di
Toronto (Brown, 1995; 1997). Il modello su cui si fonda il sistema di questionari, auto ed
eterosomministrati, è quello dell’importanza/soddisfazione. Il gruppo di Toronto ha individuato tre
aree fondamentali nella vita di tutte le persone con e senza DI: Essere, Appartenere e Divenire.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Ciascuna di queste aree principali è stata a sua volta suddivisa in tre sottoaree, come indicato
nella seguente tabella.
Le nove aree della vita del Quality of Life Instrument Package
Essere
Essere fisico
Essere psicologico
Essere spirituale
Appartenere
Appartenere fisico
Appartenere sociale
Appartenere alla comunità
Divenire
Divenire in senso pratico
Divenire nel tempo dedicato a sé
Divenire come crescita
La sottoarea Essere Fisico si riferisce alla salute fisica, all’alimentazione, alla forma fisica,
all’igiene personale, al vestirsi, al curare il proprio aspetto, e simili. La sottoarea dell’Essere
Psicologico si riferisce invece ad aspetti della vita interna come il controllo delle emozioni e dei
sentimenti, l’iniziativa, l’autoaccettazione, l’autostima, l’indipendenza dallo stress e da eventuali
problemi psichiatrici. L’Essere Spirituale è inteso come l'avere valori personali, criteri di
giusto/sbagliato, buono/cattivo, cose per cui vivere o nelle quali aver fede, come il sentirsi in pace
con se stessi, l’agire per altruismo, il festeggiare le ricorrenze o gli eventi particolari, tutto in un
modo che aggiunga significato alla vita. L’Appartenere Fisico si riferisce al posto dove si vive, agli
oggetti che si possiedono e simili. L’Appartenere sociale al sentirsi in accordo con il partner, con i
membri della famiglia, gli amici, all’appartenere a gruppi sociali, culturali o d'interesse.
L’Appartenere alla Comunità ha per oggetto il rapporto esistente tra un individuo e le risorse a
disposizione della maggior parte dei membri della comunità, p.e. avere accesso ad
un'educazione, ad un impiego, all'assistenza medica e sociale, agli avvenimenti ed agli spettacoli,
avere una pensione. La sottoarea del Divenire Pratico si riferisce alle abilità e attività quotidiane,
come i lavori di casa, il lavoro retribuito, l’andare a scuola o seguire dei corsi, l’attività di
volontariato, le quotidiane routine per la cura di sé, la gestione delle proprie pratiche burocratiche,
ecc. Il Divenire come Tempo Dedicato a Sé, comprende le cose che si fanno per divertimento o
per passione, p.e. giocare a ping-pong, andare a giro con gli amici, leggere, guardare la TV,
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
coltivare un hobby, andare al cinema. Infine il Divenire come Crescita, si riferisce alla capacità di
adattamento ai cambiamenti della vita ed alla capacità di migliorarsi, p.e. imparare cose nuove,
migliorare o mantenere le capacità fisiche e le relazioni con gli altri, risolvere problemi, tirar fuori
nuove idee.
Ognuna di queste aree viene valutata sotto quattro diversi profili, che sono l’interesse, la
soddisfazione, la partecipazione decisionale e le opportunità. Il valore della QdV viene calcolato
primariamente sulla base della relazione tra interesse e soddisfazione, ma anche sul valore
attribuiti all’interesse. Una QdV massima scaturisce da altissimi valori di interesse e altissimi valori
di soddisfazione, ma in generale una discreta QdV può anche derivare da tutte le condizioni di
buon equilibrio fra i valori dei due parametri. La peggiore QdV deriva invece dalle condizioni di
squilibrio, per esempio nel caso in cui si abbia grande interesse e scarsa soddisfazione, ma la
riduzione del punteggio dipende anche da bassi valori di interesse.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
RICERCA ESPLORATIVA SULLE STRATEGIE DI ACCULTURAZIONE DEGLI
IMMIGRATI NELLA PROVINCIA DI PISA
Giulia Campatelli
1. L’immigrazione in Italia
Secondo i dati Istat aggiornati al 1° gennaio 2007 gli stranieri legalmente residenti in Italia sono
2.938.922 (1.473.073 maschi e 1.465.849 femmine) con un aumento rispetto all’anno precedente
degli iscritti in anagrafe di 268.408 unità (+10,1%). Nell’Unione Europea l’Italia si posiziona subito
dopo la Germania (7,3 milioni) e la Francia (3,5 milioni) mentre assieme alla Spagna si costituisce
lo Stato membro caratterizzato dai ritmi d’aumento più consistenti.
Nel Dossier Statistico sull’Immigrazione elaborato dalla Caritas (2005), l’incidenza media sulla
popolazione viene stimata al 4,8%. Secondo recenti fonti Istat, all’inizio del 2007 il rapporto tra i
sessi si conferma abbastanza equilibrato anche se permangono alcune differenze tra le diverse
comunità. L’analisi dei permessi di soggiorno per anno d’ingresso, compiuta dall’Istat, segnala che
oltre il 50% degli stranieri regolarmente presenti al 1° gennaio 2007 è in Italia da almeno cinque
anni (il dato Caritas sale al 60%), e di questi il 26,2% da almeno dieci. I motivi del soggiorno
confermano un netto desiderio di inserimento stabile (9 immigrati su 10 sono in Italia per lavoro o
per ricongiungimento familiare).
Il livello di istruzione degli immigrati è mediamente più elevato di quello caratterizzante la
popolazione italiana: secondo i dati del quattordicesimo e ultimo censimento (2001) tra i residenti
stranieri i laureati sono il 12,1% (contro il 7,5% degli italiani); i diplomati il 27,8% (contro il 25,9%)
e gli individui in possesso di licenza media sono il 32,9% (contro il 30,1% italiano).
Nell’ambito lavorativo i dipendenti stranieri si inseriscono ancora ai livelli più bassi segnalando
quindi una situazione di sotto-utilizzo delle loro competenze professionali: sono destinati sia a
mansioni più gravose che a turni più disagiati rispetto agli italiani e il 60% dei lavoratori subisce
atteggiamenti di discriminazione da parte dei colleghi (Ires 2005). I reparti che coinvolgono
maggiormente manodopera immigrata sono quello edile, il settore alberghiero e della ristorazione,
l’agricoltura, il servizio operativo alle imprese, il commercio e il lavoro domestico e di assistenza
alle persone, con un grande protagonismo delle piccole aziende.
In questo articolo si riassumono i risultati dell’indagine esplorativa in cui sono stati analizzati i
rapporti tra gruppi di immigrati culturalmente ed etnicamente differenti presenti nel territorio della
Provincia di Pisa. Il fine è stato l’osservazione delle strategie di acculturazione (gli atteggiamenti e
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
i comportamenti messi in atto dagli immigrati nei confronti di italiani e immigrati non connazionali)
attraverso la somministrazione di una versione modificata del questionario IASm (Immigrant
Acculturation Scale modified) di Bourhis.
2. Presupposti teorici e obiettivi della ricerca
Con acculturazione (Berry [1]) si intende il processo duplice di cambiamento culturale e
psicologico che risulta dal contatto tra due o più gruppi culturali e i loro membri individuali. Il
contatto può assumere varie forme seguendo le più svariate circostanze: migrazioni, periodi di
soggiorno (per turismo, studio, asilo politico...), colonizzazioni e persino invasioni militari.
In questo studio sono state considerate quattro strategie di acculturazione: marginalizzazione,
separazione, assimilazione, integrazione. La strategia di integrazione, definita anche ‘l’opzione
biculturale’ (La Fromboise et al. [2]), riflette il desiderio del mantenimento delle caratteristiche
dell’identità culturale originaria dell’immigrato e, allo stesso tempo, l’adozione di alcune pratiche
culturali proprie della società ospitante. Con assimilazione si intende l’abbandono della propria
cultura d’origine in favore dell’adozione dell’identità culturale della maggioranza ospitante (in
questo caso, italiana). La separazione è la strategia caratterizzata dal desiderio di mantenere tutti
gli elementi centrali del proprio bagaglio culturale rifiutando qualsiasi scambio con membri della
società ospitante. Infine la marginalizzazione caratterizza coloro che negano qualsiasi valore sia
alla propria cultura d’appartenenza sia a quella della società in cui si vengono a trovare.
Il modello teorico di riferimento di questo lavoro di indagine è il Modello Interattivo di Bourhis,
Moise, Perrault, Senécal [3] che introduce l’importanza dell’interazione tra politiche di integrazione
governative e strategie di acculturazione espresse dalla società ospitante e dalla comunità
immigrata.
Le diverse strategie degli immigrati si combinano con quelle degli italiani con gli esiti sulla qualità
della convivenza mostrati nella tabella 1.
Obiettivo della presente indagine è la verifica dell’esito del processo di acculturazione, in termini di
strategie effettivamente adottate, nei partecipanti.
Occorre ricordare che la modalità di campionamento utilizzata nel presente lavoro non è di tipo
probabilistico, pertanto i risultati sono puramente indicativi e non possono essere generalizzabili
alla popolazione immigrata nella provincia.
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Società
Comunità Immigrata:
ospitante:
(italiana)
Integrazione
Assimilazione
Separazione
Anomia
Individualismo
Integrazione
Consensuale
Conflittuale
Conflittuale
Problematico
Problematico
Assimilazione
Problematico
Consensuale
Conflittuale
Problematico
Problematico
Segregazione
Conflittuale
Conflittuale
Confittuale
Conflittuale
Conflittuale
Esclusionismo
Conflittuale
Conflittuale
Conflittuale
Conflittuale
Conflittuale
Individualismo
Problematico
Problematico
Problematico
Problematico
Consensuale
Tabella 1
Fonte: Bourhis R., Moise L., Perreault S. & Senécal S. [3]
3. Partecipanti
Hanno partecipato all’indagine 90 soggetti immigrati in Italia e residenti nella provincia di Pisa,
appartenenti a entrambi i sessi e di età compresa tra i 20 anni e gli 82. L’età media è di 39, 4 anni
(con deviazione standard di 12,17; valore minimo=20, valore massimo=82). L’odds ratio (OR) per
gli uomini è 52%. L’elenco delle nazioni di provenienza prevede 28 paesi diversi distribuiti in tutto
il mondo: Africa del Nord (comprendente Marocco, Algeria, Egitto), Africa Sub Sahariana
(comprendente Senegal, Guinea, Ghana, Togo, Guinea Equatoriale, Nigeria, Sudan, Etiopia,
Eritrea, Kenya), Area Balcanica (comprendente Albania, Macedonia, Serbia, ex - Yugoslavia,
Slovenia), Ucraina, Bulgaria, Romania, America Centro-Meridionale (Cuba, Colombia, Ecuador),
Filippine, Repubblica Popolare del Bangladesh, Repubblica Popolare Cinese, Federazione Russa.
Il reclutamento dei partecipanti è avvenuto presso sportelli di orientamento comunali e provinciali,
associazioni sindacali, associazioni culturali, sportelli della questura e della Asl, negozi, abitazioni
private, strade e piazze di Pisa.
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1.2 Grafici riassuntivi
Grafico 1
Figura 1 - Paesi di provenienza dei partecipanti
Grafico 2
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Grafico 3
Grafico 4
Grafico 5
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4. Strumenti e metodologia
E’ stato etero e auto-somministrato un questionario derivato dal questionario IAS (Immigrant
Acculturation Scale) di Bourhis [4], nella sua traduzione in italiano, indagante le strategie di
acculturazione con scala Likert a 7 punti. L’elaborazione dei dati è avvenuta tramite i software
Excel e SPSS.
