vita da freelance:serie bianca

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Serie Bianca Feltrinelli
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SERGIO BOLOGNA
DARIO BANFI
VITA DA FREELANCE
I LAVORATORI DELLA CONOSCENZA
E IL LORO FUTURO
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© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione in “Serie Bianca” aprile 2011
Stampa Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche - BG
ISBN 978-88-07-17201-4
www.feltrinellieditore.it
Libri in uscita, interviste, reading,
commenti e percorsi di lettura.
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razzismobruttastoria.net
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VITA DA FREELANCE
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Passaggi
Non mi decisi di andare a Roma perché gli amici che mi sollecitavano a ciò mi promettevano maggior guadagno o maggior prestigio [...] il motivo principale e pressoché unico fu che sentivo dire
che là i giovani si dedicavano allo studio più tranquillamente ed
erano tenuti calmi da una più ordinata disciplina coercitiva, cosicché non irrompevano abitualmente da maleducati nell’aula di un
altro maestro.1
Era un freelance Agostino di Tagaste, maestro di retorica. Lascia la vivace capitale delle province d’Africa, rischiando perfino,
per mare avverso, di finire in bocca ai pesci, e va a ficcarsi nella
bolgia della capitale di un impero ormai morente. Cercava, come si suol dire, un mercato dove la qualità della domanda fosse
migliore e il suo talento ricevesse la stima che si meritava, almeno secondo la sua soggettiva percezione. Ma è una situazione ben
grama quella che trova, la concorrenza è sfrenata, accadono cose tipiche delle situazioni di sovraofferta, la clientela, tutti rampolli di famiglie benestanti, è poco raccomandabile.
Dapprima radunavo in casa alcuni allievi, cominciando così a farmi una certa notorietà. Ben presto mi accorsi che a Roma succedevano cose che in Africa non avevo dovuto subire [...] fui avvertito
che molti dei giovani romani, per non dover pagare il maestro, usavano mettersi d’accordo e passare improvvisamente a un altro maestro, rivelandosi gente che, per amore del denaro, tradisce la fiducia e disprezza la giustizia.2
Sappiamo com’è andata a finire: per proteggersi dai rischi di
mercato tipici del lavoro autonomo, Agostino cerca un posto pubblico e grazie a Simmaco lo trova a Milano, ma qui comincia
un’altra storia.3
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Dovendo scrivere un libro sul lavoro indipendente, non potevamo limitarci alla nostra esperienza personale di freelance,
così siamo andati a curiosare tra ricerche sul campo e racconti
di gente come noi, brevi schizzi autobiografici firmati spesso con
un nomignolo, come si usa oggi nei blog. Ma nelle citazioni tratte da una delle più celebri autobiografie di tutti i tempi, scritta
sedici secoli fa, già ci è parso di poter riconoscere circostanze che
ancora oggi sono determinanti nella condizione lavorativa dei cosiddetti knowledge workers che esercitano l’attività in proprio. Innanzitutto la percezione di un mercato globale nel quale è meglio muoversi che star fermi. “I maestri sono stati per lungo tempo tra i gruppi professionali con la più alta mobilità,” dice chi ha
studiato quel mestiere a fondo nel periodo in cui Agostino lo esercitava.4 Antica quanto la nostra civiltà mediterranea l’abitudine
di cambiare città, cambiare paese, portandosi dietro un patrimonio di conoscenze che necessariamente devono combinare insieme una koiné universale e una specializzazione individuale.
Dove vuoi andare?
Nella storia del lavoro è proprio il lavoratore indipendente a
essere protagonista di quel gesto che dice “non mi basta il mercato ristretto dove sono nato; le mie competenze, il mio saper fare, il mio mestiere valgono di più, troverò altrove qualcuno disposto a pagarli meglio e un ambiente che sappia apprezzare il
mio talento per quel che vale”. E qui entrano in gioco i “magneti”, i luoghi che attirano le competenze. Per quanto criticabile e
superficiale possa essere giudicato Richard Florida, gli va riconosciuto il merito di aver messo la pulce nell’orecchio di tanti sindaci: ma perché invece di pensare a una città che attrae turismo
non pensiamo a una città che attrae talenti?5 Semplice come dinamica, ripetitiva potremmo dire, l’esperienza di migrare alla ricerca di condizioni di lavoro migliori, ma non è uno studio sui
fenomeni migratori il nostro. Il tema che c’interessa è un altro,
riguarda i confini della mobilità, perché ciò che distingue l’epoca
moderna dalle altre è la possibilità di migrare in maniera virtuale – caratteristica, questa, che in un certo senso oggi distingue il
lavoro intellettuale dal lavoro manuale. È difficile per un ingegnere pakistano che viene in Europa a cercar di campare – e in
genere finisce col guidare il furgone o lavorare in edilizia o star
seduto in una portineria – non essere fisicamente altrove dal luogo dove è nato o dove risiede nel suo paese. Ma se in Europa trova una multinazionale che gli consente di lavorare a distanza gra10
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zie alle sue competenze professionali, può tornarsene a casa e
prestare i suoi servizi collegato in Rete. Il lavoro manuale è costretto alla migrazione fisica, il lavoro intellettuale, grazie a Internet, conserva l’opzione. Ed è da questa condizione di fondo,
da questa doppia possibilità di migrare, che potrebbe iniziare un
percorso sui problemi del lavoro indipendente. Potrà sembrare
stravagante, ma a rifletterci un po’ non è così. Abbiamo già sfiorato questioni di grande rilevanza: dire mercato globale non è dire una banalità, perché a noi interessa relativamente descrivere
questo mercato, non sono i confini del mercato l’oggetto della nostra osservazione, sono i confini della mobilità, che è ben altra
cosa, perché comprendono sia valori e contenuti oggettivi sia, anzi soprattutto, valori ed elementi soggettivi. È la disposizione
d’animo unita alla padronanza di certe conoscenze a fornire la
molla della mobilità ed è ora l’una ora l’altra a poter influire sul
tipo di mobilità che si sceglie o si è capaci di praticare: se la mobilità fisica, quella che comunemente chiamiamo migrazione, la
mobilità virtuale o la mobilità professionale, passare da un’occupazione a un’altra, da una vita di lavoratore dipendente a una
vita di lavoratore autonomo. Delle diverse forme di mobilità forse quella che maggiormente ci intriga è proprio il paradosso della mobilità sedentaria di Internet, tappeto volante planetario o
cubicolo soffocante, chiavistello che ti apre tutte le porte o acefalo curiosare. Ma perché chiamarla migrazione, quando è semplicemente una forma di comunicazione? Poiché ci priveremmo
la vista di aspetti che in una dinamica espositiva tradizionale ci
sfuggirebbero. La migrazione fisica si svolge in un contesto socio-economico e geografico dato, quella virtuale costruisce la propria carta geografica, inventa la propria Atlantide a misura dei
limiti delle conoscenze del soggetto e delle sue inclinazioni. E come definire il luogo dove il lavoratore indipendente svolge la maggior parte del suo lavoro, davanti a uno schermo, con in mano
un mouse? Giacomo Mason, specialista di sistemi Intranet, freelance che ama riflettere sulla sua esperienza quotidiana e cerca
spunti nel pensiero filosofico e sociologico di oggi, scrive:
Come se la spazialità, la spazialità geometrica e la spazialità della
nostra percezione fosse messa fuori gioco. E allora che cosa fonda il “luogo”, questo luogo così preciso che non potremmo mai
confonderlo con altri? La Rete è innanzitutto uno scenario d’azione,
ed è questa azione che fonda questo luogo inconfondibile. Una spazialità “contestuale”, legata alla nostra presenza attiva, ineludibile,
reale. Questo “esserci” continuo, questa inclusione necessaria del
soggetto fonda questo luogo senza spazio che è la Rete, che siamo
tutti noi.6
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In un libro scritto ormai più di dieci anni or sono7 avevamo
condiviso l’opinione di molti studiosi che una delle caratteristiche specifiche del lavoro indipendente, uno dei suoi tratti distintivi rispetto a quello salariato, era data dalla diversità del luogo dove viene esercitato; si è parlato di domestication, di commistione tra consuetudini, ritmi e costumi della vita privata e quelli della vita collettiva. Il dove non solo condiziona il tempo di lavoro, l’orario lavorativo e il modo in cui viene organizzato (con
possibilità di propria scelta nell’articolazione della giornata o con
l’imposizione di ritmi predeterminati), ma anche la presenza o
l’assenza di dinamiche di socialità, la cui importanza per la storia dell’evoluzione delle condizioni di lavoro e per la forma della
democrazia occidentale è cosa risaputa. E questa forma contemporanea di domesticità dell’attività lavorativa è resa possibile proprio dalle nuove tecnologie, il dove del lavoro moderno non
è scindibile dal personal computer. Home-Office Hell, l’inferno
d’avere l’ufficio in casa, titolava tempo fa un po’ scherzosamente la redattrice di una webzine americana dedicata ai professionisti indipendenti.8
Me ne sono andata dall’azienda dov’ero impiegata per essere più libera, vendo spazi pubblicitari, adesso sto qui in casa 60-80 ore alla
settimana. Vivo nella Bay Area, come faccio a spiegare al mio cliente di Boston che quando mi telefona qui sono le cinque del mattino? Vivo con mia madre, che ha ottantasei anni, a lei piace chiacchierare, entra ed esce dalla mia stanza, mentre sono online, il telefono squilla e il fax vomita fogli di carta.
Le risponde il redattore della pagina delle lettere:
Sai che ti ci vuole per lavorare bene in casa? Una porta che si possa chiudere a chiave innanzitutto, inoltre non dimenticare che
l’ufficio non è una mensa, allontana cibi, bevande, distrazioni, togli
radio, televisione, videogame, evita il postino, usa caselle postali per
la corrispondenza e se vai a pranzo con qualche cliente prenditi un
po’ di tempo per guardare il mondo com’è fatto e lasciati guardare
dal mondo.
Abbandonare il lavoro salariato per ritrovarsi in un’altra prigione. È questo uno dei temi che compare di frequente nelle autobiografie o nelle semplici confessioni/sfoghi dei blog. In genere non si torna indietro, non tanto per disamore verso la professione autonoma, ma perché il mercato del lavoro non ti lascia
tornare indietro, non sei più giovane e pensano che se te ne sei
andato una volta magari prendi il volo di nuovo, quindi sei con12
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siderato inaffidabile per aziende che pretendono da te soprattutto
anima e corpo, e solo in second’ordine competenza ed esperienza. La scelta di passare da un rapporto di lavoro dipendente alla
cosiddetta “libertà” del professionista autonomo ci sembrava dieci anni fa l’aspetto più caratteristico della mobilità all’interno del
mondo del lavoro, una scelta che comportava cambiamenti forse più radicali di quelli che si creano quando si cambia città o
paese di residenza. Trasferirsi da Milano a Berlino lavorando alle dipendenze di due diverse società, anche cambiando settore
ma sempre alle dipendenze, non sembra porre problemi di adattamento maggiori e più difficilmente superabili di quelli che potrebbe porre la scelta di restare a Milano e mettersi in proprio,
lasciando un posto “fisso”. Quando si passa dal lavoro salariato
al lavoro indipendente, cambiano i luoghi e i tempi della vita
quotidiana, molti scoprono che si lavora di più, se non in termini di tempo dedicato fisicamente al lavoro, quantomeno in
termini di occupazione della mente, cambia il rapporto con la
retribuzione, cambia la logica della retribuzione, è una trasformazione antropologica. A confronto, i problemi d’adattamento
posti dall’uso di una lingua straniera in un paese straniero sembrano davvero poca cosa. Il passaggio dal lavoro dipendente al
lavoro autonomo comporta un trasferimento di culture, di modi di pensare che si sono cristallizzati nell’ultimo secolo e mezzo e che ci portiamo dietro come patrimonio di una civiltà fordista, di costumi mentali incorporati nelle istituzioni. Lo sguardo che abbiamo rivolto al lavoro autonomo più di dieci anni fa
era radicalmente diverso dal modo in cui la letteratura corrente
dipinge il passaggio dal lavoro salariato, non tanto nella retorica del “sarai padrone di te stesso” quanto nella superficiale opinione secondo cui i problemi del lavoratore autonomo sono problemi di technicality: come si costruisce un business plan, come
si fa a calcolare l’imponibile fiscale, quali sono gli strumenti tecnologici di cui dotare l’ufficio ecc. A questa visione puramente
tecnicistica e pertanto miope, avevamo contrapposto una visione molto più complessa, accentuando la trasformazione del modo di pensare, dello sguardo sul mondo, che un passaggio dal lavoro salariato a quello indipendente comporta. E quindi abbiamo messo in luce aspetti della vita quotidiana che un professionista indipendente sperimenta ogni giorno sulla sua pelle ma che
spesso non riesce a razionalizzare, di cui spesso ha una coscienza confusa o di cui non riesce a spiegarsi la logica. Crediamo di
essere stati utili a chi lavora in questo modo e ne abbiamo avuto conferma quando, quasi per caso, siamo venuti in contatto
con professionisti che avevano fatto il salto ulteriore, quello più
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difficile, forse: il salto verso la coalizione, l’unione con altri “colleghi”, per affrontare insieme i problemi, contravvenendo a quella filosofia individualistica e solipsistica che viene venduta a buon
mercato da tutta la manualistica sul lavoro autonomo, da tutti i
guru-ciarlatani del self management come ricetta del successo e
che purtroppo molti ormai hanno accettato come modo giusto
di stare al mondo. Questo libro è un altro passo avanti in questa
direzione controcorrente, vorrebbe chiedere ai giovani innanzitutto “vi importa di più riuscire, avere successo o vivere meglio?”.
La scelta del lavoro autonomo che molti delle generazioni precedenti hanno compiuto, a partire dalla metà degli anni settanta, quando sono nate dal mercato molte “nuove professioni” e
l’era informatica ha dotato l’individuo di nuovi, dapprima impensabili, strumenti di lavoro a distanza, è stata in massima parte una scelta per vivere meglio, non è stato un desiderio generico di maggiore libertà ma di maggiore autonomia nell’organizzazione di quella cosa – il lavoro – che per la grande maggioranza degli uomini consente di sopravvivere e assorbe la quantità
più alta di tempo della loro vita. Quindi, al fondo di quella scelta, di quella disposizione d’animo, più che una confusa aspirazione di libertà, c’era una filosofia, chiamiamola pure ideologia,
libertaria, che creava una specie di ostilità, di diffidenza verso le
gerarchie, gli ordini precostituiti. Forse a incentivare quella disposizione d’animo, a fornirle un terreno fertile, era stata la diffusa conflittualità che si era sviluppata, in Italia con dimensioni
quali nessun altro paese dell’Occidente ha conosciuto, all’interno dei rapporti di lavoro dipendente. Sebbene questa conflittualità avesse il suo epicentro nel lavoro manuale, nel lavoro operaio, nell’usura fisica del lavoro di fabbrica, il suo impatto sulla
mentalità collettiva fu così forte che ne venne investito in pieno
anche il lavoro intellettuale, tanto più che in alcuni paesi, Stati
Uniti e Germania soprattutto, la rivolta degli studenti aveva prodotto la prima lacerazione di quel silenzio che era calato come
una cappa di piombo nella società americana dopo la repressione maccartista, e nella società tedesca dopo la costruzione del
Muro di Berlino. Ma si tratta di mezzo secolo fa, un arco di tempo lungo il quale la memoria delle dinamiche di cui stiamo parlando si è consumata pian piano, di cui si sarebbero perse le tracce se non fosse per la musica di allora e in parte per la letteratura. Potranno buttarci sopra più cemento di quello impiegato a
tappare il buco sul fondo del mare della Louisiana ma bastano
le parole di una canzone dei Doors o di Nina Simone per segnare un ricordo indelebile di quel periodo. Finché quelle canzoni e
le tante altre prodotte dalla straordinaria creatività delle band di
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allora continueranno a essere ascoltate, quel potente soffio libertario non sarà mai dimenticato.
Pur di andarsene
Sugli anni sessanta e settanta è scesa la damnatio memoriæ
delle élite dirigenti delle generazioni successive, che vi si accaniscono tanto più evidente è la loro incapacità di creare un mondo
migliore, una società più accogliente per coloro ai quali è stato
detto che un giorno saranno “lavoratori della conoscenza”.
Vent’anni fa sarebbe stato difficile immaginare che un giorno in
Italia il desiderio di fuga avrebbe assunto le dimensioni di un
comportamento generazionale:
Ciò che spinge i giovani italiani ad andarsene, è anche e soprattutto la stanchezza nei confronti di un sistema sociale, politico e mediatico asfittico e deprimente. [...] In tutta la letteratura sulla cosiddetta “fuga dei cervelli” poco si parla del fatto che non sono solo
i “talenti” ad andarsene, c’è una generazione intera di persone, a volte anche non laureate, che sono stanche del proprio paese e semplicemente fanno la valigia, prendono un volo low-cost di sola andata e si trasferiscono altrove [...] non sono solo i cervelli quelli che
se ne vanno, al giorno d’oggi dall’Italia se ne stanno andando tutti:
laureati, diplomati, stagisti.9
In effetti, fino a poco tempo fa si era parlato di “fuga dei cervelli”, ora si parla di fuga e basta. Sono, l’una e l’altra dimensione, cose che s’intrecciano strettamente con le possibilità e le
modalità di esercizio di un’attività in proprio nel mercato delle
competenze. Sono forme molto diverse di mobilità, la prima segue una logica irreversibile, la seconda logiche molto soggettive. Un lavoratore della conoscenza ha come unico patrimonio il
proprio capitale umano, se c’è qualcosa che non funziona nel sistema deputato a produrre questo particolare tipo di bene, procurarsi un capitale adeguato gli costerà più fatica. Un lavoratore della conoscenza campa sulla cessione a titolo oneroso delle
sue competenze, un modo burocratico per dire che è un freelance, letteralmente un mercenario.10 Se il mercato in cui opera
non sa che farsene della competenza in quanto tale, ma chiede
alle persone solo spirito di adattamento, flessibilità morale più
che materiale, il nostro knowledge worker per arrivare alla fine
del mese sarà costretto a cedere una bella fetta di quella libertà
che ha pensato di guadagnare mettendosi in proprio. In Italia la
fuga dei cervelli (o delle “cervelle”)11 prima e la fuga dei giovani
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come tali poi sembrano dire che sono presenti ambedue le condizioni avverse, quella della difficile formazione di un capitale
umano e quella della svalorizzazione della competenza.12 Ma occorre distinguere ciò che è indizio di una patologia sociale da
ciò che costituisce una dinamica intrinseca al laboratorio scientifico. Agli inizi del 2000 è stato avviato un progetto di ricerca
europeo sul brain drain, il report finale è uscito nel 2003.13 Risultava già chiaro allora come il problema non fosse solo italiano, né potesse essere descritto come patologia. Quando si tratta di ricerca scientifica avanzata, sostenibile soltanto con forti
investimenti finanziari, la superiorità di certi paesi in determinate tecnologie ne fa dei “magneti” che attirano cervelli da tutto il mondo. È una dinamica selettiva, che produce processi di
esclusione ancora più acuti proprio nei paesi che fungono da
“magnete”.14 Il fatto di essere nato negli Stati Uniti non favorisce un giovane americano che aspira a fare ricerca nei laboratori di punta del suo paese, perché si trova esposto più di altri
alla concorrenza dei migliori cervelli di tutto il mondo. Potrebbe essere altrimenti? Riesce difficile immaginarlo, quando
l’interesse sottostante è quello delle multinazionali o dell’apparato militare. Il baccano che si è fatto per decenni sulla “fuga dei
cervelli” è servito in Italia a chiedere più soldi per l’università
ma non a migliorarla. Sono rimaste immutate le sue leggi non
scritte, che alimentano nepotismi, proteggono con l’omertà
l’arroganza dei baroni e finiscono per creare il danno sociale più
insidioso, quel tacito instaurarsi della norma di comportamento che dice di “piegare la schiena”. Così s’impara a piegare anche la propria intelligenza. È la produzione programmata di
conformismo il danno maggiore, non la fuga dei cervelli, perché
da qui nasce la svalorizzazione delle competenze.15
Diverso è quando la cosiddetta “fuga” non riguarda soltanto
le posizioni di punta della ricerca ma il personale che dovrebbe
costituire il tessuto portante del sistema d’istruzione superiore.
È il punto di vista che sembra condividere Maria Carolina Brandi nel libro Portati dal vento,16 dove si tocca uno dei nodi centrali
della questione, la sistematica precarizzazione dei rapporti di lavoro, che sta minando alla base il rendimento dei ricercatori/docenti non solo in Italia, ma anche nel paese che ha fatto del
modello aziendale postfordista il punto di riferimento delle politiche universitarie e della ricerca: gli Stati Uniti. Ancora una
volta si torna al problema del lavoro, strettamente correlato a
quello della libertà e dell’autonomia, ancora una volta l’Italia non
è un’eccezione. Quanto più instabile è la condizione del lavoratore intellettuale della ricerca universitaria tanto più forte è la
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sua dipendenza dalla gerarchia e tanto più alta la possibilità di
scelte discrezionali fatte con criteri lontani dal merito. C’è tuttavia una specificità italiana: se invece di chiedere più soldi per
evitare la fuga dei cervelli il corpo accademico – la sua parte più
“nobile” s’intende – avesse concentrato la sua battaglia sull’aspetto più importante della questione, e cioè sul fatto che la qualità della domanda di lavoro nel nostro paese è condizionata dalle scelte di politica industriale e di politica del lavoro, avrebbe
colpito maggiormente nel segno, ma avrebbe dovuto anche riconoscere che l’organizzazione del sistema accademico, i corsi
di laurea, forse ne avrebbe dovuto tener conto e che meglio sarebbe stato sopprimere molti insegnamenti invece di moltiplicarli e produrre laureati di cui il sistema economico non sa che
farsene. Se avesse condotto in maniera concentrata questa battaglia avrebbe dovuto chiedere conto alla lobby confindustriale,
proprietaria dei grandi quotidiani, sempre più dominata dalla
rendita finanziaria e immobiliare. Avrebbe, il ceto accademico,
assolto alla sua seconda funzione, dopo l’insegnamento, che è
quella di custode dell’onestà intellettuale e del rigore dell’informazione, godendo del privilegio di poter parlare, protetto dall’inamovibilità, e dire come stanno le cose contro la sistematica
deformazione e mistificazione operata dai media e da tutti coloro che hanno interesse al mantenimento di una situazione che
per troppi giovani si fa insostenibile.17 Si è preferito invece fare
i corifei del sistema delle imprese, esaltare la flessibilità rivestita di norme e codicilli, senza vedere il suo risvolto sociale, quella precarietà in cui rischia di restare intrappolata un’intera generazione, secondo i sociologi del lavoro.
L’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei
lavoratori (Isfol) ha fornito una stima delle forme di lavoro diverse da quella a tempo indeterminato in Italia, per l’anno 2008.18
Su circa 23 milioni di persone occupate, il 15,8 per cento lavorava con contratti di vario tipo (a tempo determinato, interinale, formazione-lavoro, apprendistato, collaborazioni coordinate
e continuative, collaborazioni a progetto, tirocini gratuiti, lavoro a chiamata, collaborazioni occasionali), il 6,7 per cento lavorava in maniera indipendente con partita Iva, un altro 1,3 per cento in modo autonomo non classificabile altrimenti e un 9,3 per
cento come imprenditore. È una stima meno sfocata di quella
che propone l’Istat con la “Rilevazione continua delle forze di lavoro”, perché fornisce un ordine di grandezza attendibile sulle
dimensioni del lavoro autonomo “di seconda generazione”: più
di 1,5 milioni di persone alle quali, secondo un criterio di classificazione fondato sui loro obblighi contributivi al sistema pre17
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videnziale, andrebbero aggiunti gli 1,17 milioni di persone con
contratti di collaborazione (Co.Co.Co.) e contratti a progetto, oppure, secondo un criterio di classificazione che privilegia il ruolo della competenza, il milione di persone titolari di imprese con
uno/due dipendenti.19 Esiste quindi una vasta “zona grigia” di
2,5-3 milioni di persone che non potrà mai essere eliminata del
tutto perché è costituita da forme di lavoro che transitano facilmente dalla collaborazione a progetto alla partita Iva all’attività
con un solo dipendente, tipo lo studio professionale con segretaria e viceversa. Ci troviamo in un mondo del lavoro dove i passaggi non sono l’eccezione ma la regola e sempre più questo tipo di mobilità investe anche il lavoro dipendente a tempo indeterminato.20 Dopo aver seguito un gruppo omogeneo di biografie di lavoratori intermittenti presso pubbliche amministrazioni e imprese private, anche Annalisa Murgia, autrice di una delle ricerche più attente sul lavoro “non standard”, propone la parola “transizione” come chiave interpretativa del mondo del lavoro oggi.21
Di passaggio in passaggio qualcuno “ce l’ha fatta”, il filone delle “storie di successo”, di quelli che “sono stato fortunato”, è in
evidenza nelle librerie, imperversa nei blog, particolarmente in
quelli dedicati ai freelance, ma non è il genere che più c’interessa,
almeno in questo libro.
Transiti verso la coalizione
Sociologi o formatori, statistici o giuslavoristi, coloro che per
mestiere osservano, indagano, studiano il mondo del lavoro di
oggi, sembrano d’accordo: la mobilità in tutte le sue forme – il
transitare da una situazione all’altra, da una condizione all’altra,
da una professione all’altra, da un paese all’altro – è il connotato
comune, la forma di esistenza più diffusa della lavoratrice e del
lavoratore moderni. Per riuscire a sopravvivere così, l’umano deve essere “flessibile”, come suona il titolo di un famoso libro di
Sennett.22 Raramente nella storia dell’analisi del lavoro si era
giunti a risultati così convergenti, pur partendo da diverse discipline e da diversi metodi di ricerca. Ma questa singolare convergenza corre il rischio di rivelarsi sterile, se non apre lo sguardo
a un nuovo orizzonte. L’analisi non può essere fine a se stessa;
per saper dire qualcosa a coloro che mettono in gioco la propria
esistenza in questa girandola di passaggi, il percorso mentale da
intraprendere comincia proprio da quello che nella maggior parte della letteratura disponibile è considerato un punto d’arrivo.
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Una volta assodato che la vita lavorativa oggi è una sequenza di
passaggi, dobbiamo cercare di capire o, perlomeno, d’interrogarci
sul modo in cui questa situazione può costituire la base di una
nuova civiltà, ossia di un nuovo sistema di valori, di relazioni e
di comportamenti di socialità. Oppure, una volta accertati i danni che una condizione di precarietà può arrecare alla persona,
dobbiamo pur cercare di capire quali accorgimenti o quali strategie individuali o collettive le persone, i soggetti intervistati, hanno messo in atto per tutelarsi, per ridurre il danno. Magari non
ci hanno nemmeno pensato, magari ci hanno provato e poi rinunciato, ma perché? Incapacità di progettare un futuro e graduale scomparsa dell’idea di “carriera” sono aspetti cruciali, ma
non gli unici. Altrettanto rilevante è la trasformazione del senso
di socialità, perché da questo può dipendere non solo la capacità
o meno dell’individuo di costruirsi delle difese ma il modello di
organizzazione sociale nel quale vivremo. Per spiegarci meglio,
conviene riprendere il filo del discorso iniziato con la domestication del lavoro autonomo.
Immergersi nella solitudine della casa-ufficio significa, da un
lato, privarsi della possibilità di un contatto diretto con persone
che hanno i medesimi problemi, le medesime aspirazioni, il medesimo modo di vivere; dall’altro, mettersi in una condizione nella quale il contatto con i propri “colleghi” avviene utilizzando
quasi esclusivamente il canale di Internet. Il locus del lavoro ha
avuto un’importanza fondamentale nella creazione spontanea di
coesione tra persone che si trovavano soggette al medesimo ordine disciplinare. È stato possibile sottrarsi a questo ordine, quindi acquisire un maggiore margine di libertà, solo insieme con altri, con azioni concertate con altri, coalizzandosi per creare un
equilibrio di forze. Quando al luogo unitario della grande fabbrica o del grande ufficio si sostituiscono i mille loci della microimpresa o del lavoro indipendente, il senso immediato di riconoscimento di un proprio simile svanisce; non solo, ma può
svilupparsi un atteggiamento mentale e psicologico per il quale
la lavoratrice o il lavoratore credono di acquisire tanto maggiori margini di libertà quanto più individuale è il loro percorso e
individualistico il loro comportamento. Non si può parlare di lavoro lasciando da parte il tema della coalizione. Senza coalizione, nel periodo fordista, la forza lavoro non avrebbe mai raggiunto un’identità di classe, senza un’identità come gruppo sociale la classe operaia non avrebbe mai turbato gli equilibri di potere, senza un pericolo permanente di alterazione di questi equilibri non sarebbe mai nata l’idea di uno “stato sociale”, senza un
sistema generalizzato di protezione sociale non sarebbe mai na19
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to un modello sociale europeo. Tra il locus del lavoro e un modello di civiltà esiste una catena genetica, che passa inevitabilmente per lo stadio della coalizione. Scompare o cambia radicalmente quel “luogo”, quel “dove”, e la sequenza s’inverte, quel
modello di civiltà tramonta e ne nasce un altro. Inutile piangerci sopra, è andata così, invece di portare il lutto occupiamoci piuttosto di una fastidiosa eredità che quel modello ci ha lasciato:
l’archetipo del lavoro a tempo indeterminato.23 È questo archetipo a impedire di capire quale nuovo modello di civiltà stia nascendo, è questo schema mentale a far chiamare “atipico”, “non
standard” il lavoro normale più diffuso, è su questo frame che si
è costruita l’immagine del “precariato”. Forse è il peso di questo
schema mentale che fa trascurare ai ricercatori il tema della coalizione e sequestra il loro interesse condannandolo a occuparsi
soltanto delle devianze dall’archetipo. A questo punto però un’obiezione potrebbe metterci in imbarazzo. “Nel riproporre il tema della coalizione evocando modelli sindacali, non siete anche
voi succubi dell’archetipo del lavoro a tempo indeterminato? Organizzazione sindacale, lavoro a tempo indeterminato, modello
sociale europeo non sono le pareti di una medesima stanza, i lati di una medesima costruzione? Volete far indossare al lavoro
‘atipico’, autonomo, postfordista un vestito che non è fatto su
misura per lui?”
Direzioni sbagliate
Consapevoli di questo rischio, abbiamo costruito una sequenza che non affronta il problema della coalizione partendo
dalla storia del sindacalismo operaio o dalle ideologie del socialismo o del comunismo. Ci siamo spostati su un versante diverso e lontano, quello delle ideologie e delle culture che hanno permeato le forme associative della middle class, così estranee e a
volte avverse al modello sindacale.
Non è la cultura del proletariato ma quella delle élite borghesi
che va messa a nudo, se vogliamo capire la direzione che deve
prendere oggi una coalizione di lavoratori della conoscenza che
svolgono attività in proprio. Solo in certi momenti eccezionali
della loro esistenza i sindacati operai hanno rappresentato effettivamente i colletti bianchi del lavoro dipendente e i freelance
delle professioni intellettuali. Ripercorrere la storia del socialismo e del movimento operaio, delle varie correnti che dal ceppo
iniziale si sono sviluppate in diverse direzioni, spesso avverse tra
loro, non sarebbe servito a nulla per lo scopo principale di que20
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sto libro, che è quello di mettere a fuoco il tema della coalizione
del lavoro postfordista e in particolare del lavoro autonomo di
seconda generazione. Non è l’ideologia che ha creato l’identità di
classe tra gli operai quella che ci aiuta a capire la situazione di
oggi, ma l’ideologia che ha creato l’identità borghese, quella che
uno degli autori da noi più citati ha definito il collante della
middle class, il professionalismo. A questo tema è dedicato il prossimo capitolo. Abbiamo voluto ripercorrere le vicende di un sistema di pensiero che, al pari delle altre ideologie sociali dell’Ottocento/Novecento, ha avuto i suoi momenti di ascesa e la sua
fase di declino, ma non è un semplice residuo del passato, è ancora un’idea di lavoro con molti proseliti, anzi, se ci limitiamo alla situazione italiana, è un’idea maggioritaria sia presso le professioni riconosciute dallo stato – ma questo è comprensibile –
sia presso le professioni non regolamentate, riuscendo a condizionarne i modelli associativi e mettendo un’ipoteca su contenuti e forme della coalizione – e questo è meno comprensibile. Poiché siamo convinti che questa ideologia sia stata consumata dal
tempo e superata dalla nuova organizzazione del lavoro di conoscenza, riteniamo che anche i modelli associativi da essa ispirati non corrispondano alle reali esigenze di tutela dei freelance
e portino alla creazione di organizzazioni di rappresentanza dove sono dominanti i processi di esclusione. Invece è proprio il
vuoto di coalizione e di rappresentanza del lavoro postfordista in
generale, e in particolare della componente compresa in quella
che abbiamo definito la “zona grigia” (contratti “atipici”, partite
Iva, imprenditori con un dipendente) a rendere inderogabili forme associative con alto livello d’inclusione. Sono queste le considerazioni che ci portano a dare un valore speciale alla comunicazione per collegamento remoto. Internet non è soltanto la
moneta “corrente” delle transazioni comunicative, è un “come”
e un “dove” di cui vanno valutati con molta attenzione limiti e
opportunità, perché, a seconda che si sappia superare i limiti e approfittare delle opportunità, contenuti e senso della coalizione
possono cambiare radicalmente, possono venire a vantaggio dei
lavoratori della conoscenza o chiuderli in una trappola. Internet
è il nuovo locus del lavoro di conoscenza; gli immensi capannoni della fabbrica fordista che racchiudevano e sorvegliavano migliaia di operaie e di operai, luoghi di sofferenza ma anche di solidarietà, di unione, di conflitti, sono sostituiti oggi da questo “dove” percorso da milioni di transiti.
Docente di diritto all’Università di Trento, Riccardo Salomone ha scritto il testo più recente ed esaustivo sulla posizione delle libere professioni intellettuali nell’ordinamento giuridico ita21
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liano e sulla ricca e controversa giurisprudenza che a vario titolo si è pronunciata sulle competenze dello stato e delle regioni in
materia di libere professioni, sulla natura degli ordini e dei collegi, ma soprattutto sui problemi sollevati dall’iniziativa comunitaria di liberalizzazione delle professioni e di tutela della concorrenza, sulla quale torneremo in seguito più estesamente.
L’analisi puntuale di Salomone rileva in continuazione una serie
di incongruenze che confermano il nostro giudizio critico nei
confronti di certi modelli associativi, in particolare quando vengono indicati come la migliore forma di coalizione delle professioni non regolamentate:
Da oramai più di un decennio, ordini e collegi attraversano una fase critica, in conseguenza di fattori diversi [...] molte delle funzioni originarie di ordini e collegi si sono perse nel tempo – bastino alcuni esempi: la valorizzazione dell’appartenenza al gruppo e la promozione della professione, la funzione di addestramento dei più
giovani e l’idea di una formazione permanente dei singoli membri –
oppure si sono trasformate in un ostacolo all’operare in concreto
dei principi della tutela e della libertà dei singoli, oltre che di una
società “aperta”. Per paradosso, i tempi a noi più vicini hanno offerto il dato di una crescente moltiplicazione di albi e di registri,
costruiti a misura dei diversi operatori economici, anche in relazione a professioni, per così dire, lontane dal modello tradizionale. Un dato, questo, che ha costituito un fattore evidente di “crisi”
della categoria, con una sorta di polverizzazione delle attività professionali in una molteplicità di sottosistemi autoconclusi ai cui
margini, oltretutto, le spinte al riconoscimento – da parte dello stato – aumentano ulteriormente [...] queste vicende pongono bene in
luce, oltre al resto, il progressivo scollamento tra libere professioni intellettuali e protezione legale delle stesse attraverso norme e
principi di diritto pubblico.24
Le incongruenze nell’ordinamento giuridico delle professioni
intellettuali sono riconducibili non tanto a una carenza dottrinale quanto a una continua erosione di alcuni principi fondamentali dell’idea tradizionale di lavoro professionale, dovuta alle trasformazioni del modo di produrre servizi nella società postfordista. Scegliere di coalizzarsi adottando i modelli associativi prodotti dal professionalismo significa rischiare di restare intrappolati in queste incongruenze, stante la cronica incapacità dello
stato italiano di riformare i propri ordinamenti. Se alla fine del
percorso tracciato nei prossimi capitoli potremo dichiarare la nostra preferenza per modelli associativi che rientrano nell’ordine
simbolico del sindacato, non sarà certo perché siamo vincolati
all’archetipo del lavoro a tempo indeterminato, ma al contrario
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perché ragioniamo su una realtà del lavoro che ha mandato in
frantumi figure idealtipiche e schemi concettuali, lasciando sul
terreno una varietà di situazioni esistenziali le quali, tuttavia,
hanno poche ma ben consistenti cose in comune, anche se gli uni
lavorano con partita Iva, gli altri sono collaboratori a progetto e
altri ancora sono imprenditori con uno o due dipendenti. Sono
due-tre cose essenziali, come previdenza, assistenza, manutenzione e accrescimento del capitale umano, la base su cui si può
costruire una coalizione, come abbiamo cercato di illustrare nel
capitolo dedicato alle conseguenze indirette dell’attuale crisi e ai
carenti sistemi di previdenza e assistenza che non tutelano in alcun modo i nuovi lavoratori autonomi.
Strade a uscita incerta
Ma un’organizzazione sindacale già esiste, perché rendere le
cose difficili e volersi avventurare in modelli associativi separati? I sindacati dei lavoratori in Italia e non solo hanno dimostrato recentemente di volersi prendere a cuore i problemi delle professioni. Perché non aderire a questi richiami e seguire un percorso molto più lineare, quello della trasformazione del modello
europeo di stato sociale in un nuovo tipo di configurazione più
aderente ai bisogni delle nuove figure professionali? Perché non
cercare di avere più peso nei sindacati esistenti in modo da renderli più attivi sul piano della progettazione di una flexicurity?
Sono i sindacati a sedere ai tavoli delle istituzioni europee: come
può pensare un gruppo appena nato, non riconosciuto, di trovare ascolto e di poter influire sulle decisioni?
Il terzo capitolo di questo libro è dedicato al lavoro subordinato, prendendo a esempio tre paesi, la Germania, gli Stati Uniti e l’Italia. La ragione per cui abbiamo ritenuto di dover introdurre un capitolo sul lavoro dipendente in un testo dedicato al
lavoro indipendente sta proprio nel giudizio che riteniamo si possa dare del ruolo del sindacato oggi. Negli ultimi vent’anni in tutti i paesi il sindacato dei lavoratori ha incontrato grandi difficoltà
a difendere l’occupazione. Questo è stato il suo compito primario, arginare l’emorragia di posti di lavoro e favorire l’occupabilità
delle persone. In Italia ciò è avvenuto difendendo a denti stretti
alcuni articoli dello Statuto dei lavoratori, in particolare l’articolo
18, ma soprattutto reggendo in piedi, a costo di un salasso dei
conti previdenziali, la cassa integrazione, della quale si è esteso
il campo d’applicazione (Cig in deroga) e al cui interno si prediligono i regimi più “generosi”.25 Più che ammortizzatore sociale
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è una forma di finanziamento pubblico all’impresa, visto che senza la cassa integrazione il tasso di disoccupazione in Italia sarebbe di due-tre punti percentuali superiore. Che cosa hanno concesso in cambio i sindacati? La flessibilità dei rapporti d’impiego,
in sostanza i contratti “atipici”. La coalizione dei lavoratori autonomi, e in particolare dei freelance della creatività e della conoscenza, vuole offrire un terreno d’incontro anche ai lavoratori con contratti di collaborazione, figure miste che stanno a metà
tra la subordinazione e l’indipendenza. Come si può pensare che
i loro interessi vengano rappresentati da quelle stesse organizzazioni che hanno autorizzato a piene mani la loro precarietà?
In effetti, al di là delle dichiarazioni d’intenti, al momento attuale nessun sindacato ha ancora sviluppato un metodo specifico di
tutela di queste figure sul luogo di lavoro, che sia praticabile senza il ricorso alla magistratura. Oggi un sindacato del precariato
non esiste, esistono organizzazioni sindacali di assistenza legale
al precariato e di consulenza fiscale, ma non sono state pensate
né tecniche di negoziazione né tecniche di pressione. Solo nell’area dei contratti “atipici” che rientrano nella fattispecie del lavoro subordinato sono state sviluppate azioni di contrattazione
di condizioni salariali e di continuità del rapporto di lavoro. Ma
quegli 1,17 milioni di persone che, secondo la stima Isfol, nel
2008 lavoravano con contratti di collaborazione non hanno un
sindacato che li protegga. Inoltre, se è pur vero che gli “atipici”
con attività lavorativa di tipo subordinato hanno potuto sperimentare azioni sindacali di tutela dei loro interessi, sono stati
molto più frequenti i casi di negoziati che prevedevano l’ingresso
massiccio di contratti “atipici” in aziende dove di fatto i sindacati hanno autorizzato l’istituzione di un doppio regime lavorativo, uno riservato al core manpower che gode dei diritti fondamentali e l’altro riservato a rapporti di lavoro “non standard”
esclusi da quei diritti e dalle prestazioni a essi collegate. In questo modo i tassi di disoccupazione ufficiali hanno potuto mantenersi contenuti e in certi periodi del nuovo millennio diminuire, ma il prezzo è stato quello di creare un’area sempre più vasta
di working poors, come vedremo quando parleremo del caso tedesco. Il problema che abbiamo voluto porre nel terzo capitolo
non riguarda la componente “non standard” del lavoro, riguarda
proprio l’archetipo del lavoro a tempo indeterminato. È qui in
sostanza che si è rotto ogni argine all’intensificazione del lavoro,
sia in termini assoluti, come orario di presenza, sia in termini relativi come carico medio di lavoro per dipendente, in particolare nelle mansioni da “colletto bianco” che richiedono specifiche
competenze. Il tutto in un quadro di deterioramento dei rappor24
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ti umani con la gerarchia aziendale. È da questi ambiti che il sindacato è sparito e compare soltanto, a tratti, quando si tratta di
medicalizzare il disagio. Anche se certi diritti fondamentali del
lavoratore dipendente in quanto cittadino sono stati mantenuti,
sul luogo di lavoro, e in particolare per i “colletti bianchi” che
svolgono mansioni intellettuali, il potere discrezionale del management è diventato man mano assoluto, spinto ai limiti della
tollerabilità. A eccezione delle pubbliche amministrazioni, ma
non sempre. Il sindacato è scomparso da questi ambiti della condizione lavorativa sia per una sistematica azione antisindacale
del management, sia per sua scelta, sia perché viene tenuto lontano da uno strato di “colletti bianchi” completamente succube
alle direzioni aziendali e terrorizzato dall’idea di perdere il lavoro e lo status di ceto medio.26 Pertanto l’ambiente di lavoro dei
knowledge workers del postfordismo con rapporti di lavoro a tempo indeterminato ha già azzerato il modello sociale fondato sulla contrattazione tra le parti. La stabilità dell’impiego viene pagata con l’accettazione di una completa discrezionalità delle scelte manageriali. Si può dire che è sempre stato così, e in parte è
vero, ma non si può negare che il clima nei grandi complessi
aziendali sia cambiato e che nei luoghi di lavoro anche più prestigiosi si sia insinuata la paura. La situazione italiana presenta
delle specificità che non si riscontrano altrove; se è vero che la
tutela dell’articolo 18 contro i licenziamenti è ancora tra le più
solide in Europa, va detto che ormai i lavoratori dipendenti che
godono di questa copertura sono una minoranza. L’Italia che lavora alle dipendenze sta nella piccolo-media impresa, nella microimpresa, dove i rapporti informali quasi sempre sostituiscono i rapporti negoziati tramite sindacato. La vera débacle sindacale si è avuta con gli accordi del luglio 1993, in virtù dei quali la
contrattazione aziendale – quella che per sua specifica funzione
interviene sulle forme di organizzazione del lavoro e sulle pratiche di gestione delle risorse umane – è praticamente scomparsa.
Pur essendo in vigore in vari paesi, come Stati Uniti, Germania
e Italia, regimi di relazioni industriali completamente diversi, potremmo dire che nel postfordismo la componente del lavoro dipendente rimasta più “scoperta” dal punto di vista sindacale è
stata quella dei lavoratori della conoscenza, che esercitano mansioni paragonabili ai servizi offerti dai freelance delle professioni non regolamentate. Non ha senso quindi che i lavoratori indipendenti si rivolgano ai sindacati esistenti per ottenere tutele che
non sono state assicurate nemmeno ai dipendenti a tempo indeterminato. A maggior ragione nella situazione italiana dove, lo
vedremo meglio nei capitoli sui problemi previdenziali e sul giusto
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compenso, l’atteggiamento prevalente nelle organizzazioni sindacali, come Cgil, Cisl e Uil, è quello di chiedere un ulteriore aggravio del peso contributivo degli autonomi che operano con partita Iva. Quale operaio si iscriverebbe a un sindacato che gli vuole tagliare la busta paga?
Anche sul tema della flexicurity è poco credibile che le organizzazioni sindacali esistenti sul piano europeo si muovano in
fretta, assumendola come una priorità, perché, in una situazione
di drastica riduzione delle risorse pubbliche e di orientamento
politico di centrodestra, una riforma dei sistemi di sicurezza sociale potrebbe essere finanziata solo con lo spostamento di risorse
dalle prestazioni previste per i lavoratori che costituiscono il maggior numero di iscritti al sindacato ai lavoratori con contratti “atipici” o autonomi, che non brillano certo per la loro adesione al
sindacato. Inoltre, e questo è forse il punto più importante, nessuna riforma di vasta portata viene avviata in una fase di passività dei soggetti che dovrebbero esserne i beneficiari. Se questi
non alzano la voce, se non prendono essi stessi in mano il loro
destino, se non sono loro stessi a definire il tipo di esigenze e bisogni che dovrebbero essere tutelati, a determinare i meccanismi
di erogazione delle prestazioni, a delineare progetti di autotutela o di sviluppo del capitale umano, a indicare la dannosità di determinate procedure burocratiche e a respingere l’ingerenza di
certi apparati amministrativi, in definitiva a scrivere l’agenda della flexicurity, una riforma non vedrà mai la luce, o sarà l’ennesimo
espediente per ingrossare apparati parassitari.
Pensare a se stessi
L’idea di coalizione che si sta lentamente diffondendo nell’area del lavoro autonomo a elevate competenze specialistiche è
molto diversa da quella che negli ultimi decenni ha caratterizzato il lavoro dipendente nei suoi rapporti con il sindacato. Anche
nella concezione della coalizione c’è lo stesso desiderio di essere
padroni di se stessi che ha determinato la scelta professionale.
Non c’è fiducia nella delega e non c’è, al fondo, fiducia negli assetti istituzionali della negoziazione per il semplice fatto che il
lavoro autonomo non è mai entrato nel sistema delle relazioni
industriali né nel diritto del lavoro. C’è infine, come fattore generazionale, la convinzione che non ci sono né ci saranno prestazioni assistenziali e previdenziali pubbliche tali da consentire
anche in vecchiaia il mantenimento dello status sociale acquisito con il proprio lavoro indipendente, se non per la capacità o
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meno di aver accantonato risorse private. Sentimento, questo,
che avvicina molti lavoratori autonomi alla vasta schiera del precariato e al mondo giovanile in genere. Questo atteggiamento
mentale porta il lavoratore autonomo ad avere fiducia solo nelle
coalizioni che portano avanti istanze specifiche alla sua attività
lavorativa e ciò spiega in parte il persistere della larga adesione
ad associazioni professionali che ricalcano il modello delle gilde
medievali. Il timore sempre crescente di non poter attingere a
prestazioni universali in grado di consentire il mantenimento dello status sociale acquisito induce infine a vedere nella coalizione
una forma (forse sarebbe meglio dire una speranza) di mutuo
soccorso. Ma su questo piano c’è un altro aspetto molto importante, che è quello dello scambio d’informazioni e di accesso a
una rete di contatti che possano trasformarsi in tante occasioni
di progetti da offrire sul mercato. La realtà associativa è anche
uno strumento di promozione, termine questo che nell’opinione
comune viene associato alle campagne di vendita dei supermercati e pertanto considerato con disprezzo, ma che nella vita quotidiana del lavoratore indipendente vuol dire semplicemente attività per superare il precariato dei lavori intermittenti. Certamente è più difficile riscontrare nel lavoratore indipendente il
senso di appartenenza a un’organizzazione mentre è molto più
radicata la convinzione che l’associazione dev’essere essenzialmente un centro di servizi. Anche questi aspetti però non sono
caratteristiche innate in una determinata figura del mondo del
lavoro, ma proprietà del tempo storico in cui ci troviamo, un tempo nel quale l’identità di gruppo si sta consolidando a poco a poco. Nei paesi anglosassoni ormai è un dato acquisito che “essere
un freelance” significa essere qualcosa di ben definito e identificabile nello spazio pubblico, con tutto il contorno di orgoglio
identitario che questo significa. In Italia siamo agli inizi e prevale l’appartenenza alla piccola corporazione piuttosto che all’organizzazione trasversale. Il “fare da sé” quindi pervade tutta
l’idea di coalizione ed è qualcosa di profondamente estraneo alla “delega della rappresentanza degli interessi” che ha caratterizzato il rapporto tra iscritti e sindacato dei lavoratori tradizionale.27 Anche perché al fondo c’è una differenza importante: il lavoratore dipendente ha dei parametri per sapere se il suo salario
è giusto o iniquo – sono i parametri offerti dai contratti nazionali e da eventuali norme che fissano per legge un salario minimo di settore. Il salario dunque è qualcosa di oggettivo, è una
grandezza che trova rispondenza in un ordinamento pubblico,
gli scostamenti in più o in meno sono oggetto di conflitto e/o negoziato tra le parti. Per il lavoratore indipendente la sua retribu27
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zione è un elemento molto soggettivo perché è una grandezza che
dipende dalla sua offerta, cioè da un suo gesto di mercato che è
“costituente” del rapporto con la controparte, ed è una grandezza desunta da una serie di variabili che mutano a ogni nuovo rapporto di lavoro e sono costituite dalle diverse voci di costo che il
lavoratore autonomo deve imputare alle attività indispensabili
all’esercizio della sua professione e del compito specifico che gli
viene assegnato. Nel “quotare” una sua prestazione, il freelance
deve saper fare un bilancio di previsione, cioè qualcosa di molto
diverso dal calcolo di un bisogno esistenziale. La percezione del
suo guadagno non ha nulla a che fare con l’equilibrio salario/consumo proprio dell’amministrazione esistenziale del lavoratore dipendente. Perciò se il sindacato del lavoro dipendente
ha come suo compito principale quello di governare il salario,
l’associazione dei lavoratori autonomi avrà tra i suoi scopi principali quello di aiutare il socio a fare previsioni di bilancio possibilmente corrette. Per questo abbiamo inserito un corposo capitolo su “quanto farsi pagare”. Le cosiddette tariffe di mercato
riguardano soltanto una parte delle professioni non regolamentate, e in questi casi l’associazione dovrà sorvegliare che non subiscano ribassi, lanciare un allarme quando ciò avviene e dovrà
chiedere ai soci l’impegno morale a non praticare comportamenti
da dumping. Per il lavoratore dipendente la retribuzione è in genere qualcosa di estraneo alla sua volontà, risultato di un negoziato tra le parti, che spesso avviene sopra la sua testa, o di un atto d’imperio dell’azienda. Per il lavoratore autonomo la retribuzione dipende in buona parte da lui stesso (anche se alla fine è il
committente a dire l’ultima parola) perché si configura essenzialmente come un fatto relazionale.
“Fare da sé” (persino nell’ambito retributivo) diventa quindi
la disposizione d’animo fondamentale del lavoratore indipendente. Ciò può portare alla negazione dell’idea di coalizzarsi con
altri (e purtroppo la letteratura sui freelance è dominata da questa versione), l’idealtipo del freelance sarebbe quello che riesce a
farcela solo con le proprie forze, anzi, più concentrato è sulla propria solitudine, più il successo gli arride. Noi siamo contrari a
queste rappresentazioni convenzionali, le troviamo stucchevoli e
insulse, non a caso abbiamo dedicato un capitolo all’immagine
del lavoro autonomo che i media sono soliti trasmettere. Pensiamo che sia meglio cambiare registro e cercare di mettere a fuoco piuttosto la condizione esistenziale dei freelance in rapporto
al loro contesto tipico di lavoro, che può essere, certo, anagraficamente, la casa-ufficio, ma dal punto di vista del senso di socialità e della percezione del rischio – i due fattori principali di
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spinta verso la coalizione – è il web. Il rischio lavorativo ha cambiato natura e il freelance è il primo ad averlo capito, puntando
su sistemi aperti di condivisione del sapere via Internet, dal quale trarre nuovi spunti di crescita personale, ma soprattutto di coalizione e lotta nella rivendicazione sociale di un nuovo spazio di
incontro.
I diversi confini del rischio
La prima volta che Günther Anders, filosofo tedesco di origine ebraica e marito di Hannah Arendt, costretto a emigrare
negli Stati Uniti in tempo di guerra, scrisse a Claude Eatherly,
pilota di uno dei sette B-29 che parteciparono alla missione dell’Enola Gay, chiedendo la ragione per cui avesse scaricato la prima bomba atomica su Hiroshima e da dove avesse tratto forza
e motivazione per fare una cosa del genere a un popolo che non
aveva mai frequentato sapendo gli effetti che avrebbe prodotto,
questi non rispose, sorpreso dalla domanda. Passarono gli anni,
ma quando nel corso di un’intervista a un giornale chiesero allo stesso pilota che cosa avrebbe potuto rispondere ad Anders,
dichiarò: “Nothing, that was my job”.28 Niente, era semplicemente
il suo lavoro. Come spiega Umberto Galimberti, che ha ricordato questo aneddoto,
in altre parole si considerava un buon pilota perché sapeva quando
e come il bottone doveva essere schiacciato. Ciò che gli si richiedeva era soltanto una competenza tecnica. Quello era il suo “lavoro”,
di altro non era responsabile.29
Era quanto richiesto nell’esecuzione, sotto comando, di un
compito deciso e codificato altrove, da chi ha imposto questo “lavoro” reso possibile dalla tecnologia e dal pulsante da schiacciare la mattina del 6 agosto 1945. È un caso limite, certamente, ma
apre un’interessante questione che tocca da vicino la distinzione
tra subordinazione e autonomia, portando le tecnologie in primo piano. Galimberti poneva il problema in questi termini:
La parola “lavoro”, così carica di considerazioni positive, nell’età
della tecnica è molto pericolosa, perché limita la responsabilità alla buona esecuzione degli ordini senza alcuna considerazione sugli
effetti della propria azione.
Il lavoro alle dipendenze è stato certamente rivoluzionato
dall’uso della posta elettronica e delle tecnologie informatiche,
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ma più in generale dall’ingresso delle “macchine pensanti” nella catena di produzione, e ha modificato radicalmente le relazioni di forza tra lavoratori. Oggi c’è “il comando”, l’azione che
prevede una responsabilità e che va oltre le macchine e i capitali, e ci sono “i comandi”, ovvero quelle strumentazioni principalmente elettroniche, in mano oramai a quasi tutti i lavoratori dell’impresa moderna, per eseguire compiti e costruire il
valore in una catena che coinvolge sempre di più “forza lavoro
cognitiva” e “operai dei dati”. Qui si nascondono i nuovi Claude
Eatherly delle aziende moderne, che alienano la propria individualità per rispondere alle necessità del software d’impresa,
per costruire efficaci azioni di marketing digitale, commercio
elettronico, finanza virtuale. L’evoluzione delle relazioni di forza e la possibilità per il lavoratore di cancellare la propria responsabilità negli anfratti della realtà e dei comandi digitali
sembrano trovare oggi nuovi spazi, in particolare nel luogo senza frontiere che è diventato Internet. Quando la Bnl fu coinvolta nello scandalo della fornitura di armi a Saddam Hussein,
chi lavorava in quella banca era colpevole? Evidentemente no.
E chi fino a pochi momenti prima della notizia di questo affaire
aveva negoziato azioni di quell’azienda, magari attraverso il trading online? Anche per loro bisogna dire di no? E quando investiamo soldi in Borsa, siamo responsabili degli scopi finali
delle industrie che finanziamo? Oggi siamo portati a dire di no
perché la tecnica ci obbliga a occuparci soltanto del rapporto
tra investimento e relativo profitto. Lì finisce la responsabilità.
Così come finisce lì, nel pulsante schiacciato, la responsabilità
di chi opera senza coscienza sotto comando altrui. Non vi è nulla di nuovo rispetto al marxiano antagonismo fra esistenza ed
essenza, tra oggettivazione e autoaffermazione, tra libertà e necessità, tra individuo e specie. Soltanto che oggi abbiamo i database relazionali, la business intelligence, i call center con archivi di risposte predefinite, i sistemi di picking elettronico dei
prezzi sulle scatole di cartone, i brand book con le regole di comunicazione aziendale, le comunicazioni di servizio trasmesse via e-mail, i Kpi (Key Performance Indicator) per misurare
i risultati del lavoro digitale. Oggi è più facile cancellare la propria responsabilità personale dietro pulsanti e comandi vocali,
e più in generale costruire catene del valore che, al posto delle
presse, degli utensili o dei forni mettono computer, dispositivi
mobili, transazioni elettroniche e attraverso questi inventano
nuove metafore del lavoro, nuove formule astratte per rimuovere la soggettività individuale e collettiva e circoscrivere il lavoro a compiti, quasi si trattasse di un semplice “mansionario”
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privo di responsabilità finali, all’insegna di una completa deresponsabilizzazione di quanto realmente si sta facendo. Claude Eatherly in definitiva fu responsabile dell’eccidio di Hiroshima, sì o no? Come ha spiegato Jacques Derrida alla fine del
secolo scorso,30 è veramente responsabile soltanto chi risponde delle proprie azioni: per chi lavora sotto comando non si
tratta di vera “responsabilità” poiché questa esiste soltanto là
dove non vi sono soluzioni predefinite e bisogna inventarle. La
responsabilità si esprime con gesti che mettono in chiaro la genesi di una nuova strada, la creano e definiscono una scelta senza ragione. L’opposto è la semplice discrezione, la capacità di
distinguere tra opzioni, scegliendo la migliore, oppure, come
accade nell’epoca della tecnica, schiacciando il giusto pulsante. È vero, oggi il lavoro sotto comando è sempre più deregolato, affidato in particolare nel settore del terziario a piccoli
team interni alle imprese che assumono forme a geometria variabile,31 includendo personale alle dipendenze, lavoratori atipici se non addirittura in staff leasing, ovvero lavoratori che
hanno forme contrattuali molto diverse. Le distanze intersoggettive sono minori nell’assegnazione dei compiti, affidati direttamente via e-mail, ma nonostante queste metamorfosi lente e graduali il lavoro alle dipendenze mantiene un elemento
forte che si radica nel vincolo di subordinazione: la possibilità
di rispondere sempre, in termini astratti: “Nothing, that is my
job!”, evitando lo scontro diretto con il problema della responsabilità e del rischio. I “pulsanti” che si possono schiacciare all’interno di un’organizzazione strutturata, per quanto questa
sia disarticolata, sono pur sempre identificabili e codificati nei
processi e nel disegno dei ruoli. Tutto questo non accade, invece, nel mondo del freelancing, in cui il lavoratore autonomo
non può mai giustificare le proprie scelte additando qualche
ragione di ordine superiore, perché lo ha voluto un capo, un dirigente che ha dato una determinata linea d’azione. Sebbene
non definisca gli obiettivi, se non quando ha per compito proprio questa attività, il lavoratore autonomo deve sempre giustificare il contenuto di quanto prodotto e in questo non è mai
sostituibile a se stesso. Non gioca in un ruolo che possa essere
occupato da pedine diverse sulla scacchiera, i piloti degli altri
sei B-29, perché il freelance vola quasi sempre in solitaria ed è
compito suo, senza che qualcuno glielo comandi, centrare il
giusto bersaglio nel modo in cui ritiene più opportuno. Fuor di
metafora, è chiaro che la cessione delle responsabilità che le
relazioni di lavoro autonomo implicano porta inevitabilmente
con sé anche la cessione esplicita dei rischi, una consegna che
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fa convivere ansia e libertà, paura per il futuro, ma discrezionalità rispetto ai mezzi e alla tecnologia da usare e ai pulsanti
da schiacciare. Il lavoratore indipendente non ha prospettive
di impiego di lungo termine né rigidità nei processi di produzione o gerarchie da rispettare, ma paga con un prezzo molto
salato queste libertà, assumendosi la piena responsabilità di ciò
che fa e il rischio legato ai mezzi e ai costi di produzione. La
paga con l’ingresso, volontario o involontario, in un regime flessibile di accumulazione del proprio reddito e alla determinazione non facilmente programmabile di un patrimonio, che non
fanno più capo alla negoziazione collettiva (sindacale) con cui
finora la società occidentale ha cercato di ridistribuire la ricchezza. Il freelance è al centro di una metropoli globale, in cui
le istituzioni finanziarie spostano agilmente denaro e diritti, le
imprese multinazionali delocalizzano produzioni e proprietà,
oltre al controllo e alle responsabilità, e il modello toyotista di
produzione del valore vede nell’eccesso di risorse un semplice
spreco da tagliare. Il rischio che si assume è di operare negli
interstizi della produzione moderna accettando come unico luogo di lavoro quello indeterminato della conoscenza. L’alta intensità di lavoro qualificato deve controbilanciare la bassa richiesta di ripetitività, di lavoro esecutivo e, di conseguenza, di
capitale fisso. Al lavoratore autonomo si chiede di trovare il
nuovo senza trasformarlo in investimento “in conto capitale”,
ovvero in un prodotto finito da riprodurre in serie o alienare
nella sua ripetizione. Questo è il rischio principale: confermare il proprio saper fare variando l’opera ogni volta, esponendo
cioè la propria conoscenza alle continue metamorfosi produttive senza poter contare sulla rendita di posizioni che da sole
tutelano la certezza di un reddito. Oggi è sempre più chiaro come la tecnologia non sia per nulla estranea a questo processo.
Sostanza tecnologica del vivere
Nell’economia della conoscenza, il sapere e il lavoro qualificato si incorporano nelle reti informatiche e sono fatti circolare tra network personali o sociali, superando barriere geografiche, scardinando quei sistemi di accumulazione di tipo
proprietario che consentono rendite su scala crescente, tipici
del modello fordista. La conoscenza si produce con la raccolta
di conoscenza e per mezzo di altra conoscenza, diffusa apertamente sempre di più via web. I sistemi chiusi del sapere, gli ordinamenti che delimitano la conoscenza a quanto raccolto in
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tomi con migliaia di pagine, custoditi gelosamente su scaffali
di studi professionali, si scontrano sempre più con processi
informali di condivisione, con depositi di conoscenza distribuiti online, con archivi di informazioni in base ai quali rimodellare la propria preparazione. Il prodotto iniziale, e la materia prima del lavoro cognitivo dei professionisti indipendenti
che operano nell’economia della conoscenza, è l’elaborazione
di queste informazioni e del patrimonio di sapere tacito già accumulato. Le tecnologie, Internet e oggi tutte le reti sociali che
vanno da Twitter a Facebook, passando per i blog personali e i
social media, sono i mezzi che consentono di avvicinare la cultura sociale (che include capacità relazionali e saperi condivisi), la conoscenza produttiva e il proprio “capitale biografico”,
ovvero quel bagaglio di esperienze e vissuti che rende unico il
soggetto che entra nel gioco della comunicazione sociale. Il web
è la vera sostanza liquida dove i nuovi lavoratori della conoscenza trovano un habitat plasmabile, opportunità di legami
deboli, vetrine dove esporre qualcosa di sé, e perfino strumenti liberi e nuovi mercati di scambio, dove portare manodopera
anche e soprattutto digitale. Questo l’hanno capito i venture capitalist, che vedono nel segmento dei freelance un potenziale
enorme sul web. Nel solo primo trimestre del 2010 i primi dieci marketplace dedicati ai freelance hanno investito oltre 60 milioni di dollari, raggiungendo in tre mesi oltre 150.000 utenti
iscritti e 50.000 imprese o individui che hanno utilizzato questi siti per reclutare forza lavoro. In testa ci sono Elance e oDesk, con il 70 per cento del fatturato di questi servizi e a seguire portali come Guru.com, nato nel lontano 1998, Freelancer.com, iFreelance.com, vWorker.com (ex RentACoder) o
l’inglese peopleperhour.com. Tutte realtà in espansione fortissima, che fatturano fino a 260 milioni di dollari all’anno, come
nel caso di Elance. In Italia sono appena arrivati neoLancer.it
e la tedesca Twago ad affiancare Link2me.it. Qui freelance e
imprese cercano accordi, formulano proposte, propongono progetti, in un terreno che ha più le connotazioni di un mercato
rionale, piuttosto disordinato, ma di qualità, che un’asettica sala riunioni di una multinazionale. Ma anche senza entrare in
questi spazi – dove, ricordiamolo, la logica dello scambio include la guerra dei prezzi (al ribasso), un mark-up per il servizio e, come raccontiamo a margine della nostra analisi sul giusto prezzo, anche la riduzione del lavoro a cottimo o il monitoraggio sui tempi d’esecuzione – il web offre una sterminata
serie di strumentazioni per il lavoro cognitivo di tipo individuale e di gruppo. Si va dal time management, a dizionari, si33
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stemi di traduzione lessicale, tool gratuiti per la scrittura, il calcolo elettronico, la pubblicazione online, l’impaginazione di documenti, la comunicazione integrata, la programmazione, l’ecommerce e altro ancora.32 Grazie a questi strumenti e in questi nuovi ambienti online di scambio si trova terreno fertile per
mettersi in gioco e trovare forme relazionali in linea con la natura stessa dei processi postfordisti, che richiedono tra le caratteristiche principali proprio le conoscenze, la capacità di linguaggio, la fiducia, relazioni spesso informali, l’assenza esplicita di gerarchie e regole strette, e la voglia di scommettere sull’apprendimento partecipativo. Non è un caso che gran parte
dei tentativi di sottrarsi al degrado del lavoro dipendente, alla
dimensione silenziosa del lavoro presso grandi organizzazioni
strutturate, come per esempio la pubblica amministrazione,
trovi sfogo proprio nell’uso intensivo dei social network o della Rete. Oppure nel ghost working o nelle attività indipendenti
in qualità di moonlighter.33 Il tradimento di Bradley Manning,
il soldato che ha passato i file a Julian Assange perché li pubblicasse su WikiLeaks, ha tutti i connotati di una desacralizzazione del ruolo del civil servant, la ribellione del lavoratore sotto comando che da passacarte vuole aprire il sapere al mondo
intero, rompendo i vincoli più stretti e segreti di ogni organizzazione e gerarchia formale. Il degrado trova una riabilitazione nella democrazia elettronica in questo caso, ma più in generale si può dire che il postfordismo cerchi nuove strade per
mettere in mostra il sapere, la vita personale, cognitiva, affettiva e relazionale dei cittadini e dei lavoratori e sembra trovare nella dimensione della comunicazione digitale un alleato formidabile. La stessa acquisizione di nuovo sapere passa sempre
di più da qui. Consumi culturali, autoapprendimento, attività
di socializzazione, iniziative politiche, nel senso più ampio del
termine, passano dal mondo delle tecnologie. Tutto questo è
materia prima dei knowledge workers, ed è ciò che le imprese
più grandi stanno cercando di incorporare con meccanismi di
appropriazione che partono dall’allargamento delle reti Intranet o dal loro ridisegno in chiave sociale. Per rendere più snella, modulare, interconnessa l’impresa, oggi si tende ad aprire
le organizzazioni verso l’esterno, ma la vera grande rivoluzione che le tecnologie sembrano avere portato nel mondo del lavoro è soprattutto quella per gli individui e la loro capacità di
ricomporre reti, coalizioni, gruppi di interessi che prescindono da istituzioni già organizzate o preesistenti alle attività sociali via web. È tra queste due spinte – una individualizzante e
orientata a portare allo scoperto il lavoratore nelle sue capacità
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relazionali, ma anche a esporlo a dinamiche di isolato attivismo, e l’altra contrapposta, ovvero aggregativa, che ricompone
gli interessi e il sapere sociale e le coalizioni – che si inserisce
il lavoratore professionale autonomo. In Rete trova oggi humus
fertile per l’apprendimento permanente, la costruzione di una
digital identity e di un network professionale e, in definitiva, la
sua sopravvivenza nello stesso mercato del lavoro. I LinkedIn,
Viadeo e Xing di turno sono soltanto una riduzione codificata:
le possibilità e la rapidità di costruire reti superano di gran lunga questi sistemi o i sette gradi di separazione che ci mettono
in relazione con chiunque. Oggi se vuoi parlare con Obama,
puoi scrivere sul sito della Casa Bianca. A questa accelerazione dei meccanismi di relazione si aggiungano anche due elementi di grande rilievo: la possibilità di trovare direttrici personali per creare e rinforzare la propria conoscenza, non necessariamente allineata ad alcun sapere certificato, ordinistico
o professionalistico, e l’abbassamento dei costi produttivi per
chi realizza opere intellettuali in autonomia. Bastano due esempi per chiarire. Oggi uno sviluppatore di siti web può imparare
a programmare in un qualsiasi linguaggio open source con una
semplice infarinatura di base che assimila al primo anno di un
corso universitario a indirizzo informatico, se non addirittura
nelle scuole superiori. L’esperienza è certamente ben altra cosa, ma la certificazione di questo sapere non ha bisogno di un
albo. Sul versante degli strumenti, poi, le cose sono ancora più
rivoluzionarie. Fino a dieci anni fa la realizzazione di portali
informativi complessi doveva basarsi su piattaforme proprietarie del costo di svariate centinaia di migliaia di euro. Oggi le
stesse cose si possono fare con sistemi open source gratuiti e
alla portata di singoli lavoratori indipendenti. La piattaforma
Vignette costava quasi 200.000 dollari: è stata spazzata via da
Wordpress, Joomla e Drupal, con cui sono fatti l’80 per cento
dei blog e minisiti al mondo, oggi installati anche da utenti semianalfabeti dal punto di vista informatico. Se si vuol sperimentare un ambiente server in casa, ci sono piattaforme libere
da scaricare via web; se si desidera evitare di pagare gli strumenti per ufficio di Microsoft c’è qualcosa di simile, ma gratuito e se si preferisce non acquistare costosi strumenti software
c’è perfino il torbido mondo del file sharing. Nel bene o nel male, il rischio a cui sono esposti i lavoratori autonomi, come si
intuisce, è reso meno elevato dalla disponibilità di strumenti e
tecnologie condivise, aperte, oppure a basso costo. Almeno sul
fronte della produttività individuale. L’ammortamento di questi investimenti non è un peso insopportabile che si potevano
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permettere soltanto le imprese orientate al profitto. Se anche
un freelance non sa come pagarsi una pensione, non ha certo
il problema di crearsi una casella di e-mail per comunicare, cercare informazioni pubbliche, costruirsi un sito dove riportare
anche soltanto pochi banali dati personali e professionali. Il
passo per uscire dall’invisibilità è breve, un’opportunità e al
tempo stesso una scelta pericolosa secondo vecchie logiche di
cooptazione, affiliazione o “protezionismo lavorativo”. Espone
alla molteplicità di relazioni, mostra la vita del lavoratore nel
suo complesso e non soltanto nella parte che interessa la domanda. Alcuni recruiter americani dichiarano candidamente
di scartare gran parte delle persone preselezionate dopo avere
visitato il loro profilo su Facebook. Perché allora mettere online
se stessi, portare su un blog il proprio sapere? Affrancarsi da ruoli codificati all’interno di organizzazioni strutturate? Semplice,
per guadagnare nuova fiducia e costruire quella soggettività che
possa esprimere al meglio il proprio potenziale biopolitico. Lo
racconta molto bene Alberto D’Ottavi, giornalista professionista
che negli ultimi dieci anni ha modificato la sua occupazione,
passando per ben due volte da posizioni di lavoro dipendente ad
autonomo e che oggi esercita stabilmente la libera professione
in maniera indipendente, come consulente, formatore e blogger
specializzato sui temi dell’innovazione tecnologica. Lo abbiamo
incontrato a The Hub, uno spazio attrezzato per il co-working
presente a Milano:
In passato ho svolto attività di giornalista “classico”, in redazione,
arrivando a fare anche il direttore di testata. Oggi come freelance
ho deciso di ampliare lo spettro d’azione professionale. Le testate
non pagano il lavoro autonomo in maniera dignitosa. Mi sono quindi chiesto che cosa fare del mio sapere accumulato in quindici anni di attività giornalistica nel settore hi-tech in assenza di un mercato abbastanza ampio per guadagnare in modo adeguato con il mio
lavoro. Ho semplicemente continuato a fare quello che sapevo fare,
ma mettendo online un prodotto mio, costruendo un profilo più articolato di consulente e libero professionista. Tutto ciò che scrivo è
diffuso gratuitamente. Oggi alimento una decina tra social network
personali e spazi di pubblicazione incrociati, da un blog a profili su
Facebook, Friendfeed, Flickr ecc. Mi sono specializzato sui social
media e sulla valorizzazione del capitale intellettuale nel mondo IT.
Il mio canale Twitter è uno dei cinque italiani tra i primi mille al
mondo nel segmento hi-tech, seguito da oltre 12.000 follower. Il sito Infoservi.it riceve moltissime visite al giorno, gli iscritti ai feed
sono un migliaio e ho oltre 3000 “amici” su Facebook, con un’audience superiore a molte piccole e medie testate tradizionali. Che
cosa guadagno? Autorevolezza e fiducia. Questo mi consente di in36
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contrare moltissime persone in ogni parte del mondo, imprenditori o giovani creativi, scoprire progetti di start-up, avvicinarli e aiutarli in alcuni casi o raccontare semplicemente le loro storie. La presentazione pubblica del mio sapere e l’attività permanente di lavoro giornalistico di scouting del nuovo nel mondo tecnologico e di
contemporanea riflessione e incrocio con argomenti di storia dell’innovazione mi ha consentito di trovare uno spazio di insegnamento alla Nuova accademia delle belle arti di Milano e svolgere
consulenze per orientare il business di chi opera nel settore e sul
web 2.0. A questo ho aggiunto anche un pizzico di intraprendenza,
con una start-up, cofondata con un amico e collega, che offre un servizio di social e-commerce. Come blogger ho intervistato liberamente, senza trarne profitto diretto, persone del calibro di Chris Anderson di “Wired”, David Weinberger di Cluetrain Manifesto, Cory
Doctorow di BoingBoing, Tim O’Reilly, Dan Rose di Facebook, Joi
Ito di Creative Commons. Quest’ultimo lo incontrai da vicino, casualmente. Alla fine di un convegno mi invitò a pranzo perché vide
che ero l’unico a dare una prova “esibita” del mio interesse alle sue
parole, scrivendo e facendo live-blogging di ciò che raccontava. Ecco, la mia professionalità si basa oggi proprio su questo: elevata specializzazione nei contenuti trattati, informalità, attenzione alle relazioni simpatetiche, curiosità e una costante azione di networking
professionale. Alla fine faccio sempre lo stesso mestiere, lo specialista e divulgatore, a volte come giornalista, altre come docente o
public speaker, talvolta come consulente.
Per Alberto, come per molti altri lavoratori professionali autonomi, sono questi gli ammortizzatori del rischio che deriva dall’autonomia e dall’individualizzazione del lavoro. Invece di replicare il modello dell’economia di scala basata sulla granularità
del sapere rivenduto al pezzo (giornalistico), ha costruito un sapere tacito che dimostrasse autorevolezza e capacità produttive
di qualità, superando ogni arroccamento nel mondo del professionalismo. L’individualizzazione, alla quale la decostruzione del
sistema fordista l’ha portato, e il rischio associato sono controbilanciati dall’insieme di pesi e misure derivanti dal network sociale su cui poggia la sua attività. Alla sperimentazione e all’autoapprendimento costante, che nei blogger è forma di esibizione e al tempo stesso di archiviazione in un deposito digitale personale del sapere accumulato, è affiancata una precisa consapevolezza dei rischi da assumere e una responsabilità che si esercita in prima persona, al di là di ogni rifugio nella delega, nella
spersonalizzazione delle scelte o nella mera esecuzione di compiti. Processi, capacità e intenzioni trovano nella tecnologia strumenti che possono rispondere alle esigenze del lavoratore autonomo forse anche meglio di quanto avvenga nelle imprese dove
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ai dipendenti spesso neppure è concesso il ruolo di amministratore della macchina su cui lavorano. Insieme al sapere individuale sono forse l’unico punto di relativa stabilità intorno al quale ruota la continua modificazione dei percorsi lavorativi dei professionisti indipendenti. Le variabili soggettive, le aspirazioni o
le sfide cambiano nel tempo, ma non si modifica altrettanto rapidamente un account di posta elettronica, l’abitudine a usare
software specifici e dispositivi mobili o wired per determinate tipologie di lavorazioni.
