Gli spacciatori di eterna gioia
- , 16.06.2016
. Desideri, bisogni e stili di vita sono sottoposti a un costante lavoro di manipolazione in nome delle
virtù tossiche dell’individuo proprietario. «L’industria della felicità» di William Davies per Einaudi
Il carnet dei suoi prodotti è vario. Spazia da pillole che mettono a tacere tutte le inquietudini a
promesse di un futuro radioso dove non ci sarà posto per dolore, fame, sofferenza, ma il core
business è di quelli che non lasciano indifferenti, perché è il sogno inseguito da filosofi, preti,
militanti politici di ogni tipo, visto che si tratta della felicità. Merce tanto pregiata quanto scarsa da
diventare un manufatto sul quale si addensano, appunto, una miriade di stimati professionisti e una
moltitudine di addetti alla sua produzione. Ha il potere di un oggetto mutante del desiderio, che si
adatta a ogni richiesta del singolo. E tuttavia, avverte William Davies nel libro L’industria della
felicità (Einaudi, pp. 233, euro 20), è una promessa quasi sempre non mantenuta. Sta di fatto che il
potere seduttivo dell’industria della felicità sta nelle aspettative, sempre deluse, che continua ad
alimentare.
Davies passa al setaccio secoli di filosofia, psicologia e tecniche di marketing in un confronto
minuzioso con testi dimenticati ai margini delle rispettive discipline, evidenziando però il loro potere
di condizionamento sul lungo periodo. Ne emerge un saggio che può essere inserito nella variegata
costellazione teorica che, tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso, ha cercato di spiegare la
capacità del neoliberismo di costruire un consenso ampio, facendo leva proprio sulla promessa di
felicità. In questa costellazione, trovano posto sociologi, storici e economisti della new left inglese e
statunitense, ambito dove si è formato Davies. Forti sono infatti gli echi delle analisi di Stuart Hall
sulle capacità egemoniche di Margaret Thatcher, ma evidenti sono i riferimenti alle tesi di David
Harvey sulla indubbia flessibilità e adattabilità ambientale del vangelo neoliberista. Ci sono inoltre
riferimenti alla «politica della vita» di Nikolas Rose. Infine, anche se non viene mai citato, il metodo
seguito dall’autore – costruire genealogie di un concetto – è quello inconfondibile di Michel Foucault.
Ragionamenti da cane sciolto
William Davies è tuttavia un cane sciolto, un eterodosso, un «maverik» insomma, come la collana
dove è stato pubblicato il saggio. Seguire il filo dei suoi ragionamenti, costruito sulla minuta
rassegna di studiosi, non è sempre facile, ma ne vale comunque la pena, perché questa Industria
della felicità segnala, al di là delle intenzioni dell’autore, uno smottamento in atto nel neoliberismo.
Infatti, dopo anni di retoriche sulla centralità dell’individuo proprietario, il neoliberismo sta
compiendo un doppio salto mortale: deve riconoscere che gli animali umani non sono quegli esseri
egoisti che perseguono solo i loro interessi, bensì sono individui sociali.
Il riconoscimento della natura sociale dell’animale umano non significa che l’individualismo venga
archiviato. La massimizzazione del profitto individuale passa attraverso il riconoscimento che i
rapporti sociali sono l’habitat che consente di realizzarlo. Una differenza non da poco per chi ha
pensatodi trasformare la realtà facendo leva su una sostanza tossica come è stata l’individuo
proprietario. Nel linguaggio delle cosiddette scienze sociali siamo alla centralità del capitale sociale
rispetto a quello umano. Non è un caso che le tesi sui social network, sulla reciprocità, sui legami
deboli per le reti di prossimità nutrano ormai il lessico teorico e politico del neoliberismo dopo la
crisi del 2007-2008.
William Davies avvia la sua critica del neoliberismo ricordando Jeremy Bentham. Il suo panopticon è
sinonimo di una istituzione totale volta al controllo, alla costrizione, alla gestione di uno spazio che
non prevede libertà e, cosa più rilevante per il tema di questo libro, alla felicità. Soltanto che
Bentham ha scritto anche un piccolo testo dedicato al governo dove la felicità svolge invece un ruolo
centrale. Un buon governo, annotava questo illuminista inglese atipico, deve facilitare la felicità dei
cittadini, rinunciando però alle velleità filosofiche che definiscono cosa sia una buona società. È la
psiche umana che occorre governare, depurandola da qualsiasi incongruità, contraddizioni,
ambivalenze.
L’approdo al nuovo mondo
L’originalità del saggio di Davies sta però nel seguire gli echi, le assonanze di tale vision negli studi
di biologi, filosofi, medici che si pongono il problema di capire i meccanismi della psiche umana.