5. Risultati e conclusioni
Nell’indagine emerge la preferenza per le strategie individualistica (M=5,11 con ds=1,01 su scala
Likert da 0 a 7 punti) e di separazione (M=5,08 con ds=1,27).
Grafico 6
La scelta delle strategie di acculturazione può dipendere da molteplici fattori: la politica della
società ospitante nei confronti degli immigrati (Berry, [5]), la distanza culturale dell’immigrato
rispetto alla cultura della società ospitante (Berry [6]), le caratteristiche socio-demografiche e di
personalità quali genere, età, livello di autostima, strategie di coping (Kosic [7]).
Il modello di integrazione pisano appare peggiore rispetto ad altre città in termini di precarietà
abitativa e lavorativa, entrambe traducibili in minor sicurezza della persona e minore spinta
all’integrazione (Casarosa [8]). Anche la presente indagine sembra procedere in tal senso: la
totalità dei partecipanti
ha lamentato tali
problemi, collegandoli
a una conseguente
discriminazione e penalizzazione. La preferenza per la strategia di separazione (oltre a quella
dell’individualismo) potrebbe perciò essere connessa (anche) ad una sorta di reazione degli
immigrati alle politiche restrittive della società d’accoglienza.
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Emerge che i soggetti più favorevoli alla strategia di acculturazione dell’integrazione siano essere
le donne (generalmente di età più avanzata rispetto agli uomini, con maggiori contatti tra gli italiani
e una qualità di relazione con essi più elevata), gli individui di età più avanzata (che sembrano
riuscire a frequentare più uniformemente tutti i gruppi sociali mostrando quella che sembra
un’apertura
dell’atteggiamento
verso
il
contatto
intergruppo
funzionale
all’adattamento
socioculturale) e coloro che soggiornano in Italia da almeno 8 anni (in cui il più lungo periodo di
soggiorno pare relazionarsi alle maggiori competenze interpersonali, alla migliore qualità delle
relazioni e ad un miglior grado di inserimento nella società ospitante).
La presente ricerca mostra anche che con il passare del tempo trascorso in Italia sembra
verificarsi comunque un miglioramento dei livelli di adattamento socioculturale e psicologico degli
immigrati, indicando un miglior inserimento nella realtà pisana.
6. Bibliografia e sitografia
[1] Berry, J. W. (1980). Acculturation as varieties of adaptation. In A.Padilla (Ed.), Acculturation,
theory, models and some new findings. Colorado, CO: Westview Press.
[2] La Fromboise, T., Coleman, H., Gerton, J. (1993). Psychological impact of biculturalism:
evidence and theory. Psychological bulletin, 114, 395 – 412.
[3] Bourhis R., Moise L., Perreault S., Senécal S. (1997). Towards an interactive acculturation
model: a social psychological approach. International Journal of psychology, 32, 369 – 386.
[4] Bourhis, R.Y., Barrette, G. (2004). Notes on Immigrant Acculturation Scale (IAS). Working
Paper, LECRI, Département de Psychologie, Université du Québec à Montréal, Canada
[5] Berry J.W. (1992). Acculturation and adaptation in a new society. International Migration, 30,
69–85.
[6] Berry, J. W. (1997). Immigration, acculturation and adaptation. Applied Psychology: An
International Review, 46, 5-68. Queen’s University, Ontario, Canada.
[7] Kosic, A. (2004). Acculturation strategies, coping process and acculturative stress. Scand J
Psychol. 2004 Sep;45(4):269-78.
[8] Casarosa M. (a cura di). (2005). Gli immigrati in provincia di Pisa / lavoro, qualità della vita.
Cittadinanza. Pacini Editore.
http://www.dossierimmigrazione.it/ Dossier Statistico dell’Immigrazione 2007, Caritas Migrantes
http://www.istat.it Istat
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VERSO UN APPROCCIO MULTIDIMENSIONALE INTEGRATO:
LA PROSPETTIVA EVOLUTIVA
Antonella Leccese, Giampaolo La Malfa
1. Abstract
1.2 Background
I progressi ottenuti nell’ultimo decennio nel campo delle neuroscienze ed in quello della biologia
molecolare hanno permesso una comprensione più accurata dei disturbi psicopatologici e
comportamentali spesso associati alla Disabilità Intellettiva (DI). Ciò ha consentito il superamento
dell’accettazione dei disturbi associati, spesso considerati come conseguenza del ritardo mentale,
verso una rivalutazione della Qualità della Vita dei soggetti coinvolti. La possibilità di
miglioramento si inserisce in un approccio multidimensionale, capace di apportare una maggiore
comprensione della patogenesi. Attraverso più prospettive è, infatti, possibile pervenire ad un
maggior rispetto per la complessità umana, in una prospettiva bio-psico-sociale, congiuntamente
a quella dello sviluppo.
Il fattore evolutivo è il più innovativo ed in stretta interrelazione con le altre dimensioni. Esso
permette di identificare i bisogni emotivi dei soggetti con DI, di comprendere la patogenesi e lo
sviluppo di comportamenti maladattivi attraverso la delineazione di fasi strutturali e funzionali,
ognuna delle quali rispecchia determinati livelli di sviluppo cognitivo, emotivo e sociale e
determinati bisogni di base, comportamenti e disfunzioni.
1.2 Metodi
E’ stato eseguito il confronto tra il livello di sviluppo emotivo emerso dallo Schema di Valutazione
dello Sviluppo Emozionale (SAED) ed il livello di ad adattività all’ambiente, misurato con gli stessi
soggetti attraverso la Scala di Comportamento Adattivo (Vinaland), prestando una particolare
attenzione al Dominio Socializzazione di quest’ultima.
1.3 Risultati
Dai dati ottenuti emerge una forte concordanza tra il livello delle capacità adattive, quindi cognitive
e sociali ed il livello di sviluppo emotivo, fino al punto di suggerire le medesime età psico-socioevolutive. I due strumenti sono si integrano vicendevolmente nel costituire un quadro armonico di
ciascun soggetto in esame.
1.4 Conclusioni
Malgrado la ristrettezza numerica del campione che ha caratterizzato il presente studio, i risultati
ottenuti permetterebbero di ipotizzare che il SAED possa essere utile per una maggiore
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
comprensione della patogenesi, conoscenza dei reali bisogni dell’individuo ed inquadramento dei
comportamenti del soggetto all’interno di una cornice di riferimento individualizzata, nel pieno
rispetto del soggetto valutato. Attraverso un approccio bio-psico-sociale e dello sviluppo è
possibile favorire l’accuratezza diagnostica, ai fini di una linea di trattamento più adeguata,
l’individuazione di un ambiente capace di rispondere ai reali bisogni della persona ed un reale
miglioramento della Qualità della Vita dei soggetti con DI.
2. Introduzione
Le classiche categorie diagnostiche descrittive fenomenologiche, rappresentate dal Manuale
Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) e dalla Classificazione Internazionale delle
Malattie (ICD), usate per la valutazione di individui con Disabilità Intellettiva (DI) considerano
principalmente il livello di sviluppo cognitivo, la capacità adattative del soggetto e l’età di
insorgenza del disturbo (prima dei 18 anni di vita).
Il Ritardo Mentale (RM), infatti, viene definito dal manuale ICD-10 come “… una condizione di
interrotto o incompleto sviluppo psichico, caratterizzata soprattutto da compromissione delle
abilità che si manifestano durante il periodo evolutivo e che contribuiscono al livello globale di
intelligenza, cioè quelle cognitive linguistiche, motorie e sociali.” (pag. 219). A tale condizione si
associa sempre una compromissione delle capacità di adattamento sociale.
Il DSM-IV definisce il RM come la via finale comune di diversi processi patologici, che agiscono
sul
sistema
nervoso
centrale,
ed
è
caratterizzato
da
un
funzionamento
intellettivo
significativamente sotto la media, da concomitanti deficit o compromissioni del funzionamento
adattivo, entrambi insorti prima dei 18 anni.
A causa della difficoltà nella formulazione diagnostica, in passato i disturbi psicopatologici presenti
nei soggetti con DI sono stati considerati ineluttabile conseguenza del deficit intellettivo e trattati
come se tali disturbi rivestissero un’importanza marginale ai fini della Qualità della Vita dei
soggetti interessati.
Per sopperire al disagio psico-sociale dei soggetti, si utilizzavano trattamenti psicofarmacologici,
spesso in modo aspecifico e ripetitivo, in particolare attraverso l’uso di antipsicotici e di
stabilizzanti dell’umore. Spesso tale approccio terapeutico, purtroppo ancora oggi spesso
utilizzato, si rivela improprio e scarsamente efficace e mirato principalmente al controllo dei
comportamenti, socialmente ritenuti “non normali o non consoni”, senza comprendere i reali
bisogni degli individui, le motivazioni sottostanti e la percezione individuale del contesto di
riferimento.
29
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Soltanto negli ultimi decenni i progressi scientifici ottenuti nel campo delle disabilità intellettive
hanno potuto dimostrare che la persona con ritardo mentale è predisposta ad una vulnerabilità ai
disturbi psicopatologici più elevata rispetto alla popolazione normale, con un’incidenza superiore
al 40%..
Tali disturbi associati alle problematiche comportamentali da essi spesso provocate, ostacolano,
inoltre, i processi di integrazione sociale.
I progressi ottenuti nel campo delle neuroscienze e della biologia molecolare hanno contribuito ad
una maggiore comprensione dei processi sottostanti ai disturbi psichiatrici, migliorandone ed
integrandone la comprensione. Tali progressi hanno dimostrato come una maggiore accuratezza
diagnostica possa permettere una significativa riduzione dei dosaggi farmacologici utilizzati.
La complessità delle problematiche comportamentali e psichiatriche di questa popolazione, infatti
richiede un’indagine completa della persona in esame. Ciò implica l’introduzione di un approccio
multidimensionale: biologico, psicologico, sociale ed evolutivo o dello sviluppo al fine di superare
il riduzionismo biologico ed ottimizzare l’identificazione e la gestione dei disturbi mentali. Esso
prevede una collaborazione tra professionalità diverse per la valutazione diagnostica dell’area biopsico-sociale, integrata dall’aspetto evolutivo: psichiatri, psicologi, pedagoghi, assistenti sociali,
infermieri, caregivers..
Attraverso un approccio multidimensionale è possibile, infatti, integrare l’intervento farmacologico
con quello psicoterapico e psico-sociale, in grado di valutare le diverse funzioni intellettive del
soggetto, le sue caratteristiche di personalità, le sue necessità emozionali, le sue vulnerabilità
psico-organiche ed il livello di adattamento, al fine di ricreare un ambiente con il quale il soggetto
possa relazionarsi adeguatamente.
La prospettiva dello sviluppo è risultata essere innovativa e molto utile nella valutazione, nella
diagnosi e nel trattamento dei soggetti con DI.
Lo sviluppo emozionale e della personalità, infatti, giocano un ruolo importante nella genesi,
insorgenza e manifestazione del comportamento mal adattivo. Appare, pertanto, necessaria la
comprensione del significato del singolo comportamento, inquadrandolo all’interno dello specifico
periodo evolutivo.