Forme di coalizione nella Rete
La precarietà, intesa come esposizione al rischio, e l’innovazione vanno di pari passo; sembrano due facce della stessa medaglia per quei freelance e consulenti che si orientano all’uso di
tecnologie come “ammortizzatori” professionali. Una prassi che
la generazione di consulenti nata negli anni ottanta costruiva intorno agli incontri individuali e ai colloqui telefonici. Oggi il web
non pone limiti geografici, consente presentazioni ricche (multimediali o estese) di sé, portando in superficie “gli invisibili” ed
eliminando molti intermediari. Facilita le pubblicazioni, la ricerca
e il match con la domanda ed elimina (in potenza) l’isolamento
individuale; li aiuta nella raccolta di informazioni che possono
servire per muoversi in contesti precisi o per analizzare a distanza nuovi ambienti, opportunità, persone, aziende. Nei sistemi più
evoluti dà anche la possibilità di farsi introdurre dai propri amici a terze parti. Per converso espone, però, a nuove tipologie di
rischi tecnico-pratici. Ne sono prova, per esempio, i casi di Alessio Troyli, web designer freelance, che si è visto clonare il sito personale graphikdesign.it da una società turca con Internet provider a Houston, che ha letteralmente copiato (con tecnica di mirroring) la presentazione dei servizi e perfino il porftolio clienti di
Alessio, e il caso di Arnaldo Funaro, in arte Arnald, vignettista,
copywriter e creativo nel mondo dell’advertising che dichiara di
avere inviato per e-mail alcune proposte alla Cgil per una campagna di sensibilizzazione contro il precariato e che lui, precario,
si è visto paradossalmente soffiare l’idea e la sua realizzazione.34
Proprietà intellettuali, contenuti e idee sono fortemente esposti
al plagio o all’impiego non autorizzato, magari presso aggregatori o tramite spider per finalità commerciali o altro. Sono, tuttavia, anomalie sistemiche di un modello che per definizione è
aperto e si espone alla collettività in primo luogo come metodo
per eliminare l’invisibilità dei singoli e delle loro nuove coalizio38
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ni. Se è vero però il modello proposto da Alberto D’Ottavi, non è
escluso che nel trade off tra rischi e opportunità legati alla trasparenza del proprio vissuto professionale non si possa uscire comunque vincenti. Senza rivelare i “segreti del mestiere” o cadere
nella trappola della cessione di lavoro gratuito a imprese profit
che gravitano online, il web può portare considerevole acqua al
proprio mulino.
Ma torniamo, per un momento, alla genesi del rischio per i
freelance. Nell’evoluzione dei sistemi produttivi (che impiegano
sempre di più risorse esterne e lavoratori autonomi a progetto)
siamo passati in questi decenni da un rischio assunto unilateralmente dall’impresa e da un sistema regolato, basato sulla delega
e la decisione, a un nuovo sistema di rischio “a responsabilità diffusa”. La ripartizione non è più della ricchezza, ma dei rischi:
uno dei pochi anticorpi che la società liquida, come la definisce
Bauman, si è creata per fare fronte a questo passaggio è l’apertura
verso ambienti di scambio diffusi, aperti, flessibili, ricchi, come
è appunto la Rete che non incoraggia soltanto l’emergere dell’individualità, ma anche di nuove forme di collettività. Come ricorda Emiliana Armano, siamo passati
dalla fase taylorista-fordista, alla quale corrispondeva la parcellizzazione del lavoro congiunta alla relativa stabilità del posto di lavoro, sino alla fase postfordista, cui corrispondono il rischio diffuso
(che può trasformarsi in precarietà e/o innovazione) e la flessibilità
lavorativa.35
È in quest’epoca che emergono le professionalità indipendenti e si radicano i meccanismi di social networking.
Mentre nell’economia moderna l’impresa, i sindacati, i mercati, le
tecnostrutture di vario genere avevano tentato di amministrare i rischi della vita economica e sociale delle persone, nel neocapitalismo dell’economia globale gli automatismi e le tecnostrutture possono sempre meno esentare le persone dai rischi sociali che rendono incerto il futuro individuale e collettivo. Nella delega del rischio in parte all’impresa (verso il mercato) e in parte al sindacato
(per la tutela collettiva) vi era un preciso scambio politico che esentava i lavoratori e i cittadini dal rischio delle conseguenze dei loro
comportamenti e dall’incombenza della conoscenza e della decisione. Uno scambio tra rischio e potere che ha potuto reggere fino
a quando gli automatismi e le istituzioni sono stati in grado di mantenere le promesse.36
Oggi che è sempre più chiaro quanto un freelance sia fuori
da queste linee di protezione è paradossalmente la scelta di col39
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tivare i legami deboli a dare maggiore forza alle nuove reti di lavoratori indipendenti. Chi ha studiato queste forme di legami
sociali37 ritiene giustamente che quelli forti siano determinati
dal tempo, dall’intensità emotiva, dalla confidenza e dai servizi
reciproci. Avere una comune appartenenza è l’indice di base dei
legami forti: le tessere di partito o sindacali, i badge aziendali,
le carte per la raccolta punti al supermercato sono soltanto la
loro rappresentazione simbolica. Quelli deboli, invece, sono strumentali, neutri dal punto di vista affettivo, meno stabili, precari. In questo contesto la forza è data dal numero di quelli che
trovano linee di contatto e soprattutto dall’insieme potenziale
che possono rappresentare. Nei legami deboli conta la densità
ed è quanto si esprime al meglio oggi con Internet, dove si costruiscono e disfano gruppi su Facebook con molta rapidità. In
rete sono nati e cresciuti il Popolo viola, l’Onda studentesca, le
iniziative dei No-B day e dell’EuroMayDay. Online cominciano
ad avere importanza anche in Italia iniziative specifiche nell’ambito del lavoro, come le reti di Precaria.org o tutte quelle
temporanee a supporto di campagne di comunicazione per sensibilizzare l’opinione pubblica su crisi specifiche, come quella
degli “esternalizzati Wind”, dell’Isola dei cassintegrati, del caso
Omnia-Ex Eutelia. Lo stesso si può dire per il mondo della ricerca, dove i blog di gruppo dei precari che gravitano intorno al
sistema universitario hanno costruito una costellazione di centinaia di siti collegati e un dialogo serrato che si può dire sia davvero espressione di un’unità nazionale nella critica ai deficit strutturali degli atenei italiani. Tutti questi sono reticoli di soggetti
riuniti sotto una bandiera e istanze comuni, ma che non hanno
sedi fisiche, finanziamenti pubblici o protezioni corporative, e
non si ritrovano nel mondo della rappresentanza tradizionale.
Attraverso la Rete trovano nuovi sostenitori, fan su Facebook,
feed reader o follower su Twitter disposti a seguire le loro vicende e appoggiarle. All’e-mail si va sostituendo lentamente il
networking basato su tecnologie web. Il luogo di ritrovo di queste collettività è un “non-luogo”, è una rete sociale spesso senza
connotazione geografica, ma forte di una intrinseca debolezza.
Entrare e uscirne è facile: ciò che trattiene è la “densità” della
comunicazione e degli scambi che si fanno tanto più intensi e
marcati, realmente cogenti, quanto più si toccano nel vivo le questioni sociali collettive, che sono al contempo strettamente personali. A differenza delle tribù digitali chiuse, sviluppate alla fine degli anni novanta e agli inizi degli anni duemila, le comunità di interessi di oggi – che diventano spesso vere coalizioni,
pronte a scendere in piazza o a mobilitarsi – sono aperte e con
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un raggio d’azione su canali differenti, affluenti tutti verso un
epicentro che rilascia messaggi composti da gruppi a geometria
variabile, ma omogenei e con una forte connotazione soggettiva e diretta. Il cosiddetto “web 2.0”, che ruota intorno alle tecnologie per sviluppare conversazioni e aiutare la condivisione di
risorse, ha dato un impulso importante. Emozioni, relazioni, comunicazioni, da una parte, e percorsi, racconti, intenzioni e azioni che costruiscono, dall’altra, l’identità di una coalizione delle
persone che vi partecipano trovano nei sistemi di publishing e
di networking online soluzioni più che ottimali per svilupparsi
in maniera spontanea. A queste si sommano oggi nuove tecniche di protesta elettronica, che superano i tentativi promossi finora con netstrike o azioni di “hacking sociale”, e sono impiegate in sostituzione di scioperi o manifestazioni di piazza che in
molti casi per i lavoratori autonomi non hanno nessuna ragione pratica o effetto.
Nel segmento digitale si stanno affermando almeno tre nuove modalità d’azione delle coalizioni web based. La prima è la
protesta basata sull’invio di messaggi in massa a destinatari scelti per le loro azioni considerate contrarie agli interessi della collettività. Possono essere politici, sindacalisti, forze dell’ordine,
opinion leader, imprese, multinazionali, banche. Sono vere e
proprie campagne per generare un overflow di comunicazione,
ovvero inondazioni digitali per portare la voce di tanti in un punto unico fino a farlo intasare per “rumore” di fondo tecnologico. Possono assumere la forma di messaggi predefiniti da un
gruppo ristretto e fatti circolare prima della spedizione, programmata con cura, oppure disordinate azioni individuali. A
volte sono semplici petizioni digitali, che richiedono solo
l’impegno di una firma. La seconda tecnica è quella del fact
checking, ovvero la scrupolosa verifica dei fatti e delle parole
dette o scritte da rappresentanti pubblici, con la finalità di difendere la verità o dimostrare la palese falsità di quanto affermato pubblicamente. Si veda per esempio Factcheck.it creato
su iniziativa di Sergio Maistrello: un sito in cui chi riesce a “salvare un fatto, salva la verità intera”. Più efficace, tuttavia, è la
tecnica “blame & shame”, usata oggi dalle nuove coalizioni digitali, ma nata nel contesto della resistenza alle politiche economiche degli stati sovrani, soprattutto a quelle di multinazionali senza scrupoli, che sfruttano i lavoratori meno tutelati di
quelle parti del mondo dove il diritto del lavoro pressoché non
esiste. Ne parla estesamente Gay Seidman, sociologo dell’Università del Wisconsin nel suo Beyond the Boycott38 in riferimento a quanto messo in atto in Guatemala, India, Sudafrica. Nel
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mondo di Internet la tecnica non è del tutto differente: si controllano i fatti (factcheck), ma si procede a una successiva campagna per boicottare l’immagine pubblica di chi ha sgarrato, per
assegnare colpe precise (blame) e generare vergogna (shame) e
riprovazione sociale, affinché l’irresponsabilità di chi ha attuato azioni contrarie agli interessi delle coalizioni sia messa alla
berlina davanti all’opinione pubblica. Acta, l’Associazione dei
consulenti del terziario avanzato, ha adottato nel 2010 questa
tecnica nella campagna online che ha definito “Campagna Busta Arancione”.39 Per denunciare il mancato invio da parte dell’Inps della busta che avrebbe dovuto informare i lavoratori italiani sulla propria posizione contributiva con una proiezione
sull’entità della pensione che avrebbero percepito, ha pubblicato su tutti i suoi canali web (circa una decina) materiali informativi per sensibilizzare l’opinione pubblica. Il messaggio veicolato: le amministrazioni pubbliche ci tengono all’oscuro per
non farci capire che moriremo di fame. Un messaggio forte,
comprovato da analisi interne e proiezioni realizzate dal centro studi Acta. Il comunicato stampa è stato ripreso dal “Corriere della Sera”, che ha obbligato il ministro del Lavoro a considerare da vicino la questione. Grazie a questa azione la comunità che gravitava intorno all’associazione si è rinforzata.
Ogni ripresa del problema è stata prontamente ritrasmessa su
Facebook, Twitter e su blog personali con una velocità notevole, registrando centinaia di repliche a poche ore dalla diffusione dei fatti “blame & shame”. Sebbene possano apparire come
tecniche che hanno un maggior appeal presso le giovani generazioni, i cosiddetti Millennials o Echo Boomers e i più recenti Digital Natives, in realtà non toccano problemi soltanto giovanili, ma di classe, di soggetti che devono imparare a riconoscersi e dialogare, nel passato e nel presente. La questione previdenziale sollevata da Acta è un esempio pratico di un tema
che prima ancora che intergenerazionale è di tutela della cittadinanza e interessa tutti. Forse sarebbe utile definire coloro
i quali decidono di accedere a questi spazi di coalizione come
appartenenti a una “web class”, se non fosse che ogni circoscrizione categoriale in questo ambito sembra tradire una volontà di ridurli in termini descrittivi. Come abbiamo detto, la
loro forza sta nella debolezza e nella flessibilità, nella libertà di
entrare e uscire, di non perdere nulla nel cercare la verità dei
fatti e reclamare diritti. In questo processo il web è un elemento
positivo, porta allo scoperto un potenziale di organizzazione,
di autotutela e quindi di soggettività politica. Nella babele di
lingue che è Internet possiamo imparare a riconoscere i nostri
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simili, stabilire codici d’identificazione e parlare in tempo reale reagendo alla quotidianità incessante delle cavolate che vengono pronunciate sul nostro conto. È sul web che prenderanno corpo le class action, anche se non formalmente dal punto
di vista giuridico, ma socialmente, come attività di costruzione di coalizioni che pretendono i propri diritti. È qui che nascerà la cooperazione tra intelligenze, competenze, skill, come
costruzione di un sistema di pensiero, sofisticato ma chiaro, intellegibile a tutti, fatto di poche idee centrali, schematiche, tagliate con l’accetta, privilegiate ma accessibili. Idee che potranno rafforzarsi con il passaparola, ma che pronunciate faccia a faccia, anche fuori dal web, potranno dare vita a qualcosa di nuovo.
Il valore della prossimità
Quando Internet diventa il canale esclusivo della socialità,
i rapporti tra le persone perdono l’importante elemento della
“fisicità” che ha caratterizzato i processi di coalizione in passato. Nel lungo termine questo non è sempre positivo. La coesione dell’epoca fordista è infatti passata per l’udito di chi ascolta un comizio o per la vista di chi legge un volantino; gli scioperi si sono costruiti sul passaparola. La storia delle coalizioni
operaie è una storia di sentimenti che s’accendono a contatto
con altri e si consumano per reciproca combustione, è una storia di comportamenti imitativi, di minoranze che trascinano le
maggioranze, di dinamiche che funzionano solo con presenze
fisiche, in grado di esercitare un controllo reciproco. Nulla di
tutto questo resta nella comunicazione a distanza: il comportamento imitativo viene dissolto, il reciproco controllo abolito,
la comunicazione è spoglia di tutte le cariche di energia che vengono trasmesse dalla prossimità con altri individui. Dalla realtà
si è passati al web, ma dalla Rete è importante riallacciare un
dialogo che descriva anche il percorso di ritorno. Nel momento in cui si accende di nuovo un senso d’identità di gruppo, i
rapporti di prossimità ritornano con prepotenza in primo piano come uno strumento ineludibile della coalizione, il contatto fisico con persone che svolgono lo stesso lavoro e hanno gli
stessi problemi diventa una necessità esistenziale, come cercheremo di mostrare con esempi concreti nell’ultimo capitolo.
Il rapporto di prossimità diventa un altro dei “passaggi” che costellano la vita lavorativa, forse più imprevedibile dei precedenti, senz’altro più denso, per la ragione che scopriamo esse43
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re quello dove si forma la conoscenza. È il momento in cui ci
accorgiamo che le competenze specialistiche rappresentano un
patrimonio spendibile solo a condizione che sia innervato in
una relazione di comunità. Qualcuno lo ha chiamato “general
intellect”, noi più modestamente lo chiamiamo un’attività di più
persone convergente verso una nuova acquisizione di pensiero.
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Da gentiluomini a mercenari
L’ideologia del professionalismo e la sua crisi
Non è esattamente un libriccino il testo che l’International
Labour Office ha dedicato alla figura che l’immaginario collettivo associa di più al professionista di successo: il consulente di
direzione. Pubblicato a metà degli anni settanta e più volte aggiornato nei decenni successivi, è un’opera collettiva alla quale
hanno dato il loro contributo personaggi che in seguito sarebbero diventati delle star, come Roland Berger e altri. A un certo
momento nel testo spunta la domanda: “La consulenza è una
professione?”. La risposta è molto significativa:
Noi chiamiamo la consulenza di direzione una professione emergente o una professione in divenire, o un’industria con significative
caratteristiche e ambizioni professionali... ma potrebbe non essere
così importante decidere se la consulenza è o non è una professione, dopo tutto ha dimostrato di poter prosperare anche senza questa decisione... Ancora oggi, anche in ambienti di cultura manageriale molto sofisticata, virtualmente ognuno può chiamare se stesso o se stessa “consulente” di direzione d’impresa e offrire servizi alle imprese senza alcun diploma o certificato, senza alcuna licenza,
credenziale o registrazione.1
Questo discorso potrebbe essere esteso a tutte le attività cognitive svolte da persone che si presentano sul mercato come lavoratori indipendenti ma non appartengono alle categorie definite come “professioni liberali” (medici, avvocati, architetti ecc.).
Per costoro sapere se la loro attività ha diritto a essere definita
“professione”, o se sul loro biglietto da visita possono mettere la
parola “professionista”, potrebbe non essere molto rilevante, come dice l’Ilo, ciò che importa è una situazione di mercato favorevole e la disponibilità del committente a pagare bene e in tem45
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pi accettabili. Ma purtroppo non è così, poiché dalla metà dell’Ottocento il termine “professione” si è caricato di tali significati simbolici più o meno identificativi di uno status sociale che
non si può pensare di rigettarlo, senza averne esaminato bene la
storia. Inoltre, motivo ancora più importante per fermarsi a discutere prima di passare oltre, esiste una forte tendenza di molte associazioni di “nuove” professioni non regolamentate a seguire processi di coalizione e rappresentanza analoghi a quelli
delle professioni liberali governate da ordini. Noi riteniamo che
questa sia una strada sbagliata da percorrere, il perché ce lo dice la storia stessa del termine “professione” e i mutamenti che la
cultura associata a questa simbologia ha subìto nelle diverse fasi della società industriale moderna.
Alle origini di un’ideologia
Non ha che l’imbarazzo della scelta chi vuole analizzare più
da vicino quel costrutto mentale che è stato chiamato “cultura”
o “ideologia” del professionalismo, la letteratura sull’argomento
è ricca e articolata. Noi abbiamo deciso di cominciare da un testo che a metà degli anni settanta ha aperto una stagione di dibattiti molto vivaci sul rapporto tra culture e costituzione di ceti sociali, un testo che riproponeva a un livello elevato di considerazione storica gli stimoli provenienti dall’inquieta ma vivissima società di allora: The Culture of Professionalism, di Burton J.
Bledstein.2 Nel termine professionalism c’è l’idea di “specialismo”
e potrebbe essere questa la traduzione migliore, considerato che
il discorso di Bledstein riguarda in particolare lo specialismo accademico, ossia l’istituzionalizzazione del sapere in linguaggi gergali, sostanzialmente retorici, che mette in moto comportamenti autoreferenziali e costrizioni sociali (la carriera accademica)
ma riguarda anche la nascita e lo sviluppo della professional expertise in generale, cioè qualcosa di più della singola professione, un ruolo sociale riconosciuto ed esercitato molto spesso sotto forma di lavoro indipendente. Bledstein colloca la nascita del
professionalismo nella seconda metà dell’Ottocento, quando
l’America, a suo dire, cercava in tutti i modi di distinguersi dal
Vecchio continente, rifiutando la distinzione in classi della società e costruendo l’identità nazionale sull’idea di una società a
classe unica, la middle class, dove non esistessero più né aristocratici né proletari. La soluzione ingegnosa per venire a capo di
questo problema sarebbe stata quella di proporre l’ideologia meritocratica come criterio di lettura delle differenze sociali, che
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non esisterebbero di per sé, come eredità di divisioni secolari trasmesse di generazione in generazione, né come prodotto di un
ordine politico architettato per mantenerle tali, ma semplicemente in quanto risultato di una maggiore o minore affermazione dell’individuo secondo le sue doti di abilità e capacità di competere. Veicolo di questa ideologia fu la cultura del professionalismo, “una cultura che è servita a meraviglia a individui che aspiravano a pensare molto bene di se stessi”,3 veicolo potente perché faceva leva non solo sull’ambizione ma sull’insicurezza delle persone (“forse nessun sistema di pensiero puritano è mai riuscito ad usare l’insicurezza della gente così come è riuscita a farlo la cultura del professionalismo”).4 Che l’ideologia meritocratica e il mito del self made man fossero una componente essenziale dello spirito dell’America era un dato acquisito ben prima
che Bledstein scrivesse il suo libro, la sua interpretazione però
era assai originale non tanto nel riconoscere valore costituente a
quella ideologia, quanto nel dare a quella ideologia un corpo, una
figura sociale ben individuata, quella dello specialista, del professional. In modo da potersi chiedere, subito dopo, se questa figura non divenisse contraddittoria con quella di una società a
classe unica, perché i professionals si costituiscono inevitabilmente in una élite e quindi finiscono per diventare fedeli più alle convenzioni del loro linguaggio che alla verità, riuscendo a essere tanto più influenti, in quanto a loro viene delegata la formazione della classe dirigente, in particolare l’insegnamento universitario. Si badi che Bledstein non critica il linguaggio esoterico, critica il linguaggio e la mentalità “specialistici”. Il suo interesse si rivolge all’istituzione formativa di alto grado, come dice
chiaramente il sottotitolo, e accenna solamente al problema che
interessa a noi, quello delle professioni della conoscenza. Ma dagli studi di brillanti americanisti5 sappiamo che nell’epoca di cui
lui parla, a cavallo tra Ottocento e Novecento, le grandi corporation americane avevano scoperto l’utilità di impiegare conoscenze
professionali indipendenti o salariate per migliorare sia la loro
immagine all’esterno (le public relations), sia i rapporti con il personale (le human relations). Da queste prime esperienze si sviluppa il mercato della consulenza al management, che porta da
un lato alla formazione di grandi società multinazionali, di dimensione pari a quella dei loro clienti, dall’altro alla costituzione di un mercato parallelo di professionisti indipendenti che arricchisce il settore dei “servizi alle imprese”.6 Sono tre austriaci
emigrati negli Usa per sfuggire al nazismo ad aprire nuove strade per la consulenza d’impresa: Peter Drucker nelle teorie del management, Paul Lazarsfeld nel marketing e Edward Bernays, il
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nipote di Freud, nelle pubbliche relazioni. Si sviluppa dagli anni venti, anche in Europa, un mercato di lavoratori della conoscenza (brain workers) che forniscono servizi al mondo dei media, della pubblicità, della cultura di massa, dello spettacolo, per
l’elaborazione di testi, la creazione di grafica e altro, e sono in
gran parte freelance, o integrano con il reddito proveniente da
questi servizi quello, insufficiente, che deriva dalle loro vocazioni artistiche o letterarie. La professional expertise diventa una pratica riconosciuta dal modo di produzione fordista e dall’ambiente
metropolitano. Con la grande mobilitazione di risorse del New
Deal rooseveltiano la funzione dell’“esperto” viene incorporata
nella macchina amministrativa, nelle agenzie governative e acquista, in certe campagne, un valore analogo a quello del social
worker, cioè a chi deve stabilire il collegamento tra i bisogni oscuri o nascosti o inespressi della società e lo stato assistenziale. Al
tempo stesso, con l’immissione sempre più massiccia di conoscenze tecnico-scientifiche nel mondo della grande impresa e la
necessità di rispondere all’obsolescenza delle tecniche e delle
competenze, comincia a svilupparsi il settore della formazione
esercitata al di fuori dell’istituzione scolastica pubblica. È la prima comparsa di un mercato dei freelance, subito frenato da un
lato dalla preferenza delle imprese di allora di internalizzare le
competenze (il fordismo è la generalizzazione della società salariata) e dall’altro dall’ingerenza sempre maggiore dello stato
nei processi economici e sociali, che porta alla trasformazione
di molti professionisti indipendenti in funzionari pubblici. Il mercato dei freelance tornerà non a caso ad aprirsi e poi a esplodere negli anni settanta e ottanta in seguito a processi di esternalizzazione e a una graduale ritirata della mano pubblica dall’erogazione di servizi.
Pastoie italiane
In Italia è andata diversamente. Non è qui il caso di ripercorrere il cammino storico del riconoscimento delle professioni
nel nostro paese, ma richiamare alla memoria due o tre circostanze che possono offrire spunti di riflessione a un discorso sulle professioni non regolamentate forse non è fuori luogo. Nei primi anni del Novecento alcune organizzazioni professionali (per
esempio quella dei medici condotti) si erano costituite traendo
ispirazione dalle ideologie socialiste e mazziniane e si erano collegate alle Camere del lavoro e al sindacalismo operaio. Ma il movimento operaio nel suo complesso non fu capace di cogliere le
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trasformazioni che avvenivano all’interno del ceto medio, in particolare non colse – pur essendo in una posizione privilegiata di
osservazione – il significato dell’emergere delle professioni tecniche in seguito all’affermarsi del taylorismo e del fordismo. Professioni, queste, che si sarebbero sviluppate al servizio delle imprese e delle pubbliche amministrazioni, a differenza delle professioni liberali tradizionali, focalizzate sui servizi alle persone.
Il movimento fascista invece colse con immediatezza questo passaggio.7 Nel 1920 a Milano viene fondata la Confederazione italiana del lavoro intellettuale e nel 1921 a Roma il Sindacato del
lavoro intellettuale. Le leggi istitutive di ordini e collegi professionali si susseguono negli anni dal 1923 (architetti, ingegneri)
al 1939 (consulenti del lavoro), ma rimane per un certo periodo,
nell’ordinamento corporativo, il segno di un’originaria impostazione “sindacale”, di un atteggiamento rivendicativo e negoziale,
duro a morire proprio in una professione “nuova” come quella
dell’ingegnere, che veniva esercitata prevalentemente alle dipendenze dell’impresa (a Milano nel 1935 erano 1530 gli iscritti all’albo e 1346 gli iscritti al sindacato). Il regime fascista avrebbe
voluto sostituire integralmente il modello liberale dell’autonomia
della professione riconosciuta dallo stato con il modello corporativo, che assimila le professioni intellettuali al mondo del lavoro tout court, negando loro uno status particolare. In realtà dovette accontentarsi di un compromesso: quando era interesse politico esaltare le scoperte italiane sui prodotti sintetici il fascismo
diede riconoscimento alla professione di chimico. Analogamente si comportò il governo repubblicano nel 1962, quando, indotto dai successi dell’Ente nazionale idrocarburi nella ricerca e nell’approvvigionamento di fonti energetiche, diede il riconoscimento alla professione di geologo. Il rapporto tra professioni tecniche e sviluppo dell’innovazione nel settore manifatturiero è stato molto stretto nei percorsi di riconoscimento. Scrive uno dei
maggiori studiosi del fenomeno in Italia:
Il caso dell’ingegneria mostra con chiarezza che le origini delle professioni diverse dalle “classiche” [...] vanno inquadrate nella profonda trasformazione subita dal capitalismo, l’evoluzione della divisione del lavoro nelle grandi organizzazioni private e pubbliche crea di
continuo nuove occupazioni specializzate, molte delle quali si pongono il traguardo della professionalizzazione.8
L’Associazione nazionale degli ingegneri italiani viene costituita nel 1919, quattro anni dopo si avrà sia l’istituzione dell’Ordine degli ingegneri e degli architetti sia la riforma dell’istruzione superiore – che negherà ai diplomati degli istituti tecnici
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l’accesso all’università –, e nel 1933 viene istituito l’esame di stato. Ma tutto questo processo si svolge in un quadro di forte crisi
occupazionale; è la mancanza di lavoro a portare gli ingegneri a
costituirsi in gruppo di pressione, mentre per tutto il periodo del
fascismo la conflittualità interprofessionale tra ingegneri, architetti, geometri, periti industriali, agrimensori rimane accesa e si
allenta solo in parte nel dopoguerra con il boom edilizio degli anni sessanta.9 Anche la storia italiana dimostra che il mercato, inteso come insieme di fattori che trasformano i modi di produzione e gli stili di consumo, è decisivo nel condizionare l’ascesa
e il declino delle professioni intellettuali. Secondo le dottrine liberali, il mercato è un sistema che si autoregola; come sappiamo
è invece un sistema che produce distorsioni e disuguaglianze. La
conflittualità all’interno delle professioni tecniche si è mantenuta elevata anche negli anni sessanta e settanta. È bastato liberalizzare gli accessi all’università nel 1969 e permettere a periti e
geometri di diventare architetti e ingegneri perché si producesse
un boom dell’offerta e il controllo dell’accesso alla professione,
che è una delle ragioni degli ordini, diventasse un atto puramente
formale. Come se non bastasse, i liberi professionisti indipendenti, quelli che esercitavano attività di lavoro autonomo, erano
messi in difficoltà dalla concorrenza esercitata da ingegneri e architetti, salariati delle pubbliche amministrazioni, che a part-time o come secondo lavoro, spesso in nero, firmavano progetti.
La situazione sembra sia andata migliorando solo quando si è
aperto il nuovo mercato delle regioni, ma questo dimostra ancora una volta che la pretesa di possedere una competenza esclusiva è forte nei periodi di magra della domanda e si allenta quando c’è lavoro più o meno per tutti. È un sistema di autodifesa parasindacale, non c’entra nulla con codici etici e saperi esclusivi.
Ma poiché il mercato dei servizi professionali è dominato dalla
domanda, questi sistemi di difesa parasindacale non producono
alcun effetto di riequilibrio e trasferiscono allora la loro impotenza nelle dinamiche interne all’ordine stesso, creando cricche
di potere e pratiche di nepotismo di cui sono vittime gli iscritti
più giovani oppure quelli privi di adeguato lignaggio.
Le libere professioni sono in realtà un gruppo di occupazioni accomunate essenzialmente da un’ideologia. Si tratta di un’ideologia che
è stata promossa con successo dalle élite che dominano alcune occupazioni particolarmente prestigiose (soprattutto medici e avvocati), si è diffusa nelle società capitalistiche grazie alle sue affinità
con l’ideologia dominante, ed ha mietuto vittime tra gli stessi scienziati sociali.10
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Possiamo condividere o meno questa tesi di Tousijn, ma
l’esperienza passata delle professioni, che in Italia hanno ottenuto un riconoscimento pubblico e sono organizzate in ordini,
sembra dargli ragione. Incapaci di riequilibrare gli alti e bassi
della domanda, hanno creato diseguaglianze all’interno della
stessa professione e, aspetto non trascurabile, non sono nemmeno riuscite a esercitare una vigilanza sulla qualità della
prestazione. L’Ordine dei giornalisti è riuscito forse a fermare il
degrado dell’informazione e lo stile dei media nel nostro paese?
Ci ha provato, almeno? Del resto, se non ci è riuscita nemmeno
la professione più protetta in assoluto, quella dell’insegnamento universitario, a vigilare sulla qualità del corpo docente, bloccando sistematicamente la pretesa di semianalfabeti a salire in
cattedra, come possiamo pensare che ci riescano professioni meno protette?
Quando, agli inizi degli anni ottanta, si diffondono le “nuove” professioni nei servizi alle imprese e alle persone, il modello
ordinistico già mostra ampiamente la corda per coloro ai quali
lo stato ha dato un riconoscimento pubblico.
Oggi, come in passato, gli ordini italiani svolgono funzioni burocratiche, si limitano a verificare che i nuovi iscritti siano in regola con la legge e non hanno alcun potere di regolazione degli ingressi, che è affidato agli esami di stato. Altrimenti non si spiegherebbe perché proprio le professioni ordinistiche abbiano registrato negli ultimi anni un aumento del numero degli esercenti così esorbitante.11
Basti pensare agli avvocati: 230.000 in Italia, 15.000 in più all’anno. L’albo dell’Ordine di Milano-città, aggiornato ad aprile
2010, conta 15.600 iscritti nell’elenco ordinario, 3200 abilitati e
1500 praticanti.
Il 35 per cento del reddito della categoria è prodotto dal 15 per cento dei legali, i clienti che non pagano, i grandi studi che licenziano,
la concorrenza feroce, il caro previdenza aggravato dal fenomeno
degli avvocati “fantasma” iscritti all’ordine ma che non versano alla Cassa forense.12
Tuttavia il coagulo di interessi che si è formato attorno agli
ordini riesce ancora a difenderne la funzione. Benché la linea dell’Unione europea e dell’Autorità antitrust sia stata quella di identificare professioni e imprese, alla fine:
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L’Unione europea ha ceduto alle pressioni delle professioni protette annacquando il liberismo puro che aveva contraddistinto i suoi
precedenti programmi.13
Pur riconoscendo che le professioni, ormai assimilate alle
imprese, sono “sottoposte ad una mutazione irreversibile della
loro natura e delle loro funzioni”,14 una studiosa come Maria
Malatesta dimostra di credere ancora alla natura particolare
dell’etica professionale, fonte di quella reputazione che al professionista veniva riconosciuta per la natura sociale del suo lavoro, e cita il caso di medici e avvocati che svolgono in condizioni estreme la loro arte. In realtà, ci sembra di poter obiettare, se un medico invece di fare soldi con uno studio avviato a
Parigi preferisce rischiare la pelle in zone di guerra con Médecins sans frontières è per una scelta che rientra nella sua visione generale del mondo e dei rapporti politico-sociali, è per convinzioni ideologiche o religiose, più che per fedeltà a un codice etico della professione.
Il momento in cui gli ordini professionali acquistano rilievo
e si pongono ancora come una forza sociale in grado di condizionare lo stato è nel periodo dei governi di centrosinistra allo
scadere del secondo millennio. Riescono a respingere i propositi governativi di abolirli in nome della liberalizzazione sostenuta dall’Unione europea, dimostrando ancora una volta che in momenti di difficoltà alcuni strati di ceto medio possono mobilitarsi con successo, ma non riescono a porsi come “terza forza” tra
le rappresentanze sociali di Confindustria e dei tre sindacati Cgil,
Cisl e Uil. In realtà, da almeno un decennio, anche in Italia, la tematica delle professioni intellettuali converge, come scrive Prandstraller, “su quella più complessa che riguarda i knowledge
workers”. I professionisti sono “una parte, fondamentale ma non
esaustiva, d’un nuovo ceto composto dalle varie espressioni dei
lavoratori della conoscenza”.15
Le prime ricerche sui lavoratori della conoscenza che assumono questi parametri di valutazione compaiono in Italia a metà
degli anni novanta.16 Finalmente si esce dalla palude della sociologia delle professioni, si smette di discettare sulle opinioni
delle varie scuole e si torna all’osservazione della realtà empirica, alle prestazioni concrete del lavoro di conoscenza dentro e
fuori le imprese. Le inchieste sul lavoro nelle dot.com, che si
moltiplicano negli Stati Uniti fino alla crisi del 2002, in particolare quelle di Andrew Ross, contribuiscono a spazzare via
l’interesse per le questioni del professionalismo.17 I lavoratori
della conoscenza, che si sono formati come multiforme strato
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sociale a partire dagli anni ottanta, sono un’altra cosa. Negli
stessi anni si costituisce la Freelancers Union, l’organizzazione
di tutela e di rappresentanza dei lavoratori indipendenti, un sindacato finalmente, una forma associativa che non vuole essere
diversa da quelle che storicamente sono state le forme di difesa e rappresentanza del lavoro. Ma nella situazione italiana questa semplice idea stenta a farsi largo; anche coloro che ritengono la professione una costruzione intellettuale, come dice Pierre
Bourdieu, e non un genere umano, continuano a pensare in termini di associazioni assimilate agli ordini, il cui ruolo, tra l’altro,
viene messo in discussione dagli stessi che esercitano professioni regolamentate, come si è visto di recente in occasione della discussione in Parlamento della riforma della professione forense.18 Che il nostro sia un paese arretrato è ogni giorno più
evidente.
Disagio e risveglio dei ceti medi
La giornalista e saggista Barbara Ehrenreich con il suo sito
www.unitedprofessionals.org è diventata da qualche anno una
protagonista del movimento di autodifesa dei lavoratori white
collars americani. Dedica i suoi sforzi ai salariati ma è in sintonia con le Unions dei professionisti indipendenti.19 Non le si può
negare certo coerenza con la sua attività precedente; il tema della middle class è stato uno dei suoi preferiti sin dagli anni settanta. È del 1977 un saggio in due puntate su “Radical America”, scritto assieme al marito John Ehrenreich, dove abbozza
una teoria della formazione di una classe sociale che chiama
“professional-manageriale”, di professionisti manager, che verso la metà del secolo scorso sarebbe diventata una componente quantitativamente rilevante della popolazione attiva degli Stati Uniti.20 La sua formazione risalirebbe agli anni a cavallo tra
Ottocento e Novecento, la cosiddetta “Progressive Era”, con la
costituzione di una serie di figure professionali nuove, il cui ruolo sarebbe stato quello di assicurare l’ordine sociale capitalistico attraverso la razionalizzazione sia dei modi di produzione
(taylorismo), sia dei sistemi di governance. Sarebbe nata in quel
periodo la figura moderna dell’“esperto”, lo stesso sistema universitario si sarebbe adeguato alle nuove esigenze della società
e della produzione, importanti fondazioni private come la Rockefeller e la Carnegie avrebbero promosso lo sviluppo di questa
classe, completamente diversa dalla “piccola borghesia” tradizionale, nella quale gli Ehrenreich includono anche i self em53
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ployed. Fin qui nulla di nuovo, lo schema è quello di Richard
Hofstadter in The Age of Reform (1955), un classico che ha fornito l’interpretazione comunemente accettata della nascita della società americana del Novecento. Là dove i due Ehrenreich
introducono una loro lettura originale è nel mettere in risalto
come negli anni venti questa classe di funzionari del capitale
monopolistico abbia cominciato a ribellarsi in nome delle sue
etiche professionali, stringendosi attorno alle loro associazioni
e rivendicando un diritto a governare la società – intesa come
sistema d’impresa e come sistema amministrativo – secondo i
princìpi dell’efficienza. Fu un’utopia tecnocratica, destinata a
restare sconfitta.21 “La forma caratteristica di auto-organizzazione della classe professionale-manageriale era la professione.”
Quali sono i requisiti essenziali perché una professione possa
chiamarsi tale, secondo questi autori? Primo, l’esistenza di un
corpo specializzato di conoscenze, accessibile solo mediante una
lunga pratica; secondo, l’esistenza di standard etici che includono una dedizione (commitment) all’interesse pubblico; terzo,
un senso di autonomia da interferenze esterne alla pratica della professione (solo gli appartenenti alla professione possono
dare un giudizio sul valore della prestazione del singolo). Ricostruire la storia di un gruppo sociale significa contribuire a conferirgli identità. Che il lavoratore intellettuale moderno, il tipico knowledge worker di oggi, abbia avuto origine nell’epoca del
fordismo e del taylorismo è un fatto acquisito, che si sia formata allora una consapevolezza di essere una classe è invece da
escludersi per il motivo che i nostri autori giustamente individuano: l’identità era costruita sulla singola professione, quindi
non c’era un’aspirazione a rappresentarsi come classe omogenea, c’era anzi una ricerca di differenziazione per professioni,
malgrado gli stili di vita e il senso comune fossero gli stessi.
L’identità si costruiva sulla differenza. Per analogia potremmo
pensare alla fase primordiale di costituzione della classe operaia come classe, prima della fase dell’industrial unionism, quando l’identificazione era con il sindacato di mestiere, somigliante ancora alle vecchie corporazioni.
Max Weber e la “vocazione professionale”
Ma torniamo allo schema interpretativo proposto da Bledstein e allo sviluppo di una cultura, di un’ideologia della professionalità, che avrebbe conferito nei decenni successivi un’identità sociale e un senso di appartenenza a tanti lavoratori auto54
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nomi. Leggendo quelle pagine, il nostro pensiero non può non
correre subito a un testo che rimane un caposaldo nella storia
della riflessione sul concetto di professione: la conferenza di Max
Weber del 1917 su Wissenschaft als Beruf.22 Qual è il punto di partenza del suo discorso? Proprio un confronto tra il sistema universitario americano e il sistema europeo, tedesco in particolare. Prima di riassumerne brevemente i punti più interessanti, occorre ricordare che il termine tedesco Beruf contiene un insieme
di significati che non sono traducibili con il semplice termine di
“professione”, anche se il modo corrente per definire una libera
professione in tedesco è Freiberuf. Quando Weber impiega il termine Beruf, è pienamente consapevole di usare una parola che
vuol dire, oltre a professione, “vocazione” e, quindi nell’analizzare come avviene che una persona decida di scegliere un percorso professionale, ritiene di dover tener conto di una serie di
condizioni morali, in assenza delle quali è difficile esercitare la
professione: la “passione” innanzitutto, la dedizione a un’idea di
“progresso” (“venir superati non è solo la sorte di tutti noi ma lo
scopo del nostro lavoro, non possiamo lavorare senza sperare
che qualcuno vada più avanti di noi”) e l’innovazione, l’idea che
rappresenta qualcosa di nuovo (Einfall). Quest’ultimo punto, non
sufficientemente messo in risalto dalle letture e dalle interpretazioni correnti di questo testo, è invece di fondamentale importanza perché significa, detto in parole povere, che se una pubblicazione che vuole essere scientifica non contiene nemmeno
un frammento di idee nuove, ma è semplicemente una rilettura,
nei casi migliori, e un rimescolamento, nei casi peggiori, di ciò
che altri hanno scritto, meglio avrebbe fatto l’autore a stare zitto. Significa che se un consulente di direzione, nel raccomandare alcune scelte organizzative al management di un’impresa, si
limita a riciclare in un’elegante, accattivante, presentazione solo quanto gli è stato detto nell’intervista con l’amministratore delegato, meglio farebbe a cambiar mestiere. Ma il fatto che le condizioni per il corretto esercizio di una professione sono condizioni di carattere morale, di disposizione d’animo, più che condizioni di carattere intellettuale, si misura con un contesto sociale in cui, per dirla sempre con Weber, “la scienza è entrata in
uno stadio di specializzazione che prima era sconosciuto ed in
futuro continuerà a restare così” e ancora “una prestazione professionale definitiva e valida oggi è sempre una prestazione specialistica”. Il problema del Beruf – Weber, per la dimestichezza
con gli scritti di Lederer, di altri sociologi dell’epoca e di suo fratello Alfred, era perfettamente consapevole della rivoluzione che
stava investendo i sistemi di organizzazione del lavoro – si com55
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plica nell’epoca fordista a causa del sempre maggiore “tecnicismo” dei prodotti intellettuali, della sempre maggiore specializzazione della produzione accademica, sotto l’influsso delle tendenze vincenti che provengono da oltreoceano (“L’università tedesca si americanizza”). Il passaggio non è indolore, perché modifica i percorsi di carriera; i primi capoversi della sua conferenza sono dedicati non a caso al modo in cui un giovane entra
nel mondo accademico e alle diverse condizioni di lavoro di un
Privatdozent tedesco rispetto a quelle di un assistant americano,
precario proletaroide il primo, salariato l’altro.23 Weber quindi
tocca un punto che nel testo di Bledstein costituisce un importante interrogativo: la progressiva tecnicizzazione dei prodotti
intellettuali, la sempre maggiore richiesta di specializzazione
creano problemi di accesso alle conoscenze da parte della maggioranza dei possibili utenti, innesca una logica di gruppo o di
casta che pian piano porta i savants di oggi a parlare linguaggi
incomprensibili e a comportarsi come i sacerdoti delle religioni
antiche che muovevano le labbra in espressioni che quanto più
erano inaccessibili alla comprensione generale, tanto maggiore
autorevolezza conferivano alla casta sacerdotale?24 Può darsi,
forse è inevitabile, ma questo interrogativo dimostra come il superamento di queste contraddizioni non possa consistere soltanto in un atteggiamento etico di disponibilità alla comunicazione; la logica dello specialismo è talmente costitutiva del lessico da rendere impossibili altri linguaggi.
Dunque è inevitabile la costituzione di caste? Nel caso di professioni tutelate dall’inamovibilità è possibile, nel caso di professioni aperte al libero mercato, le logiche sono differenti. Chi
aveva letto gli scritti di Weber e conosceva alla perfezione la letteratura austro-marxista degli anni venti era certamente il viennese Peter Drucker, prima di emigrare negli Stati Uniti e di diventare là il fondatore delle teorie del management. Sarebbe un
errore infatti credere che Weber e i pensatori sociali di lingua tedesca degli anni venti e trenta non avessero presente il ruolo del
Beruf nel libero mercato, sia perché hanno avuto un ruolo storicamente rilevante nel definire le caratteristiche dello “spirito imprenditoriale” (Unternehmensgeist) sia perché consideravano le
inclinazioni morali e la disposizione d’animo dello scienziato non
diverse da quelle di un operatore commerciale o di un fondatore di un’impresa, come dice esplicitamente Weber nel testo citato. Anche il businessman deve avere passione, deve essere votato al progresso e deve avere inventiva.25
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Business e professione
L’elaborazione di una filosofia della professione nel libero
mercato è un tipico prodotto del pensiero americano, che conserva dei connotati assolutamente caratteristici. Il primo di questi, strettamente connesso all’ideologia meritocratica, è il concetto di personal career. È inconcepibile nel pensiero americano un’etica della professione priva di un’idea di successo in una
competizione senza quartiere con altri professionisti. Qui sta la
radicale separazione dalla morale della professione all’interno
dell’istituzione accademica o da quella espressa dalle regole
deontologiche delle libere professioni tradizionali: il medico,
l’avvocato, l’architetto ecc. Il problema di costruire un’etica professionale diversa da quella delle professioni liberali attraversa
dunque tutta la storia recente del lavoro di conoscenza svolto in
maniera indipendente. Benché l’istituzione ospedaliera o la professione forense oggi siano organizzate come imprese che competono sul mercato, il successo che si traduce in termini di prestigio sociale e di reddito, insieme alla volontà di competere,
non viene mai indicato come determinante nella scelta di esercitare la professione di medico o di avvocato; il fondamento etico di queste professioni sta ancora in codici deontologici antichi di secoli. Al tempo stesso è naturale che, nel momento in cui
si tratta di definire dei parametri che servono a identificare una
nuova professione e si delinea la disposizione d’animo necessaria a esercitarla con successo, il modello delle professioni liberali si presenta come quello di più immediata imitazione o ripetizione.
Nel 1922 esce il primo numero della “Harvard Business Review”, e subito uno dei temi dibattuti dalla rivista è “se il business può essere pensato come una professione”, interrogativo non
retorico per chi si appresta a organizzare una scuola di business,
evento importante nella storia del sistema universitario americano, del cui futuro promettente sembra si rendano ben conto i
primi contributi sul periodico, scritti da docenti della business
school. Nel settembre 1923 la prolusione all’anno accademico tenuta dal presidente A. Lawrence Lowell è esplicita: la scuola è
stata creata per rispondere alla domanda impellente di considerare il business management come una professione distinta, per
la quale è necessario un percorso formativo specifico, un’università speciale. L’articolo che Lowell trae dalla sua prolusione
viene pubblicato con l’infelice titolo The Profession of Business,
espressione ambigua, mentre il senso del suo discorso era chiarissimo: noi qui vogliamo formare manager, persone destinate a
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occupare posizioni di executive in organizzazioni complesse. Era
una lucida giustificazione dell’esistenza di un’università speciale per manager, non contribuiva però a chiarire meglio che cos’è
una professione, mentre avrebbe potuto sollevare l’interrogativo:
per formare manager è necessaria un’università?
Nei mesi dopo la crisi del 2008 questi dibattiti risalenti agli
anni venti sono riemersi nelle pagine della “Harvard Business
Review”. L’America e l’intera comunità degli affari erano sotto lo
shock provocato dal fallimento di Lehman Brothers e il grande
interrogativo che l’opinione pubblica si poneva era, con puritana inclinazione, “com’è possibile che si sia arrivati a tanto? Gli
uomini dell’alta finanza dagli stipendi favolosi non hanno un codice etico al quale devono attenersi, non esiste una deontologia
professionale?”. No, non esiste, rispondeva un professore sulla
“Harvard Business Review”, perché il management non è una
professione, se lo fosse le business school non sarebbero università ma scuole professionali.26 La discussione che si aprì allora, e che poi è continuata vivace e talvolta concitata sul blog
della rivista, ci permette di intravedere che cosa oggi il senso comune delle élite intenda per professione: la professione è padronanza/controllo di un “set” di conoscenze e di competenze ben
definito; comporta un obbligo fiduciario nei confronti dell’utilizzatore finale del servizio (il singolo professionista deve avere
influenza sulle decisioni del cliente); professione è quando chi la
esercita risponde finanziariamente e legalmente dei suoi errori,
quando si è in grado di dare una definizione e di esercitare un
controllo sull’uso del titolo; “un’attività merita il diritto di chiamarsi professione solo se alcuni ideali, per esempio quello di dare consigli imparziali, di non arrecare danno o di perseguire il
bene migliore, sono infusi nel comportamento delle persone che
sono occupate in questa attività”, scrive Joel Podolny, ex rettore
della Yale School of Management; “una professione per essere
tale deve avere un codice etico o un codice di condotta”, dice un
altro, “il manager non ce l’ha ed è giusto che sia così”; “la parola professional può aver avuto un senso cent’anni fa,” scrive un
altro ancora, “ma oggi il professionista è assimilabile a un artigiano, uno che impara un certo ‘set’ di conoscenze molto tecniche, molto specifiche, per produrre dei risultati ripetibili, la professione è un insieme organico di competenze che rende più semplice la definizione di standard”, e ancora “queste sono discussioni da professori universitari, a chi volete che interessi il titolo, lo status, la certificazione, il codice etico, oggi si guarda ai risultati e basta!”. In effetti riesce veramente difficile capire il senso di campagne per la formulazione di codici etici sostenute at58
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tualmente da associazioni di professionisti non tutelati da ordini. Già nelle professioni liberali tradizionali il codice etico ha assunto da tempo un valore puramente simbolico (l’Ordine dei medici tedesco ha forse espulso tutti i suoi membri coinvolti nelle
pratiche di igiene sociale e di sterminio razziale del nazismo?).
Che senso ha invocare un codice di comportamento per un professionista quando alle imprese è consentito di agire illegalmente con sistematicità? Nell’era della globalizzazione esiste forse
un unico concetto di legalità in tutto il mondo? Non è proprio
l’esistenza di diversi criteri di legalità a determinare la mobilità
del capitale? La ricerca dell’impunità non è forse uno dei grandi
motori delle delocalizzazioni? Che cosa dovrebbe produrre un
codice etico, un’autoregolazione del mercato? Chi ha approfondito il problema dal punto di vista storico ci insegna che i codici etici delle professioni sono stati uno strumento mediante il
quale una parte del ceto medio ha cercato di recuperare riconoscimento sociale in un periodo in cui si sentiva schiacciato dal
ruolo sempre più importante che il volto anonimo delle grandi
corporation assumeva nella società.27 Era un periodo di forte obsolescenza delle professioni in seguito ai processi d’innovazione
accelerati grazie alle consistenti risorse che le grandi imprese investivano nella ricerca. Un caso precoce di obsolescenza della
professione fu quello degli ingegneri agli inizi del Novecento. Settant’anni dopo sarebbe stato lo stesso con gli informatici, poi il
fenomeno si sarebbe generalizzato.
La rapida espansione di etiche professionali dopo la Prima guerra
mondiale può essere attribuita interamente a questioni di status.
Non era la complessità delle nuove competenze ad aver reso necessari i codici etici.28
Forse è lo stesso fenomeno che si ripete oggi: l’insistente richiesta di riconoscimento di albi da parte di certe associazioni
delle professioni non ordinistiche, la loro riproposizione delle necessità di codici etici sono un modo per rispondere con una limitazione dell’offerta alla crisi di domanda, alla crisi di mercato, alla svalorizzazione delle competenze. Ma è una risposta falsa e imbelle, lo vedremo meglio in seguito, dopo che avremo messo a fuoco altri aspetti della condizione del lavoratore della conoscenza indipendente per capire quale sia l’atteggiamento verso il suo mestiere che gli può creare minori contraddizioni. Per
questo è opportuno lasciare da parte per un momento l’etica e riprendere il discorso sull’ideologia meritocratica.
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Freelancing
Il successo, dunque, la competizione per il successo. Nel periodo in cui spuntano sul mercato le nuove professioni e chi le
esercita non ha un’immediata riconoscibilità sociale, anzi, spesso non ha nemmeno una formazione universitaria specifica per
la professione che esercita, due strade si presentano per conferire riconoscibilità al soggetto: la strada delle professioni liberali tradizionali e la strada dell’affermazione economica, della
notorietà, del successo, insomma. Percorrere la prima significa entrare in un territorio riservato a potenti corporazioni che,
giustamente, si rifiutano di cedere la loro specificità e la loro
chiave d’accesso al riconoscimento sociale. Un oscuro medico
di campagna è pur sempre un medico che può rivendicare per
sé il medesimo rispetto riservato al direttore della clinica universitaria. Il freelance delle nuove professioni ha difficoltà persino a spiegare al figlio che razza di lavoro sia il suo, nessun titolo di studio ha certificato la sua competenza, nessun esame
di stato gli ha conferito un’autorizzazione pubblica a esercitare il suo mestiere. Come può essere riconoscibile socialmente?
La risposta americana è stata la più pragmatica e forse anche
la più realistica: diventando ricco e famoso. L’etica del successo andava a pennello per i freelance delle nuove professioni,
cioè persone che non potevano dimostrare di essere in possesso di particolari competenze certificate da titoli di studio specifici, che non erano tutelate da barriere all’accesso, completamente in balìa del mercato. L’etica del successo e l’ideologia
darwiniana a essa associata s’identifica quindi con l’etica professionale. Non è un problema generalizzato di tutte le professioni intellettuali, ma un problema specifico di quelle esercitate in maniera indipendente. Uno specialista salariato, che lavora alle dipendenze di un’impresa, non ha analoghi problemi
di riconoscibilità sociale. Innanzitutto è un impiegato, e questo
basta a definirlo socialmente, la sua competenza è certificata
dall’azienda per cui lavora per il fatto stesso che lo ha assunto
per quella mansione e gli offre la possibilità di arricchire le sue
conoscenze con l’esperienza sul campo, i suoi percorsi di carriera sono ben definiti da regole aziendali (nel periodo in cui
nascono le nuove professioni, nella piena maturità del sistema
fordista, i percorsi di carriera nelle aziende obbedivano a meccanismi molto rigidi), la sua retribuzione è garantita indipendentemente dal livello delle sue prestazioni (in quel periodo storico la retribuzione in base al rendimento era già cominciata
ma per gli impiegati non aveva l’importanza che aveva e avreb60
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be avuto in seguito per il lavoro operaio), il suo percorso di carriera è incanalato dentro un’istituzione. Il rischio del freelance
è di tutt’altra natura, perciò l’etica del successo è anche una specie di eccitante per far apparire il successo come un evento comune, quasi alla portata di tutti, basta volerlo intensamente,
basta dedicarvisi anima e corpo. L’etica del successo forma un
unico agglomerato mentale con l’etica della competizione; il miraggio del successo è lo strumento con cui si rende convincente l’idea che il comportamento naturale dell’uomo sia di natura competitiva, non solo nel mondo del business ma nella vita
di ogni giorno. Il passaggio successivo è quello più difficile. Il
successo del professionista appartenente alla categoria che abbiamo delineato non segue le stesse dinamiche del successo proprie di un artista, sia esso scrittore, attore di teatro, musicista
o altro. Quel tipo di professionista offre un servizio e la logica
del servizio è ben diversa dalla logica della libera creazione dello spirito. Il successo pertanto dipende sempre da un altro, dal
cliente, il quale acquista il servizio come una merce e ragiona,
si comporta, giudica in maniera diversa dal fenomeno che viene descritto come “il gradimento del pubblico”. Innanzitutto, la
relazione tra il professionista indipendente e il suo cliente è molto personale, inoltre incide sulle fortune o sfortune economiche del cliente, comprese le sue prospettive di carriera. Se a un
pubblico l’esibizione di un artista non piace, rimpiange solo il
costo del biglietto, se a un cliente il professionista offre una prestazione di basso valore o contenente valutazioni errate, il costo per il cliente può essere elevato. Pertanto l’etica del successo, che è naturale nell’artista, deve essere costruita artificialmente per il professionista che eroga dei servizi. E qui la semplice filosofia della competizione ovviamente non è sufficiente,
entra in gioco l’altro fattore determinante: la competenza tecnica specifica, quella che in tedesco è propria del Fachmann e
in inglese del professional. Fachmann, dice Weber, è l’opposto
di Dilettant; professional, dice Drucker, la competenza è l’opposto
di amateur. Ma com’è possibile definire quando non esistono
sistemi formativi che la certificano? La risposta, ancora una volta, è di tipo morale e comportamentale: non è chi possiede determinate competenze tecniche a essere un professionista; non
è il suo sistema di conoscenze specialistiche e la padronanza
con cui le utilizza a farne un lavoratore intellettuale indipendente con chance di successo; non è la tecnica la sua maestria,
ma la capacità di relazione con il cliente, l’attenzione che gli dedica, l’identificazione con gli interessi e il successo del cliente.
La vera competenza sta qui. Il professionista non deve mai di61
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menticare che il suo mestiere è erogare servizi, egli è a servizio
di qualcuno pur non essendone dipendente. Se nella ricerca del
successo il professionista deve assumere un comportamento
competitivo e non deve avere alcun riguardo nei confronti dei
suoi rivali, nell’esercizio della sua prestazione non solo deve avere riguardo per l’altro, ma deve identificarsi con il suo cliente
al punto da coglierne al volo le esigenze e intuire quali siano
quelle di cui è inconsapevole. Il vero professionista deve saper
conquistare la fiducia del cliente, trustworthiness è una delle
parole chiave dell’etica professionale.
Occorre prestare attenzione a questo passaggio. Alla radice
dell’etica professionale dei lavoratori intellettuali indipendenti,
nel momento in cui era necessario configurare una bozza di codice deontologico, il requisito fondamentale richiesto non aveva natura conoscitivo-intellettuale ma emotivo-comportamentale. La padronanza della tecnica era data per scontata, il semplice percorso formativo non bastava, la tecnica era questione
d’esperienza, il requisito fondamentale per l’esercizio della professione era un altro: la disposizione d’animo, il vincolo di responsabilità, impliciti nel termine Beruf, che nel linguaggio del
professionalismo americano si chiamano commitment.29 Pertanto, quando nei paragrafi precedenti abbiamo parlato di disposizione d’animo libertaria nella scelta di praticare una professione indipendente da parte di molte persone negli anni settanta e ottanta, non abbiamo usato un linguaggio spurio, estraneo all’etica delle professioni, ma ci siamo attenuti a un filone
di pensiero che ha le sue radici nei primi teorici del professionalismo. Analogamente, quando nei paragrafi precedenti abbiamo citato le teorie contemporanee sul biocapitalismo e sul
biolavoro, elaborate anche da persone con le quali abbiamo avuto un intenso scambio di idee sulle problematiche del lavoro autonomo, lo abbiamo fatto non solo per un senso di stima e di rispetto per interpretazioni della realtà che in gran parte condividiamo, ma perché l’etica della dedizione totale al lavoro, anima
e corpo, intesa come coinvolgimento totale, degli affetti oltre che
dell’intelletto e della volontà, risale a un periodo precedente
l’attuale fase postfordista e si colloca in maniera specifica all’interno dello sviluppo di un nuovo mercato, quello delle professioni indipendenti a servizio dell’impresa. Ai nuovi professionisti si insegnava che l’erogazione di energia emotiva è il principale atto della prestazione, precedente e superiore all’atto di
erogazione di energie fisiche o intellettuali. La dedizione al lavoro e il vincolo morale verso il fruitore della prestazione presuppongono un elevato livello di accettazione della propria con62
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dizione sociale, richiedono un cervello e un’anima completamente disponibili al sacrificio di un uso diverso del proprio tempo di vita. In alcune professioni si richiede uno spirito “disinteressato”. Non è così nella maggior parte delle nuove professioni che, prestate a servizio delle imprese, si lasciano permeare
dallo spirito del business e dunque richiedono uno stile di vita
dove la carriera, quella che viene chiamata comunemente
“l’affermazione del professionista nel mercato”, rappresenta la
principale molla dell’esistenza. Negli anni ottanta e novanta abbiamo assistito a un’accettazione di massa di questo stile di comportamento. Professionisti indipendenti o salariati, persone soprattutto impegnate nei ruoli della new economy, donne in particolare, orizzonte mentale e stile di consumo da ceto medio produttivo, lower middle class, hanno interpretato come un unico
grande coro questa commedia moderna, hanno dedicato la loro vita al lavoro, hanno occupato la loro mente con il problema
del lavoro anche fuori orario, spesso hanno sopportato una vita da cani, talvolta sacrificando le loro relazioni personali, coniuge, figli, amici. Il lavoro ha perduto il suo significato di “prestazione conto terzi” per diventare semplicemente impegno personale, prova di sé, specchio della propria identità. Nemmeno i
padri più accaniti del capitalismo, i suoi più ciechi sostenitori
avrebbero immaginato una vittoria simile. La crisi finalmente
ha introdotto una crepa, una forte polarizzazione tra chi ha trovato ragione d’intensificare la dedizione e chi ha cominciato a
guardare con maggior distacco “la carriera”. Ma le certezze,
l’univocità dell’orizzonte mentale, si erano incrinate assai prima. Forse proprio in seguito a una maggiore dedizione femminile al lavoro, il senso di distacco è maturato più rapidamente
nella percezione di genere e ha preso voce nella letteratura e nella saggistica delle donne, si è tradotto in una concezione della
vita lavorativa come l’opposto di un percorso lineare, come una
permanente “transizione”30 da uno status professionale a un altro, oppure come un “doppio sì”, alla cura delle relazioni personali e al lavoro conto terzi, al vincolo affettivo e familiare e allo sforzo per migliorare la qualità delle prestazioni professionali.31 Corredato da venticinque pagine di bibliografia, il capitolo sulle professioni dell’Handbuch für Soziologie 2010 sottolinea l’importanza del pensiero femminista nella demolizione delle ideologie del professionalismo. Tutte le decorazioni appese alla divisa della professione sarebbero state strappate, le ultime
ricerche in ambito germanofono parlano di Arbeitskraftunternehmer, di un imprenditore della propria forza lavoro; sparisce
ogni riferimento alla professione come attività comune di un
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gruppo sociale, di un collettivo; rimane solo l’individuo, la sua
forza lavoro e il mercato. Lo spartiacque è dato dalla crisi del
modello fordista, su questa periodizzazione ormai c’è una convergenza di opinioni.
Consulenti di direzione: flagello o risorsa?
Un esempio di come i problemi della reputazione, del rapporto con il mondo accademico e dell’immagine pubblica del lavoro indipendente si confondano talvolta in maniera inestricabile è dato dalla figura del consulente di direzione d’impresa. Non
si può negare che questa sia stata una “nuova” professione molto diversa da quelle liberali, perché non dotata di percorsi formativi specifici o di competenze esclusive. Benché i suoi inizi si
possano collocare nel periodo tra le due guerre mondiali, di fatto è dopo il 1945 che ha assunto un ruolo importante e una sempre maggiore visibilità.32 Certi studi fanno risalire la sua diffusione in Europa addirittura al Piano Marshall. Indagini condotte sul caso francese ne rintracciano gli inizi già prima, e precisamente nelle attività degli ingegneri delle Grandi scuole, che invece di entrare nella pubblica amministrazione diventano quadri delle imprese private. È un caso di studio interessante perché
lo sviluppo di quella che è stata chiamata consulting industry ha
dato luogo alla costituzione di società di dimensioni multinazionali, ma al tempo stesso ha creato quel particolare tipo di capitale che è stato chiamato “capitale simbolico”, posseduto da persone che godono di una reputazione speciale. È un’attività che si
articola su due poli estremi, quello della grande organizzazione,
quindi del marchio, e quello dell’individuo singolo.33 Tra tutte le
attività professionali, inoltre, è quella che poco per volta ha rappresentato l’esempio vivente del successo individuale. Quando si
pensa a un consulente di direzione, istintivamente vi si associa
la figura di qualche “guru”, di qualche uomo di successo, strapagato, e dunque alla quintessenza del professionalismo. Tanto
che spesso la figura del consulente assurge a simbolo delle nuove professioni e del lavoro indipendente tout court. Il capitale
simbolico che tale figura detiene le deriva da una doppia fonte di
luce, quella del management che ne è l’utente e quella del mondo universitario, universi che godono del massimo prestigio nella nostra società. Qualcuno ha parlato di rapporto “simbiotico”
tra il mondo accademico e la consulenza di direzione, sia perché
la figura che svolge questo ruolo occupa non di rado ambedue le
posizioni, sia perché si è verificato spesso uno scambio di tipo
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utilitaristico tra la posizione del docente universitario e quella di
chi svolge il ruolo di consigliere di potenti amministratori delegati di grandi aziende. Il consulente procura sponsor all’università e l’università gli garantisce una posizione di prestigio e di
inamovibilità. Oppure il docente della business school apre una
società di consulenza e fa da intermediario tra l’università e
l’impresa, procurando forza lavoro intellettuale di valore “scientifico” garantito. In questo caso il manager potrà contare forse
su consulenze meno costose di quelle delle multinazionali, che
devono coprire i costi d’esercizio. Ma la figura del consulente di
direzione presenta anche lati deboli. I risultati del suo lavoro non
sono facilmente verificabili, il contenuto delle attività di consulenza non è facilmente codificabile, è difficile persino descriverlo. È altrettanto difficile controllare se un’organizzazione abbia
veramente bisogno di consulenti esterni, e in definitiva la spesa
per le consulenze appare quasi un benefit del manager o un suo
capriccio personale. Il giudizio sull’operato del consulente e sugli effetti della sua prestazione è riservato al manager che lo ha
ingaggiato e il manager non sarà mai disposto ad ammettere di
aver sprecato i soldi dell’azienda. Anche in questo caso il rapporto
può essere di tipo simbiotico. Negli anni novanta il mito della
consulenza di direzione si è andato progressivamente appannando, sono proliferate le voci critiche, c’è chi ha definito l’utilità
del consulente di direzione puramente theatrical, funzionale solo a dare spettacolo. Povera di contenuti, priva di idee, della consulenza non rimarrebbe che l’abilità di una presentazione in
Powerpoint. Ma anche nel caso in cui le idee del consulente fossero eccellenti, la loro efficacia sarebbe ben poca, date le resistenze inerziali dell’organizzazione a metterle in pratica. Gli scandali che hanno coinvolto società di certificazione dei bilanci agli
inizi del nuovo millennio hanno ulteriormente scosso la reputazione della professione. In Italia la pessima fama del consulente
è stata spesso imputata al suo rapporto con la politica e la pubblica amministrazione, tanto che il termine talvolta si confonde
con quello di faccendiere. All’estremo opposto troviamo invece
chi considera la consulenza di direzione il custode della cultura
manageriale. È difficile formulare un giudizio equilibrato proprio per il peso esercitato dalla tradizione del professionalismo
e per l’importanza che al suo interno riveste il capitale simbolico. Le nuove professioni non ci hanno guadagnato dal venir associate all’archetipo del consulente di direzione, che nell’immaginario collettivo è un uomo di successo dagli onorari favolosi
per prestazioni da ciarlatano. È possibile riprendere uno sguardo corretto sulla consulenza – spesso strumento di effettivo sup65
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porto nelle scelte strategiche di un’impresa o di una pubblica amministrazione – solo spogliandosi completamente da un sistema
di pensiero condizionato dall’ideologia del professionalismo.
Il già citato Manuale della consulenza redatto a metà degli
anni settanta dell’International Labour Office di Ginevra, e poi
aggiornato più volte, passa in rassegna varie scuole di pensiero
che si sono esercitate a tracciare il profilo del consulente di direzione, ma un’idea centrale le accomuna tutte: quella che tra il
consulente e il suo cliente, il manager, ci deve essere scambio di
conoscenza, interazione, e che ambedue “non debbono risparmiare alcuno sforzo affinché il loro rapporto di lavoro diventi
un’esperienza di apprendimento reciproco”. In altri termini, quello del consulente è essenzialmente un lavoro di relazione. Quindi la sua competenza viene definita primariamente attraverso i
personality traits e le attitudes, solo al terzo e quarto posto vengono knowledge e skills.34 Benché il Manuale consideri l’offerta
di servizi di consulenza un’industria che deve avere strutture organizzative complesse e alla figura del consulente indipendente
dedichi quattro scarse paginette, non c’è dubbio che il capitale
delle grandi società di consulenza sia rappresentato da individualità e, per quanto possano essere standardizzate le loro procedure, il successo sul mercato dipende dal talento delle singole
persone. La clientela è ricca. Le grandi imprese, le pubbliche amministrazioni e le risorse generate dall’industria del management
consulting sono consistenti, il lavoro di conoscenza e approfondimento che vi si è profuso ha finito per creare un’accumulazione di intelligenza che pochi altri settori conoscono. Ogni lavoratore indipendente della conoscenza, qualunque altro mestiere faccia, può trovare nella sua letteratura considerazioni, esperienze
e analisi dalle quali c’è sempre qualcosa da imparare.
Surrogati d’identità
L’ideologia del professionalismo, pur sottoposta a critiche demolitorie, è dura a morire e si ripresenta con gli stessi abiti consunti e pieni di rattoppi nei periodi di crisi economica, sociale e
politica dei ceti che ne sono portatori. Ma oggi, nel periodo postindustriale, c’è qualcosa di più che può spiegare la sua persistenza
anche nei momenti di congiuntura favorevole, come sono stati,
in Italia, gli anni ottanta e novanta, quelli, per intenderci, che
hanno visto il diffondersi delle nuove professioni. Ed è singolare
che il professionalismo sia tornato in auge mentre proseguiva in
maniera accelerata la frammentazione e l’implosione dei ceti me66
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di, e si stava affermando quindi una tendenza inversa rispetto a
quella che Bledstein e altri hanno osservato nell’America mid-victorian. Se allora la cultura del professionalismo aveva cementato le varie componenti della “classe unica”, nei decenni più recenti ha potuto riproporsi in un panorama di crescente disgregazione e frammentazione, galleggiando come una sostanza che
non si scioglie nella “società liquida” di cui parla Zygmunt Bauman. La ragione principale sta forse nella perdita di forza “identitaria” del lavoro. Un fenomeno cui sono stati dedicati molti studi ma che ciascuno di noi può osservare nella vita di ogni giorno. Le persone continuano a definirsi attraverso l’attività che svolgono, ma solo per pura convenzione, per ragioni di etichetta quasi, mentre nel loro intimo cercano agganci più solidi, più convincenti per caratterizzare la loro personalità. Nella crisi d’identità
spesso si confondono questi due piani, quello dell’identità come
maschera di una commedia che recitiamo tutti quanti e che indossiamo nel balletto dei rapporti superficiali quotidiani, obbligati a rispettare certe convenzioni, e quello dell’identità intesa come configurazione dell’unicità della persona. Nella prima forma
d’identità possiamo recitare o usare le credenziali, nella seconda
dobbiamo crederci davvero ed è questa che nella società odierna
tende a indebolirsi sempre più, provocando, per reazione di autodifesa, o la moltiplicazione delle maschere oppure il travestimento. Nella società italiana dove le scelte di politica industriale hanno portato l’abbigliamento e la moda a occupare una posizione costituita dell’identità nazionale, la costruzione della personalità attraverso i vestiti e gli accessori ha raggiunto limiti esasperati e ha ridotto intere generazioni di giovani a manichini ambulanti, privi di anima. Non è quindi soltanto il lavoro ad aver
perduto la sua forza identitaria sia perché è un valore sociale in
disuso, sia perché la precarizzazione lo ha logorato nei suoi significati esistenziali, ma è la formazione della personalità in quanto tale che è resa sempre più difficile e complessa. In un quadro
di perenne competizione, all’interno del mondo del lavoro crea
identità la carriera, semmai, non la funzione. Chi è tagliato fuori da un percorso di carriera rifiuta una definizione di se stesso
attraverso il lavoro. Qui s’innesta la forza ideologica del professionalismo. Benché, come abbiamo visto, esso stesso sia stato
strutturato secondo curricula istituzionalizzati, conserva una sua
presa sull’individuo attraverso la sua componente moralistica e
attraverso il richiamo all’ordine simbolico della competenza
esclusiva. Sicché coloro che esercitano una di quelle che sono
chiamate “professioni intellettuali” non solo indossano la maschera del recitare quotidiano, ma ci credono. Non stupisce quin67
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di che le “nuove” professioni siano state contagiate dall’ideologia
del professionalismo: cercavano una forma di cittadinanza e di
riconoscimento per passare dallo stato di outsider a quello di insider, la via breve era quella della vecchia ideologia. Poi si sono
accorte che restavano lo stesso fuori dalla porta, ma questa è
un’altra storia.
Vale la pena invece riprendere il discorso della sempre più
difficile formazione della personalità e dell’identità attraverso
l’occupazione, perché presenta aspetti che s’intrecciano fortemente con il problema della coalizione.
L’incertezza odierna è un potente fattore di individualizzazione; essa divide anziché unire [...] l’idea di “interessi comuni” diventa sempre più nebulosa e in definitiva incomprensibile. Paure, ansie e risentimenti sono fatti in modo tale da dover esser sopportati in solitudine, non si sommano, non si coagulano in una “causa comune”,
non possiedono un “destinatario naturale”. Tutto ciò fa dell’atteggiamento solidaristico una tattica non più razionale e suggerisce una
strategia di vita del tutto diversa da quella che condusse un tempo
alla nascita delle organizzazioni difensive e militanti della classe lavoratrice.35
Questa visione rassegnata di Bauman non è del tutto convincente. L’insicurezza non è soltanto un prodotto di rapporti di
lavoro precari. Qui c’è il solito retaggio paralizzante del modello del lavoro subordinato, inteso come storicamente “stabile”.
L’insicurezza è dovuta alla difficile formazione della personalità,
provocata a sua volta dalla crescente invasione di modelli di persona, di comportamento, di pensiero, di espressione, che i media trasmettono in età infantile e adolescenziale. Ogni immagine è un’ipotesi di personalità possibile, spesso le immagini o le
parole trasmettono modelli di personalità irraggiungibili. Entrano a fiumi nelle catene dell’apprendimento fattori inquinanti, scorie d’ogni tipo prima che l’educazione possa fornire filtri
protettivi. Dell’educazione qui si è parlato solo per i suoi gradi
elevati perché il rapporto tra formazione delle conoscenze specializzate e professioni intellettuali è vincolante. Le critiche all’iperspecializzazione sono cominciate già prima di Weber ma il
problema ormai, ce ne accorgiamo ogni giorno, non è quello della difficile comprensione dei linguaggi specialistici e della pretesa di status delle élite professionali, e nemmeno quello della discrasia tra i corsi che l’università offre e le competenze che il mercato richiede. Il dramma oggi non è l’università specialistica, che
bene o male funziona, è la gente che non sa parlare e scrivere in
italiano. È sempre più incerta e fragile quella che Drucker chia68
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mava l’allgemeine Bildung. Si è capaci di produrre competenze
specialistiche, che possono assumere la veste di identità professionali, ma si è sempre meno in grado di produrre personalità,
quell’insieme di attitudini che consentono di organizzare le conoscenze e le passioni, i saperi e le emozioni, in un ordine mentale che permette all’individuo di controllare, filtrare e incanalare il flusso di eventi informativi che gli piovono addosso, ma soprattutto gli consentono di agire su percorsi che lui stesso si è
scelto. Questa è la condizione, la possiamo chiamare dote o talento, di cui necessita il lavoratore indipendente delle nuove professioni, è la capacità di muoversi su tutti i terreni, ma anche di
navigare o di volare, di transitare da un mercato della competenza a un altro, da un sistema di relazioni a un altro. Non ha bisogno di un’identità professionale, ha bisogno di una personalità
che gli conferisca sicurezza e quindi disponibilità al rischio, può
tranquillamente disfarsi dell’ideologia del professionalismo (deve sapere cos’è però). Non è un paradosso affermare che per un
nostro lavoratore della conoscenza freelance padroneggiare la
lingua italiana scritta e parlata è il requisito più importante, perché significa che ha un’idea di base di cosa siano il tempo e lo
spazio, cioè ha introiettato la storia e la geografia. Significa che
sa esprimersi in maniera chiara e in maniera ambigua, ha un’idea di cosa siano le relazioni sociali, di dove si possa essere schietti e frontali e di dove conviene stare in guardia. L’italiano è una
lingua che offre meravigliose risorse di ambiguità, non a caso il
nostro è il paese del trasformismo, delle leggi che vogliono dire
una cosa e il suo opposto. Ma l’ambiguità è anche finezza, come una musica che procede per quarti di tono, e quando il punto dove si vuole arrivare è chiaro, l’ambiguità diventa solo un mimetismo per poter arrivare là dove altri potrebbero impedirti di
arrivare o potrebbero aspettarti. È un modo per preparare la sorpresa del pensiero originale. Tradurre allgemeine Bildung con “cultura generale” è restrittivo, il termine intende la conoscenza dei
“fondamentali”, in modo da distinguere l’essenziale dal superfluo, in un quadro mentale dove i riferimenti di tempo e le gerarchie dei dati sono chiari e i linguaggi degli insiemi di informazioni riconoscibili. Italiano, storia e geografia: sembra una
battuta di snobismo intellettuale, ma com’è possibile formare una
personalità senza sapere come si legge un libro di storia, senza
saper riconoscere la dinamica e la genesi della condizione in cui
si vive? Farsi spiegare passivamente da altri quello che sei o com’è
nato il mondo in cui vivi è come accettare che padre e madre vengano conferiti d’ufficio. Solo una forte personalità produce frammenti d’idee originali, offre al mercato quella che comunemen69
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te si chiama “innovazione”. Questo è il campo non esclusivo ma
specifico dei lavoratori della conoscenza indipendenti.