Dopo una dettagliata carrellata di studi, ricerche in laboratorio, esperimenti si arriva al Novecento,
dove entra in scena Freud, studioso che sembra mettere al riparo la nascente psicoanalisi da ogni
concezione deterministica della psiche umana, come attesta il saggio sul disagio della civiltà. Ma se
Freud è rimasto fedele a questa convinzione anche quando ha lasciato il vecchio continente per il
«nuovo mondo», ci sono stati altri medici, psicologi che hanno attraversato l’Atlantico, convinti che
negli Stati Uniti avrebbero trovato il terreno adatto per fondare una scienza della psiche che facesse
a meno degli influssi della filosofia e dove fosse possibile sviluppare una scienza dei sentimenti e
delle passioni. Il comportamentismo della psicologia sociale classifica i sentimenti e le reazioni
umani all’interno di una cornice dove ogni reazione a determinanti stimoli poteva essere definita,
prevista, quantificata matematicamente. La pubblicità, le analisi di mercato, persino le teorie
liberiste degli economisti in fuga dalla Germania sono accomunati da una concezione della psiche
che considerava come devianza facilmente cancellabile ogni manifestazione contraddittoria di
sentimenti riducendola alla sua dimensione quantificabile, dunque sacrificabile se non facente parte
di una maggioranza, statistica, rilevabile attraverso questionari o colloqui ravvicinati. È in questa
contingenza che prende piede l’industria della felicità, considerata il simbolo proprio del
neoliberismo.
Torna in queste pagine più volte la domanda del perché uomini e donne, relegati in uno stato di
infelicità permanente, abbiano aderito alla weltanshauung neoliberista. La risposta di Davies si
sofferma sul fatto che la promessa di felicità è considerata una concreta possibilità se il singolo è
depurato da ogni vincolo per mettere in campo il proprio capitale umano per massimizzare i suoi
profitti. Rilevante è il capitolo sulle modalità d’uso dello studio della psiche nelle fabbriche per
superare l’organizzazione scientifica, strizzando l’occhio al lavoro in team e l’empowerment dei
singoli. Certo il contraltare è la precarietà, ma l’impresa può facilitare il «libero» agire del capitale
umano, semplificando così il perseguimento della felicità.
Non è dato sapere se l’amministratore delegato dell’Enel abbia letto questo saggio, ma la sua
recente divagazione sulla necessità di terrorizzare un gruppo di dipendenti per convincere tutti gli
altri sull’imperativo di introiettare il comando sul lavoro ha come background culturale proprio
questa concezione della psiche come «organo» che reagisce, adattandosi, a stimoli esterni. Il
benessere sul lavoro, ma anche al di fuori dell’attività lavorativa è possibile a patto che la mente
venga addomesticata, manipolata, eterodiretta. All’impresa e al governo il compito di creare le
condizioni affinché sia possibile la felicità. Le disuguaglianze crescenti, l’impoverimento, la riduzione
degli spazi di libertà sono solo dettagli, residui di un passato destinati ad essere spazzati vita dal
capitalismo ormai trionfante.
Ideologia, certo, ma egemone. Peccato che proprio l’individuo proprietario sia una distopia. Il centro
della scena è infatti popolato non da uomini e donne spensierati e giulivi, ma da uomini e donne che
manifestano sempre più disagio psichico, mentre aumenta il consumo di vari tipi di droga (dalla
metanfetamina alla cocaina), degli psicofarmaci assunti come pastiglie di liquirizia, buoni cioè a
stabilizzare un umore sempre sul punto di trasformarsi in ira e aggressività violenta, mentre la
psicosomatica è il termometro che documenta l’insuccesso del neoliberismo, così come l’attitudine
new age è l’àncora di salvezza scelta per provare a farcela in un mondo che tradisce la promessa di
felicità.
Neuroplasticità del cervello
Eppure l’industria della felicità non conosce crisi. Continua a prosperare su una concezione
primitiva della psiche. Le ricerche di mercato, i sondaggi, i focus group sono ormai irrisi per la loro
antiscientificità, ma la crescita dei big data attesta che la raccolta sulle informazioni sugli stati
d’animo, sulle reazioni precognitive è un business fiorente. E se la psicoanalisi interroga se stessa e
sul suo fallimento come disciplina, c’è sempre qualche sciamano che offre una spiegazione new age
sulle reazioni individuali. Oppure i centinaia di miliardi investiti su come mappare le reti neurali o le
neuroplasticità del cervello segnalano che la psiche, la mente, il cervello sono l’oggetto del desiderio,
quasi a significare che se si capisce fin nei minimi dettagli il funzionamento fisiologico del cervello,
cadranno le resistenze alla manipolazione delle soggettività, elemento necessario, anzi
indispensabile per raggiungere la felicità.
Sembra una science fiction scritta da un Philip K. Dick in ottima forma: sono invece i report stilati
per documentare l’avanzamento di ricerche finanziate da facoltosi governi (Usa, Giappone e Cina).
Quel che invece meno indagato è appunto lo spostamento sulla dimensione sociale che caratterizza
l’animale umano. È infatti l’individuo sociale sul quale si concentrano le attenzioni degli spacciatori
di felicità. In tempi non sospetti un signore con la barba scrisse di socialismo del capitale.
L’industria della felicicità è da intendere il prototipo semmai di un «comunismo del capitale» che
oltre a mettere a profitto sapere, conoscenza, linguaggio, si propone di rendere merce ad alto valore
aggiunto proprio la umana produzione di soggettività. Ma è in questa riscoperta dell’individuo
sociale che emerge la fragilità del neoliberismo, che deve essere nascosta con ogni mezzo necessario.
Da qui la ferocia delle politiche di austerità, perché se il centro della scena è occupato dalla
cooperazione sociale, diviene infatti difficile parlare di felicità come una materia inerte da spacciare
in ogni dove. Semmai torna ad essere all’ordine del giorno la costruzione di un mondo dove bisogni e
desideri non condannino all’infelicità. Con buona pace degli spacciatori di promesse che non saranno
mai mantenute.
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