L’assunto basilare risiede nel concetto secondo cui la differenziazione per stadi di sviluppo della
funzionalità del Sistema Nervoso Centrale e dei suoi cambiamenti qualitativi e strutturali riferita al
bambino medio, caratterizza anche i soggetti con DI e ne determina la tipologia di pensieri e di
emozioni, le modalità espressive, il comportamento, le modalità adattive all’ambiente di
riferimento e l’interazione con l’ambiente.
30
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Differenti stadi di sviluppo emotivi determinano differenti comportamenti adattativi e differenti
reazioni allo stress. Spesso i soggetti con DI, rispetto alla popolazione generale, hanno un livello
di sviluppo psico-sociale situato nelle fasi più precoci della vita emotiva. L’età emotiva rispecchia
spesso quella mentale, ma in alcuni casi la corrispondenza può non essere riscontrata. In tale
ottica, il disturbo del comportamento si può interpretare come risultante di una discrepanza tra il
livello dello sviluppo cognitivo rispetto allo sviluppo emozionale e dovuto al conflitto tra ciò di cui il
soggetto necessita e ciò che riceve dall’ambiente. In altri termini molti disturbi comportamentali
possono rientrare nella categoria dei “comportamenti di sfida”, cioè una crisi tra il soggetto e il suo
ambiente, senza per questo rappresentare necessariamente un disturbo psichiatrico. In tal caso la
corretta comprensione del comportamento è un passo preliminare ed indispensabile sia per una
corretta diagnosi, sia per un adeguato intervento terapeutico abilitativo.
A tale proposito, attraverso l’integrazione di diverse teorie dello sviluppo riferite alle fasi o stadi
che caratterizzano il percorso evolutivo del bambino medio, Dosen ha elaborato uno strumento
per la comprensione dello sviluppo emozionale denominato Schema di Valutazione dello Sviluppo
Emozionale (SAED), che permette di indagare la relazione tra la sfera emotiva e quella cognitivocomportamentale e di comprendere il livello attuale di sviluppo negli aspetti psicosociali proposti:
come la persona tratta il proprio corpo, interazione con il caregiver, interazione con i pari,
manipolazione di oggetti materiali, differenziazione affettiva, comunicazione verbale, ansia,
permanenza dell’oggetto, esperienza del “Sé” e regolazione dell’aggressività. Tali aspetti sono
risultati essere permanentemente presenti durante tutta la vita, presentando delle modificazioni
nelle modalità di risposta, di espressione e bisogni emozionali di base.
L’assunto teorico alla base della strumento postula la differenziazione evolutiva e strutturale in
cinque stadi di sviluppo emozionale.
La prima fase è denominata “adattamento”, corrispondente al periodo intercorrente tra 0 e 6 mesi
e caratterizzata principalmente da una costante attenzione a stimoli interni, con la conseguente
regolazione delle necessità fisiologiche, ed a stimoli esterni, fisici ed umani. Una volta pienamente
raggiunta la prima, segue la seconda fase, chiamata “Socializzazione”, poiché caratterizzata dallo
spostamento attentivo verso particolari persona con cui intraprendere una relazione “unica”. Il
soggetto ha una maggiore consapevolezza della propria corporeità ed assumono pregnanza le
relazioni sociali. Quest’ultima fase corrisponde al periodo intercorrente tra i 6 ed i 18 mesi. Le altre
tre fasi saranno descritte in seguito. Esse sono state denominate dall’autore come:
“Individuazione”, “Identificazione” e “Consapevolezza della realtà”.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Il questionario viena compilato da professionisti esperti, attraverso l’osservazione del soggetto
valutato o attraverso un’intervista strutturata ai suoi caregivers. Il profilo stadiale emerge dalla
corrispondente presenza o assenza degli elementi caratterizzanti la specifica fase . Ad ogni livello
di sviluppo evolutivo sono stati identificati caratteristici comportamenti, bisogni emozionali di base,
ed eventuali disturbi psicopatologici.
La psicopedagogia dello sviluppo psico-sociale può migliorare le procedure diagnostiche in
quanto permette di comprendere l’evoluzione delle modalità di coping del soggetto, le sue
motivazioni e necessità emozionali. L’obiettivo primario dell’intervento è rivolto al miglioramento
della Qualità della Vita del paziente, ossia al benessere in tutte le sue aree di vita, e non soltanto
all’estinzione della psicopatologia.
3. Obiettivo
Verificare se il concetto multidimensionale di capacità adattive, come comunemente utilizzate
come criterio diagnostico, presenti una relazione significativa con lo sviluppo emotivo.
4. Partecipanti
Il campione casuale è costituito da 10 soggetti effetti da Trisomia 21 ed afferenti all’Ambulatorio
per i bisogni di Salute Mentale nella DI del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche
dell’Azienda Ospedaliera di Careggi, Firenze.
5. Procedura e strumenti
Congiuntamente al SAED è stata somministrata la Vineland (Scala di Comportamento Adattivo,
VABS) di cui è disponibile adattamento e standardizzazione italiana (a cura di Balboni &
Pedrabissi, 2003). Molteplici indagini hanno accertato che la versione italiana è contraddistinta da
ottime proprietà psicometriche (ad es., Balboni, Pedrabissi, Molteni, & Villa, 2001).
La Scala Vineland è un test normativo, di cui sono disponibili norme statistiche italiane che
consentono di convertire il punteggio grezzo conseguito dai soggetti in un punteggio ponderato
rispetto alla prestazione dei gruppi normativi italiani.
Essa si articola in 4 scale (Comunicazione, Abilità quotidiane, Socializzazione e Abilità motorie), a
loro volta costituite da 11 sottoscale. Ogni sottoscala è a sua volta suddivisa in cluster (composti
da 2 a 8 item) elencati in ordine evolutivo crescente. Oltre alle scale è possibile utilizzare la Scala
composta, che comprende tutte e quattro le scale del comportamento adattivo.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Nella presente indagine le risultanze del SAED sono state comparate con la Scala Vinaland, ossia
alla Scala Composta ed al Dominio Socializzazione.
6. Metodi di analisi dei dati
Al fine di poter confrontare i contenuti sottostanti alle due diverse Scale, i risultati ottenuti sono
stati dapprima trascritti sulla base del criterio sottostante la singola Scala (tab1.). In seguito è
stata confrontata sia la fase dello sviluppo emozionale, sottesa al costrutto teorico di Dosen (tab.
2.), sia le età emerse (tab.3). La significatività della relazione tra i punteggi ottenuti è stata
indagata attraverso il calcolo del chi quadro (χ2).
7. Risultati
Seppure con un numero limitato di soggetti, il confronto dei punteggi da loro conseguiti nelle Scale
Vineland, specifiche a determinate abilità adattive, con i punteggi ottenuti al SAED sembra
indicare una concordanza tra ognuna delle fasi dello sviluppo emozionale previste da Doesen con
le fasi dello sviluppo delle competenze adattive e sociali misurate dalla Scala Composta e dalla
Scala Socializzazione della Vineland.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
TAB 1. Comparazione Scale SAED e Scala Composta e Socializzazione Vineland (mettere tutto
in mesi e anni)
PAZIENTE
ETA’ SAED
Età
FASE
Scala
Composta Età
Socializzazione
VABS
VABS
3
29 mesi
1 anno e 10 mesi
3
31 mesi
<1 anno e 6 mesi
3
30 mesi
2 anni e 7 mesi
3
30 mesi
<1 anno e 6 mesi
SAED
1.
Da 18 a 36
mesi
2.
Da 18 a 36
mesi
3.
Da 18 a 36
mesi
4.
Da 18 a 36
mesi
5.
Da 3 a 7 anni
4
5 anni e 6 mesi
3 anni e 11 mesi
6.
Da 3 a 7 anni
4
5 anni e 6 mesi
5 anni e 5 mesi
7.
Da 3 a 7 anni
4
6 anni e 6 mesi
6 anni e 5 mesi
8.
Da 3 a 7 anni
4
6 anni e 6 mesi
6 anni e 9 mesi
9.
Da 7 a 12
5
10 anni e 6 mesi
9 anni e 5 mesi
5
8 anni e 4 mesi
10 anni
anni
10.
Da 7 a 12
anni
I primi quattro soggetti presenti nella tabella 1 hanno evidenziato un’età evolutiva compresa tra i
18 ed i 36 mesi, afferendo alla terza fase dello sviluppo emozionale. I soggetti hanno manifestato
un’età approssimativamente simile anche nelle capacità adattive. Sulla base del costrutto teorico
sottostante lo strumento SAED, tale fase dello sviluppo emozionale è chiamata “Individuazione”
ed è caratterizzata dall’uso del linguaggio e della parola “io”, nel tentativo di differenziarsi da altri e
di attirare l’attenzione, dalla ricerca dell’autonomia, la cui privazione provoca una forte ansia. Può
essere, inoltre, presente distruttività, irritabilità, irrequietezza, ostinazione e negativismo.
La concordanza stadiale SAED e VABS si è evidenziata anche per i secondi quattro pazienti,
rinvenibili in un’età compresa tra 3 e 7 anni ed ascrivibili nella quarta fase dello sviluppo
emozionale denominata “Identificazione”, che si realizza verso persone importanti, ed è connotata
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dalla formazione del super-io, dunque dall’accettazione delle regole di comportamento sociale di
altri importanti, dalla dipendenza verso questi ultimi, dal conflitto con l’autorità, dalla paura di fallire
e da una fantasia esagerata presente sia nelle modalità ludiche che nella comunicazione verbale.
Gli ultimi due soggetti risultano avere un’età, sia adattiva che emozionale, compresa tra i 7 ed i 12
anni. Questi sono collocabili nella quinta fase dello sviluppo emozionale, denominata
“Consapevolezza della realtà”, caratterizzata da una forte socialità, quindi dalla capacità di creare
rapporti cooperativi e legami amicali, ma anche dall’ansia sociale e dalla paura del disprezzo.
La maturazione del super-ego incide sul controllo dell’aggressività e sulla differenziazione affettiva
facendo sì che il soggetto provi senso di colpa, vergogna e senso di coscienza.
8. Analisi dei dati
Il confronto sulla base della fase di sviluppo emozionale corrispondente all’età rilevata è stato
compiuto collocando le età ottenute nella Scala Composta e nel Dominio Socializzazione della
Vineland.
Tab 2. Confronto tra fase SAED e relativa fase VABS per Scala Composta e Socializzazione
FASE
PAZIENTE
FASE
Scala
SAED
Comp
VABS
FASE
Soc.
VABS
1
3
3
3
2
3
3
2
3
3
3
3
4
3
3
2
5
4
4
4
6
4
4
4
7
4
4
4
8
4
4
4
9
5
5
5
10
5
5
5
Come è possibile notare già empiricamente, i dati nella maggior parte dei casi concordano.
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Per una lettura più agevole è possibile notare dalla tabella a doppia entrata come siano
sovrapponibili le fasi previste da Dosen e quelle relative alla Scala Composta della VABS (tab.
2.1.).
Tab. 2.1. Tabella a doppia entrata: fase SAED e Scala Composta VABS
FASE S. Composta VABS
FASE
3
SAED
3
4
4
Totale
4
4
4
4
4
5
Totale
4
4
2
2
2
10
Per quanto riguarda il confronto tra la rispettiva fase del SAED ed il Dominio Socializzazione si
possono notare soltanto due casi discordanti, seppure la fase rilevata sia attigua a quella
riscontrata da Dosen (tab. 2.2.)