Personalità e scrittura
Ma che significa “scrivere in italiano”? Maestri di questa pratica ci hanno permesso di entrare nel loro laboratorio e di osservare da vicino certi arnesi del mestiere. Certo, si trattava in gran
parte di arte letteraria, ma la redazione di testi di riflessione o di
esposizione per loro non è mai stato esercizio diverso; per quanto riguarda la qualità della scrittura, gli ostacoli e i problemi restano gli stessi. Sono le sorgenti dell’espressione il grande mistero. Un giorno Luigi Meneghello, alla domanda su quale fosse per
lui il rapporto tra dialetto e lingua nella scrittura e se ritenesse
che il dialetto fosse un patrimonio espressivo in via di estinzione, così rispondeva:
Per me ha senso l’assioma che morendo una lingua muore una cultura, ma è certamente vero anche l’opposto, cioè che il mondo artigiano e contadino è stato estinto dagli sviluppi della nostra società,
della nostra civiltà: ed è ovvio che mantenere vivo il dialetto al di
fuori della società che lo parlava, lo nutriva, non avrebbe senso.
Quanto lunghi saranno i tempi perché il dialetto scompaia del tutto questo resta da vedersi. Ma si può presumere che prima di scomparire il dialetto potrà influenzare anche profondamente lo sviluppo dell’italiano letterario; attraverso i meccanismi non troppo diversi dai “trasporti” che vi ho illustrato.36
L’industrializzazione, il fordismo avevano portato alla svalorizzazione di un patrimonio linguistico che troppo spesso
l’italiano letterario aveva ignorato, se non represso. Rispondendo
al suo interlocutore nel 1986, Meneghello non immaginava che,
dieci anni dopo, “il progresso della civiltà” avrebbe avvicinato
il rischio di una seconda estinzione, quella delle lingue in quanto tali. Il postfordismo e l’uso delle tecniche comunicative a distanza potranno portare a questa scomparsa? Il modo di “scrivere all’istante”, “rispondere all’istante”, l’introduzione di stilemi
e grafemi privi di un suono, leggibili attraverso una linguistica
senza fonologia, la “perdita del malinteso”, come dice Gargani
citando Baudelaire,37 la minaccia di una comunicazione che,
giunta ai livelli estremi di connettività tra soggetti, diventi mutismo sono temi che appassionano i filosofi dal momento in cui
si è instaurato il dominio di Internet. Sono i problemi ai quali è
maggiormente sensibile chi ogni giorno lavora con il web e ne
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riconosce le insidie; non sono problemi riservati ai filosofi ma
normalità per i lavoratori della conoscenza. Le lingue, del resto,
tra i vari segni della civiltà sono state quelle più esposte alla minaccia di repressione, di interdizione. Quante volte una lingua
è stata “salvata”! Oggi questa minaccia ha cambiato tattica: ciò
che uccide le lingue e le culture a esse associate non è il divieto
di parlarle o scriverle, è il potere monopolistico di un idioma.
Ma è proprio questo a esaltarne il prezioso retaggio. Italiano,
storia e geografia non solo per rendere solido un capitale umano, si diceva, ma per formare una personalità, un carattere. Insistiamo: non si tratta di luoghi comuni o di snobismi provocatori, qui si vogliono rivisitare tematiche alla base dell’ideologia
del professionalismo che ritroviamo negli scritti dei suoi padri
fondatori, come, ancora una volta con acutezza, ci insegna Bledstein. Uno dei princìpi fondamentali, come abbiamo ricordato
in precedenza, era la dedizione, la spinta etica al bene pubblico,
considerata forse più importante della competenza specialistica. Ma ben presto si disse che prima ancora era indispensabile
il character, “il segno distintivo, la somma di qualità che distinguono un individuo dall’altro” e che potrebbe essere proprio quel
che abbiamo chiamato personalità. Giustamente Bledstein osserva che questo “carattere” era sì inteso come immagine di se
stesso, fiducia in se stesso, disposizione d’animo dell’individuo
ad affrontare tutte le situazioni, ma solo all’interno dei parametri della carriera: devi avere character nel quadro dei career patterns. Il termine career in origine indica la pista di gara: il “carattere”, quindi, sin dalle origini del professionalismo moderno,
allude a “una personalità competitiva”. Character: avere una personalità. Corre veloce il pensiero al libro di Richard Sennett,
L’uomo flessibile, che ha avuto tanta eco, anche in Italia. Il suo
sottotitolo, nell’edizione originale, suonava The Corrosion of
Character, per dire il deterioramento della personalità provocato dalla condizione di perenne instabilità del lavoratore moderno. Nel nostro discorso si vuol andare oltre, la difficile formazione di una personalità è generata da qualcosa di più complesso del precariato lavorativo o dell’incertezza professionale, ci
sembra che abbia piuttosto a che fare con la percezione del mondo e con l’adattamento all’ambiente esterno. Il modo di produzione postfordista e la globalizzazione hanno creato una nuova
antropologia umana, la diffusione dell’informatica e l’utilizzo
del personal computer hanno introdotto nuovi parametri epistemologici, modificando radicalmente le dinamiche dell’apprendimento e quindi del passaggio dallo stato infantile allo stato adulto. L’informatica ha consentito a giovanissimi di padro71
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neggiare i linguaggi e le tecniche, mettendoli in grado di trasformarsi, per esempio, in hacker capaci di creare grosse difficoltà o addirittura paralizzare sofisticati sistemi di apparati militari. Nessuno ha insegnato loro come si fa, lo hanno imparato
da soli. La rivoluzione del computer segna uno spartiacque nella storia perché ha posto fine al sistema millenario delle civiltà
umane che prevedevano in parallelo alla crescita naturale dell’uomo un progresso graduale di apprendimento. L’età scolare
era una fase ben precisa della crescita fisiologica. L’hacker bambino è il simbolo di questo passaggio di civiltà. Senza un percorso di apprendimento, senza una scuola, già irrompe con potenza devastante nel mondo degli adulti, un mondo che quanto
più è computerizzato tanto più sembra accessibile a chi non ha
compiuto o non ha bisogno di compiere un curriculum di formazione. Se la principale capacità di adattamento all’ambiente
esterno è data dalla conoscenza dei linguaggi informatici, e tutta la cultura della “formazione generale” risulta obsoleta, o semplicemente non utile a consentire la sopravvivenza dell’individuo, è chiaro che la stessa nozione di personalità individuale acquista un nuovo significato. Forse quella nozione di personalità
che abbiamo prima delineato appartiene anch’essa al mondo di
ieri. La corrosione, il deterioramento della personalità provocati dall’instabilità lavorativa si chiamano così perché lo sguardo di Sennett, come il nostro, è datato? Ha forse bisogno di conoscere la storia l’hacker bambino? No di certo, ma non ha bisogno nemmeno di relazioni. Il suo mondo è lì, dentro lo schermo e lui non lo riconosce attraverso la carta geografica ma mediante il linguaggio dei simboli. I casi clinici di ragazzi che stanno tutto il giorno chiusi in stanza davanti al computer dovrebbero farci capire che l’androide è dietro l’angolo. Ma non è detto che finisca così; solo un atteggiamento di sciocco snobismo
parla con apparente rassegnazione di “barbarie incombente”.
Tutti i sistemi totalizzanti tendono a ridurre l’umanità a un insieme di corpi senz’anima, senza personalità, il capitalismo per
primo e il biocapitalismo quasi ci riesce.38 Il problema sta nel
rifiuto di subire, di sottomettersi, è l’eterno problema della libertà dell’individuo. Qui sta il senso del discorso sulla coalizione. Ma la libertà non è scindibile dalla conoscenza, pertanto
l’affermazione che l’informatica ha creato una diversa epistemologia significa che ha modificato i parametri del processo conoscitivo liberandolo in parte dalla dipendenza dell’insegnamento, del lavaggio del cervello, e dalla dipendenza dei procacciatori/manipolatori d’informazioni, aprendo lo spazio a un’autonomia dell’individuo, seppur parziale e in permanente ten72
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sione. Parlando il linguaggio dei simboli ha ridotto lo scarto tra
la parola e i suoi effetti, il gesto e i suoi riflessi. Ha abbassato la
statura dell’autorità, le ha tolto il piedestallo, contribuendo in
questo senso alla de-professionalizzazione.
Le “nuove” non-professioni
La nascita e lo sviluppo delle “nuove” professioni avvengono
proprio nel periodo in cui questo passaggio di civiltà comincia a
compiersi. Non hanno un percorso di formazione precostituito,
non possiedono conoscenze alle quali corrisponde un ambito di
giurisdizione ben definito, vivono di relazioni più che di competenze, la loro autorità è sancita dal mercato non dalle credenziali, a loro non servono i paludamenti del professionalismo, anzi
sono d’impaccio. Ma il termine generico di “nuove professioni”
ne comprende anche alcune antiche, esercitate in maniera nuova o, per meglio dire, svolte in contesti di mercato talmente diversi da quelli che in origine le aveva viste nascere, da poter essere considerate “nuove”. È la forma sociale dell’esercizio a fare la
differenza, non la specializzazione.
Qualcuno ha detto: non sono professioni e chi le esercita non
ha il diritto di chiamarsi professionista. Con malcelato disprezzo ne parla uno che pure è stato un impietoso testimone della decadenza della professione medica negli Stati Uniti:
Specialisti che in realtà sono dei meri tecnici [...] servono i loro padroni come freelance o hired guns (tanto per usare sia il termine antico che quello moderno per dire “mercenario”), le loro lealtà si collocano sullo stesso piano di quelli che li pagano. Accettano le scelte
dei propri padroni e li servono lealmente come meglio possono. Alla luce delle loro conoscenze specialistiche questi servants possono
consigliare ai loro padroni di qualificare o modificare le loro scelte
ma non pretendono di avere il diritto di essere loro a scegliere per i
propri padroni, di essere indipendenti da quelli o addirittura di violare i loro desideri. Ma è proprio questa l’indipendenza che il professionalismo reclama per sé.39
Forse qualcuno potrebbe sentirsi offeso a essere definito “un
mercenario”, ma la frase rispecchia semplicemente la mentalità
elitaria, l’atteggiamento di esclusione sociale, caratteristici della cultura del professionalismo, su questo concordano tutti i
grandi studiosi del fenomeno: lo stesso Freidson, Abbott, Magali
Larson e altri. Chi ha scelto il lavoro autonomo delle nuove professioni negli anni settanta, non solo in Italia, lo ha fatto invece
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portandosi dietro una mentalità opposta, quella dell’egualitarismo. I neue Selbständige tedeschi erano fortemente influenzati
dalle culture e dalle pratiche “alternative”, da orientamenti anticapitalistici, da un desiderio di fuga dalle città per immigrare
in zone rurali. Spesso un informatico sceglie la carriera del freelance dopo aver fatto un’esperienza di hacker. Come ci ricorda
Manuel Castells, forse il maggiore teorico della società dell’informazione, della network society, il termine hacker non indica un sabotatore, ma una persona che rifiuta il sistema proprietario, che considera la condivisione della conoscenza e dell’esperienza il valore più elevato, il principio etico al quale deve
tenere fede l’informatico che vive del proprio lavoro. È un atteggiamento opposto a quello della competenza esclusiva, proprio dell’ideologia elitaria del professionalismo. Grazie a questo
atteggiamento anarchico-libertario si è sviluppato Internet. In
virtù di una mentalità che è l’opposto di quella del professionalismo è nato il computer.
Il personal computer è stato un’invenzione casuale della controcultura informatica e lo sviluppo migliore del software lo si è avuto con
i sistemi open source, che sono stati prodotti al di fuori del mondo
delle grandi imprese, nelle università e nelle iniziative lanciate da
freelance.40
L’ideologia del professionalismo è conservatrice, non stimola l’innovazione. Il lavoratore della conoscenza moderno ha orizzonti più vasti, più aperti di quelli della professione. Taglia corto Keith Macdonald in un testo del 1995: “La conoscenza è un’opportunità per procurarsi un reddito,” scrive.41 Se siamo d’accordo
con lui, è una perdita di tempo interessarsi alla disputa se il lavoratore autonomo con partita Iva sia un professionista o meno, abbia o meno il diritto di presentare queste credenziali. È di
secondaria importanza decidere se considerarlo un mercenario
o un gentiluomo. Rimettiamo i piedi per terra, torniamo alla sua
condizione sociale, a quella che già trent’anni fa era stata messa a nudo da chi aveva colto sul nascere il passaggio di civiltà.42
Era evidente dalla fine degli anni settanta che la tendenza fosse quella definita da Magali Sarfatti Larson: la “proletarizzazione” dei laureati.43 Ragionando al giorno d’oggi, però, la constatazione che il fenomeno dell’impoverimento del lavoro intellettuale si è verificato effettivamente, come era stato previsto
trent’anni fa, non basta. Una tendenza storica non è mai lineare, si afferma per contraddizioni e ripiegamenti, si manifesta
per varianti che ne arricchiscono la complessità. Ragionando
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oggi, vale la pena di mettere in rilievo come le persone abbiano
cercato di resistervi o con artifici di sopravvivenza o, soprattutto, con una progressivamente maggiore capacità di amministrazione delle proprie conoscenze e un passaggio da forme di
vita puramente individualistiche a trame di relazioni che funzionano sia da strumenti di protezione sia da proposta di nuovi servizi. Il mercato per il lavoratore autonomo è in parte quello che lui stesso riesce a creare, a inventare, a inventarsi. Ma se
così è, se la forma “mercato” è indissolubile dal riconoscimento sociale, significa anche che una delle cause della mancanza
di reazione all’impoverimento della middle class può essere dovuta al fatto che esercitare un’attività di elevata reputazione o
visibilità offre una compensazione alle paghe da fame o agli onorari vergognosi. Forse questa è la vera trappola che ingabbia i
lavoratori indipendenti: essere vincolati ai valori del riconoscimento sociale tanto quanto la classe operaia è stata vincolata ai
valori del consumismo. Occorre dunque disattivare una serie di
trappole ideologiche se si vuole inaugurare un percorso di coalizione.
Ha ragione Federico Chicchi, che ha studiato a fondo il problema dell’identità in rapporto al lavoro, a scrivere:
Sembra svolgere una funzione rilevante, la diffusione di una cultura del lavoro che fa della performance individuale e della capacità
di competere efficacemente sui mercati emergenti degli elementi imprescindibili dell’alto riconoscimento sociale. Il lavoro diventa fonte di attribuzione di elevato status quando è visto come attività rischiosa, creativa e di responsabilità. L’atteggiamento che tende ad
attribuire rispetto e stima a chi accetta di intraprendere percorsi
professionali rischiosi e non istituzionalmente protetti, sembra far
parte di una più generale “cultura del rischio” tipica dei contesti economici postfordisti [...] la “cultura del rischio” è cioè una cultura individualistica, meritocratica che attribuisce valore sociale all’attore
che agisce senza pianificare nei dettagli la sua strategia, che aggredisce il mercato piuttosto che subirne gli effetti, che affronta con risolutezza ed autonomia le condizioni d’incertezza e variabilità della società postfordista. [...] Il saper rischiare, quindi, diventa il principale criterio di valorizzazione sociale del postfordismo. Rischiare
significa, infatti, stare dentro, non rischiare significa stare inesorabilmente fuori.44
Ma questa è ancora una volta, come in Bauman o in Sennett,
solo una faccia della medaglia, è una visione che rischia di rimanere circoscritta dentro la forma “mercato”. Il rischio vero non
è quello di affrontare il mercato. Il rischio vero è “pensare altri75
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menti”, è rifiutare la mentalità corrente, l’imitazione delle pratiche del leader di mercato. Il rischio vero è innovare, dotarsi di
un bagaglio conoscitivo sui generis. C’è un bellissimo termine tedesco, Querdenker, uno che pensa di traverso, e dunque che si
mette di traverso. L’innovazione può consistere proprio nel saper
ridurre l’imprevedibilità dell’azione rischiosa. Il rischio del lavoratore cognitivo che esercita un’attività indipendente deve essere sempre un rischio calcolato, non può essere mai assoluto, un
salto nel vuoto, una scommessa; deve contenere in sé un criterio
di relazione. Non si pensa “altrimenti” per rompere il legame con
il committente ma per vincolarlo a condizioni più favorevoli, non
si pensa “altrimenti” per stare peggio ma per sentirsi maggiormente padrone di un rapporto di lavoro, per quanto asimmetrico possa essere il rapporto di forza economico. Per calcolare un
rischio basta il proprio talento, ma per tutelarsi dal rischio c’è solo la coalizione con i propri simili.
Conoscenza tacita
Qualche anno fa, in un saggio sulla rivista dell’Associazione
medica americana, due autori, Epstein e Hundert, rilevavano in
maniera molto convincente che la competenza professionale si
definisce più come conoscenza tacita che come conoscenza esplicita.45 Riprendendo le tesi di Michael Polanyi,46 scrivevano:
La conoscenza tacita è quel qualcosa che conosciamo ma non sappiamo spiegare bene, che comprende le regole informali dell’euristica, l’intuizione e il contesto in cui si colloca l’atto della conoscenza.
La competenza è un abito mentale, proseguivano, riferendosi in particolare alla pratica medica. Ma questa idea, competence is a habit,47 possiamo riprenderla e applicarla a tutte le
professioni, in particolare a quelle “nuove”, che sono in parte
prive di una certificazione fornita da un percorso di studi o da
un titolo di studio specifico e prive di regolamentazioni per
l’accesso. La frase che spesso viene ripetuta in questi casi, “la
competenza è una questione di esperienza”, oppure “solo praticando un certo mestiere lo si impara”, descrive con troppa superficialità il complesso formarsi in un professionista delle conoscenze che gli consentono di esercitare il mestiere. Il concetto di “conoscenza tacita” invece va molto più a fondo, perché
indica quell’insieme di elementi teorici, emotivi, esperienziali,
tecnici, morali, comportamentali, relazionali che rendono non
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formalizzabile, non riproducibile, e quindi difficilmente trasmissibile, una competenza. È la forma propria del “segreto del
mestiere” nel lavoro di conoscenza professionale moderno. La
conoscenza tacita è una forma di sviluppo dell’identità, di crescita della personalità che si prolunga tutta la vita, è il vero lifelong learning, ma presuppone un abito mentale e una disposizione d’animo particolari, cioè prontezza ad assorbire elementi di conoscenza, curiosità e una fondamentale umiltà di fronte
alle cose e alle persone. Nell’universo dei lavoratori della conoscenza allignano, e oggi purtroppo proliferano, tipi umani e abiti mentali con un atteggiamento esattamente opposto, quelli che
ritengono la conoscenza e la competenza un processo unidirezionale, che credono il loro processo di apprendimento concluso con l’atto formale del titolo di studio e dell’accreditamento
all’esercizio della professione e quindi hanno una relazione con
gli altri, con gli utenti dei loro servizi, puramente gerarchica.
Perché sono queste le persone prive di conoscenza tacita? Perché nel loro stile di comportamento la conoscenza deve essere
sempre un attrezzo esibito, agitato davanti all’interlocutore come un bastone davanti al cane, strumento di sottomissione. Questa è la ragione per cui l’arroganza del knowledge worker si accompagna sempre all’ignoranza: è connaturata a un abito mentale che rifiuta la conoscenza tacita – possibile tecnicamente solo con l’osservazione attenta e curiosa dell’altro, affettivamente
solo con un fondo di adolescenziale freschezza. Il moltiplicarsi
di tipi umani caratterizzati da questo abito mentale nella società della conoscenza contemporanea è causa ed effetto della
svalorizzazione della competenza. Essi rappresentano la dimostrazione al contrario che l’assioma “la competenza è un abito
mentale” corrisponde al vero. Così come la conoscenza tacita è
quel qualcosa che sappiamo ma non siamo in grado di spiegare, così il fenomeno del dilagare di tipi umani e di abiti mentali dove arroganza, presunzione e ignoranza/incompetenza vanno a braccetto, è difficile da descrivere con il linguaggio della
disciplina sociologica. Non esistono ricerche empiriche, casi di
studio, su questo fenomeno che incontriamo ogni giorno e che
forma una delle componenti essenziali di invivibilità dell’Italia
di oggi. Se dovessimo effettuare su Internet una ricerca di letteratura sull’argomento, che parola-chiave potremmo inserire
nella ricerca? Eppure ogni lettore di questo libro ne avrà incontrati di simili tipi umani e forse avrà notato anche lui che
sono in pericoloso aumento. Ne vengono messi in gioco sia la
reputazione sociale del lavoro cognitivo sia il valore di mercato delle competenze. Ne viene umiliata la dignità del linguag77
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gio, della scrittura. È ancora Meneghello a descriverne lo stile
e a renderceli inconfondibili:
Ciò che dava noia non era l’oscurità, ma la falsa oscurità, la finzione del difficile, del raffinato, dell’insolito, del profondo. Mi sentivo
offeso in uno dei miei sentimenti più intimi. Mi pareva che praticare quel tipo di prosa abitualmente e per mestiere (come alcuni facevano) non sia un modo disonesto di scrivere, ma un modo disonesto di vivere, [...] per la gente di cui parlo, pareva che valesse la
regola: meno hai da dire, più banale e miserevole è la roba che hai
da dire, e più devi cercare di rendere oscuro, contorto, allusivo, involuto il modo in cui la dici.48
Se la competenza è questione di abito mentale, il valore del titolo di studio o di altri certificati di accreditamento viene ridimensionato e torniamo al tema che abbiamo già toccato: professionalità e attitudine morale sono inscindibili. La domanda se siano più importanti il commitment o la competenza tecnica non ha
senso, perché la competenza è essa stessa in gran parte una questione di tipo relazionale, di modalità di comportamento verso
terzi. È anche una questione di forma del pensiero, di struttura
della percezione, che non può essere codificata in tecniche di apprendimento, anzi, potremmo definire la conoscenza tacita come
quella che non è possibile formalizzare in precetti formativi, in
percorsi di educazione, quindi conferisce all’individuo l’impronta
di soggetto “unico” e irripetibile, al professionista l’impronta di
chi è in grado di dare quel servizio che nessun altro sa dare.
Si torna sempre al problema che aveva assillato Weber e che
continuerà a perseguitare coloro che in futuro si interesseranno
a questo tema: la standardizzazione delle procedure e dei contenuti delle discipline, necessarie a far funzionare un’università di
massa, non vanno proprio in direzione opposta? Trasformare la
competenza in tecnica riproducibile non è un modo per uccidere quella progressione verso l’“unicità” di cui si è appena parlato? L’alta formazione non serve oggi proprio a formare linguaggi di comunità professionali separate ma estese orizzontalmente su tutto il pianeta? Nella comunità finanziaria, dove si parla
ovunque lo stesso linguaggio, si presentano i problemi nello stesso modo, non è l’uniformità il requisito della massima professionalità? Più si riflette su questi problemi, più ci si convince che
il lavoro di conoscenza moderno vive all’interno di queste opposte forze, in una permanente tensione tra conoscenza tacita e procedure formalizzate. Ma non v’è dubbio che la prima rappresenta
un vantaggio competitivo per il lavoratore indipendente e le altre sono d’obbligo in una professione esercitata all’interno di una
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grande azienda. Da qualunque punto di vista si confrontino, si
scoprono sempre differenze sostanziali tra lavoro salariato e lavoro indipendente.
Autorità, autorevolezza
Ma nel lavoro di conoscenza si pone un problema in più di
quello del riconoscimento o della reputazione sociale, un problema più sottile e più intrigante, quello dell’autorevolezza. Qui
le parole chiave “successo”, “competizione”, “dedizione” non aiutano certo ad affrontare correttamente il problema. Potremmo
dire che l’autorevolezza si distingue dall’autorità perché è un riconoscimento sociale ottenuto al di fuori di meccanismi di potere, mentre l’autorità è in parte sinonimo di potere. Una persona è autorevole quando il suo pensiero e il modo in cui riesce a
esprimerlo acquistano rispetto e prestigio presso una comunità,
l’autorevolezza è la pura essenza di una superiorità intellettuale
che non tenta mai di sopraffare altre opinioni ma vuole illuminare problematiche collettive i cui risvolti restano oscuri ai più,
è per sua natura un servizio alla collettività, svincolato da necessità economiche, ambizioni di potere, interessi ideologici. Per
Weber la scienza come insegnamento è un processo ascendente
lungo i tre gradini della conoscenza tecnica, del metodo di pensiero, della chiarezza. L’autorevolezza ha sempre una componente
di rivelazione, disvelamento; è un riconoscimento da parte della
comunità che certe manifestazioni del pensiero sono illuminanti, e dunque benefiche alla comunità medesima, che ricambia con
il rispetto coloro da cui provengono questi bagliori di luce. Il personaggio autorevole è uno che aiuta gli altri a comprendere meglio se stessi e il mondo che li circonda, quanto maggiore è il disinteresse con cui dispensa la sua opera di chiarificazione, tanto
maggiore è il prestigio e la credibilità di cui gode. Una persona
autorevole difficilmente ha ottenuto il prestigio di cui gode tramite il successo e il denaro, non viene mai associata a qualcuno
che compete sul mercato in maniera spietata per ottenere il prestigio di cui gode. Al tempo stesso, però, l’autorevolezza non
s’identifica con l’autorità morale, in quanto può essere riferita a
conoscenze tecniche, cioè a una specializzazione, quindi a una
professione. Il pensiero delle donne si è esercitato in modo brillante sul problema dell’autorevolezza. Il processo attraverso il
quale si è cercato di mercificare l’autorevolezza è un’altra cosa
ancora. Da sempre il potere, l’autorità (Obrigkeit) hanno cercato
di imporre una forma di autorevolezza. Oggi lo sono la notorietà,
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la fama, la visibilità, oggi si cerca di far diventare autorevole anche un presentatore televisivo e le dinamiche sociali per cui questa manipolazione riesce fanno parte dei fenomeni più comuni
della società di massa. Per questo è importante restituire al termine “autorevolezza” il suo significato di rivelazione, di illuminazione, e riservare il riconoscimento di autorevolezza a processi di pensiero complessi, propri del lavoro intellettuale svolto come professione.
Perché abbiamo introdotto il tema dell’autorevolezza? Perché ci sembra presentare qualche discrasia rispetto alla filosofia
meritocratica. Anche se oggi in Italia, nella misera condizione in
cui è caduto questo paese, s’invoca a ogni piè sospinto la meritocrazia come regola sociale capace di riportare la moralità e
l’ordine là dove imperano corruzione e disordine, non ci sentiamo di affermare che una società meritocratica è il migliore dei
mondi possibili. Per la semplice ragione che la meritocrazia presuppone la selezione e la selezione presuppone la competizione,
quindi, in ultima analisi, una società meritocratica è una società
dove la parola competition è scritta a lettere cubitali all’ingresso
di ogni cittadina e di ogni villaggio. La società meritocratica è
una società di mercato, ma dopo quanto è accaduto nell’ultimo
decennio è difficile credere che il mercato sia capace di autoregolarsi; quindi una società meritocratica dovrebbe essere dotata
di regole e di dettagliate procedure di selezione che le rendono
operative. Le regole però presuppongono dei regolatori perché
siano rispettate, ma se la meritocrazia deve essere un principio
universale che governa anche i microprocessi sociali sarebbe necessaria un’intera popolazione di regolatori indipendenti e salariati. Pertanto la società meritocratica è una banale utopia, auspicarne l’avvento è come invocare l’apparizione della Madonna.
Non solo nell’Italia di oggi, ma anche negli Usa e nella Germania anni venti. È sempre il grande Weber, nello scritto che abbiamo più volte citato, a chiedersi: una volta che verranno introdotti i sistemi americani di valutazione nelle nostre università, quali saranno i criteri ispiratori della selezione? La risposta
è: il caso (hasard).49 Queste parole suonano profetiche se pensiamo a ciò che accade oggi sui luoghi di lavoro, dove è proprio
la banalizzazione dei princìpi meritocratici, la loro riduzione a
sistemi di valutazione ridicoli e arbitrari – che pretendono di saper calcolare esattamente la prestazione del singolo e automaticamente il corrispettivo in termini di retribuzione e di riconoscimento di carriera – a governare le politiche del personale. È
proprio la feticizzazione della società meritocratica che i lavoratori dipendenti si trovano a subire. La mercificazione dell’auto80
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revolezza va nella stessa direzione, ma proprio per questo dobbiamo restituire a questa parola la dignità che le spetta. Il fatto
che l’autorevolezza oggi abbia assunto la maschera caricaturale
del “guru” ci dovrebbe indurre a prospettarci modelli di ben altra levatura. Ai giovani professionisti del lavoro intellettuale vorremmo raccomandare di perseguire il raggiungimento di una condizione di autorevolezza, invece di perseguire obiettivi di successo e notorietà. Eppure, forse non ce n’è bisogno, con i tempi
che corrono l’etica del successo ha perduto di credibilità. Ma alle origini, nel periodo di formazione dell’etica del professional,
salariato o freelance che fosse, e in particolare nel periodo che
precede la Grande depressione del 1929, così come negli anni ottanta e novanta, l’immagine del mercato che veniva trasmessa
sembrava tale da considerare il successo un obiettivo alla portata di tutti.
Transitare, spostarsi, scavalcare confini
L’etica professionale di cui abbiamo parlato finora riguarda
in generale il lavoratore intellettuale indipendente; le professioni però sono tante e ciascuna ha bisogno di un proprio codice
identificativo per costituire quella comunità in cui il singolo professionista si riconosce. Che la genesi di questi procedimenti sia
da rintracciare negli statuti delle gilde e delle corporazioni medievali non vi è dubbio, si dimentica spesso però che del duplice
scopo al quale dovevano servire quegli statuti – conservare i segreti del mestiere e stabilire barriere all’accesso, il primo si è completamente vanificato nelle professioni intellettuali di oggi e il secondo si è reso molto difficile da perseguire perché non esistono
percorsi formativi specifici e la tipologia di “nuove professioni”
si arricchisce continuamente di nuove figure, stimolate dal continuo processo di innovazione, dalla insistente specializzazione
e dalla globalizzazione dei mercati. Stabilire oggi barriere all’accesso in un mondo dove la mobilità del lavoro intellettuale teoricamente non ha confini, è davvero ridicolo oltre che inefficiente.
Una corporazione di web designer italiani può impedire a un web
designer lituano che lavora a distanza sul nostro mercato di esercitare la professione? Sembra improbabile. A che può servire dunque un’associazione professionale? Può esercitare azione di
lobbying presso la pubblica amministrazione e il governo perché
siano garantite risorse o introdotte normative adatte a rendere
meno gravoso l’esercizio della professione o per consentirle di
operare in un ambiente più favorevole, può garantire ai soci un
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aggiornamento professionale permanente e può dare una definizione della professione medesima. L’epoca che stiamo vivendo,
anche per i professionisti indipendenti, non è più l’epoca dei sindacati di mestiere ma è l’epoca dell’industrial unionism, non è più
il tempo dell’associazione dei pubblicitari, dei consulenti, dei traduttori ecc., ma è l’epoca delle organizzazioni trasversali, che affrontano i problemi comuni a tutti i lavoratori autonomi della
conoscenza.
Pochi si sono esercitati sul tema delle professioni quanto il prolifico professor Andrew Abbott. Il suo libro del 1988 The System of
Professions. An Essay on the Division of Expert Labor è un classico. Conferma, a noi pare, molte delle argomentazioni che finora
abbiamo tentato di esporre ed è particolarmente prezioso perché,
a differenza degli autori finora chiamati in causa, prende in considerazione non solo le professioni liberali e le professioni per le
quali esiste uno specifico percorso formativo ma anche la galassia delle nuove professioni emerse negli anni settanta e ottanta.
Per Abbott il requisito fondamentale perché una professione sia
tale è quello di saper stabilire la sua “giurisdizione”, cioè l’ambito
specifico di sua competenza. Ma a differenza di chi prima di lui
lo aveva già individuato come un criterio distintivo traendone la
conclusione che compito di un organismo di tutela della professione deve essere quello di difendere il suo perimetro di competenza, Abbott giustamente sottolinea che se c’è qualcosa che distingue l’epoca attuale dalle altre è il continuo sconfinamento delle professioni negli ambiti di competenza altrui, come effetto dei
processi di innovazione richiesti dal mercato. Da qui deriva “il sistema delle professioni”, un tessuto all’interno del quale ci sono
continui aggiustamenti, continue ridefinizioni delle diverse giurisdizioni. Questa provvisorietà dei confini di competenza non solo non è dannosa, ma è anche auspicabile; la “mobilità interprofessionale” è un fattore dinamico di progresso. Abbott quindi rovescia completamente la prospettiva di chi ritiene che i confini
della professione debbano essere continuamente posti sotto sorveglianza e, per esempio, si debbano escogitare soprattutto sistemi per controllare gli accessi. Il mondo, il mercato cambiano, si
muovono e il professionista si muove di conseguenza, può partire dall’esercizio di una professione e poi passare a un’altra. Oppure, caso molto più frequente, parte da una professione, da una
specializzazione, che poi si arricchisce di nuovi contenuti tali da
renderla una professione diversa:
La struttura sociale delle professioni non è mai fissa, [...] la loro natura è quella di una costante suddivisione sotto la pressione della
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domanda di mercato, della specializzazione e della competizione interprofessionale.50
Le professioni, insomma, subiscono una continua trasformazione al loro interno e questo offre al professionista più opportunità di sopravvivere e di avere successo, di inventarsi nuovi
servizi o un inedito modo per erogarli. Non solo, ma uno dei fenomeni più evidenti cui stiamo assistendo è quello del cumulo di
diverse competenze professionali in una persona sola. “Devi saper fare molte più cose di quelle che ti chiedeva il mercato quando hai cominciato a esercitare, vent’anni fa.” Non è questa una
frase che abbiamo sentito migliaia di volte pronunciata da un freelance? Il “sistema delle professioni” di Abbott è un sistema interdipendente, tanto più efficiente quanto più è elastico, la miopia
è quella di chi invece vuole farne un sistema di rigidità. Ammesso che si vogliano difendere queste rigidità, e che sia giusto che
ogni professione difenda con i denti la sua giurisdizione, chi riesce a farlo in maniera effettiva, cioè facendo ricorso a vie legali
(perché altro metodo efficiente non c’è)? Soltanto una professione organizzata sotto un’unica associazione a livello nazionale, soltanto una situazione di monopolio consente un’efficace difesa della giurisdizione. Non è il caso delle professioni non tutelate da ordini, le quali si distinguono (purtroppo) per un’estrema frammentazione della rappresentanza. Abbott però non ritiene che la
giurisdizione debba essere abbandonata alle forze del mercato e
alle sue spinte e controspinte, anzi. Una professione è tanto forte (tanto più un professionista è sicuro di sé) quanto maggiore è
la sua capacità di controllare una giurisdizione che si suppone si
sia ormai dissolta; non solo, ma tanto più è viva (tanto più un professionista è competitivo) quanto più riesce a incorporare nel suo
set di conoscenze specifiche, altre conoscenze proprie di altre professioni. Un altro elemento d’interesse nell’analisi di Abbott è l’uso
del termine expert labor, perché è molto più preciso del termine
che spesso noi usiamo di “lavoro professionale di conoscenza”.
In particolare, il termine restituisce il senso di una condizione generalizzata e specifica dell’attività umana e non allude a uno status sociale. In effetti, a pronunciare le parole “medico”, “avvocato”, “architetto”, siamo inconsapevolmente portati a pensare a
una condizione di status sociale, non solo a una specializzazione
professionale; si è sedimentato nei decenni il senso comune che
queste professioni, e altre di tipo tradizionale, siano sinonimo di
middle class. “Lavoro di expertise” suona invece come un lavoro,
un lavoro di tanti; se serve a raggiungere o a mantenere uno status da ceto medio, è tutto da vedere.
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Uno status sociale in perenne equilibrio
Siamo arrivati a un punto importante del nostro discorso,
il rapporto tra lavoro professionale e status sociale. Ed è qui che
dobbiamo rovesciare completamente sia il discorso di Bledstein
sia il discorso degli Ehrenreich, versione 1977 (e magari recuperare quello di Barbara Ehrenreich, versione 2010). In questi
autori, e in tutta la letteratura sociologica del Novecento, i professionals – siano essi indipendenti o salariati – sono considerati l’ossatura del ceto medio, il suo “zoccolo duro”. Il tema di
fondo della ricerca sociologica è stato quello della “costituzione” in classi di diversi strati della popolazione. Oggi il tema principale è la “dissoluzione” delle classi e in particolare della classe che ha dato l’impronta allo stile di vita occidentale, la middle
class. In mezzo c’è stata la colata di studi sul superamento del
concetto di “classe”, sulla sua inapplicabilità alla realtà di oggi, caratterizzata da stili di vita uniformi che attraversano gruppi sociali con redditi molto differenti, sulla frammentazione della società in gruppi e sottogruppi, sulla complessità del presente, sull’eccessiva semplificazione delle teorie che suddividono la società in classi e, in definitiva, sul fatto che il marxismo
è superato. Corollario d’obbligo di queste teorie: la tesi che la
classe operaia è finita, defunta (ma per crepare deve prima essere esistita, no?). Di fronte a queste analisi che ci conducono
per i meandri di microprocessi sociali d’interesse, certo, ma così tortuosi che alla fine non riusciamo più a capire in che città
ci troviamo, a noi pare che la dissoluzione di una condizione di
status che costituisce l’essenza dell’Occidente sia un macroprocesso di cui l’analisi sociologica e il comportamento civile possono tener conto senza disonore. La rilevanza epocale di questo macrofenomeno forse non è ancora giunta alla coscienza di
tutti, e uno dei punti d’osservazione migliori per valutarne le
dimensioni è proprio quello delle professioni, in particolare delle professioni liberali tradizionali. Si sa che l’expert labor esercitato da un freelance delle nuove professioni è sottoposto ai rischi del mercato e pertanto non può garantire a priori il raggiungimento, la conservazione o la perdita di un determinato
status sociale. La professione liberale esercitata in forma indipendente, perché viene in genere trasmessa per via ereditaria o
perché è ritenuta nel senso comune un mercato protetto, è classificata come attività di scarse variazioni nella fortuna e nella
sfortuna. Non è più così, anche per le ragioni che Abbott stesso adduce con il termine di “divisione del lavoro di expertise”,
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attribuendo al termine “divisione” lo stesso senso con il quale viene usato nella letteratura marxista, ossia di una ripartizione di
compiti che è costitutiva di una struttura gerarchica (“an upper,
truly professional group and a lower, subordinate one”).51 Argomento questo da non sottovalutare, perché la tesi comunemente accettata è invece che la ragione fondamentale del disagio occupazionale delle professioni liberali, e quindi la discesa di molti giovani medici, avvocati e architetti nel limbo della precarietà
e della povertà, sarebbe dovuta esclusivamente a un eccesso
d’offerta, per cui ancora una volta il toccasana sarebbe il controllo degli accessi, regolamentando le iscrizioni universitarie.
Ma già è così, in molti paesi, eppure non è sufficiente a riequilibrare l’offerta a causa di regolamentazioni diverse sul numero chiuso in paesi che formano un unico mercato (per esempio
Germania e Austria), dunque le ragioni di un processo di “declassamento” – termine di uso comune nelle agenzie di lavoro
interinale – devono essere diverse e più complesse. Ha fatto scalpore qualche anno fa una trasmissione alla televisione tedesca
dove si vedevano fior di giovani medici assiepare di venerdì la
sala d’attesa dei voli Ryanair per andare a passare un weekend
di orari massacranti di servizio in Inghilterra in modo da poter
sbarcare il lunario. C’è chi la butta sul ridere come il blog
www.studioillegale.com che descrive le peripezie quotidiane di
un giovane avvocato a Milano nel 2010 per poter sopravvivere.
La ricerca Specula Lombardia ha evidenziato che tra i laureati
in architettura se la cavano meglio quelli con laurea triennale,
almeno possono fare i rappresentanti di mobilifici, con la specialistica sarebbero considerati overeducated.52 La divisione del
lavoro di expertise tra uno strato di professionisti con redditi che
consentono un tenore di vita da ceto medio e uno strato proletarizzato, che in parte lavora alle dipendenze e su commissione
per i primi, è un dato strutturale inerente le logiche della professione; ciò che è cambiato oggi è il periodo che intercorre tra
una condizione di subordinazione, il lower group di cui parla
Abbott, e una condizione che consente al soggetto l’appartenenza
all’upper group, periodo che diventa così lungo da indurre molti o a cambiare professione oppure a rinunciare alla professione per la quale si è abilitati dal titolo di studio. Ma se la crisi e
l’implosione del ceto medio ormai sono un dato di fatto che non
richiede molte “prove statistiche” per essere accettato, oscure
rimangono le conseguenze di questa crisi, in particolare per
quanto riguarda il senso comune. Il termine middle class infatti è stato usato come connotato di stili di vita e di mentalità co85
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muni a gruppi sociali che avevano livelli di reddito estremamente differenziati, quindi nell’affrontare il tema della crisi della middle class il peggioramento delle condizioni economiche
di determinate attività, statisticamente dimostrabile, può essere considerato elemento secondario rispetto a fattori di carattere culturale e comportamentale tendenti a riprodurre stili di
vita difficilmente compatibili con il reddito effettivo.53
Come ci ricordava Ferruccio Gambino in un saggio di vent’anni fa, è dagli anni trenta che si parla di crisi della middle class in
America e in questo lasso di tempo la stessa definizione di middle
class come categoria sociologica è cambiata, perché sono cambiati sia la composizione interna e il ruolo sociale di quell’aggregato della popolazione, sia i criteri di valutazione. Da un’iniziale caratterizzazione come ceto proprietario si è passati a un’identificazione con il ruolo svolto all’interno del lavoro salariato
(gli impiegati, i white collars); da un criterio di valutazione che
teneva conto dello status si è passati a uno che privilegiava il reddito. Se in modo ricorrente si è parlato di crisi, non significa banalmente che la middle class segua i cicli dell’occupazione come
qualunque altro gruppo della popolazione attiva, ma che ogni crisi ha le sue peculiarità perché ciascuna di esse colpisce un aggregato sociale al quale si attribuisce lo stesso nome, ma che al
suo interno è profondamente mutato.54
La classe media della cui implosione stiamo parlando non è
quella del secondo dopoguerra o degli anni trenta, è la classe della debt economy, come dice Marco Revelli, la cui morale di fondo è dominata dallo standard di consumo. Il comune denominatore è lo stile di consumo, non il reddito: la middle class è composta da quelli che vogliono appartenervi, non da quelli che vi
appartengono. In America la middle class che oggi sta franando
è quella che si è costituita con le carte di credito, non con il lavoro sicuro. Questo ha comportato una vera e propria rivoluzione nel modello d’accumulazione del capitalismo perché è sulla spinta dell’indebitamento individuale che si è costruita la finanziarizzazione dell’economia. Il profitto ottenuto mediante lavoro produttivo e investimento in capitale e conoscenza è diventato una risorsa secondaria d’accumulazione rispetto alla rendita ottenuta prendendo a prestito denaro a basso tasso
d’interesse e comprando titoli a elevato rendimento. Abbiamo
molte evidenze statistiche sull’impoverimento o sulla stagnazione dei redditi del lavoro dipendente, molte meno sull’andamento dei redditi di quello indipendente, ma quel poco che abbiamo ci dice che la fascia di coloro i cui redditi sono rimasti
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stabili o sono cresciuti è sempre più distanziato dalla media, come se nel lavoro indipendente si fosse riprodotto il fenomeno
dell’assottigliamento della fascia “centrale” di persone e la forma a clessidra avesse ricalcato quella dei redditi da lavoro in generale. Ma per entrare nel merito dell’implosione della middle
class più delle statistiche conta il vissuto delle persone. Come
emerge dalle testimonianze dirette.
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3.
Il lungo degrado del lavoro subordinato
Una Cina in Europa
Il lavoro indipendente, come tutte le altre componenti della
forza lavoro, deve fare i conti con le condizioni generali di contesto economico e sociale, che a loro volta sono determinate dalle scelte di politica economica degli stati, in particolare da quelli che si presentano di volta in volta come gli stati dominanti. Per
decenni, nel secondo dopoguerra, in Occidente questa funzione
di egemonia è stata svolta dagli Stati Uniti; oggi la potenza americana si è molto appannata, anche se in Europa continua ovviamente a farsi sentire. Nell’area dell’euro il paese che negli ultimi anni ha assunto un ruolo di assoluto rilievo, dal punto di vista economico – e in gran parte politico –, è la Germania. È un
fatto risaputo, si potrà dire, certo, ma il modo in cui si sta muovendo negli ultimi anni sul fronte del lavoro non è altrettanto di
comune conoscenza.
Uno studio del gruppo bancario svizzero Ubs così descrive il
modello tedesco:
L’economia tedesca, largamente improntata all’export, domina
l’Unione monetaria europea (Ume). Le iniziative della Germania
finalizzate ad aumentare la competitività dei prezzi all’esportazione costringono gli altri membri dell’Ume a una reazione deflazionistica e impongono loro di cercare di emulare il modello tedesco oppure di arrischiare la costituzione di grossi deficit nei loro conti esteri. [...] La soluzione tedesca è una svalutazione reale.
La svalutazione del tasso di cambio nominale riduce i prezzi di
esportazione dei paesi e la capacità delle famiglie interne di acquistare beni e servizi all’estero. La svalutazione reale ottiene lo
stesso risultato tagliando direttamente i prezzi e i salari interni.
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Per questa ragione è anche detta “politica deflazionistica” e spesso è accompagnata da riforme del mercato del lavoro e strutturali di altro tipo, al fine di promuovere la competitività di un paese.
La Germania, che ha adottato questa politica nei primi anni duemila, ora insiste affinché si attui una dose di svalutazione reale per
i paesi Ume indebitati.1
I dati più eloquenti, che confermano questa analisi, vengono
proprio dal mercato del lavoro.
Luglio 2010, l’Istituto lavoro e qualificazione (Iaq) dell’Università di Duisburg presenta il suo rapporto annuale sul fenomeno dei bassi salari.2 I risultati non si discostano molto da quelli delle indagini precedenti, presto dimenticati, ma veder riproposti certi numeri scatena un’ondata di reazioni per cui nessun
organo di stampa di una certa rilevanza può fare a meno di riportare la notizia sulle prime pagine, sia nelle edizioni cartacee
sia in quelle online. Decine di siti specializzati nel mercato del
lavoro, o in generale nei problemi dell’occupazione, riprendono
e rilanciano la notizia, costringendo rappresentanti del governo, del Parlamento, del mondo dell’impresa e del sindacato a
prendere posizione. La notizia è che più di 6 milioni e mezzo di
tedeschi percepiscono un salario da fame, eufemisticamente
chiamato Niedriglohn: sono il 20,7 per cento degli occupati, un
quinto della forza lavoro, il 70 per cento sono donne, il 7,7 per
cento di cui laureati. In Francia i percettori di salari a livello di
povertà sarebbero l’11,1 per cento, in Danimarca l’8,5 per cento. Certo, vi sono compresi i lavori a tempo parziale e i cosiddetti Minijobs, ma il 44,7 per cento è costituito da persone che
lavorano a tempo pieno. In pratica, quanto guadagnano? I ricercatori hanno fatto distinzione tra i Länder dell’Est e quelli dell’Ovest, perché è noto che le regioni della ex Ddr sono territori
dove le retribuzioni sono mediamente inferiori. I Niedriglöhne
sono 9,50 euro l’ora all’Ovest e 6,87 euro l’ora all’Est, lordi. Ma
una buona percentuale di questo esercito di 6 milioni e mezzo
di persone guadagna meno di 6 euro l’ora lordi. Quali sono le ragioni che hanno portato a questa situazione nel paese considerato la locomotiva d’Europa? E ancora: è questo il motivo per il
quale l’economia tedesca cresce (soprattutto in termini di esportazioni)? Il dito è puntato sulle scelte compiute dal cancelliere
Schröder nel 2002, con la famosa riforma del mercato del lavoro che ha preso il nome dal manager che ne ha tracciato le linee
essenziali: Hartz IV. La “Frankfurter Rundschau”, uno dei quotidiani più attenti ai problemi del lavoro, pubblica una breve inchiesta sugli esiti di quella riforma, che in quel momento era al-
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l’esame dei giudici della Corte costituzionale e intasava di ricorsi
i tribunali civili.3 Secondo i ricercatori dello Iaq i provvedimenti più nefasti di quella riforma riguardavano la deregolamentazione del lavoro interinale (Leiharbeit): era stato abolito il periodo massimo di utilizzo di un lavoratore interinale, era stato
abrogato il divieto di riassumere lo stesso lavoratore interinale
da parte dell’azienda che lo aveva occupato; erano state concesse nuove competenze alle società di lavoro interinale, come la
possibilità di assumere direttamente una persona, di licenziarla e di riassumerla.4 Introdotto come strumento a disposizione
delle imprese per affrontare i picchi di lavoro, il lavoro temporaneo è diventato in breve tempo uno strumento strutturale di
politica del personale. Sul sito del quotidiano di Francoforte si
scatenano le testimonianze, significative quelle di alcuni ingegneri: il lavoro interinale all’inizio sarebbe stato visto con favore, perché consentiva di fare diverse esperienze “vagabondando”
da un’impresa all’altra, permetteva di tastare le diversità, di capire i diversi climi aziendali. Oggi è guardato con diffidenza: retribuzioni anche di mille euro mensili inferiori a quelle del lavoratore stabile con identica mansione; nessuna tutela contro il
licenziamento, ostilità da parte del consiglio sindacale interno
(Betriebsrat) perché visto in concorrenza con gli iscritti, che sono tutti lavoratori stabili, straordinari non pagati, contratti poco chiari, possibilità di essere spostati su mansioni inferiori pur
lavorando da quattro anni per la stessa azienda senza essere assunti e così via. Si sono moltiplicate le agenzie di lavoro temporaneo con una specializzazione in forza lavoro qualificata: ingegneri, per la maggior parte, che vengono prestati (geliehen5)
all’industria dell’auto, delle macchine utensili, all’industria biomedica, alle costruzioni navali, all’industria aeronautica e spaziale. “Ormai un posto di lavoro su tre, di quelli che vengono dichiarati, è un’occupazione temporanea,” dichiara alla stampa il
presidente dell’Agenzia federale del lavoro.6
In realtà, era stata una scelta dei governi di ogni colore degli ultimi anni, ben chiara. Schröder, come ricordava il quotidiano di Francoforte, si era vantato in sede internazionale, agli
incontri del G8, “di aver creato un settore di bassi salari”, cioè
un mercato del lavoro parallelo. Diceva di averlo dovuto fare
per rallentare o disincentivare le delocalizzazioni, in accordo
con i sindacati, per impostare il modello di sviluppo tedesco a
somiglianza di quello cinese: bassi salari e alte esportazioni, domanda interna stagnante, domanda estera in forte crescita. Agli
inizi del 2009, secondo le statistiche del Wto, la Germania era
il primo esportatore mondiale, nell’agosto di quell’anno sareb90
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be stata superata dalla Cina, ma avrebbe mantenuto in seguito
la seconda posizione. Sull’onda delle reazioni suscitate dallo
studio dello Iaq, il sito Querschüsse metteva in rete una serie
di tabelle che dimostravano ampiamente come gli obiettivi perseguiti dai governi tedeschi avessero ottenuto ciò che volevano:
con un valore delle esportazioni di 804 miliardi di euro nel 2009,
la Germania sembrava percorrere una “via solitaria” tra gli stati europei, lo scarto rispetto al valore delle esportazioni degli
altri paesi, Francia e Gran Bretagna compresi, era ormai incolmabile.7
Scriveva il 28 luglio 2010 una persona al forum online della
“Frankfurter Rundschau”:
Sono stato lavoratore interinale anch’io, ma questa volta è l’ultima.
Ogni settimana dalle 45 alle 60 ore di lavoro molto intenso in un’azienda organizzata ancora secondo vecchi standard gerarchici, dove il fatto di ricavarci qualcosa è un problema secondario, importante è tenere la bocca chiusa. Circondato da colleghi divorati dalla paura, intriganti, che non hanno mai sentito parlare di solidarietà
o troppo inetti per capire il significato di quella parola, non c’era
nessun apprezzamento, nessun riconoscimento per il mio lavoro,
benché non avessi commesso il minimo sgarro né fatto errori che
potevano costare del denaro. Allora non ce l’ho fatta più a tenere la
bocca chiusa e mi sono rivolto all’agenzia di lavoro interinale che
mi aveva procurato quel posto e mi dava la paga, per esporre i miei
problemi e magari perché mi trovasse un posto diverso. “Siamo qui
per questo, per risolvere i suoi problemi,” mi hanno detto. Invece da
quel momento si sono dati da fare solo per cercare qualcuno che mi
sostituisse. Perso il lavoro, per sei mesi il mio corpo si è rifiutato di
fare qualunque attività. No, non si può accettare di fare qualunque
cosa pur di lavorare, non si può sempre andare avanti così solo perché alcuni politici privi di cervello hanno voluto che la Germania
funzionasse in questo modo, adesso mi farò mantenere dallo stato
finché non mi trovo un lavoro decente. Ho un diploma conseguito
con buoni voti, ho portato a termine gli studi, ho un’esperienza professionale. Nessun funzionario pubblico è occupato a cercarmi un
lavoro e dura fin che dura.
Sull’onda del dibattito sviluppatosi attorno allo studio Iaq, i
redattori di Querschüsse sono andati a vedere anche com’è messo il tedesco medio, che vive del suo lavoro; hanno preso in considerazione l’insieme dei salari e degli stipendi, depurandoli del
tasso d’inflazione, ricavato dall’indice dei prezzi al consumo. Nel
2000 la retribuzione media era di 16.217 euro all’anno, crescerà
nel 2001 per poi diminuire e risalire di nuovo nel 2004 a 16.471
euro. Da allora è in continuo calo fino a toccare nel 2009 i 15.815
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euro all’anno, pari a 1317,91 euro mensili. In questo stesso periodo le esportazioni tedesche hanno una crescita che non ha paragoni con Francia, Irlanda, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo.
Ancora più marcato è il surplus commerciale, mentre ristagna
più degli altri paesi la domanda interna. Il risultato che il governo Schröder intendeva ottenere è stato quindi in gran parte raggiunto: creare un mercato parallelo dell’occupazione caratterizzato da instabilità dei rapporti di lavoro e bassi salari, porre in
tal modo un freno alle delocalizzazioni, mantenere una forte competitività del prodotto tedesco sui mercati internazionali e accumulare riserve in grado di finanziare lo stato assistenziale (e di
intervenire a salvataggio del mondo bancario dissestato dalla crisi, ma questo non era stato previsto).
Come al solito, le politiche di deregolamentazione del lavoro
ottengono risultati sul piano dell’occupazione, della crescita e della competitività delle imprese, ma rischiano di non reggere sul
piano della tenuta politica e sociale, prima o dopo i conti con la
quota di popolazione meno favorita si devono fare. La sconfitta
della socialdemocrazia nelle elezioni che hanno portato al secondo mandato di Angela Merkel, insieme all’affermazione dei
liberali, è stata interpretata dalla capziosità della grande stampa
come segno che la deregolamentazione era stata troppo timida,
che la Germania doveva liberarsi del fardello del suo “stato sociale”, insomma che doveva “virare a destra” ancora di più e che
la cancelliera stessa avrebbe dovuto lasciare da parte certe sue
inclinazioni da cristiana sociale educata nella Germania comunista, per assomigliare un po’ di più al grande modello politico
del secondo Novecento: Margaret Thatcher. In realtà se c’è qualcosa che è stato fatto pagare prima ai socialdemocratici e poi
sempre di più alla Cdu è stato proprio il “modello Schröder”, altrimenti non si spiegherebbe il successo della Linke. Quando si
lavora tutto il giorno e non si riesce a sbarcare il lunario,8 quando i salari sono tali da disincentivare l’attività e preferire
l’assistenza pubblica, quando i lavoratori stabili si sentono minacciati dall’avanzata implacabile dei precari, quando si crea insicurezza anche nei cosiddetti “garantiti”, quando il clima sul luogo di lavoro si fa più teso e il disagio, lo scontento cercano bersagli su cui sfogare la propria impotenza, l’elettorato diventa una
specie di pedana mobile sulla quale anche il politico più esperto
di equilibrismi rischia di cadere. Scrive un camionista salariato
al blog di Ard Tagesschau:
Mi ha preso un colpo quando sono andato a vedere quanto guadagno, per stare 14-15 ore al giorno dietro un volante mi becco 6 eu92
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ro lordi l’ora! In Olanda guadagnerei il doppio. Dovremmo una buona volta fermarci tutti quanti e allora si vedrebbe che cosa rappresentiamo noi per l’economia. In tre giorni le fabbriche dell’auto si
dovrebbero fermare, gli scaffali dei supermercati sarebbero vuoti e
i distributori di benzina a secco. Ma purtroppo quando si lancia un’idea del genere nemmeno il 2 per cento di noi è d’accordo. E quindi
continuerò a piegare la testa per 6 euro lordi l’ora e a chiedermi come diavolo faccio a pagare l’affitto. Non mi rimane come alternativa che farmi mantenere dallo stato. È questo che volete da noi camionisti?
Il meccanismo sul quale doveva reggersi il “modello Schröder”, ossia la separazione tra il mercato del lavoro primario e
quello a bassi salari, è saltato con la crisi. Il mercato inizialmente “parallelo” ha rotto gli argini e ormai invade l’intera domanda
occupazionale. L’intermediazione pubblica dei Jobcenters e quella privata delle Leiharbeitsfirmen in una fase di debolezza contrattuale e sociale dell’offerta di lavoro diventano rapidamente
l’unica “piazza” sulla quale si scambiano posti di lavoro, le agenzie interinali ne occupano il centro, con le bancarelle più eleganti
e ben fornite, le agenzie pubbliche stanno ai margini e finiscono
per diventare un bazar dei disperati. A questo punto dove sta il
mercato del lavoro primario?
Sullo stesso forum, Baba scrive:
Finché ci saranno società di lavoro interinale ci saranno bassi salari. Fino a due settimane fa ho lavorato per una di queste società nel
distretto di Böblingen, un lavoro di tre settimane, mi hanno licenziata perché mi sono rotta una mano. Ho chiesto di essere pagata
ma mi hanno detto che ero in prova! Divertente vero?
Le fa eco uno che si firma Minischlumpf:
Finché ci sarà in giro gente che dice “meglio guadagnare 4,30 euro
lordi che non lavorare” o ancora “meglio 3,75 lordi che stare sulle
spalle dello stato” in questo paese non cambierà NIENTE. Se sei disoccupato e prendi il sussidio di Alg 1 sei fregato perché scendi di
grado in percentuale, qualunque lavoro tu sia disposto ad accettare. Se prendi il sussidio di Alg 2 sei costretto ad accettare qualunque lavoro ti venga proposto e se ti rifiuti subisci delle sanzioni e ti
mettono addosso il marchio di “fannullone furbetto”. Del resto, la
nostra Agenzia federale del lavoro considera immorali i salari dai 3
euro in giù.9
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Gli risponde un certo Herr Jeh:
Sì, ma dipende dal singolo Jobcenter se prendere o meno provvedimenti in caso si trovino situazioni da 3 euro l’ora. L’importante per
loro è risparmiare. [...] Se qualcuno queste informazioni se le procura da solo e va a denunciare casi del genere al suo Jobcenter, si
sente messo sotto accusa perché “nell’accettare una proposta di lavoro si devono mettere in conto possibili declassamenti economici”.
Declassato a che cosa? A 2,43 euro lordi l’ora, per 42 ore settimanali
pagate 35 su tre turni? Ma c’è di peggio. Nel mio giro di conoscenze è ormai consolidata da un paio d’anni la pratica dei tirocini gratuiti come occupazione a tempo pieno.
Conclude un certo Links2 3 4:
Quello che dice lo studio Iaq non è nulla di nuovo. [...] Un sano ceto medio ormai non esiste quasi più. [...] Il dato di fondo è che il
dumping salariale è incoraggiato dallo stato. [...] Ci vuole un salario minimo fissato per legge.
Tutto vero e forse peggio, se si legge il documento che la
Confederazione dei sindacati (Deutscher Gewerkschaftsbund,
Dgb) aveva reso pubblico un anno prima, nell’agosto 2009. Un
bel documento, quattordici pagine senza fronzoli.10 Dopo aver
ricordato che la riforma del 2004 prevedeva salario uguale per
lavoratori fissi e interinali, ricorda la serie di passaggi che hanno portato negli anni successivi a poter aggirare questa norma.
In particolare la possibilità per le imprese di stringere accordi
specifici con le società di lavoro interinale, le quali hanno in carico i lavoratori che prestano alle aziende, li pagano, versano (o
dovrebbero versare) loro i contributi, pagano le tasse. La differenza tra quanto prendono queste società dal committente e
quanto si mette in tasca il lavoratore è in media di 2,5/2 a 1. Se
un lavoratore interinale viene dalla disoccupazione e ha ricevuto il sussidio, il suo salario per le prime sei settimane può essere diminuito del 9,5 per cento, con il risultato che, essendo
moltissimi occupati per periodi inferiori ai tre mesi, devono ricorrere di nuovo ai sussidi. Il lavoro interinale era stato concepito come una strada per transitare i disoccupati percettori di
sussidi a un’occupazione stabile, invece ha creato un’altra sacca di sussidiati (il 12,6 per cento di quelli impiegati a tempo pieno, nel 2009). Il lavoro interinale viene impiegato massicciamente nei settori manifatturieri caratterizzati da alti salari e
forte presenza sindacale, molto meno nel commercio e nella ristorazione. In questo modo il Dgb stima che il salario medio de94
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gli interinali sia in media inferiore del 29 per cento rispetto ai
lavoratori stabili, ma con punte anche del 50 per cento e oltre.
Nelle imprese manifatturiere più importanti, invece, gli interinali rimangono anche più di un anno ma sono pagati in base a
un contatore delle ore in cui vengono effettivamente occupati,
secondo accordi tra l’impresa e l’agenzia che presta il lavoratore, tali per cui quest’ultimo è al tempo stesso disponibile per
lungo periodo ma pagato a singhiozzo. Poco per volta le grandi imprese – dove l’incidenza del lavoro interinale tocca anche
punte del 50 per cento – hanno cominciato esse stesse a costituire società per il prestito di lavoro con l’autorizzazione a operare sul mercato dall’Agenzia federale del lavoro (Baa). Uno dei
punti più critici del sistema, secondo il Dgb, è l’insufficiente
controllo che questa agenzia esercita sulla correttezza dell’operato di queste società in generale, sull’effettivo versamento
dei contributi dei lavoratori per esempio. La grande maggioranza dei lavoratori interinali appartiene alla manodopera generica, solo il 3 per cento ha un’educazione superiore. Vengono inseriti in mansioni inferiori a quelle previste, non vengono
formati e non vengono assunti a tempo indeterminato. A tentare di arginare la situazione si sono mossi l’Ig Metall e il sindacato dei media Ver.di., costringendo alcune imprese dei rispettivi settori a un uso più corretto del lavoro interinale, anche mediante un controllo esercitato dal consiglio di fabbrica.
A conclusione, il Dgb chiede in sostanza due cose: un intervento legislativo forte che ponga rimedio a una situazione in cui
sono intrappolati più di un milione di lavoratori in settori strategici, come l’auto, e che la Baa eserciti controlli più severi sulla giungla delle società di lavoro interinali. Più che a un salario
minimo il Dgb pensa a un coinvolgimento obbligatorio del sindacato negli accordi tra chi affitta e chi presta lavoro.
Voci dall’interno
Nell’anno della crisi un folto gruppo di ricercatori tedeschi,
austriaci e svizzeri si è messo a intervistare lavoratori appartenenti a diversi settori, in maggioranza dipendenti, alcuni con funzioni manageriali, altri con ruoli di quadri intermedi. Ne è uscita una cinquantina di testimonianze autobiografiche di un certo
interesse.11 Pochi sono i casi di lavoratori di grandi aziende, la
maggior parte appartiene a imprese medie, pochi sono i giovani,
si tratta perlopiù di persone di mezza età o vicine alla pensione,
una buona percentuale vive in paesi di campagna, con ancora
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qualche radice nei lavori agricoli. Una delle sensazioni più condivise è quella dell’aumento dell’intensità del lavoro e di una maggiore pressione psicologica, tanto maggiore quanto più il lavoratore sale di grado. Per questo l’aspirazione che più frequentemente viene espressa è quella di poter presto andare in pensione, alcuni per avere finalmente riposo o finalmente “una vita”,
altri perché è diffusa l’oscura sensazione che un giorno o l’altro
il modello sociale europeo possa crollare e i diritti che quel modello garantiva possano essere cancellati. Non traspare né una situazione di aperta arroganza del management né una condizione salariale particolarmente insoddisfacente, anche se si denuncia spesso una stagnazione dei redditi a fronte di un aumento del
costo della vita. Il sentimento che la grande maggioranza esprime è “sono fortunato ad avere ancora un lavoro” e quindi il sistema dei desideri e delle aspirazioni subisce una sorta di amputazione, difficilmente attribuibile a un innato senso teutonico
dell’ordine. Le critiche maggiori all’organizzazione del lavoro vengono da settori come l’istruzione e la sanità. Le deontologie professionali dell’insegnante e del medico, la convinzione di esercitare una “missione” fondamentale per la società, quella di formare dei giovani e di salvare delle vite, sarebbero mortificate e
svalorizzate dalla svolta efficientistica, che queste istituzioni hanno subìto negli anni ottanta e che ha legittimato uno stile di gestione ossessionato dalla valutazione delle performance e dal risparmio dei costi. Mestieri dove competenze professionali e doti umane dovrebbero formare un tutt’uno e alimentarsi a vicenda vengono immiseriti da un’organizzazione per obiettivi mutuata da aziende commerciali o da fabbriche di viti e bulloni.
Sembra di cogliere una notevole differenza tra la narrazione fatta da un lavoratore dipendente e quella di un lavoratore autonomo. Mentre il lavoratore dipendente nell’amputazione delle aspirazioni perde anche la curiosità per il mondo che gli sta attorno
e ne rileva solo gli ostacoli e le trappole da cui guardarsi, per sua
necessità il lavoratore indipendente deve conoscere e capire tendenze e cambiamenti del mercato o, meglio, dei mercati. Insomma, vive a contatto con una maggiore complessità, dalla quale
non rifugge ma affronta a viso aperto perché è il solo modo con
cui riesce a campare. Per quanto limitato sia questo campione,
conferma tuttavia che la condizione del lavoratore in Germania
è una condizione di ansia ma non di aperta insoddisfazione. Persino le storie di persone che hanno vissuto sempre alla giornata
non sono improntate alla disperata rassegnazione. Il complesso
dispositivo di sussidi di sopravvivenza consente scelte di vita che
in Italia sarebbero impensabili.
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La forza del sistema tedesco, a differenza di molti altri paesi occidentali, risiede ancora nel settore industriale, nella manifattura organizzata secondo schemi fordisti di grande fabbrica. La flessibilità all’italiana, ottenuta mediante la miniaturizzazione dell’impresa, non è praticabile per la tipologia di prodotti a elevato contenuto tecnologico, che richiedono elevati investimenti di sviluppo, in cui la Germania è specializzata. Al tempo stesso, un sistema che poggia sulle esportazioni è tanto più
consolidato quanto più è in grado di disporre di un’organizzazione di servizi di logistica ad alto livello. Le risorse pubbliche
che la Germania ha destinato alla logistica hanno portato le società tedesche ai vertici mondiali. Un’esportazione accompagnata da servizi logistici di alto livello è un doppio vantaggio:
combina un doppio processo di valorizzazione, quello relativo
al prodotto esportato e quello relativo ai servizi di trasporto e
logistica prestati.
Permane la centralità del lavoro subordinato
Nel 2009 la popolazione attiva in Germania era di 43,4 milioni di persone, i salariati erano 35,9 milioni, gli autonomi (collaboratori familiari inclusi) 4,4 milioni, i disoccupati registrati
3,4 milioni ma solo 27,4 milioni erano gli occupati iscritti obbligatoriamente alla previdenza sociale. Il lavoro autonomo ha
quindi un’incidenza molto minore che in Italia, poco superiore
al 10 per cento della popolazione attiva. L’occupazione indipendente ha segnato in realtà una crescita continua dal 1995 al
2007, poi ha cominciato a diminuire, ma nella sua componente di “prima generazione”. Nel 2009, di questi 4,4 milioni di persone 1,2 milioni erano occupati nelle professioni intellettuali
tradizionali e “nuove”, 740.000 i freelance, gli altri 472.000 con
almeno un dipendente. A differenza del lavoro autonomo in generale, le professioni hanno continuato a crescere anche dopo
il 2007.12 Il gruppo più numeroso appartiene al settore dell’educazione/formazione, seguito da ingegneri, medici, avvocati e
consulenti legali, consulenti d’impresa (86.000), arti applicate
(75.000), giornalisti (67.000). Dal 2000 al 2009 l’incremento più
forte è stato quello dei “creativi”, che include i giornalisti (+61,4
per cento), seguito dagli addetti alla formazione, che include anche traduttori e interpreti (+57 per cento), e dai consulenti (+27,8
per cento), mentre stabili o in lieve crescita sono le professioni
della sanità e gli ingegneri. Gli informatici non hanno una loro
specifica classificazione. La crisi ha colpito duramente. Nel 2009
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su 728.318 cancellazioni d’impresa, 582.527 erano di ditte individuali, di cui 62.989 appartenenti alle professioni tecniche e alle libere professioni, le quali si trovavano in quanto settore al
terzo posto, dopo il commercio e l’edilizia, nelle difficoltà di pagamento e nelle procedure d’insolvenza. Studi approfonditi sull’occupazione indipendente non vengono più svolti dall’Ufficio
federale di statistica dal 2005, ma gli ultimi avevano messo in luce come l’attività indipendente tendesse a diventare sempre più
un’attività parziale, parallela magari a un’attività salariata, un
comportamento avvertibile più negli uomini che nelle donne.
Una delle ipotesi per spiegare questo fenomeno era l’introduzione
di misure d’incoraggiamento alla costituzione di imprese individuali contenute nel programma Hartz IV, quello che aveva lanciato il grottesco slogan: “Diventate una Io Spa” (Ich AG), e nelle sue successive modificazioni, in particolare quella del primo
agosto 2006, che istituiva il cosiddetto Gründungszuschuss, traducibile come “sussidio di start-up”.13
“Ehi, scoppiati, chi mi sa dire che cos’è un business plan?”
“Non sarai mica matto a lasciarti convincere a diventare autonomo!
Fatti mantenere dallo stato!”
“Una volta i soldi per fare un’impresa me li tiravano dietro, adesso
prova tu a convincere il funzionario dell’Agenzia del lavoro che la
tua idea funziona.”
“Ho dovuto riempire tanti di quei moduli e sapergli dire quanto avrei
fatturato nei prossimi tre mesi, nei prossimi sei, ma che ne so io?”
“Ci mettevano là su dei banchi di scuola, io che avevo perso il posto
come segretaria, l’operaio specializzato a cui avevano chiuso l’azienda,
il giovane con sussidio di disoccupazione che non aveva mai lavorato e ci dicevano: ‘Su, fatevi venire un’idea, la mettiamo giù per bene,
poi fate un bel dépliant e lo distribuite sabato mattina al mercato, i
clienti bisogna andarseli a cercare!’. Questi erano i corsi di formazione per fare impresa.”
Se non fosse tragica la situazione che emerge da tanti blog
e forum dove gli aspiranti autonomi si scambiano sfoghi e talvolta, anzi spesso, trovano il consiglio giusto (“lascia stare, ci
ho già provato io, non funziona”, oppure ”c’è una rete interessante, mettiti in contatto” oppure “se ti va diventiamo soci, con
gli uffici e le burocrazie ci so fare” oppure “lo sai che esiste il
regime minimo, non devi pagare l’Iva”) ci sarebbe veramente
da divertirsi a immaginare un’umanità che vagola da un centro
di orientamento all’altro per capire come diavolo si fa un business plan.14 Il sussidio d’incoraggiamento è erogato in due fasi
e ne hanno diritto comunque persone che ricevono un sussidio
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di disoccupazione o persone coinvolte in programmi di politiche attive del lavoro. Per la prima fase, che dura nove mesi, sono 300 euro aggiuntivi al sussidio, poi, se si dimostra che l’attività
iniziata ha una sua consistenza economica, altri 300 per sei mesi più i sussidi. Esistono varie istituzioni che vagliano il progetto e in un certo senso ne certificano la validità, ma in realtà
a contare nelle decisioni è il funzionario dell’Agenzia del lavoro che segue il caso individuale. Sicché la tensione imprenditoriale si scarica tutta nei problemi relazionali con la burocrazia. Non sono così fallimentari invece altre iniziative, in particolare quelle, sostenute anche da fondi europei, rivolte solo alle donne.15
Le esportazioni tedesche hanno continuato a volare per tutta la prima metà del 2010, con valori superiori agli 80 miliardi
al mese. Ad agosto il numero di percettori di sussidi del sistema
Hartz IV era poco più di 4,96 milioni di persone, di cui 324.000
lavoravano a tempo pieno. Se si aggiungono più di 1,83 milioni
di figli delle famiglie disagiate, si arriva alla cifra di 6,79 milioni di sussidi erogati a sostegno del reddito. Un mese prima, a luglio, il governo aveva aumentato di 5 euro i sussidi base mensili, portandoli da 359 a 364 euro.
“Wow, vi potrete permettere tre palle di gelato a testa alle Arcade di
Potsdamer Platz, una volta al mese,” ironizzava il sito Querschüsse.
“Questo aumento ci costa 360 milioni di euro l’anno,” tuonava “Die
Welt”, “non è la crisi finanziaria la nostra rovina ma lo stato sociale!”
Dopo il periodo in cui la spinta verso il lavoro indipendente
era scaturita dalle culture “alternative”, dopo una breve stagione nella quale lo spirito di autoimprenditorialità sembrava riprendersi nelle regioni della Germania dell’Est, uscite da quarant’anni di sistema comunista, il mercato si è stabilizzato su un
modello di lavoro subordinato che poggia su un doppio pilastro:
la difesa della grande fabbrica e la difesa di un sistema assistenziale universale. Finché esiste ancora l’impresa manifatturiera specializzata in tecnologie medio-alte, la tendenza a esternalizzare le professionalità tecniche è molto contenuta oppure
porta anch’essa alla creazione di società di servizi che assumono la forma di impresa medio-grande. Da questo punto di vista
il caso della logistica è esemplare. Viene quindi a essere limitato il bacino di forza lavoro indipendente del settore “servizi alle
imprese”, che rappresenta il segmento più “ricco” di lavoro autonomo. Il sistema di diritti universali all’assistenza è pensato
per impedire l’uscita della forza lavoro dall’occupazione dipen99
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dente, per non incentivare in maniera sostanziale i disoccupati
o i sotto-occupati a scegliere una vita da freelance (dovrebbero
tentare la fortuna nel settore “povero” del lavoro autonomo). Ciononostante gli autonomi “di seconda generazione”, come si è visto, sono cresciuti fortemente negli ultimi anni in cifra assoluta, favoriti da un sistema d’integrazione del reddito accessibile
anche a loro. Infine, il ruolo svolto dalle società di lavoro interinale e la normativa che ne regola il funzionamento contribuiscono a consolidare la forma salariata di lavoro.
Che cosa dimostra dunque il caso tedesco e perché si è ritenuto opportuno riflettere su di esso? Dimostra che l’assetto economico-produttivo di un paese e il grado di copertura dell’assistenza sociale possono incidere fortemente sul tipo di occupazione prevalente. Il fenomeno del lavoro indipendente troppo
spesso viene correlato a fattori puramente soggettivi, alla diffusione o meno di una cultura dell’iniziativa personale. Certamente,
come si è visto nei capitoli precedenti, la disposizione d’animo
conta in un certo tipo di scelte ma essa stessa è fortemente influenzata dall’ambiente. Le scelte che la Germania ha compiuto
dopo l’unificazione hanno offerto ai cittadini prima di tutto
l’ombrello del lavoro salariato, inteso come forma di cittadinanza meno esposta ai rischi. Quindici anni dopo, consolidata la riunificazione, ricostruita l’infrastruttura di base nelle regioni dell’Est, è iniziato il sistematico smantellamento di alcune sicurezze del lavoro salariato, fino a giungere alla situazione attuale, dove un quinto della popolazione non lo considera più un rifugio
sicuro ma l’anticamera della povertà. Alla fine del 2010, però, la
campagna aperta dall’Istituto di Duisburg contro i Niedriglöhne
ha dato i suoi frutti: la Corte di giustizia del lavoro (Bundesarbeitsgericht) ha dichiarato nulli gli accordi sottoscritti tra i sindacati cristiani e le società di lavoro interinale, il trattamento degli interinali deve essere identico a quello dei lavoratori a tempo indeterminato, salvo diverse disposizioni dei contratti nazionali. Il sindacato dei servizi Vereinte Dienstleistungsgewerkschaft
(sigla Ver.di.) ha preannunciato due campagne di massa per il
2011: fissazione per legge di salari minimi di settore e non solo
paga eguale per gli interinali, e, come in Francia, una specie di
“premio insicurezza” pari al 10 per cento.16
Mental recession
Quando apparve, nel 2001, in un’America sotto shock per gli
attentati dell’11 settembre, il libro di Jill Andresky Fraser, White100
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Collar Sweatshop, non ci fecero caso in molti. L’incubo del terrorismo serviva a distrarre l’opinione pubblica dai problemi dei
white collars all’interno delle grandi corporation verso la fine degli anni novanta.17 Fraser non era una sconosciuta, era una giornalista finanziaria nota ai grandi media e ai manager delle multinazionali, ambienti con i quali aveva dunque una certa dimestichezza. Proprio per questo s’era accorta che gli impiegati di
questi colossi, come Intel, Ibm, Citigroup, e in particolare i quadri intermedi, i cosiddetti middle managers, facevano una vita da
cani, non tanto e non solo per i carichi di lavoro e la tensione cui
erano sottoposti da una competizione con i colleghi creata sistematicamente, non tanto e non solo per gli stipendi stagnanti,
ma soprattutto per le umiliazioni cui venivano continuamente
sottoposti da uno stile aziendale di gestione del personale che
era esattamente l’opposto di quel che si legge negli scritti dei guru del management. Il carattere scioccante del libro di Fraser
non stava nei numeri quanto nelle testimonianze dirette che aveva raccolto in cinque anni d’interviste e di navigazione per blog
e forum di tutti i tipi. Ne usciva un quadro desolante di umiliazioni subite passivamente, di ambienti di lavoro volutamente disagiati, scomodi perfino nell’arredamento, di arroganza senza limiti di amministratori delegati, come Andy Grove di Intel, autore di un libro dal titolo Only the Paranoid Survive. Di ritmi di
lavoro che fanno dire a una donna con responsabilità di quadro
intermedio:
Aspetto l’ora di treno che mi riporta a casa per rispondere ad alcune telefonate dei clienti, grazie a Dio c’è un lungo tunnel dove non
c’è campo, là sotto ho qualche minuto di relax.