Tab. 2.2. Tabella a doppia entrata: fase SAED e Dominio Socializzazione VABS
FASE S. Composta VABS
FASE
SAED
3
2
3
2
2
4
4
5
Totale
4
4
5
Totale
2
2
4
4
2
2
2
10
Tab. 2.3. Chi quadro per Fase SAED e Scala
Composta VABS
Tab. 2.4. Chi quadro per Fase SAED e
Socializzazione VABS
Symmetric Measures
Symmetric Measures
Nominal by Nominal
Interval by Interval
Ordinal by Ordinal
N of Valid Cases
Contingency Coefficient
Pearson's R
Spearman Correlation
Value
,816
1,000
1,000
10
Asymp.
a
Std. Error
,000c
,000c
a. Not assuming the null hypothesis.
b. Using the asymptotic standard error assuming the null hypothesis.
c. Based on normal approximation.
Approx. Sig.
,000
Asymp.
a
b
Value Std. Error Approx. T Approx. Sig.
Nominal by Nominal
Contingency Coefficient ,816
,003
Interval by Interval Pearson's R
,943
,018
8,050
,000c
Ordinal by Ordinal Spearman Correlation ,973
,030
12,000
,000c
N of Valid Cases
10
a. Not assuming the null hypothesis.
b. Using the asymptotic standard error assuming the null hypothesis.
c. Based on normal approximation.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Nell’esame categoriale è stato possibile notare come i due test siano fortemente relati, con un
valore di correlazione di 1 per ciò che concerne il legame tra SAED e la Scala Composta VABS
(tab. 2.3) e di .94 tra SAED ed il Dominio Socializzazione della Vineland. In entrambi i casi il livello
di significatività è inferiore a .000c , pertanto è possibile affermare che, malgrado le due Scale
siano diverse, misurano lo stesso costrutto.
Risultati analoghi sono emersi anche dal confronto tra l’Età, corrispondente in anni (tab. 3).
Questa è stata ottenuta calcolando il punto medio per ogni fase SAED ed approssimando per
difetto da 0 a 5 mesi e per eccesso da 6 a 11 le Età emerse dalla Scala Composta e dal Dominio
Socializzazione presente nella Vineland.
Tab 3. Confronto tra Età SAED e relativa Età VABS per Scala Composta e Socializzazione
PAZIENTE
Età
SAED
Età Scala
Comp.
VABS
Età Scala
Soc. VABS
1
2
2
2
2
2
3
2
3
2
3
3
4
2
3
2
5
5
6
4
6
5
6
5
7
5
7
6
8
5
7
7
9
9
11
9
10
9
8
10
Anche in questo caso il confronto è stato eseguito attraverso il chi quadro(χ2), distinguendo i
punteggi ottenuti dai soggetti nella Scala Composta rispetto a quelli ottenuti nel Dominio
Socializzazione.
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Tab. 2.3. Chi quadro per Età SAED e Scala
Composta VABS
Tab. 2.3. Chi quadro per Età SAED e
Socializzazione VABS
Symmetric Measures
Asymp.
a
b
Value Std. Error Approx. T Approx. Sig.
Nominal by NominalContingency Coefficient ,816
,029
Interval by Interval Pearson's R
,943
,030
8,033
,000c
Ordinal by Ordinal Spearman Correlation
,952
,021
8,764
,000c
N of Valid Cases
10
a. Not assuming the null hypothesis.
Symmetric Measures
Asymp.
a
b
Value Std. Error Approx. TApprox. Sig.
Nominal by Nominal
Contingency Coefficient,816
,130
Interval by IntervalPearson's R
,959
,025
9,543
,000c
Ordinal by OrdinalSpearman Correlation ,946
,025
8,232
,000c
N of Valid Cases
10
a. Not assuming the null hypothesis.
b. Using the asymptotic standard error assuming the null hypothesis.
b. Using the asymptotic standard error assuming the null hypothesis.
c. Based on normal approximation.
c. Based on normal approximation.
Nel confronto tra le Età emerse dalle due Scale è possibile notare che il SAED non è la ripetizione
della stessa prova, ma sono due strumenti diversi. Rispetto sia alla Scala Composta che al
Dominio Socializzazione è emerso un valore di .94 per la prima e .96 per la Socializzazione con
una significatività di relazione inferiore a .000c. Dai risultati ottenuti, malgrado la ristrettezza del
campione è, dunque, ipotizzabile con un’elevata probabilità che i due test misurino lo stesso
costrutto poiché non si riscontrano differenze significative nei valori ottenuti.
9. Conclusione
Malgrado i limiti costituiti dalla ristrettezza del campione, è possibile affermare che la componente
dello sviluppo e della personalità, finora sottovalutate, rientrano nel concetto di adattamento.
Pertanto le capacità adattive sono dovute non solo alle abilità cognitive e sociali, ma anche a
quelle emotive ed evolutive. Essendo la personalità individuale data da molteplici fattori, è
indispensabile considerare il ruolo che lo sviluppo gioca nella patogenesi delle patologie dei
soggetti con DI pertanto, anche i problemi incontrati dal soggetto dovrebbero essere trattati con
una tipologia di intervento integrato, che tenga conto delle componenti evolutive, emotivorelazionali, delle specifiche necessità e strutturazioni ad essi connessi.
La valutazione degli aspetti psicosociali e dello sviluppo mostra avere ampie concordanze con i
test comunemente utilizzati con soggetti intelletivamente disabili.
Essa permette una conoscenza più approfondita del soggetto stesso, ossia del suo sviluppo
cognitivo, sociale, emozionale e della personalità, i suoi bisogni di base e le sue motivazioni.
Il comportamento dell’individuo, correlato ai fattori emersi, potrà essere dotato di un nuovo
significato e connesso all’interno di un quadro concettuale più ampio, pertanto anche la sua ad
attività o maladattività sarà in funzione del livello di sviluppo bio-psico-socio- emozionale. Un
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approccio integrato potrà, inoltre, agevolare la comprensione dei meccanismi di insorgenza della
sintomatologia.
Una diagnosi psichiatrica corretta non può prescindere dalla considerazione dei fattori evolutivi
attraverso cui si delineano gli aspetti psico-socio-emozionali e cognitivi che sincronicamente si
raggruppano tra loro nel delineare un determinato stadio evolutivo.
L’azione è il comportamento risultante dalle necessità emozionali, che strutturano le motivazioni
individuali e ne determinano le attività dirette all’obiettivo e le interazioni ambientali.
Malgrado i risultati ottenuti dalla presente indagine siano analoghi a quelli emersi dalle ricerche di
molti autorevoli autori operanti nel campo della disabilità intellettiva e si sia evidenziata
l’importanza della considerazione degli aspetti legati allo sviluppo evolutivo per una maggiore
accuratezza nella diagnosi e nel trattamento, spesso continuano ad essere usate unicamente le
classiche categorie diagnostiche descrittive fenomenologiche, legate principalmente al livello di
sviluppo cognitivo, senza integrare tale valutazione con le informazioni sulle caratteristiche
psicosociali e dello sviluppo.
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[21] Hollins S. (2001) Psychotherapeutic methods. In: Treating Mental
Illness and Behavior
Disorders in Children and Adults with Mental Retardation (eds. A. Dosen & K.Day) pp. 27 -44,
American Psychiatric Press, Washington DC.
[22] Jacobson, J.W. e Mulick, J.A. (1996). Definition of mental retardation. Manual of diagnosis
and professional practice in mental retardation. American Psychological Association, Washington,
DC.
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Associazione Erich Fromm – Un nuovo Umanesimo al servizio dell’uomo
“DALLA PARTE DELL’UOMO”
[23] Kay J. (2001) Integrated treatment: an overview. In: Integrated Treatment for Psychiatric
Disorders (ed. J. Kay) pp. 1-29. American Psychiatric Press, Washington DC.
[24] La Malfa, G. P., Cappelli, M. N., (3alassi, E, Linares, L., & Cabras, E L. (1991). L'intervento su
autonomia personage nel soggetto handicappato grave in un Centro Residenziale. Riabilitazione
Oggi,VIII, 6-9.
[25] Lowry M.A. (1998) Assessment and treatment of mood disorders in persons with
developmental disabilities. Journal of Developmental and Physical Disabilities 10, 387-406.
[26] Vonk J. & Egberts C. (1990) Counseling of mentally retarded children with emotional and
behavioral problems in a day care centre. In: Treatment of Mental Illness and Behavioral
Disorders in the Mentally Retarded pp. 201–207 Logon, Leiden.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
KABBALAH TRA CONSAPEVOLEZZA E STILE DI VITA
Claudia Palermo
Un po’ per formazione, un po’ per esperienza di vita, già mi ero accorta che non sono certo le
nostre qualità, i nostri talenti o la nostra parte buona a farci fare le esperienze più intense, ad
omaggiarci degli insegnamenti che restano.
Fondamentali piuttosto le porte in faccia. A patto però che ognuno di noi si assuma la
responsabilità delle proprie azioni e ne trattenga, senza piangersi addosso, il messaggio che
quell’esperienza porta con sé.
Ho sempre pensato che i nostri tratti caratteriali meno nobili facessero capolino in un particolare
momento, in una data situazione, per dirci qualcosa. E ne sono tutt’ora convinta.
Come sono convinta che le persone spirituali non siano quelle che lasciano tutto per andare in
India sotto un albero a meditare , o che recitino il S. Rosario tutte le mattine,ma siano piuttosto
quelle che “restano” a lottare nella “banalità” del quotidiano, con le bollette da pagare, i bambini
che strillano, il tempo che non basta mai e il letto ancora da rifare.
Qualche anno fa, quando studiai Rudholph Steiner, ricordo più di tutto fui colpita da un concetto
chiave: tutte le volte che soffri è perché ti stai intestardendo su qualcosa.
Sarà …..
In realtà con gli anni non solo ho realizzato quanto fosse vero ma ho compreso che il processo di
trasformazione dell’individuo transita necessariamente da due stazioni: o la sofferenza o la
trasformazione spirituale.
Non esistono altre possibilità.
Certo avere fede aiuta. Ma cosa significa avere fede? E in chi riporla? Aver fede significa avere
fiducia e in chi riporla, innanzitutto in noi stessi.
Dio non ha mai creato la religione, piuttosto essa appartiene agli esseri umani, alla storia.
E questa “invenzione” non ha portato che guerre, odio, separazioni. Per quanto sia tragico
ammetterlo , è stato versato più sangue in nome della religione di quanto siano riusciti a fare tutte
le malattie e i crimini messi insieme (Yeuda Berg - “I 72 nomi di Dio”).
Quando si parla di sofferenza, non servono spiegazioni, ci si intende sempre.
Quando varchiamo la soglia della spiritualità ci si confonde un tantino. Spesso il fraintendimento si
genera proprio perché si associa spiritualità a religiosità e ci si perde in labirinti senza uscita.
La spiritualità vera trascende differenze geografiche, barriere e sistemi di credenze che da
sempre caratterizzano l’Umanità.
La parola d’ordine è incondizionatamente.
Si tratta sempre e comunque di una faccenda personale. E’ un percorso che inizia e non finisce.
Ho trovato conferma circa le mie convinzioni nello studio della Kabbalah.
Dicono che ci si arriva verso i quarant’anni e così a me è successo.
Mi capitava di imbattermi in un articolo, in un libro, in qualcun che ne sapeva qualcosa e mossa
dalla “curiosità” ho cominciato a leggere dopodichè ho preso contatti con il Kabbalah Centre di
Londra e Tel Aviv, volevo capire meglio.
Così è iniziato il mio viaggio di conoscenza e consapevolezza e mille e mille volte mi sono trovata
a dire, leggendo un testo o confrontandomi con la mia insegnante:”E’ vero, lo sapevo già!”.
In effetti la Kabbalah non mi ha insegnato nulla che non sapessi già, che non fosse già dentro di
me, semplicemente mi aiuta ad attivare le mie risorse. Si tratta di uno strumento spirituale antico
quanto il mondo ma che non richiede null’altro che azione per rendere accessibili i benefici che
rende.
Nella vita capire come funzionano le cose aiuta.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
E allora forse affrontiamo anche meglio le prove che “all’improvviso” ci si materializzano davanti;
le sfide che ci visitano di tanto in tanto.
Nulla succede per caso. Qualsiasi evento, circostanza, esperienza o persona che capita nella
nostra vita ha un significato preciso.
Soprattutto quelle meno piacevoli. Qualcuno potrebbe pensare ad un atteggiamento zen, a un
gran self control. Niente affatto.
E’ il risultato derivato dalla consapevolezza che ci conferisce un miglior baricentro, che ci porta a
fare la cosa giusta nel momento più opportuno.
Certo non è sempre un viaggio in prima classe.
Occorre contattare le nostre paure, il nostro ego, il dubbio e molto ancora. Ma ne vale la pena.
Cambia la qualità della vita. “All’improvviso” non mi arrabbio più se qualcuno mi taglia la strada o
mi fa un torto, perché ne comprendo il significato.
I cabalisti dicono che nella vita non bisogna né subire né farsi giustizia. C’è una giustizia al di
sopra delle cose e delle persone che è in grado di ripristinare gli equilibri, basta affidarsene.
Non voglio dire che la Kabbalah sia la chiave di lettura per definizione ma sicuramente una
filosofia di vita che ci rende migliori, più consapevoli e in grado di apprezzare quello che la vita
stessa ci offre.
E se qualcuno la incontra … buon viaggio!
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
IL LIBRO DI ALICE
Silvia Benedetti
Questo testo, destinato ad alunni delle scuole Elementari, è nato in seguito alle campagne
d’informazione che si svolgono negli USA, per informare i bimbi rispetto ad alcune gravi patologie,
in questo caso parliamo di quelle cerebrovascolari.
Infatti, mettere a conoscenza i bimbi riguardo ai sintomi di tali malattie fa sì che essi diventino i
primi soccorritori o che perlomeno allertino gli adulti.
L’ictus è una malattia invalidante, ma se essa è curata entro le prime tre ore, possiamo ridurre i
deficit che possono addirittura essere nulli.
Questo testo, in veste gradevole e accattivante, racconta la storia di una bimba, ALICE, il cui
nonno ha difficoltà a muovere le mani, le gambe e a parlare. La famiglia non sa quali iniziative
intraprendere e alla fine decide di chiamare il 118.
Questo intervento compiuto velocemente dal personale del 118, che telefonicamente è informato,
dai familiari, rispetto ai sintomi, permette al nonno di giungere in ospedale con celerità e di
effettuare la trombolisi venosa. Questo fa sì che il paziente non abbia deficit correlati all’evento
ischemico.
Nelle pagine seguenti del libro sono elencati gli stili di vita sani per evitare altri attacchi.
Nelle ultime pagine, infine, sono presenti alcune indicazioni pratiche, vale a dire cosa osservare
rispetto ai sintomi.
Al termine ci sono alcuni giochi come cruciverba e scritte da colorare.
Nella penultima pagina c’è un questionario per i genitori ed uno per i bambini, formulato su scala
Likert, con tre variabili di risposta molto, abbastanza, poco.
Si chiede ai genitori se questo testo ha fornito informazioni utili, se ha colmato alcune loro lacune,
se hanno affrontato l’argomento con il loro bambino e qual è il loro giudizio complessivo( ottimo,
buono, sufficiente).
Ai bimbi invece si chiede con le solite modalità della scala Likert (molto, abbastanza, poco) se gli
è piaciuto il libro, se hanno imparato qualcosa di nuovo, se si sono spaventati, se ne hanno
parlato con gli amici.
Sono stati distribuiti nelle scuole pistoiesi 3465 testi, sono state rese 357 schede.
Sono stati analizzati i dati, con i seguenti risultati.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Alla prima domanda i genitori hanno risposto che il libro aveva fornito informazioni utili: il 37%
molto, il 50% abbastanza, 4% poco.
Alla seconda se aveva colmato delle lacune: molto il 40%, abbastanza 16%, poco 4%.
La successiva domanda chiedeva se avevano affrontato l’argomento con il loro bambino e hanno
risposto: 26% abbastanza, 44% molto, 24% poco, 6% non risponde.
L’ultima chiedeva la formulazione di un giudizio complessivo: 23% ottimo, 37% buono, 4%
sufficiente, 4% non risponde.
Anche i bambini hanno risposto:
Alla prima se gli era piaciuto il testo: molto 66%, abbastanza 25%, poco 3%, non risponde 6%.
Gli è stato chiesto inoltre se avevano imparato qualcosa di nuovo: molto 35%, abbastanza 23%,
poco 6%, non risponde 4%.
Era importante sondare se si erano spaventati e hanno risposto: molto 2%, abbastanza 12%,
poco 47%, 7% non risponde.
L’ultima chiedeva se ne avevano parlato con gli amici: molto 8%, abbastanza 13%, poco 41%,
non risponde 6%.
Da questi dati possiamo fare alcune deduzioni soprattutto riguardo ai bimbi.
Sono stati disponibili ad apprendere, non si sono spaventati, hanno messo in comune i contenuti
che avevano appreso.
L’obbiettivo che c’eravamo posti, in altre parole sensibilizzare i piccoli ed i loro genitori è stato
conseguito.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
RIFLESSIONI SUL FILM-DOCUMENTARIO:
“FRANK GEHRY. CREATORE DI SOGNI” di S. Pollack
Rachele Sughi
Qualche giorno fa ho avuto l’occasione di riguardare, insieme ad un gruppo di miei studenti, il filmdocumentario “Frank Gehry. Creatore di sogni”. Il film, diretto da S. Pollack, è parte del
programma del corso che tengo sulla “Storia del design e dell’architettura del 20°-21°secolo”
perché lo ritengo particolarmente interessante soprattutto per chi fa, o farà, il “creativo” di
professione.
Pollack, attraverso la sua telecamera, ed il suo punto di vista ( il punto di vista di chi non conosce
l’universo del “fare architettura”), riesce a farci entrare, insieme a lui, in questo pianeta
sconosciuto. E, insieme a lui, scopriamo non solo la straordinaria personalità di Frank Gehry, ma
anche un fare e progettare architetture quanto mai originale ed affascinante.
DISNEY CONCERT HALL, modello (2003)
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Gli edifici di Gehry, infatti, non nascono sul foglio bianco, bensì prendono forma tra le sue mani.
Come un vero e proprio “artigiano di architetture”, le sue mani creano forme, volumi, dai materiali
più disparati: carta, cartone, plastica, legno, ecc. Mani che modellano, plasmano, fondono la
materia, che rinasce, e rivive quasi magicamente. Dai materiali più semplici, ordinari, Gehry è
capace di creare lo straordinario. E guardando i suoi edifici ti convinci proprio di questo: l’essere
umano è in grado di realizzare l’impossibile.
Il Disney Concert Hall di Los Angeles, il museo Guggenheim di Bilbao, “Ginger & Fred” di Praga, il
Weisman Art Museum di Minneapolis, la Foundation Louis Vuitton pour la création di Parigi (di
prossima costruzione), tutte queste opere architettoniche ci mostrano, e dimostrano, proprio
questo.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
“GINGER & FRED” dancing house,
Praga (1992-95)
Il film-documentario dà particolare rilievo ad una figura che ha svolto un ruolo fondamentale nella
vita dell’architetto canadese: il dottor Milton Wexler.
Wexler è stato psicoanalista di Gehry. Lo conosce da quasi 40 anni. E in questi 4 decenni, ha
visto e vissuto, da vero analista, le sue “trasformazioni”: il Gehry pieno di paure, insicurezze,
dubbi, frustrazioni, che prende lentamente fiducia nelle proprie capacità, prende consapevolezza
dei propri mezzi, comprende profondamente chi è. Il risultato è l’incredibile potenziale creativo
che, proprio grazie alla terapia, è riuscito a liberare. Una libertà totale che si mostra infatti appieno
nei suoi edifici, fuori dal tempo e da ogni possibile categoria.
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FREDERICK R. WEISMAN ART MUSEUM, Minneapolis (1993)
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WALT DISNEY CONCERT HALL, Los Angeles (2003)
Milton Wexler spiega nel film che il momento più importante per la carriera di Gehry, e per l’uomoGehry, è stato il passaggio dall’ “adolescenza” a l’ “età adulta”. Wexler ricorda di Gehry, fin dalle
primissime sedute, un modo di fare, un approccio verso il prossimo, quasi infantile. Un
atteggiamento, spiega, che si ritrova, tipico, proprio nel bambino: la seduzione. Gehry, quando
ancora non era Gehry, aveva un grande bisogno di riconoscimenti, di lodi, un bisogno profondo di
essere accettato come essere umano e come artista. Un bisogno che abbiamo tutti, potremmo
definirlo “primario”. In Gehry, continua Wexler, questo aspetto era talmente forte che, quando si
relazionava con eventuali “clienti”, egli utilizzava inevitabilmente l’arma della seduzione per
riuscire a “conquistarli”. Proprio come il bambino che desidera ardentemente un giocattolo e arriva
a sedurre la madre o il padre pur di averlo, pur di possederlo, così Gehry utilizzava lo stesso tipo
di meccanismo. In questo modo si lasciava andare ad atteggiamenti che in realtà non facevano
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parte del suo vero io. Si mostrava per quello che non era, pur di avere, possedere, l’oggetto del
suo desiderio: conquistare il cliente. Ma allora qual’è il problema ci potremmo domandare a
questo punto.
Il problema nasce quando questo meccanismo rimane “arma primaria” di conquista, anche in età
adulta. L’individuo che non è riuscito, attraverso l’educazione, i rapporti interpersonali, ecc., a
crearsi un io forte, un’autostima solida, avrà difficoltà in qualsiasi tipo di relazione. Avrà sempre
bisogno di conquistare la fiducia, la stima degli altri per compensare la mancanza della propria. E
questo significa rimanere, per sempre, ad una fase infantile del vivere. Ad una fase, però, dove
l’individuo è orientato unicamente verso se stesso, unicamente verso la soddisfazione del proprio
ego.
Questo, spiega ancora Wexler, col tempo, gli ha creato un crescente stato di frustrazione perché
non riusciva a mostrare ai clienti, ai colleghi, a se stesso, il vero Gehry. La psicoterapia lo ha
aiutato proprio in questo: a compiere il “salto”. Inizialmente un vero salto nel vuoto, perché
mostrare il proprio vero io, per la prima volta, significa sapere da dove si parte ma non sapere
dove si arriva. “Io mostro a te per la prima volta chi sono, ma tu mi accetterai? Rimarrai comunque
accanto a me? O scapperai?”