Fraser ebbe qualche mese di notorietà ma il libro non fu accolto molto bene, troppo triste vedersi riproposta la propria miseria e troppo deboli, come avevano notato alcuni recensori, le
proposte per uscire da una situazione ormai compromessa. Malgrado l’autrice alla fine del libro raccontasse di azioni riuscite di
autodifesa mediante campagne via Internet o tramite ricorsi ai
tribunali, anche lei sembrava scettica sull’ipotesi che i white collars americani trovassero forme di auto-organizzazione sindacale, meno che mai di adesione a sindacati già esistenti. Terminato il libro, Fraser continuava la sua battaglia aprendo il sito
www.EconoWhiner.com, Surviving and Thriving in Tough Times,18
finché fu costretta a chiuderlo nel novembre 2009, per difficoltà
dovute alla nuova crisi ed esaurimento di energie fisiche. Scrive
nella pagina di commiato dai suoi visitatori:
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In effetti era convincimento generale che il progressivo indebolimento dell’economia ci stava uccidendo, quando ormai avevamo
già quasi esaurito le energie psichiche e i più elementari meccanismi di sopravvivenza, in una fase storica nella quale la stessa nozione di competenza professionale richiesta stava diventando anacronistica. Ci siamo chiesti allora dove eravamo e ci siamo accorti
che non eravamo soli. Perciò abbiamo voluto creare una comunità
online, nella quale le persone potessero trovare un legame tra di loro, condividere la loro rabbia e la loro confusione, scambiandosi
idee e supporto emotivo. Voi avete risposto, non eravamo soli.19
Per quanto parziale, questa testimonianza ci dice come fosse incompleta la narrazione sullo scoppio della bolla informatica del 2001-2002, quando la nostra attenzione venne concentrata esclusivamente sui fallimenti delle giovani aziende dot.com,
sulle migliaia di specialisti del computer messi sul lastrico, dimenticando che negli anni novanta in America si era consumata una tragedia maggiore, quella dell’umiliazione dei white collars delle grandi corporation o almeno di una gran parte di essi
o, per dirla con l’azzeccato titolo della Fraser, del deterioramento del lavoro (dipendente e di conoscenza, va sottolineato). Deterioramento morale, civile, umano, una vera e propria mental
recession, per riprendere l’esergo del sito della Fraser, che citava
l’espressione di un senatore americano.
Da questa situazione nasce in parte l’attrattiva per il lavoro
indipendente. La più nota webzine dedicata agli independent professionals (IP) non si fa sfuggire l’occasione e recensisce il libro
della Fraser con queste battute:
Vi stupite come mai i vostri amici schiavi salariati (wage-slaves) ce
la facciano a reggere l’ondata di fusioni, di riduzione del personale,
di ritmi di lavoro pazzeschi, di abolizione dei benefit, di lingua bie triforcuta delle corporation? Bene, non vi meravigliate più, Jill Andresky Fraser ha passato cinque anni a documentare il fatto che “vivere nei cubicoli degli uffici lascia molto a desiderare”, ma molto!
[...] Certo, se voi siete professionisti indipendenti, lo status del professionista salariato non vi deve preoccupare assai (curioso, la Fraser considera il lavoro autonomo niente di più che un’alternativa ansiogena e radicalmente instabile al lavoro dipendente). Questo libro
vi ricorda quanto siete stati fortunati a lasciarvi alle spalle il mestiere di white collar! E per quelli che ancora stanno lì indecisi sulla soglia dell’impiego in un’azienda può essere una spinta a scegliere definitivamente la libertà della professione.20
Un’altra testimonianza che portò il grande pubblico a conoscenza delle condizioni di certo lavoro occasionale dequalificato
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fu fornita nell’anno dell’11 settembre dall’uscita del libro di Barbara Ehrenreich, Nickel and Dimed. On (not) Getting by in America.21 La giornalista aveva deciso di camuffarsi e di provare lei
stessa a essere assunta per mansioni di cameriera o donna delle
pulizie, con paghe orarie sui 6 dollari l’ora, spostandosi da un lavoro all’altro e da uno stato all’altro. L’esperimento era cominciato nel 1998, subito dopo la riforma dell’assistenza che aveva
costretto milioni di americani, soprattutto madri sole con figli, a
non poter più optare tra un sussidio e un salario. Aiutata anche
dalle sue “virtù istrioniche”, come lei stessa le chiama, l’autrice
riesce a offrire una testimonianza vivissima, amara e ironica, del
mondo dei lavori servili, da quello di commessa in un supermercato a cameriera di un ristorante a donna delle pulizie per la
catena The Maids Home Cleaning Company. Il testo si chiude invocando la rivolta:
Come mai nessuno si prende la briga di mettere insieme tutte queste notizie per denunciare che siamo in stato di emergenza? [...] Quando le madri sole e povere potevano scegliere di non lavorare e di usare invece i servizi sociali, la borghesia tendeva a giudicarle con una
certa severità, se non con disprezzo. [...] Ma adesso che lo stato ha
cancellato gran parte delle “elemosine” come giudicarle? [...] quando una donna per esempio mangia poco e male in modo che noi possiamo mangiare meglio e a meno, quella donna ha compiuto un grande sacrificio per noi, ci ha fatto dono di una parte delle sue capacità,
della sua salute e della sua vita. I “poveri che lavorano” (working
poors), come vengono benevolmente definiti, sono in realtà i grandi
benefattori della nostra società. [...] Un giorno (non saprei proprio
prevedere quando) i poveri che lavorano si stuferanno di ricevere così poco in cambio e pretenderanno di essere pagati per ciò che valgono. Quel giorno, la rabbia esploderà e assisteremo a scioperi e distruzioni. Ma non sarà la fine del mondo e, dopo, staremo meglio tutti quanti.22
Ma più significativo del clima di disincanto che regna negli
Stati Uniti alla fine degli anni novanta è forse il libro di Jeff
Schmidt, The Disciplined Minds sui metodi d’insegnamento nelle università, somiglianti più a un lavaggio del cervello che a una
trasmissione del sapere.23 Il disciplinamento subìto all’università viene trasferito sul luogo di lavoro e contribuisce ad accrescere il senso della gerarchia, l’accettazione di umiliazioni, il
conformismo, la totale mancanza di solidarietà con i colleghi. In
realtà, il passaggio è più complesso. La qualità dell’insegnamento
dipende dal modello d’affari che si è affermato nell’universo dell’istruzione superiore americana (rapidamente diffusosi altrove),
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un modello trainato dalle politiche di marketing, che sono riuscite a rendere credibile presso gli utenti una nuova immagine
dell’investimento in formazione, un’immagine strettamente legata a percorsi di carriera che avrebbero potuto permettere agevolmente il pagamento del debito contratto con le banche per poter
frequentare l’università. Le drammatiche testimonianze che oggi si raccolgono su Internet di persone finite nella trappola dell’overeducation ci suggeriscono l’impressione che l’approccio alla formazione superiore si relazioni nell’inconscio sempre meno con una fase della vita dedicata alla trasformazione della mente e sempre più con un periodo di attesa in anticamera del primo colloquio d’assunzione.24 Quindi il rapporto con la qualità
dell’insegnamento non è critico-problematico, è il rapporto con
un marchio, con un logo. Sembra diffusa una cieca fiducia nelle promesse di carriera dei corsi, dei master e di tutte quelle diavolerie che il sistema universitario ha inventato per fare cassa.
Il sistema della formazione è un grande supermercato, la varietà
negli scaffali aumenta e con essa il disorientamento dell’utente,
sembra non esserci una seppur vaga idea che i rapporti di lavoro sono rapporti di potere, tra individuo e organizzazioni, e che
l’unico modo di affrontarli è tessere relazioni. Concluso un percorso di studi, non si trova nulla, malgrado le migliaia di CV spediti nell’etere, si riprende un nuovo percorso, una nuova laurea,
un nuovo master, ancora nulla e a trent’anni rimane solo il debito contratto ancora da pagare. Il lavoro indipendente rimane
meno intrappolato nell’overeducation, evita alle persone di convincersi che è una loro caratteristica psicosomatica. La formazione universitaria negli Stati Uniti è semplicemente un canale
inesauribile della debt economy, e probabilmente il partito che
volesse proporre una moratoria degli student loans avrebbe immediato successo. Il modello d’affari dell’università americana
segue la stessa logica che ha governato lo sviluppo dell’industria
informatica e che ha portato alla formazione e allo scoppio della bolla dot.com. I criteri per valutare un’azienda prendevano come punto di riferimento un numero di possibili utenti del messaggio o del servizio che l’azienda offriva su Internet, la cui consistenza e velocità di espansione erano del tutto immaginari. Si
trattava di velocità “virale”. Che cosa questa consistenza e velocità di espansione del parco clienti producesse in termini di margine o se il margine cambiasse in relazione al numero di clienti
oppure no, erano domande che l’investitore non si poneva in questa seconda grande corsa all’oro della California. Internet ha introdotto nella razionalità dell’investitore una serie di elementi
puramente immaginari che hanno trovato il loro corrispettivo
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nei derivati; la dimensione del virtuale ha soppiantato quella del
reale. Il venture capitalist che ha investito nelle aziende di Internet era uguale a quello che investiva nei derivati. Quando
l’indice Nasdaq comincia a precipitare dopo aver raggiunto e superato i 5000 punti nel marzo 2000, risale brevemente, poi imbocca la strada che lo porterà nel 2002 ai suoi minimi storici, le
speranze affidate a quella che era stata ormai accreditata come
la professione del futuro e che aveva spinto una massa consistente di persone a scegliere computer science come corso di laurea, vanno in frantumi. Sia nel lavoro dipendente sia in quello
di freelance, o meglio, nei molti ibridi che le due forme di occupazione avevano sperimentato nel modello organizzativo delle
dot.com.
Da questo punto di vista il periodo che precede la bolla IT segna un capitolo decisivo nella storia del lavoro. La forma di lavoro individuale che si costituisce allora è la prima forma “nuova” che si afferma nella storia dell’industrialismo dopo quella
dell’operaio alla catena. Bene o male, fino a quel momento l’impiegato era rimasto l’impiegato, l’ambiente di lavoro di un colletto
bianco, il suo stile di vita quotidiano non era cambiato sostanzialmente dalla fine dell’Ottocento. Le professioni tecniche avevano subìto un profondo cambiamento, lasciando immutata però
la netta separazione tra lavoratore indipendente e salariato.
L’informatico, indipendente o salariato, sembra essere qualcosa
di diverso, un no-collar, secondo la felice definizione di Andrew
Ross. È un momento davvero di svolta della civiltà contemporanea, gli Stati Uniti sono il crocevia di questo che appare come
un terremoto con diversi epicentri e onde che si scontrano in uno
spazio abbastanza circoscritto. In quegli anni, 2001-2002, gli Stati Uniti perdono, forse per sempre, la loro posizione egemonica:
è il momento in cui si è persa la percezione del valore del capitale – dunque si perde anche il senso del capitale umano. Se mettiamo insieme il progressivo degrado del clima interno alle aziende, che porta a una svalutazione del lavoro subordinato in quanto tale, l’improvvisa disoccupazione di massa degli informatici e
la rottura delle barriere inferiori delle retribuzioni, ci troviamo
di fronte a una situazione che ci appare, dal punto di vista del
lavoro, più sconvolgente di quella prodotta dalla crisi dell’ottobre 2008, offuscata soltanto, negli anni successivi, dalla grande
cortina fumogena del terrorismo e delle guerre. Tra l’altro è proprio in questo periodo di mental recession, come giustamente l’ha
chiamata la Fraser, che si costituisce quella che sarà la sacca degli “ultrastudiati”. Ma è anche il periodo in cui si costituiscono
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le iniziative di coalizione più innovative, la Freelancers Union è
una di queste.
L’ultima grande inchiesta giornalistica sulle condizioni di lavoro negli Stati Uniti è uscita nel periodo che segue la crisi finanziaria del 2008, con un’opinione pubblica scossa dalle informazioni riguardanti i redditi favolosi dei signori di Wall Street,
cioè dall’aspetto meno drammatico della crisi.25 Sul muso di questa opinione pubblica filistea, l’autore, Steven Greenhouse, sbatte una quantità impressionante di dati e di testimonianze sulla
vita dei lavoratori in America, soprattutto quelli con le mansioni più servili e degradate, immigrati per lo più, spesso illegali, ma
anche di certi gruppi di white collars. Greenhouse è un labor reporter, uno degli ultimi rimasti. Il tema lavoro si è progressivamente eclissato dai palinsesti televisivi e dalle pagine dei grandi
quotidiani, anzi, è stato progressivamente espulso. Docenti universitari e ricercatori possono continuare a sfornare le loro ricerche accurate, psicologi, giuristi, cineasti, romanzieri possono
andare a fondo nei recessi peggiori della condizione lavorativa,
l’importante è che il tema scompaia dall’agenda politica e mediatica. Il modello di Greenhouse è Nickel and Dimed di Barbara Ehrenreich, in sostanza egli non fa che aggiornare i numeri
prodotti dalle inchieste di fine anni novanta. Più che le cifre in
sé, a contare è la dinamica. L’America del secondo millennio ha
assorbito una quantità notevole di forza lavoro, in particolare di
immigrati e di donne; i salari medi al netto dell’inflazione sono
di poco superiori a quelli del 1979, i salari medi maschili nettamente inferiori; è aumentata la componente di salari da fame,
quindi si è ingrossata la fascia di popolazione sotto la soglia di
povertà. L’assistenza sanitaria, per chi ne gode, è stata taglieggiata e i fondi pensione (si pensi in particolare a quelli delle compagnie aeree) spesso brutalmente tagliati, straordinari non pagati e ore lavorate non riconosciute, il tempo medio di lavoro è
il più lungo tra gli altri paesi industrializzati:
Ad aggravare il modo in cui si spreme la gente è la diffusione di quel
fenomeno chiamato job creep che consiste nella progressiva invasione del tempo libero. Portiamo a termine dei report sul computer di
casa lavorando fino alle undici di sera, leggiamo la posta elettronica
dell’ufficio nei weekend, usiamo i nostri cellulari e Blackberry per rispondere alle richieste del capo mentre siamo in vacanza.26
Sono dinamiche cui abbiamo fatto l’abitudine, si rimane scossi di più dal racconto delle esperienze vissute. Ma nel testo di
Greenhouse c’è anche un riferimento al movimento sindacale dopo la rottura nell’Afl Cio con l’uscita della Service Employee
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International Union (Seiu), dei Teamsters, degli United Food and
Commercial Workers, dei lavoratori degli hotel e la costituzione,
dopo questa scelta, della nuova confederazione Change to Win.
Figura carismatica e presidente della Seiu per quattordici anni è
stato Andy Stern, che è riuscito a portare il suo sindacato ad avere il maggior numero di iscritti oggi negli Stati Uniti, 2,2 milioni di persone, il 50 per cento delle quali provenienti dal settore
della sanità. È stato una figura chiave per l’elezione di Obama e
per la sua riforma sanitaria, fa parte oggi della Commissione per
la riforma della fiscalità e nell’aprile 2010 ha lasciato la presidenza del sindacato a una donna, Mary Kay Henry, un ricambio
che a qualcuno puzzava di bruciato. Alle elezioni di novembre
del 2010 la Seiu è riuscita a far eleggere ventisei dei suoi candidati, per la maggior parte indipendenti e democratici, ma anche
un gruppo di repubblicani.27 La Seiu è una novità nel panorama
sindacale americano ma al tempo stesso sta nel segno della continuità, è patriottica, parla ancora di “sogno americano”, addotta tattiche collaudate (per esempio quella di prendere di mira
un’azienda simbolo dello sfruttamento e di martellare per anni
su quella), si appoggia ai democratici. La novità sta nell’aver organizzato massicciamente i lavoratori immigrati, come dice
Greenhouse, “che non sapevano nemmeno una parola d’inglese”.
Il 10 per cento degli iscritti è ispanico, il gruppo etnico che cresce più rapidamente. La Seiu è anche il secondo sindacato nel
settore del pubblico impiego. La sua cultura ancora tradizionale considera freelance, lavoratori temporanei, occasionali, precari, come un insieme unico. Non può essere definito un sindacato di base, anzi, proprio Greenhouse ne critica la gestione verticistica. Episodi di corruzione sono stati accertati nella sua organizzazione e nel settembre 2010 si è diffusa la notizia che Stern
era indagato dall’Fbi. Contro di lui, frequentatore abituale della
Casa Bianca, si sono scatenati certi blogger che lo definiscono il
nuovo Jimmy Hoffa. Ma accuse di comportamenti da racket, di
repressione violenta degli oppositori interni, di impiego di fondi
del sindacato per investire nella proprietà di cliniche e case di riposo, di organizzare vere e proprie spedizioni per interrompere
assemblee di sindacati concorrenti (come la Nurses Union della
California) erano state rivolte a Stern già nel 2008 da parte di personaggi di rilievo come Ralph Nader.28 Insomma, sembra che nel
sindacalismo del lavoro dipendente la storia sia destinata a ripetersi e che certi vizi facciano parte del suo Dna. Per capire cosa
sta succedendo alla base, è forse meglio seguire la rete che sta attorno a riviste come “Labor Notes”, che continuano la tradizione del marxismo operaista anni settanta. Alla conferenza tenuta
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nell’aprile 2010 le testimonianze su episodi di sciopero e resistenza nel settore degli alberghi e della ristorazione sembrano
rendere l’immagine di un’America diversa, gli eredi degli anarcosindacalisti dell’International Workers of the World (Iww) oggi mettono sotto pressione la catena di caffè Starbucks. Nel campo dell’editoria e del giornalismo, freelance e lavoratori occasionali sostituiscono i giornalisti professionisti, i labor reporters sembrerebbero una categoria estinta. “Bisogna piantar casini” sembra lo slogan della rivista che si definisce “organo dei troublemakers”. Anche in questo caso, sono reti informali che si riproducono nel segno della continuità con gli anni settanta, senza alcun salto di qualità nel pensiero, come se il paradigma del lavoro salariato avesse esercitato un blocco mentale anche nelle visioni conflittuali e antagoniste del capitalismo.
Tra i libri che contano, che vanno più a fondo dei reportage
giornalistici, e s’inseriscono in quello che può essere considerato il più interessante percorso di esplorazione dei cambiamenti
nel modo di lavorare e nel modo di pensare di chi lavora, Nice
Work If You Can Get It di Andrew Ross è certamente il più convincente.29 È un libro destinato a diventare un classico sul tema
del precariato; riprende tematiche proprie del movimento italiano per un reddito di cittadinanza ed è ancora una volta un testo
preparato da una precedente analisi impietosa dell’ambiente universitario americano, scritta da Ross assieme ai suoi studenti della Nyu, dopo un loro sciopero. L’università uccide se stessa, consegnandosi nelle mani di finanziatori e di cacciatori di finanziamenti, si preoccupa solo della sua conservazione, non del servizio che dovrebbe offrire agli studenti e alla società.30
Il paese tranquillo
A metà settembre 2010, sul sito dell’Istat si poteva leggere una
sintesi della prima indagine condotta dall’Istituto nazionale sul
disagio nei luoghi di lavoro.31 L’argomento ha acquisito sempre
maggiore rilevanza da quando, vent’anni fa, lo psicologo svedese Heinz Leymann diede un nome a un fenomeno che probabilmente è sempre esistito ma ha assunto, dalla fine degli anni settanta, con l’inizio della crisi del fordismo, dimensioni stimate attorno al 2-3 per cento della forza lavoro dei paesi sviluppati, quindi milioni di persone. Il fenomeno, conosciuto come mobbing,
ha potuto essere individuato quando alcuni psicologi hanno scoperto che persone considerate affette da forti disturbi psichici,
talvolta classificate paranoiche e costrette a sottoporsi a tratta108
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menti psichiatrici, si trovavano in quello stato perché avevano
subìto vessazioni, umiliazioni e maltrattamenti morali sul luogo
di lavoro da parte di colleghi o loro superiori. Dai primi saggi di
Leymann a oggi la letteratura sull’argomento è diventata imponente, merita però ricordare qualche frase dei suoi scritti di allora, così chiari e pieni di passione:
Il terrore psicologico o mobbing nella vita lavorativa significa comunicazione ostile e immorale diretta in maniera sistematica da una
o più persone in genere contro un individuo singolo. Ci sono casi in
cui il mobbing è reciproco, finché uno dei due cede e diventa succube. Queste azioni vengono compiute con grande frequenza (in genere ogni giorno) e per un periodo di tempo continuato (almeno per sei
mesi), ed è proprio la loro frequenza e durata a produrre uno stato
di miseria psichica, psicosomatica e sociale. [...] Il lavoro di ricerca
che abbiamo svolto finora si è concentrato sulla concettualizzazione
del fenomeno e sulla sua localizzazione all’interno della società, compito non facile perché finora era rimasto ben occultato.32
Uno degli aspetti della ricerca di Leymann e del suo gruppo
aveva riguardato l’esame retrospettivo di alcuni casi di suicidio.
L’esempio cui faceva riferimento nell’articolo citato invece era
quello di Leif, un operaio danese assunto presso un’azienda siderurgica svedese, che era stato fatto oggetto di scherno continuato da parte dei colleghi per la sua pronuncia con inflessioni danesi, si era trovato progressivamente isolato, affidato a mansioni
inferiori e infine costretto a licenziarsi in condizioni psichiche tali da non essere più in grado di riprendere un altro lavoro.
Leymann è morto dopo aver fondato un Centro di riferimento mondiale per questo tipo di fenomeno sociale, un portale dove convergono i risultati delle ricerche, gli episodi di cronaca, le
iniziative legislative relative al mobbing. Chi avesse visitato il sito al momento in cui venivano resi pubblici i risultati dell’indagine Istat, vi avrebbe trovato un elenco di trentadue casi di mobbing, ciascuno documentato, tutti provenienti dall’ambiente universitario.33 Al termine mobbing gli studiosi in seguito hanno preferito l’espressione adult bullying at workplace, considerando
l’estrema varietà di forme in cui il fenomeno si manifesta: per
esempio non con provocazioni aperte ma con il silenzio, non rispondendo alle domande della vittima, ignorandola come se non
esistesse fisicamente, o simili. Da questa fenomenologia più articolata, che richiede metodi d’indagine particolari e interventi
specifici, di natura sia giuridica sia terapeutica, è nato il Workplace Bullying Institute (www. workplacebullying.org). La rete di
istituzioni che si occupano di questi temi e che cercano di argi109
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nare la frana della qualità del lavoro è impressionante, a livello
europeo, a cominciare dall’Agenzia europea per la sicurezza e la
salute sul lavoro,34 che, tra l’altro, conduce periodicamente un’indagine presso le aziende al fine di monitorare sia la situazione di
fatto sia le politiche di controllo.35 Nel nostro paese, dove esiste
una tradizione di medicina del lavoro che risale agli anni settanta, radicata nelle lotte per la salute degli operai della chimica e di
altri settori, queste istituzioni sono forse più articolate che altrove. Sul sito dell’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (Ispesl) si legge:
Il mobbing esplode in Italia alla fine degli anni novanta. In realtà
segnali di attenzione c’erano stati anche prima: la ricerca che l’Ispesl
aveva condotto con la Clinica del lavoro di Milano, gli studi di Harald
Ege, fino ad una proposta di legge, un paio di articoli stringati, che
prevedeva per il mobber sanzioni penali. Ma tutto era passato sotto silenzio, finché i media non si sono appropriati del fenomeno e il
mobbing è diventato patrimonio della gente. A quel punto si sono
attivati tutti gli stakeholders, come mai prima di allora si era visto
nei confronti di una sindrome organizzativa. Sono sorti i primi centri d’ascolto e le associazioni tra mobbizzati; si sono attivati i sindacati e le istituzioni. Le aziende sanitarie e le università, sul modello
della Clinica del lavoro Luigi Devoto, hanno costituito centri clinici
antimobbing, piccole isole sparse lungo il territorio nazionale.
Eppure tutte queste iniziative servono solo a tamponare una
situazione che tende ad aggravarsi, soprattutto nelle fasce di età
dai trentacinque ai quarantaquattro anni, quelle che denunciano i maggiori danni psichici a causa soprattutto dell’eccessivo
carico di lavoro, in particolare nella categoria dei colletti bianchi.36 Il problema dunque non è il mobbing in quanto tale, fenomeno che si manifesta come aggressione alla persona singola, ma è il sistema di gestione del personale in generale, in particolare è la condizione frustrante di migliaia di giovani “ultrastudiati” che accettano mansioni inadeguate, e per di più per periodi brevi. Yves Clot, psicologo al Conservatoire des art et métiers di Parigi, dichiara:
Non sono i lavoratori a essere troppo “inadeguati”, fragili, da “curare”. È il lavoro e il modo in cui è organizzato che vanno curati. Un
modo gretto, meschino che spinge un numero sempre crescente di
colletti bianchi a sopportare un lavoro ni fait ni à faire. Molta capacità, molta voglia d’impegnarsi viene dispersa, le risorse psicologiche e sociali dei salariati vengono buttate via, le loro energie perdute all’interno di un’organizzazione che non sa cosa farsene.37
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Questi spunti ci consentono una riflessione. Il mobbing è un
fenomeno delle società avanzate, esisterà certamente anche là
dove c’è sfruttamento minorile e condizioni di vita bestiali, ma
è tipico di società dove esistono salari elevati, una legislazione
sociale avanzata, un movimento sindacale riconosciuto, organizzazioni d’impresa con forti investimenti in risorse umane, società democratiche dove c’è libertà di stampa e di sciopero. Eppure ha potuto crescere sotto traccia, proliferare nel silenzio, pur
essendo un fenomeno palese, visibile, pubblico. È un fenomeno
proprio del lavoro dipendente, salariato, cioè del lavoro che possiede in Occidente le maggiori garanzie e la maggiore protezione sociale. Non è solo la malvagità dei singoli a schiacciare le vittime, ma la sanzione dell’organizzazione; nei casi in cui il lavoratore oggetto di vessazioni ha cercato di portare in tribunale
l’azienda, mai la controparte ha ammesso di avere una qualche
responsabilità, attribuendo sempre la colpa alla vittima, che ne
trae un maggiore e ancora più acuto senso di frustrazione e
d’ingiustizia. L’organizzazione aziendale, che dovrebbe essere un
sistema protettivo, diventa doppiamente oppressiva e distruttrice, la giustizia resa da un tribunale non riuscirà mai a ripagare
la vittima, è l’azienda che rappresenta per lui la collettività, non
il tribunale. Questo fenomeno, pur palese, è stato ignorato per
anni, well hidden come dice Leymann. Ma quante cose del lavoro oggi restano ignorate, quanti silenzi si protraggono sulla vita
lavorativa quotidiana? Da quando la paura e la mancanza di solidarietà hanno preso piede nelle aziende e l’individualismo è diventato costume, quale solco ha cominciato ad aprirsi tra un lavoro decente e il lavoro reale? Il mobbing sembra crescere quanto più elevato è l’ambiente di lavoro, quanto più intenso è il contenuto di lavoro intellettuale erogato, quanto migliore è la reputazione dell’istituzione. L’accenno alla problematica del mobbing
ci serve solo per dire che la reputazione del lavoro dipendente,
salariato, all’interno di una grande organizzazione aziendale, è
fortemente diminuita con il postfordismo e ciò si è tradotto in
maggiore attrattiva per il lavoro autonomo, oltre che in maggiore tolleranza per il lavoro precario. Ma la condizione lavorativa
oggi ha ancora una sua parte buia, che nasconde un lento degrado, tanto più acuto quanto maggiori sono l’omertà e la paura, la distanza del sindacato dalla realtà e la diffidenza del lavoratore per il sindacato. Il dato più preoccupante dell’indagine
svolta dall’Istat non è tanto l’incidenza percentuale dei casi di
vessazioni o demansionamenti dichiarati dal campione di lavoratori intervistati sull’universo del lavoro salariato (7,2 per cento ma con un’incidenza molto inferiore di danni di carattere psi111
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chico), quanto il fatto che l’88 per cento di coloro che sono stati
oggetto di vessazioni non hanno ritenuto di dover ricorrere al
sindacato. Come se, mettendo di mezzo l’organizzazione sindacale, le cose diventassero più complicate e rischiose. Il senso di
solitudine e di abbandono, la mancanza di fiducia in strutture
deputate alla tutela del lavoro, non può essere ricondotta solo a
determinate scelte e comportamenti del sindacato. È una cultura diffusa, è la mentalità dell’idiozia individualista, della presunzione che da soli, mentre gli altri non ci guardano, possiamo
cavarcela, è l’ideologia dello zombi quotidiano, orecchie tappate dagli auricolari, che non vede, non sente, non parla, come le
scimmiette di Berlino, eppure così prossimo a chi magari esercita quella professione che ti fa stare dietro una cattedra. È l’arco
che unisce questi due estremi a racchiudere la civiltà occidentale oggi, è in questo arco che si colloca il degrado del lavoro dipendente, è il legame tra i due estremi il problema vero, non gli
estremi in quanto tali.
Ma il mobbing è la parte infetta di un corpo malato, il problema è politico, sociale, di rapporti di classe, anzi l’attenzione
rivolta al mobbing può essere una trappola, un modo per medicalizzare forme di oppressione sociale e di volgare sfruttamento
del lavoro cognitivo e manuale. Crescono, si specializzano, si perfezionano, si dilatano strutture e istituzioni e iniziative sul disagio nei luoghi di lavoro, eppure la situazione non sembra migliorare. Man mano che il problema assume maggiore rilevanza
aumentano le risorse per discuterne, nascono settori del sapere,
settori delle politiche sociali specializzati, un linguaggio specialistico, e s’innesca la tipica dinamica autoreferenziale di qualcosa che cresce su se stesso in maniera del tutto indipendente da
quello per cui è nato, si autosostiene e continua per la sua strada registrando il peggioramento con sempre maggiori dettagli,
ma impotente a fermarlo. Secondo alcune indagini il mobbing è
in declino, le forme di molestia sessuale hanno trovato una forte sanzione nella società, gli aspetti estremi del disagio, quelli che
meglio si prestano a un intervento terapeutico o penale, sono in
regressione, ma sono le classiche, eterne, “relazioni industriali”
a tendere sempre più a diventare unilaterali e puramente disciplinari.38 E così sarà finché i lavoratori salariati non troveranno
forme di resistenza e autotutela, finché la gente non alzerà la testa, solo allora la presenza di tante istituzioni di sostegno potrà
servire a qualcosa. Finché il lavoro dipendente resta passivo o
sceglie il suicidio disperato invece di ribellarsi, non c’è speranza
di democrazia in un paese.39
Gli accordi sindacali del luglio 1993 hanno garantito tregua
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salariale e, di fatto, spento le lotte operaie (chi è andato dopo la
crisi del 2008 a parlare con gli operai delle fabbriche occupate o
presidiate dai lavoratori, ha trovato fabbriche che non scioperavano da sedici anni).40 Leonello Tronti è un economista del lavoro che ha dato un contributo determinante a tradurre in cifre e
a concettualizzare la svolta del 1992-1993, a mettere a nudo la
“via solitaria” che l’Italia ha imboccato allora verso una produttività del lavoro negativa, proprio dal momento in cui si è spenta la conflittualità sui luoghi di lavoro.41 È cambiata la struttura
tecnica dell’impresa, lo stile di management, il lavoro è diventato sempre più instabile e provvisorio, ma è qui che la democrazia sostanziale muore e si perdono, cioè diventano impossibili da
esercitare “tecnicamente”, anche libertà civili come il diritto di
sciopero, sebbene nessuno lo abbia tolto dalla carta costituzionale. È sul rapporto di lavoro che l’uomo perde la sua dignità; si
accetta come normale e persino lodevole che giovani, soprattutto laureati, lavorino per mesi gratuitamente in cosiddetti “tirocini” con la speranza di essere assunti (ma perché mai se ci sono
altri mille pronti a prendere il loro posto gratis?). La grande speranza diventa allora la legge, la magistratura, e i rapporti di lavoro vengono configurati come rapporti giuridici, l’asimmetria
tra impresa e salariato viene affidata al riequilibrio di un demiurgo. Il precariato non si supera con cause di lavoro o con arbitrati, né con provvedimenti amministrativi che possono avere
effetto eventualmente nella pubblica amministrazione, ma non
nell’impresa privata. Come si possa riuscire a invertire la tendenza al degrado dei rapporti di lavoro salariato rimane un problema aperto. Quali siano le nuove tecniche di autotutela e di negoziato con le gerarchie aziendali resta un interrogativo. Operaie
e operai analfabeti, che vivevano in condizioni miserabili, sono
riusciti a dare una risposta nell’Ottocento, perché non dovrebbero riuscirci milioni di giovani scolarizzati, overeducated?
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4.
Dove non c’è la notizia
Potrà sembrare una tautologia, ma perché il lavoro autonomo possa parlare di sé ed emergere nella dialettica sociale è necessario che gli sia data la parola e concesso di presentarsi e discutere correttamente in uno spazio pubblico. È nell’agorà che si
decide dell’equità e della giustizia secondo una misura che in democrazia non è altro che un compromesso tra gli interessi presenti. Conta esserci, perlomeno. Per anni, tuttavia, la narrazione
più divulgativa sul mondo dei freelance e del lavoro autonomo,
ovvero quella giornalistica, ha prodotto unicamente sentieri interrotti e chiuso le porte sia per ragioni che attengono la sostanza dei fatti, incapace di metterla a nudo, sia per un mostruoso
conflitto di interessi che anima il mercato delle notizie e lo inquina nei suoi processi di produzione. Non ci riferiamo alle proprietà editoriali e alle loro commistioni con la politica o al nepotismo imperante, per quanto sia utile percorrere anche questa
direzione, ma all’irrisolta e malcelata conflittualità che contrappone oggi i giornalisti embedded all’abnorme platea di outsider,
collaboratori di vario genere che hanno silenziosamente superato per numero gli stessi dipendenti presenti nelle redazioni
d’Italia,1 giornalisti, questi, protetti da contratti blindati e privilegi che faticano a scomparire anche dopo la scossa portata da
Internet e dagli user generated contents. Il racconto pubblico sul
mondo del lavoro e delle sue trasformazioni è passato da qui:
giornali, radio e tv. Fuori dalle accademie, la società italiana nell’ultimo mezzo secolo ha condiviso lo spazio della comunicazione pubblica quasi unicamente attraverso questi canali, trovando
soltanto nell’ultimo decennio un diverso fronte in Internet e una
reale frammentazione delle fonti. Negli ultimi decenni non è realmente cambiato nulla neppure nei modelli di occupazione della
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forza lavoro giornalistica: la più grande trasformazione interna
risale agli anni settanta, quando è avvenuta la progressiva sostituzione dei sistemi di prestampa con le tecnologie elettroniche2 e
sono scomparsi man mano i linotipisti. Oggi ci sono le redazioni
web in cui stanno migrando in molti: sembra una rivoluzione, in
realtà è soltanto un cambio di pelle di redattori e deskisti. Poi ci
sono i freelance, ma questa è tutta un’altra storia.
Il silenzio dell’informazione sul lavoro autonomo
Iniziamo da qui e osserviamo in parallelo come il lavoro autonomo sia stato affrontato sulle pagine dei giornali per anni e come sia emersa l’indipendenza del giornalismo freelance in Italia,
se mai davvero si è emancipato, come peraltro è avvenuto nei paesi di lingua anglosassone. È da questo doppio punto di vista che
a nostro avviso si potrà comprendere come l’informazione non
abbia per niente aiutato l’Italia a costruire un mercato del lavoro
migliore, più inclusivo e aperto alle scelte di chi vuole affrontare
da solo le sue sfide come lavoratore indipendente. Se è vero, come ricorda Amartya Sen assumendo come indici del progresso e
del potenziale di un paese le capabilities individuali,3 che la libertà
di stampa e degli stessi giornalisti determina le opportunità e il
“funzionamento” di persone e società, è altrettanto vero che la
chiusura di una classe intellettuale come quella giornalistica nei
limiti di una coorte molto ben strutturata nel segmento del lavoro salariato non abbia potuto che rappresentare un freno all’emergere delle capacità e ai meriti dei singoli in un particolare settore. Ma ancora più grave è l’aver stemperato ogni voce e ogni racconto sul mondo del lavoro indipendente, determinando verso
quale direzione dovessero crescere la stabilità e il benessere, e indirettamente quali fossero le politiche del lavoro da mettere sotto osservazione e promuovere. C’è un nesso strettissimo tra questo silenzio dell’informazione sul tema del lavoro professionale
autonomo, durato decenni, e le condizioni attuali di lavoro di giornalisti freelance, consulenti, creativi, programmatori indipendenti
e altri professionisti autonomi. La rimozione di quanto avveniva
nel ventre del mercato giornalistico è diventata modello d’informazione: il modo di interpretare le collaborazioni dei freelance
ha rappresentato una premessa implicita della filosofia con cui
affrontare gli stessi temi del lavoro, in particolare di quello indipendente. Come si usa dire nella politica d’impresa, la scelta di
governance, decisione pratica di governo e amministrazione del
lavoro, è diventata approccio teorico al mondo degli outsider. Nel115
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le banche i dipendenti hanno servizi finanziari agevolati; nel settore assicurativo si offrono polizze molto vantaggiose ai lavoratori delle società che le emettono o ai promotori indipendenti; nel
mondo giornalistico, per converso, si è sempre praticato il silenzio sul mondo del lavoro autonomo in misura uguale alla riduzione dei diritti dei collaboratori, con l’aggravante di una giustificazione teorica piuttosto singolare, condivisa senza troppe difficoltà. È qui, proprio in questo mondo, che si radica la convinzione che “i panni sporchi si debbano lavare in famiglia” e senza
clamore perché intaccherebbe un’idea di professione da non mettere in discussione nel suo insieme. Il risultato? Niente informazione sulla scarsa professionalità di chi scrive o sul precariato che
attanaglia migliaia di giovani aspiranti. Non sono i giornalisti a
dover raccontare le storie dei giornalisti stessi, si dice, tranne ovviamente quando accade un fatto irreparabile e di cronaca, la morte di un collaboratore senza contratto, per esempio, al quale successivamente intitolare premi. Non sta bene parlarsi addosso, perché al lettore non interessano gli affari di bottega – si dice –, con
il risultato che il sottobosco del mercato del lavoro giornalistico,
rigorosamente taciuto al pubblico, è diventato oramai una selva
oscura, dove si trova veramente di tutto.4
È utile scoprire gli effetti conseguenti queste pratiche censorie,tralasciando per ora le infinite battaglie di piccole dimensioni. Evitare di raccontare il fenomeno del giornalismo freelance
– un ambito che si è sviluppato in Italia secondo logiche che non
trovano eguali nel mondo occidentale – non è del tutto distante
e distinto dalla pervicace disattenzione nei confronti del segmento
del lavoro autonomo tout court. La parte ha superato l’intero e
la forza dirompente che questo tema esercita sulle logiche di una
professione in crisi ha finito per dissimulare il contesto più ampio in cui leggere e perfino risolvere il conflitto tra insider e outsider. Perché mettere allo scoperto le diseguaglianze che coinvolgono direttamente o indirettamente proprio chi le descrive?
Avete mai letto su “Il Giornale di Sardegna” la notizia che i suoi
giornalisti hanno protestato perché pagati soltanto 5,16 euro lordi per notizia scritta,5 spese incluse?
Senza voce collettiva il lavoratore, da solo, diventa merce
Questo conflitto non riguarda soltanto la proprietà che detiene il controllo sul capitale, gli asset produttivi, le merci o i servizi nel segmento dell’editoria, ma gli stessi intermediari che ingaggiano forza lavoro indipendente, ovvero i lavoratori salariati.
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Avviene dentro e fuori dal mondo dell’editoria: manager che gestiscono budget aziendali per le attività di comunicazione, società di brokeraggio di formatori o traduttori, redazioni che pagano giovani aspiranti giornalisti con false illusioni, dirigenti del
settore pubblico che fanno progettare a esperti indipendenti le
proprie politiche. Sono rappresentazioni differenti di relazioni di
forza del tutto simili, peccato che nel mondo del giornalismo ne
vada di mezzo proprio il racconto pubblico di questo fenomeno.
E chi se non il mondo dell’informazione deve tradurre situazioni e temi complessi come le relazioni industriali? Non è compito dell’accademia, ma di chi per mestiere fa il “volgarizzatore”.
E non è un caso, di conseguenza, che la cultura del lavoro indipendente sia così scarsa in Italia e sia rimessa quasi esclusivamente a logiche di convenienza e di business, non a una dottrina politica o sociale, a una paideia del lavoro che nasce tra le mura domestiche e vive di un rinforzo prima nella scuola e poi nello spazio di confronto pubblico rappresentato dal mondo dell’informazione. Al contrario, la volontà di trovare una soluzione
equa di relazione tra le parti, tra forza lavoro indipendente e committenti, avviene unicamente quando c’è l’interesse a ingaggiare
i migliori al minor prezzo, ovvero quando l’offerta supera la domanda per qualità e occorre trovare una via d’uscita a questa anomalia. Non accade nella routine, nella quotidianità di una prestazione, ma nell’eccezionalità. Quando si vuole cioè comperare
al miglior prezzo una risorsa giudicata indispensabile, non per
un’educazione ad acquisire risorse e a lavorare in maniera naturale con i consulenti esterni, ma per questioni di bilancio. Le più
elementari regole di compensation sono messe in campo soltanto per avere maggiori chance di trattenere i più bravi e guadagnare la loro fiducia. Per tenersi stretti cioè quelli buoni. Fin qui
può apparire una normale dinamica che regola mercati aperti.
In gioco, però, non c’è soltanto il sapere e il saper fare di un lavoratore autonomo, consulente o freelance, ci sono anche le relazioni di forza, la catena di controllori e soggetti capaci di emendare gli accordi tra le parti. Quasi tutte le questioni di natura contrattuale che intervengono nella regolazione di una committenza scavalcano e subentrano spesso al contenuto professionale
espresso, ovvero alla qualità che un lavoratore indipendente è in
grado di offrire, per lasciare spazio a problemi di costo che passano il vaglio dei controller e dei direttori amministrativi prima
ancora di quello dei responsabili delle risorse umane. In altre parole, si è andato consolidando nel tempo un sistema di relazioni
tra imprese e freelance che arriva a definire i contenuti del rapporto di lavoro soltanto se conviene in termini di risultato. Al117
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l’impresa, ovviamente. E questa logica è stata accettata o forzatamente imposta agli stessi lavoratori che amministrano a livello produttivo i budget di spesa. Dentro il sistema capitalistico il
lavoratore autonomo è diventato un “fornitore” prima ancora di
essere un soggetto che opera sul mercato come forza lavoro. Alla pari di acquisti in stock per materie prime, all’uso di utility come la corrente elettrica e Internet o all’amministrazione di beni
mobili, le imprese hanno fatto finire consulenti e collaboratori
nell’archivio elettronico per il controllo delle spese legate ai generici fornitori, semplici numeri dentro database Sap o Siebel.
Questo accade soprattutto nelle grandi realtà, dove c’è uno stretto controllo finanziario e fanno da padrone la mannaia del budget e la regola che se lo spendi correttamente te lo vedrai ritornare più cospicuo, ma se lo investi male ti sarà tagliato e forse ti
sarà tolto anche il lavoro. I buyer, i direttori di divisione, e chiunque abbia in mano soldi da spendere per ingaggiare risorse esterne senza che queste finiscano nella contabilità generale, ma rimangano nel conto economico di singole porzioni d’area produttiva dentro le imprese, accettano implicitamente di ridurre il
lavoro indipendente a merce di scarso valore,6 rinunciando in
questo modo a rendere quello del lavoro un luogo in cui fare confluire diritti e doveri equivalenti e universali. Il committente individuale, ovvero la persona che tratta con il consulente o con il
freelance, che ne segue il lavoro e lo valuta, scioglie il nodo della parità tra lavoratori, facendosi in primo luogo interprete della logica dell’impresa, abbandonando così un terreno di incontro per condividere capabilities prima ancora che diritti. La distanza è più marcata quanto più i lavoratori dipendenti rinunciano alla qualità e alla ricerca dei migliori, cercando di scalare
soltanto sui costi, come quei buyer professionisti che devono trattare sulle tariffe telefoniche o sul prezzo del rame, sulla locazione finanziaria di computer o sulle auto aziendali.
Freelance, meno diritti e più costi d’esercizio
Il sistema delle imprese, in generale, ha limitato i suoi sforzi
nel mantenere in regola le spese per la remunerazione dei lavoratori iscritti in uno stato patrimoniale che deve seguire dinamiche di rivalutazione salariale obbligatorie, a seguito di accordi
quadro nazionali. Ha rinunciato, invece, a innescare un dialogo
per la costruzione di un sistema di protezione universalistica che
realizzasse una vera mobilità sociale dei lavoratori e non garantisse soltanto quella che curiosamente porta lo stesso nome, “mo118
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bilità”, ma che è l’anticamera del licenziamento. Nel linguaggio
marxista si direbbe che i capitalisti hanno solo definito correttamente i loro obiettivi: trasformare i costi fissi in variabili, per amministrarli più agilmente e lavorare sui margini. Oggi diremmo
che, facendo fuoriuscire la manodopera dalle relazioni industriali,
si è guadagnata la possibilità di interpretarne i bisogni a piacere. Il sistema d’impresa postfordista, dal canto suo, ha spalleggiato politiche per la realizzazione di atterraggi morbidi (non a
caso chiamati “ammortizzatori”) in caso di espulsioni di manodopera o iniziative per fare leverage sulla forza lavoro esterna in
modo da alleviare gli indebitamenti o abbassare i costi d’esercizio,
ma non ha mai assunto responsabilità per interpretare in maniera allargata il tema della mobilità sociale dei lavoratori. Neppure al suo interno ha favorito la diffusione di una cultura delle
relazioni con il segmento dei lavoratori indipendenti. Avete mai
sentito parlare di coaching o di formazione personalizzata per
chi usa l’outsourcing? Avete mai incontrato un consulente chiamato da un’impresa per comprendere e lavorare al meglio con il
mondo dei freelance?
Per i lavoratori autonomi il generale disinteresse del mondo
dell’impresa per la costruzione di sistemi di protezione universalistica ha comportato non solo l’esclusione da certi diritti, ma
l’aumento dei costi d’esercizio della professione. Tra le innumerevoli incombenze pratiche e burocratiche, il freelance deve farsi carico dell’onere di evangelizzare e trovare parole, modi e faticosi spazi di dialogo, per raccontare agli altri di sé e del proprio lavoro, cercando innanzitutto di farsi capire. E qui entra in
gioco la stampa. Raccontare di sé è un costo, un dispendio di
energie supplementare quando non si dispone complessivamente
di un sistema equilibrato di informazione che aiuta un paese a
rappresentare se stesso. Per i più esperti è un habitus, ovvero
una prassi acquisita, quasi implicita, ma per chi inizia la vita da
freelance è un macigno che, affrontato con le sole forze individuali appare subito difficile, tralasciato in favore di urgenze più
immediate, come la necessità di dare continuità al proprio reddito, indebolendo così nel lungo termine la tenuta stessa della
propria capacità negoziale e la propria identità. In sistemi economici dove la frammentazione del lavoro e le dinamiche postfordiste hanno manifestato tutta la loro forza, per esempio nel
mondo del terziario avanzato, emerge ciononostante una nuova via d’uscita che svincola il singolo dall’onere di una prova ripetuta della propria identità professionale: è l’opportunità di
stringere coalizioni, di unirsi, come avveniva per i lavoratori salariati nella fase costitutiva dei primi sindacati, per utilizzare
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una voce comune. Perché associarsi ha anche questo obiettivo:
alleviare i costi d’esercizio nell’affrontare insieme l’azione costitutiva di una voce collettiva, in modo da supplire quella mancante nel mainstream dei media.
Il sindacato non-sindacato dei giornalisti freelance
A questo proposito è molto interessante il caso che ha coinvolto i lavoratori freelance del settore giornalistico, una vicenda
che rappresenta un primo esperimento di coalizione nel tentativo di sfondare il tetto del sindacalismo tradizionale e inaugurare nuovi sistemi di rappresentanza di base. Tutto iniziò una dozzina di anni fa. Già a partire dalla fine degli anni novanta incominciarono infatti a smuoversi le acque tra le fila delle correnti
interne al sindacato unico dei giornalisti, la Fnsi – Federazione
nazionale della stampa italiana. Nel 1999 dopo una scissione di
Quarto Potere nacque il gruppo Senza Bavaglio, indipendente rispetto a tutti gli schieramenti politici e alle tradizionali correnti delle organizzazioni di categoria. I fondatori erano sia giornalisti contrattualizzati sia freelance, senza distinzioni. Tra questi ultimi i creatori di Penne Sciolte, un movimento d’opinione
indipendente, nato a Milano nel 1997 per difendere la dignità
della libera professione del giornalismo. Scelsero di adottare come sistema di comunicazione una mailing list e una piattaforma Internet per le attività di groupware, raccogliendo in breve
tempo 20.000 iscritti! Dal 2003 organizzano annualmente convegni nazionali. Durante il Secondo congresso nazionale svolto
a Breuil-Cervinia nel luglio 2004 resero pubblico il loro manifesto. Attaccarono frontalmente il sindacato, affermando che “la
gestione delle organizzazioni dei giornalisti è poco democratica
e irrispettosa delle diverse opinioni”. Lamentarono il fatto che i
metodi fossero troppo vicini a quelli della politica italiana, con
poca trasparenza e poco dibattito, e che le conclusioni e le direttive fossero predeterminate da piccole consorterie. Si legge
nel manifesto:
Alcuni dirigenti occupano il posto da decenni, non hanno più alcun
contatto con la realtà giornalistica, con le redazioni, con il mondo
variegato di chi è stato espulso dai processi produttivi, con le nuove tecnologie mediatiche, con i freelance che vengono corteggiati
perché rappresentano un serbatoio di voti spesso disgregato in una
lotta fra poveri.7
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Al contrario, il movimento Senza Bavaglio vuole portare
equità e, oltre alle rivendicazioni classiche di tutela mutuate dal
lavoro salariato, propone nuove istanze come questa: “Il lavoro
autonomo dei giornalisti va equiparato dal punto di vista economico a quello dei giornalisti contrattualizzati. L’equiparazione
economica è la tutela della dignità dei colleghi freelance”. È un
principio fondante del movimento e su questo punto si apre un’intera stagione di conflitti per la rappresentanza del lavoro giornalistico indipendente. A livello economico, Senza Bavaglio centra il bersaglio8 e questo consente al movimento di raccogliere le
simpatie di molti freelance. Sono gli anni tra il 2003 e il 2007, in
cui si assiste a un colpo di coda della new economy, le redazioni
usano la falce per far fuori i dipendenti e controbilanciano le
espulsioni con collaborazioni a basso costo. La riduzione delle
spese pubblicitarie mette in ginocchio numerose testate e i tagli
sui costi arrivano diretti al portafoglio dei freelance. Nel 2005
l’Inpgi – Istituto nazionale dei giornalisti italiani – pubblica i dati sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. Ne esce un quadro
impressionante, una specie di ziggurat, per la forma che assume
la conformazione della struttura retributiva per classi. Mentre
nel settore privato il mercato italiano distribuisce retribuzioni secondo uno schema piramidale, che vede in cima quadri e dirigenti (insieme costituiscono il 10 per cento dei lavoratori), il mondo del giornalismo conta circa 8000 addetti nella fascia retributiva degli impiegati, 5700 in quella dei quadri e 4700 in quella dei
dirigenti. Manca la base. Gli operai della conoscenza9 sono fuori dal segmento del lavoro salariato. È un unicum in Italia, che
ha tutti i tratti di un’uscita reale della forza lavoro dal capitale,
come sostiene Toni Negri.10 Questo giustifica le richieste di equità
promosse dai movimenti esterni al sindacalismo tradizionale,
oramai legato esclusivamente al lavoro dipendente, e motiva i
suoi esponenti a considerare legittima l’idea di rappresentare chi
nei fatti sta all’interno di un mercato, contribuisce alla sua forza
e ne determina le sorti, anche se sprovvisto di un regolare contratto di lavoro dipendente. Emerge cioè l’idea che si possa essere portavoce di chi si relaziona con committenti tradizionali anche senza forme contrattuali afferenti al contratto nazionale di
categoria. Una bestemmia per il sindacato, che incomincia a osteggiare il nuovo movimento. Nel 2004, tuttavia, viene strappata al
Congresso unitario della Fnsi, che si tiene a Saint-Vincent, la mozione che impegna la dirigenza sindacale a fare entrare un rappresentante dei freelance in giunta. La dirigenza sindacale, però,
negli anni a seguire disattende l’impegno, accampando la scusa
che sarebbe inammissibile portare un rappresentante eletto dai
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freelance se questo è proposto da un movimento che non rispecchia i canoni formali della rappresentanza sindacale. I lavoratori autonomi non demordono e compiono anche l’atto formale di
passare da organismo di base dei freelance all’Unione sindacale
dei giornalisti freelance (Usgf), costituita il 19 giugno 2009, che
in pochi mesi raccoglie oltre 500 iscritti. Nel frattempo (e siamo
negli anni 2005-2009) il rinnovo del contratto nazionale di lavoro giornalistico si blocca. È il momento buono per sperimentare
le rivendicazioni di base dei lavoratori autonomi. Tra quelle portate sui tavoli della contrattazione arrivano tre richieste dei lavoratori autonomi: essere pagati secondo un tariffario approvato, ma mai entrato in vigore e poi beffardamente cancellato dalla legge Bersani; essere pagati anche se i lavori non sono poi utilizzati (per motivi indipendenti dal freelance e dalla qualità degli articoli e dei servizi prodotti); vedere tutelata la paternità delle idee, delle opere e la loro fattura, avvisando i freelance delle
variazioni introdotte nel lavoro consegnato alle redazioni. Tre
punti ragionevoli, in fin dei conti. Dopo dieci anni di battaglie, il
muro del sindacato blocca ogni rivendicazione. La poltrona promessa al rappresentante del mondo dei freelance non è mai stata attribuita. La maggioranza dei lavoratori del settore viene esclusa dai sistemi tradizionali di rappresentanza. Pare assurdo, ma
continuano ad avere un notevole peso, invece, i rappresentanti
dei pensionati, di chi cioè non ha più alcun rapporto di lavoro
con il mondo editoriale. Il contratto alla fine viene controfirmato dalle parti sociali, ma ogni elemento migliorativo della condizione dei freelance viene stralciato. La Fnsi decide di approntare allora la costituzione di consulte regionali per studiare come
affrontare il problema dei freelance, in barba a un movimento
già vivo e costituito, moltiplicando in puro stile sindacale le sole
poltrone interne. La paura di vedere sostituita un’intera classe
sindacale da nuove forme di rappresentanza, peraltro portavoce
di singole voci numericamente più consistenti della controparte
storicamente già rappresentata dal sindacato, ha fatto tremare le
gambe alla Fnsi, che non ha mollato deleghe, poltrone e, in definitiva, voti e soldi di bilancio.
La vicenda è ancora in corso ed è un caso unico in Italia, che
si è strutturato in modo così lineare per ragioni di un relativo
contenimento dell’ambito professionale e del settore economico
interessato, ma ha una portata nazionale quale esperimento di
una lotta inedita per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori
autonomi nel confronto di un mercato centrato unicamente sul
modello di lavoro salariato. I due elementi di maggior interesse
rimangono, sul versante negativo, la battaglia di retroguardia del
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sindacato, impermeabile a ogni rinnovamento e, sul versante positivo, lo spirito con cui l’Usgf ha affrontato le sue rivendicazioni. I freelance infatti hanno sostenuto in maniera bipartisan che
ogni passo avanti incontro alle loro esigenze avrebbe portato vantaggi per gli stessi lavoratori contrattualizzati, perché in generale avrebbe aiutato a rendere il mercato del lavoro più stabile e
meno soggetto alle politiche di flessibilizzazione. Da parte opposta si è assistito, invece, all’uso strumentale del lavoro autonomo come valore da difendere. La sua bandiera è stata issata
persino in tv, in prima serata, dal comitato di redazione che aveva firmato un comunicato per giustificare davanti agli italiani
uno sciopero del Tg1 che si era svolto nel periodo del mancato
rinnovo del contratto nazionale. Alla fine del percorso negoziale, tuttavia, ogni vessillo marchiato con il simbolo dei freelance
è stato cestinato senza vergogna. La vicenda è piuttosto singolare perché evidenzia il legame tra i due aspetti della situazione: la
possibilità di rivendicare azioni concrete per migliorare la situazione collettiva del mondo dei lavoratori autonomi e l’approccio
di chi controlla le informazioni su questi temi. Dove i diritti vengono negati o formano oggetto di promesse mai mantenute è proprio il luogo nel quale si confeziona oggi la narrazione del lavoro autonomo: nel mondo del giornalismo.
L’informazione come autoregolazione di interessi di parte
Uno dei nodi cruciali del lavoro intellettuale autonomo resta
perciò quello della voce collettiva, raccolta e replicata, commentata ed eventualmente emendata, che stenta oggi a essere
ascoltata affinché se ne dia notizia all’opinione pubblica. È qui
che si gioca gran parte della spartizione del potere, non soltanto mediatico. Quando questo sistema va in black-out e si preferisce il silenzio, si aprono le porte della negoziazione individuale, dell’indebolimento del singolo consulente e del freelance e il
rischio di una sua riduzione a merce di scarso valore. La prassi
dell’informazione nel lasciare poco spazio al professionista autonomo accresce il disinteresse parallelo degli analisti, dei sindacati e della politica, orientati tutti nel puntare in termini di comunicazione di massa verso i sistemi complessi di organizzazione del lavoro, verso le problematiche delle grandi imprese e
dei lavoratori con posto fisso, una platea di soggetti che domani garantirà ai propri benefattori una fiducia equivalente alla durata della stabilità del proprio lavoro. L’unità minima, l’individuo,
è invece scomparsa per anni come oggetto di rappresentazione
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ed è ritrovata soltanto quando diventa l’espressione del caso limite, l’esempio di “distorsioni” o “disequilibri” dei sistemi produttivi che mettono nell’angolo: il cassaintegrato che si arrampica sulla gru; l’imprenditore che si toglie la vita in silenzio; il lavoratore licenziato in età adulta che preferisce l’inattività all’umiliazione di ricominciare da zero; il padre di famiglia che deve
pagare le bollette con 800 euro al mese di cassa integrazione. Tutte storie raccolte, per esempio, dagli inviati di Michele Santoro,
con la finalità precisa di misurare il cono d’ombra di una crisi
che sembrerebbe toccare soltanto gli operai e il lavoro dipendente. Perfino le vicende così drammatiche dei licenziamenti collettivi di questi anni di crisi hanno oscurato i nomi e i cognomi,
per dare voce alle storie personali soltanto in maniera paradigmatica, come rappresentanti di un lavoro salariato in frantumi
e di fatto coprendo il potenziale del singolo, la sua forza di mettere ancora in gioco la propria vita lavorativa come persona che
possiede un bagaglio unico di conoscenze e competenze. La deliberata volontà di non lasciare spazio al mondo dell’autonomia
ha messo in postille e note a margine il mondo dei freelance, degli indipendenti o dei liberi professionisti che hanno sempre rappresentato – per media e sindacati, per legislatori del lavoro e governanti locali – “l’ingovernabile”. Li hanno guardati e giudicati
con la lente di una destra che dovrebbe accelerare la spinta liberista, ma paradossalmente afferma un protezionismo corporativo delle professioni liberali, o con la lente di una sinistra pronta a scandalizzarsi per la condizione di precari senza diritti ma
appiattita su una politica sindacale che di fatto tutela solo una
certa parte del lavoro dipendente. In realtà, la dinamica di questo pendolo sta esaurendo pian piano la sua forza, a partire da
quando il mondo dei professionisti autonomi ha cominciato ad
acquisire una maggiore coscienza della propria indipendenza. I
forzati della partita Iva che si sono stancati con il tempo di non
poter governare la forza centripeta che li ha allontanati appunto dal lavoro dipendente e i numerosissimi esperti di tecnologie
informatiche e Internet che lavorano da soli, a distanza, si sono
creati coalizioni di base con i moderni sistemi di networking, prima ancora che nel mondo reale. I creativi del mondo del design,
della comunicazione e della moda hanno compreso prima e meglio di altri la metamorfosi degenerativa dello stesso linguaggio
del potere e le dinamiche con cui si costruisce un’immagine pubblica. Tutti questi lavoratori indipendenti sono abituati oramai
a considerare la politica e il sindacalismo come attività di mera
autoregolazione dei propri privilegi. Non si legge di una destra
italiana che non è in grado di difendere più neppure il sistema
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d’impresa o le liberalizzazioni, mentre sul fronte opposto non si
legge di una sinistra che ha mostrato tutta la sua debolezza nel
portare la bandiera del precariato, senza saperne rovesciare le
sorti. Che cosa resta allora nella narrazione delle storie dei lavoratori che hanno perso pregiudiziali politiche sul modo con
cui interpretare il loro disagio in un paese che, visto dalla parte
dei neoliberisti, non ha un vero mercato delle risorse umane, e
da quella dei progressisti non ospiterà più alcuna rivoluzione?
I freelance? Per la stampa soltanto Untermenschen
L’informazione pubblica ancora persiste nello stereotipo del
precariato disorganizzato, del singolo stritolato dal sistema, dell’imprenditore con le mani legate, che non riesce a licenziare i dipendenti che ha sposato come una moglie, del povero disperato
costretto ad aprire la partita Iva. Ma tra concubine e poligamia,
tra disperazione e sfruttamento, chi ha invece una posizione forte sul mercato come indipendente continua a spaventare il mondo dei media e perfino gli analisti più accreditati. La parola “lavoro autonomo” nel Rapporto sul mercato del lavoro 2009-2010
rilasciato dal Cnel ha soltanto due occorrenze in 335 pagine.11 Fino all’esplosione conclamata della crisi, che in Italia ha iniziato
a mietere posti di lavoro seriamente a partire dall’ottobre del 2008,
nelle narrazioni giornalistiche e tematiche sul mondo del lavoro
lo spazio dedicato ai professionisti autonomi era ininfluente. Poche righe, mal curate. Poi qualcosa è cambiato, sulla scia di un’espressa volontà del “Corriere della Sera” di dare voce ai “piccoli”, alla generazione di produttori e professionisti che, nelle dinamiche dei grandi numeri e nelle manovre politiche che vanno
a caccia di consenso, sono sempre rimasti invisibili. Con questo
termine si sono voluti indicare quei lavoratori che appartengono
al variegato mondo di chi non ha alcun paracadute nei tempi difficili dell’economia in crisi e di cui non ha scritto nessuno sui
giornali o parlato in tv. Invisibili allo stato, ma anche ai media.
Alla serie di articoli che Dario Di Vico e Isidoro Trovato, sul quotidiano di via Solferino, hanno dedicato al mondo delle partite
Iva, alla parasubordinazione, ai piccoli imprenditori e alle reti di
piccoli produttori, hanno fatto seguito anche altre testate, da “la
Repubblica”, che ha dedicato il numero del “Venerdì” dell’11 giugno 2010 alle partite Iva, parlando addirittura di “invasione di
finte partite Iva”; al “manifesto”, che piuttosto sorprendentemente
ha dedicato un numero del primo maggio di “Alias”, allegato al
quotidiano, al popolo delle partite Iva, definendoli “precari con
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la giacca”. Ha sorpreso tanta attenzione al problema. Figure lavorative descritte nel Codice civile da oltre quarant’anni prendono finalmente la parola proprio nel periodo più difficile dell’economia italiana. Nello speciale curato dal quotidiano del gruppo
L’Espresso, Riccardo Staglianò affonda il coltello nel sistema, definendo le partite Iva addirittura Untermenschen dal punto di vista sindacale perché senza rappresentanza né diritti. Mescola impropriamente lavoro intellettuale e addetti del settore dell’edilizia, commercianti e bibliotecari. Un pasticcio, dove la morale,
suffragata da un’indagine Isfol12 di ben quattro anni prima, è che
l’Italia sta abusando della formula della partita Iva per nascondere lavoro irregolare. Lo fanno, però, anche la Rai (che ogni anno paga 380.000 partite Iva) e i grandi gruppi editoriali. L’Italia
è invasa dalle finte partite Iva per i giornali. Come una diga che
non contiene più acqua, viene inondata da sottouomini, o meglio
ominicchi, come direbbe Totò, pària del lavoro. La via d’uscita?
Non si sa. Massimo Giannini rincara la dose, ma mette le carte
allo scoperto. Il suo intervento ha la stessa forza di un lemma in
un vocabolario, un vero capolavoro per comprendere la cultura
più diffusa sul lavoro autonomo. Si legge nel servizio:
C’è stato un tempo, neanche troppo lontano, in cui evocare il mitico “popolo delle partite Iva” significava una cosa molto precisa. In
senso marxiano una vera “classe”: la silenziosa piccola borghesia
produttiva, costituita da lavoratori autonomi, imprenditori e artigiani, che ha fatto un pezzo di miracolo italiano. In senso geografico, una vera “nazione”: la laboriosa “macroregione” padana, che ha
dato alla Lega radici territoriali e al berlusconismo consensi elettorali. Oggi quel tempo non c’è più. Il “popolo delle partite Iva” ha
cambiato pelle. Non si è certo estinto. Si è piuttosto stinto dentro
un meticciato nel quale il vecchio padroncino convive con il nuovo
dipendente. “È il mercato del lavoro, bellezza” direbbe l’incrollabile
liberista, sorvolando sui devastanti effetti sociali, culturali ed economici di questa metamorfosi. Dietro la cortina di fumo delle false
partite Iva, quella che sta nascendo è una generazione di venticinque-trentacinquenni, costretti a dimettersi dalle rispettive aziende,
e dunque non più lavoratori subordinati regolarmente assunti, ma
obbligati a continuare a prestare la loro opera, esattamente come
prima, con contratti a tempo parziale e determinato, e dunque da
lavoratori para-subordinati.13
La lettura è chiara. I lavoratori autonomi non sono più una
classe che porta il marchio della destra e della Lega, ma sono poveracci, precari costretti al lavoro irregolare. Ibridi, meticci, lavoratori transgenici. La colpa di questa metamorfosi è delle imprese, del sindacato e della politica, non del sistema produttivo
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che si sta modificando, allargando e contemporaneamente, per
le professionalità più legate al lavoro cognitivo, destrutturando
su reti invisibili e linee di comando più blande. Poiché la sinistra
non riesce più a classificarli come borghesi ed evasori, difesi dalla Lega o dalla cultura berlusconiana, ora sono il brutto anatroccolo del lavoro dipendente. Un salto quantico impressionante, che non ha fondamento proprio perché non guarda correttamente alla storia del lavoro autonomo di seconda generazione.
Nessuno nega la presenza in Italia di lavoratori che esercitano
attività con partita Iva quando dovrebbero avere un contratto di
lavoro dipendente, ma da qui a sostenere che la metamorfosi è
soltanto devastante non fa che riportare rovinosamente la questione del lavoro indipendente nell’alveo del precariato. Mossa
intelligente per chi deve conservare principalmente regole e potere nell’ambito della negoziazione politica, sociale e sindacale,
ma che non rispetta la natura del lavoro autonomo e le nuove forme di coalizione che si vanno formando in questi anni per rappresentare le reali istanze delle partite Iva. Il danno d’immagine
è evidente. Considerando soltanto i fattori decostruttivi si corre
il rischio di deprimere il lavoratore, portandolo a livello di Untermensch. La lettura che sposta senza soluzioni di continuità una
classe intera dal benessere borghese al problema della fine del
mese ha più i connotati di una volontà performativa di imporre
un modello interpretativo che di un lavoro di sintesi. Un po’ come è avvenuto negli anni 2001-2005 quando è entrata nel linguaggio corrente la contrapposizione tra “flessibilità” e “precarietà”, più per ragioni legate alla necessità di aprire lo spazio dialettico con cui si sarebbero potute confrontare parti avverse che
per reali motivi linguistici o teorici. Allora e ancora oggi nessuno ha mai fatto notare, per esempio, che “precario” è il contrario di “stabile” e che “flessibile” è l’opposto di “rigido”, “indisponibile” e che molto banalmente le due famiglie di problemi si radicano su questioni del tutto diverse. Scrive Benedetto Vecchi
aprendo il bel numero del primo maggio dell’inserto “Alias” del
“manifesto” dedicato ai lavoratori professionali autonomi:
Nell’Italia berlusconiana gli indipendenti sono un esercito in espansione, perché l’uscita dalla crisi economica e dalla disoccupazione
passa attraverso la crescita degli autonomi. La precarietà, in quanto norma dominante, ha infatti nel lavoro autonomo la strada maestra per legittimarla come unica possibilità di restare sul mercato
del lavoro. Così, per molti giovani, la discesa nell’inferno della disciplina del lavoro salariato prevede tappe che alternano contratti a
tempo determinato a consulenze pagate, molti mesi dopo, una miseria. Nel frattempo la cancellazione del welfare state procede a rit127
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mi serrati mentre l’esercito degli indipendenti non si sente rappresentato da nessuno. La sinistra li guarda con sospetto, la destra li
corteggia, ma aumenta le tasse che negano ogni possibile futuro:
tutto in nome di un feroce darwinismo sociale che ha premiato nelle ultime elezioni la Lega Nord.14
È una lettura che non si discosta molto dalla precedente e pone purtroppo ancora una volta gli autonomi, come categoria unica, indifferenziata, in un limbo verso la precarietà e in una posizione di sofferta conflittualità, non di libera scelta.
Come si vede, il focus dedicato al lavoro professionale autonomo ha riportato a galla i paradigmi consolidati a sinistra, che
hanno sempre visto i lavoratori autonomi come dipendenti mancati, buttati fuori dall’impresa oppure sfruttati a loro insaputa.
Storie di lavoratori messi sotto la lente d’osservazione del precariato, che vanno riportate nel loro alveo naturale, quello delle relazioni di lavoro dipendente, secondo le più classiche posizioni
rivendicative proposte dalla Cgil. C’è qualcosa di ineluttabile,
darwinistico, ma deformante in questo processo mentale che governa la rappresentazione del lavoro autonomo nel giornalismo
di sinistra, e c’è chi raccoglie il malcontento, ovvero la Lega. C’è
la precarietà e c’è una sua declinazione specifica, che si chiama
lavoro autonomo, che raccoglie apolidi senza protezioni né protettori. Untermenschen, appunto. C’è anche chi ha provato a superare questa rappresentazione, risultando forse ancora meno
appropriato nella sua lettura. Per Roberto Mania, di “Repubblica”, si tratta di “capitalismo individuale in recessione” e “lavoro
di serie B”, ma pur sempre “precarietà di lusso”,15 perché “precario non è solo il lavoro poco qualificato e a basso salario”. Lavoro professionale sì, ma da poveracci. O come scrive “il manifesto”, si può essere precari, ma con la giacca. Vero, ma il resto?
Possibile che ci si fermi unicamente alla differenza con il lavoro
dipendente? A un’equivalenza mancata, ai difetti nel confronto
con gli Übermenschen o, peggio ancora, alla riduzione dell’autonomia come formula mediocre di capitalismo individuale? A ben
guardare, una rappresentazione di questo genere giova in primo
luogo a chi fa del modello del lavoratore contrattualizzato, con
posto fisso a tempo indeterminato, l’unico possibile, e non soltanto svuota di senso ogni formula alternativa, ma cuce addosso
a chi contraddice tale ipotesi il vestito della cattiva coscienza. In
realtà, però, in questi anni è avvenuto il contrario: gran parte delle voci raccolte e amplificate sui media sono state selezionate da
chi ha voluto cercare la riprova dello sfruttamento del lavoro irregolare proprio tra i lavoratori della conoscenza, costretti ad
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aprire una partita Iva per rimanere sul mercato. Dalla retorica
sui call center si è passati, in tempo di crisi, a quella sulle false
partite Iva.
Il cambio di rotta arriva dal “Corriere della Sera”
Se da una parte, purtroppo, non si trovano narrazioni fuori
da questi schemi, è vero anche che per molti lavoratori autonomi
la strada aperta dal “Corriere della Sera”, e poi replicata da altri,
nel cercare di approfondire i temi del lavoro indipendente particolarmente esposto ai venti della crisi, è stata recepita positivamente. Nella lunga serie di articoli firmati da Dario Di Vico sul
“Corriere della Sera” a partire dall’aprile 2009 e dedicati al lavoro autonomo, e che a nostro avviso costituiscono una delle rappresentazioni giornalistiche più corrette del mondo del lavoro autonomo in Italia, ricorre spesso l’idea che la formula più utilizzata per mantenere viva la propria posizione sul mercato del lavoro in un periodo di crisi sia la partita Iva, non la disponibilità ad
accettare contratti a progetto o a svolgere attività di temporary
manager o lavori a chiamata. Sebbene non sia espressamente indicata dal giornalista, la ragione sta a nostro avviso nella natura
proattiva di questa formula, ovvero nella possibilità di inquadrare la propria attività nel segmento del lavoro autonomo liberandosi dal vincolo di una dipendenza stretta dal committente come
unica persona che può tenere a galla il lavoratore. Avere una partita Iva rappresenta uno spazio di manovra aperto anche a differenti committenze, all’interno del quale si può immaginare di strutturare azioni di rilancio della propria attività che comprendono
anche investimenti. Questi costi sono spesso legati alla riqualificazione professionale, alla formazione, al marketing o all’acquisto di beni strumentali. Inquadrati in un contesto fiscale – come
consente di fare la partita Iva – diventano spese da affrontare più
accettabili, anche soltanto da un punto di vista psicologico. È difficile trovare lavoratori autonomi soltanto con contratti a progetto disposti a sostenere investimenti per migliorare la propria posizione lavorativa, hanno invece un atteggiamento più passivo.
Non è dunque per un’imposizione del mondo dell’impresa che in
periodi di crisi si rinforza la formula del lavoro con partita Iva,
bensì per le opportunità che questa offre di affrontare più apertamente la condizione di reinserimento nel mercato come lavoratore autonomo costretto ad autogestirsi spese, investimenti, offerta e produzione.
Parlare di lavoro autonomo, pur con approssimazione, è
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meglio del silenzio durato decenni, ha pensato qualcuno, ma
c’è voluta una fase di recessione economica per raccontare un
fenomeno che era già stato identificato chiaramente da oltre
quindici anni.16 Ma quali sentieri narrativi tracciano realmente queste aperture dei grandi giornali? Come abbiamo detto,
non tutto può essere raccontato, proprio perché è nel seno del
mondo del giornalismo che si annida una delle contraddizioni
più palesi sul rapporto tra insider e outsider. Ciò che manca
nei racconti più divulgativi di questi anni sui media è di conseguenza la componente risolutiva, ovvero il conflitto, unica
via di uscita per ovviare alle difficoltà del lavoro autonomo.
Se è vero che molte storie rappresentano casi limite, la soluzione offerta al grande pubblico è quella di ricondurre l’attività
esercitata con partita Iva nell’alveo del “posto fisso”, premio irraggiungibile, ma utopos unico del diritto del lavoro. Il fuoriuscito dall’impresa deve fare in qualche modo un buy-back del proprio status ed è difficile che siano presentate alternative, o almeno che questo avvenga nelle pagine di un giornale.
I lavoratori autonomi che si raccontano sul web
Più flessibile e aperta è, invece, la Rete, dove la libertà nel
presentare se stessi e la propria storia è maggiore, esiste
l’anonimato e il self publishing è realmente alla portata di tutti.