Il cambiamento, lo sappiamo, è sempre accompagnato da uno stato emotivo di paura. La paura
del mutare delle cose è insita nell’uomo. E’ la paura del vuoto... Gehry, grazie a Wexler, è riuscito
a fare il “salto”. Ha cominciato a mostrare ciò che era e chi era: un essere umano, con i suoi lati
più e meno belli, ma comunque un essere umano di valore. Un individuo come tutti gli altri con
una grandissima passione: creare edifici. Accettare di essere un architetto, accettare di avere un
grande talento, per Gehry è stata, forse, la cosa più difficile.
Una frase attribuita a Nelson Mandela dice: “Noi non temiamo la nostra debolezza, ma la nostra
luce, la nostra grandezza”.
Gehry ha mostrato e dimostrato di essere un grandissimo architetto, prima di tutto a se stesso. E
l’accettare questo gli ha permesso di fare il passo successivo: mostrarlo agli altri. Senza più
paure, con la solidità della ritrovata autostima.
Non c’era più bisogno, a questo punto, di sedurre i suoi clienti. L’arma della seduzione l’ha
lasciata insieme ai “giochi” di quando era bambino.
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FRANK GEHRY
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INSERTO
SUL FENOMENO
HIKIKOMORI
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
ANALISI DELLA PATOLOGIA DEI RAGAZZI GIAPPONESI HIKIKOMORI
DAL PUNTO DI VISTA OCCIDENTALE
Paolo Cardoso, Livia Cornelia Bernardoni, Giulia Casanovi.
Con la collaborazione dell’equipe del dott. Massimo Cecchi del SERT 2 di Firenze
1. Alcune considerazioni storiche e sociologiche sul Giappone
Prima di affrontare da un punto di vista psicologico la patologia dell’hikikomori occorre fare alcune
riflessioni di natura storico-sociologica. Noi siamo abituati a studiare le patologie psicologiche del
mondo occidentale nel loro contesto di sviluppo storico ed in relazione con la nascita e
mutamento dei miti.
L’evoluzione della coscienza e dei valori collettivi sono imprescindibili dall’analisi delle malattie
psicologiche.
La cultura occidentale e giapponese si sono sviluppate in contesti storici e sociali diversissimi e
questo ha prodotto, alla fine, una coscienza storica e morale lontanissime tra di loro.
In questa prospettiva storica noi pensiamo che più significativo del cambiamento del periodo Meji,
sia stato quello avvenuto alla fine del secondo conflitto mondiale.
Lì vi fu un inserimento, a nostro giudizio, anche molto forzato degli Stati Uniti, di valori morali e
qualitativi assolutamente estranei al mondo culturale giapponese di allora, sino ad arrivare ad
ipotizzare, come hanno fatto i prof. Mizuno e Rizzoli, che ”tutta una generazione post-bellica, in
una massiccia identificazione con l’aggressore, si rivolse all’America.”9
Vi fu l’importazione e forse l’imposizione di valori, tradizioni, mode tipiche del mondo occidentale.
Molti giovani, anche per un normale rifiuto generazionale dei valori di quelle precedenti, vi si
uniformarono, così come furono accettati dalla generazione che aveva fatto la guerra perché
travolta dai sentimenti di vergogna per la sconfitta e forse con una voglia di girare pagina su una
struttura civile e culturale troppo legata ad un “Dai Nippon” ormai scomparso.
Certo giocò anche molto la necessità di adottare stili di vita e di produzione per uniformarsi alle
logiche ed alle leggi di un mercato economico nuovo e diversissimo, ma che offriva grandi
possibilità di crescita al Giappone.
9
Masafumi M., Rizzoli A. (1995). Introduzione alla psichiatria giapponese. Quaderni italiani di psichiatria 14(5).
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Il sogno di grandezza si poteva realizzare non con strumenti bellici, ma con la dedizione totale ed
assoluta al progresso tecnologico ed al mercato.
La frustrazione della sconfitta poteva essere superata attraverso uno sviluppo economico che
avrebbe portato il Giappone a divenire uno dei più importanti produttori di tecnologie avanzate del
mondo.
Per far ciò occorrevano giovani qualificatissimi da un punto di vista della preparazione
tecnologica. Ciò impose durissimi criteri di selezione, prima a scuola e poi nel mondo del lavoro.
Ne fu profondamente modificato il modello familiare. Il babbo divenne persona sempre più
assente nella vita familiare perché assorbito totalmente dal lavoro. Basta pensare al tempo
necessario per lo spostamento casa-lavoro-casa e le moltissime ore dedicate al lavoro per
rendersi conto che il tempo trascorso con la famiglia diveniva davvero poco e in ogni caso, a quel
punto, il genitore era stanco e poco disposto a dedicarsi ai problemi dei figli. Un altro fenomeno
interessante da valutare è che in quel periodo aumentano i figli unici, novità rispetto a modelli
familiari dove nelle famiglie vi erano sempre diversi figli. Questo, infatti, è il classico modello
familiare presente nelle civiltà dove l’attività economica preminente é quella contadina.
Tutto ciò ha ingenerato un cambiamento profondo nel rapporto di amae tra la madre ed il figlio,
spesso unico, che alla fine diviene patologico, per un eccesso d’attenzioni e d’aspettative.
I grandi sacrifici fatti dalle famiglie per dare ai figli la possibilità di accedere a scuole prestigiose e
l’enorme sforzo richiesto ai ragazzi per dare buoni risultati scolastici ha finito per travolgere gli
anelli più deboli.
Se si considera poi la storica diffidenza della cultura giapponese verso gli psichiatri e gli psicologi,
dovuta forse al fatto che chi vi faceva ricorso era visto da tutti solo come un matto, si capisce
perché il fenomeno, all’inizio, sia stato forse sottovalutato e poco studiato.
Ciò forse spiega lo strano approccio tenuto verso l’insorgere di problemi psicologici negli
adolescenti, che scaturiranno poi in gravi patologie, almeno per noi occidentali, tutti gli sforzi
erano posti nel cambiare i “comportamenti” e gli interventi erano mirati sulla famiglia per far sì che
il ragazzo potesse essere reinserito al meglio nel processo di studio.
2. Una descrizione della patologia “hikikomori”
Il termine “Hikikomori”, sindrome che colpisce ormai molti adolescenti giapponesi, è stato
frequentemente tradotto con quello di “social with-drawel” (ritiro sociale).10
10
Adams R. (2004). Hikikomori / Otaku Japans Latest Outgroup.
http : //scholar.google.com/Hikikomori/Otaku Japans latest Outgroup.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Molti dei giovani affetti da “Hikikomori” condividono alcuni aspetti patologici con chi soffre di “taijinkyofu-sho”. Quest’ultima patologia consiste fondamentalmente nel mostrare un sentimento di
vergogna e forte timidezza alla presenza degli altri.11
Nell’aprile del 2003 il governo giapponese ha reso pubblico un primo studio su tale fenomeno. È
stato definito “Hikikomori” chiunque si sia completamente ritirato dalla società per più di 6 mesi. In
12 mesi (durata della ricerca) i casi segnalati dai servizi psichiatrici sono stati 6151 (40% tra i 16 e
i 25 anni – 21% tra i 25 e i 30 – 8% chiusi in una stanza per 10 anni o più).12
Dal punto di vista comportamentale si possono evidenziare una serie di atteggiamenti che
consistono prevalentemente nel negare qualsiasi tipo di contatto con la società; tra questi risalta il
rifiuto della scuola. Decidere di non andare più a scuola sembra essere il passo principale per
sprofondare nella patologia dell’“Hikikomori”. In effetti, sono in molti ad esibire un atteggiamento
d’avversione verso la scuola (“school refusal syndrom”).
L’assenza si prolunga per settimane o per mesi interi, il contatto con gli altri studenti appare
difficile in quanto fonte d’enorme disagio attribuibile probabilmente a capacità sociali poco
sviluppate.13
Un altro tipico comportamento è quello di rinchiudersi nella propria camera. In seguito a ciò,
spesso è alterato il ritmo sonno–veglia e le attività sono svolte durante la notte, mentre il giorno è
utilizzato per dormire. Gli unici interessi divengono i videogame, la televisione e l’utilizzo di
internet ed in particolare le chat-lines.
Chi è affetto da “Hikikomori” si differenzia, per esempio, da chi soffre di “Otaku” (giovani che
condividono una comune ossessione verso persone famose od oggetti) per il modo d’approccio ai
media.
Mentre l’ “otaku” divora i media come una forma di sapere sul proprio oggetto d’ossessione e
come un modo per diventare parte di un gruppo, l’ “Hikikomori” usa invece i media come una
forma d’evasione dalla realtà. Da una parte la televisione permette loro di avere notizie del mondo
senza essere osservati o controllati. Dall’altra i videogame rappresentano un passatempo che non
implica nessun coinvolgimento personale o interazione umana. Sebbene molti “Hikikomori” usino
11
Nakamura K. et al. (2002). The neurotic versus delusional subtype of taijin-kyofu-sho : Their DSM diagnoses.
Psychiatry and Clinical Neurosciences, 56, 595-601.
12
Watts J. (2002). Public health experts concerned about “hikikomori“. The Lancet, 359, 1131.
13
Letendre G. (1996-1997). Youth and Schooling in Japan: Competition with peers. Berkeley Journal of Sociology: A
critical Review, 41, 103-136.
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internet per comunicare, anche in questo caso si tratta pur sempre di una forma di comunicazione
che non comporta nessun contatto umano reale.14
Si presuppone che l’uso diffuso e sproporzionato del computer e della televisione nel Giappone
post-moderno abbia contribuito in parte all’aumento e allo stabilizzarsi di diverse patologie, come
l’ “Hikikomori” e il già citato fenomeno dell’ “Otaku”.
Ultimamente alle persone affette da “Hikikomori” sono frequentemente associati episodi di
violenza adolescenziale. Ma gli psichiatri giapponesi affermano invece che la maggior parte di
questi giovani esibiscono semplicemente dei comportamenti anti-sociali, ma non sono violenti.15
Va sottolineato che la reazione della società giapponese è sicuramente influenzata dai media che
propongono un’immagine di queste persone come rappresentanti del più inquieto ed enigmatico
gruppo di devianti. Di conseguenza si produce un innalzamento della paura del fenomeno che
causa nei genitori degli Hikikomori una grossa incertezza riguardo alle modalità più idonee da
attuare nell’interazione con i propri figli.16
3. Analisi delle possibili cause del fenomeno “hikikomori”
1.2 La società giapponese e il suo sistema d’educazione
È difficile definire con precisione le ragioni per le quali molti adolescenti soffrono di Hikikomori, ma
si può riprendere il discorso iniziale sull’analisi storica della società giapponese e dall’importanza
che ancora oggigiorno in Giappone riveste l’educazione.
Un tempo, la tradizionale famiglia giapponese, raffigurata come famiglia allargata, era fortemente
inserita nel tessuto della comunità e assolveva oltre alle funzioni socio-economiche importanti
attività religiose, essendo stata fonte d’educazione alla moralità e spiritualità.
La recente modificazione demografica, l’urbanizzazione e la trasformazione delle famiglie
allargate in nuclei di case ha portato a dei cambiamenti nelle relazioni intra-familiari. Inoltre, è la
classe media (New Middle Class), cioè persone che appartengono a singoli nuclei famigliari e che
vivono nelle città, ad essere soggetta a sviluppare maggiori disagi di civilizzazione.
14
Adams R. (2004). Hikikomori / Otaku Japans Latest Out-Group.
http://scholar.google.com/Hikikomori/Otaku Japans latest Out-Group.