Qualche limite in realtà c’è ancora. Mentre in ambiente anglosassone esistono veri e propri portali per freelance e i blog personali in materia sono moltissimi, soprattutto di lavoratori nel
segmento del web design, del copywriting e della consulenza in
ambito risorse umane, finanza e marketing, in Italia questi “territori tematici” esistono, ma non presentano quasi mai elementi di autovalutazione, riflessione sulla condizione di lavoro o le
problematiche “politiche” del mondo freelance. Le due raccolte
più estese di esperienze sul mondo dell’autonomia sono rappresentate purtroppo ancora una volta da soggetti che nel loro approccio nutrono sostanziali pregiudizi sulla formula dell’indipendenza. Sono da una parte il blog di Beppe Grillo e dall’altra
il sito di Repubblica.it. Dalla prima esperienza di racconto diretto via web è nato il testo Schiavi moderni,17 che ha mescolato
tutte le forme considerate precarie, comprese alcune vicende di
consulenti che denunciano più che altro problemi di pagamento o fiscali. Questo testo mostra nella sua struttura e nella capacità critica che è emersa successivamente nelle presentazioni e
citazioni in occasioni pubbliche da parte di Beppe Grillo la scar130
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sa preparazione del cosiddetto “popolo dei grillini” in tema di lavoro. A una generica e comunque motivata denuncia di condizioni oramai inaccettabili di precariato sociale non è mai seguita una precisa analisi delle ragioni e delle soluzioni possibili.
Quanto raccontato in Schiavi moderni è vero, reale, concreto e
drammatico, ma le ragioni che determinano le terribili storie riportate non si possono ricondurre direttamente alla legge Biagi,
come denunciato dallo stesso Beppe Grillo, che in occasione di
un articolo scritto sul “Corriere della Sera” da Pietro Ichino18 se
la prende addirittura con il giuslavorista. Le storie raccontate sono soltanto marginalmente condizionate dal decreto legislativo
276 del 2003. Questa legge, tuttavia, è diventata un totem per i
grillini e un simbolo contro cui inveire. In realtà, l’obiettivo secondario, forse più importante del primo (la critica all’evoluzione del mercato del lavoro), è la creazione di una nuova coalizione di cittadini che non accettasse più la condizione del precariato. Il modello aggregativo promosso da Beppe Grillo non
riesce però ad andare oltre la denuncia ed è destinato a fallire
nella definizione di nuove proposte politiche legate al mondo del
lavoro. Potrebbe avere grande fortuna su due fronti: nella denuncia capillare e nello snidamento di situazioni e persone che
operano illegalmente rispetto alle più elementari regole di convivenza e della normativa sui rapporti di lavoro; nel confronto
con le politiche locali e iperlocali. Il popolo dei grillini potrebbe realmente aprire una nuova strada di denuncia sociale, così
come sta facendo sui temi dell’ambiente, della legalità e dell’energia, e di dialogo dei cittadini con gli enti locali, ma è destinato a fallire nel proporre alternative ai modelli di sistema, ovvero alle politiche nazionali, poiché manca di una visione politica realmente alternativa che dia slancio alla mobilità sociale,
alla riqualificazione della domanda o alla ridefinizione dell’intero sistema di welfare.
Un altro forum che va preso in considerazione è Generazione perduta,19 collazione davvero unica in Italia di storie individuali dove ciascun utente può riportare in presa diretta, personalmente e via Internet, la propria avventura lavorativa in tempo di crisi. In questo spazio web creato dal gruppo L’Espresso si
trovano storie di ogni genere, che ciascun autore classifica con
etichette predefinite: posizione, età (fino a trentaquattro anni) o
reddito. Facile, dunque, estrarre le vicende di chi si dichiara “lavoratore autonomo”, anche se in realtà i margini per tracciare un
autoritratto esaustivo sono un po’ stretti.20 Tra le pagine di Repubblica.it si potevano leggere nell’ottobre 2010 oltre 160 racconti di autonomia lavorativa, che uniscono giovani avvocati, de131
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signer, architetti, giornalisti freelance, creativi, formatori e perfino medici (come un oculista che esercita presso l’Ospedale Maggiore di Bologna con partita Iva). Prevale la denuncia, come ovvio all’interno di un servizio che vuole dare spazio alle “voci perdute”. Si trovano storie di discontinuità, sfruttamento, iterazione infinita di contratti a termine, pagamenti tardivi e inadeguati, sistemi di ricompensa superficiali, percorsi professionali senza stabilità anche per chi esercita in autonomia, irregolarità spinte. I più tartassati dal mercato sembrano essere due categorie: alcuni lavoratori che esercitano professioni ordinistiche, in particolare architetti e avvocati, che transitano senza speranza in studi associati o piccole società, e gli ex dipendenti che cercano di
riottenere quello che avevano prima di uscire dalle imprese, ma
nel contesto del lavoro autonomo. In questo caso, più che mai,
si ritrova il disorientamento di chi non ha mai guardato oltre la
finestra del proprio ufficio e si aggrappa al passato come unica
via d’uscita. C’è anche chi in un ufficio non c’è mai entrato e fa
fatica a trovare una bussola per orientarsi. Geologi, archeologi,
giornalisti, musicisti, documentaristi, tecnici del suono, designer,
consulenti della pubblica amministrazione e molte altre attività
rappresentano un arcipelago di situazioni differenti, accomunate da almeno due condizioni caratteristiche: la disparità di trattamento rispetto a quanto avviene in altri paesi d’Europa (compresa la Bulgaria, scrive qualcuno); e la difficile e imperfetta interpretazione del ruolo di lavoratore autonomo in Italia dovuta
a una scarsa chiarezza dei limiti che lo circoscrivono e delle opportunità che offre.
Nuove identità in cerca d’autore
(e giornalisti capaci di ascoltarle)
Il dipartimento di Scienze relazionali “G. Iacono” dell’Università di Napoli Federico II, sotto la guida della professoressa
Laura Aleni Sestito, docente di Psicologia dello sviluppo, ha analizzato l’intero repertorio di storie, scavando nelle profondità
del disagio. Il problema più marcato, viene detto, è quello identitario:
I giovani, chiamati a operare in un contesto molto complesso, solo in piccola parte mostrano di avere capacità di controllo sulla
realtà interna ed esterna e di percepire se stessi come protagonisti
rispetto alle esperienze di adattamento alla realtà lavorativa. La sensazione è che oggi, alle prese con una società più instabile, ci sia
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bisogno di un “capitale di identità” maggiore di quanto fosse necessario in passato. Dopo avere individuato una scelta, ci si deve
assumere le responsabilità dell’identificarsi con le cose che si sono
scelte e di assumersele come personale traiettoria di sviluppo. Quanto più la società diventa complessa, tanto più è difficile assolvere a
questi compiti.21
Ed è ancora più complesso in assenza di una narrazione collettiva del lavoro che includa come elemento fondante quello del
lavoro professionale autonomo. L’orientamento di tipo informativo che si ottiene da un giornale a larga diffusione rischia di essere disorientante. Lo stesso avviene a partire dagli ambienti scolastici. Perché? “Vi focalizzate sui sintomi e ignorate le cause,”
afferma nel forum Generazione perduta un lavoratore autonomo
emigrato nel Regno Unito.22 Altri se la prendono direttamente e
senza mezzi termini con i giornalisti. Dichiara un formatore della provincia di Bergamo:
Lavorando quasi tutti i giorni porto a casa 1000-1200 euro al mese al lordo, spese incluse. Ho tirato un sospiro di sollievo quando
mi sono reso conto che anch’io avevo qualche santo in paradiso,
quando ho letto le parole di Massimo Giannini: nell’Italia di oggi
soffrono i dipendenti e gode chi si nasconde dietro a una partita
Iva.23
Fa seguito Danilo da Bologna, trentaquattro anni, consulente
della pubblica amministrazione: “Veniamo tacciati di evasione,
cosa che nel mio caso è falso in quanto lavoro per progetti finanziati dal pubblico”.24 Spesso emerge addirittura il contrario,
come raccontano due giovanissimi produttori di video e installazioni interattive che sono stanchi delle richieste di sorvolare
sulle fatture:
Inizialmente lavoravamo in casa, per limitare al massimo le spese, poi per cercare più clienti abbiamo deciso di prendere in affitto un piccolo fondo in condivisione con altri ragazzi, e con il piccolo giro lavorativo che ci siamo costruiti, riusciamo a pagare gli
affitti e a non dover chiedere soldi ai genitori, ma in tasca non resta mai nulla per potersi levare qualche sfizio o per fare un investimento. Siamo fortunati rispetto a tanti miei coetanei che passano da uno stage a un altro, senza trovare un posto sicuro. Ciò
che infastidisce di più è che i clienti, pur di spendere il meno possibile, chiedono di fare il lavoro in nero, contrattando anche su 20
euro di differenza, non curandosi del fatto che tu impieghi giornate intere per fare un lavoro al meglio. A loro interessa unicamente spendere poco. Il lavoro in nero è assolutamente contro133
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producente per tutti, e lo stato dovrebbe attivarsi e fare qualcosa
per limitare questo problema.25
Parole mai lette sul giornale di Confindustria o qualsiasi altra testata. È bastato aprire un forum dei lavoratori autonomi per
scoprire aspetti del tutto inediti che sfatano decenni di pregiudizi. Così come è possibile trovare storie positive anche là dove per
definizione si vuole percorrere in termini narrativi ancora una
volta sentieri interrotti. Ne è la riprova questa storia:
Sono laureata in Lingue. Al primo anno della scuola specialistica
ho cominciato a leggere in Rete e scopro il mondo dei traduttori
freelance. Studio, imparo, acquisto software e prendo certificazioni. Cominciano ad arrivare le prime risposte ai curriculum inviati.
I clienti aumentano. Contemporaneamente, faccio un master e comincio a insegnare inglese in un istituto professionale. Oggi, lavoro da casa con il pc, ho clienti che mi inviano lavoro costante e quest’anno arriverò a fatturare 50.000 euro, metà dei quali finiranno
nelle casse dello stato. Una pressione fiscale assurda, per servizi
scadenti. Tutto questo da sola, ma lavorando anche 14 ore al giorno, weekend compresi. Sono fortunata, perché posso propormi al
mondo, i miei clienti sono ovunque e faccio un lavoro che adoro.
Il lavoro autonomo è precario per definizione: oggi i clienti ti chiamano e domani non si fanno più sentire, ma mi sento lavorativamente soddisfatta, sono riuscita a crearmi uno spazio e l’ho fatto
da sola. Se non mi fossi creata questa possibilità, sarei sicuramente andata all’estero.26
Quando la parola passa al lavoratore, non filtrata secondo paradigmi e pregiudizi, emerge il vissuto e l’approccio critico più
genuino. Come traspare, per esempio, dall’intervento di un giovane lavoratore autonomo di Lecce, laureato in Scienze politiche
con un master in Scienze del lavoro, che lamenta una diffusa
mancanza di punti di riferimento e informazioni che aiutino giovani e meno giovani a costruire un percorso professionale.
La generazione X ci chiamavano negli anni novanta. Un caso sociologico di cui a molti di noi sfuggiva ancora il significato preciso.
L’avremmo capito bene nel decennio successivo. Quella variabile indicava una condizione di incertezza che nulla di buono lasciava presagire. Una generazione destinata, per la prima volta, a stare peggio
di quelle precedenti. Economicamente, psicologicamente, moralmente. Valori di riferimento: la tv generalista, i reality, l’aperitivo, lo
stage. L’edonismo cinico degli anni ottanta insieme a forme di sfruttamento anteguerra.27
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Un rischio che corrono in primo luogo proprio quei lavoratori che devono raccontare il nostro tempo, ovvero i giornalisti.
Denuncia un freelance di Venezia:
Va ricordato che il 70 per cento delle notizie che compaiono sui quotidiani locali è scritta da collaboratori, che lavorano 7 giorni su 7,
senza alcun rimborso spese, diritto, e con il rischio di essere cacciati
fuori da un giorno all’altro. Il tutto per meno di 8 euro ad articolo,
che magari ha richiesto un’intera giornata di lavoro.28
E che cosa resta nel setaccio, nelle narrazioni di oggi, tra le
righe di un giornale e i frame di un servizio tv quando si parla di
lavoro autonomo, se i primi a pagarne le conseguenze sono proprio loro, gli autori di queste storie? Rimane un grande punto interrogativo, la domanda generalizzata del lavoro autonomo rivolta a chi deve dargli voce. Resta la necessaria volontà di trovare una via d’uscita per potere contare. Che sia dentro o fuori dal
mondo della comunicazione tradizionale perché il racconto, come ricorda la Sestito,
svela qualcosa che altrimenti sarebbe inaccessibile anche all’autore ed è anche un modo di agganciarsi a una collettività e a un
contesto.29
È l’ambiente condiviso e la comunanza di una condizione che
vanno raccontate, possibilmente a microfoni aperti. In questo
manca un cambio di passo proprio nel momento di maggiore attenzione mai prestato al mondo delle partite Iva, quando la crisi morde e la decostruzione del sistema produttivo industriale e
le dinamiche del postfordismo mostrano la loro natura più viva,
rimettendo al centro delle trasformazioni il tema irrisolto del lavoro professionale autonomo. Insieme alla speranza che qualcosa cambi nel racconto del lavoro, è evidente la necessità di richiamare la forza di nuove coalizioni, ma è altrettanto palese il
rischio che in mancanza di aperture di nuovi spazi ci si affidi alle poche voci finora ascoltate. Scrive ingenuamente una giovane
lavoratrice indipendente di Salerno, sempre nel forum Generazione perduta:
Io chiedo alla redazione di “Repubblica” di coalizzarsi con altri giornali e di portare avanti questa battaglia per noi tutti, per favore. C’è
gente che studia, punta sulla propria autonomia economica, mentale, sulle proprie potenzialità e sente che non basta perché troppo
poco si pensa a questa generazione di persone capaci. Non sappiamo più che cosa fare, noi comuni mortali. Per favore, preferisco sup-
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plicare voi che un politico, [...] accantonate le competizioni tra giornali, unitevi per noi, fate un po’ di giornalismo realistico. Per favore! Grazie.
Il primo appello, come si può intuire, è fuori bersaglio. Le
coalizioni non nascono nel mondo dei media, ma tra lavoratori.
La seconda richiesta, invece, di raccontare correttamente il mondo del lavoro oggi è lo specchio di un disagio che dura oramai da
troppi anni.
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Precari e autonomi nell’economia dell’evento
Domanda: “Il lavoratore autonomo è un precario?”. Risposta:
“No”. Il lavoratore autonomo vive una condizione di precarietà
ma non è assimilabile ai precari. Poiché non è un passaggio così
evidente, proviamo a fare un passo indietro di quasi novant’anni
e riprendiamo in mano il vecchio Weber. Il filosofo utilizza il termine prekär per definire un ruolo universitario di ricercatore in
attesa della stabilizzazione. Anzi, un ruolo di docente, il Privatdozent, che in realtà era impegnato sia nella didattica sia nella ricerca ed era considerato dal professore ordinario una specie di
sua proprietà. Un’immagine calzante con la realtà di oggi, strettamente collegata a una figura dell’impiego pubblico, con una prospettiva di carriera definita da norme e usi riconosciuti dallo stato. E qui il paragone con il presente finisce, ma resta valido il fatto che il termine usato da Weber indica un figura la cui definizione dipende dal punto in cui si trova all’interno di un percorso
di carriera predeterminato, dal quale può uscire solo rinunciando alla professione o all’attività che si è scelta come fonte di sopravvivenza. È una figura di transizione verso uno status definito.
Oggi il termine “precario” indica una figura di transizione
verso uno status indefinito, con un orizzonte su diversi sbocchi
possibili, uno dei quali può essere il lavoro autonomo, ma per la
grande maggioranza dei soggetti è il lavoro dipendente, mentre
per un numero sempre crescente di persone è un susseguirsi di
contratti a termine, di collaborazioni, di stage non pagati ecc. La
radicale differenza tra il precario e il lavoratore autonomo è che
il primo tende a uscire dalla sua condizione mentre il lavoratore autonomo tende a consolidarla. Il lavoro indipendente, in particolare quello che abbiamo chiamato “di seconda generazione”,
non segue dinamiche molto diverse da quelle del lavoro subor137
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dinato. Se negli ultimi dieci-quindici anni le forme di contratti
“atipici” si sono moltiplicate e hanno cominciato a crescere rapidamente nell’ambito del lavoro salariato, non deve meravigliare se anche nella scelta del lavoro indipendente le persone
abbiano cominciato a praticare forme non standard. Se i contratti “atipici” collocano il soggetto in una specie di limbo tra occupazione, disoccupazione, precarietà, non c’è da meravigliarsi
se questo stesso soggetto aggiunge a queste forme di esistenza
dimezzata anche il lavoro indipendente, essendo un’opportunità
in più per sopravvivere. Le biografie di lavoro ormai sono biografie spezzate, di transizione continua da uno status all’altro.
La richiesta di essere riconosciuto come lavoratore indipendente, per la quale in molti paesi basta semplicemente avere un numero d’iscrizione (la nostra partita Iva) che identifica il soggetto nell’emissione della richiesta di pagamento della sua prestazione, può essere fatta non come scelta di vita ma come misura
prudenziale, di riserva. Per la signora Y o il signor X, scaduto
un contratto a tempo determinato, concluso un avviamento tramite l’agenzia di lavoro interinale, può aprirsi un periodo dove
trovano una committenza con la quale stabilire un rapporto di
lavoro indipendente. Oppure, viceversa, cominciano a prestare
consulenze a qualche cliente, poi capita un lavoro a tempo determinato e magari di quei clienti ne mantengono uno solo, lavorando anche la notte o nei fine settimana, si conclude il loro
periodo di lavoro a termine presso una ditta e, non trovando altro, rispolverano la loro partita Iva cercando di recuperare i vecchi clienti cui offrivano consulenza. In sostanza si assiste al moltiplicarsi di doppie figure di atipici/autonomi. Il punto importante è come riconoscerle e nominarle. La cultura dominante li
tratta da lavoratori incompleti (atipici) e falsi autonomi, ibridi
da confinare nell’universo dell’anomalia, finti come salariati e
finti come freelance. Invece sono maledettamente veri e rappresentano la maggior parte della popolazione in alcune fasce
d’età, anzi nella fascia d’età sulla quale si appoggia il futuro di
un paese e di una società. E sono maledettamente veri anche i
soldi che versano alle casse dello stato per avere in cambio un
pugno di mosche.
Per questo universo di lavoro insicuro, instabile, alcune correnti politiche e sindacali invocano la cosiddetta “stabilizzazione” collettiva. È una classica rivendicazione per ottenere un consenso facile ma effimero. Che la grande maggioranza delle persone preferisca una situazione di stabilità lavorativa e di continuità di reddito è incontestabile, che sia un obiettivo praticabile
dopo più di vent’anni di sistematica destrutturazione del lavoro
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e della produzione suscita più di un dubbio. Perché ingannare gli
altri e ingannare se stessi, allora? La stabilizzazione attuata mediante un atto d’imperio amministrativo potrebbe interessare soltanto il settore pubblico e all’interno di questo soltanto alcune
categorie di lavoratori, secondo una scala di priorità e dei parametri che dovrebbero essere applicabili universalmente. Ma è difficile immaginare che il settore privato possa modificare le sue
politiche di reclutamento in seguito a una norma legislativa; si
dovrebbe per intanto uscire dall’Unione europea, dato che il nostro paese ha firmato un trattato nel quale la libertà di mercato
è il principio fondamentale. Si legga il documento congedato dalla Commissione affari sociali del Parlamento europeo sui lavori
atipici: è lastricato di buone intenzioni, prende finalmente atto
della situazione preoccupante della qualità del lavoro in Europa,
ma se si tiene presente la macchinosità e la lentezza dei processi decisionali a livello europeo, prima che questo documento (nell’ipotesi migliore) produca una direttiva che venga recepita dai
paesi membri, e che dalla genericità delle buone intenzioni si passi a norme applicative nazionali, il mercato del lavoro ha tempo
di degradarsi per altri due-tre anni.1 Ha ragione quindi Maurizio
del Conte, docente di Diritto del lavoro all’Università Bocconi, il
quale, commentando una ricerca della Camera di commercio di
Milano e degli atenei lombardi, in cui si dimostrava la grande difficoltà dei laureati a trovare un’occupazione adeguata in quello
che è considerato uno dei mercati del lavoro più ricchi d’Italia,
invocava lo stop della produzione legislativa in materia di lavoro, giunta ormai a una tale complessità da risultare totalmente
inefficace nel modificare la situazione migliorandola (a peggiorarla invece ci riesce). Ingannano quelli che parlano di stabilizzazione collettiva, non perché la rivendicazione sia sbagliata ma
perché la soluzione legislativa è ormai impercorribile. O il lavoro, di qualunque tipo, si coalizza e fa sentire la propria voce imponendo un negoziato o non c’è via d’uscita. E poiché le forme
di coalizione non possono riprodurre quelle del lavoro a tempo
indeterminato di ieri e certe forme di negoziato sono impraticabili in quanto azioni collettive, si deve ripartire da zero, cioè dall’organizzazione tecnica dell’entità che rappresenta la domanda
di lavoro, per evitare di ripetere luoghi comuni per inerzia di pensiero sindacale.
Per questo ci è sembrato utile introdurre alcune testimonianze su un settore nel quale l’esistenza stessa dell’impresa è
temporanea, intermittente. Non è un’organizzazione stabile quella che si serve di forza lavoro flessibile, è un’organizzazione instabile che non può che richiedere forza lavoro intermittente,
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che può offrire solo occupazioni di breve durata. Qui il precariato è strutturale: non è una politica di reclutamento spregiudicata, né una bad practice. Non solo, è una forma organizzativa d’impresa che va a genio al professionista indipendente; è, si
potrebbe dire, il suo habitat naturale. Per chi lavora a progetto,
ed è abituato a essere retribuito “a corpo”, assumere commesse
da un’organizzazione stabile o da una instabile non cambia molto. In questo campo, dove la gestione di progetti complessi richiede molta più attività relazionale che attività creativa, il problema principale sono i tempi di pagamento e sotto questo profilo può capitare che l’affidabilità di un ente pubblico sia inferiore a quella di un privato. Ultimo, ma non per ordine
d’importanza, motivo per guardare con interesse a questo settore, è che produce introiti per le amministrazioni locali e per
certi enti statali senza fare ricorso a manovre fiscali. Pertanto,
date le difficoltà di bilancio di questi enti, è destinato a crescere. Dobbiamo quindi abituarci a ragionare su orizzonti che hanno margini d’instabilità molto più ampi e pensare che non tutti
gli effetti prodotti da settori economici dove l’attività è limitata
nel tempo sono negativi.
L’organizzazione del lavoro nell’economia degli eventi
Il lavoratore precario impegnato in mansioni che richiedono
un certo grado di scolarizzazione e di educazione superiore e il
professionista con partita Iva hanno mentalità profondamente
differenti e spesso progetti di vita diversi. Si assomigliano solo
nel senso che né l’uno né l’altro hanno percorsi di carriera (career patterns) definiti, ma nella vita di ogni giorno, in particolare
all’interno di certi mercati del lavoro specifici, si ritrovano gomito a gomito. Uno di questi mercati è rappresentato da un settore che ormai viene considerato una forza trainante del futuro
nei grandi agglomerati urbani dei paesi di prima industrializzazione. È quello che si usa contrassegnare con l’espressione “economia dell’evento”, dove per evento s’intende genericamente una
manifestazione aperta al pubblico di breve durata. Convergono
in questo settore, sin dai tempi antichi, diversi rami di attività,
dallo sport (giochi olimpici) al commercio (fiere) alla cultura (festival) all’industria (esposizioni universali). Ma l’accezione in cui
si usa oggi il termine “evento” più che al contenuto si riferisce alla modalità di esecuzione e dunque alla brevità di una manifestazione pubblica. Ci sono città la cui immagine nel mondo è legata a un solo evento (per esempio Siena e il suo Palio) e città do140
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ve l’organizzazione di eventi rappresenta uno dei motori dell’economia locale, come Milano. Gli eventi, come settore di business, sono stati analizzati sotto il profilo del significato simbolico, per la loro capacità di creare nuovi mercati e nuovi stili di
consumo, per il loro fondamentale apporto al turismo, per il nuovo modo di concepire la cultura. Nessun interesse sembra aver
suscitato negli osservatori la particolare caratteristica occupazionale che una città ad alta densità di eventi presenta. Come si
lavora nell’economia dell’evento? Se dovessimo chiedere a una
persona di media cultura come si lavora in miniera forse avremmo risposte più precise che se le chiedessimo come si lavora per
una mostra d’arte. È facilmente intuibile che l’economia dell’evento crea un mercato del lavoro di precarietà strutturale.
L’organizzazione necessaria alla realizzazione di una manifestazione pubblica concentrata nel tempo è costituita in genere da
un nucleo molto ristretto di forza lavoro stabile, da una forza lavoro occasionale che viene impiegata nel periodo limitato in cui
l’evento ha luogo e da una forza lavoro indefinita a disposizione
dei fornitori di servizi di cui l’evento necessita per la sua realizzazione. È un mercato del lavoro “a fisarmonica”, ma nelle città
dove la densità di eventi è molto elevata assume la funzione di
volano che genera centinaia o migliaia di occasioni di lavoro, offrendo a certe imprese specializzate nella fornitura di servizi – si
pensi a quelle dell’allestimento – un mercato di proporzioni così
vaste da saturare le loro risorse. Il problema quindi non è tanto
di domanda di lavoro ma semmai di liquidità perché, paradossalmente, più concentrato nel tempo è il lavoro, più il committente ritarda i pagamenti o addirittura non paga affatto un fornitore o un collaboratore o un consulente, dei quali forse non
avrà più bisogno, senza contare quelle entità responsabili del contratto che nascono e muoiono con l’evento, praticando una politica del “chi s’è visto, s’è visto”. Quindi è un settore ad alto rischio,
che fa leva sugli aspetti di reputazione sociale o di semplice convivenza e convivialità per far accettare alla forza lavoro occasionale, in genere molto giovane e scolarizzata, compensi da miseria. Poiché le “cattive pratiche” vi sono diffuse, acquista rapidamente prestigio e considerazione l’organizzazione che garantisce
correttezza e celerità dei pagamenti. È un settore questo dove il
ruolo della pubblica amministrazione e dei governi locali è invasivo, sia in senso buono, come finanziatori, sia in senso negativo, in termini di vincoli burocratici ai quali viene sottoposto ogni
evento che utilizza spazi pubblici o destinati a uso pubblico. Gli
eventi quindi rappresentano non solo un notevole investimento
per i comuni ma anche una fonte di introiti di una certa rilevan141
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za; l’evento può rappresentare una forma di servizio al cittadino,
può essere usato come politica dei circenses destinata a far dimenticare il caos del traffico e l’uso selvaggio del territorio urbano, rappresenta uno strumento di marketing territoriale e un
modo di far cassa, ma anche una maniera per tenere in vita istituzioni che hanno costi di gestione elevati, come i musei.2 Se nel
periodo fordista il tipico evento su cui poteva contare Milano aveva natura commerciale, le fiere (alle quali andrebbero assimilate al giorno d’oggi le sfilate di moda o altre manifestazioni per
promuovere un prodotto), nel periodo postfordista l’evento tipico è quello di natura “culturale” (mostre, concerti, spettacoli,
proiezioni), quindi la forza lavoro occasionale più richiesta ha
un’educazione superiore e l’insieme viene fatto rientrare in quel
grande calderone battezzato “economia della creatività”.3
Arte
Come si analizzano i modelli occupazionali dell’economia degli eventi? L’approccio più semplice ci è parso quello che si usava cinquant’anni fa per analizzare la condizione di fabbrica: incontrare una persona che lavora nel settore da diversi anni, intende continuare a farlo, conosce l’ambiente, svolge una mansione importante del ciclo produttivo, ne ha una visione d’insieme,
e farsi raccontare in cosa consiste il suo lavoro. Così come una
volta l’incontro con un operaio di una certa anzianità lavorativa,
impegnato in attività sindacali, conoscitore del ciclo produttivo
per la qualifica acquisita o la mansione svolta, permetteva di conoscere l’organizzazione seriale di fabbrica, il suo assetto tecnologico e le strutture gerarchiche – elementi tra loro strettamente
connessi –, allo stesso modo oggi è necessario cogliere nel racconto tutti gli aspetti “relazionali” che consentano di avere un
quadro del sistema a rete tipico delle produzioni postfordiste.
L’organico della grande fabbrica è sostituito dai diversi “gironi”
di forza lavoro che ruotano attorno a un evento, il carico di lavoro non è più espresso in quantità orarie ma deve essere estrapolato dal racconto, il gesto lavorativo, il movimento fisico in rapporto alla macchina, è sostituito dal problema da risolvere, cioè
da un’entità che non si può misurare in termini di tempo e di spazio. La narrazione elenca i problemi da affrontare, non descrive
le modalità di soluzione, ogni problema contiene in sé un carico
di lavoro relazionale destinato a rimanere indefinito nel racconto. Ambienti di lavoro totalmente differenti richiedono stili di
narrazione molto diversi, il problema non sta nel formato della
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narrazione ma nella capacità di lettura dell’analista. Il testimone
privilegiato deve darci in mano il filo d’Arianna, se saremo bravi
non ci perderemo nel labirinto.
Corrado Anselmi è un architetto specializzato nella progettazione di allestimenti temporanei e stabili per mostre d’arte, ha
uno studio a Milano dove viene affiancato da alcuni giovani collaboratori. I suoi committenti sono società private che gestiscono l’organizzazione di mostre d’arte, e anche enti pubblici come
gallerie d’arte o musei, statali o comunali, che decidono di gestire direttamente l’evento con il personale proprio, supportato da
alcune figure professionali esterne. Anche se si tratta di istituzioni pubbliche, alla fine la committenza è privata, perché né lo
stato né i comuni sono più in grado di gestire i grandi complessi museali. Si è affermata quindi, sulla base di procedure di gara
a evidenza pubblica, una pratica di outsourcing per cui l’intera
gestione è affidata a terzi, per quanto riguarda sia l’offerta espositiva permanente sia le mostre temporanee.4
Le dinamiche di acquisizione dei clienti, per un libero professionista come me, seguono i canali informali del passaparola, un cliente
che si è trovato soddisfatto del mio lavoro lo dice all’altro e così via.
Il progetto architettonico parte dalla sequenza delle opere,
così com’è stata concepita dal curatore scientifico della mostra.
Il progettista deve fare i conti subito con il limite fisico dello spazio in cui viene organizzata l’esposizione; talvolta la stessa mostra si sposta da un luogo all’altro, in spazi completamente differenti, quindi è necessario ri-progettare l’allestimento e può capitare che il progettista proponga al curatore di articolare diversamente la narrazione, seguendo un altro percorso espositivo. I tempi di consegna dei progetti sono molto variabili: il limite minimo sono un paio di mesi, un progetto comodo e complesso di norma richiede sei mesi, dall’ordine al giorno dell’inaugurazione.
In che consiste il mio lavoro? Debbo capire le opere, capire se ci
sono tutte le condizioni per realizzare la mostra in termini di sicurezza, gestibilità degli spazi per come si offrono (evitando di accatastare le opere una sull’altra), debbo riuscire a immaginare la
percezione finale, quindi è un lavoro architettonico di scelta dei
colori, dei supporti, dei materiali e dell’illuminazione. Ho bisogno
talvolta del supporto di un collega per l’illuminazione e anche di
quello di un grafico per la resa migliore di tutto l’apparato didascalico-informativo e anche delle immagini usate nell’allestimento.
Altre volte è lo stesso ente che ospita la mostra ad avere propri tec143
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nici, così come può capitare che la società fornitrice dell’impianto di
illuminazione decida di svolgere il ruolo di sponsor tecnico. Importante è il rapporto con il curatore, con il quale il dialogo è continuo
e varia a seconda delle caratteristiche della persona; se è uno storico, uno studioso puro, avrà maggiori rigidità nella definizione dell’articolazione espositiva, mentre se è uno con esperienza di problemi espositivi sarà più disposto a una maggiore fantasia nella narrazione, qualora i limiti fisici dello spazio costituiscano un vincolo. Poi
l’idea architettonica deve essere tramutata in qualcosa di esecutivo,
occorre preparare un progetto grafico e un capitolato nel quale saper dire gli ordini di grandezza della fornitura per ottenere tramite
gara il miglior costo dell’opera. Le ditte che dovranno partecipare alla gara molto spesso vengono proposte da me, oppure la società di
gestione ricorre a dei suoi fornitori abituali, e in genere si chiedono
tre preventivi. Sovente il committente non ti dice quanto vuole spendere, ma aspetta la tua valutazione e sei tu quindi che rischi di presentare un costo più alto delle aspettative. Poiché parametri oggettivi non esistono, il modo migliore per trattare è quello di presentare
un’idea molto convincente, affinché la committenza sia disponibile
al raggiungimento dell’idea proposta. Per fare questo è molto importante la maniera in cui il progetto viene reso accattivante. È a quel
punto che si rivelano i limiti di budget, o ci sta o non ci sta. Per starci, quando il budget è insufficiente, ci sono tre vie d’uscita: chiedere
ribassi alle ditte, rimodulare il progetto o cercare di avere qualche
fondo in più per coprire i costi imprevisti (per esempio entra un partner tecnico oppure un altro ente decide di partecipare pagando una
parte dell’allestimento che poi prevede di utilizzare in altre mostre),
insomma s’innesca un meccanismo di ingegnerizzazione del costo.
Superati questi ostacoli si passa finalmente al contratto, le ditte in
genere sarebbero abituate a chiedere un anticipo, lo stesso il professionista, ma oggi risulta molto difficile da ottenere, e le ditte o i professionisti sono pagati a 90/120 giorni quando va bene, con ritardi
che spesso superano i 180 giorni; avere conoscenza del referente è la
base fondamentale, non c’è contratto che tenga; siccome non si vuole mai arrivare a un contenzioso, questa situazione di grande precarietà si affronta e si supera solo con un buon rapporto con il committente; spetta a me anche il compito di seguire l’avanzamento dei
lavori in cantiere con la responsabilità formale che la cosa vada a
buon fine; seguo tutte le fasi delegando alcuni ruoli ai miei assistenti; i fornitori riconoscono la mia autorità, che mi è conferita dal committente gestore, che poi è quello che li paga; altre volte, quando ci
sono sponsorizzazioni o relazioni particolari con qualche soggetto,
è il gestore che controlla direttamente e io faccio solo il curatore estetico, mi assumo solo la direzione artistica; sono queste le situazioni
più comode perché è il gestore a essere responsabile del cantiere e io
ho solo la responsabilità della riuscita dell’idea. Alla fine l’aspetto più
propriamente creativo impegna dal 2 al 5 per cento del lavoro, tutto
il resto sono capacità relazionali e organizzative.
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Il valore degli oggetti esposti e gli alti costi (si pensi alle assicurazioni) che una mostra d’arte importante richiede, hanno
determinato una situazione di mercato di oligopolio, dominato
da pochi grandi gruppi in grado di aggiudicarsi le gare indette
dagli enti pubblici. La domanda è espressa da musei e altre istituzioni permanenti, che nelle mostre temporanee trovano ormai
una fonte di finanziamento dei costi fissi, oppure da gallerie
d’arte e altre istituzioni private che arricchiscono il loro calendario con eventi temporanei, oppure da iniziative private che finanziano direttamente l’evento o lo propongono a un comune
in co-finanziamento.5 Per certe città minori o comuni di provincia una grande mostra d’arte della durata di due-tre mesi può
rappresentare un investimento con ricadute positive sul piano
dell’immagine e dunque anche dei flussi turistici. I gruppi che
oggi controllano il mercato fanno capo ambedue a case editrici
specializzate in libri d’arte, Mondadori Electa e Skira, in permanente competizione. Mondadori Electa ha recentemente stretto un’alleanza con un gigante come la Réunion des musées nationaux, che nel paese d’oltralpe gode di una situazione di quasi monopolio. Terzo gruppo di rilevante presenza è Civita, nato
su impulso del banchiere romano Gianfranco Imperatori come
progetto pubblico di conservazione e restauro di Civita di Bagnoregio e poi diventato via via un sistema integrato di servizi
molto articolato, con sempre maggiore presenza dei privati, mediante la fusione con il gruppo Abete e l’acquisizione della società Opera che gestisce la Galleria degli Uffizi.6 Nel 1991 viene
costituita l’associazione Civita alla quale aderiscono circa centottanta società italiane e straniere e un centro studi. Civita ha
avuto il merito di porre la questione della conservazione e della
valorizzazione del patrimonio artistico e archeologico in una visione globale e moderna, sottolineando l’importanza di un approccio imprenditoriale ma senza cadere nell’esaltazione acritica della privatizzazione a tutti i costi. Preziosi in tal senso i suoi
rapporti annuali e in particolare, ai fini del nostro discorso, quello del 2007 sulle figure professionali del settore e sullo stato della formazione specialistica in Italia.7 Interessante anche una delle ultime ricerche relativa all’impegno delle imprese nel sostenere la promozione e la valorizzazione dei beni artistici e culturali: l’85 per cento delle imprese del campione intervistato sceglie come investimento d’immagine l’evento temporaneo, solo
un 4 per cento finanzia restauri.8
Visitando il sito della Réunion des musées nationaux (www.
rmn.fr), si comprende come queste società di gestione abbiano
acquisito e sviluppato tutte le tecniche di promozione, di marke145
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ting, di servizi post-vendita, normalmente applicate dalle multinazionali di prodotti di largo consumo. Un museo come il Louvre
è una macchina che macina servizi con un giro d’affari da suscitare invidia in qualunque grande marca. Le gare d’appalto chiedono alla società di gestione di curare il prestito, l’allestimento,
la biglietteria, la libreria, il catalogo, la promozione. Gli introiti
derivanti da queste attività rimangono alla società di gestione che
paga all’ente pubblico un affitto. Non tutti i luoghi d’arte pubblici rappresentano un boccone appetibile per le società di gestione, alcuni hanno un numero di visitatori molto elevato, altri
no; è invalso allora l’uso di tener conto, nell’aggiudicazione di
una gara, della disponibilità della società ad accollarsi anche
l’onere di gestire un’istituzione che stenta a sopravvivere per scarsità di visitatori. La stessa società di gestione può talvolta incaricarsi di produrre una mostra, assumendosi il rischio d’impresa,
provvede dunque a firmare il contratto con il curatore scientifico, a gestire tutti i prestiti, tutti i rapporti con le assicurazioni e
tutti i contratti con i fornitori, a organizzare il trasporto, il montaggio, a realizzare il manufatto architettonico ed eventuali oggetti che la mostra richiede (in certi casi il proprietario può esigere che le sue opere vengano esposte rinchiuse in vetrine blindate costruite su misura), deve pensare al rapporto con gli autori dei testi, alle ricerche storiche o iconografiche, al prestito
delle foto, e infine alla pubblicazione del catalogo. I cataloghi
possono fare la differenza; se ormai lo standard di una mostra
temporanea è di 100.000 visitatori per arrivare a coprire i costi,
la vendita di 30-40.000 copie del catalogo può portare un utile
consistente. Anche nel caso in cui il gestore ottenga dei finanziamenti da parte dell’ente che può avergli commissionato
l’iniziativa, è suo il compito di cercare gli sponsor, che possono
essere anche sponsor tecnici, per esempio le assicurazioni, i trasporti o le luci.
Il cliente vuole da me un prezzo chiuso, devo saper prevedere quanto tempo dedicherò a quel progetto, quali costi dovrò sopportare per
collaboratori, disegni, copie, viaggi. Se il mio calcolo è sbagliato vado in perdita. L’allestimento incide sui costi della produzione di una
mostra in proporzione molto variabile. La parte illuminotecnica è
una voce significativa ma non preponderante, tranne nel caso in cui
l’allestimento sia fatto di sole luci, e spesso si possono riciclare materiali esistenti, oppure i musei hanno impianti luci preesistenti;
l’allestimento ha tempi strettissimi, si realizza in pochi giorni lavorando di continuo, senza orario, per stare nei tempi dati dai prestatori e dal museo ospitante, e il numero di operai necessario varia
moltissimo, da quattro a venti; in genere si lavora dodici ore al gior146
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no, ma in prossimità dell’inaugurazione si fanno anche straordinari notturni che non vengono riconosciuti come straordinari, perché
sono opere “a corpo”; spesso il problema delle ditte fornitrici, poiché non riescono a garantirsi tempi di pagamento sicuri, è quello di
assicurarsi liquidità tramite fidi bancari; certe volte fanno grossi
sconti sulla base di una promessa di pagamenti rapidi che poi non
avvengono: nel 2009 molti di questi allestitori si sono visti dimezzare il fido, con ordini di grandezza di 25-30.000 euro l’anno di interessi; le ditte specializzate in allestimenti sono in origine delle falegnamerie, ma sempre più spesso appaiono sul mercato società che
si specializzano in organizzazione di eventi, le quali assumono il
ruolo di main contractor e provvedono a tutto: trasporti, materiali
speciali da procurare in poco tempo, impianti, strutture metalliche
particolari con manodopera specializzata per montarle ecc.; sono
società di servizi, dotate di strutture, professionalità, geometri, architetti, ingegneri e debbono essere in grado di prendere in mano
un progetto e di portarlo a termine, utilizzando ovviamente dei
subfornitori; sono in grande quello che sono nello specifico le società di gestione di stand e di fiere, quelle che montano e smontano
gli stessi stand o debbono costruirne di nuovi per una nuova location; per sfilate di moda o eventi che durano una serata, l’allestimento
ha lo stesso tempo di vita, una serata e poi si butta via oppure si usano materiali prefabbricati, perché in realtà non è un manufatto architettonico ma il canale di un messaggio.
Quel che non appare evidente nell’economia dell’evento è la
forte componente artigianal-industriale, è il lavoro operaio di alta specializzazione, in genere ben retribuito, con ritmi di lavoro
molto intensi e una struttura della retribuzione non rapportata né
al tempo di lavoro né alla produttività, alla dipendenza di imprese dalle dimensioni molto modeste con permanenti problemi di
liquidità. Il settore dell’allestimento è la versione effimera dell’impiantistica, è un ciclo composto, non va dimenticato, da due
fasi, quella del montaggio e quella del disallestimento. Un altro
aspetto di grande interesse riguarda i trasporti in sicurezza. Le
mostre temporanee utilizzano opere d’arte prestate da musei di
tutto il mondo. C’è quindi un flusso continuo di opere e oggetti
d’arte che vanno e vengono sotto la regia di società specializzate
che dichiarano d’impiegare le tecnologie più sofisticate di identificazione in radiofrequenza, di tracciabilità dell’oggetto per via satellitare e così via. Dispongono di centri di stoccaggio e di transito specializzati, che garantiscono alle opere adeguate condizioni
di temperatura, umidità, illuminazione ecc. Provengono in genere dal settore della contract logistics, possono essere i dipartimenti specializzati in trasporto di opere d’arte di grandi multinazionali del settore, presenti con filiali in tutto il mondo oppure so147
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cietà di media grandezza, come l’italiana Arteria, che di recente
ha inaugurato a Malpensa il primo caveau aeroportuale d’Europa
per opere d’arte. Quindi con l’economia dell’evento Milano ha
mantenuto in parte il suo retroterra industriale; voler intendere
questo settore solo come produzione intellettuale di beni immateriali è una visione incompleta. Volendolo raffigurare come un
meccanismo cibernetico, questo settore non si presenta come una
grande ruota dentata che ne mette in moto tante più piccole, ma
come una piccola ruota in movimento continuo che provoca la
rotazione di tante grandi ruote per intervalli brevi. Il core manpower che produce l’evento si limita a poche persone a tempo pieno, che fanno girare una macchina capace di suscitare una domanda di centinaia di occasioni d’impiego. Non possiamo più
chiamarli “posti di lavoro”, sono occupazioni di breve o brevissima durata distribuite su tre fasce di lavoratori: alte professionalità, che svolgono le funzioni chiave; forza lavoro precaria, che
svolge funzioni ausiliarie per un breve periodo e forza lavoro industriale con qualifiche tecniche. Anche se a queste fasce corrispondono in genere la libera professione, i vari contratti a tempo
determinato o occupazioni senza contratto e il lavoro dipendente, quindi in sostanza tutte le tre principali tipologie di rapporto
di lavoro, compresa la funzione imprenditoriale, ciò che le accomuna è un’organizzazione nella quale la nozione di tempo di lavoro è esplosa in frantumi. L’“orario di lavoro”, la “giornata di lavoro”, sia in quanto parametri della struttura retributiva sia in
quanto scansione dei tempi di vita, non esistono più. Altrettanto
si può dire per la nozione di “luogo di lavoro”. L’economia dell’evento può essere considerata da questo punto di vista la quintessenza del postfordismo, a maggior ragione se la si osserva dal punto di vista del fruitore, del pubblico, un aspetto che finora non abbiamo toccato perché c’interessa di più il processo produttivo dell’evento che la partecipazione all’evento stesso. Il pubblico assolve
alle prescrizioni di consumo del ceto medio, partecipa consumando
e sviluppa una percezione tutta particolare della città, vive per metà
come residente, preso dai problemi quotidiani dell’universo metropolitano, e per metà come ospite di spazi artificiali.
Musica
MITO SettembreMusica è un festival nato alla fine degli anni
settanta a Torino con il nome SettembreMusica, che nel 2007 si
è ingrandito ed esteso all’area metropolitana di Milano. Questo
festival bicefalo, pur avendo un unico comitato di coordinamen-
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to, presieduto da Francesco Micheli, e un’unica direzione artistica, ha una doppia regia dal punto di vista sia organizzativo sia
amministrativo.9 Qui parleremo solo della sua componente milanese, che al suo quarto anno di vita, nel 2010, ha organizzato
nell’arco di tre settimane più di 200 manifestazioni con 2000 artisti, superando i 96.000 spettatori, con una saturazione dei posti disponibili del 97 per cento e con 91 concerti a pagamento che
hanno fatto il “tutto esaurito” (la metà dei concerti è gratuita).10
Lo staff milanese è composto da sette persone che lavorano per
l’intero arco dell’anno (il segretario generale/coordinatore artistico, coadiuvato da un assistente, i responsabili dell’organizzazione, della comunicazione e della produzione, e un assistente
per l’organizzazione interna).
Da marzo a ottobre lo staff si arricchisce di due professionalità, una per la biglietteria e una per la promozione. A giugno
cominciano ad arrivare i “rinforzi”, ossia il personale ausiliario
che lavorerà fino alla conclusione degli spettacoli (in genere tra
il 20 e il 25 settembre), una trentina di persone il cui rapporto
di lavoro è regolato da contratti di collaborazione a progetto o
con partita Iva; verranno assegnate ai vari responsabili di funzione e lavoreranno sotto il loro coordinamento. Si tratta in genere di giovani tra i venticinque e i trent’anni che desiderano affermarsi nel settore dell’organizzazione di eventi, e che hanno
già qualche esperienza maturata in campo musicale. Qualche
giorno prima dell’inaugurazione e fino alla conclusione del festival si aggiunge il personale di servizio e di assistenza (autisti
e addetti all’accoglienza degli artisti, per esempio). In definitiva
si ha un ristretto gruppo con contratti di lavoro annuali, il gruppo più nutrito con contratti di quattro mesi e un altro gruppo ristretto con contratti della durata di un mese; nel periodo di lavoro più intenso si raggiunge un numero di una quarantina di
persone. A ogni concerto sono presenti degli incaricati del settore produzione (catering, logistica, accoglienza), comunicazione (ufficio stampa, programmi di sala), biglietteria e promozione, coordinati da un direttore di produzione, in totale una decina di persone chiaramente identificabili dagli artisti e dal pubblico (badge o divisa).
Lavorare nel mondo della musica classica significa trovarsi
di fronte a una situazione spaccata in due: da un lato ci sono le
grandi istituzioni teatrali o le scuole pubbliche statali (medie e
conservatori), che prevedono rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato o rapporti di lavoro a termine ma sempre regolati da contratti nazionali di categoria. Dall’altro quello che c’è
naviga nella precarietà più assoluta e sfiora talvolta l’illegalità.
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Spesso chi tiene le redini di queste iniziative fa affidamento sulla passione dei collaboratori per la musica, sul coinvolgimento
intellettuale ed emotivo del singolo o forse pensa all’ancestrale
percezione del musicante (e di chi con il suo lavoro fa in modo
che esso possa esibirsi) come un vagabondo che vive di offerte
spontanee. MITO SettembreMusica è certamente un esempio positivo di come il lavoro potrebbe essere organizzato.
Con un contributo al budget che si aggira intorno al 50 per
cento, i due comuni di Torino e di Milano sono impegnati in prima persona nella realizzazione di MITO SettembreMusica. Come
si è detto, la gestione amministrativa e organizzativa del festival
è separata: a Milano è stata istituita l’Associazione per il Festival internazionale della musica di Milano e a Torino la Fondazione per le attività musicali: sono in sostanza il braccio operativo delle due amministrazioni comunali e rappresentano di fatto il soggetto attuatore della manifestazione, la cui direzione artistica è affidata a Enzo Restagno. La realizzazione di un festival di questa tipologia in due città consente di avere una condivisione di costi e una razionalizzazione degli stessi. Per esempio,
a un’orchestra che deve spostarsi, magari dagli Stati Uniti, offrire due o più concerti invece di uno è già un vantaggio poiché,
per consuetudine, la replica di un concerto prevede un cachet dimezzato; quindi si hanno maggiori margini a livello di trattativa per il compenso artistico e il costo dei viaggi internazionali
sarà suddiviso tra due entità. Cambiando settore, altri vantaggi
possono derivare dal concentrare la stampa dei programmi generali e dei programmi di sala in un’unica tipografia, affidando
molto lavoro a un unico fornitore che potrà offrire prezzi più
vantaggiosi. Un fattore importante nella riuscita della manifestazione milanese è stato quello di poter contare sul know how,
sull’esperienza e sui rapporti consolidati del SettembreMusica
torinese, in modo da poter funzionare a Milano a pieno regime
e in autonomia già dalla prima edizione, agevolati dal fatto che
il formato della manifestazione è lo stesso: grande musica sinfonica classica, nuove proposte della musica contemporanea e focus sulla musica di un paese. Nell’impianto del festival, un ruolo importante lo hanno le istituzioni culturali delle due città, che
sono state coinvolte con il loro patrimonio di esperienze e di conoscenze.
Infatti nella realizzazione del festival ci sono contatti importanti con le altre istituzioni milanesi, come il Teatro alla Scala,
la Filarmonica della Scala, il Piccolo Teatro, la Triennale, il Conservatorio, I pomeriggi musicali, i musei, le chiese ecc. Il festival
ha sempre dato grande importanza al coinvolgimento della città,
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soprattutto per diffondere la “musica d’arte”, come definita da
Maurizio Pollini, e raggiungere un nuovo pubblico; per esempio
il concerto della Filarmonica della Scala è stato organizzato presso il Palasharp, una delle sedi milanesi più capienti, dando la possibilità di ascoltare la grande musica sinfonica eseguita da un’orchestra di alto profilo artistico con un biglietto d’ingresso a 5 euro. Nel 2010 è stato rappresentato un nuovo lavoro di Giorgio
Battistelli, Sconcerto, in collaborazione con il Piccolo Teatro, il
Teatro San Carlo e i Teatri Uniti di Napoli, frutto di questa politica di collaborazione tra enti culturali.
Nelle edizioni del 2009 e 2010 alla programmazione normale si è aggiunta una parte fringe, ossia manifestazioni gratuite
che si tengono nelle strade, nei parchi, nelle stazioni della metropolitana. Forse per analogia con il Festival di Edimburgo,
l’idea è che la città debba essere invasa dalla musica, occupando spazi non deputati oppure risvegliando tradizioni musicali
dimenticate, come i concerti bandistici al gazebo dei Giardini di
Porta Venezia.
Il risultato è stato che nel 2010 sono state toccate 80 sedi. Sono inoltre da considerare le problematiche che pongono le richieste tecniche, dal permesso per il camion che deve scaricare
gli strumenti al noleggio degli strumenti, dalle cose apparentemente più banali come l’acqua nei camerini alle prenotazioni alberghiere, ai service luci e amplificazioni. Lavorare in un teatro
o per la stagione sinfonica di un’orchestra che hanno programmazioni annuali è molto diverso, l’impostazione organizzativa ha
ben poco a vedere con quella di un festival concentrato in un breve periodo di tempo, dove si deve lavorare molto in anticipo e
programmare tutto nei minimi dettagli. I concerti cominciano a
settembre, dopo un mese, agosto, durante il quale a Milano tutto è chiuso, dalle ditte di fornitura alle sale.
La biglietteria è uno dei servizi più delicati, gestisce gli incassi, viene quindi realizzata con una società di servizi specializzata, dotata di software proprietari e di sistemi a rete. Le presenze a Milano sono tra le 70 e le 80.000. Fa capo alla biglietteria inoltre un info point che fornisce informazioni non solo sulla vendita dei biglietti ma anche sui programmi dei concerti.
Uno dei problemi delicati nell’organizzazione di un festival
internazionale di musica è quello degli adempimenti amministrativi, in particolare nei confronti di due enti, l’Enpals e la Siae.
È bastato che le pratiche Enpals, fino a tre anni fa obbligatoriamente sbrigate allo sportello rispettando gli orari di lavoro dell’ente, potessero essere fatte online, che il lavoro di un’associazione impegnata nell’organizzazione di centinaia di eventi con151
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centrati nell’arco di tre settimane ne subisse una notevole semplificazione, dal momento che la cosiddetta “agibilità Enpals” deve essere ottenuta obbligatoriamente prima dell’inizio del concerto. Ma anche il problema delle autorizzazioni e dei permessi
non è di secondaria importanza, le normative che regolano gli
spazi adibiti a uso di pubblico spettacolo si applicano anche a
quelli che di norma non ospitano spettacoli o concerti. Nelle sale da concerto normali c’è l’agibilità per fare manifestazioni pubbliche ma per gli spazi dedicati ad altre attività, per esempio mostre d’arte, occorre chiedere la licenza per fare un concerto, prevedere quindi un piano di sicurezza, avere un responsabile sicurezza, chiamare i vigili del fuoco. Per allestimenti più complessi
occorrono le certificazioni sui materiali usati; anche per semplici modifiche nell’attrezzatura normale di una sala, per esempio
collocare sedie sulla pista da ballo di una discoteca, è necessaria
un’autorizzazione, per collocare un totem su un marciapiede ci
vuole un permesso.
Magnete Milano
“Economia della temporaneità” la chiama qualcuno che ci sta
dentro fino al collo. Si potrebbe analizzare lo sviluppo dell’immobiliare a Milano anche da questo punto di vista e provare a
calcolare la percentuale dedicata agli spazi per eventi temporanei sul totale delle volumetrie che vengono messe in vendita o affittate a usi commerciali. Il caso del quartiere che si è dato il marchio “zona Tortona” rappresenta uno spaccato interessante sulle diverse origini e le varie tipologie di spazi architettonici pensati in funzione di eventi. Territorio occupato per circa ottant’anni
da industrie, vero e proprio polo della prima e della seconda industrializzazione, il quartiere ha rappresentato per un certo periodo un esempio riuscito di trasformazione da modi di produzione fordisti ad attività della new economy mediante il riutilizzo di spazi esistenti, senza alterazioni del tessuto urbano, senza
cancellare le tracce del suo passato industriale. Gli interventi che
hanno segnato questo passaggio, la creazione del cosiddetto Superstudio negli edifici della Compagnia generale di elettricità e
la costituzione della Fondazione Arnaldo Pomodoro negli edifici dell’antica fabbrica di turbine Riva Calzoni s’inseriscono nel
filone dell’economia della temporaneità, il Superstudio per scelta programmatica ed esclusiva, la Fondazione Pomodoro come
integrazione della sua attività permanente. Queste due iniziative, partite ambedue da privati, hanno creato un effetto magnete
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attirando nella zona grandi marchi della moda, dal gruppo Armani a Ermenegildo Zegna, a Della Valle, che hanno aperto spazi per show-room in grado di ospitare eventi come sfilate di moda, presentazioni di prodotti e simili. L’accoppiata moda-design
è costitutiva dell’immagine di Milano nel mondo. Facendo leva
su questa grande forza simbolica, una volta all’anno, in contemporanea con il Salone del Mobile, quindi con una tradizionale
occasione fieristica, nel quartiere “brandizzato” come “zona Tortona” si tiene una delle manifestazioni più originali dell’economia della temporaneità, il cosiddetto “Fuorisalone”. La particolarità di questo evento espositivo di oggetti o di idee di design è
la sua pervasività urbana, nel senso che non soltanto i luoghi deputati ne sono coinvolti, ma anche spazi che ospitano durante
l’anno attività commerciali di tutt’altra natura e persino abitazioni private e uffici. L’elettrauto sgombera la sua officina e per
una settimana l’affitta a un gruppo di giovani designer olandesi,
la microimpresa sgombera il garage dove tiene il furgone e lo affitta a designer giapponesi, l’architetto che ha lo studio sul fronte strada al pianterreno trasloca per una settimana, il negozio di
oggettistica un po’ volgare lascia libero il locale a un’esposizione di mobili in cartapesta. Persino piccole officine meccaniche
proprietarie dei muri hanno preferito chiudere l’attività e affittare lo spazio per eventi. L’economia della temporaneità diventa
per una settimana quella di un intero quartiere. Ma non ci sono
solo giovani designer in cerca di gloria che affittano uno spazio
e magari ci dormono dentro nei sacchi a pelo, ci sono anche le
grandi marche, Yamaha con i suoi strumenti elettronici, Swarovski con i suoi lustrini e i suoi cristalli, Persol con i suoi occhiali e via dicendo. Cinquanta-sessantamila visitatori, per metà
provenienti dall’estero e in particolare dal Giappone e dalla Cina, invadono per una settimana le strade e i cortili del quartiere, lasciando alla notte sul selciato uno strato di dépliant, stampati vari, materiali promozionali. Il giorno prima dell’inaugurazione e quello successivo alla chiusura le strade sono invase dai
mezzi degli allestitori, pesanti Tir con semirimorchio o furgoni
di tutte le portate; in un evento che si svolge in spazi non deputati la loro abilità di fare e disfare in ventiquattr’ore raggiunge livelli di virtuosismo.11
L’evento, tutti gli eventi degni di questo nome, sono bolle di
sapone occupazionali dove il precariato la fa da padrone ma anche il lavoro professionale indipendente si trova a suo agio. Sotto il profilo dei soggetti direttamente coinvolti, ma anche dal punto di vista della fruizione, l’economia della temporaneità sembra
costruita su misura per queste figure. In fondo, la cosa di cui il
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giovane – che vive di lavori occasionali, a termine, al confine tra
l’entertainment e il mondo dei media, della pubblicità, della moda – sente il maggior bisogno sono le occasioni d’incontro, perché può trovare un’occupazione, può arricchire il suo sistema di
relazioni, può apprendere qualcosa o semplicemente può passare un paio d’ore in compagnia. L’economia della temporaneità
risponde a questo bisogno di relazioni sociali destrutturate, tipico della sindrome individualista contemporanea. I giovani stranieri che vengono a Milano pare apprezzino particolarmente
questa forma di “movida” che s’intreccia tra un finto vernissage
e un altro, e in effetti la sua funzione inclusiva non è di secondaria importanza. La giostra della temporaneità è sia un ammortizzatore di frustrazioni sia un dispensatore d’informazioni.
A un livello più selettivo lo stesso discorso vale per il libero professionista. Se teniamo conto che il lavoro relazionale impegna
il 90 per cento delle sue energie, possiamo considerare il tempo
dedicato all’economia della temporaneità come tempo di lavoro
e gli spazi dove i rituali della temporaneità vengono celebrati veri e propri luoghi di lavoro. Pertanto è del tutto fuorviante classificare la fruizione di certe occasioni d’incontro come “mondanità”, gli eventi – ci insegnano i teorici del biocapitalismo – sono luoghi di lavoro per un certo tipo di precariato e di attività
svolte in modo autonomo. Nel quadro del sempre maggiore rilievo che l’economia degli eventi temporanei assume a Milano,
non ci deve meravigliare se luoghi come la Triennale diventano
un punto di riferimento simbolico, una specie di segno di riconoscimento dell’identità cittadina, come il Duomo o la Scala.
Identità e coalizione
Il termine “precario” che prima indicava una posizione contrattuale nel mercato del lavoro oggi indica un’appartenenza sociale. Dei due ordini simbolici, quello del precario e quello dell’indipendente, il primo ha acquisito una forza maggiore e ha ottenuto una riconoscibilità che il lavoro autonomo ancora si sogna. Per due ragioni. I precari hanno prodotto protesta. L’unico
modo con il quale il lavoro può farsi ascoltare, ma non da oggi, è
la protesta, nelle forme riconosciute dello sciopero o delle manifestazioni pubbliche preparate da campagne di informazione e di
opinione sulla stampa e su Internet. I lavoratori autonomi, pur
avendo alcune categorie le stesse se non maggiori ragioni per protestare, non lo hanno fatto, sono rimasti chiusi in casa a reprimere le loro frustrazioni oppure hanno scelto il vicolo cieco del
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professionalismo, cioè qualcosa che non li porterà mai a rappresentare un soggetto sociale. La seconda ragione per la quale i precari hanno maggiore riconoscibilità è riconducibile al fatto che la
cultura dominante li ha assimilati – in parte giustamente – al lavoro dipendente, e tutto ciò che si relaziona al lavoro dipendente, com’è noto, può essere comunicato più facilmente allo spazio
pubblico, dove trova, se non simpatia, almeno comprensione. Il
lavoro autonomo oggi è ancora ignorato dalla cultura dominante, se ne ignorano le caratteristiche anche più elementari, malgrado rappresenti più di un quarto della forza lavoro attiva in Italia. I precari sono riusciti a farsi percepire come “precariato”, come una classe sociale in grado anche di parlare una lingua comune, seppur elementare, mentre gli autonomi non ci sono ancora riusciti o non hanno ancora capito di doverci riuscire.
Tanto maggiore è il potere di un gruppo sociale quanto minore è la distanza tra il modo in cui viene rappresentato/raccontato
e il suo vero volto, la sua vera voce. Se da questo punto di vista il
lavoro autonomo è debolissimo, anche per il precariato la situazione non è del tutto facile. Il precariato è un sistema di desideri più che uno status sociale: c’è chi vorrebbe entrare nel lavoro
dipendente secondo un preciso percorso di carriera in un settore in cui ha scelto di investire la sua esistenza, chi vorrebbe entrare nel lavoro dipendente in qualsivoglia luogo pur di uscire
dalla condizione di precario, c’è chi attenua il desiderio sino al
punto di rassegnarsi a essere precario per tutta la vita, chi desidera il precariato permanente perché non vuole investire la sua
esistenza in un percorso lavorativo. E poi tutte le sfumature tra
queste posizioni, i cambiamenti d’idea e di mentalità, la reazione ad agenti esterni o a nuove normative ecc., per cui il consistente soggetto sociale si stempera in una nebulosa. Il lavoro autonomo non ha queste ramificazioni del desiderio, è una scelta
che una volta compiuta costituisce stimolo a starci dentro il meglio possibile. Il precario tende ad attribuire prevalentemente ad
agenti esterni la sua condizione, l’indipendente a disposizioni dell’io. Il precario dà la colpa agli altri, l’indipendente a se stesso. Il
precario non si attribuisce meriti se riesce a migliorare la sua posizione, parla solo di “fortuna”, l’indipendente se ne attribuisce
troppi di meriti, parla molto di “successo”. Sono due mentalità
differenti o addirittura opposte, due visioni del mondo diverse,
due sistemi morali divergenti.
Tuttavia, anche ai precari capita di sentirsi definire da terzi,
estranei al loro mondo, che non condividono affatto i loro interessi, anzi, vivono del loro sfruttamento, traggono risorse da
quelle che vengono estorte ai precari medesimi. Si pensi alla per155
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vicacia con la quale si continua a definire il precario con regime fiscale analogo a quello degli autonomi, non un falso precario ma un falso autonomo. Se il precario (collaboratore a progetto) viene spinto ad aprire la partita Iva, il problema che si presenta per lui è dato dal fatto che si trova di colpo a dover versare contributi che prima erano versati dal datore di lavoro o committente, quindi si trova con lo stesso lavoro di prima, con la
stessa instabilità e incertezza, ma con meno soldi in tasca. Il problema non è se lui sia un finto o un vero autonomo, il problema
è che lui sta peggio e ha bisogno quindi di un’organizzazione, di
una coalizione che lo sostenga. Invece cosa trova? Dei saccenti
che ripetono: “Sono ancora aumentati i finti autonomi”, e si fregano le mani, come se si fossero messi in tasca qualcosa. E in
effetti ci hanno guadagnato. Le risorse che le cosiddette “finte
partita Iva” gettano nel calderone pubblico prima di tutto non
sono affatto “finte” ma sono soldi veri; in secondo luogo vanno
a beneficio di altre categorie, non certo a quella del precariato.
Né a lui/lei né al lavoratore autonomo in generale tornano indietro sotto forma di servizi i soldi che hanno versato allo stato.
È più probabile che queste risorse vadano a mantenere il regime previdenziale di chi dispensa definizioni e sembra indifferente al fatto che il precario (ex Co.Co.Pro. passato alla partita
Iva) stia peggio. In genere i dispensatori di definizioni invocano
a gran voce un aumento dei contributi che le partite Iva dovrebbero versare allo stato, quindi in definitiva si agitano per
farle stare ancora peggio. I cosiddetti “finti autonomi” dovrebbero guardarsi da coloro che così li definiscono sulla base di narrazioni sociologiche superficiali, perché in genere sono gli stessi che con le loro elucubrazioni di politica sociale contribuiscono a peggiorare sia la condizione dei collaboratori passati alla
partita Iva, sia quella dei professionisti indipendenti. Invece troppo spesso accade il contrario, che gli ex Co.Co.Co. si accodano,
gratificati dall’essere trattenuti ancora nell’ordine simbolico del
lavoro dipendente e, invece di unirsi ai lavoratori autonomi per
una migliore politica previdenziale e fiscale, preferiscono intrupparsi con quelli che non possono portare loro altro che danno. Le distanze tendono a rimpicciolirsi e le diversità ad attenuarsi quando i soggetti in gioco non sono i precari in generale
ma il precariato intellettuale da un lato e i lavoratori indipendenti delle “nuove” professioni dall’altro, non il lavoro autonomo in generale. L’obiettivo di lotta comune più chiaro, più facilmente percepibile, e al tempo stesso il bersaglio più grosso,
quello che smuove interessi più consistenti e richiede quindi una
disponibilità a scontrarsi con rendite di posizione e “interessi
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generali” dello stato ben protetti e pronti a reagire, è quello che
riguarda i versamenti obbligatori all’Istituto di previdenza. È qui
che le due categorie che non appartengono al lavoro dipendente possono toccare con mano la natura discriminatoria della normativa previdenziale in Italia. È qui che possono verificare la loro collocazione in una fascia di cittadini di serie B, è qui che subiscono l’azione predatoria di uno stato che dovrebbe tutelarli
e, per colmo di arroganza, li depreda non mediante pratiche oblique che tolgono con una mano quel che sottraggono con l’altra,
ma proprio attraverso lo strumento deputato alla tutela. Perché
di fronte a una così evidente, sfacciata iniquità, non si sviluppa
in Italia una protesta di massa? Si può parlare d’immaturità, di
generico menefreghismo, d’ignoranza? Certo, c’è tutto questo e
il particolare che immaturità, menefreghismo e ignoranza allignino presso ceti colti, presso il cosiddetto “precariato cognitivo” e presso le “nuove” professioni intellettuali non fa onore. Ma
questo atteggiamento viene condizionato e in un certo senso incoraggiato dal comportamento delle principali sigle sindacali e
in particolare dai loro vertici, i quali, invece di smascherare e
combattere un’evidente ingiustizia sociale, premono perché questa diventi ancora più ingiusta e l’arroganza con cui lo stato discrimina diventi vera e propria provocazione. Per quanto i discorsi e i comportamenti dei vertici sindacali trovino poco ascolto presso il precariato intellettuale, condizionano fortemente la
percezione collettiva in materia di lavoro e da qui indirettamente
anche il mondo dei precari, con o senza partita Iva. Le associazioni di professionisti, d’altro canto, in particolare quelle che si
battono per rinverdire la vecchia ideologia del professionalismo
e per riprodurre nell’universo delle “nuove” professioni gli schemi e gli ordinamenti di quelle tradizionali, chiedendo riconoscimento allo stato e legittimazione pubblica del loro ruolo di
regolatori del mercato, sono state sempre ambigue sul terreno
delle politiche previdenziali o addirittura se ne sono disinteressate apertamente, cercando una sempre maggiore convergenza
con i vertici sindacali e con le istituzioni. Coronamento di questo percorso: l’assemblea che si è tenuta a Roma, con il patrocinio della Presidenza della Repubblica, il 22 ottobre 2010. Ma su
questo torneremo in seguito.
Proprio lo stesso giorno l’Associazione consulenti terziario
avanzato (Acta) lanciava da Milano il suo “Manifesto del lavoro
autonomo di seconda generazione”. La scelta della data non era
casuale, il gesto di contrapporsi a una politica associativa fallimentare e contraria agli interessi del lavoro cognitivo indipendente, era voluta. Nessuno poteva ignorare che oramai c’erano
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due strade per arrivare a una coalizione: quella ancora impastoiata nella cultura della competenza esclusiva, dei codici etici
ormai divorati dal mercato, dell’ossequio alle burocrazie amministrative e sindacali, e quella della semplice, cristallina, difesa e
tutela degli interessi di chi si coalizza, principio etico fondamentale di qualunque forma associativa che intenda perseguire
scopi sindacali. Non si tratta di due tattiche differenti, si tratta
di due posizioni di principio contrapposte, culturalmente e politicamente divergenti.
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6.
Lavorare a che prezzo?
Tra le numerose ontologie possibili sul mondo del lavoro professionale autonomo c’è un aspetto che stenta a entrare nella lente d’ingrandimento anche dei più attenti lettori del fenomeno: è
la questione dei compensi, il quantum che accompagna la qualità delle prestazioni di lavoro, ovvero la misura e il prezzo dell’opera e del tempo impiegato per produrla. Difficile imbattersi
in una seria analisi che metta a nudo quanto sia giusta oggi la
“paga dei freelance” o le ragioni che ne determinano il valore. La
prassi, la letteratura e gli articoli di giornale sono concentrati su
altro, sugli stipendi, sulla contrattazione di primo o secondo livello, sul potere dei salari o sulle dinamiche che legano carriera
e stipendi, perché con queste analisi si guadagna attenzione e
consenso, soprattutto nella rappresentanza politica e sindacale,
e ci si presenta come esperti di quanto avviene nelle tasche degli
italiani. Poco o nulla trapela sui compensi dei lavoratori intellettuali autonomi, anche perché le fonti che si citano quando si
parla del valore economico del lavoro sono quasi sempre le stesse: le rilevazioni Istat sugli andamenti dei salari, i rinnovi contrattuali, le scelte di compensation interne alle imprese e alcuni
benchmark retributivi realizzati da Hay Group, Watson Wyatt,
OD&M Consulting e altre società specializzate.1 Mentre sappiamo con certezza se l’inflazione aggredisce i salari e chi sono i più
o i meno pagati in azienda, non c’è statistica ufficiale sul reddito medio di un programmatore freelance o sul compenso di un
formatore perché sono quotazioni che non interessano né chi fa
progettazione di politiche pubbliche né i direttori delle risorse
umane. Al massimo riguardano nicchie e settori specialistici. Il
risultato? Da una parte la forte deregolamentazione dei compensi
per il lavoro professionale, dall’altra un’assenza piuttosto sconfor159
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tante di studi e valutazioni di sintesi che facilitino il compito al
legislatore nel prendere decisioni di rilevanza sociale o che aiutino la politica e il mondo della ricerca a comprendere meglio le
condizioni del lavoro di milioni di cittadini.
Avvicinarsi al tema del compenso per via descrittiva
Quanto vale oggi in Italia il lavoro intellettuale e cognitivo?
Come fare fronte alla questione dei prezzi o da dove partire per
circoscrivere il valore economico del lavoro autonomo? Che cosa distingue il dumping, lo sfruttamento, il giusto compenso? È
così deleterio lavorare gratis pur di lavorare? Senza affrontare a
viso aperto questi nodi è difficile approntare una vera critica delle relazioni tra imprese e professionisti indipendenti o discutere
di reale mobilità sociale e valore della conoscenza. L’erosione del
potere d’acquisto dei salari, peraltro stagnanti da almeno quindici anni, e i tagli ai compensi professionali sono piuttosto evidenti. Il lavoro si deteriora con il passare del tempo e guadagnano di più gli investitori di Borsa e chi punta sulle rendite finanziarie o patrimoniali, certamente meno tassate e preservate da
governi di destra come fossero riserve auree intoccabili. Per i lavoratori autonomi il problema è ancora più complesso: manca
una fonte autorevole di tipo statistico o altro che fotografi ciò che
sta accadendo oggi in Italia o in Europa e lo certifichi. Non c’è
alcun monitoraggio istituzionale sui loro redditi, nessun sindacato chiede di saperlo.
Come entrare allora nel cuore del problema? Senza valori
aggregati da cui partire, la via più semplice è quella di raccogliere le testimonianze dei singoli, studiare i meccanismi specifici di quotazione così come sono messi in atto dalle famiglie
professionali che popolano lo spazio del lavoro autonomo e derivarne modelli interpretativi. Un tentativo del genere fu approntato in occasione di alcuni seminari promossi da Acta –
Associazione consulenti del terziario avanzato.2 Proviamo a ripercorrere il discorso, questa volta ampliandolo, a partire da
una constatazione che riguarda la legge. Uno dei pochi punti
saldi che la normativa italiana pone su questo argomento, ovvero l’indicazione del Codice civile sulla misura di un compenso
– che “deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”3 –, purtroppo lascia oggi il tempo che
trova. È sistematicamente scavalcata. Non lo dimostrano soltanto i miseri compensi offerti in molti casi dalle imprese ai
freelance, ma lo stesso comportamento di chi per primo do160
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vrebbe rispettare le regole, ovvero la pubblica amministrazione. Dal ministero del Turismo ai tribunali le vicende che interessano per esempio i traduttori e gli interpreti sono preoccupanti. Ha tenuto banco nel febbraio del 2010 la notizia che il
ministero del Turismo cercasse traduttori per localizzare in inglese, francese, tedesco e spagnolo il sito www.italia.it, il portale che avrebbe dovuto rappresentare il nostro paese agli occhi di possibili visitatori stranieri. Cartelle da 2600 battute, fuori standard, furono quotate ufficialmente 9 euro lordi, con pagamento a 90 giorni. “È un prezzo molto basso, ma si deve pensare alla quantità e alla continuità del lavoro,” si lesse nell’annuncio pubblicato su Internet subito cancellato per la veemente
protesta scatenata in Rete e finita poi con un’interrogazione
parlamentare. Pare assurdo, ma neppure nelle aule di giustizia
si può parlare di giusto compenso. Come è stato riportato nel
corso del sessantesimo anniversario di Aiti, Associazione italiana traduttori e interpreti, le tariffe per chi lavora nei tribunali sono ferme dal 1980 e pari a 14,68 euro lordi per la prima
vacazione (equivalente a 2 ore di lavoro) e 8,15 euro per ciascuna delle successive, pagate peraltro dopo anni di attesa. Compensi inferiori alle tariffe medie di operai extracomunitari che
lavorano in nero nel settore dell’edilizia a Milano.4 Un’eccezione? Niente affatto. Il dumping è molto spesso dentro le maglie dello stato che per primo omette controlli su appalti o dimentica di uniformare al costo della vita quanto offerto ai collaboratori. Nel settore privato come in quello pubblico non esistono regole uniche o normative per stabilire a priori il giusto
compenso di un lavoro intellettuale o indipendente. Ci sono al
massimo buone e cattive pratiche, forse qualche modello, ma
poco più. Ciascun professionista si trova in una posizione unica sul mercato e sembra proprio che l’astrazione o il tentativo
di isolare sistemi condivisi di quotazione tradisca quasi sempre le attese. Si possono invece raccogliere esperienze, abbozzare modelli e riunire le informazioni condivise che animano
le comunità professionali. Il mondo dell’informatica, della formazione o delle traduzioni, per esempio, ha codificato e trasmette le proprie regole con il semplice passaparola: in questi
settori c’è uniformità anche rispetto a quanto adottato dai committenti e non è complesso risalire alla struttura di un compenso. Per altre professioni le cose sono più complicate perché
esiste una maggiore libertà nell’uso dei parametri unitari di costo: un designer non vende le sue opere al metro cubo e neppure un consulente nel settore energetico si fa pagare i consigli a seconda della lunghezza dei documenti prodotti. Al di là
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delle differenze c’è una questione piuttosto delicata che riguarda
tutti. È il cosiddetto total reward, ovvero il modo con cui si valuta la “paga complessiva” e l’insieme di tutti gli elementi economici e non solo monetari che formano la ricompensa per il
lavoro prestato. Quale premio si attende un lavoratore indipendente, una figura abituata alle sfide, che ama la contaminazione dei saperi, fare esperienze e soprattutto mette passione in ciò che fa? Che cosa lo soddisfa veramente, soltanto i soldi? Nel costo del lavoro non c’è soltanto la componente retributiva, ma molto di più.