15
Masataka N. (2002). Early-Education-Development. Low Anger-Aggression and Anxiety –Withdrawal Charateristic to
Preschoolers in Japanese Society with “Hikikomori“ is Becoming a Major Social Problem, 13(2), 187-199.
16
Adams R. (2004). Hikikomori / Otaku Japans Latest Out-Group.
http://scholar.google.com/Hikikomori/Otaku Japans latest Out-Group.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Paragonato alla famiglia tradizionale, il nucleo familiare attuale è rappresentato come libero dal
controllo di stato e comunitario ma il suo rafforzamento sociale risulta indebolito, ed è pertanto
percepito come fragile e patologico soggetto a frequenti episodi di suicidio.
I valori tradizionali sono stati tuttavia accantonati anche dal processo d’occidentalizzazione (Hightech
culture).
Quest’ultimo
sembra
basarsi
principalmente
sul
comfort
materialistico,
sull’individualismo e su un’aspirazione auto-centrata: l’enfasi è posta sul proprio successo e sulla
realizzazione dei desideri personali in opposizione al sacrificio di se stesso al fine di aumentare il
benessere della società giapponese. È in ogni caso presente una forte cultura giapponese del
gruppo che dovrebbe garantire stabilità economica e sociale.17
Per quanto concerne invece l’educazione, si può chiaramente individuare una concezione
moderna del “bambino buono” e del “bambino cattivo” che trova le sue origini nella cultura
tradizionale giapponese. Qui il bambino buono, chiamato “sunao” (obbediente, cooperativo e che
dimostra un comportamento di compliance), era associato a delle caratteristiche severe. Esso era
descritto come gradevole piuttosto che assertivo e aggressivo, più passivo e dipendente invece
che autonomo e che partecipa ansiosamente alle attività collettive. Ancora oggi, la cooperazione
sociale raffigurata dall’individuo “sunao” equivale ad un atto d’affermazione del sé. Il particolare
accrescimento psicologico che i giapponesi sperimentano durante le cooperazioni sociali, è ben
noto: essi si sentono particolarmente vivi solo all’interno di un gruppo e il loro Sé si sente
fortemente appagato in compagnia di altri.
A partire dall’importanza psicologica, sociale ed economica del gruppo nella società giapponese,
non sorprende che un bambino che non è “sunao” sia visto come bambino cattivo, che rifiuta
l’arricchente vita del gruppo. Esso dunque è considerato un fallito che non solo elude le attese
della società ma anche quelle genitoriali.
Riassumendo sono due gli scopi fondamentali dell’educazione.
Il primo scopo è quello di produrre un bambino capace di eseguire i compiti (soprattutto scolastici)
ed è correlato, dal punto di vista giapponese, al ruolo centrale delle qualità di perseveranza e
persistenza.
Di conseguenza, ci si può aspettare che i bambini giapponesi che sono portati ad abbandonare
più facilmente gli obiettivi o a fallire nel tentativo di realizzare i propri scopi, saranno etichettati
come devianti da parte dei compagni e degli adulti.
17
Lock M. (1991). Flawed Jewels and National Dis/Order: Narratives on Adolescent Dissent in Japan. The Journal of
Psychohistory, 18 (4), 507-531.
58
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Il secondo scopo consiste invece nella realizzazione di un bambino capace di contribuire a
relazioni armoniose nel gruppo.
Diversi psicologi e sociologi giapponesi si sono pronunciati sui temi di devianza giovanile
individuando come cause del disagio l’insufficiente indipendenza, la paura di rimanere indietro, la
trasformazione da bambino buono a bambino cattivo e l’intensificata, spesso contorta, relazione
fra madre e figlio provocata dall’assenza forzata del padre-lavoratore.
In effetti, il disagio degli adolescenti è fonte di particolare preoccupazione a livello nazionale, visto
che essi rappresentano il futuro del paese.
Analizzeremo ora più attentamente le dinamiche intra-familiari e in particolare le attese genitoriali.
Le qualità che i genitori giapponesi spesso si aspettano dai propri figli sono innanzi tutto
l’autocontrollo delle emozioni, l’obbedienza e l’indipendenza. Tali abilità sono considerate la base
per poter realizzare il proprio successo.
I compiti fondamentali che i bambini devono assolvere consistono in primo luogo nella
padronanza del regime di base della vita di tutti i giorni, vale a dire saper curare la propria salute,
praticare la propria igiene e organizzare il proprio ambiente. In secondo luogo è indispensabile
che il proprio figlio realizzi un’eccellente carriera scolastica che gli permetta di ottenere uno status
professionale e sociale elevato, soddisfacendo così l’orgoglio genitoriale.
Da ciò si deduce la presenza di una rilevante pressione psicologica che può portare allo sviluppo
di dinamiche intra-familiari, controproducenti per la crescita emotiva e l’adeguato raggiungimento
delle abilità cognitive e sociali del figlio.
Una madre giapponese è poi incoraggiata, attraverso persistente pressione sociale (parenti,
amici, vicini di casa, insegnanti) a seguire un’educazione che la identifichi come la prima e più
significativa figura responsabile della “creazione” di un bambino giapponese cooperativo e
compiacente.
L’eccessivo attaccamento alla madre può derivare da uno smisurato accrescimento da parte del
bambino di un sentimento particolare di dipendenza, conosciuto in Giappone con il termine di
“amae”. Il concetto di “amae” è considerato la chiave d’accesso per capire fino in fondo le
relazioni interpersonali giapponesi. La parola “amae” è il sostantivo del verbo transitivo “amaeru”
che significa “dipendere e presumere la benevolenza dell’altro”.
Per esempio, il bambino che chiede con insistenza alla madre la preparazione di uno snack si
aspetta di essere servito subito affidandosi alla benevolenza materna. La madre giapponese,
anche se per ragionevoli motivi si mostrerà contraria, preparerà lo snack desiderato in modo da
59
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indulgere ai bisogni di “amae”del bambino. Cresciuti in un’atmosfera di “amae”, i bambini
giapponesi imparano la gioia e la sicurezza di dipendere dall’amore e dalla benevolenza altrui.18
La “moderna madre” giapponese sembra incontrare tuttavia una serie di difficoltà per lo più legate
all’assenza della figura educativa paterna, alla frequenza da parte del figlio di un sistema
scolastico rigido e competitivo e ad un senso di solitudine marcato. Di conseguenza si assiste
soventemente ad un atteggiamento di protezione che tende a regolare in maniera eccessiva la
vita del proprio figlio spesso idealizzato e detentore di una serie d’aspettative.
1.2 L’ambiente scolastico
Un altro aspetto fondamentale da considerare riguarda la forte competizione e le dinamiche ad
essa collegata che s’instaurano all’interno dell’ambiente scolastico.
Il bambino buono, ora in Giappone, è il bravo studente, perché chi ottiene buoni risultati scolastici
è volentieri indirizzato verso delle opportunità lavorative importanti. Comparato con altre nazioni il
passaggio dalla scuola al lavoro appare altamente basato sulla meritocrazia.19
Il presupposto per completare il curriculum scolastico con successo sembra correlato al precoce
processo della socializzazione, ed è responsabilità della madre, che tenendo un atteggiamento
indulgente rispetto ai bisogni dei propri figli, fornisce la base per un loro comportamento
adeguato.20
Come accennato sopra, in Giappone i genitori enfatizzano l’importanza dell’empatia, degli obblighi
e di venire incontro alle attese altrui. I bambini giapponesi sono pertanto scoraggiati ad esprimere
i loro desideri, ma dipendono invece dagli altri per soddisfare i propri bisogni.
Questo tipo d’atteggiamento, radicato nella cultura giapponese, potrebbe essere messo in
correlazione con la gran difficoltà che i giovani affetti da “Hikikomori” hanno nell’esprimere la
propria vergogna, il loro senso d’inadeguatezza, e l’impossibilità di comunicare direttamente il
proprio disagio.21
18
Crystal D. (1994). Concepts of deviance in children and adolescents: The case on Japan. Deviant Behavior: An
Interdisciplinary Journal, 15, 241-266.
19
Op. cit.
20
Lock M. (1991). Flawed Jewels and National Dis/Order: Narratives on Adolescent Dissent in Japan. The Journal of
Psychohistory, 18 (4), 507-531.
21
Masataka N. (2002). Early-Education-Development. Low Anger-Aggression and Anxiety –Withdrawal Charateristic
to Preschoolers in Japanese Society with “Hikikomori“ is Becoming a Major Social Problem, 13(2), 187-199.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Il bambino cattivo, al contrario, è individuato nello studente insufficiente e/o incapace di
raggiungere dei buoni risultati a scuola e che vede ridotta, d’anno in anno, la propria possibilità di
entrare in un’università prestigiosa. L’alto valore attribuito alla realizzazione degli obiettivi
scolastici porta tanti genitori giapponesi, e soprattutto le madri, ad attivarsi in ogni modo per
accrescere l’opportunità dei loro figli ad intraprendere un percorso accademico eccellente.
Quando il desiderio di un tale figlio - modello non si avvera, il ragazzo è considerato cattivo e
trova a sua volta numerosi, e qualche volta distruttivi, modi per resistere alle pressione dei
genitori.22
Storicamente parlando, il Giappone possiede un sistema di controllo scolastico altamente
centralizzato e repressivo, atto a reprimere eventuali conflitti presenti. Tuttavia oggigiorno si sono
verificate nelle scuole, dei singoli episodi di violenza, durante i quali i giovani sembrano rivestire
un ruolo principale nell’attaccare in maniera aggressiva l’ordine prestabilito. Frequentemente il
modo di reagire alle pressioni dell’ambiente scolastico consiste nello sviluppo di forti sentimenti
anti-scolastici e nel rifiuto di partecipare alle attività scolastiche.23
L’adattamento all’ambiente scolastico è pertanto difficoltoso e, di solito, i giovani preferiscono
mettere in atto un forte controllo emotivo, smorzando così le emozioni negative che sorgono
durante i conflitti interpersonali. Di conseguenza lo stress può portare, sia al non fare il proprio
dovere, che ad un aumento costante della propria preoccupazione.
Si presume che la negazione del conflitto porti ad un minor bisogno di esprimere la propria
aggressività e che tale tendenza interiore possa essere associata al fenomeno degli “Hikikomori”.
Probabilmente questa tendenza è collegata alla precoce articolazione del senso d’uguaglianza fra
l’io e gli altri, a partire dallo sviluppo del senso di “essere un tutt’uno” nella specifica relazione fra
madre e bambino.24
I fenomeni del “drop-out” e della sindrome del “school refusal” sono stati evidenziati come i
problemi in questo periodo più significativi. Questi studenti mancano dalla scuola per settimane o
mesi, esprimono un forte disagio, quando sono in compagnia d’altri studenti e indicano la loro
22
Crystal D. (1994). Concepts of deviance in children and adolescents: The case on Japan. Deviant Behavior: An
Interdisciplinary Journal, 15, 241-266.
23
Letendre G. (1996-1997). Youth and Schooling in Japan: Competition with peers. Berkeley Journal of Sociology: A
critical Review, 41, 103-136.
24
Masataka N. (2002). Early-Education-Development. Low Anger-Aggression and Anxiety –Withdrawal Charateristic
to Preschoolers in Japanese Society with “Hikikomori“ is Becoming a Major Social Problem, 13(2), 187-199.