La soddisfazione delle parti non basta
Possiamo dire che il prezzo di una consulenza sia sempre il
frutto di un bilanciato meccanismo di valutazione di almeno tre
elementi: 1) il valore di un’attività espressa in “tempo impiegato” o riferito alle competenze messe in campo (lato che riguarda il prestatore d’opera); 2) il valore che si misura attraverso i
benefici che le imprese maturano nell’immediato o, molto più
spesso, nel corso del tempo (lato che interessa il committente);
3) la forza tra le parti in gioco. Il giusto mix di questi fattori determina una corretta quotazione del lavoro del professionista.
Viste le disparità delle forze in campo è indubbio, però, che il
punto più critico sia il terzo, l’equilibrio tra le parti, e che non
basti sostenere – come rispose un professionista del mondo della pubblicità alla domanda su quale fosse il giusto compenso
nell’ambito del lavoro creativo – che “il prezzo giusto sia soltanto quello che rende soddisfatte entrambe le parti”.5 Il total
reward è più complesso e articolato: la definizione di “giusto” in
quanto “accettabile” in una negoziazione tra due attori non equivalenti per forza contrattuale è un buon punto di partenza,6 ma
non è sufficiente per definire quanto vale davvero un lavoro, perché esclude elementi pur minimi di diritto, uguali per tutti, a tutela delle parti più deboli. Questo modo di vedere la questione
descrive al massimo quanto si riesce a portare a casa, a strappare al cliente, ma giusto non è equivalente ad accettabile anche perché nel mondo del lavoro autonomo non sussistono mai
la libertà di trattare ad armi pari e una concorrenza davvero
aperta. La stessa definizione di “soddisfazione”, implicita nel ragionamento, non è per nulla scontata. Nell’ambito del lavoro dipendente identifica classi di valori ben determinati,7 vantaggi e
beni offerti nel sistema complessivo di ricompense e che lo sviluppo moderno delle imprese ha ben articolato, pesando ele162
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menti individuali e organizzativi, di carriera e personali. Ma nel
contesto del lavoro autonomo di quali benefici si tratta? Non
certo di piani di carriera, auto o cellulari aziendali, vicinanza al
luogo di lavoro, buon rapporto con il capo ecc. Il professionista
può puntare sì alla ricchezza, ma ciò che lo distingue sono skills,
knowledge e soprattutto elementi più intimi, legati al sapere tacito, al suo specifico character e alla possibilità di esercitare un’attività liberamente. Per il freelance i benefici si regolano all’interno della vita personale e del suo rapporto con il mercato e la
società civile, dove le sfide e i rischi sono più ampi e variabili rispetto a quelli di chi accetta vincoli di subordinazione e gode
della protezione di un contesto organizzativo strutturato, oltre
che di una normativa consolidata, forte e di un welfare migliore. Il “contesto” di un consulente è composto dall’home-office,
dalla società e dalla propria nicchia di mercato, un insieme di
mondi che non hanno soluzioni di continuità. Qui ogni equilibrio temporaneo, ogni soddisfazione personale e momento di libertà hanno regole che si devono confrontare sempre con la vita e con i (pochi) diritti di cittadinanza di cui si gode, oltre che
con i princìpi professionali e la passione che mantengono vivo
il proprio lavoro. Nel bilanciare esperienze e opportunità, sforzi e risultati, un traduttore non vende i servizi allo stesso modo
di un designer; un programmatore segue percorsi del tutto diversi da un art director o da un formatore. Nel total reward di
un lavoratore autonomo ci sono fattori relazionali e motivazionali molto personali, attese individuali uniche che rendono le
singole posizioni ed esperienze di lavoro indipendenti e al tempo stesso riservate.
Massimi e minimi, tra paradossi e privilegi
Mentre non è possibile nella contrattazione di un salario individuale, il compenso di un lavoratore intellettuale autonomo
può oscillare tra compensi estremi che vanno da un massimo di
438.000 euro l’ora, come pare abbia chiesto un Tony Blair “conferenziere freelance”,8 alle attività gratuite e pro bono. La cosa
può stupire, ma è noto che più un compenso si avvicina a zero,
più elevata sarà la possibilità di trovare un’occupazione. Un freelance ha perciò maggiori libertà, ma anche occasioni di “farsi male con le proprie mani” o applicare prezzi da capogiro, definendo in maniera elastica quali elementi sommare in quella che definisce ricompensa. Può muoversi con flessibilità tra sottocosto
e sovrapprezzo e imbattersi perfino in una curiosa contraddi163
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zione, almeno in Italia: non incontra regole di stop loss, ma redditi presunti da dichiarare, questi sì. Niente salari minimi nazionali (presenti nel 90 per cento dei paesi al mondo, ma non in
Italia) che potrebbero fornire limiti invalicabili in pejus nella contrattazione di un lavoro su base oraria, ma guai a superare determinati fatturati annui fissati con cura dallo stato attraverso gli
studi di settore. Questo significa che le famiglie professionali
sprovviste di tariffari forti e ben rispettati9 possono vedersi azzerare le proprie quotazioni sul mercato senza battere ciglio e per
di più devono fare i conti con “redditi presunti”. Molti lavoratori indipendenti, consigliati dal commercialista e propensi a evitare contenziosi con il fisco, cercano in ogni modo di rientrare
nei parametri reddituali fissati dagli studi di settore per evitare
di finire nel vortice della burocrazia e sprecare tempo in dispute
contro l’Agenzia delle entrate.10 L’oscillazione tra massimi e minimi avviene così tra paradossi e privilegi e quando gli affari vanno davvero male non ci si può avvalere di norme a tutela del proprio reddito. Al contrario, se un’ispezione dell’Agenzia delle entrate lo richiede, occorre dimostrare il motivo per cui non si arriva alla fine del mese.
I tariffari sono la soluzione?
Per alcuni lavoratori autonomi c’è una strada che mette potenzialmente in salvo da questi estremi almeno nella corsa al ribasso, ed è il tradizionale tariffario alla maniera degli ordini professionali. Per molto tempo le tariffe minime hanno rappresentato un ombrello sotto il quale ripararsi e accreditare comunque
una certa professionalità, ma è difficile stabilire quanto fossero
realmente adeguate alle prestazioni. Dal punto di vista economico sono l’equivalente convenzionale del certificato professionale nell’ambito del sapere. Sono cioè quotazioni che precedono
le prestazioni, garantite ex ante da un certificatore pubblico, il
cui potere sanzionatorio o disciplinare è però andato scemando
negli anni. Medici, avvocati e notai, avvalendosi dell’ideologia
professionale, non espongono le competenze e il sapere alle quotazioni di mercato, ma le codificano con regole proprie per salvaguardare riconoscimenti economici di base e istituire una classe retributiva minima da attribuire ai meriti, secondo quel principio di meritocrazia che sottintende soltanto in maniera fittizia
una competition. Ora, non è per nulla chiaro il motivo per cui una
visita specialistica da un fisiatra arrivi a costare 160 euro per un
controllo che dura soltanto venti minuti. Basta fare due conti per
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capire come queste cifre portino a ricavi potenziali di quasi 4000
euro al giorno per questo medico. Come quantificare l’esatta conoscenza e il valore dell’azione di tamburellare il martelletto sul
mio ginocchio? La risposta fornita dagli ordini è semplice: occorre fidarsi del sistema di certificazione delle competenze. Le
credenziali degli ordini e i titoli di studio che rendono oggettivo
il sapere giustificano la definizione di queste tariffe. Fine della
discussione. È una motivazione senza ragioni, che si radica in
una cultura del professionalism che abbiamo criticato nel secondo capitolo, ma che ha retto anche grazie a una debolezza intrinseca del “mercato” che è rappresentato in Italia, in prevalenza, da privati cittadini deboli nell’acquisto di servizi e senza nessuna possibilità di rivalsa. Che cosa accadrebbe se dovessero davvero confrontarsi con un mercato aperto, dove i privati fossero
in grado di ribellarsi per costi esorbitanti di prestazioni di chi
sulla carta, secondo una genesi delle professioni liberali, doveva
essere “al servizio dei cittadini”? Oppure che cosa succederebbe
se questo mercato dei singoli venisse filtrato e intermediato per
intero da imprese di “brokeraggio del lavoro professionale”, come avviene per esempio nel mondo della formazione o della ricerca in ambito pubblico? Per i giornalisti il sistema delle tariffe è andato presto in frantumi, anzi non è mai decollato, proprio
perché hanno come committenti soltanto imprese editoriali. Il
meccanismo ha protetto però negli anni gran parte delle professioni liberali, evitando di mettere in crisi il sapere (presunto o oggettivo) da loro rappresentato. Chi è mai riuscito a pagare un notaio o un medico a ore? Non è difficile intuire come mai il decreto Bersani non abbia cambiato molto. Le economie dei servizi in capo alle professioni ordinistiche permangono chiuse: sono
la struttura stessa e la genesi costitutiva del professionalismo a
esigerlo. La cultura della tariffa, il corporativismo e il riconoscimento formale del sapere sopravvivono nei fatti e non si può certo parlare di mercati guidati dalla domanda come avviene per chi
lavora esclusivamente con le imprese e la pubblica amministrazione. Questo significa che la libertà di dare valore al sapere non
si può introdurre ex lege e che l’applicazione dei tariffari dentro
e fuori dagli ordinamenti avviene dove si riesce a controllare un
mercato dal lato dell’offerta. L’unica possibile inversione di rotta è eventualmente praticabile in quei contesti dove è il diritto
pubblico a prevalere su quello commerciale. I tariffari formali
definiti da chi svolge una professione e dai suoi rappresentanti
potrebbero per questo avere un senso nella pubblica amministrazione, per definire insieme alle associazioni di ogni tipo che
raccolgono i lavoratori della conoscenza eventuali linee guida sui
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limiti invalicabili di quanto viene considerato dumping sociale,
almeno nel lavoro commissionato dallo stato.
Vendere lavoro autonomo ai lavoratori dipendenti,
quando il monopsonio è di tipo psicologico
Da dove partire, dunque, per valutare il giusto compenso di
una consulenza? Andiamo per gradi e vediamo come si “costruisce” un prezzo. La prima cosa che fa un lavoratore autonomo
quando deve formulare un preventivo è alzare il telefono e chiedere consiglio a persone che operano nel suo stesso campo. A prima vista può apparire un’esplicita violazione del più normale
principio di concorrenza (non fare sapere ai competitor il tuo posizionamento sui prezzi), ma in realtà è una prassi comune tra
freelance. La cerchia di amici è il primo ambito di consultazione per stabilire i benchmark. “Tu quanto chiederesti per...?” si domanda in giro. I professionisti con esperienza, tuttavia, fanno
qualcosa di meglio: chiedono direttamente al cliente quale sia il
budget a disposizione. Questa strada è molto più efficace della
prima, e dimostra implicitamente, nel caso di lavoro intellettuale autonomo, fuori dal formalismo di un tariffario, quanto la priorità nella contrattazione sui prezzi sia determinata dalla domanda. Conta di più sapere che cosa pensano i clienti anche per una
seconda ragione. Un investimento fatto sulla consulenza esterna
produce molto spesso una significativa discrepanza tra il suo valore economico e l’iscrizione dei risultati ottenuti nello stato patrimoniale di un’impresa o disparità del tutto imprevedibili tra
spesa corrente e valore intrinseco di alcuni asset aziendali. Si
pensi alla quotazione del brand aziendale che viene indicata nello stato patrimoniale di un’impresa e al reale costo per la sua produzione. Sono dinamiche aleatorie, ma c’è almeno un punto fermo irriducibile: ciò che viene acquisito da un consulente è iscritto a bilancio da qualche parte. Ogni budget delle varie aree produttive segue logiche precise, percorsi di autorizzazione e scritture contabili determinate. Chi vende un servizio a un’impresa
deve accettare di conseguenza buona parte delle sue regole di
quotazione del valore perché è l’impresa a tenere i cordoni della borsa, o meglio, perché sono i suoi buyer, i suoi controller, i
suoi responsabili di divisione e i suoi amministrativi e (soltanto
in ultima battuta, purtroppo) i suoi manager di medio livello, che
acquisiscono la manodopera esterna. Sono loro a determinare la
bontà di una spesa e le regole di governo interno a instradare i
costi, fissando tetti di spesa per l’outsourcing e determinando i
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margini operativi. Nelle imprese in cui è più marcata la propensione a creare valore attraverso processi finanziari rispetto a quelli industriali, ovvero là dove prevale la logica del profitto su quella
dell’investimento (una dinamica piuttosto diffusa e non estranea
alle ragioni della crisi odierna), il consulente si trova di fronte a
un muro e per spuntare buone quotazioni deve mettere in atto
strategie molto ricercate di negoziazione. Più forte è il peso posto da un’impresa sulla governance dei costi, più complesso sarà
evitare l’appiattimento dei prezzi. Un livellamento che accade nelle grandi imprese, in particolare in quelle soggette alla pianificazione dei budget o alla rendicontazione trimestrale dei profitti, e comincia a farsi strada anche nelle medie e piccole aziende
o nella pubblica amministrazione, dove si cerca di ridurre i costi del lavoro mediante l’impiego di lavoro a termine e autonomo
per ovviare ai limiti imposti dai tagli sulla spesa.
Le regole piacciono, soprattutto ai controller, ma non è da
sottovalutare un fattore psicologico. Chi sono gli acquirenti che
si rivolgono ai lavoratori indipendenti? Persone che hanno un
lavoro alle dipendenze e che per interpretare i valori economici
hanno una maggiore predisposizione a usare regole interne, comprese quelle relative alla remunerazione, un’abitudine accompagnata purtroppo da una diffusa impreparazione in materia di
costi del lavoro autonomo. Questo mix di consuetudini, cultura
aziendalista e deficit informativi ha portato a un’interessante
conseguenza, che dimostreremo tra breve: l’affermazione progressiva di modelli retributivi tipici del mondo del lavoro dipendente anche all’esterno per i compensi offerti ai freelance.
L’estensione cioè delle politiche retributive interne fuori dai vincoli di subordinazione.
Il modello di prezzo basato sulle equivalenze tra in e out
Proviamo a seguire una linea di raccordo tra insider e outsider, per capire di che cosa si tratta. Chi opera in azienda parte
dal modello più semplice a lui più vicino per replicare verso
l’esterno la quotazione di una risorsa. Non accade sempre, ma
sembra essere una “naturale predisposizione” e ne offriremo alcune prove. Per esempio, la domanda più tipica che si pone chi
fuoriesce da un’impresa nel riproporre la sua manodopera sul
mercato è: “Quale dovrebbe essere una giusta fattura mensile come consulente per arrivare a ottenere ciò che prima si percepiva
in qualità di dipendente?”.11 È evidentemente una domanda posta in termini astratti, ma è un quesito piuttosto comune tra fi167
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gure in uscita dal mercato del lavoro dipendente, che nasconde
l’incapacità di immaginare qualcosa di diverso e di più rispetto
a uno status lavorativo che consenta di produrre e ottenere un
reddito incardinato unicamente sulla componente retributiva (salario) calcolata in primo luogo su parametri temporali. Questo è
un approccio a un tempo inevitabile e sbagliato, ma assai diffuso poiché fornisce risposte valide soltanto per alcune situazioni.
Se veramente volessimo rispondere alla domanda “A quale
prezzo occorre rivendere i servizi a un’azienda perché la vita lavorativa sia in equilibrio con il costo del lavoro, i diritti e le prestazioni di un lavoratore medio che opera sul mercato?”, dovremmo porre un freelance alla pari di un dipendente, entrando
in competizione con i suoi costi e usando i parametri con cui solitamente si leggono le dinamiche retributive all’interno di un’impresa. È un esperimento che potremmo anche fare perché, in fondo, stiamo parlando dello stesso mercato del lavoro.
Chi obietta che tra retribuzioni da lavoro dipendente e autonomo non vi sia correlazione alcuna può facilmente ricredersi
leggendo lo studio di Todd Gabe, Kristen Colby e Kathleen Bell,12
dove si mette in evidenza la relazione che esiste tra stipendi aziendali medi e tasso di diffusione geografica di professionalità creative, in gran parte rappresentate da professionisti indipendenti.
Là dove cresce il numero di queste figure aumenta anche il livello
retributivo medio dei lavoratori dipendenti. Curioso no?
Proviamo allora a verificare fin dove si arriva con questa logica, normalizzando le condizioni retributive dei lavoratori indipendenti sulla base di regole che riguardano 15 milioni di persone in Italia. Diciamo pretestuosamente che il freelance che
dobbiamo retribuire per il suo lavoro: 1) svolge attività (a grandi linee) assimilabili a quelle svolte in azienda in aree funzionali che richiedono le medesime conoscenze, ovvero che non sia
uno specialista di nicchia assente nella maggior parte delle imprese come potrebbero essere, per esempio, un avvocato di diritto fallimentare, un esperto di compliance per i mercati extraeuropei, un designer specializzato nell’immagine coordinata
e figure del genere; 2) propone servizi mantenendo un prezzo simile a quello applicato al costo del lavoro di un dipendente che
svolge le stesse attività in azienda; 3) desidera avere una vita
“normale” con weekend di riposo, festività, malattia retribuita e
via discorrendo, compreso un accumulo di liquidità, come trattamento di fine rapporto, e il pagamento di tasse e previdenza
come accade in azienda. Tutto questo rende il lavoro “standard”,
non atipico. È un escamotage che ci serve per costruire un percorso euristico, arrivando a identificare costi lordi equiparabi168
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li. È evidente che poi i valori netti che ne derivano per dipendenti e freelance siano diversi, ma in questo momento proviamo ad adottare il punto di vista di un’impresa. In ultimo immaginiamo che in questa situazione tutti i costi di produzione siano deducibili e “la bottiglia del tempo” del consulente sia piena,
ovvero lavori full-time. In altre parole, stiamo costruendo una
posizione Full-Time Equivalent (Fte).
Poste queste premesse, facciamo due conti, prendendo dati
sulle retribuzioni lorde e medie degli italiani, come pubblicate
nell’XI Rapporto sulle retribuzioni degli italiani 2010,13 dove si dichiara che in Italia, per il 2009 e nel settore privato, lo stipendio
medio di un impiegato fu pari a 26.151 euro lordi, quello di un
quadro a 51.804 euro lordi e di un dirigente a 104.342 euro lordi. Da questi, con un semplice foglio di calcolo,14 si possono ricavare i costi aziendali, per esempio, per il settore industria: un
impiegato costa a un’impresa mediamente 168 euro lordi al giorno, un quadro 332 euro e un dirigente 669 euro. Tali valori comprendono tutti i costi che una società deve affrontare per pagare
un lavoratore. Ora, la questione è semplice: questo modello è trasferibile fuori dalle imprese? C’è qualcuno, nel segmento del lavoro indipendente, che si avvicina a questa rappresentazione? Sicuramente possono essere paragonati i lavoratori che hanno basse spese di produzione, se non addirittura nulle, oppure chi ha
posizioni di rendita, ovvero attività ben avviate e rinnovate in maniera automatica, perché basate su una posizione clientelare o
su una fiducia molto radicata (questo abbassa i costi di gestione,
in particolare quelli commerciali).
Perché siano equiparabili sono necessari due presupposti:
1) che il lavoro sia scomponibile efficacemente in giornate e ore
equivalenti, che possano essere retribuite allo stesso modo; 2) che
il lavoratore possa svolgere mansioni ben codificate e ripetibili,
riferite soltanto alle proprie competenze principali. In particolare, quest’ultimo requisito è piuttosto significativo, perché la sua
presenza vorrebbe dire per un freelance essere libero di svolgere
soltanto il suo lavoro, tralasciando attività che in aziende sono
presidiate da altri (per esempio il calcolo della busta paga) e che
nel lavoro indipendente deve comunque svolgere da solo (per
mantenere un parallelo, l’amministrazione corrisponde al tempo perso dal commercialista, nel produrre fatture e soprattutto
nel farsele pagare dai clienti). Ma tutto ciò accade realmente?
Può un freelance liberarsi delle attività accessorie?
Come ingranaggi che trovano posizione fisica e temporale
ben definita, questo modello va bene per quei lavoratori che hanno un ruolo preciso e intervengono nella produzione secondo
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unità temporali definite e compiti assegnati. Il fattore chiave è il
tempo e il parametro principale intorno a cui ruota il compenso
è il “costo orario” (o a giornata). Per effettuare comparazioni si
possono trovare con grande facilità quotazioni di mercato per
professioni lavorative subordinate, confrontando stipendi anche
a seconda del contesto geografico, dell’età, del sesso, del settore
e della dimensione d’impresa – elementi non trattabili, ma che
determinano le condizioni stesse per la negoziazione dei compensi. In questo modo è piuttosto semplice identificare benchmark retributivi per professioni e categorie di inquadramento.
Tale approccio pone il compenso del consulente in relazione ai
costi al lordo di tasse, imposte o contributi, e non considera eventuali discrepanze tra mondo del lavoro dipendente e quello autonomo sotto il profilo degli oneri fiscali e contributivi. Semplicemente mette in relazione i valori “ricchi” di un compenso, prima ancora di spogliarlo di tutto quanto sia dovuto allo stato. Vediamo fin dove sia possibile spingere il parallelismo.
Reductio ad Ral, fenomeno a larga diffusione
Quando si compra e si vende, nel sistema d’impresa e nel lavoro autonomo si considerano quasi sempre i valori totali che
vengono sborsati o incassati. È piuttosto rara la capacità di calcolo esatto di un valore netto percepito, soprattutto tra freelance,
visto che nella definizione del reddito complessivo intervengono
gli ammortamenti; differenti tasse che vanno oltre le semplici ritenute d’acconto messe in fattura; contributi di anticipo sugli anni a venire; Irap; spese non rimborsate e altri fattori spesso imprevedibili. Allo stesso modo è insolito trovare lavoratori alle dipendenze che sappiano quanto torna in tasca a un freelance a
fronte di un compenso lordo assegnato.
In alcuni contesti produttivi, tra i quali per esempio l’informatica o la progettazione elettronica, i consulenti valutano in anticipo il tipo di richieste e, sulla base del tempo che presumono di
impiegare, immaginano un compenso netto che vorrebbero ricavare. Da questa base deducono poi ipotesi di costi lordi. Questo
avviene perché è semplice scomporre la lavorazione per unità di
tempo, ma che cosa dovrebbe fare un creativo al quale è chiesto
di inventare un nuovo marchio per il prodotto più innovativo della multinazionale più nota al mondo?
Si attribuisce a Pablo Picasso la dichiarazione secondo la
quale ci vogliono settant’anni per imparare a fare un’opera d’arte
in soli cinque minuti. E dunque come ci si dovrebbe comporta170
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re nella sua quotazione? Come si può intuire non è soltanto una
questione di tempo. La corrispondenza finora stabilita tra costo
orario lordo e lavoro autonomo ha dunque una reale applicabilità? E se anche fosse possibile, un lavoratore intellettuale autonomo è in grado di imporre queste tariffe? Una recente analisi
svolta dalla società OD&M Consulting15 mostra un’evidenza di
grandissimo interesse. Nello studio si mettono a confronto i valori annui lordi delle retribuzioni percepite dai lavoratori dipendenti e i fatturati dei consulenti che svolgono un lavoro assimilabile dal punto di vista del contenuto e delle attività svolte.
Si confrontano cioè le retribuzioni medie di figure che hanno un
contenuto lavorativo del tutto equiparabile e che operano dentro e fuori dalle imprese.16
Secondo lo studio, un account executive junior arrivava nel
2008 a percepire una retribuzione media lorda di 25.811 euro in
azienda e a guadagnare 26.500 euro lordi come consulente; un
analista programmatore 23.100 euro nel primo caso e 22.000 euro nel secondo; un senior consultant 45.800 euro come dipendente e 48.000 come autonomo; un webmaster 24.200 euro in
azienda e 24.500 euro da solo; un project manager 48.500 euro
dentro un’impresa e 43.000 euro come freelance. Questi sono soltanto alcuni esempi, la lista è comunque molto estesa e si possono trarre alcune conclusioni. Guardando nel dettaglio i dati retributivi si nota come l’equiparazione finora ipotizzata tra costo
lordo aziendale di un dipendente (inclusivo di tutti i parametri
per rendere la vita lavorativa “normale”) e dimensioni medie delle retribuzioni dei lavoratori freelance non regge la realtà dei fatti. Il mercato ama prediligere invece un secondo parallelismo:
quello con la Retribuzione annua lorda (Ral) del lavoratore dipendente, non tanto con il suo costo lordo aziendale. In altre parole, la comprensione che si ha del consulente è di un “dipendente esterno”, non di un soggetto che ha costi propri e regole di
calcolo del costo del lavoro significativamente differenti, molto
più simili a quelli di un’impresa o perlomeno estesi rispetto alla
Ral. Semplificando, la maggior parte dei lavoratori indipendenti ottiene dal mercato ciò che viene offerto a un lavoratore dipendente quando va a trattare un impiego e discute del suo stipendio lordo, non della spesa aziendale. Così sembra accadere
nel reddito percepito dai freelance. Non è una regola fissa, ma
piuttosto diffusa, che possiamo definire come una “reductio ad
Ral”, ovvero una riduzione del valore trattato alla retribuzione
annua lorda. Lo studio di OD&M Consulting consente di affermare che in questa equiparazione il vantaggio non è sempre dei
lavoratori dipendenti: vi sono professionalità che hanno mag171
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giori opportunità retributive (secondo questo standard di paragone) fuori dalle imprese. I massimi scostamenti a favore dei lavoratori dipendenti si hanno invece là dove ci sono retribuzioni
variabili più elevate, come per le figure commerciali oppure dove si tratta di figure numericamente limitate nel contesto organizzativo e che dunque, se assunte, svolgerebbero una funzione
molto qualificata come quelle di responsabile dei sistemi informativi, strategy analyst, art director, ricercatore ecc. Un’evidenza importante riguarda anche il falso mito della qualità del lavoro espresso dai freelance, che non paiono proprio essere soltanto giovani alle prime armi, precari che si muovono senza ordine nel mercato o lavoratori “sfrattati” dalle imprese. Al contrario il lavoro autonomo ha un’abbondanza di profili equiparabili all’inquadramento aziendale di quadro e sono possibili
comparazioni anche con i livelli dirigenziali. Nonostante questa
simmetria, la fluttuazione delle retribuzioni del lavoro autonomo è comunque molto più elevata di quella del lavoro salariato,
non essendoci vincoli sulle retribuzioni di base o adeguamenti
automatici all’andamento dell’inflazione. Tutto sommato sono
valori simili e l’impressione è che il mercato abbia stabilito per
un gran numero di professionalità una sorta di equivalenza tra
retribuzioni annue lorde dei consulenti (fatturato annuo) e Ral
di figure omologhe che operano in azienda. Nel bene o nel male, questo vuole dire anche che per figure come grafici, webmaster, account executive, project manager ecc. ci sono tetti retributivi invisibili, difficilmente superabili. Quanto tempo sia necessario per raggiungere questo livello non è dato sapere, ma è
chiaro che la disponibilità delle imprese e l’adeguamento progressivo dei freelance portano in molti casi i compensi verso una
stabilità intorno a questi parametri. Fin qui, si può dire, è la voce del mercato. Questa equivalenza, tuttavia, è inesatta dal punto di vista formale. A un’analisi ulteriore si può facilmente comprendere come nasconda almeno due costi: 1) quelli previdenziali e assistenziali a carico degli autonomi, che per esempio in
azienda o nei contratti a progetto è ripartita tra lavoratore e impresa (da qui lo scarto tra costi d’impresa e retribuzioni lorde);
2) l’ammortamento dei costi fissi, ovvero del capitale investito
in strumenti o in processi di produzione. I costi di gestione, in
altre parole, chi li ripaga? Con quali soldi devo pagare il computer, l’abbonamento a Internet o il commercialista?
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Il lavoro autonomo come i mutui subprime?
L’equità lorda fittizia di cui abbiamo discusso finora è un indice importante dei problemi di valutazione del lavoro autonomo poiché rivela quanta parte del rischio economico e di ammortamento dei costi aziendali siano riversati sulle attività del
freelance. Ragioniamo su questo punto. Di quale rischio si tratta veramente quando viene spostato sulle spalle di un freelance?
Le partite Iva, per esempio, sono “imprese” soltanto per un’etichetta di tipo burocratico,17 non dispongono cioè di capitali, persone o strumenti in misura maggiore di quelli necessari per il lavoro individuale, come peraltro identificato più volte anche dalla Corte di Cassazione – Sezione tributaria18 nei casi di contenzioso tra Agenzia delle entrate e lavoratori autonomi sulla necessità di pagare l’Irap, una tassa prevista appunto per le imprese, ma non applicabile ai lavoratori indipendenti. Questi non hanno cioè uno scheletro sufficientemente robusto per supportare
elevati investimenti e le rispettive quote di ammortamento. Quale capitale andrebbe perso in un loro ipotetico “fallimento”? Nessuno, di fatto. Il rischio è spostato di conseguenza su una “capitalizzazione futura” che non troverà mai un concreto rendimento e un’attuazione. È una logica contraddittoria: gli autonomi non
hanno modo di accumulare patrimoni, essendo tassati sul lavoro. Non possono immobilizzare ricavi e perdite in “non-società”,
per questo ogni elemento aggiunto che ricade genericamente sotto la voce “costo di gestione” non fa altro che intaccare i compensi, erodendo i margini e abbassando i valori netti. Sotto questo profilo, la questione del compenso è una chiave davvero fondamentale per la lettura dei fenomeni di trasformazione del mercato: il risparmio per le imprese che si riversa in tasse sul lavoro
autonomo suona molto come un espediente per non capitalizzare investimenti e riversare sul costo del lavoro altrui, meglio se
di soggetti poco tutelati da sistemi di protezione sociale, i propri
rischi, mutuando la natura finanziaria del rischio d’impresa in
problema di fiscalità individuale per i singoli. Un po’ come è accaduto nel caso dei mutui subprime, all’origine della crisi attuale, ma traslato sulla forza lavoro.
Una buona simulazione dei costi che un lavoratore autonomo deve sostenere è stata eseguita correttamente da Romano Calvo in uno studio, presentato nel 2008 durante il convegno “Il rapporto tra pubblica amministrazione e professionisti autonomi”,19
che ha messo in luce quali oneri siano lasciati in gestione al lavoratore indipendente, in particolare nel confronto con un sistema fiscale disomogeneo rispetto a quello del lavoro dipendente
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e a sistemi di deduzione e detrazione fiscale non equivalenti, che
alla fine fanno pesare ancora di più i costi di gestione sul consulente. Per il freelance questo sbilanciamento sui costi non è soltanto un danno, ma anche una beffa: oltre a vedere riconosciuto
un compenso equivalente alla Ral di un dipendente, consentendo così alle imprese di scalare sui costi aziendali, si trova ad affrontare oneri fiscali e contributivi più pesanti.
La vera sfida delle partite Iva di seconda generazione è perciò oggi quella di rispondere con un’adeguata politica dei prezzi
a questo cono d’ombra che i committenti fanno finta di non vedere per interesse e per calcolo, o semplicemente perché mai reso esplicito in fase di contrattazione tra le parti. La sistematica
rimozione dei costi nascosti (soprattutto dei costi sociali, in particolare delle quote di spesa riservata all’assistenza e alla previdenza), sempre in chiaro per il lavoro dipendente, ma invisibili
nel lavoro autonomo, diventa un aggravio pesantissimo per chi
opera da solo sul mercato. È sensazione comune tra i freelance
che proprio su questo punto irrisolto si giochi oggi la continuità
professionale e la quotazione delle competenze.
Alla previdenza ci penserà la provvidenza (personale)
Si prenda, per esempio, il tema della previdenza, un argomento tra i più problematici per chi lavora come consulente:
quanti sanno che in Italia un lavoratore indipendente senza cassa professionale versa il 26,72 per cento del suo reddito alla gestione separata dell’Inps? Chi ha contratti a progetto ha una copertura da parte del committente dei due terzi delle quote da
versare all’Istituto di previdenza, ma chi fattura con partita Iva
e non è un artigiano, un commerciante o non è iscritto a ordini
professionali ha sulle spalle l’intero costo, scalato dai valori lordi pattuiti.
Lo stesso lavoro dipendente, con cui si è finora fatto un confronto diretto, non ha certamente nella retribuzione annua lorda un costo previdenziale del 33 per cento come sbandierato da
chi contesta gli elevati tassi di questa parte di imposizioni. Il valore del 33 per cento è riferito al costo aziendale, non alla retribuzione lorda! E se è vera l’equivalenza con la Ral in cui il mercato, gli imprenditori e i confini della negoziazione rinchiudono
il lavoro autonomo, è corretto dire allora che su questo tipo di lavoro grava il più pesante macigno di oneri contributivi mai pensati in Italia. I professionisti senza albo versano contributi del
26,72 per cento, mentre per artigiani e commercianti siamo a
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quota 20 per cento circa. I professionisti con cassa privata pagano il 12-14 per cento, mentre i dipendenti solo formalmente hanno aliquote più alte: secondo uno studio del Cerm,20 se si utilizzasse la stessa base di calcolo dei professionisti della gestione separata, la loro aliquota scenderebbe dal 30-33 per cento a circa
il 24 per cento.
Quando nel lontano 1996 venne istituita la gestione separata, i costi previdenziali erano fissati al 10 per cento del fatturato,
poi l’aliquota ha iniziato a lievitare per fare fronte ad alcuni deficit dello stato che nulla hanno a che fare con i conti della gestione separata. Per esempio, con il Protocollo sul welfare varato durante l’ultimo governo Prodi dal ministro del Lavoro Cesare Damiano, l’innalzamento progressivo delle aliquote previdenziali dei lavoratori autonomi fu programmato con la finalità di
coprire la spesa per la riduzione del cosiddetto “scalone” dei lavoratori dipendenti che andranno in pensione nei prossimi anni.
Oltre a questo, la gestione separata contribuisce a sanare i deficit di altre casse private finite in rosso e confluite nel tempo in
quella pubblica. Nonostante la palese ingiustizia c’è chi sostiene
che queste aliquote si debbano ulteriormente alzare per creare
un deterrente all’uso improprio del lavoro autonomo che scoraggerebbe gli imprenditori nel reclutare falsi dipendenti con partita Iva. Questa è la posizione più o meno dichiarata oggi dai maggiori sindacati italiani e di qualche esponente politico di sinistra.
La posizione più chiara a questo proposito è quella della Cisl che
nel documento FeLSA Cisl “Obiettivi e politiche per una rappresentanza nel lavoro autonomo, parasubordinato e somministrato”, del giugno 2010, propose senza pudore di avvicinare i versamenti contributivi a quelli dei lavoratori dipendenti,21 innalzando anche l’implementazione della quota di versamento contributivo, portandola all’1 per cento con la finalità di destinare questi soldi a un fondo gestito dalla stessa FeLSA Cisl. L’idea era di
creare un gruzzolo da gestire per trattare i problemi dei freelance
di cui però la Cisl fino a quel momento non si era mai occupata!
Il problema però è questo: alzare i contributi è un buon deterrente per chi vuole usare le partite Iva per tagliare il costo del lavoro? Aiuta davvero i freelance? La risposta è no, perché c’è chi
sceglie di lavorare in maniera indipendente e non desidera un lavoro subordinato o, per il tipo di professione che svolge, non è
integrabile stabilmente nel sistema d’impresa (si pensi per esempio a un traduttore). Inoltre, ogni innalzamento del costo del lavoro si riversa direttamente sulle spalle dei consulenti, riducendo di fatto i compensi netti. La posizione dei sindacati fa acqua
da tutte le parti e non tiene conto del potere negoziale del singo175
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lo che si vedrebbe aumentare le quote da versare allo stato senza avere la forza di imporle ai suoi committenti. Il risultato? Un
ulteriore impoverimento del lavoro indipendente in nome di una
regola astratta quanto inutile di scoraggiamento all’uso improprio del lavoro autonomo.
Il secondo modello: l’equiparazione tra imprese,
ovvero una falsa speranza
Proviamo a fare un passo avanti e cerchiamo di capire se esiste un modo, e chi lo applica, per uscire da questo stretto vicolo cieco, che ha come premessa l’equiparazione tra costi del lavoro di “famiglie” differenti (dipendenti e autonomi) e come esito l’aggravio dei costi del lavoro indipendente. In alcuni ambiti
professionali, in particolare nel mondo della consulenza indipendente made in UK, tra account manager o figure del mondo IT,
si trovano spesso modelli di costruzione dei prezzi per le prestazioni professionali che riportano il giusto equilibrio sul tema
dei costi e delle spese. In Italia questo approccio ha trovato un’ampia diffusione tra i consulenti che lavorano a stretto contatto con
figure dirigenziali o con le multinazionali, più abituate alla valutazione generale dei costi di produzione. L’idea di fondo è riportare allo scoperto i costi nascosti nei processi di produzione
affinché siano ripagati dal committente e non assorbiti nel lavoro del consulente. Stiamo parlando, per esempio, del tempo
speso nel trovare nuovi clienti (azione commerciale); per sistemare la contabilità (attività amministrativa); per presentare se
stessi in pubblico (pubblicità) e nelle relazioni sociali e di
networking (relazioni pubbliche); oppure nella formazione e nell’aggiornamento (lifelong learning). Sono attività note al lavoratore autonomo, che non affronta quotidianamente soltanto
l’impegno legato alla produzione vera e propria, ma deve gestire un insieme articolato di compiti e iniziative collaterali che gli
consentano di proseguire l’attività nel suo complesso. Questa
parte di lavoro, che le imprese faticano a pagare quando scelgono l’outsourcing, può tranquillamente rientrare in fattura se
ben calibrata, riportando le voci che nel mondo anglosassone
vengono definite overheads,22 ovvero costi operativi. Questo elemento entra in quota percentuale rispetto al normale costo del
lavoro e lo si aggiunge al preventivo offerto al committente. Per
calcolarlo23 si sommano le quote di tempo dedicate all’amministrazione del business (fatturazioni, pagamenti), i tempi di viaggio, le attività commerciali e di marketing, la stesura di offerte,
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i momenti di autoformazione ecc. – un dispendio di energie che
può arrivare a occupare fino al 40 per cento del tempo complessivo, e poi lo si ammortizza nel costo generale del proprio
lavoro. Questo espediente consente di andare oltre il costo orario di svolgimento dell’attività principale, rivendendo una professionalità nel suo complesso. È un modello completamente differente dal precedente: questo significa che mentre per un ipotetico lavoratore autonomo assimilabile a un dipendente con Ral
da 50.000 euro lordi all’anno si arrivava a determinare costi giornalieri di 320 euro, un calcolo di questo tipo ammortizza gli
overheads e consente di inserire anche i profitti. Se, per esempio, si ipotizzano questi ultimi al 10 per cento e i costi operativi al 35-40 per cento del proprio tempo si arriva per la stessa attività a costi orari di 70 euro lordi. Webworkerdaily.com, una
delle più note community online di web designer freelance, suggerì una tecnica di calcolo dei costi molto simile, ma più immediata. Consigliò di spezzare il lavoro da svolgere in microunità
da quattro o otto ore, calcolando i costi senza overheads per queste fasi di lavoro e poi moltiplicare per 2,5 il valore, per includere imprevisti, il costo di start-up dei progetti, di relazione con
il cliente, stesura dei preventivi, finalizzazione del lavoro ecc.
Quando questi schemi furono pubblicati su Internet in Italia, la
reazione dei freelance fu immediata, quasi una rivolta contro un
sistema considerato buono sulla carta, ma dannatamente impossibile da realizzare nella concretezza di ogni giorno. Il commento più significativo fu di Federico Fasce:
Ho provato a definire le mie tariffe nel modo consigliato, incontrando diversi problemi. In primis: sembrano sempre troppo alte!
Se vado da un potenziale cliente (e mi è capitato anche con grandi
multinazionali) e chiedo una cifra che mi permetta di vivere degnamente di quello che faccio, le risposte sono immancabilmente
negative. Sembra sempre che chieda troppo. Ma se scendo con i
prezzi, lavorare per me non è più conveniente. Questo per dire che
concordo sul fatto che nel nostro tipo di lavoro la grande difficoltà
sia quella di quotarsi. Ma temo che nel lavoro invisibile che fa chi si
relaziona con la conoscenza (io mi occupo di progettazione e interaction design) sia difficile fare passare il concetto che quello che facciamo ha una rilevanza economica. E allora ci si accontenta di poco. Ma non si riesce a vivere, al massimo si sopravvive.24
Niente di più chiaro nella valutazione contrapposta tra le parti che negoziano: al committente “sembra” troppo, al prestatore
d’opera scendere sotto queste valutazioni “non conviene”. Da una
parte c’è un giudizio mediato da altre logiche, evidentemente quel177
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le interne. Dall’altra la certezza di dover accettare compromessi
e prezzi sottocosto. Un altro commentatore aggiunse:
Sic! Sono anch’io arrivato a questa fase della mia vita. Devo ammettere di trovare molto utili questi suggerimenti anche se purtroppo
un tantino impraticabili in questa fetente penisola.25
Che cosa significa? In primo luogo che le condizioni reali di
mercato si avvicinano di più al primo modello interpretativo dei
compensi e che, sebbene formalmente corretto, il tentativo di includere i costi operativi per non svalutare il proprio lavoro è difficilmente applicabile fuori da un’impresa. Si badi bene: fuori da
un’impresa. Chi ha dimestichezza con la pianificazione dei budget
in azienda sa che non si utilizzano regole diverse sugli overheads,
ma sono la norma per fare business. Il modello aziendale più diffuso per la stesura di preventivi è di moltiplicare per 3 il costo del
personale impiegato, aggiungendo i costi e le spese di produzione (materia prima, viaggi ecc.). Le multinazionali della consulenza
usano questi pesi: costo del lavoro al 33 per cento, overhead più
profitti al 66 per cento. L’impresa rivende cioè il lavoro con uno
staff to fee del 66 per cento per coprire i costi interni di personale
amministrativo, dirigenti o responsabili IT ecc. che non entrano
nel gioco della produzione diretta. Questo è il rapporto tra costi
e ricavi che le imprese profit considerano ideale e la bravura dei
project manager in azienda sta proprio nel rispetto di queste percentuali di mark-up. Tutto ciò significa, però, che l’impresa moderna usa regole differenti per acquistare la consulenza e per rivenderla, mettendo su un gradino più basso i lavoratori autonomi che, non avendo la forza per trattare condizioni, non riescono
a superare i limiti stabiliti da un’equivalenza fittizia (peraltro già
difficile da ottenere) con le retribuzioni lorde.
Tecnicamente chiedere meno rispetto a quanto si è calcolato
essere un onorario decente significa guadagnare meno. In pratica si intacca lentamente la quotazione più generale di una professione, creando un effetto leva verso il basso. Si finisce per depauperare entrambi i lati dell’offerta, quello economico e la qualità delle prestazioni. Ne parla un altro freelance, commentando
online questi modelli:
Per un anno ho fatto preventivi da “cristiano” ovvero con i costi ben
calcolati sulle ore di lavoro ecc., ma mi hanno tagliato sistematicamente fuori. Ho ottenuto un 100 per cento di offerte non accettate.
Il bello è che ci mettevo anche tre giorni (analisi ecc.) per stendere
l’offerta. L’anno dopo ho iniziato a fare preventivi casualmente e a
voce, così ho ripreso a lavorare. Almeno incassavo qualcosa. A ogni
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nuova offerta aggiungevo un +10 per cento rispetto alla precedente
e adesso (fine anno) iniziano di nuovo a bocciarmi le proposte. Perché i clienti hanno sempre una decina di offerte in mano, alle quali aggiungono il fattore emotivo che non sempre fa scegliere l’offerta
più vantaggiosa. Se tra le dieci c’è poi qualche bastardo che il lavoro vuole regalarlo, be’ non c’è storia.26
Molti trascurano il fatto che quando si abbassa l’asticella che
segna il proprio valore di mercato la si fa scendere per tutte le
persone che svolgono lo stesso mestiere. Mentre nel lavoro dipendente sono i contratti nazionali a definire questi limiti, nel
segmento del lavoro autonomo sono i singoli professionisti a dovere interpretare un doppio ruolo, individuale e collettivo insieme. A chi obietta che è pur sempre una dinamica di tipo concorrenziale, che “è il mercato, bellezza!”, si può facilmente rispondere che in questo meccanismo di impoverimento delle professioni non si è più in competizione con altri lavoratori indipendenti, bensì con il costo del lavoro dipendente che non può
certamente essere abbattuto in una lotta ad armi pari. In questo
sistema c’è la scure dell’impresa e i costi incomprimibili del lavoro dipendente da una parte, e la necessità di tenere alti i compensi dei freelance dall’altra.
Quanto vale sapere da quale parte girare una vite?
Appena usciti dall’università o da un’impresa senza avere
esperienza di lavoro autonomo è (quasi) comprensibile che si
cerchino valori di riferimento e, in mancanza di altro, si accettino, o si cerchi di riprodurre, quelli delle imprese, ma dopo anni di consulenza le cose cambiano. Aumenta la consapevolezza
che per sopravvivere sia necessario non svendere il proprio talento e non deprezzare la qualità di ciò che si offre. È vero, non esiste salario minimo né per un lavoratore dipendente né per un
freelance e, insieme alla Grecia, siamo gli unici paesi in Europa a non avere definito un “reddito minimo” che fissi la soglia
ufficiale della povertà, ma non per questo la corsa al ribasso deve azzerare la competizione, lasciando praterie aperte alla svalutazione delle competenze. Al contrario neppure i rimedi dall’alto, come proposto erroneamente da molte parti sociali, in primis dai sindacati, sono efficaci. Non è l’innalzamento ex lege del
costo del lavoro autonomo a dare una sveglia al sistema d’impresa
e neppure la definizione politica di piani contro la precarietà
economica.
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Durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del
2008 Walter Veltroni promise, per esempio, l’introduzione di una
normativa che definisse genericamente un “salario minimo” contro la precarietà del lavoro in Italia, parlando di 1000 euro netti
al mese per chi ha un impiego full-time. Prendendo come termine di paragone un contratto dell’industria, questo valore corrisponde a un costo aziendale di circa 24.000 euro lordi l’anno e
nell’equiparazione con il lavoro autonomo questo significa che
un freelance, attivo per il 70 per cento del suo tempo nelle fasi di
produzione con overhead del 40 per cento, che cercasse di ottenere profitti del 10 per cento, non dovrebbe scendere sotto il minimo di 27 euro lordi l’ora. Questa è la tariffa proposta dal mondo politico contro la “precarietà” dei freelance, ma è questa la soluzione migliore? Finora abbiamo valutato il tempo (ore, giorni)
come parametro portante su cui incardinare il costo del lavoro
dei freelance, ma è corretto? Ci sono ambiti e modi di integrare
attività di consulenza all’interno dei processi aziendali che superano di fatto questo approccio, dove il denaro non serve a ripagare il tempo, ma ricompensa il valore espresso. Dall’onorario
per le ore lavorate si passa al compenso per la qualità, i meriti,
le doti espresse, le abilità e le conoscenze individuali, oltre alla
capacità di portare risultati o guidare e motivare i cambiamenti.
Si pensi al lavoro di un creativo che in pochi minuti disegna una
soluzione formidabile, inventa un logo o cambia l’immagine di
un’impresa su Internet; a un formatore che deve motivare i rivenditori delle concessionarie Fiat, per migliorare il fatturato
complessivo del gruppo in tempo di crisi; oppure a un tecnico
che interviene per sbloccare in pochi istanti un server di Poste
italiane fermo da giorni. Il tempo impiegato è realmente riducibile a pochi istanti, poche ore o alcuni giorni d’aula? E quello speso per arrivare a fornire prestazioni di questo genere come si calcola? Su questo tema circola da tempo nel mondo delle tecnologie un aneddoto che vale la pena di riportare:
Un giorno un responsabile IT non sapeva più che pesci pigliare: la
Rete della sua azienda aveva smesso di funzionare bloccando il lavoro di parecchie persone. Il suo telefono era diventato rovente poiché tutti i dipartimenti lo mettevano sotto pressione, per non parlare delle ire dell’amministratore delegato. Dopo aver dato fondo alle sue conoscenze e a quelle del suo team, si decide a convocare con
urgenza un consulente e affidarsi a lui. Il consulente prende subito
a cuore il problema, viene accompagnato nel locale server e analizza la situazione. In pochi minuti individua il componente difettoso
ed estratto un piccolo cacciavite dal taschino... zic! effettua una rotazione di mezzo giro su una vite. “Ecco fatto,” dice. “Potete conti180
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nuare a lavorare ora.” La settimana successiva il responsabile IT si
vede recapitare la fattura recante questa descrizione: “Intervento per
sblocco rete informatica: € 1000”. Sorpreso per l’importo oltremodo elevato visto il piccolo intervento, contatta subito il consulente
lamentandosi. Il consulente ammette un errore nella fattura e promette di inviarne una corretta. Poco dopo arriva la fattura così rivista: “Rotazione di mezzo giro di una vite: € 1. Conoscenza della vite su cui operare: € 999”.27
Questo è un esempio classico di come sia possibile interpretare il ruolo del consulente svincolando la propria attività dal
semplice fattore tempo ed è un approccio tipico di figure che prestano servizi legati alla creatività, al mondo degli eventi o dell’immagine, al marketing e a tutte quelle attività che hanno un
forte impatto in termini di “risultati presunti”, derivanti appunto dall’intervento del consulente. Possono riguardare la fiscalità,
il miglioramento delle relazioni delle imprese con i mercati, la
conformità alle leggi, la sicurezza, la reputazione e più in generale l’innovazione di prodotto e di servizio. In pratica, la possibilità di uscire dall’equivalenza stretta tra tempo e remunerazione avviene là dove è possibile introdurre la nozione di valore
e soprattutto di “durata”, ovvero dove ci siano il differimento dei
risultati o alcune previsioni sui benefici attesi e basati su un lavoro cognitivo che non ha una tangibilità immediata, scomponibile o facilmente quantificabile. Una traduzione, una fotografia, un libro impaginato, un disegno Cad non fanno parte di questo tipo di opere. Si prestano al discorso, al contrario, i servizi
di consulenza più generali, la definizione di strategie, la valutazione di rischi, l’analisi di opportunità, la creazione di immagini e reputazione e così via. In alternativa questo approccio trova spazio quando si guarda ai servizi o alle opere dell’ingegno nel
loro progetto complessivo. Per fare un esempio, se si guarda alla qualità di un testo scritto, al di là della lunghezza misurata con
il numero delle battute, ci sono tutte le premesse per andare oltre le quantità e potere ragionare su un valore che si diluisce nel
tempo, portando benefici a committente e autore nel corso del
tempo e non soltanto nell’immediato in base alle ore lavorate o
alle quantità prodotte.
Il cottimo digitale, dannazione moderna del lavoro cognitivo
Questa logica può determinare due esiti: da una parte può generare moderni e sofisticati sistemi per pagare il lavoro indipendente a cottimo, dove non è più il tempo, ma sono altre misure
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a fare da parametro ufficiale per la remunerazione; dall’altra permette al lavoro autonomo di esprimersi in maniera più genuina,
agganciando sistemi premianti che pagano in anticipo i benefici
attesi (oppure realmente ottenuti nel tempo) sulla base del valore espresso, remunerando cioè valori intangibili creati ex novo.
La prima strada ha avuto uno sviluppo esponenziale, guidato recentemente dalle tecnologie informatiche che consentono
oggi di allargare a dismisura la distanza tra committente e prestatore d’opera e di ridurre contemporaneamente gli spazi per le
trattative se non addirittura i diritti del lavoratore intellettuale
autonomo. In molti casi si è arrivati a vere e proprie forme di digital piecework, basate su interazioni di tipo elettronico, che cancellano persone, tempo e competenze, rinforzando la vecchia formula della retribuzione “per pezzo lavorato”, questa volta, però,
nel contesto del lavoro intellettuale e non più in fabbrica. Questa metamorfosi ha investito i processi di produzione di testi, grafica, video e registrazioni, e riguarda per esempio chi scrive post
per i blog o per i portali di nanopublishing, o si occupa di opere
di scrittura retribuite per numero esatto di righe o traduzioni ricompensate in base al numero di battute. Sono tutti lavori basati su forti interazioni a distanza, che non prevedono una durata
precisa, né quantità minime di pezzi o rimborsi di spese e hanno in genere retribuzioni bassissime, fino a 8 euro lordi l’ora.28
Testimone di questa evoluzione è per esempio il portale oDesk
che sta registrando un grandissimo successo in Rete tra i freelance di tutto il mondo. Il sito si propone come un moderno broker
di lavoro che intermedia la manodopera di freelance con le richieste delle imprese, operando grazie a un evoluto sistema web
di gestione della domanda e dell’offerta, facendole incontrare.
Mette a disposizione spazi per presentare un portfolio di lavori,
referenze e altri servizi. Fin qui nulla di nuovo. Gli aspetti rivoluzionari sono due: 1) l’impiego di un importante fondo di garanzia per pagare il lavoro intermediato; 2) un sistema di tracking
delle ore lavorate, per dimostrare al committente che il prestatore d’opera è rimasto realmente connesso al computer – una volta avremmo detto “al lavoro”, come se fosse uno spazio fisico reale – per svolgere il lavoro assegnato. Il fondo finanziario offre la
certezza del payroll, del pagamento, e consente di “evitare scocciature”, come recita la prima voce del Manifesto29 di oDesk. Questa garanzia è diventata una delle chiavi del successo del servizio. Il sistema, tuttavia, ricostruisce in Rete un tipo di controllo
e di intermediazione del lavoro che poco hanno a che fare con
l’autonomia, giocando in maniera equivoca su uno dei nodi più
complessi del freelancing, ovvero la scarsa forza nella contratta182
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zione collettiva. oDesk si fa garante del compenso (facendo comunque mark-up sull’intermediazione), ma pone un prezzo molto salato da pagare perché riporta il lavoro autonomo nell’alveo
di unità orarie o porzioni, mettendolo in relazione al digital piecework quantificabile e controllabile via Internet. Il modello pone da
una parte la certezza del reddito (decurtato delle spese di oDesk),
dall’altra la libertà del freelance, e cerca di costruire un’artificiale riconoscibilità collettiva sotto il cappello di garanzie finanziarie, ma sacrifica per questo l’autonomia attraverso strumenti che
instradano il lavoro e consentono un suo controllo a distanza in
puro stile da Grande Fratello. In pratica, riporta elementi del lavoro subordinato nel contesto dell’autonomia, garantendo un solo diritto, quello di essere pagati, e introducendo una nuovissima forma di cottimo digitale. Questo dovrebbe suonare come un
campanello d’allarme – soprattutto per chi oggi sta lavorando in
Italia e in Europa – nel comprendere quando un lavoratore autonomo possa definirsi “economicamente dipendente”, perché
pone chiaramente il problema della contaminazione di culture
lavorative differenti, proponendo vantaggi finanziari al costo di
diritti lavorativi e snatura in questo modo il lavoro indipendente, a partire dalla sua radice più profonda che è la libertà del commitment verso i clienti.
Ciò che appare evidente nel caso di oDesk è la scelta di fare leva in maniera forte sul tema dei compensi affinché cresca
la comunità dei collaboratori e il senso di appartenenza al mondo dei freelance. Il compenso è la chiave della coalizione ed è
una scelta che sembra avere davvero un grande successo in Internet. La conferma arriva da molte altre iniziative simili che si
stanno moltiplicando in Rete. In Italia, per esempio, è approdato Twago, un servizio ideato da una società berlinese che consente di pubblicare progetti e cercare esperti in grado di completarli. La pubblicità diffusa allo Smau 2010, la fiera dell’informatica, suonava così: “Grande idea, ma budget ristretto?
Lavora con freelance!”. Sul sito la cosa si fa ancora più chiara
e si suggerisce alle imprese di usare il servizio per abbassare i
costi fino al 70 per cento:
Proprio nella crisi economica molte imprese sono costrette a ridurre in modo significativo i loro costi cercando comunque di mantenere un egual livello qualitativo. Twago sostiene le aziende e i liberi professionisti dando loro la possibilità di delocalizzare alcuni
processi aziendali o di realizzare determinati progetti affidandoli a
ditte esterne. Questa flessibilità permette un forte risparmio di costo e può così evitare la riduzione di posti di lavoro interni all’azienda.30
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La ricetta è chiara. Per abbassare i costi mantenendo un eguale livello qualitativo, come si fa? Si prende il lavoratore in azienda, lo si invita a lavorare da solo e gli si affida lo stesso lavoro
scalando sui costi. Si legge ancora sul sito:
Twago aiuta a mettere al sicuro i posti di lavoro attuali e a crearne
di nuovi facendo in modo che persone altamente qualificate, ma senza lavoro, si possano rendere autonome in modo semplice ed economico.31
Chi intermedia questa semplicità guadagna dei fees sui compensi liquidati obbligatoriamente attraverso lo stesso sito, alla
stregua di quanto avviene con un normale merchant di e-commerce, come se il lavoro fosse realmente merce. In cambio propone un’allettante ricetta per il lavoro del freelance che mescola
ingredienti eterogenei: un aiuto nei processi di networking, un
appoggio nel presentare e incrociare le opportunità di lavoro; una
spinta nell’intercettare budget, con la garanzia di ricevere un compenso se si ottiene il lavoro; l’abbassamento dei costi aziendali.
Riporta però in gioco il fattore tempo, scomponendolo per unità
lavorate, e la formula del cottimo.
Queste forme di digital piecework si stanno ben radicando là
dove esiste una componente granulare di lavoro, per esempio legata alla scrittura, alla creazione di componenti grafiche minime
o ad attività di breve intensità o di programmazione informatica.
L’interazione digitale tra committente e prestatore d’opera tende
così a nascondere il tempo reale e complessivo di lavoro o la qualità. Ciò che conta è la quantità, misurata in parti intere. Un esempio interessante è la ricerca di mistery clients, ovvero di finti clienti che fanno valutazioni sui servizi (figure classiche, per esempio,
nel mondo della ristorazione), ma da impiegare in ambito web per
testare i servizi di e-commerce. Retribuzione? Da 15 a 20 euro per
incarico.32 Tempo di lavorazione o qualità richieste? Imprecisate.
Purtroppo non esistono ampi margini di trattativa nelle forme di
cottimo. In molti casi purtroppo non contano le specializzazioni,
gli anni di consumata esperienza o il talento: in questo tipo di produzioni, interpretate secondo parametri quantitativi, il prezzo si
può alzare soltanto in presenza di fattori esterni al processo produttivo come la notorietà di una firma, l’uso di taluni software di
lavorazione, la disponibilità o la forte capacità di arrivare al risultato. Sono forme di compenso ancora in evoluzione, ma è chiaro
fin da subito che limitano ogni possibilità di crescita o la libertà di
sperimentare, oltre a rimuovere pericolosamente diritti fondamentali come quello al riposo, alla malattia e ovviamente a una
giusta remunerazione.
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Oltre il tempo, la ricompensa della qualità
Per fortuna quando si scardina la centralità del fattore tempo ci sono altre vie d’uscita. Accade nei casi in cui si riesce ad agganciare la ricompensa, e dunque il lavoro svolto, ai risultati ottenuti o a quelli presunti e attesi, pagati in anticipo sulla base della fiducia riposta nel consulente e di una cultura di business che
accetta il rischio sull’investimento. Mentre la retribuzione per risultati ottenuti realmente (pay per result) prende quasi sempre la
forma delle provvigioni calcolate sulla base di differenti Key
Performance Indicator (per esempio, il venduto, l’incasso, il numero di clienti acquisiti, i rinnovi di contratto effettivamente raggiunti ecc.) oppure sulle royalty legate alla vendita di singoli manufatti, opere dell’ingegno, progetti o brevetti, la seconda via –
quella della retribuzione pura del valore e dei risultati attesi – è
più difficile da identificare e quantificare economicamente. In
questi casi la ricompensa è sempre vincolata ad alcuni elementi
forti della consulenza: la conoscenza specialistica; il trasferimento
di vantaggi; gli elementi qualitativi della produzione; la possibilità di moltiplicare il valore di alcuni asset aziendali ecc. A giudizio di chi scrive è negli anfratti di questo modello di ricompensa che si gioca il futuro del lavoro professionale autonomo in
Italia. Per essere concreti, stiamo parlando di chi offre consulenza relativa a beni intangibili, esperti in tutti gli ambiti di conformità (al diritto ecc.), specialisti di comunicazione, art director,
pubblicitari, ricercatori ecc. Per queste figure, che sono svincolate dalla mera produzione in serie,33 la formulazione di un prezzo si basa su elementi variabili e unici, difficilmente circoscrivibili in precise regole per la misurazione dei risultati.34 Il tipo di
intervento richiesto non è scomponibile o rivendibile al pezzo,
ma incide in maniera significativa sul valore intrinseco di un asset aziendale. Che cosa significa? Mentre il mero costo che il consulente rappresenta per l’impresa è iscritto in un conto economico e ciò che viene prodotto e acquisito dall’impresa è fissato
nel tempo nel suo stato patrimoniale, esiste un terzo elemento
che rappresenta l’ambito in cui si fissa ed esprime al meglio
l’intervento del consulente ed è il “valore intrinseco”, difficilmente
riportabile nelle colonne di bilancio indicate. Il valore intrinseco
e intangibile è quel tipo di quotazione che un’impresa raggiunge
quando la si considera dall’esterno come società che ha un potenziale, magari da mettere sul mercato quando si quota o si vende a nuovi proprietari. Questo valore non corrisponde né alla
somma delle spese fatte né al patrimonio accumulato, ma è un
valore aggiunto. L’attività del consulente che opera a questo li185
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vello interviene in momenti della produzione (comunicazione
d’impresa, ricerca, progettazione, innovazione, management ecc.)
che hanno una difficile collocazione economica in termini di spesa erogata. In quale parte del bilancio si iscrive, per esempio, il
sapere acquisito da un direttore generale dopo avere fatto un media training? Queste forme di consulenza si concretizzano talvolta in un semplice trasferimento di know how o in azioni di
promozione, innovazione e comunicazione che non hanno esito
immediato. Quanto vale uscire sulla copertina di “Panorama” o
sulla prima pagina del “Corriere della Sera” e quanto deve essere retribuito il consulente che ottiene questo risultato di immagine per il suo committente? E chi indirizza il business del cliente in maniera corretta? I risultati sono equiparabili al tempo messo a disposizione dal lavoratore intellettuale autonomo?
Pagare il risultato del freelance con “retribuzioni variabili”
Questo tipo di consulenza si concentra sul valore e sulle attese35 e viene remunerato con un sistema premiante svincolato
dal tempo esecutivo di lavoro. In ambito aziendale c’è una forma di compensation simile ed è la retribuzione variabile associata a incentivi e premi di risultato. Fuori dagli accordi di base,
questi elementi di uno stipendio sono definiti a livello aziendale
spesso per gruppi, ma molto frequentemente in maniera individuale, come se il lavoratore dipendente fosse un “consulente interno”, e sono collegati a risultati ottenuti. Un’interpretazione più
ristretta di matrice sindacale associa il variabile quasi esclusivamente agli straordinari, erogati in prevalenza agli operai. In realtà
è un elemento molto più complesso, che per figure come impiegati, quadri e dirigenti serve oggi a ripartire i benefici che un’impresa matura nel tempo. I metodi sono il profit sharing, il gain
sharing, le stock options, i premi di gruppo, i premi di risultato,
gli incentivi individuali e tutte quelle forme di bonus associate a
variabili non economiche come il rispetto dei tempi, l’impegno
profuso, la posizione, la leadership ecc. Nella filosofia dell’impresa moderna e postfordista questa leva è pensata per motivare i lavoratori in occasione di impegni straordinari, magari in
tempo di crisi o al contrario nei momenti di grande domanda.
Mentre per le stock options riservate ai top manager ha generato incredibili distorsioni retributive, nelle forme più diffuse tra
middle manager e impiegati il variabile ha rappresentato l’unica
vera novità che ha consentito negli ultimi vent’anni di rendere
più flessibile il salario.36 Il discorso ci interessa per la vicinanza
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con le professioni indipendenti retribuite per la qualità del lavoro e non secondo paghe orarie. Alcune dinamiche sono le stesse,
ma avvengono fuori dall’impresa, in particolare dove la consulenza interviene per accelerare processi, migliorare la qualità dei
servizi, introdurre innovazione e nuova conoscenza. In questi casi la retribuzione collegata ai tempi di lavoro si basa sulle attese
di guadagno o al contrario, in alcuni contesti molto tecnici come
la finanza e l’information technology, sulle mancate perdite. Si
pensi, per esempio, alla presenza in azienda di un marchio debole, poco riconoscibile sul mercato, oppure all’adozione di tecnologie informatiche insicure per la protezione dei dati aziendali. Nel primo caso l’intervento di un consulente capace di migliorare il brand aziendale produrrà risultati legati all’awareness,
difficilmente quantificabile oggi, ma presumibilmente fonte di
guadagni in futuro. Nel secondo l’azione di un consulente in grado di riportare a livelli accettabili i rischi informatici evita di incorrere in perdite compromettenti, non si sa di quale misura, derivanti magari da attacchi hacker o dal fermo dei sistemi. Più è
alta la posta, in questa specie di scommessa per ottenere nuovo
valore intrinseco associato a determinati asset aziendali, più la
consulenza riesce a operare in deroga rispetto a semplici compensi basati sul tempo impiegato. Si scardina cioè l’impianto con
cui si tende a comparare lavoratori interni e consulenti indipendenti, abbandonando ogni logica derivata con cui si pone il tempo-lavoro in diretta concorrenza. Si badi bene: il tempo non è rimosso, ma procrastinato. Il punto cruciale di questa tipologia di
quotazione è la comprensione del periodo di tempo richiesto affinché l’impresa raccolga i benefici sperati.
Mandare in frantumi il lavoro per fare buy-back
sulla paga del consulente
Dietro a tutte queste strategie sul costo, c’è da chiedersi però
se le imprese italiane siano davvero in grado di valutare l’apporto
della consulenza. A questo proposito basta una semplice fotografia sull’impiego delle figure più richieste, ovvero gli ingegneri, per capire quale sia il livello di preparazione. Il Rapporto Istat
200637 sul nostro paese mise in evidenza un fatto: le imprese italiane chiedevano al 14 per cento degli assunti in ambito tecnicoingegneristico il possesso della laurea in ingegneria, anche quando non era necessaria, mentre al 7,1 per cento non la si chiedeva, al contrario, quando era necessaria. Complessivamente più
di un quinto delle imprese non aveva alcuna idea di quale tipo di
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lavoratore stesse portando in azienda. Scrive online Larsen, grafico freelance, commentando sul blog Humanitech.it uno dei modelli di retribuzione per il lavoro autonomo fin qui descritti:
Il problema nel mio settore – ma credo accada in qualsiasi settore
che abbia a che fare con la realizzazione di un bene immateriale –
è che il cliente non ha la più pallida idea di cosa stia comprando finché non lo vede. Per fare un parallelo con il mondo dell’auto è come se un cliente entrasse in una concessionaria e dicesse: “Vorrei
qualcosa con più di tre ruote e un motore e in fretta, grazie!”.38
Per giudicare l’apporto del freelance diventa essenziale che
un committente abbia una cultura adeguata al sapere circolante
e alle sue forme più innovative. Per pagarlo il giusto, invece, sono necessari il rispetto delle posizioni negoziali e un corretto equilibrio nel farsi carico dei rischi. Quest’ultimo punto è il più delicato. Se è vero infatti che in molti casi si è arrivati alla riduzione del compenso dei freelance alla Ral di un suo “omologo” in
azienda, la tendenza dell’impresa e più in generale del sistema
capitalistico, portato a ridurre ciecamente i costi di produzione
per elevare i profitti, è di applicare questa logica anche ai consulenti che intervengono sul valore, forfetizzando il loro contributo e cercando di utilizzare ancora una volta costi orari, anche
quando non esistono omologie. È una riduzione pericolosa che
manda in frantumi l’economia della conoscenza perché ingabbia
l’alta professionalità in meccanismi derivati dalla cultura retributiva toyotista, salariale e forfetizzata, senza riconoscerne il valore e soprattutto la sua incidenza sui processi futuri. Svuota
l’apporto specifico per rendere routinario un intervento straordinario che avviene una tantum, in profondità, e lo classifica nella normale gestione d’impresa quando al contrario è proprio perché il sistema dell’organizzazione aziendale non basta che si ricorre al lavoro professionale autonomo. È sufficiente un esempio per chiarire questo punto. Il consulente di cui si è raccontato l’aneddoto sulla parcella di 1000 euro rischia oggi l’estinzione.
Ci racconta Antonio De Giovanni, professionista indipendente
che opera proprio a livello di assistenza sui server delle imprese:
Vengo chiamato con urgenza quando si verificano blocchi improvvisi o difficoltà nel routing dei dati sulle reti informatiche. Oggi questa conoscenza è pagata a ore, anche se salviamo investimenti del
valore di milioni di euro. Siamo assimilati a tecnici interni, anche
se nessuno è in grado di fare quello che facciamo noi, e pagati sempre allo stesso modo. Facciamo risparmiare soldi a chi ne avrebbe
persi moltissimi magari in servizi di e-commerce per i quali serve
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tenere sempre in attività un sito web. La formula più diffusa è di
compilare un “rapportino” che descriva il tipo di lavoro e il tempo
impiegato da indicare poi in fattura. I compensi offerti? Mediamente
intorno ai 70 euro l’ora più Iva. Chi impone tariffe diverse per questi interventi? Soltanto altre imprese. Una mia uscita uguale a quella di un tecnico Ibm non è retribuita neppure lontanamente allo stesso modo.
Capita spesso che un committente non capisca del tutto le capacità del consulente e faccia valutazioni più per differenza e offerte parallele, mettendo in competizione autonomi tra di loro,
oppure confronti in e out, interni ed esterni alle imprese, o peggio li consideri “alle proprie dipendenze”, come avviene in gran
parte delle situazioni di irregolarità legata all’uso improprio delle collaborazioni. La stessa dinamica di degrado si verifica nell’ambito della formazione, dove l’accumulo di conoscenze, la rielaborazione e il trasferimento alle imprese è forse più evidente.
Complice un settore pubblico appiattito sempre di più sulla formazione di basso livello, standardizzata e spesso generica, oggi
quella aziendale, più tecnica e verticale, ha portato i consulenti
a dover quotare il proprio lavoro a ore. Nel migliore dei casi (non
sempre) sono retribuite anche le fasi di progettazione, ma si può
incappare in cifre inferiori a 20 euro lorde l’ora, prezzi vicini a
quanto offerto a chi dà ripetizioni di matematica agli studenti del
liceo. È vero che un lavoro sottopagato non va mai accettato, e a
questo dovrebbe pensarci un freelance, ma quale idea di sviluppo ha un imprenditore che fa leva su questi parametri per rilanciare il suo business? Inoltre, pagare poco o comunque in misura non adeguata non equivale soltanto a svalutare il contributo
fornito in termini di contenuto, ma modifica la natura stessa del
lavoro autonomo, rendendolo routinario, scomponibile in unità
di lavoro, riducibile e dunque governabile, ordinabile, o meglio
“subordinabile”. Forse è questa la tendenza del futuro: fare rientrare dalla finestra le figure che si sono fatte uscire dalla porta e
pagare art director, formatori, temporary manager, copywriter,
ricercatori per quanto fanno come se fossero persone che operano in un’impresa, applicando regole comprensibili, derivate da
sistemi retributivi interni, meglio se su base oraria per quantità
o singoli pezzi. Questo si chiama però frantumare il lavoro. Senza un’adeguata cultura d’impresa, legata al rischio e alla scommessa sul futuro, è indubbio che il tempo procrastinato, che dà
forma alla corretta interpretazione dei benefici derivanti dalla
consulenza, e plasma l’idea di premio associato, scompare in un
presente continuo, bloccato sulla tariffa, sul salario, sulla quota
base di una retribuzione. Ogni elemento di variabilità viene in189
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terpretato a priori e addio valore intrinseco, tutto rientra nel processo di produzione e l’autonomia diventa un’etichetta formale.
Questa logica non è altro che un maldestro tentativo del sistema
d’impresa di fare buy-back sui premi di risultato, ovvero su quegli elementi di retribuzione variabile che oggi sono l’unica forma
per dare dinamicità alle retribuzioni e premiare il merito. Quando la logica del premio è trasferita all’esterno, il rischio più grave è di trovarsi di fronte a chi vuole recuperare proprio questo
elemento di costo per appiattirlo su forme più o meno marcate
di equivalenza con le retribuzioni di base o con quelle lorde, facendo fare un passo indietro al consulente, e più in generale alla qualità del lavoro.
Il rischio è mio, ma lo gestisci tu
Nella cultura freelance l’estemporaneità, l’urgenza e la casualità di un lavoro tendono spesso a essere quotate di più poiché devono coprire il rischio di una rapida perdita di opportunità. La
continuità o la discontinuità del lavoro e la garanzia o meno di ottenere un successivo ingaggio sono variabili che determinano il
prezzo delle prestazioni rispetto a medie che solitamente si prendono come standard personali. Questo avviene sul fronte dell’offerta, ma dal punto di vista dell’impresa c’è la tendenza sempre
più marcata nelle singole negoziazioni con i lavoratori autonomi
a cancellare tale elemento. La flessibilità generale, gli strumenti
oggi basati su Internet e, in alcuni ambiti, la stessa abbondanza
di manodopera intellettuale, permettono alla domanda di trovare rapidamente risposte alle richieste. La conseguenza è che nel
gioco del prendere o lasciare, proposto dalle imprese, non è più
possibile fare valere considerazioni minime sui tempi di lavorazione e talvolta neanche trovare spazio per presentare con le dovute cautele il valore messo in campo. Questo non solo incide sui
costi, ma allarga sempre di più le maglie che definiscono l’inizio
reale di un rapporto di consulenza. Per un senior il percorso di ingaggio è già parte attiva del lavoro di consulenza poiché inizia a
guidare il cliente già nelle fasi interlocutorie. I più giovani investono al contrario molto su questa fase senza badare se sia realmente cost effective. A questo si aggiunga l’affermazione di Internet che ha accelerato il tutto e rimarcato una differenza oggi evidente tra consulenti “anziani”, nati professionalmente nel corso
degli anni ottanta e novanta, e le nuove generazioni digital native.
Ma vanno fatti pagare o meno i primi consigli messi sul tavolo,
magari per presentarsi? Chi non sa rispondere diventa facile pre190
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da di quelle imprese che tengono nel limbo il lavoratore, mantenendo un approccio morbido alla consulenza, non definendo
fin da subito i termini contrattuali, per cercare di orientarsi e capire come muoversi addirittura senza il consulente! La tendenza a considerare normale un’urgenza, ovvero routinario qualcosa di straordinario, e a farsi dare direzioni dal consulente prima
di affidargli un incarico, sono indici spontanei di una deresponsabilizzazione diffusa nei confronti del rischio e nell’investimento
corretto e pianificato su risorse esterne. È un fenomeno endemico, che si è accentuato con l’affermarsi della nozione di “flessibilità”. Questo vale per il ricorso a figure capaci di portare innovazione e consulenza top-down, ma anche per dinamiche che
riguardano l’impiego di risorse poco qualificate, nell’uso indiscriminato, per esempio, di tirocini formativi (stage)39 come se
fossero reali contratti d’inserimento. Non è soltanto una questione di costi, ma di scorretta interpretazione della responsabilità d’impresa e incapacità di pianificare il futuro, dando il giusto peso al tempo nel suo rapporto con il lavoro.
La nascita della Jackpot Economy
Il passaggio da un’azione considerata promozionale alla fornitura reale di servizi è sempre stato piuttosto chiaro nel mondo
della consulenza eppure anche su questo fronte le cose stanno
cambiando. Grazie soprattutto a quella centrifuga che è Internet,
il mercato cerca sempre di più di acquisire prodotti e servizi come se fossero prove curriculari. In questa direzione si può leggere la diffusione virale dei processi di ingaggio basati sul crowdsourcing via web, dove l’esperienza è addirittura un elemento superfluo della trattativa. Di che cosa stiamo parlando? Il crowdsourcing è la ricerca di fornitori attraverso sistemi di recruiting e
assegnazione delle commesse basati su tecnologie web: un’azienda o un’istituzione richiedono lo sviluppo di un progetto, un
servizio o un prodotto a un insieme distribuito di persone non
già organizzate, che rispondono online alla domanda di collaborazione fornendo una soluzione già articolata e spesso costruendola come se si fosse in gara. Al termine soltanto un freelance o
un team acquisirà l’ingaggio e verrà pagato per ciò che ha realizzato a sue spese e a suo rischio. Inizialmente il crowdsourcing
indicava il lavoro di volontari, attivi nelle comunità che realizzano prodotti o servizi open source, ma è diventato con il tempo
sinonimo di un modello di ricerca libera di fornitori e per i freelance una possibilità per offrire i propri servizi su un mercato
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globale. In questo contesto fortemente competitivo, aperto e rischioso, trovano per ora spazio richieste nell’ambito della creatività, della scrittura, del design e dello sviluppo di servizi tecnologici. Non è escluso, tuttavia, che si espanda a macchia d’olio
anche ad altri settori. Scrive Dilva Giannelli, art director con un
passato in azienda e oggi indipendente:
Chiunque – anche eventuali minorenni di cui sono responsabili solo i genitori – può partecipare a gare e concorsi creando il suo lavoro, che può essere scelto dal committente, detto anche sponsor, votato o commentato da altri. Se il committente è d’accordo, il lavoro
migliore vince un premio in danaro da cui dovranno essere detratte tutte le tasse ed eventuali costi. [...] La partecipazione a questo tipo di gare, per esempio nell’ambito della comunicazione pubblicitaria, fino a poco tempo fa era appannaggio soltanto di agenzie, perché fare gare non consisteva soltanto nel produrre un’eventuale linea strategica e preventivi – come accade in ogni altro ambito lavorativo – ma nel produrre idee, cioè produrre lavoro vero, gratuitamente. La partecipazione alle gare è stata una delle cause della deprofessionalizzazione nell’ambito della creatività pubblicitaria, oggi in caduta libera.40
E aggiungiamo noi, la volontà di intercettare fornitori senza discriminazioni di alcun genere sta svuotando il valore del lavoro, aprendo la strada del dumping sociale. Continua Dilva
Giannelli:
Per il committente è davvero una meraviglia: poter scegliere tra migliaia – forse milioni – di progetti architettonici fatti e finiti, pronti
per essere edificati, progetti che possono essere rielaborati, modificati, spezzettati, riciclati... sai la soddisfazione? Ah già, forse, per gli
architetti la soddisfazione sarà un po’ più limitata, non si garantisce alcuna certezza di reddito, nel sito non ci sarà la loro firma, sì,
è vero, siamo nel mondo della flessibilità e dell’insicurezza, però,
vuoi mettere la modernità?41
La conseguenza diretta di queste ricercate forme di buy-back
con cui le imprese recuperano le componenti più flessibili della
retribuzione di un freelance è la progressiva, lenta e graduale metamorfosi dei sistemi di trust e di rischio con cui si guarda ai risultati di lungo termine, e il rovesciamento delle logiche di investimento verso percorsi di finanziarizzazione del lavoro.
In questo contesto il “futuro” non è più il momento naturale
in cui attendersi risultati guidati dagli interventi del consulente,
ma il tempo in cui sarà, al contrario, il freelance a dover riporre
le sue speranze per ottenere il giusto riconoscimento, farsi pa192
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gare, vincere un premio di risultato o suddividere – come dice
Andrew Ross, professore del dipartimento di Social and Cultural
Analysis della New York University – un jackpot.42 Senza forza
negoziale, individuale e collettiva, la professionalità del freelance rischia di essere travolta da un vero appiattimento verso
produzioni a cottimo e riduzioni dei compensi a “regole aziendali”, verso gare pagate ex post o forme di ribasso senza limiti,
lasciandolo allo scoperto e solo, in un campo globale che non ha
più frontiere né lingue, dove ci si deve confrontare addirittura
con chi offre collaborazione gratuitamente,43 ovvero con una platea sempre più numerosa e agguerrita di freelance che scelgono
questa strada per iniziare, per disperazione, perché forse non
hanno più nulla da perdere o ritengono di poter portare a casa
qualcosa, magari in un secondo momento, in un futuro, appunto, che non ha più una vera forma o come si dice “non è più quello di una volta”.
Il lavoro gratuito, meglio di nessun lavoro?
In molti pensano che mantenere vivi i contatti con determinati ambienti produttivi sia comunque “meglio di niente” e questa non è soltanto una sconsolata battuta che si ascolta nell’informalità dei racconti sulle esperienze di lavoro, ma attraversa dibattiti molto più seri relativi alla costruzione di un mondo
del lavoro più flessibile: si pensi allo slogan lanciato nel 1999 da
Bill Clinton “Un lavoro qualsiasi è meglio di nessun lavoro”, ripreso poi da Antonio Fazio, ex governatore di Bankitalia, e da
Emma Bonino, oppure la convinzione che “Nessun lavoro è così duro come non lavorare”, slogan stampato sui manifesti dell’Ufficio di coordinamento federale delle iniziative per i disoccupati in Germania nel 1998.44 Di recente anche il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi ha ricordato, in particolare ai giovani neolaureati, che in periodo di crisi è necessario rimboccarsi le maniche e accettare qualsiasi lavoro invece di aspettare un mestiere attinente al percorso di studio intrapreso. Ma perché uno dovrebbe cestinare il sapere acquisito e passare da scienze della formazione a fare l’artigiano? Ti dicono che serve per migliorare le
tue competenze e acquisire nuove conoscenze, per fare esperienze
internazionali o fruire di momenti di formazione. In altri casi
semplicemente per la possibilità di esserci, partecipare, comparire come lavoratore invece di non esserci. Dopo la caduta del
Muro di Berlino e l’allargamento dei mercati con la globalizzazione è meglio qualcosa, anche poco, invece di farsi inghiottire e
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sparire dal mondo del lavoro. Eppure gli “scoraggiati” aumentano, dice l’Istat. Basta leggere le sue rilevazioni degli ultimi dieci
anni sulle forze lavoro in Italia. Il fatto è che tutto questo ha a
che fare con la progressiva e silenziosa rimozione del compenso
economico dalla trattativa e la sua sostituzione con altra merce
di scambio. La Francia non trova più tirocinanti disposti a sorvegliare gratuitamente la fauna delle coste della Bretagna in estate. Ma che cosa si aspettano dai diplomati quando lo stesso paesaggio si può vedere oggi da una webcam mentre si googleggia o
chatta su Facebook da casa? Il problema rispetto al lavoro autonomo è un po’ più serio e si pone quando nell’indecisione personale di chi non sa se accettare questo trade off tra ricevere una
remunerazione e farsi un curriculum si intromette la malafede
di chi offre il valore dell’esperienza come pura ricompensa. Il giusto compenso? Il fatto di lavorare! La tentazione di accettare coglie soprattutto chi è in fase di transizione e vede l’opportunità
come una porta di ingresso verso ulteriori sviluppi senza accorgersi che può infilarsi in una gabbia. Questo perché la posizione
da lavoro autonomo non prevede affatto l’inserimento in una stabile e “pur minima organizzazione imprenditoriale”45 e non è quasi mai il viatico per successivi ingaggi. In più ci si mette il fattore tecnologico e la possibilità di lavorare a distanza, che alimentano a dismisura queste opportunità: si va dalla collaborazione
partecipativa alle iniziative web based per arrivare a tutti quei lavori in cui la ricompensa offerta al freelance equivale alla sola
possibilità di essere visibile in Rete. In un clima di degrado progressivo del lavoro gli imbonitori digitali hanno facile gioco nel
rivendere il fatto di essere un collaboratore come opportunità
tout court, more than zero. Questo è davvero il punto più basso
nella costruzione di un prezzo e di una relazione professionale,
perché viene completamente annullata la trattativa e si chiede lavoro gratuito in cambio di fiducia. Quando si entra in questa spirale, molti freelance fanno ricorso a risorse individuali attraverso le quali ammortizzare trattative unilaterali e non negoziabili. Per tenere duro, si dice. C’è chi decide di operare sottocosto, o gratuitamente, sostenuto da condizioni familiari favorevoli, una casa di proprietà, un compagno o una compagna con
un lavoro stabile, oppure grazie a investimenti personali e strumenti già acquistati. È una forma di riequilibrio possibile, è vero, ma sbilanciata sotto il profilo economico perché legata a posizioni di rendita e asset personali svincolati dalle attività professionali. Espone vita e investimenti individuali alla mercé di
committenti, mode, filosofie del lavoro che esaltano la gratuità
senza mostrarne i rischi.
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Se il lavoro è un sogno che non si avvera allora svegliati
Uno dei più attenti critici di questa tendenza si è rivelato negli ultimi anni Andrew Ross, che non ha lesinato stoccate ai sistemi che promuovono la libera attività e sono basati sulle nuove forme di digital labour.46 Quella che avrebbe dovuto diventare
per Jeremy Rifkin una liberazione dal peso del lavoro manuale47
non porta alla fine del lavoro, ma si sta trasformando per Ross
in un incubo vivente, sempre presente, un percorso indeterminato, quasi una lotteria per chi vuole fare ingresso nel mondo del
lavoro soltanto attraverso la stretta porta delle interazioni digitali. Guardando al ristretto segmento del publishing americano,
dove è andato perso negli ultimi dieci anni il 36 per cento dei posti di lavoro, Andrew Ross dichiara:
Può essere considerata plausibile l’idea che molto del lavoro che si è
generato nel gap tra vecchi e nuovi strumenti sia stato trasferito negli interstizi dell’economia degli utenti che prevale sul web: considerare la questione della corrosione delle retribuzioni del lavoro professionale è solo metà del problema, ma è proprio ciò che i “tecnolibertari” negano nel descrivere le meraviglie del self publishing e della liberazione dai vincoli degli editori. La cosa più interessante è che
il materiale prodotto dalla social economy online è sempre più materiale per motori e sistemi di speculazione e profitto.48
Nel mondo del lavoro freelance il premio è l’autonomia, ma
la trappola è là che aspetta e si chiama downgrading, ribasso o
dumping, giocati sul filo di lana con il lavoro gratuito o la promozione individuale che non arriva a produrre reddito. Dice Ross,
parlando di Internet, ma il discorso potrebbe tranquillamente essere esteso a molti altri ambiti:
Chi ha sempre visto il cyberspazio come paradiso di libertà è notoriamente cieco nei confronti dell’impatto che questo ha avuto sui tagli dei costi nel mercato del lavoro.49
Inutile negare, il potenziale per scardinare il modello tradizionale di organizzazione del lavoro è elevatissimo, così come è
sempre più diffusa l’idea di poter costituire mercati del gratuito
ed economie alternative di ogni sorta. Ma c’è qualcosa che non
funziona perché, come dice Andrew Ross,
i vecchi media sono chiaramente allineati con l’etica neoliberale della Jackpot Economy che chiede a tutti di partecipare a un gioco che
però remunera soltanto pochi.50
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Molte di queste situazioni spingono in un angolo chi svolge
attività cognitiva e intellettuale in proprio, costringendolo a trovare opportunità dove si mascherano iniziative d’impresa. Sul
blog Humanitech.it qualcuno volle prendere le distanze da queste forme di “jackpot economy”, pur facendone parte, e disse: “Io
lavoro gratis, ma per qualcosa, non per qualcuno!”.51 Ecco, il rischio più alto è di nascondere nella dinamica di piccolo cabotaggio o nelle scelte individuali valori più complessi e collettivi,
di inghiottirli in silenzio sperando in un futuro migliore. È giusto ricordare però che i rapporti di forza, tra capitale e forza lavoro direbbe chi usa ancora questo linguaggio, sono oggi ridimensionati e alcuni meccanismi cercano di farli sparire, spalmando sul singolo il rischio ed eliminando la remunerazione di
un premio che viene differito in un futuro imprecisato, e non sempre, come dovrebbe accadere nella consulenza professionale, in
un futuro previsto e anticipato in un compenso adeguato. Questo cortocircuito tra futuro imprevisto e rischio d’impresa che dovrebbe, ma non si assume la responsabilità di remunerare risultati attesi, è oggi del tutto evidente in alcune dinamiche legate al
lavoro gratuito via Internet, in particolare di chi si fa promotore
di user generated content o, come scrive Carlo Formenti,52 svolge
un’attività di prosumer, un po’ produttore un po’ consumatore.
Diventa esplicito là dove la gratuità si mescola all’apparente mancanza di finalità economiche. Spiega Formenti:
Uno dei capisaldi della critica marxiana dell’economia politica consiste nel puntualizzare che non esiste qualcosa come il “valore del
lavoro” (pur essendo la sorgente di ogni valore economico, il lavoro in quanto creatore di valori d’uso, ricambio organico fra uomo e
natura, non ha valore di scambio): esiste, se mai, un valore della forza lavoro, cioè delle capacità lavorative socialmente prodotte, convertite in merce e dunque spendibili su ciò che impropriamente definiamo “mercato del lavoro”. Una distinzione concettuale che rischia di perdere senso nel contesto dell’economia di Rete, dove, a
creare valore, non è più solo o prevalentemente l’attività lavorativa
di produttori riconosciuti come tali e ingaggiati in una relazione
formale di scambio con le imprese capitalistiche, bensì la cooperazione spontanea e “gratuita” fra comunità di utenti/consumatori
impegnati in progetti spesso (apparentemente) privi di finalità economiche.53
L’economia della conoscenza mantiene un livello sotto traccia che sta evolvendo verso forme di suddivisione del valore e di
“capitalismo distribuito”, dove non vi è però condivisione del capitale o della ricchezza, ma soltanto del rischio. Andrew Ross, citando Mario Tronti, lo chiama social factory,54 un socialismo
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cooperativo di nuova generazione, una forma di partecipazione
libera al mondo del lavoro e della produzione intellettuale che
nasconde però l’accumulo di un “jackpot” e di risorse economiche riscattabili soltanto da pochi. Alle spalle di questo fenomeno
c’è un fatto importante: i mezzi di produzione, oggi le tecnologie
digitali, hanno consentito di abbattere considerevolmente i costi
di produzione, scardinando poteri e vincoli, alimentando una
spinta libertaria verso nuove forme di creazione intellettuale e un
capitalismo cognitivo che ha trovato proprio in questi ultimi anni una giustificazione teorica forte, ovvero l’idea di poter dare vita a un’economia nuova, che potesse finalmente essere guidata
dalla felicità,55 e trovasse il suo coronamento nel dono e nella gratuità, nell’offrire cioè qualcosa allo spazio sociale, come contributo personale.56
Donare il tempo, ma quando è un contributo
professionale che cosa accade?
Niente di più indovinato per definire nuovi spazi per le collaborazioni gratuite, professionali o meno, poco importa. La giustificazione teorica a sostegno di tutto questo ha trovato nel mondo dei blog italiani una grandissima e incondizionata adesione.
Il Saggio sul dono di Marcel Mauss57 è stato per lungo tempo il
testo più citato da chi ha visto nell’affermazione della gratuità su
Internet la strada per un’economia di nuova generazione aperta,
libera, determinata dalla società e svincolata da centri di potere
o interessi economici, un modo nuovo di abitare nelle comunità
digitali,58 per regolare meglio gli scambi interni alle digital social
factories, tribù dove la moneta è assente.
Mentre questa filosofia ha avuto e continua ad avere un’importante risonanza positiva nei contesti no profit, nelle manifestazioni personali di libero pensiero o nello sviluppo di comunità
open source, le cose sono più delicate quando si intacca l’economia
produttiva, il mondo cioè dei mestieri e il lavoro professionale
autonomo che si relaziona alle imprese e al mondo dei profitti.
La linea di confine con il lavoro gratuito viene assottigliata moltissimo e proprio su questo carro hanno iniziato a salire numerose imprese, soprattutto quelle web oriented. Basta citare
l’esempio dell’italianissima esperienza di Blogosfere.it che partì
in sordina nel 2005 come un aggregatore di blog sul quale ci si
poteva proporre liberamente e scrivere in qualità di “esperti” senza avere la certezza di un compenso assimilabile a quello di un
normale giornalista. Poco dopo il servizio arrivò a una quota197
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zione di 2,5 milioni, venne incorporato nel gruppo Il Sole 24 Ore
e successivamente ceduto a Populis, network italiano di blog, in
una delle più clamorose operazioni di speculazione finanziaria
di un sistema soltanto apparentemente considerabile una vera
social factory.59 Al di là dei casi concreti, è interessante ricordare come la critica più radicale mossa alle teorie di Mauss avvenne prima ancora che nascesse la grande avventura di Internet. Si tratta del lavoro che Jacques Derrida raccolse nel saggio
Donner le temps60 e che ci può aiutare a capire come affrontare
la questione del tempo, del suo valore e del differimento nel circolo dell’economia. Scrive il filosofo francese:
Oltre ai valori di legge, casa, distribuzione e spartizione, l’economia
implica l’idea di scambio, di circolazione e ritorno. È l’oikonomia.
Scambio circolare di beni, prodotti, opere, segni monetari. La legge dell’economia è il ritorno al punto di partenza, all’origine, alla
casa.61
Alle homepage, diremmo oggi. Per Marcel Mauss il dono nella sua gratuità restituisce miracolosamente sempre qualcosa, ma
non era chiaro all’antropologo quale forza nella cosa donata facesse sì che il donatario la ricambiasse. A questa domanda risponde Jacques Derrida:
Il dono, se ce n’è, si rapporterebbe senza dubbio all’economia. Non
si può trattare del dono senza trattare di questo rapporto con
l’economia, ed è ovvio, perfino con l’economia monetaria.62
E qual è il nesso con l’economia? Il tempo, ovvero il valore
del tempo e la sua interpretazione rispetto al modo in cui avviene lo scambio di beni o di forza lavoro. Precisa ancora meglio il
filosofo francese:
Il dono non è dono, non dona che nella misura in cui dona il tempo. Il dono, rispetto a ogni altra operazione di scambio, dona il tempo
e chiede il tempo, perché la cosa donata non sia restituita immediatamente.63
Tempo, dono ed economia si legano in maniera indissolubile e non eliminano il nesso con la moneta neppure quando viene apertamente dichiarato che lo scambio è gratuito: ciò che intacca oggi la qualità del lavoro, mandandolo in frantumi, è l’idea
che il dono del tempo possa avere un differimento infinito, come se fosse una liberazione, o al contrario che sia un puro affare di chi presta la propria opera, che deve vedersela da solo, al
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di là di quanto accade nel suo rapporto immediato con i committenti. Sostengono Adam Arvidsson, Giannino Malossi e Serpica Naro, avvicinando questa lettura anche al mondo del design e
della moda:
La tendenza verso l’individualizzazione del lavoro immateriale sembra una caratteristica della fase neoliberale del capitalismo dell’informazione.64
E non sbagliano, perché quando si viene pagati soltanto con
l’opportunità di utilizzare i mezzi di produzione o con la pura
partecipazione alla costruzione di brand altrui, come se fosse un
evento fuori da ogni contesto economico, il rischio sul piano individuale è altissimo. Si afferma l’idea che la rivalutazione dei
contributi professionali possa avvenire in un prossimo futuro,
ma non oggi, e che il lavoro si debba fornire gratuitamente per
una ragione individuale, personale, per migliorare il valore di
qualcosa a cui forse, non è detto, potremmo accedere più in là.
A ben guardare questa non è altro che una versione utopica del
banale sistema aziendale di remunerazione differita al momento in cui si entra in possesso dei risultati, ovvero una formula vuota di gain sharing o profit sharing che ci esclude dalla condivisione fino a data da destinarsi. È il punto limite, da non oltrepassare poiché l’assunzione intera del rischio è un onere insostenibile
per un freelance: svaluta sia le proprie opere sia la propria attività. Alla fine, Marcel Mauss il suo Saggio sul dono non lo regalò
agli editori. E poi che cosa resta da offrire e da donare al termine del lavoro gratuito?
C’è una risposta nella nostra Costituzione?
L’inversione delle forme di rischio, che scivolano dal mondo
delle imprese ai lavoratori autonomi, o la svalutazione della consulenza, remunerata a cottimo, e infine il degrado del lavoro gratuito non sono certamente questioni individuali. L’esaltante rush
libertario dell’informazione generata dagli utenti sul web è soltanto il più evidente esempio di uno spostamento generalizzato
delle dinamiche del lavoro dal produttore al consumatore, dall’impresa al lavoratore e in molti casi, con la crisi dell’economia,
dal sistema imprenditoriale incardinato su una forza lavoro che
ha costi non comprimibili verso il lavoro professionale autonomo. Tutto questo, come dice Andrew Ross, è “just another transfer of work from more regulated kinds of labor market”,65
l’ennesimo tentativo di sottrarsi alle forme più regolate di lavo199
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ro. Non soltanto da quello subordinato, come indicano oggi sindacati, politica o stampa, ma più in generale è una deriva che sottrae qualità al lavoro, intaccando la correttezza delle relazioni e
la dignità dei lavoratori. C’è un filo diretto tra lavoro sottopagato o gratuito e questo transfer, che il più delle volte inganna, facendoci credere che è impegnandosi con dedizione che possiamo salvaguardare in futuro altre occasioni. In realtà è un circolo vizioso, che fa di overwork, underpayment e sacrificial labour
nuove norme non scritte contro le quali l’arma dello sciopero è
oramai una forma spuntata di lotta. E allora quali nuove coalizioni sono in grado di resistere e combattere? Come non lasciare che il lavoro professionale autonomo sia manovrato a piacere, impropriamente e verso una svalutazione e un ribasso senza
ritorno? A nostro avviso le coalizioni non sono e non devono essere semplici organizzazioni, ma prima di tutto il risultato di un
atteggiamento soggettivo tra le persone affinché si associno con
altri e rivendichino i propri diritti. E cercando una risposta a partire dal diritto ci è venuto l’istinto di leggere la nostra Costituzione. Abbiamo trovato queste parole nell’articolo 36:
Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare
a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha
diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può
rinunziarvi.
In chiusura del nostro discorso sul giusto compenso non resta che chiederci se la nostra Carta costituzionale indichi qualche via d’uscita o lasci il mondo del lavoro autonomo allo scoperto. Concordare un riposo con i clienti o avere delle ferie forse non sono dovuti, ma la proporzionalità della retribuzione alla quantità e soprattutto alla qualità sono diritti invalicabili, costitutivi anche e soprattutto del lavoro indipendente. Ebbene, che
fine hanno fatto? Nel tempo sono diventati applicabili soltanto
al lavoro subordinato. Perché? Scrive Pietro Ichino in una relazione tenuta nell’aprile del 2010 all’Accademia dei Lincei proprio
su questo tema:
Fino alla metà degli anni novanta la dottrina quasi unanime – così
come ancora all’inizio del nuovo secolo la giurisprudenza (Cassazione n. 13941/2000) – ha teorizzato la coincidenza pressoché perfetta dei confini del campo di applicazione dell’articolo 36 con l’area
del (solo) lavoro subordinato.66
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La norma nacque nell’Assemblea costituente dalla convergenza tra le istanze di parte socialista e comunista e quelle dei
democristiani progressisti, portatori della lettura più incisiva e
interventista della dottrina sociale cattolica, ovvero da due correnti di pensiero che più di ogni altra, intorno alla metà del secolo scorso, attribuirono un ruolo rilevante allo stato e alla coalizione sindacale nella determinazione e nell’incremento degli
standard di trattamento dei lavoratori. Era un’epoca senza partite Iva, finte o vere che fossero, e soltanto con la regolazione
dei contratti a progetto. Dopo quasi cinquant’anni è cambiato
qualcosa:
Nell’ultimo quindicennio è venuta invece progressivamente diffondendosi, fino a potersi considerare oggi maggioritaria, la consapevolezza dell’impossibilità logica di escludere drasticamente e indiscriminatamente dalla protezione costituzionale tutti i rapporti di
collaborazione autonoma a carattere continuativo.67
Il postfordismo bussa alle porte del diritto e l’unica apertura
possibile pare essere quella nei confronti dei collaboratori autonomi. Il riferimento alla legge Biagi è esplicito,68 ma è una strada che non ci convince. Separare i lavori svolti con continuità per
uno stesso committente dall’opera prestata per diversi clienti introduce un punto discriminante che non aggiusta le carenze della nostra Costituzione. Divide piuttosto il lavoro autonomo in due
invece di ricomporre la sua forza e la sua diversità da quello subordinato. Nel lungo discorso di Ichino sul giusto compenso, all’Accademia dei Lincei, ci sono però almeno quattro elementi utili per affrontare la questione. Il primo è il richiamo alla genesi di
quanto enunciato dall’articolo 36 della Costituzione. Già nel 1928,
si dice, l’Organizzazione internazionale del lavoro, con la convenzione n. 26, dichiarò i princìpi secondo i quali il legislatore fosse obbligato: 1) a fissare minimi retributivi laddove i salari – il riferimento era allora solo al lavoro subordinato – fossero “eccezionalmente bassi”; 2) l’inderogabilità in pejus di questi compensi.
Ora, se si vuole tenere fede a questi princìpi fondanti della nostra cultura del lavoro, la stessa che ci ha portato al modello sociale europeo, perché non impegnarsi a trovare forme equiparative degli elementi economici almeno là dove i contenuti professionali sono equivalenti, onde evitare che la deroga in peggio sia
messa in atto dalle imprese proprio nell’impiego di lavoratori indipendenti? Nella grande città del lavoro autonomo, però, non
soltanto nei quartieri alti dei Co.Co.Pro. Se volessimo tornare a
quanto enunciato dall’Ilo, non sarebbe del tutto errato che al201
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meno lo stato adottasse al suo interno minimi retributivi per progetti assegnati ai collaboratori autonomi, che li tutelassero da
compensi “eccessivamente bassi” in modo da indurre (senza obbligare per legge, cosa impossibile da ottenere) comportamenti
virtuosi anche nel mercato privato.
Il secondo elemento riguarda invece lo scambio tra sicurezza nella continuità lavorativa e retribuzione. Nel lavoro subordinato, scrive Ichino,
il datore mediante il contratto si accolla – entro un limite determinato – il rischio degli impedimenti sopravvenuti e il lavoratore paga la copertura così acquisita con un “premio assicurativo” implicito, percependo una retribuzione inferiore rispetto a quella altrimenti
ottenibile. Per avere un’idea dell’entità di questo premio implicito
basti considerare la differenza di compenso, secondo gli standard
correnti, tra l’ora di lavoro di un artigiano falegname, o di un antennista, o di un ragioniere, e l’ora di lavoro di un dipendente qualificato che svolga esattamente le stesse mansioni. Un dipendente
ha, per così dire, acquistato la sicurezza della continuità del proprio
reddito in cambio di una riduzione del reddito stesso, ma tutto quanto egli riceve – compresa quella sicurezza – è il corrispettivo della
sua prestazione lavorativa, globalmente considerata ex ante come
soggetta al rischio di determinate sospensioni. Appare evidente che
nella valutazione del trattamento economico del lavoratore alla stregua del principio di “giusta retribuzione” deve tenersi conto anche
del contenuto assicurativo del rapporto di lavoro.69
In altre parole, il posto fisso ha una busta paga alleggerita dei
rischi in carico al datore. Chi non accetta questo compromesso
è pagato di più, dice Ichino. In verità l’esempio proposto non si
può estendere al lavoro professionale autonomo che come abbiamo visto è retribuito meno di quanto avvenga in azienda.
L’errore più vistoso di valutazione sta proprio qui. Sulla carta un
freelance dovrebbe percepire un premio molto più elevato perché si accolla rischi non ceduti al committente, ma in pratica
l’impresa abbassa la spesa e insieme il rischio economico, cercando in ogni modo di fare buy-back a basso costo dei valori esternalizzati. Continua il giuslavorista:
La ripartizione di questi rischi tra datore e prestatore di lavoro avviene per mezzo della combinazione tra due disposizioni contrattuali: quella concernente l’estensione e l’intensità della tutela contro il recesso unilaterale del datore e quella concernente il grado di
sensibilità del trattamento retributivo al risultato, sia esso individuato nella quantità del prodotto o nell’utile conseguito. Alla collocazione di ciascun rischio in capo al datore corrisponde un’utilità
per il prestatore, in termini di maggiore sicurezza del reddito; il che
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comporta – nel rapporto di lavoro contrattato dalle parti – un costo
implicitamente o esplicitamente pagato dal prestatore stesso in termini di minore retribuzione.70
Questo è il punto più delicato perché sia in termini di rischio
d’impresa – rispetto ai risultati presunti derivanti dal ricorso a una
consulenza – sia rispetto al rischio relativo all’avere una posizione di lavoro individuale sul mercato, che significa affrontare in
autonomia discontinuità di ogni genere (malattia, ricerca di committenze, promozione personale, obsolescenza del sapere ecc.)
non vi è un premio adeguato, ma soltanto una forte esposizione
del freelance. In particolare, e questo è il terzo punto, la sproporzione avviene in una determinata componente retributiva che è
quella cosiddetta “sociale”. Nel lavoro subordinato infatti la nozione di retribuzione mette insieme due prestazioni concettualmente distinte: una di natura corrispettiva, che unisce biunivocamente il lavoro effettivamente prestato e la proporzionalità del
compenso, e una di natura sociale, appunto, che tutela il lavoratore nei suoi diritti fondamentali o “di cittadinanza”, riconducibili al principio costituzionale della sufficienza indicato nell’articolo 38 della Costituzione.71 Nel rapporto di lavoro autonomo tutto (o quasi) è al contrario in carico al lavoratore che deve scorporare parti della retribuzione lorda per provvedere a questi diritti
per poi affidarsi ai servizi comunque ampiamente insufficienti
dello stato. Perché non estendere al committente quote di ammortamento di questi diritti del lavoratore, per esempio ampliando
lo spettro della cosiddetta “rivalsa” o della ripartizione degli oneri contributivi? O altrimenti perché non incidere sull’imposizione fiscale fino a determinati tetti di reddito sotto i livelli del lavoro “standard”? Finché ci sarà un’equiparazione fittizia tra insider
e outsider, senza questa componente di equità, i diritti di cittadinanza saranno sempre declassati per gli autonomi. Come superare lo scoglio? Qui arriva il quarto e ultimo punto.
Lavoratori, non merce
A nostro avviso è necessario portare questi lavoratori nelle maglie del diritto del lavoro, sottraendoli alla pura esposizione verso
il diritto commerciale. I freelance non sono “merce”, non sono imprenditori o capitalisti, non hanno capannoni, non sono imprese
o ditte, sono lavoratori. Per questo crediamo vada riconsiderata
una delle più radicate convinzioni del diritto del lavoro italiano e
della cultura sociale del nostro paese. Scrive il giuslavorista:
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Autonomi e dipendenti rientrano nella nozione di “lavoro” a cui si
riferisce l’articolo 35 della Costituzione. Ma questa nozione è assai
più ampia dell’area cui si estende il principio della “giusta retribuzione”: è a tutti gli effetti “lavoro” protetto dall’articolo 35 anche
quello dell’imprenditore, inteso nell’ampio significato del termine
fatto proprio dall’ordinamento comunitario, comprensivo del libero professionista, destinato normalmente a operare in un mercato
concorrenziale in posizione di indipendenza effettiva nei confronti
dei propri clienti o committenti. Anche l’imprenditore, beninteso,
può soffrire di conseguenze dannose di distorsioni del mercato; ma
la correzione di queste distorsioni va ricondotta al principio di protezione della concorrenza e non a quello della “giusta retribuzione”
di cui all’articolo 36.72
Qui sta il nodo: il passaggio per i freelance dall’ambito del lavoro a quello della semplice concorrenza tra “imprese”. La loro
equiparazione alle aziende è un falso storico, abnorme e deleterio. Nei fatti e nelle valutazioni oggettive delle imprese questo
non avviene, è inutile dire il contrario anche nel formalismo del
diritto. Come si può pensare di delegare questioni di relazione
economica di questo tipo all’Antitrust? O immaginare di porre il
tema del giusto compenso sotto il profilo della concorrenza sleale tra una multinazionale e un lavoratore autonomo? Hanno forse lo stesso peso, le stesse risorse, la stessa voce? Nella definizione delle priorità, di ciò che dovrebbe stare erga omnes, crediamo vada posta la tutela generale del lavoratore inteso come
persona e cittadino, una difesa che intervenga in maniera indipendente dalla natura del suo lavoro. Finché non avviene questo
salto, non in avanti, ma indietro, che riporti freelance, professionisti autonomi e consulenti nell’alveo dei diritti universali di
cittadinanza, sarà il mercatismo a dominare sulle teste di questi
lavoratori sempre più esposti a riduzioni, svalutazioni e rischi.
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7.
Gli outsider del welfare state
Le crisi silenziose fanno più danni di una devastante rovina
sotto gli occhi di tutti. Possono protrarsi più a lungo e senza che
siano prese le giuste contromisure, a partire dal semplice avviso
ai naviganti che stanno affondando. Nel nostro paese non abbiamo assistito a processioni di dipendenti o manager licenziati
che abbandonano in massa e in silenzio, in pieno centro di una
grande città, con i propri effetti personali in una scatola, gli uffici di banche o assicurazioni. Non abbiamo realmente assistito
alla rappresentazione fisica di una crisi nella sua dimensione più
ampia. I nostri brutti quartieri ai margini delle città non hanno
new towns deserte, costruite in serie, con prefabbricati a basso
costo, e abbandonate poi a se stesse, rimaste sfitte e vuote. La desertificazione prodotta dalla crisi in Italia ha intaccato altri territori rimasti allo scoperto e privi di protezioni, ha bussato prima e con maggiore frequenza alla porta del lavoro non tutelato,
atipico e autonomo, composto da figure che non godono di rappresentanza e dunque escluse dalle stanze del potere, dai media
e dallo stato sociale.
L’apartheid sociale che emerge con la crisi
Nelle dieci fasi di recessione che dal 1948 al 2010 hanno investito l’economia occidentale, soltanto la più recente ha visto
ventiquattro mesi ininterrotti di riduzione dei posti di lavoro. Nonostante questo, la crisi più profonda che il mercato del lavoro
abbia maturato nell’ultimo dopoguerra non sembra avere raggiunto l’opinione pubblica e destato grande allarme sociale. Perché? Il livello dell’occupazione ha fatto un passo indietro di set205
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te anni. Le richieste di sussidi e il ricorso alla cassa integrazione
sono schizzati alle stelle: nella sola provincia di Milano tra il 2007
e il 2009 sono quintuplicate. Economisti, governo e parti sociali
sono comunque concordi: il sistema di welfare sembra avere tenuto. Ma che cosa significa con precisione? Quali lavoratori vivono una crisi “morbida” e chi ha veramente subìto la recessione? E perché questo è avvenuto e presumibilmente avverrà anche per le prossime fasi di difficoltà economica? Le risorse pubbliche stanziate nella XVI legislatura italiana per fronteggiare la
crisi occupazionale ammontano a 13 miliardi di euro, in gran
parte, però, a carico delle regioni che per fare cassa hanno stornato ampie quote di risorse destinate alla formazione e provenienti dal Fondo sociale europeo. Sono somme ingenti, cifre monstre, amministrate nel delicato risiko della crisi direttamente da
governo, amministrazioni locali e sindacati, attori che giocano
un ruolo di primo piano in una partita politica e d’immagine senza precedenti, che consente di salvare posti di lavoro, aziende e
famiglie dalla bancarotta. Quale potere più grande è mai stato
concesso a chi interviene nelle politiche per il lavoro? I beneficiari di questa pioggia di euro sono stati principalmente i lavoratori dipendenti di grandi imprese e (con deroga) di piccole società, ovvero chi presta servizio là dove il licenziamento è un iter
complesso. I riflettori sono stati puntati lì. Da una parte impiegati e operai hanno occupato imprese, bloccato cancelli, manifestato sul tetto degli stabilimenti. Dall’altra una platea di lavoratori atipici, consulenti con partita Iva, collaboratori e, in molti casi, anche liberi professionisti sono stati costretti ad approntare in silenzio atterraggi di fortuna. Soli, senza nessun supporto o protezione sociale, visto che il nostro welfare non prevede
alcun ammortizzatore: la perdita secca di reddito è arrivata immediatamente e senza preavviso. Nel mese di maggio del 2009 il
governatore di Bankitalia, Mario Draghi, parlò senza mezzi termini di una platea di 1,6 milioni di lavoratori che sarebbero rimasti senza sostegno in caso di perdita del lavoro.1 Otto mesi prima, criticando il disegno di legge per l’estensione dei contratti a
termine, anche Pietro Ichino parlò di un progressivo consolidamento di “un regime di apartheid tra protetti e non protetti”.
“Questo modello del mercato del lavoro duale,” dichiarò il senatore del Pd, “genera oggi posizioni di rendita da una parte, dall’altra situazioni di precarietà di lunga durata, per ragioni che
hanno poco o nulla a che vedere con il merito delle persone interessate.”2 Il 75 per cento di chi perse un’occupazione nel primo
anno di crisi finì proprio in questo “ghetto”. Carlo Dell’Aringa in
un intervento al Palazzo del lavoro di Milano3 fotografò nel 2009
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la situazione individuando da una parte “un blocco granitico e
quasi monolitico” di soggetti interessati da uno Statuto del lavoro, sistemi di protezione sociale forte e diritti acquisiti che tutelano le famiglie e garantiscono sicurezza, malattia e previdenza,
e dall’altra un variegato mondo di outsider che si fanno carico
della flessibilità senza avere alcuna protezione e maturano posizioni previdenziali del tutto inadeguate ad affrontare il futuro.
Tra questi ci sono certamente i lavoratori professionali autonomi. È un discrimine che si sta delineando attraverso una delicatissima battaglia politica e sociale che negli anni ha visto una revisione profonda di molti istituti legislativi e contrattuali, diritti
e politiche di welfare anche locali, e si è radicato nel tessuto sociale grazie a dinamiche di polarizzazione interna al mercato del
lavoro che pone oggi tra gli outsider principalmente le donne, i
giovani e giovanissimi (in particolare i laureati), i lavoratori autonomi di seconda generazione e tutti i nuovi disoccupati. Soggetti che potenzialmente potrebbero ritrovare ragioni comuni per
una nuova lotta sociale. Le rivendicazioni e il malessere mostrato nel dicembre 2010 durante la pacifica occupazione dei monumenti del paese da parte degli studenti italiani contro la riforma
dell’università non sono del tutto separati dalle urgenze che mettono in difficoltà i lavoratori intellettuali autonomi o di tutti quei
soggetti abbandonati dal welfare state e dalle politiche di sviluppo. Il cuore della protesta allora come oggi non era sulle misure
di contrasto ai baronati o sulle modifiche dei consigli di amministrazione degli atenei, ma sulla totale assenza di capitoli di spesa per incentivare lo sviluppo del sapere dal basso, per assistere
le fasi di transizione verso il lavoro, immaginare un futuro centrato sul valore della conoscenza e creare uno spazio di vita e
un’attività professionale sostenibile, anche nei momenti di fragilità economica.
Flexicurity, chi l’ha vista?
La dialettica che separa in e out, tutelati e lavoratori vulnerabili, neolaureati portatori di nuove conoscenze e raccomandati che scambiano un posto di lavoro con un voto politico è il vero campo di battaglia politica oggi. Per qualcuno questo contrasto è una sfida collettiva da giocare in supporto a gruppi sociali
posti in una condizione forzata “di ritardo” rispetto a una piena
valorizzazione del loro potenziale, come sostiene per esempio Angela Padrone nella Sfida degli outsider,4 ma non si coglie in pieno il problema. Non è soltanto una questione di dare tempo al
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tempo e trovare pure misure di incentivazione. Vi sono ragioni
forse più stringenti, maglie che nel nostro sistema definiscono
una contrapposizione forte tra condizioni lavorative oggettivamente differenti, le cui opportunità sono circoscritte da limiti legislativi, fiscali e contributivi. La decostruzione e frammentazione del mercato del lavoro operate sia dalla destra sia dalla sinistra italiane negli ultimi vent’anni – maturate con la legge Treu
e la riforma Dini fino alla revisione dei contratti a termine, passando dalla legge Biagi – hanno inseguito la falsa illusione di poter rendere tipiche o “aggiustare” le forme di lavoro ancora sfuggenti o grigie, se non addirittura confinate nel sommerso, rispondendo al contempo alle necessità delle imprese di disporre
di formule flessibili di lavoro (rispetto ai contratti a tempo indeterminato) per affrontare la discontinuità della domanda. Ciò che
è avvenuto in realtà è stata una progressiva riduzione delle tutele tipiche del lavoro dipendente e la conseguente lotta sociale e
sindacale per vedere riconosciuto al nuovo qualcosa di vecchio,
e garantire uguale sicurezza nella flessibilità (flexicurity), tralasciando del tutto il margine più lontano, eterogeneo per natura,
che è il lavoro professionale autonomo. In questo percorso tuttora aperto, e battuto implicitamente da ogni schieramento politico senza soluzione di continuità, il nodo del lavoro professionale autonomo è sistematicamente rimosso perché pone l’attuale
dialettica flessibilità-precarietà fuori asse e ne scardina le ipocrisie di fondo. Rappresentato nella sua partecipazione al mercato del lavoro dal cosiddetto popolo delle partite Iva – il mondo
dei freelance e dei consulenti –, fa oggi emergere criticità e contraddizioni, ponendo in primo piano la necessità di ripensare i
sistemi di welfare secondo logiche universalistiche, magari associate a diritti forti di cittadinanza, come peraltro avviene già
in gran parte d’Europa. È opinione comune che questo darebbe
vita a meccanismi di reale mobilità, garantendo protezione ed
equità nei confronti di ogni lavoratore in maniera indipendente
dal tipo di relazione che costruisce con i suoi committenti e non
metterebbe più i lavoratori su due piani, con il vantaggio non indifferente – come ripete spesso anche Andrea Fumagalli5 – di sottrarre anche il lavoro dipendente al ricatto cui è sottoposto, derivante dalla perdita dell’occupazione standard e dei diritti sociali a esso associati.
Oggi, però, tutto ciò non soltanto non accade, ma non sarebbe neppure possibile. Rinunciando a un’analisi granulare, si può
dire che il sistema italiano sia suddiviso in tre categorie di lavoratori: i dipendenti a tempo indeterminato, quelli a termine e il
mondo del lavoro autonomo. Tralasciando la moltiplicazione de208
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gli intermediari che oggi possono fare le veci del datore di lavoro finale attraverso contratti di somministrazione, appalto ecc.
arrivando fino alle cooperative – oggi vere e proprie “agenzie interinali low cost” –, appare evidente come la disputa politica e sociale si sia sempre giocata nel contrapporre il lavoro a tempo indeterminato con quello a termine, senza però approfondire la natura di quest’ultimo e tantomeno vagliare le potenzialità reali dell’autonomia, per tradizione associata soltanto a commercianti,
artigiani e liberi professionisti, e mai a lavoratori indipendenti
“in generale”. La cultura del lavoro oggi maschera tutto questo:
la pervicace volontà dei governi di centrodestra nell’allargare le
maglie del lavoro dipendente a termine ha sostanzialmente nascosto la presenza sempre più forte, consapevole, organizzata, e
oggi anche piuttosto agguerrita, di lavoratori che hanno sposato
radicalmente la filosofia del lavoro indipendente rinunciando del
tutto a essere sussunti nel mondo del lavoro salariato. Si pensi,
per esempio, a quanto accaduto intorno ai Co.Co.Co., progressivamente eliminati. Con che cosa sono stati sostituiti? Con contratti a progetto, considerati erroneamente dal mondo dei manager aziendali delle risorse umane (e ancor peggio spesso anche tra i consulenti del lavoro) come una forma depotenziata di
rapporto di lavoro subordinato, piuttosto che – come in realtà è
da un punto di vista del diritto del lavoro – come un contratto di
lavoro autonomo. La revisione delle relazioni di lavoro centrate
su progetti a termine è stata normata correttamente: la legge Biagi obbliga all’assunzione a tempo indeterminato qualora non siano rispettate le indicazioni sui contratti a progetto, ma questa revisione non ha saputo tracciare discontinuità col passato, prima
di tutto nella cultura del lavoro, mantenendo per i contratti a progetto e così per il lavoro autonomo l’ambigua valenza di un vincolo tra imprenditori e pseudodipendenti, ovvero datori di lavoro e “impiegati” di serie B. Ogni riforma della legislazione sembra nascondere la precisa volontà di sottrarre al lavoro indipendente di tipo professionale la possibilità di raggiungere una piena emancipazione e consapevolezza, facendo sì che il vincolo con
il capitale e il salario non venga mai rescisso. I pregiudizi sulle
collaborazioni, intese come relazioni di dipendenza, sopravvivono nei fatti: neppure il tentativo di condonare queste irregolarità,
come ha cercato di fare l’esecutivo di centrosinistra nel 2007, è
servito a molto. Le imprese continuano ad avere interesse a impiegare risorse qualificate su progetti interni come se fossero propri dipendenti, ma pagandoli meno. Gli stessi sindacati, che intervengono nel dibattito sul lavoro irregolare, hanno uguale interesse a riportare il variegato mondo degli outsider nel segmento
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dei “mancati dipendenti” per rinforzare così la propria linea di
difesa del lavoro subordinato. In realtà tra gli interstizi di un falso bipolarismo che vuole i lavoratori a tempo indeterminato come dipendenti di serie A e tutti gli altri come dipendenti mancati e di serie B, c’è un’anomalia sistemica che fa crollare l’intero
impianto logico con cui si affrontano oggi le riforme. Il mondo
delle partite Iva è un segmento “scomodo”, difficilmente circoscrivibile, di mercato del lavoro, che non nasce con lo smantellamento del lavoro subordinato, ma preesiste da decenni.
Lavoratori autonomi senza tetto né legge
In tempo di crisi – come scrisse Dario Di Vico sul “Corriere
della Sera” in una serie di approfondimenti che a partire da settembre 2009 il maggiore quotidiano italiano ha voluto intelligentemente dedicare al problema – avere una partita Iva sembra
addirittura l’unico modo di rimanere ancorati e “iscritti formalmente al mondo del lavoro”. Forse perché è il modo più semplice, come dimostra il fatto che il Codice civile ponga proprio la
partizione tra subordinazione e autonomia prima di ogni altra
fattispecie di relazione lavorativa. Se non sei dentro un’impresa,
non resta che la formula più libera e aperta di partecipazione al
mondo del lavoro, ovvero l’indipendenza, e quale sia questo tipo
di lavoratore oggi non è più un mistero. In Italia le analisi di chi
scrive o di Federico Butera, Enzo Rullani, Gian Paolo Prandstraller o Angelo Deiana sul capitalismo intellettuale, il postfordismo e il knowledge working, e gli studi di Aldo Bonomi, che
chiama questi lavoratori “capitalisti molecolari”, hanno colto bene le trasformazioni della società postfordista e descritto abbondantemente questo popolo nato in seno al terziario avanzato, ponendolo correttamente nella “seconda generazione” di partite Iva,
dopo artigiani e commercianti. Alla fine degli anni novanta il quadro teorico era abbondantemente delineato e ancora, dopo dieci
anni, Emiliana Armano ha saputo produrre un’ottima sintesi di
queste rappresentazioni,6 inserendole nel contesto più ampio del
lavoro della conoscenza, in un quadro che raccoglie e integra contributi descrittivi seguendo quel filo che unisce Peter Drucker a
Richard Sennett, Manuel Castells a Christian Marazzi. Nella ricomposizione fenomenologica del lavoratore autonomo che opera in Italia non si sottolinea però mai abbastanza quella componente di materialità spuria che condiziona scelte e prassi, e
l’empirismo legislativo tipico del nostro paese che determina la
condizione di vita e di lavoro di freelance in una difficile lotta
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giorno per giorno contro fisco e previdenza, o per farsi pagare o
riconoscere il giusto compenso da parte dei committenti. Il segno dell’esclusione e dell’apartheid di queste figure si ritrova proprio nei diritti e nei doveri imposti dal nostro ordinamento, pensato principalmente per lavoratori dipendenti e imprenditori, ma
non per chi non è né l’uno né l’altro. Il lavoratore autonomo, scrive Sergio Bevilacqua,
si assume oggi uno scambio che il dipendente non intende assumersi: garantisce flessibilità socialmente ed economicamente utile
in cambio di autonomia. La pesantezza dell’onere che il professionista paga per la propria autonomia è in grado di scoraggiare la maggior parte della popolazione attiva sul mercato del lavoro.7
Questo significa in termini pratici un impegno senza disattenzione, un commitment che il lavoratore autonomo non deve
esercitare soltanto verso i propri clienti, ma anche nei propri confronti per non perdere il passo e dare continuità e sicurezza a ciò
che fa. L’impegno di cui parla Bevilacqua nasce dalla necessità
di operare da soli sul mercato senza tempi certi di impiego o di
pagamento, dovendo amministrare ogni attività: una fiscalità per
nulla immediata; la ricerca di clienti; la promozione di se stessi;
la formulazione di offerte; investimenti negli strumenti adeguati e soprattutto una formazione continua che pone la propria conoscenza ai livelli più alti richiesti dai committenti.
Avere una partita Iva oggi equivale a porsi sul mercato in termini forti come lavoratori autonomi ed esercitare attività senza
una rappresentanza riconosciuta, coperture dei sistemi di welfare
e servizi. La stessa relazione di prestazione d’opera esclude (tranne in rari casi) trattamenti di fine rapporto, bonus o incentivi.
Chi ha il coraggio di affrontare tutto questo? Un lavoratore con
partita Iva è poi di fatto fiscalmente equiparato a un’impresa, per
esempio nell’obbligo del pagamento dell’Irap, ma non ha le medesime possibilità legate a detrazioni e oneri deducibili. Ha una
posizione ibrida che non concede chance per ottenere crediti formativi, assegnati solitamente ai lavoratori in difficoltà, né di partecipare a bandi di finanziamento, riservati, al contrario, alle imprese. Non spetta, inoltre, a questi lavoratori copertura assistenziale per la malattia non ospedalizzata. I diritti legati alla maternità sono assai ridotti e non è previsto sussidio di disoccupazione alcuno, fatta eccezione per una risicata famiglia di collaboratori che operano in regime di monocommittenza e rispondono a
specifici requisiti (reddito, continuità di prestazione ecc.). Si badi bene: questa rara concessione, che a ogni modo garantisce un
supporto economico comunque indecoroso, fu pensata dal mi211
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nistro Cesare Damiano e poi sostenuta da Maurizio Sacconi per
estendere forme di ammortizzazione tipica del lavoro salariato
al mondo degli autonomi, ma tradisce chiaramente il maggiore
pregiudizio sul lavoro atipico, ovvero che debba essere ricondotto nell’alveo di quello subordinato.
Una reale ristrutturazione su base universalistica delle norme sugli ammortizzatori sociali avrebbe dovuto essere condotta
in parallelo alla scrittura della legge Biagi. L’iter fu svincolato dalla stessa con il disegno di legge 848-bis, ma non venne mai portata a termine. Si è proceduto così a flessibilizzare il mercato tralasciando la revisione degli istituti di protezione sociale. Una semplice dimenticanza? O piuttosto il disegno politico di mantenere
inalterato quel monolite granitico italiano che consente a governo e sindacati di spartirsi i miliardi di euro stanziati ogni anno
per fronteggiare le crisi aziendali? In quale misura si giocano calcolo e incapacità di innovare? Ogni tentativo di mettere mano ai
sistemi di flexicurity procede oggi in Italia per piccoli balzelli, come nel disegno ricorsivo di un frattale, ovvero cesellando con cura forme già definite in principio e toccando microelementi del
tutto ininfluenti sull’assetto generale. Le promesse di revisione si
susseguono senza soluzione di continuità nell’alternanza degli
schieramenti al punto che per il centrodestra la riforma degli ammortizzatori è diventata oramai un impegno equivalente alla riformulazione del conflitto di interessi per la sinistra: una vana speranza. Ultimo segnale in questa direzione sono le indicazioni contenute nel Collegato lavoro di fine 2010, dove si è spostata in avanti di altri due anni questa responsabilità da assegnare a un governo fantasma, ancora ignoto. Soltanto un anno prima, il 21 dicembre 2009, il ministro del Lavoro Sacconi promise
un’indennità di disoccupazione su base generalizzata e un secondo
strumento integrativo rivolto a conservare il rapporto di lavoro quando dovessero ridursi il volume della produzione e delle ore lavorate.8
Propaganda pura.
Quando è la previdenza a strozzare il lavoro
La stessa filosofia ha guidato per anni la riforma del sistema
previdenziale. In questo caso, però, la contraddizione è esplosa,
maturando nei confronti degli autonomi tutti i segni del danno,
se non addirittura della beffa. Il peso che devono sopportare ora
i lavoratori freelance non iscritti a un ordine professionale è enor212
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me. Ne parla Antonella Gallino, lavoratrice del settore della comunicazione ed editoriale, in relazione alle scadenze di pagamento di fine anno, che descrive così:
È passato da poco il 30 novembre, innominabile data-boia: coincide infatti con la scadenza del versamento del secondo acconto – perentorio, non rateizzabile – di tasse e contributi. E che contributi!
Per i professionisti non ordinistici siamo giunti, si sa, al 26,72 per
cento. Un drenaggio insostenibile dal punto di vista del prelievo
subìto, ancorché insufficiente alla costruzione di un congruo montante contributivo benché, forse, qualche alternativa di gestione ci
sarebbe, se non altro privatistica. Per non parlare, al presente, della controparte di servizi sociali che ci vengono riconosciuti... No
comment.9
Il disappunto è totale e lo stato visto nel ruolo di un boia che
recide prima di ogni cosa la speranza. Ma come si è arrivati a
queste valutazioni, peraltro ampiamente condivise tra il popolo delle partite Iva? Per capire facciamo un passo indietro a partire dalla nascita della gestione separata nel 1996, ricordando
una legge maturata qualche mese prima10 in seno al governo Dini e firmata dall’allora ministro del Lavoro Tiziano Treu, che istituì la regola per tutti i lavoratori autonomi senza un albo professionale di versare le proprie quote contributive in questa cassa. Come ricordavamo in precedenza, appena nato questo obbligo pesava soltanto per un decimo del fatturato, al punto che
dopo quattro anni qualcuno già chiamava questa categoria di
lavoratori il “popolo del 10 per cento”.11 Inizialmente era previsto un adeguamento progressivo all’aliquota di artigiani e commercianti (19 per cento), in corsa, però, gli obiettivi cambiarono: il target – guarda caso – è diventato quello dei lavoratori subordinati (33 per cento). Il legislatore ha immaginato di poter
così scoraggiare il ricorso al lavoro atipico, senza tener conto,
però, di chi l’autonomia la desidera e più in generale il fatto che
questi aumenti fossero pagati comunque dalla parte più debole, ovvero i lavoratori indipendenti, non dalle imprese. Nel 2004
la quota passò al 17,4 per cento. Il ministro Cesare Damiano decise poi un innalzamento fino al 26,81 per cento entro il 2011.
In quattordici anni la crescita dei contributi per la gestione separata Inps è stata del 260 per cento. Pian piano è stata eliminata anche la parte di contribuzione figurativa, aumentando così il peso della previdenza a carico delle partite Iva. Proiezioni
pubblicate dal “Corriere della Sera”12 a fine 2010 parlavano di
pensioni pari al 36 per cento dell’ultimo reddito per i collaboratori e al 45 per cento per i dipendenti, contro il 70-80 per cen213
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to finora considerato normale e necessario al mantenimento di
una vita decente. L’innalzamento dei contributi dei consulenti
e freelance alla gestione separata potrebbe far aumentare di qualche punto il grado di copertura pensionistica, ma saremmo comunque ben lontani da quel 70-80 per cento. Per arrivare a tale risultato dovrebbero raddoppiare, superando il 50 per cento!
Ipotesi chiaramente insostenibile, persino per il sindacato. La
riforma pensionistica introdotta dal governo Dini – che rende il
sistema “contributivo” e non più “retributivo”, poiché viene agganciato alla rivalutazione di un montante accumulato durante tutto l’arco della vita lavorativa e non alle retribuzioni degli
ultimi anni di lavoro – risulta sempre più iniqua e inadeguata
con il passare del tempo e ancora di più per i lavoratori autonomi, per almeno due motivi: l’assenza di una copertura pensionistica nelle situazioni di non lavoro; la mancata remunerazione del montante accumulato, a causa di una rivalutazione
ancorata all’andamento del Pil, notoriamente non brillante, che
difficilmente riuscirà a garantire il mantenimento del potere
d’acquisto. Il risparmio depositato obbligatoriamente nei sistemi previdenziali pubblici non potrà assicurare alcuna rendita.
Se poi si considera che molti lavoratori, a causa di redditi bassi e discontinui, potranno avere una pensione non superiore a
quella sociale, è evidente che viene meno ogni incentivo alla contribuzione previdenziale, se non addirittura il principio legale
di “previdenza” a cura dello stato. Più di un quarto del reddito
individuale viene così bruciato in un sistema che non offre prospettive. In cambio questi lavoratori ricevono poco o nulla dall’Inps, spingendoli sempre più ai margini dello stato sociale. Si
pensi, per esempio, che la stessa invalidità, nell’ambito del lavoro autonomo, non è sufficiente per entrare tra le categorie
protette alle quali sono riservati posti per concorsi pubblici. Per
accedere a queste liste di disabili occorre prima essere disoccupati, chiudere la partita Iva e avere redditi comunque inferiori
a 4000 euro l’anno. Scrive a questo proposito Andrea Facco, disegnatore Cad indipendente, con un’invalidità del 60 per cento
dovuta a handicap motori:
Mi spiegate perché io lavoratore autonomo con invalidità non possa appartenere alla lista di lavoratori disabili? Perché devo smettere di lavorare, per tornare a lavorare in un lavoro più consono? Non
sarebbe stato meglio mettere tutti i disabili nella lista delle fasce protette e poi eventualmente dare una via preferenziale ai disoccupati
dando loro per esempio un punteggio più alto, in modo che le aziende comunque possano scegliere chi assumere e chi no? Capisco che
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i disoccupati abbiano diritto di lavorare, ma non tutti i disoccupati
sono adatti per tutti i lavori richiesti, oltre al fatto che dipende dalla disabilità. Finché lavoro non potrò mai inserirmi nelle fasce protette. Altra cosa assurda è porre i limiti di reddito a circa 8000 € per
i dipendenti e 4000 € per gli autonomi, per entrare nella lista delle
fasce protette. Qui, scommetto, c’è lo zampino del sindacato. Chiedo: noi autonomi vi facciamo così schifo? Dove sta l’eguaglianza tra
cittadini e lavoratori?13
Per i freelance esistono meccanismi di tutela della maternità,
ma molto farraginosi; i congedi parentali sono soltanto per le
donne che hanno contratti a progetto; non sono previsti i sussidi di disoccupazione, come già detto, e la malattia domiciliare è
pagata soltanto ai collaboratori a progetto 19,11 euro al giorno,
ma per averli devono fare salti mortali contro la burocrazia. E
mentre per il lavoro dipendente parte del Tfr può essere convertito in un piano privato di previdenza (il cosiddetto “secondo pilastro”), alle partite Iva manca uno spazio di manovra di questo
tipo, per immaginare nuove forme di protezione, magari mutualistiche, collettive, come nacquero in passato in seno al lavoro dipendente. Vi ricordate le colonie estive per i figli dei dipendenti delle Ferrovie dello stato (oggi in completo dissesto)?
Meglio l’ignoranza del sommovimento sociale?
Provvedere ad accantonamenti che proteggano i lavoratori
autonomi nelle situazioni di disoccupazione è un obiettivo pressoché irrealizzabile, così come è impossibile avere proiezioni sul
proprio futuro pensionistico. I governi di destra e di sinistra almeno in questo si sono dimostrati essere d’accordo: non eccedere in trasparenza sul welfare previsto per i lavoratori professionali autonomi e chi rientra nel “sistema contributivo”. Nel 2009
il ministro Sacconi annunciò in più occasioni che entro il 2010
l’Inps avrebbe mandato a ogni contribuente una “busta arancione” con un estratto conto sullo stato dei suoi pagamenti previdenziali. Sull’esempio della Svezia, ogni italiano avrebbe conosciuto le proiezioni riguardo alla pensione che può aspettarsi a
fine carriera. Un anno dopo l’Inps ha smentito la promessa: nessuna busta, nessuna informazione. Si può rimanere in mezzo al
guado senza sapere che cosa c’è dall’altra parte del fiume, senza
contare le complesse dinamiche di svalutazione diretta del valore economico del lavoro intellettuale in Italia, sulle quali ci siamo soffermati nel capitolo dedicato al giusto compenso dei lavoratori indipendenti. Siamo di fronte a un oggettivo sistema di
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sperequazione sociale che in molti casi mette in ginocchio il lavoro professionale autonomo senza garantire nulla in termini di
servizi sociali. Questa interpretazione ha paradossalmente trovato conferma il 5 ottobre 2010 per voce dello stesso presidente
dell’Inps Antonio Mastrapasqua durante un convegno dal titolo
“Gli scenari del welfare. Tra nuovi bisogni e voglia di futuro”. La
voglia, però, l’ha subito fatta passare con queste parole:
Noi ancora non forniamo la simulazione della pensione perché non
riteniamo di poter dare improvvisamente a tutti i cittadini un’informazione se non c’è prima una confidenza, una cultura. Cioè, se io
oggi riuscissi a dare, ed è impossibile, a un lavoratore a progetto al
terzo anno la simulazione della pensione, ci sarebbe forse un sommovimento sociale in Italia, ma non dovuto a una carenza del pubblico: dovuto a una non capacità delle persone di saper leggere il
proprio futuro attraverso la previdenza.
In altre parole non è lo stato ad avere progettato un modello
inadeguato, ma è la mancanza di cultura a creare disagio nel lavoratore e la sua pensione da fame in futuro. Ma è colpa degli autonomi che sono incapaci di accettare un sistema che non assicura una quiescenza dignitosa e viene meno a ogni principio di
solidarietà? No. È il modello previdenziale italiano che non restituisce in proporzione a quanto prende e manca di equità. Non è
un caso che l’ente della pubblica amministrazione centrale che fa
man bassa di lavoratori interinali (con il record di circa 2000 alla fine del 2010), senza porsi problemi di stabilizzazione, sia proprio l’Inps. L’affermazione di Antonio Mastrapasqua, che pare fuori dal mondo, in realtà ha confermato la volontà esplicita di tenere nell’ignoranza i contribuenti sulle pensioni che riceveranno:
un atto di deliberato sovvertimento dei princìpi più elementari di
governo democratico delle istituzioni, a partire dall’obbligo legato alla trasparenza amministrativa. Queste affermazioni scandalose hanno ribadito anche il processo di lento degrado del lavoro
in Italia. Con il Protocollo sul welfare, firmato tra l’altro da tutti
i sindacati, finalizzato all’abolizione del cosiddetto “scalone”, si
giunse perfino al paradosso: gran parte dei 10 miliardi di euro utili all’operazione furono pagati con l’innalzamento dei contributi
per parasubordinati e autonomi. I soldi chiesti agli outsider servirono per pagare la quiescenza di lavoratori dipendenti. In cambio di quale miglioramento delle coperture per l’assistenza individuale? Nessuna. Il mercato unico del lavoro, supportato da un
sistema di welfare forte, che non sia centrato unicamente sulla
spesa pensionistica e favorisca soltanto il lavoratore dipendente
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a tempo indeterminato, ma sia incardinato su tutele legate alla
cittadinanza o perlomeno estese agli outsider, è davvero ancora
lontano a venire. È una formula vuota, plasmabile a piacere. Con
un’aggravante, che soltanto una tradizione come quella italiana è
capace di esprimere: in questo contesto neppure il buon viso è
possibile. Chi oggi salta un pagamento Inps entra in un circolo
dantesco. Spiega la questione Alfonso Miceli, formatore:
Negli anni ho registrato alti e bassi di reddito, con balzi in giù o in
su del 50 per cento o del 100 per cento e una forte discontinuità nei
pagamenti. Per esempio, molte aziende regolano i conti a dicembre
con la chiusura della contabilità annuale: a settembre e ottobre sono così più lenti, mentre in molti casi a luglio e ad agosto si ferma
tutto... Risultato? Alcuni pagamenti delle rate Inps del 2009 sono
saltati. Ricordo soltanto che bastano 30.000 euro lordi per dover pagare circa 8000 euro di previdenza, dei quali circa 1500 euro tra agosto e dicembre, in periodi appunto dove regna la discontinuità dei
pagamenti da parte dei clienti. Ma che cosa accade se saltate un pagamento Inps? Ecco la risposta: vi viene data una multa del 75 per
cento dell’importo; le multe sono soldi “persi”, non vanno a integrare il vostro montante contributivo (ovvero la vostra pensione);
prima di prendere la multa non si può ottenere una dilazione dei pagamenti, dopo la multa si può. Considerando il fatto che la previdenza dovrebbe essere qualcosa che permette al lavoratore di vivere meglio e di garantirsi un futuro, cosa succede quando questa diventa il principale ostacolo alla sussistenza nel presente e, soprattutto, non più conveniente dal punto di vista economico? È in linea
con i princìpi di costituzionalità del nostro ordinamento giuridico?
Ho molti dubbi. L’Inps non è una tassa, ma un fondo in cui io verso parte del mio patrimonio per garantirmi un servizio e, in nome
del principio di solidarietà, anche agli altri cittadini. Non dovrebbe
mettermi in difficoltà, bensì aiutarmi. Troppo semplice come lettura del problema?14
Le ipotesi in campo per la riforma del welfare
In realtà la questione non è per nulla semplice, e lo dimostra
la clamorosa dichiarazione della Corte di Cassazione sulla natura dei contributi alla gestione separata Inps, definiti
una tassa aggiuntiva su determinati tipi di reddito [...] per fare cassa e costituire un deterrente economico all’abuso di tali forme di lavoro.15
Si paga come gli svedesi per un welfare da Texas e le cose andranno peggiorando ancora verso l’obiettivo dichiarato da tutti,
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Partito democratico in testa, di equiparare il lavoro professionale autonomo a quello dipendente.16 Destra e sinistra sembrano volere distrarre la propria attenzione, rimuovendo ogni responsabilità politica verso gli outsider, così in bella vista da diventare invisibili. Le contromisure a questo stato di degrado arrivano da iniziative che non entrano mai in agenda politica: sono depositate in alcuni casi in Parlamento, ma non sono mai calendarizzate discussioni di primo piano. Da destra, per esempio,
si è pensato di mettere mano allo Statuto dei lavoratori, una legge pensata e voluta da Gino Giugni che risale al 1970 e pur mantenendo alcuni spunti di attualità, è opinione di molti che dovrebbe essere aggiornata. Tra questi il ministro Maurizio Sacconi e i sindacati, ma dal lavoro congiunto di almeno un anno,
dalla montagna si può proprio dire che abbiano partorito un topolino. Uno striminzito documento di poche pagine con cui le
parti sociali si impegnano in un lungo progetto a venire di riforma dello Statuto. La bozza della “Delega al governo per la predisposizione di uno Statuto dei lavori” contiene un obiettivo piuttosto singolare, almeno dal punto di vista semantico, ovvero
l’identificazione di un
nucleo di diritti universali e indisponibili, di rilevanza costituzionale e coerenti con la Carta dei diritti fondamentali della Unione
europea, applicabili a tutti i rapporti di lavoro dipendente e alle
collaborazioni a progetto rese in regime di sostanziale monocommittenza.17
Questa è la geniale mossa rivoluzionaria. L’universalità è applicata cioè a casi specifici! La volontà di fondo è distinguere all’interno del mondo dei lavoratori autonomi quelli in monocommittenza, ovvero chi ottiene il proprio reddito in prevalenza da
un solo committente e che dovrebbe essere considerato “economicamente dipendente” e dunque socialmente ed economicamente debole. Per questi e soltanto per questi potrebbe nascere
in futuro un sistema di tutele da far pagare alle imprese. Ancora non è chiaro se si tratta di un punto su cui fare leva per nuove estensioni del diritto o un punto di arresto, ovvero una semplice concessione per tappare qualche buco, ma il disegno bipartisan appare chiaro: per fare entrare nel diritto del lavoro
standard, e di conseguenza nell’anticamera delle tutele, i freelance e il lavoro intellettuale indipendente, i giuristi ritengono
necessario aggiungere alla definizione di lavoratore autonomo
la precisazione di “economicamente dipendente”. La fonte di
ispirazione è lo Statuto del lavoro autonomo spagnolo, redatto
nel 2007, dove si legge:
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Il capitolo III riconosce e disciplina la figura del lavoratore autonomo economicamente dipendente. Tale regolamentazione risponde
alla necessità di fornire una copertura giuridica a una realtà sociale: l’esistenza di una categoria di lavoratori autonomi che, nonostante la loro autonomia funzionale, svolgono la loro attività con
una forte e quasi esclusiva dipendenza economica dall’imprenditore o dal cliente che usufruisce dei loro servizi. La legge contempla
il presupposto in cui questo imprenditore sia il suo cliente principale e da questi provenga almeno il 75 per cento degli introiti del lavoratore.18
Questa novità entrata di recente nella giurisprudenza ha influenzato anche alcune proposte italiane di Statuto del lavoro autonomo, formulate per esempio da alcuni consiglieri leghisti della regione Veneto nell’ottobre 200919 o dal senatore Tiziano Treu20
che ha immaginato un importante progetto di riforma. A differenza di questi due statuti, la bozza di delega del ministro Sacconi restringe però l’area della “dipendenza economica” alle sole
collaborazioni a progetto. In questa interpretazione i diritti universali, così facilmente invocati, e la loro applicabilità esprimono una chiara contraddizione: ciò che dovrebbe essere di tutti i
lavoratori è applicato ai soli lavoratori dipendenti e ai Co.Co.Pro.,
in un maldestro tentativo politico di tenere insieme concetti opposti che rivela più l’approccio discriminatorio delle politiche per
il lavoro nei confronti del mondo degli autonomi tout court che
una chiara linea riformista. Anche Pietro Ichino cade in questa
trappola teorica nel suo progetto di riforma complessiva del mercato del lavoro proposta con il disegno di legge 1873 che interviene direttamente nella modifica del Codice civile e intende “superare l’ipertrofia del sistema protettivo e il dualismo del sistema
italiano”.21 Sebbene il testo sia poco centrato sul mondo dell’autonomia, vi sono almeno due elementi di interesse: 1) la volontà
di introdurre come criterio distintivo del lavoro intellettuale e professionale autonomo la prevalenza del valore del lavoro personale rispetto a quello del capitale utilizzato nell’attività economica,
separando definitivamente impresa e lavoro indipendente; 2) l’idea
di introdurre diritti di protezione sociale anche in questo segmento di mercato del lavoro. Anche in questo caso, tuttavia, la limitazione riguarderebbe chi è economicamente dipendente, con
retribuzioni annue non superiori a 40.000 euro derivanti da un
solo committente almeno per i due terzi del reddito. Questo impianto porterebbe modifiche nello stesso articolo 2222 dell’attuale
Codice civile, dove c’è il cuore della definizione di lavoro professionale autonomo, introducendo una sostanziale modifica per distinguere la fattispecie di soggetti economicamente dipendenti a
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cui spetterebbero diritti aggiuntivi, simili a quelli dei lavoratori
dipendenti. Il risultato? Che un ricercatore al quale viene commissionato uno studio del valore di 39.000 euro l’anno vedrebbe
riconosciute malattia e altre indennità, mentre un webmaster che
confeziona tre siti in un anno per tre clienti differenti, guadagnando lo stesso reddito, non avrebbe questi diritti. È da considerare un primo passo, un allargamento dei princìpi di inclusione sociale? O l’ennesima inconsapevole formula per separare fattispecie e cercare di inquadrarle, ma così facendo creare nuovi
elementi di discrimine e di esclusione sociale? Di altra natura è,
per esempio, il disegno realizzato da Tiziano Treu, che cerca di
colmare con il suo Statuto dei lavori autonomi le lacune che esistono sotto il profilo del supporto allo sviluppo e alla stabilità del
lavoro autonomo. Si legge nell’introduzione al disegno pensato
da Treu:
Del tutto in ombra è rimasto il variegato mondo dei lavori autonomi e delle professioni, con un ritardo storico del tutto ingiustificato a fronte della crescente importanza dei lavori svolti in autonomia
nell’economia moderna, e in particolare nella nostra, ma anche del
ruolo ad esso assegnato dalla Costituzione del 1948. La Carta fondamentale, infatti, non solo valorizza espressamente l’iniziativa imprenditoriale (articolo 41), ma stabilisce che la Repubblica tutela il
lavoro in tutte le sue forme (articolo 35, primo comma). Il senso e
l’ampiezza di quest’ultima norma costituzionale sono stati oscurati
da una lettura e da una pratica prevalentemente concentrate sul lavoro subordinato. Questo orientamento, se era comprensibile in un
contesto industriale cosiddetto “fordista” basato sul lavoro dipendente della grande fabbrica, al quale si è indirizzato lo Statuto dei
lavoratori del 1970, appare oggi riduttivo. Le trasformazioni succedutesi da allora esigono infatti di allargare la sfera di attenzione del
legislatore al mondo dei lavori autonomi e delle professioni.22
Più che un rinforzo delle protezioni sociali in caso di perdita di reddito, per il senatore Treu occorre aggredire questioni che
frenano più che altro lo sviluppo. Per questo sarebbero opportuni, secondo il senatore del Pd: interventi per favorire una competitività basata sulla qualità e sulla stabilità del lavoro e non sulla sua intensificazione esasperata o sulla mera riduzione dei costi; maggiori investimenti in formazione continua, innovazione
e sicurezza; l’utilizzo diffuso delle nuove tecnologie; l’accesso e
la tutela del credito e alle leggi incentivanti; la possibilità di partecipare ad appalti pubblici; la semplificazione delle procedure;
la certezza dei termini di pagamento; l’aiuto a sviluppare forme
di previdenza e assistenza integrative, anche in forme mutualistiche. Tutte ottime indicazioni, alle quali però si accompagna220
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no proposte che rimettono in pista logiche classiche di equiparazione con le imprese (a partire dal pagamento dell’Irap) e proteggono le lobby nel segmento della formazione continua e dell’accreditamento per lo svolgimento e l’incentivazione delle professioni. A questo si aggiunga la convinzione costante nell’equiparare il costo del lavoro degli autonomi a quello dipendente sotto il profilo previdenziale e si può intuire come tutto questo sia
inteso a completare un disegno che nel 1996 lo stesso Treu mise
in campo, senza prevedere però le attuali diseguaglianze e sperequazioni sociali. Il fatto sostanziale, a ogni modo, al di là dei
dettagli fuori posto è che questo tipo di interventi non riesce a
mettere piede in Parlamento per un’aperta discussione e si blocca nei mille rimpalli tra commissioni. Sono proposte buone, forse, ma nei fatti restano soltanto il sintomo di un malessere e la
contemporanea dimostrazione che senza una spinta dal basso o
una piena convinzione della classe politica si cerca di cambiare
tutto per non modificare nulla.
Una strada differente è praticata invece da anni dal Colap, associazione che raccoglie altre associazioni di lavoratori senza albo professionale, che punta, attraverso una linea diretta con il
Cnel, che ha il potere di promuovere anche disegni di legge in
Parlamento, al riconoscimento pubblico delle professioni non regolamentate al fine di creare casse previdenziali separate, così
come è avvenuto per i professionisti con albo. Difficilmente si arriverà alla definizione di norme di diritto pubblico per attività
così dinamiche e varie, ma un corollario di questo approccio, ovvero la segmentazione della gestione separata tra chi ha partita
Iva e gli altri, piace ad alcune parti sociali, come Cna-Assoprofessioni, che vedono l’ennesima opportunità per segmentare e
correggere i problemi legati al sistema previdenziale. Senza contare il risvolto corporativo legato alle autorizzazioni a esercitare
nuove professioni, affidate a nuovi certificatori che potranno così ufficialmente ambire a intercettare ufficialmente soldi pubblici per erogare corsi e pagare laute parcelle a responsabili di nuovi ordini che tutelino la deontologia dei propri iscritti. Per chi come noi si è schierato contro il professionalismo questa strada è
davvero poco indicata, soprattutto in vista di un reale sviluppo
del lavoratore autonomo e della necessità di muoversi in maniera trasversale tra saperi, mondi professionali, geografie, territori e tradizioni culturali. Più organica, invece, sotto il profilo degli obiettivi di tutela di lungo periodo, è la proposta di Giuliano
Cazzola, deputato Pdl, primo firmatario della proposta di legge
129923 del giugno 2008, di riformare il sistema previdenziale attuale basato sulla “logica del contributivo” per sostituirlo con un
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modello ibrido che offra garanzie di base per pensioni “minime”
ed elementi di maggiorazione basati su integrazioni personali,
ovvero un riconoscimento di una pensione di base, finanziata dalla fiscalità generale di natura tendenzialmente universalistica e
da una pensione contributiva. Il progetto di Cazzola mette in campo una livella che potrebbe addirittura unificare tutte le professioni ordinistiche sotto il profilo della gestione previdenziale, e
portare le aliquote per tutti gli altri, autonomi e dipendenti, al 24
per cento. Un disegno che va a muso duro anche contro il sistema delle corporazioni e che, forse anche per questo, non trova
spazio in un Parlamento costituito per oltre il 30 per cento da avvocati, giornalisti, ingegneri e altri professionisti.
Le vecchie forme di rappresentanza, una palla al piede
Come si intuisce, tutte queste linee di riforma hanno buoni
spunti, ma mancano di una visione organica sul mondo del lavoro autonomo che non si deve soltanto all’oggettiva difficoltà di
unificazione della materia, sostanzialmente abbandonata a se
stessa negli anni, ma anche alla mancanza di reali interlocutori
sotto il profilo della rappresentanza, che non fossero portatori di
interessi di parte. Chi dovrebbe tutelare il diritto universale dei
lavoratori se ciascuno ritaglia la sua parte di diritti? Tra flexicurity nordeuropea e mercatismo puro, il modello sociale italiano
non sta certo nel mezzo, ma è fuori asse. Il nostro paese ha deciso di affidare la rappresentanza in tema di lavoro a parti sociali
che vivono grazie agli interessi dei loro sostenitori e che non perseguono obiettivi di equità generale, l’eliminazione di discriminazioni o l’estensione di diritti che dovrebbero essere universali.