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presenza come causa del proprio abbandono scolastico. E’ sostenuto che chi mette in atto
comportamenti di rifiuto verso la scuola, manchi spesso di capacità sociali adeguatamente
sviluppate. Lo stress avvertito dello studente in questione può essere inoltre ricondotto alla sua
incapacità di gareggiare adeguatamente, tenendo testa alla competizione.25
Il contesto scolastico, come evidenziato, non è ideale per tutti, c’è chi è soggetto a subire delle
prepotenze o chi “sta fuori” e non fa parte del gruppo, rivelandosi in ambedue casi come
particolarmente vulnerabile. Il tema della prepotenza (“Ijime”) come forma d’aggressione sociale
sta innescando in Giappone una serie di preoccupazioni.
Nel passato la prepotenza consisteva in uno scontro "uno contro uno" nel quale il bambino
fisicamente più dotato prendeva qualche oggetto o infliggeva un qualche comportamento
umiliante al bambino debole.
Oggigiorno la nuova prepotenza si realizza a partire da uno studente che non è particolarmente
forte dal punto di vista fisico e ottiene solo dei risultati accademici che stanno nella media. Vi sono
varie forme di prepotenza, all’interno del mondo scolastico, oggi in Giappone.
Una di queste è chiamata “shikato”, il fenomeno per il quale un gruppo di studenti decide di
ignorare e isolare un altro studente. In effetti, un quarto delle manifestazioni di prepotenza
riguardano varie forme d’esclusione e d’isolamento. In Giappone bisogna essere conforme alle
altre persone altrimenti si ha una sensazione di perdita, di vergogna e di disperazione. Tale
società è basata sulla collettività e ci si sente completamente a proprio agio o vivi solo quando ci
si muove all’interno di un gruppo. Per questo le relazioni fra i vari membri sono essenziali per la
sopravvivenza sociale. Gli ostracismi caratteristici dello “shikato” e d’altre forme di prepotenza
rappresentano dunque una crudele forma di punizione. A partire da questa prospettiva si può
capire, come gli isolamenti imposti da parte dei compagni, possono, in alcune circostanze, portare
un bambino giapponese a suicidarsi.
E’ specificato da Maniwa26 che l’esclusione, come l’“alienazione” di un insider è l’atto con il quale
un gruppo trasforma un suo membro in un alieno e lo etichetta perché lo definisce di natura
essenzialmente diversa dagli altri membri del gruppo. Lo stimolo che porta all’esclusione spesso è
molto banale, in pratica riguarda una differenza minima, e il brutale trattamento messo in atto
25
Letendre G. (1996-1997). Youth and Schooling in Japan: Competition with peers. Berkeley Journal of Sociology: A
critical Review, 41, 103-136.
26
Maniwa M. (1990). Nihonteki shudan no shakaigaku (The Sociology of Japanese Groups). Tokyo: Kawadeshobo.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
suggerisce che chi lo compie “de-umanizza” la vittima. Proprio a causa di questa “deumanizzazione” l’individuo isolato percepisce se stesso come degradato o in precinto di perdersi.
Ne consegue che l’esclusione dal gruppo equivale alla pena di morte.
Riassumendo, l’identità scolastica è così persuasiva, sia in termini d’accettazione dei compagni
sia in termini d’avanzamento sociale, che quelli che si trovano fuori dal sistema non hanno nessun
luogo dove vivere.27
Anche il fenomeno dell’”Hikikomori” pone un quesito che nasce dalle generali problematiche del
sistema educativo giapponese, che sembra proprio il suo catalizzatore maggiore. A partire
dall’asilo gli insegnanti organizzano i bambini in piccoli gruppi (“kumi”). Ogni gruppo resterà
insieme fino al raggiungimento del diploma. Tutte le attività come mangiare, studiare e giocare
sono svolti all’interno del proprio gruppo. Il sistema del “kumi” forma una forte base per un “noi” e
un “loro”. I bambini sviluppano un forte legame con il loro gruppo e non vogliono in nessun modo
essere tagliati fuori da esso. Di solito chi soffre di “Hikikomori” non è più accettato ed è
frequentemente espulso dal gruppo (“kumi”), egli ha quindi scelto di ritirarsi o perché si sente
rifiutato o perché si sente un fallito.
Questi ragazzi rappresentano delle difficoltà a socializzare con gli altri e a diventare un membro di
uno degli in-group presenti sia nella scuola che all’interno dell’Accademia. La prepotenza e
l’isolamento sono normalmente le ragioni maggiori per cui decidono di lasciare la scuola. Un
sentimento di “individualità”, in opposizione al sentimento dell’essere parte di un gruppo, può
causare in loro la sensazione di essere diversi e per questo sbagliati. Credono inoltre di avere
deluso la società o che la società abbia deluso loro. La ragione vera del loro assentarsi dalla
scuola non è dettato dalla considerazione che la scuola non li piace, ma dal fatto che non trovano
un posto per se stessi all’interno di essa. E’ inoltre affermato che essi sono poco efficienti, sia sul
piano accademico che su quello del sociale, e che si tratta spesso d’adolescenti, anche se non
esclusivamente, che hanno seguito un processo di maturazione verso l’essere adulto che si
differenzia dagli standard dalla cultura dominante.28
Sadatsugu Kudo, che gestisce un centro di ricovero per giovani afflitti da “Hikikomori”, fa notare
che il problema non sono le persone ritenute dei “Hikikomori”, ma più che altro il Giappone. Kudo
27
Crystal D. (1994). Concepts of deviance in children and adolescents: The case on Japan. Deviant Behavior: An
Interdisciplinary Journal, 15, 241-266.
28
Adams R. (2004). Hikikomori / Otaku Japans Latest Out-Group.
http://scholar.google.com/Hikikomori/Otaku Japans latest Out-Group.
63
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
commenta che la pressione per tutti d’essere uguali nella società giapponese causa la percezione
dell’esclusione per chi si comporta diversamente. E’ affermato da parte di molti esperti che i
giovani sofferenti di “Hikikomori” che si orientano verso la violenza non sono un numero
statisticamente indicativo. Molti di questi giovani esibiscono semplicemente dei comportamenti
anti-sociali, ma non sono violenti.29
Un approccio terapeutico giapponese: la Terapia Morita
Una delle terapie più aderenti alla cultura giapponese è quella elaborata dal Prof. Morita
Masatake, conosciuta come Terapia Morita.
Tale approccio terapeutico è utilizzato per la cura delle nevrosi e si delinea nel modo seguente:
“ 1. la selezione dei malati, essa elimina, infatti, gli isterici e gli psicopatici
2. condizioni di trattamento non ospedaliere in cui il paziente vive nel tentativo di
assimilarsi al suo psichiatra
3. una presa di coscienza dei sintomi
4. una terapia lavorativa
La terapia MORITA si articola in quattro fasi. Il principio più importante è l’ “aru ga mama” (“vedere
e sentire le cose come sono in realtà” o meglio “prendi la vita come viene”) che rende attiva la
capacità di guarigione spontanea (vis medicatrix naturae). In effetti, un elemento fondamentale
della terapia MORITA è un’attitudine d’accettazione che fa si che il paziente non produca sintomi
secondari nel tentativo di combattere i sintomi ossessivi primari. Lo stato di “aru ga mama”, che è
lo scopo finale della terapia MORITA, è raggiunto con le seguenti quattro fasi:
a. il malato è tenuto a riposo a letto, totalmente isolato con la proibizione di
parlare, leggere, scrivere, fumare e cantare. Lo scopo di questa fase, molto dura per i
malati, è di provocare un’angoscia che evochi i fantasmi dell’ossessione. Essa dura da 4 a
7 giorni.
b. una seconda fase, della durata di una o due settimane, durante la quale,
permanendo l’isolamento e la proibizione di parlare, il malato potrà fare un lavoro leggero
(come il giardinaggio) e dovrà leggere due volte al giorno dei passi di un classico (come il
Kojiki dell’VIII° secolo). In questo periodo il malato dovrà tenere anche un diario che sarà
letto dal medico. Vi sono tre ore d’insegnamento al giorno, durante le quali il malato si
limita ad ascoltare, senza interloquire, ciò che dice il medico.
29
Lyons H.B. (2001). Hikikomori and Youth Crime. Crime & Justice International, 17(49), 9-10.
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c. la terza fase è caratterizzata dall’imposizione al malato di lavori pesanti (taglio
della legna, trasporto di pietre).
d. la quarta fase (o terminale) dura una decina di giorni ed è indirizzata a
reinserire il paziente nel suo mondo lavorativo, il lavoro è meno pesante mentre la lettura è
limitata a delle opere assai semplici, che non abbiano alcun contenuto filosofico.”30
4. Conclusioni
Noi occidentali abbiamo avuto la fortuna di avere un Kant che ha fissato un principio etico
fondamentale ovvero “che l’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo”. Certo
siamo ben lontani dal poter affermare che nel mondo occidentale ciò è sempre applicato, ma tutta
la struttura scolastica giapponese e anche quella sociale hanno come finalità ultima quella di
produrre degli individui perfettamente in grado di mantenere ai più alti livelli competitivi la società
economica e la qualità produttiva delle industrie giapponesi.
Per far ciò si accentua al massimo la selezione e l’inserimento perfetto all’interno del gruppo di
lavoro a spese dell’individualismo.
Noi crediamo che in Giappone si è innescato un processo sociale, in nome del massimo sviluppo
possibile i cui esiti non sono prevedibili.
Come dice Galimberti: ” Lo scenario dell’imprevedibile, dischiuso dalla scienza e dalla tecnica,
non è, infatti, imputabile, come nell’antichità, ad un difetto di conoscenza, ma ad un eccesso del
nostro potere di fare, enormemente maggiore rispetto al nostro potere di prevedere e quindi di
valutare e giudicare.”31
Galimberti ci avverte che l’ordine di grandezza di ciò che l’etica vorrebbe ordinare è così
incommensurabile, che ogni teoria diviene inefficace.
Nello studiare l’hikikomori ci siamo accorti delle incolmabili difficoltà culturali ed etiche che ci
dividono dalla civiltà giapponese e ci siamo domandati quali terapie suggerire.
Noi pensiamo che si dovrebbero sensibilizzare di più gli insegnanti verso queste problematiche
per realizzare la massima prevenzione possibile.
30
Masafumi M., Rizzoli A. (1995). Introduzione alla Psichiatria Giapponese. Quaderni Italiani di Psichiatria, 14(5),
271-272.
31
Galimberti U. L’etica che non basta. Donna di Repubblica, 23 luglio 2005.
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“DALLA PARTE DELL’UOMO”
Poi si dovrebbe incrementare la presenza degli psicologi nelle scuole, che attraverso incontri
individuali e di gruppo, possano individuare i ragazzi a maggior rischio e sostenerli. Così come
andrebbe fatta una grande opera d’informazione sulle famiglie.
Si potrebbero pensare poi, per i ragazzi già colpiti dall’ “Hikikomori” a gruppi di sostegno anche
attraverso le chat-line, sul tipo di quelli realizzati per gli interventi con gli alcolisti, ma più di tutto
interventi di psicoterapia individuale, dove uno psicoterapeuta segua un singolo ragazzo per
tentare un reinserimento progressivo dello stesso, nel mondo della realtà.
Termino con l’augurio che ogni soluzione che sarà adottata terrà conto di ciò Erich Fromm indica
nel suo libro “Avere o essere”, ovvero la necessità imprescindibile, per ogni civiltà, di porre
sempre l’uomo, il singolo, con i propri interessi ed i suoi sogni, al centro dello sviluppo sociale.
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