L’unico rimedio intravisto finora per sanare questi disequilibri
tra forze è la volontà di rovesciare le sorti dei deboli o dei giovani, o dei soggetti ai margini dello stato sociale, attraverso un approccio legislativo e giuslavoristico che però ha mostrato da almeno un ventennio il suo più forte limite strutturale, ovvero
l’incapacità di semplificare, eliminare le barriere, scorporare le
“fattispecie”, allargare davvero le maglie del welfare nostrano. I
vecchi apparati concettuali non bastano più e neppure l’idea di
aggiustare il cerchio con colpi di legge, e la botte con falsi accordi
tra parti sociali nate e cresciute in silenzio a fianco di una discriminazione oggi palese tra lavoratori di serie A e serie B. E anche se qualcosa sta cambiando in Italia, il lavoro autonomo resta sempre sottorappresentato. Artigiani, commercianti e piccole imprese si sono messi insieme di recente in una cordata uni222
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ca, Rete Imprese Italia; la Confindustria subisce minacce dall’interno, per esempio da un Marchionne che ventila l’idea di tornare alla contrattazione ad personam; la Cgil rischia di perdere
la Fiom; la destra politica si è inventata l’Ugl, mentre Cobas e Cub
si rafforzano e gli ordini professionali rischiano di essere cancellati dalle norme europee. È il momento di cambiare passo.
Scrive Romano Calvo a questo proposito:
Le partite Iva, fuori da queste associazioni, sono state tra le prime a
essersi accorte della inadeguatezza e per molti aspetti della dannosità del vecchio sistema di rappresentanza. Guardando alle mosse
che ciascuna di queste parti sociali ha messo in campo dopo lo scoppio della crisi del 2008 si ha la chiara consapevolezza della loro irrilevanza, dell’incapacità di spostare di un millimetro il baricentro
della politica economica e fiscale del governo. Soltanto due cose hanno messo tutti d’accordo: gli ammortizzatori sociali e la bilateralità.
Con i primi credono di aver messo un tappo alla crisi, con la seconda hanno garantito la sopravvivenza per le proprie strutture. E i lavoratori autonomi, che si misurano ogni giorno con i problemi dell’euro, toccano con mano i danni della globalizzazione, sentono sulla propria pelle la pressione fiscale più elevata al mondo, subiscono
il crollo della domanda, lo smantellamento del welfare state e la mancanza di una indicazione politica sul come uscire da questa crisi.
Quello che più di ogni altra cosa sembra mostrare la recessione economica di questi anni è la necessità di ridisegnare il sistema della
rappresentanza del lavoro. Le varie Cna, Confcommercio e Confindustria (oltre a Cgil, Cisl, Uil e ordini professionali) sono una palla
al piede, una tassa in più da pagare per ricevere servizi né meglio né
peggio di ciò che offre il mercato. L’incapacità delle categorie di fornire rappresentanza e direzione politica al lavoro autonomo si aggiunge alla ben nota autoreferenzialità dei partiti politici. Perciò è
inevitabile che nascano altre forme di aggregazione degli interessi e
di rappresentanza politica del mondo del lavoro, auspicabilmente
più efficaci delle attuali.24
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8.
Voltare pagina, coalizzarsi
Sono decine, se non centinaia, i siti dedicati o gestiti direttamente da professionisti indipendenti, dove chi voglia divertirsi
ad analizzare la struttura del racconto di una vita di lavoro può
scegliere tra centinaia di autoritratti. Qualcuno, in America, invece di “ai pi” (IP, independent professional) preferisce chiamarsi
solo-worker, che a un orecchio italiano rende meglio l’idea. Impressiona tuttavia, di queste storie di vita, come sia forte la convinzione che l’ordine delle cose nel quale l’individuo è collocato
non sia qualcosa di esterno o di “oggettivo”, superiore alla sua
volontà, ma sia riconducibile interamente alle facoltà, al saper
fare, al grado di adattamento, dell’individuo. Come se il mondo
esterno non esistesse con una propria dinamica ma esistesse solo l’io capace o incapace di superare le difficoltà che il mondo
esterno gli oppone. Ho freddo non perché ci sono venti gradi sotto zero, ma perché non ho pensato a coprirmi abbastanza oppure non ho maglioni a sufficienza. È un atteggiamento che si riscontra soprattutto nei siti del Nordamerica, è una filosofia che
fa parte da sempre della cultura e del costume americani ma con
lo sviluppo del lavoro autonomo ha assunto una dimensione e
una connotazione paradossale, il lavoro intellettuale esercitato
in maniera indipendente, da freelance, ha dato un’impronta più
totalizzante al tradizionale individualismo americano, è come se
la narrazione di una vita da freelance avesse acquistato il valore
di archetipo per un ritratto dell’uomo moderno, figlio del postfordismo. Si è creato pertanto un “formato” della narrazione, uno
standard, che imprigiona e pietrifica certi valori. Il corpo dell’individuo, i suoi sentimenti, le sue emozioni, la sua sessualità,
le sue conoscenze, i suoi handicap, i suoi talenti naturali, le sue
fobie, le sue nevrosi, le ventiquattro ore a disposizione della sua
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giornata, sono il sistema delle risorse dalla cui corretta gestione
dipende la possibilità o meno di sopravvivenza. Lo hanno chiamato “biolavoro” e “biocapitalismo”, corpo (e anima) come capitale fisso. Nessuno ha mai pensato di realizzare un software
per la gestione ottimale di questo sistema, l’“ai pi”, il professionista indipendente, s’arrangia ancora, in maniera artigianale, a
spremere sino all’ultima goccia le sue risorse individuali. Ci hanno provato in tanti a mettere giù un vademecum per insegnare a
gestire il patrimonio delle risorse individuali, ma nelle narrazioni poi non c’è traccia che di questi consigli si sia fatto tesoro. Nelle narrazioni l’“ai pi” non si chiede quasi mai se altri possano aiutarlo o se, mutate le condizioni esterne, si possa vivere meglio.
Ma le cose stanno cambiando, si comincia a voltare pagina, gli
“ai pi” hanno iniziato a ribellarsi agli stereotipi che avevano contribuito loro stessi a tracciare. In certi casi, come nel loro sindacato americano, sembrano addirittura gli apripista di un nuovo
sistema di sicurezza sociale.
Vale la pena chiedersi se la mobilità sedentaria di Internet coniugata con il lavoro solitario del freelance non possa creare un
bisogno di socialità tutto diverso da quello del lavoro salariato.
Perché dare per scontato che la socialità non possa andar
d’accordo con il postfordismo? Non c’è soltanto la socialità del
Novecento, espressa dal lavoro salariato attraverso forme di coalizione e di tutela degli interessi, dei diritti e dei contratti collettivi, non c’è soltanto il vuoto desolante lasciato dalla crisi di quelle forme di coalizione, un vuoto che ha permesso il consolidarsi
di democrazie pilotate dai sistemi di comunicazione di massa.
Non c’è solo l’egoismo individualista all’orizzonte. La socialità intesa come condivisione di esperienze e di desideri, di domande e
di risposte, non è scomparsa del tutto, non può essere scomparsa. Per quanto devastante possa essere stato lo sviluppo del gene
individualista nel lavoratore, la socialità è un bisogno insopprimibile ed è alla ricerca delle tracce della ricostituzione di una socialità nuova che questo libro deve anche la sua origine.
Per trovare le tracce di un’evoluzione in questo senso occorre tuttavia scrollarsi di dosso gli schemi entro i quali abbiamo inquadrato le dinamiche di socializzazione del lavoro dipendente,
da quelli che ci riportano al luogo fisico del lavoro (dove le persone sono costrette a stare assieme) a quelli che si ricollegano a
un’idea morale o politica di “solidarietà”. Al tempo stesso non
possiamo pretendere che questi schemi vengano cancellati del
tutto, perché sono stati assimilati dalla mentalità di generazioni
che con il sistema fordista poco hanno avuto a che fare.
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Anche se per anni ho lavorato per degli studi di architettura come
Foster&Partners mi sono sempre detto: “Un giorno diventerò freelance” e questo giorno è arrivato nell’agosto del 2009. Ho pensato di
lavorare da casa ma poi mi sono accorto che avevo bisogno di una
situazione per “andare a lavorare”. C’erano un sacco di studi di architettura con spazi eccedenti che cercano di affittare a terzi ma io
desideravo lavorare con gente diversa e il co-working risponde a queste mie esigenze. Ho la tendenza a essere molto disciplinato e ad andare in ufficio quattro giorni la settimana, con delle eccezioni per le
riunioni, gli incontri. Attualmente lavoro in Kazakistan e sto mettendo in piedi una rete di freelance in modo da poter sviluppare, collaborando insieme, progetti di più ampio respiro. Ma è bellissimo
avere una base. Quando ero alle dipendenze non avevo mai bisogno
di spiegare che lavoro facessi, parlavo solo con altri architetti, ma
da freelance debbo pensare a come descrivo me stesso e a come mi
presento sul mercato.1
La base di cui parla il giovane architetto è thecube, uno spazio di co-working situato a Londra in Commercial Street, ai bordi della City, vicino a Spitalfields, che riscuote successo non solo per la sua localizzazione prestigiosa ma perché non vincola
l’utente a un’affiliazione, e c’è ovviamente tutto quanto per lavorare in Rete. Dice il fondatore di thecube:
Mettere insieme un paio di scrivanie nello stesso spazio non è coworking, potete farlo benissimo anche in uno Starbucks; offriamo
un pacchetto flessibile di affiliazione, senza contratti o quote associative. Che usino lo spazio un’ora alla settimana o tutto il giorno, i
soci sono incoraggiati a lasciarsi coinvolgere negli eventi che organizziamo, discussioni creative, brain training o pranzi per creare
contatti.
Non è dunque un luogo per cercare clienti ma per cercare il
contatto con altri freelance, si cerca la sinergia delle conoscenze
e dei rispettivi sistemi di relazione, si cerca la possibilità di comunicare speranze e affanni.
Nel passato ho lavorato a casa, ma era troppo solitario, preferisco
stare in un ufficio, penso che sia molto più sano e stimoli maggiormente la creatività, ho provato ad affittare spazi in comune
con altri freelance ma nemmeno ci si conosceva tra di noi, [...] qui
sei incoraggiato a intessere relazioni e questo crea un’atmosfera
più sana.
Ma le modalità d’uso dello spazio non sono tutte uguali; dopo un lungo periodo all’interno di grandi società, un consulente
ha deciso di mettersi in proprio.
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Ho cominciato a lavorare da casa ma mi sono presto accorto che ero
meno produttivo. Ho trovato che uno spazio di co-working crei una
rottura tra casa e lavoro. Benché io sia uno che usa thecube per
l’intera giornata, non partecipo alle iniziative comunitarie ma penso che sia un’opportunità in più per dei giovani poter avere a disposizione spazi come questo.
La domestication del lavoro indipendente comincia dunque
a mostrare la corda. Osservando le prime esperienze di coworking sarebbe troppo superficiale trarne la conclusione che
l’essere umano ha bisogno di un ufficio per lavorare, cioè di uno
spazio separato dalla vita privata, le dinamiche sono più complesse. A mostrare la corda è piuttosto un’idea del “fare rete” soltanto in modo remoto e virtuale, collegandosi agli altri via Internet. C’è di nuovo il bisogno di un contatto fisico, di un rapporto umano e c’è sicuramente un’esigenza di trovare diversi
strumenti per affrontare la crisi di mercato, meno individualistici. Il desiderio di comunità è strumentale, certo, quando mai
è stato fine a se stesso? Il lavoro indipendente comincia a imparare il modo di sfuggire alle trappole che la sua condizione
strutturalmente gli tende sul cammino. Indizi che il lavoro indipendente cominci finalmente a capire che è più importante vivere meglio che produrre, ne troviamo qua e là. Non è un caso
che questi indizi siano rintracciabili in due capitali “produttrici
di tendenze”: New York e Berlino. Co-Working. Independent
Workers Unite è un video che chiunque può guardarsi su YouTube.2 Quello che è interessante e significativo, e che si riscontra in numerose altre testimonianze, è la mentalità con la quale
i tre giovani intervistati hanno progettato e realizzato lo spazio
di co-working. Al centro della loro iniziativa c’è l’idea di community, cioè un’idea che contiene i valori del reciproco sostegno,
mediante condivisione di informazioni e di esperienze, i valori
della sussidiarietà rispetto a un ambiente, un mondo, un sistema urbano sempre più avari di spazi collettivi e di occasioni di
socialità, l’idea che la socialità stessa possa essere intermittente, non ancorata a vincoli organizzativi. Sottostante c’è anche
un’idea di efficienza e di imprenditorialità: lavorare insieme (non
soltanto accanto, ignorandosi a vicenda) è un modo per star meglio ma anche per produrre meglio. A segnare chiaramente da
quale parte stanno quei giovani è la loro dichiarazione di simpatia con la teoria e la pratica dell’open source. Lo stesso titolo
del video (Independent Workers Unite) dovrebbe ricordare qualcosa a chi ha ancora un minimo di orecchio per le narrazioni
del movimento operaio.
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Non avevamo alcuna esperienza di gestione di spazi, non avevamo
un’idea precisa, ma il desiderio di realizzare qualcosa che sentivamo dentro, con impazienza.
Il bellissimo termine impiegato in questo contesto, “impazienza”, mette a fuoco in maniera precisa quell’atteggiamento
mentale e quella disposizione dello spirito che sono proprie di
chi fa cose magari piccole ma nuove. Mettere su un ambiente di
co-working non è certo un’idea nuova: la novità sta nel crearlo
sotto la spinta di un desiderio sottostante, che scaturisce da certi valori o da certi bisogni. Nel primo caso basta un immobiliarista con un po’ di fiuto, nel secondo ci vuole qualcuno che abbia elaborato dentro di sé una serie di convinzioni, non si chieda come andrà a finire, sia solo “impaziente” di vedere se, realizzando quello che confusamente ha in testa, vivrà meglio lui e
farà qualcosa di utile per gli altri. Non è un caso che i vari link
che conducono a questo video hanno origine dal sito della Freelancers Union. Poi ci si può sbizzarrire a navigare per siti e video
sugli spazi di co-working americani, da Baltimora al Minnesota,
da San Francisco al Massachusetts e scoprire che ormai questa
è una nicchia dell’immobiliare che si muove anche su reti multinazionali, ma questo non significa che le esperienze con maggiore carica libertaria siano irrilevanti, significa che possono correre lungo uno dei tanti rivoli del capitale, del mercato, quindi
durare più a lungo, non essere semplicemente esperienze “esemplari”, che certe volte scadono nella superbia di chi si considera
un’avanguardia e finiscono per crearsi un ghetto da sole. Quel
che occorre aver chiaro però, nelle esperienze di New York o di
Berlino, è la condizione dell’utenza. Non si tratta tanto di strappare il freelance dall’ufficio in casa, magari l’appartamento dei
genitori, ma dal coffee shop e c’è qualcuno, un po’ più colto, che
ricollega l’abitudine dei lavoratori della conoscenza di mettersi
con il proprio portatile al tavolino di un caffè con la tradizione
bohémienne dell’Ottocento, primo Novecento, dove musiche famose, scritture celebri, disegni che oggi si ammirano nei musei
di tutto il mondo sono sbocciati appunto tra i tavoli di un caffè
di Parigi o di Vienna o di Zurigo. Sono nati così anche alcuni
software innovativi.
Berlino
Dicono di essere stati rifiutati da quattordici editori, ai quali avevano presentato il manoscritto, gli autori di Wir nennen es
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Arbeit. Die digitale Boheme, poi, una volta uscito, è diventato un
successo, varie edizioni, un audiobook e un’edizione tascabile.3
Certe volte più che l’idea è un termine, un’espressione originale,
a veicolare modi di pensare o di vedere le cose. “Bohème digitale” aveva tutti i numeri per diventare una di queste espressioni e
non poteva che nascere a Berlino, l’unica grande città europea
che presta accoglienza agli squattrinati e consente loro di guardarsi attorno e magari di riuscire a iniziare un’attività indipendente o occasionale senza umiliazioni. Perché è una città che non
ha costruito la sua immagine sulla squallida spensieratezza della “movida”, perché è la capitale europea più vicina alla grande
trasformazione del continente ex comunista, perché ha imposto
uno stile di vita sostanzialmente meno vincolato alla forma, alle
apparenze, perché anche guadagnare poco con contratti occasionali è più tollerabile là dove l’affitto non ti porta via i tre quarti del reddito e perché l’upper middle class dei professionisti “arrivati” non ha l’arroganza che mostra altrove – insomma l’opposto
di una città italiana. Città di valori intangibili e di sensazioni impalpabili, “povera ma sexy”, come l’ha definita il popolare sindaco gay, probabilmente tra le metropoli europee quella dove la storia contemporanea, la più dimenticata, non è ridotta a business
museografico ma continua a vivere. Per quanto tempo ancora?
Alcune contraddizioni, o, meglio, incompatibilità, prima o dopo
esplodono, lo stile postmoderno e commerciale finirà per affermarsi anche sulle rive della Sprea.4 Si dimentica spesso che Berlino deve questo suo stile di città che non si mette in vetrina e dove il consumismo non esercita una dittatura assoluta, al retaggio
della Ddr e allo stile di vita e di modi di pensare che quel regime
aveva lasciato in una popolazione che non aveva percepito il comunismo come una dittatura imposta dall’esterno. Berlino è stata una città di sottoproletariato e di fame per i primi trent’anni
del Novecento, poi di austerità paranoica del nazismo e dopo ancora di austerità puritana del comunismo, è una città che dal 1933
al 1989, per più di mezzo secolo, ha visto molti abitanti vestiti allo stesso modo. Il mito del lusso vive ancora da emarginato, in
ghetti separati, non è come a Milano un’ideologia pervasiva, che
penetra anche nei palazzoni senza fogne. Eppure è proprio questo retaggio della Ddr che oggi rende inconciliabili certi modi di
pensare e di percepire il lavoro. “Bohème digitale” è nato all’interno di uno spazio di co-working, tra giovani lavoratori della conoscenza, abituati a stare al caffè Oberholz di Rosenthaler Platz
con il computer, tecnici del multimediale, informatici, più che artisti. Mentre i loro antenati di bohème potevano barattare un quadro con i pranzi di una settimana e magari trovavano l’oste che
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aveva occhio per la pittura, quelli di oggi non hanno nulla da lasciare in cambio al cameriere, che è uno come loro, solo che il
computer lo ha lasciato a casa. I due autori volevano mettere
l’accento
su un mondo del lavoro fatto ormai solo di individui isolati, sulle
tecnologie digitali che esercitano un condizionamento pesante degli spazi d’azione dell’individuo, su forme non gerarchiche di mettersi in rete e di cooperare.
C’era forse una voluta forzatura nel demolire l’immagine rassicurante del lavoro dipendente a tempo pieno e nell’esaltare la
libertà vigilata del freelance. Il libro era un piccolo vademecum
sulla possibilità di lavorare e di mantenersi con servizi e progetti elaborati in comune tramite Internet. Indirettamente influenzati dal circuito cyberpunk del Chaos Computer Club, attivo sin
dal 1981, e da scrittori e pubblicisti multimediali come Peter Glaser, i due autori avevano alle spalle l’esperienza della Zentrale Intelligenz Agentur (Zia), una piattaforma per l’elaborazione di progetti o, come suonava una sua presentazione, “la Zia trasforma
ossessioni intellettuali in ben torniti formati di progetti culturali” nei settori: informazione, controinformazione, costruzione
d’immaginari e di mimetismi, controllo e comando sulla comunicazione, tecnologia, radio, sport, notizie. È una forma di associazione tra professionisti che operano in conto proprio ma si
consorziano su singoli progetti. Sascha Lobo, uno dei due autori, dopo aver lavorato in agenzie di pubblicità, ne ha creata con
altri una propria che vende pubblicità sul web e ne procura ai
blogger. L’ambiente dal quale provengono queste iniziative e dal
quale traggono parte della loro filosofia di vita è quello degli artisti, dei pubblicisti, degli autori o dei tecnici multimediali, della musica rock, quel settore dai contorni imprecisi che sta tra la
cultura, la comunicazione, l’evento, la provocazione, una cultura profondamente radicata nelle tradizioni di anarchia urbana
berlinese e tedesca in generale, con tecniche collaudate di sopravvivenza ma comunque impraticabili senza un sistema di sussidi pubblici articolato e complesso, con ruolo di ammortizzatore, di cui potersi servire in situazioni di indigenza. Percepito però,
più che come un benefico strumento assistenziale, come un vincolo burocratico e un’ipoteca disciplinare da cui liberarsi appena possibile, a costo di vivere alla giornata.5 Innestata su questa
filosofia della sopravvivenza una fin quasi esagerata e totalizzante
identificazione con l’universo digitale, ma sempre dalla parte di
coloro che lo concepiscono come condivisione e quindi acerrimi
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nemici di ogni tentativo di regolamentazione. Ultimo esempio è
la campagna contro la legge sui diritti commerciali degli editori
che mettono in Rete prodotti liberamente accessibili utilizzati da
terzi a scopo di lucro.6 L’idea della bohème digitale non è piaciuta, perché troppo “liberista”, a tutta quella parte della subcultura berlinese tributaria dei modi di pensare socialisti e fortemente ancorata a un’idea di lavoro sicuro e di sussidi di disoccupazione. Quella cultura è molto più favorevole alla filosofia di
vita del precario, del jobber, che a quella del lavoratore indipendente, imprenditore di se stesso; è disposta piuttosto ad agire come corrente autonoma del sindacato dei servizi per un lavoro regolamentato nel multimediale. L’idea della bohème digitale quindi non ha dato frutti sul piano associativo del lavoro indipendente, ha creato però un circuito di sedi di co-working (hallenprojekt.de) ed è stata stimolo per la costruzione di nuove reti. “Il
co-working non è la soluzione,” afferma Julia Seliger, redattrice
della “Tageszeitung”, il quotidiano di Berlino che ha condotto
un’inchiesta sui Digital-Nomaden.7
Si può benissimo lavorare in autodeterminazione come dipendenti, esser pagati tutti allo stesso modo e condividere i progetti, discuterli tutti assieme, come si fa nella nostra redazione, essere iscritti a un sindacato che ti rappresenta e tutela.
Insomma, smettiamola di contrapporre un’immagine rosea del
lavoro indipendente a un’immagine nera di quello subordinato.
Giustissimo, sta di fatto però che molti hanno scelto tra le due condizioni e non sempre, anzi, spesso la scelta del lavoro indipendente viene giudicata positiva. Alla domanda dei giornalisti della “Taz”
se gli intervistati avessero pensato alla pensione, la riposta è stata:
“La pensione? Ma perché, noi avremo una pensione?”.
Un grande sindacato e i lavoratori autonomi
Il sindacato dei servizi Ver.di. conta 2,3 milioni di iscritti, rappresenta il settore pubblico ma anche tutto il settore media, televisione, editoria, IT, comunicazione. È oggi il sindacato di maggiore impatto sulla realtà tedesca. In alcune città con forte presenza di studi radiotelevisivi, case editrici, agenzie di pubblicità,
produttori di software, come Amburgo, Ver.di. è una presenza importante; nel settore della logistica, che vede in attività nella regione anseatica circa 6000 imprese, è un interlocutore temibile.
Bisogna darle atto che sin dall’inizio si è posta il problema se organizzare o meno gli indipendenti e ha fatto pressione in tal sen231
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so sulla Confederazione (Dgb). Le parole del suo segretario generale Frank Bsirske all’atto di costituzione del sindacato, nel
2001, erano promettenti:
Dobbiamo essere il sindacato delle nuove forme di lavoro, di quelli
che lavorano a termine, in maniera intermittente, degli interinali e
delle lavoratrici part-time, il sindacato dei disoccupati – e anche il
sindacato degli autonomi, vorrei che fossimo il loro sindacato, fintanto che non diventano essi stessi datori di lavoro.
Le difficoltà a far accettare ai rappresentanti dei lavoratori
dipendenti l’idea che un freelance possa aspirare ad avere le loro stesse tutele sindacali non sono state poche e non sono ancora superate. La commissione alla quale è affidato il compito
di portare avanti le rivendicazioni degli autonomi non ha trovato sempre ascolto all’interno del sindacato e il fatto che negli
anni dopo il 2004 le fuoriuscite abbiano superato le nuove iscrizioni sta a dimostrare che i possibili utenti del servizio sindacale sono rimasti delusi.8 Il 2004 è l’anno della grande riforma
dello stato sociale e avvengono cose strane, agli autonomi viene finalmente riconosciuto il diritto all’assicurazione contro la
disoccupazione e poi subito dopo viene tolto. Proprio questi dietrofront del governo rosso-verde mettono a nudo la situazione
anomala dei lavoratori autonomi e la loro emarginazione da uno
stato sociale che è considerato uno dei più inclusivi d’Europa.
Il lavoro di elaborazione di una piattaforma specifica viene commissionato dal sindacato al noto Centro per le politiche sociali
dell’Università di Brema, che dagli anni settanta rappresenta la
fonte più autorevole in materia di proposte di politiche contro
la povertà. Nel maggio 2009 viene redatto un documento con le
linee guida per gli autonomi.9 È un momento cruciale nella storia dei rapporti tra stato e nuove forme di lavoro. I nuovi progetti di legge del governo introducono un concetto peraltro ben
conosciuto in Italia dai lavoratori autonomi: alle categorie del
lavoro intermittente lo stato apre le porte dei sistemi di sicurezza sociale ma solo in qualità di contribuente, non come percettore di servizi. Nel progetto di legge del governo Merkel veniva esteso l’obbligo per gli autonomi (per esempio giornalisti
freelance) e i lavoratori intermittenti, di avere copertura sanitaria presso il sistema pubblico o presso casse private, ma il godimento del diritto di ricevere il Krankengeld, il rimborso per il
mancato reddito dovuto a malattia, scattava solo alla settima
settimana.
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Un’assurdità. Bismarck lo aveva introdotto nel 1883 con il principio
che il diritto al rimborso scatta dopo il terzo giorno di malattia e da
allora è rimasto così,
ricordava il sindacato e chiedeva inoltre che l’ammontare del
contributo dovesse tener conto del reddito effettivo e non essere
parametrato su indici di reddito presunto; per i percettori di sussidi di povertà le somme da versare, secondo la norma, avrebbero dovuto essere tali da portar via un terzo del sussidio. L’impostazione governativa era tanto più incoerente se si pensa che la
riforma del 2004 aveva indotto tanti percettori di sussidi di povertà, come si è visto in precedenza, a mettersi in proprio. Per di
più venivano ridotte al minimo le prestazioni di cassa malattia,
come quella degli artisti, che rappresentavano per certe categorie un sistema di tutele abbastanza efficiente. Inoltre venivano
gravemente ridotte le forme di sostegno alle donne in maternità.
Il congresso del Dgb del maggio 2010 non poteva ignorare la drammatica situazione di almeno un terzo degli esercenti attività professionali in proprio destinati a restare senza una pensione, e veniva quindi votata una risoluzione che chiedeva al governo di affrontare questo problema. Secondo le stime del sindacato, sono
più di 2 milioni le persone che rischiano l’indigenza in vecchiaia
(Altersarmut) perché lavorano come indipendenti. E se il governo dovesse decidere per i versamenti obbligatori nella misura richiesta ai dipendenti, cioè pari a un quinto del reddito, la maggioranza di queste persone non sarebbe in grado di effettuarli. Si
propone quindi l’apertura anche agli autonomi del sistema previdenziale generale con necessità di un “finanziamento solidale”,
l’estensione anche agli autonomi della possibilità di finanziare
una pensione integrativa prevista dal sistema obbligatorio (Riester Rente),10 la loro inclusione laddove possibile in sistemi pensionistici aziendali. Attualmente Ver.di. dichiara circa 30.000
iscritti appartenenti alle diverse categorie di freelance; nelle controversie riguardanti i contratti collettivi di settori nei quali la
presenza di professionisti indipendenti è consistente, dall’IT ai
media, dai giornali al cinema, cerca anche di tener conto della
condizione di questi ultimi, chiedendo per esempio un’equa distribuzione dei versamenti previdenziali volontari tra committente e freelance.11 A differenza dei documenti dei sindacati italiani, le prese di posizione del Referat Selbständige di Ver.di. riguardanti l’assicurazione sanitaria, i trattamenti pensionistici, le
indennità di disoccupazione, dimostrano una conoscenza approfondita delle problematiche del lavoro autonomo e non discriminano tra lavoratori indipendenti che riescono a malapena
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ad arrivare a fine mese e quelli a reddito dignitoso, né si baloccano nella distinzione tra “false e vere partite Iva”. L’azione di
Ver.di. sarebbe particolarmente preziosa perché il sindacato dispone di una conoscenza approfondita della complicatissima legislazione sui sistemi di sicurezza sociale, resa ancora più ostica
dal fatto che certe norme vengono ritirate o modificate pochi anni o mesi o giorni dopo essere state emanate e soprattutto dal fatto che un impianto legislativo pensato per il lavoro dipendente o
trascura completamente il lavoro autonomo oppure gli impone
regole assurde e controproducenti. La maggioranza dei lavoratori indipendenti ha una conoscenza superficiale di queste norme, la gestione di questi problemi viene affidata al commercialista. Uno degli strumenti più efficaci di Ver.di. per attirare iscritti è il servizio di consulenza del sito www.mediafon.net su questioni fiscali, previdenziali, su forme contrattuali, su onorari e
pagamenti, sulla formazione, su contatti con altri indipendenti.
Ma il successo di un sindacato dipende anche dai risultati che
riesce a portare a casa, in mancanza di questi, gli iscritti calano
e la fiducia degli interessati anche.12
Nomadi sul serio
In America la mobilità fisica è sempre stata un segno caratteristico del modo di vivere. Un gruppo particolare di freelance
è quello dei cosiddetti location independents, che hanno adottato come stile di vita e di lavoro il nomadismo. Se la scelta di lasciare il posto fisso in azienda costringe spesso alla prigione domestica della casa-ufficio, loro non ci stanno, se lo scopo della
scelta è la libertà, loro fanno un passo ulteriore, rinunciano a una
residenza, cambiando luogo ogni giorno, e di tanto in tanto portandosi dietro casa e ufficio.
Mio marito è un creatore/designer di database e programmi per
iPhone e iPad, io scrivo per il mercato dei viaggi e per la scuola, [...]
abbiamo passato due anni a consultare elenchi di possibili contatti, a studiare tutte le eventualità, prima di deciderci a rompere con
la vita “normale” e a diventare una famiglia che vive e lavora ovunque. Non è stato semplice, con quattro bambini, ma l’importante è
il volerlo fare, in maniera irrevocabile, invece di vivere giorno per
giorno, la vita merita di essere vissuta, tempus fugit.
Il sito http://locationindependent.com, dov’è apparsa questa
testimonianza, offre una molteplicità di servizi, di supporti e di
suggerimenti agli aspiranti membri della tribù ed è molto ap234
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prezzato dai potenti dell’industria produttrice di strumenti per
comunicare e lavorare a distanza, i professionisti itineranti possono diventare i migliori test per nuovi prodotti e servizi; lavorare da nomade può comportare dei vantaggi, chissà che non si
diventi testimonial di qualche grosso gruppo. Se poi la roulotte
o il camper si trasformano anch’essi in prigioni itineranti è troppo presto per dirlo, per ora la moda sfrutta l’onda ascendente; si
tratta ancora di persone che affrontano l’avventura con entusiasmo, spesso proprio per strappare i bambini alla vita pesante della città o per consentire a un membro della famiglia che è andato in pensione di godersi un po’ la vita; per ora – almeno dalle voci raccolte su Internet – sembra gente dotata di competenze elevate, con clientela affidabile o con un reddito minimo garantito.
Non appartengono certo al genere degli hobos della Grande depressione, né agli anarchici radicali della Repubblica di Weimar
che distruggevano i documenti d’identità per non essere rintracciati, sorvegliati. Si sviluppano piuttosto tra i location independents curiose dinamiche, proprie del ceto medio, di riconoscimento sociale, di reputazione.
Purtroppo molti credono che siamo sempre in vacanza, ci invidiano e dicono che possiamo permettercelo perché siamo ricchi! Non
siamo affatto ricchi, viviamo del nostro lavoro e ci portiamo dietro
malgrado tutto una buone dose di workaholism.
I principali problemi sono di ordine tecnico-organizzativo,
l’itinerario del professionista nomade deve seguire i territori dove i collegamenti Internet siano assicurati, nei luoghi dove “non
c’è campo” rischia la fine del beduino cui hanno avvelenato i pozzi. Nella popolosa, urbanizzata, gentrificata Europa sarebbe difficile farlo a quel modo, ma di gente che si sottrae al luogo dove
per anni ha vissuto, compiuto gli studi e cerca un altro sistema
di vita, in Italia soprattutto, sembra essercene sempre di più.
New York: un’idea di sindacalismo per i nostri tempi
Littler Mendelson è il più grande studio di avvocati specializzati in controversie di lavoro degli Stati Uniti, con una cinquantina di uffici sparsi in tutte le maggiori aree metropolitane.
Rappresenta e difende gli interessi degli imprenditori. Nell’aprile del 2009 ha presentato un rapporto sulla “forza lavoro emergente”.13 Rifacendosi a uno studio del Mit degli anni novanta, prevede che all’uscita dalla recessione la domanda di lavoro sarà costituita per il 50 per cento da alternative labour arrangements, cioè
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da forme di contratto “non standard” e da lavoratori autonomi.
Il termine impiegato nelle statistiche, per questi ultimi, è self employed; il Rapporto Littler preferisce independent contractor, equivalente a quello che nell’uso comune viene chiamato freelance o
free agent.14 Quando il lavoratore autonomo rientra nell’ambito
dei lavoratori della conoscenza si usa independent professional. Il
Rapporto Littler è molto interessante perché, accanto a scenari
assai familiari per noi, come quello della prefigurazione di imprese a rete con un ristretto numero di dipendenti fissi e un numero molto più ampio di fornitori di servizi ingaggiati sulla base di progetti specifici per il tempo necessario alla realizzazione
del progetto stesso (project-based workforce), insiste sul possibile (e auspicabile, secondo loro) cambiamento dell’immagine pubblica e del prestigio sociale dei lavoratori autonomi. Perché
l’amministrazione, considerata la loro maggiore rilevanza nella
composizione della forza lavoro, sarà incline a concedere loro facilitazioni e incentivi in considerazione soprattutto del loro maggiore peso come contribuenti.15 Lo scopo del Rapporto però è
quello di fornire agli imprenditori un orientamento sulle questioni legali sollevate dall’impiego massiccio di forza lavoro temporanea o di prestatori d’opera a progetto. Da un lato Littler raccomanda vivamente l’impiego massiccio di questa forza lavoro
per poter ridurre i costi e avere maggiore flessibilità, dall’altro
ammonisce gli imprenditori sul pericolo che i lavoratori autonomi, diventando sempre più preziosi in quanto la loro specializzazione sarà soprattutto sui professional skills piuttosto che
sulle abilità manuali, e acquisendo maggior prestigio sociale, potrebbero diventare dei temibili avversari nelle controversie di lavoro, anche senza un’organizzazione sindacale alle spalle. Littler
quindi rivolge una serie di raccomandazioni agli imprenditori affinché si possano tutelare da questa maggiore forza contrattuale degli independents, in particolare per quanto riguarda due questioni di grande rilevanza: la proprietà intellettuale dei prodotti
del lavoro del consulente esterno deve restare in tutto e per tutto all’impresa; i consulenti esterni ingaggiati per progetti limitati nel tempo debbono essere esclusi dai piani di pensionamento
e non debbono gravare minimamente sull’impresa per prestazioni di carattere sociale; se lo stato vorrà estendere a loro determinati benefici, per esempio nel campo dei sussidi di disoccupazione, lo faccia, ma l’importante è che l’impresa possa trovare un sostanziale beneficio economico nell’impiego di forza lavoro temporanea rispetto al costo rappresentato dalla forza lavoro stabile. Confortato dai dati provenienti dalle agenzie di lavoro
interinale, il Rapporto prevedeva un balzo nell’occupazione di
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contingent work ai primi sintomi di ripresa che, secondo le sue
previsioni, si sarebbe dovuta verificare nel corso del 2010. Così
non è stato, solo negli ultimi mesi dell’anno l’economia statunitense ha dato segnali di risveglio e pertanto la grande trasformazione nella composizione della forza lavoro sarà tutta da vedere. Di alcune tendenze si è avuta certezza però già negli anni
precedenti e in particolare di quella che un sempre maggiore numero di professionals si rivolge agli intermediari del lavoro, fenomeno che abbiamo visto nel terzo capitolo già manifestarsi in
Germania per quanto riguarda gli ingegneri. I dati degli analisti
del lavoro interinale, staffing industry analysts, sembrano indicare che dall’inizio della crisi coloro che lavorano in proprio nei
servizi a elevato contenuto di conoscenza hanno avuto difficoltà
a trovare occasioni di lavoro e per questo si rivolgono in misura
massiccia alle agenzie.
Purtroppo anche l’efficiente Bureau of Labor Statistics (Bls)
ha delle difficoltà a stimare l’entità del lavoro autonomo e “atipico”. L’ultima indagine specifica è del 2005, quando il numero
di independent contractors veniva stimato in 10,3 milioni, pari al
7,4 per cento degli occupati.16 Il più recente comunicato del Bls
che abbiamo potuto consultare, rilasciato il 7 gennaio 2011, riportava il dato di 10 milioni self employed unincorporated e di 5,3
milioni incorporated al giugno 2010, con un’incidenza complessiva sull’occupazione totale pari al 10,7 per cento.17 Secondo le
stime del Bls che traggono origine dalla Current Population Survey, l’incidenza del lavoro autonomo non agricolo sul totale è rimasta più o meno la stessa negli ultimi dieci anni.18 È aumentata decisamente la quota di incorporated, cioè di persone che decidono di dare alla propria attività una personalità giuridica per
ragioni fiscali e di minor rischio, per esempio nella forma di società a responsabilità limitata (Llc), che raggiungono anche la dimensione di 20 dipendenti, ma tra gli incorporated possono esserci anche ditte individuali. Gli unincorporated sono invece persone che svolgono attività autonoma in maniera occasionale. La
crisi ha inciso fortemente soprattutto nel settore delle costruzioni, con tassi di disoccupazione superiori alla media, ma subito
dopo ha colpito i servizi professionali. Nei confronti di genere i
maschi sono in maggioranza e, sul piano etnico, i bianchi prevalgono sugli altri gruppi (afroamericani, ispanici, asiatici).
L’organizzazione sindacale dei lavoratori indipendenti, la
Freelancers Union (FU), accusa da tempo le autorità preposte alla rilevazione statistica di gravi imprecisioni, di disomogeneità
nei criteri di classificazione utilizzati e di sostanziale disinteresse per questo settore della forza lavoro. A causa di queste ineffi237
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cienze, l’incidenza della popolazione dei self employed, dei lavoratori temporanei e di quelli con contratti “atipici” sul totale degli occupati sarebbe largamente sottostimata. Il sindacato parla
addirittura di un terzo dell’occupazione totale, qualcosa come 42
milioni di persone, sposando le previsioni degli avvocati di parte padronale. L’osservatore esterno rimane disorientato da simili discrepanze, molto probabilmente le stime della FU si fondano
su proiezioni della situazione di New York, dove l’indagine condotta dallo State Comptroller nel 2007 aveva accertato che dal
1975 in poi i due terzi dei nuovi posti di lavoro nella Grande Mela erano stati occupati da persone classificabili come indipendenti. Se questa crescita era stata determinata anche dalle professioni collegate allo sviluppo delle nuove tecnologie e alla fiorente industria dell’intrattenimento e dello spettacolo, il vero e
proprio balzo era avvenuto nei servizi alla persona. Come in Italia si sono diffuse a macchia d’olio le “badanti”, così nella città
di New York dal 1997 al 2004 il numero delle persone addette alla cura dei bambini che lavoravano come self employed, in sostituzione di asili nido e di scuole materne insufficienti, era quintuplicato (da 11.085 a 49.393).
Se l’associazione sindacale che riunisce i freelance, la Freelancers Union (FU), è passata in pochi anni da 10.000 iscritti a
150.000, ciò è dovuto in massima parte a tre ordini di ragioni: essere nata come fenomeno metropolitano newyorkese e aver acquisito subito una visibilità “locale” ma al tempo stesso nazionale; avere impostato la sua campagna di reclutamento e sensibilizzazione sul problema dell’assistenza sanitaria; aver concepito sin
dall’inizio la sua attività come quella di una union, di un sindacato, che non disdegna il richiamo alla simbologia del movimento
operaio militante. Sulla FU si è scritto molto e la sua fondatrice
Sara Horowitz è diventata un personaggio di fama internazionale.19 Puntando sin dall’inizio sul tema più sentito da parte dei lavoratori autonomi di seconda generazione americani, quello dell’assistenza sanitaria, la FU è riuscita finalmente a offrire qualcosa di concreto ai suoi soci, costituendo nel 2009 la propria compagnia di assicurazione, la Freelancers Insurance Company (Fic),
con il contributo di 17 milioni di dollari erogato dalle Fondazioni
Ford, Rockefeller e Robert Wood Johnson. Attualmente la Fic opera soltanto nello stato di New York, che è stato il primo a riconoscere la deducibilità fiscale dei premi pagati a questa nuova compagnia. Le campagne di sensibilizzazione e le azioni di lobbying
della FU sono condotte con molta abilità e con stile prettamente
“americano”, dove, per essere convincente, un messaggio deve portare dei numeri. Sappiamo quanto superficiale e truffaldina pos238
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sa essere questa tecnica ma sta di fatto che un qualunque messaggio riguardante una situazione sociale viene ripreso dai media
solo se dietro ha i numeri di una survey. Nel 2005-2006, sapendo
quanto sensibile sia l’amministrazione cittadina di New York sui
temi dell’attrazione dei talenti (Florida insegna), FU aveva condotto
un’inchiesta presso i freelance del settore “creativo”, scrittori, artisti, scenografi, grafici, designer, pubblicitari, autori di testi e di
realizzazioni per la radio, la televisione, il cinema ecc., da cui risultava che questi “talenti” stavano fuggendo da New York per dirigersi verso altre aree metropolitane, come Minneapolis/St. Paul
o Portland, nell’Oregon, perché il costo della vita a New York era
diventato insopportabile e i servizi pubblici cari e inefficienti.20
Ogni fine d’anno la FU lancia una nuova indagine online sulla condizione dei suoi affiliati, l’ultima disponibile è quella che riguarda l’anno della grande crisi, il 2009, pubblicata nel corso del 2010,
a cura di Sara Horowitz, Althea Erickson e Gabrielle Wuolo.21 Le
tremila risposte hanno rivelato la difficile situazione di chi lavora
in proprio in un periodo di crisi senza poter godere di alcuna forma di protezione sociale. L’American Recovery and Reinvestment
Act (Arra), il pacchetto di misure di stimolo all’economia che il
presidente Obama ha firmato nel febbraio 2009, nella parte dedicata ai provvedimenti per i settori della popolazione più vulnerabili, comprendente anche un innalzamento e un’estensione dei sussidi di disoccupazione, ha lasciato fuori i lavoratori indipendenti,
limitando i benefici per costoro solo ai provvedimenti di sgravio
fiscale. Misure significative di compensazione a livello di singolo
stato federale non erano state ancora introdotte.22 L’81 per cento
degli intervistati aveva subìto forti diminuzioni di reddito, dovute in parte alla mancanza di commesse ma in larga parte anche ai
mancati pagamenti o ai pagamenti ridotti o assai ritardati da parte dei committenti. Sorprendente il fatto che solo il 33 per cento
dichiara di lavorare abitualmente sulla base di contratti scritti, a
New York City addirittura il 27 per cento. Come hanno fatto a cavarsela? In maggioranza attingendo a riserve tenute per queste
eventualità o comunque a risparmi, il 37 per cento appoggiandosi alla carta di credito, una parte ha venduto la macchina, altri
hanno rinunciato al mutuo per la casa, un 5 per cento è ricorso all’assistenza per i poveri. L’età media degli intervistati era di quarantacinque anni, in maggioranza donne, un dato che in parte si
spiega con il fatto che dal 2007 in poi circa il 40 per cento di coloro che iniziano un’attività in proprio non lo fa per scelta ma perché ha perduto il posto di lavoro come dipendente. Entrate da poco sul mercato e ancora disorientate dalla nuova situazione, sono
le persone più bisognose di un sostegno da parte di un’organizza239
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zione di categoria. Un certo numero di intervistati aveva dichiarato di non avere i soldi o di aver dovuto rinunciare al pagamento dell’assicurazione sanitaria privata. Una coppia di lavoratori
indipendenti da circa venticinque anni del New Hampshire dichiarava che l’aumento dei premi per l’assicurazione sanitaria privata aveva portato l’incidenza di questa spesa al 27 per cento del
loro reddito familiare, costringendoli a rinunciare alle vacanze e
agli accantonamenti per la pensione. Queste cifre sono state abilmente utilizzate dalla FU sia per aprire una campagna in favore
dell’estensione del sussidio di disoccupazione anche alle categorie rappresentate dal sindacato, sia per promuovere la sua formula assicurativa. Le assicurazioni private sono in genere costituite da un venture capital che pretende un ritorno dell’investimento anche del 30 per cento. La Fic chiede che alle società con
scopi sociali venga assicurato capitale a basso costo, chiede inoltre che i premi possano essere deducibili interamente dalle tasse
e che sia consentito anche agli indipendenti di formare dei risk
pools. Per quanto riguarda invece i sussidi di disoccupazione la
FU non ritiene che il sistema vigente possa andar bene per gli indipendenti, data la natura estremamente volatile della loro attività. Perciò suggerisce l’istituzione di un sistema parallelo creato
apposta per questo universo del lavoro mediante una forma di accantonamento alimentato dal gettito fiscale degli indipendenti,
alle cui risorse essi possano ricorrere in caso di bisogno. Per quanto riguarda le prestazioni previdenziali, secondo la FU i continui
tagli operati dalle aziende sui piani di pensionamento e sui benefit dei dipendenti stanno erodendo un sistema di previdenza sociale basato sul rapporto di lavoro subordinato, quindi l’intera impalcatura della sicurezza sociale dovrà essere ripensata in ogni
caso. Gli indipendenti devono poter disporre di assicurazioni sanitarie che si possano portare dietro da una commessa all’altra,
le loro coperture assicurative devono essere portable and affordable. Dal 2001 la FU ha consentito ai suoi soci di godere di forti
sconti di gruppo presso alcune assicurazioni private, con le quali ha firmato delle convenzioni; la sua compagnia di assicurazioni, là dove opera, dichiara di procurare agli utenti risparmi anche
del 75 per cento sui livelli di mercato dei premi. Si finanzia indebitandosi a basso costo e ripagando il debito con la raccolta dei
premi, agisce quindi sul mercato e finora dichiara di rinunciare
a una partecipazione di enti pubblici, il suo polmone risiede evidentemente nelle iniziative di charity dei privati.
Basta guardare su YouTube il video Getting It Done. 15 Years
of Writing the New Rules for the New Workforce. Chi ha seguito
sin dalla nascita l’organizzazione avverte che negli ultimi tempi
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il suo messaggio è diventato molto più ambizioso e visionario.
Dicono di voler costruire the next social security net, non soltanto per i freelance ma per la nuova forza lavoro emergente, per
tutti i “flessibili”. Dicono di voler stimolare un altro New Deal e
non a caso hanno cominciato a comporre la loro galleria di santi patroni, di ispiratori, di precursori. È Sidney Hillman l’icona
alla quale si rivolgono, ebreo lituano nato nel 1887, destinato dalla famiglia a diventare rabbino – racconta il suo biografo Steve
Fraser – ma divenuto ben presto militante del Bund, un’organizzazione clandestina ebraica che aderiva al movimento rivoluzionario russo. Incarcerato per la sua attività di agitatore, poi liberato, sfugge all’ondata di repressioni e pogrom seguita alla rivoluzione del 1905 riparando in Inghilterra e da qui negli Stati Uniti, prima a New York e poi a Chicago, dove trova impiego nell’industria dell’abbigliamento.23 Nel 1910 scoppia uno sciopero
nelle industrie del settore che coinvolge circa 45.000 addetti, in
maggioranza donne, che sono alla testa del movimento, tra le
quali spicca Bessie Abramowitz, che diventerà sua moglie. Gli
scioperanti rifiutano la direzione del sindacato aderente all’Afl
(American Federation of Labor) e gli accordi che ha sottoscritto,
i dissidenti fondano l’Amalgamated Clothing Workers of America, di cui Hillman sarà l’indiscusso leader sino alla morte, che lo
coglie relativamente giovane, all’età di cinquantanove anni. Considerato una delle figure più significative del sindacalismo americano tra le due guerre, in particolare per il suo ruolo nella costituzione del Cio (Congress of Industrial Organization), rinuncia ben presto alle azioni radicali e sin dagli anni della Prima
guerra mondiale imprime al suo sindacato uno stile di collaborazione aperta con gli imprenditori disposti a riconoscere
l’autorità della sua organizzazione; per far questo deve combattere le forti correnti interne anarco-sindacaliste. Accetta moderazione salariale e pace sociale, in cambio chiede agli imprenditori di non abbandonarsi a una concorrenza distruttiva e a rinunciare a pratiche antisindacali, assumendo guardie private o
assoldando crumiri durante gli scioperi. Riesce in questo modo,
da un lato, a emarginare il vecchio sindacato dell’Afl e, dall’altro,
a entrare anche in aziende che avevano fino a quel momento tenuto il sindacato fuori dalla porta. Ricoprirà ruoli di grande importanza sotto l’amministrazione Roosevelt come membro del
Labor Advisory Board e del National Industrial Recovery Board,
collaborando alla stesura del National Labor Relations Act. La
ragione per la quale la Freelancers Union trova nella sua figura
un ispiratore è dovuta però al fatto che Hillman fu il promotore
della prima cooperativa di abitazioni per lavoratori, nel Bronx, e
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della prima banca operaia.24 In questo contesto la fondatrice di
FU non ha mai nascosto il suo interesse per il movimento cooperativo italiano. Infatti, la forma previdenziale-assistenziale che
sembra essere considerata dalla FU l’unica in grado di reggere i
tempi, vista la crisi della finanza pubblica, è quella di un’“impresa
sociale”, capace di stare sul mercato, di autofinanziarsi, votata
unicamente a dare prestazioni sociali agli utenti (a self sustaining
way to help people). Una cosa ben diversa da come gli europei
s’immaginano la flexicurity, perché non è, non deve essere, un sistema pubblico, destinato a essere gestito dal partito più forte o
dai partiti in più o meno stretta concertazione con le vecchie rappresentanze degli interessi, deve essere in tutto e per tutto una
forma privata di autogestione. La FU non avrebbe potuto rendere credibile questa ipotesi, realizzata con la fondazione della Freelancer Insurance Company, se non avesse potuto godere del sostegno e dei finanziamenti della New York State Health Foundation, del New York City Investment Fund, ma sopratutto di una
lunga lista di fondazioni private, dimostrando in questo una notevole capacità di trovare quattrini.25 Il sindacato propone oggi
un Freelancer Retirement Plan, una forma di risparmio assicurativo che possa sostituirsi ai piani di pensionamento aziendali,
riservati solo ai dipendenti, ai programmi governativi sempre più
poveri di risorse e alle proposte dei broker privati sempre più care e con prestazioni sempre più insoddisfacenti. Un altro esempio al quale la FU intende ispirarsi è quello della ShoreBank, un’iniziativa creata una trentina d’anni fa per offrire alla comunità
povera di Chicago una banca disposta a dare prestiti a un tasso
d’interesse molto basso. Da questa esperienza, che ha visto tra i
fondatori alcuni attivisti della comunità afroamericana più radicale, ha preso avvio il movimento della “finanza sociale” che ha
costruito la cultura e le tecniche del microcredito in diversi paesi poveri del mondo, continuando però a operare e a estendere
l’attività in diverse città degli Stati Uniti, in particolare, dopo la
crisi dei mutui, proprio nel settore dei finanziamenti per
l’abitazione. Purtroppo questa banca è stata chiusa dalla Federal
Insurance Deposit Corporation nell’agosto del 2010 per le perdite accumulate, dando l’occasione alla FU di mettere sul suo sito
un commento molto amaro sul differente trattamento che
l’amministrazione Obama ha riservato a quelle considerate “troppo grandi per fallire” rispetto a quelle che dovrebbero essere considerate too good to fail.26 La prima volta che la FU si è schierata
dal punto di vista politico è stata in occasione delle elezioni municipali di New York del 2009. In vista delle elezioni del 2 novembre 2010 la Horowitz ha rivolto un esplicito appello per uni242
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re le forze a quelle del Working Families Party (Wfp) nell’appoggiare candidati disposti a impegnarsi sulle questioni basilari dell’assistenza sanitaria, del pagamento dei giorni di malattia, della riduzione degli affitti, del sostegno al trasporto pubblico, dei
salari minimi fissati per legge in grado di strappare alla povertà
chi ha un lavoro, del finanziamento pubblico delle spese elettorali, della ristrutturazione di un milione di abitazioni cittadine
in modo da risparmiare energia per mantenerne la temperatura
interna. Il Wfp dichiara che i suoi 140.000 voti sono stati decisivi per sconfiggere il candidato repubblicano al ruolo di State
Comptroller. Lo slogan del partito può far sorridere (We’re fighting to bring back the American Dream) ma se si pensa che i temi
del vivere decentemente vengono trascurati dai maggiori partiti
e dalla stampa, oscillanti tra ricette per risollevare l’economia e
metodi per vincere il terrorismo, uno sguardo concentrato esclusivamente sui problemi della gente che lavora non è poi così banale. Sara Horowitz e Dan Cantor, executive director rispettivamente della FU e del WFP, hanno tenuto dei comizi insieme, il WFP
appoggiava la proposta di legge di FU per un intervento pubblico
contro i committenti che non pagano (deadbeat client bill). “Vogliamo mettere insieme la disparata popolazione dei freelance,
toglierli dall’isolamento e farli diventare partecipi di una comunità.” Una delle battaglie più popolari, ma anche più difficili, è
appunto quella contro i committenti che non pagano. Un passo
avanti è stato compiuto facendo approvare una modifica alla normativa sul lavoro dello stato di New York secondo la quale il dipartimento del Lavoro può aprire un’indagine sulle società morose nei confronti degli independent contractors, se necessario
può portarle davanti alle corti, assumendosi le spese legali, senza escludere la possibilità di anticipare le somme delle fatture
non pagate. Naturalmente solo in presenza di impegni scritti, ed
è questo un modo anche per frenare l’uso di impegni soltanto verbali, molto diffusi a New York nel settore dei media e dello spettacolo. Un’altra modalità è quella di lanciare una campagna di
smascheramento pubblica, ma le difficoltà possono venire in primis dagli stessi freelance, timorosi di esporsi, come ha dimostrato
la controversia con una società di produzione di famose serie televisive. A una lettera di protesta e di ammonimento del sindacato la società rispondeva dicendo bellamente che non pagava
perché non aveva i soldi, la nuova ragione sociale avrebbe probabilmente potuto disporre delle risorse per i pagamenti. A un
controllo non risultava alcuna richiesta di fallimento della società. Una socia della FU coglieva l’occasione per raccontare di
aver mandato una energica protesta per una fattura non pagata
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a una certa società, di aver ricevuto pochi giorni dopo un assegno, che si era rivelato però fraudulent. Al danno si aggiunge talvolta anche la beffa. La sola possibilità è quella di sensibilizzare
l’opinione pubblica e le autorità affinché si metta in moto un processo che promuova un’azione repressiva efficace. Un altro metodo di cui ha discusso la FU è quello di istituire un proprio organismo di recupero crediti. La scarsa efficacia dimostrata anche da quella che può essere considerata l’organizzazione sindacale degli indipendenti più combattiva a livello mondiale sta a dimostrare come il problema dei mancati pagamenti sia oggi per
questa categoria di lavoratori ancora più acuto della mancanza
di protezioni sociali (mettendo in conto il tempo e i soldi che vengono impiegati per sollecitare il pagamento). Sulle tecniche di
sensibilizzazione e di reclutamento della FU si potrebbe insistere
a lungo, l’attenzione che essi dedicano al loro sito, la frequenza
con cui ne cambiano il layout, è indice dell’importanza attribuita allo strumento del web. Per un certo periodo il sito ha funzionato anche come strumento di promozione di singoli soci, che
presentavano se stessi e le loro competenze. Il layout attuale è invece più scarno, più chiaro e concentrato sui temi essenziali. Una
campagna di cui la FU può andare fiera è quella contro il pagamento della Ubt (unincorporated business tax), qualcosa di simile alla nostra Irap. “Quando questa tassa è nata, negli anni settanta, New York era a pezzi,” scrive la Horowitz, “c’erano pochi
freelance in giro, quelli che sono nati dopo ci sono cascati dentro, è una tassa che non ha nulla a che vedere con un freelance,
perché si viene tassati due volte, una prima volta come reddito
individuale e una seconda come reddito d’impresa, nel 2008 i freelance hanno lasciato all’erario 162 milioni di dollari di Ubt.” La
battaglia contro questa tassa è stata condotta con successo a New
York e poiché, come abbiamo visto dalle statistiche ufficiali, su
15 milioni di self employed due terzi sono unincorporated, ha prodotto un certo seguito al sindacato.
Londra, Westminster Hall
Un approccio completamente diverso è quello del Professional Contractors Group (Pcg) britannico. Ci avevano invitato a
partecipare al loro evento annuale, il National Freelancers Day,
avendo trovato l’indirizzo della nostra associazione per caso su
Internet. Si erano dati convegno nell’edificio del Parlamento affacciato sul Tamigi, al quale si accede dopo aver superato controlli molto rigidi e aver attraversato l’immensa medievale West244
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minster Hall. Il luogo non era stato scelto a caso, scopo dell’evento è quello di fare lobbying presso la politica, di far capire che
il lavoro indipendente è un fattore importante dell’occupazione
e dell’economia. Sono molto diversi dagli americani perché la loro base sociale è diversa, si tratta di consulenti con anni di attività alle spalle ben inseriti in mercati molto remunerativi come
quelli della ricerca energetica, dei servizi informatici e finanziari, dell’industria farmaceutica e delle utilities. Culturalmente conservatori o vicini ai liberali, contano circa 20.000 iscritti che pagano quote sufficientemente elevate da permettere il mantenimento di uno staff permanente di persone che si dedicano a tempo pieno all’attività dell’organizzazione. Un’indagine presso gli
iscritti, condotta nel 2010, aveva appurato che il 96 per cento aveva scelto la formula della società a responsabilità limitata (Ltd)
pur essendo per l’84 per cento ditte individuali e per il 12 per cento con un dipendente o, meglio, con un altro percettore di reddito derivante dall’attività della società. Questa scelta si spiega
con il regime fiscale, che consente di tassare non il fatturato ma
il reddito che il soggetto assegna a se stesso come remunerazione dell’attività, quasi fosse un salariato, detraendo le spese. A differenza dell’Italia, dove le vessazioni dell’Agenzia delle entrate si
manifestano in multe e sanzioni di cui anche il commercialista
non sa spiegarsi certe volte l’origine, in Gran Bretagna può capitare che gli agenti del fisco (Her Majesty’s Revenue and Customs, Hmrc) piombino nella casa-ufficio del professionista e
chiedano, per esempio, di controllare i records delle telefonate
degli ultimi due anni; sicché è successo a un povero socio Pcg di
vedersi affibbiare una multa tale da metterlo in difficoltà, dell’ordine di migliaia di sterline, per aver effettuato una telefonata
privata di un paio di sterline, in mezzo a migliaia di telefonate
per lavoro, e averla inserita tra le spese detraibili. In casi come
questi Pcg assicura assistenza legale ai soci. Non c’è da stupirsi
quindi se l’associazione è nata nel maggio 1999 a seguito di una
campagna e di una successiva azione legale contro un provvedimento fiscale iniquo, noto con la sigla IR35. Di cosa si tratta? Del
solito approccio inquisitorio delle autorità che pretendono in questo modo di frenare l’utilizzo di lavoratori autonomi come mimetismo di un rapporto di lavoro subordinato. Ovviamente il regime fiscale del rapporto di lavoro autonomo è favorevole all’impresa e in parte al contractor stesso, ma gli uffici di Sua Maestà invece di prendersela con le imprese si sono accaniti contro
centinaia di consulenti, infliggendo a taluni multe tali da rovinarli e scatenando una serie di controversie di lavoro, che continuano tuttora. L’ultima in ordine di tempo, di cui dà notizia il si245
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to di Pcg il 20 gennaio 2011, si è conclusa con la vittoria di un loro socio in quanto la Corte non ha riconosciuto nel contratto di
consulenza che questi aveva sottoscritto con Airbus gli estremi
della mutual obligation, propria invece del rapporto di lavoro subordinato. “Siamo pronti a pagare di più in cambio di una semplificazione della legislazione fiscale,” dichiara il servizio di consulenza e informazione online www.freelancesupermarket.com.
“Finire sotto le grinfie dell’IR35 è come farsi mordere dal proprio rottweiler!”
Se qualcuno volesse analizzare l’enorme differenza tra la cultura e l’approccio della FU newyorkese e quelli del Pcg dal punto di vista sociologico, potrebbe scoprire delle cose di grande interesse, che gli permetterebbero di guardare “dentro” la complessità di quell’aggregato che chiamiamo ceto medio e la sua
crisi. La base sociale di Pcg è rappresentata da consulenti di grandi aziende (67 per cento) e di enti pubblici o società che lavorano per il mercato pubblico (29 per cento) con contratti di lunga
durata o di medio-breve durata rinnovabili. Il contratto diventa
spesso la garanzia sulla quale ottengono il mutuo per acquistare sia l’abitazione-ufficio (dove il consulente in realtà risiede un
tempo inferiore a quello che spende viaggiando in continuazione per ragioni di lavoro) sia degli immobili che rappresentano
l’investimento necessario a procurarsi una specie di pensione
con i proventi dell’affitto, quando non saranno più in grado di
lavorare. Possedere degli immobili come risparmio assicurativo
è proprio di una particolare categoria del ceto medio – e non soltanto – nel mondo occidentale e gli independent contractors vi
appartengono. La crisi dei mutui ha prodotto quindi effetti devastanti su coloro che ancora non erano riusciti a pagare la prima casa o a finire di pagare l’immobile destinato a essere affittato a terzi. Le banche si sono trovate senza liquidità, i broker si
sono trovati con una drastica limitazione di schemi d’investimento
che erano autorizzati a proporre, gli indipendenti si sono trovati con clienti che non rinnovavano i contratti o che li rinegoziavano al ribasso. La crisi, se ha consentito a questi consulenti di
sopravvivere, ha strappato a molti di loro la possibilità di una
pensione, come dire, immobiliare, a taluni, i più sfortunati, ha
portato via anche la casa-ufficio. Le norme fiscali della IR35, dichiarando migliaia di contratti insufficienti a provare che il rapporto di lavoro non è un rapporto di subordinazione, hanno avuto effetti forse ancora più devastanti della crisi sulla condizione
dei contractors. Gli iscritti alla FU americana invece appartengono in maggioranza alla fascia bassa del freelancing, che cerca a fatica di sbarcare il lunario e spesso lavora su accordi ver246
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bali. Per i britannici l’aspetto fondamentale invece è il contratto scritto, in quanto è la prova del loro essere in regola con il regime fiscale previsto dall’IR35. Questo spiega anche la scelta di
costituirsi come entità legale d’impresa, che non è attribuibile a
un desiderio di appartenere all’ordine simbolico dell’imprenditore ma alla necessità di tutelarsi nei confronti del fisco, quando il tipo di rapporto prevalente è quello con uno o due soli grossi committenti.27
Nel numero di settembre 2010 della loro rivista “Freelancing
Matters”, John Brazier, il managing director di Pcg, esplicita il
modus operandi dell’associazione:
Quando ho assunto questo incarico, nel settembre 2007, l’associazione
andava bene ma era necessario trovare un nuovo “posizionamento
strategico”. Verso l’interno, dovevamo superare un rapporto con i soci che fosse solo di utilizzo di un servizio d’informazione e di consulenza. Dovevamo riuscire a coinvolgerli attivamente, considerarli
una risorsa importante di capitale umano da investire nell’associazione. Abbiamo moltiplicato gli eventi organizzati per i soci, le occasioni d’incontro diretto, i seminari, le serate conviviali. Verso
l’esterno abbiamo iniziato a tessere rapporti con associazioni professionali come la nostra su obiettivi strategici comuni, a essere presenti all’interno di organismi rappresentativi del business, a fare un
lobbying più stretto nei confronti dei partiti e dei legislatori in genere per fare sentire la nostra opinione su questioni fiscali e normative che interessano tutti i freelance. Per fare tutto questo abbiamo dovuto rafforzare lo staff permanente. Poiché la legislazione sul
lavoro ormai la decide l’Unione europea che è socialist and protectionist abbiamo preso l’iniziativa di aprire un’antenna a Bruxelles
per farla diventare anche punto di riferimento e di confronto con altre associazioni di lavoratori indipendenti di altri paesi, come il Pzo
olandese. Se lavoriamo bene, tra qualche anno faremo un grande
meeting europeo di tutti gli indipendenti e riusciremo a costituire
una terza forza, finiremo di essere sbattuti tra gli imprenditori e i lavoratori subordinati.
Così è nato l’European Forum of Independent Professionals,
un coordinamento che muove i primi passi e ha già fatto sentire
la sua voce presso la Commissione occupazione e affari sociali
del Parlamento europeo in occasione del Rapporto sul lavoro “atipico”. Grazie anche all’interesse che la vicepresidente, la deputata inglese Elisabeth (Liz) Lynne, sembra avere per la condizione del lavoro indipendente in virtù dell’opera di sensibilizzazione che Pcg conduce in Inghilterra. Sono presenti anche associazioni italiane, ci siamo anche noi di Acta. La leadership ora è
chiaramente britannica, è il gruppo più strutturato; difficoltà po247
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tranno sorgere per la grande disomogeneità dei partecipanti, che
vanno dall’associazione di mestiere (per esempio i traduttori) alle associazioni-ombrello che raccolgono una grande varietà di organismi. Sorprendente tuttavia, pur nella diversità delle culture
di base, in certi casi agli antipodi, la sussistenza non solo di un
sentire comune, ciò che abbiamo chiamato un’antropologia specifica, ma di una grande omogeneità di statuti di cittadinanza nei
diversi paesi. Il primo segnale è incoraggiante, vuol dire che si
possono formare linguaggi e un sistema di pensiero comuni, presupposto indispensabile per la nascita di un movimento in grado di smuovere le cose. Il secondo segnale invece è preoccupante, perché vuol dire che le élite dirigenti europee, quarant’anni
dopo l’avvento del sistema postfordista, non se ne sono ancora
accorte. E questo la dice lunga sul loro rapporto con la società
reale e con il lavoro.
Parigi e dintorni
Le associazioni dei professionisti indipendenti, Sicfor-Fcf (Sindacato dei consulenti e dei formatori indipendenti – Federazione dei
consulenti in formazione), Apotrad (Associazione dei professionisti
dei mestieri della traduzione) e Freelance in Europa annunciano la
creazione del Coordinamento delle associazioni dei professionisti
indipendenti delle arti liberali (Capil).
Il Coordinamento ha come obiettivo quello di promuovere il lavoro
indipendente in Francia e in Europa e di difendere gli interessi comuni dei professionisti che lo esercitano.
La definizione di questi professionisti secondo il Codice del lavoro,
L8221-6-1, è la seguente: “Chi opera in forma indipendente offrendo prestazioni intellettuali e stabilisce lui stesso le proprie condizioni di lavoro in accordo con i suoi clienti e porta a termine la sua
missione senza rapporto di subordinazione nei loro confronti”.
Non sono né agricoltori, né artigiani, né professioni liberali regolamentate dallo stato, esercitano tutte le professioni che fino a ieri venivano svolte da lavoratori salariati: ingegneri, consulenti, traduttori, grafici, formatori, informatici, comunicatori ecc. utilizzando
tutte le ragioni sociali disponibili e consentite, attività in proprio,
imprese individuali, società di autori (Agessa, Maison des Artistes)
e anche sotto forma di “assimilati a salariati” (nel giornalismo, nel
reportage fotografico).
L’Insee censisce circa 300.000 professionisti indipendenti delle arti
liberali; da quando, nel 1999, è stata inserita questa categoria nelle
Indagini annuali sull’impresa, il loro numero ha segnato una crescita media annua del 7 per cento, a questo ritmo saranno più di un
milione nel 2030.
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Non esiste al giorno d’oggi alcuna struttura ufficiale che li rappresenti tutti. Le camere consolari, gli ordini, i collegi, rappresentano
delle professioni ben definite e, tra le liberali, quelle “regolamentate”. Il Coordinamento fa appello ai pubblici poteri per far sapere che
esiste, affinché ne tengano conto all’interno del Coordinamento nazionale di concertazione delle professioni liberali (Cncpl), che in
questo momento sta elaborando una definizione positiva delle professioni liberali.
Questo comunicato è apparso sul numero 500 della pubblicazione online “CyberGazette. Le Journal des Freelances” il 10
gennaio 2011. Ci vuole una bella costanza per arrivare a 500 numeri di una pubblicazione, gestita praticamente da una persona,
Michel Paysant, con qualche collaboratore. Precisa Paysant:
Questo coordinamento è una prima tappa in vista della creazione di
una struttura permanente, vi aderiscono solo associazioni, unioni o
sindacati dei lavoratori della conoscenza indipendenti. Partecipa al
Forum europeo dei professionisti indipendenti (Efip) che riunisce
strutture di diversi paesi europei e ha come scopo quello di promuovere e difendere il lavoro indipendente in Europa (http://www.
independents-forum.eu/).
Abbiamo conosciuto Michel agli inizi degli anni novanta e
ciascuno di noi aveva già da prima “il pallino” di organizzare in
qualche modo i nuovi lavoratori autonomi che incontravamo
ogni giorno nella nostra attività lavorativa. Erano in genere persone di mezza età con esperienze aziendali alle spalle, una buona conoscenza delle tecniche di management, una rete di relazioni che si erano procurati durante la loro vita aziendale. In
parte usciti per loro scelta dalle aziende dove avevano accumulato il know how che si preparavano a vendere sul mercato a
prezzi tali da giustificare la loro decisione di mettersi in proprio, in parte espulsi nelle ricorrenti fasi di ristrutturazione per
fusioni, acquisizioni, scorpori ecc. Era un periodo d’oro per queste figure e l’idea di organizzarsi era molto lontana dalla loro
sensibilità. Un sindacato? Ma per far che? L’idea stessa di creare un’identità di gruppo li lasciava indifferenti. Il nostro stesso
“pallino” era piuttosto il retaggio di esperienze di movimento
degli anni sessanta e primi anni settanta, che avevano creato in
noi un mind set specifico, completamente sgombro da orpelli
ideologici o da schemi dottrinari (come vuole invece la vulgata
su quella generazione), ma tale da aver sviluppato una specie di
sesto senso per i “futuribili”. Facevamo parte, quelli del “palli-
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no”, della fascia medio-alta della consulenza professionale, quindi il problema dell’organizzazione non veniva avvertito né come una riproposizione di vecchi schemi rivoluzionari né come
uno strumento di soccorso a persone in difficoltà. Riportando
alla mente incontri e discorsi di quel tempo, ciò che ci è rimasto più impresso è la sensazione piacevole e sorprendente di scoprire che la disposizione d’animo delle persone con il nostro mestiere era la stessa, in Italia, in Gran Bretagna, in Germania, dovunque avessimo l’occasione di incontrare colleghi con i quali
si trovava il tempo di fare due chiacchiere confidenziali sul nostro vissuto di lavoro. Cominciò a radicarsi in noi la convinzione che l’indipendente, l’autonomo, è proprio un nuovo tipo umano o, comunque, un tipo con caratteristiche molto simili in tutti i suoi esemplari. Quindi, prima di organizzare una coalizione, c’era da studiare e dare volto a una nuova antropologia umana. Infatti il processo evolutivo avrebbe dovuto aspettare almeno altri dieci anni per passare dalle conversazioni tra individui
ossessionati dai medesimi “pallini” all’iniziativa, pressoché simultanea in diversi paesi, di alcuni gruppi di lavoratrici e lavoratori autonomi per la creazione di associazioni di categoria. In
mezzo si erano verificati due fenomeni, che avevano contribuito a cambiare la composizione interna e il contesto del lavoro
indipendente: la moltiplicazione di queste figure nella fascia medio-bassa e bassa del mercato e la crisi delle dot.com. Iniziava
un periodo di difficoltà per il mondo occidentale che sarebbe
sfociato nella crisi del 2008, il momento aureo della consulenza indipendente era finito, i più fortunati si erano ritirati, cessando l’attività o riducendola al minimo, chi era stato costretto
a continuare a lavorare vedeva diminuire a vista d’occhio i suoi
redditi annuali e cominciava a chiedersi come avrebbe vissuto
in vecchiaia.
Mettendo insieme i dati dell’Insee, Michel Paysant, in una
presentazione del settembre 2010 al Forum europeo dei professionisti indipendenti (Efip), aveva scoperto che dal 1999 al
2007 la crescita dei lavoratori intellettuali delle professioni non
regolamentate al servizio delle imprese era stata dell’80 per cento e il loro reddito medio annuo nel 2007 era stato di circa 33.500
euro lordi.
Chi per ragioni anagrafiche ha potuto attraversare gli ultimi
vent’anni lavorando in questo ambiente, continua a restare sconcertato di fronte alla stolida insipienza delle classi dirigenti di questa povera Europa, che ancora non sono riuscite a rendersi conto
di cosa sta accadendo nel mondo del lavoro. Con irresponsabilità
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e leggerezza è stata portata avanti una politica d’incoraggiamento
a “fare impresa”, piccola, minuscola, sgangherata, pur di farla, così, tanto per abbassare il numero dei disoccupati, senza chiedersi
con quale contesto di mercato si sarebbero scontrati questi microimprenditori/lavoratori autonomi. Sono stati forniti incentivi
insufficienti, capitali di start-up ridicoli, non è stato previsto alcun
sistema creditizio favorevole e in genere è stato aggravato il carico fiscale. Ricorda, quel che è successo, la riforma agraria in Italia, quando sono state date in proprietà terre difficili da coltivare
a contadini senza mezzi e senza capitali, costringendo poi la maggioranza a emigrare.
In Francia esiste un’Agenzia per la creazione di imprese,
l’Apce, che sembra corrispondere all’idea che noi italiani abbiamo dell’efficienza della macchina pubblica d’oltralpe. Il 1° gennaio 2009 è entrata in vigore la legge sull’impresa individuale (auto-entrepreneur), integrata nel dicembre 2010 con la legge sull’impresa individuale a responsabilità limitata.28 I due testi hanno almeno il merito di aver definito con chiarezza quali sono i
regimi fiscali e assicurativi nei quali rientrano coloro che scelgono di lavorare in proprio adottando una figura giuridica, proteggono gli autoimprenditori da certi rischi e pongono un limite
all’avidità delle banche, che non dovrebbero poter esigere a garanzia di un prestito beni personali che non rientrano tra i mezzi pertinenti l’attività economica del debitore.29 In ogni caso è evidente lo sforzo di far rientrare questo universo dell’occupazione
nell’ordine simbolico dell’impresa e non nell’ordine del lavoro,
con il risultato che persino quelli del “pallino” a volte rischiano
di avere le idee confuse in proposito.
Milano
Può essere descritto, questo strano connubio tra una metropoli e una parrocchia, come un aggregato di sistemi, sottosistemi e non-sistemi. Così complesso che le generalizzazioni rischiano il flop. Da decenni ormai nessuna penna curiosa, indagatrice, spregiudicata, appassionata ne scrive più. Nessun Bianciardi, nessun Montaldi da quarant’anni appare all’orizzonte,
neanche nessun Jannacci.30 Ma in realtà non è questione di scrittura, è roba di sociologia potremmo dire, anzi di più, è l’assenza
di un pensiero che non può vivere senza avere un fondamento
nella complessità di soggetti collettivi, saranno le tute blu (bianche quelle della Pirelli di un tempo), saranno gli immigrati. Ne251
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gli ultimi decenni l’unica eccezione è il pensiero delle donne. Di
sicuro Milano ha prodotto in quantità corifei del glamour, pifferai del fashion, che ne hanno confezionato l’immagine e, a dire
il vero, sono stati bravi, il marketing ha funzionato bene. Di certo Milano ha un governo, una presenza articolata, potente, abilmente soft, che lascia pochi pori liberi di respirare nel suo tessuto, “ci elle”, dice la sigla. Ma Milano è anche la prima grande
protagonista dell’industrialismo ad aver elaborato il lutto del fordismo, l’abito nero della vedovanza lo ha messo presto nel cassetto, non porta nemmeno la fascia nera al braccio come Genova o Torino.
Doveva per forza nascere a Milano un’associazione dei lavoratori autonomi al passo coi tempi, perché già tante esistevano
(o vegetavano) da anni, ma Acta (Associazione consulenti del terziario avanzato) ci sembra onestamente in linea, in sintonia, con
quanto abbiamo visto nascere e svilupparsi a New York, a Londra, a Berlino, a Parigi. Eppure il contesto sociale ed economico nel nostro paese è soltanto parzialmente simile a quello francese, britannico o americano in cui è maturata la forza delle coalizioni di cui abbiamo discusso. Da una parte, con il postfordismo, si fanno strada in egual modo le dinamiche decostruttive
dei sistemi d’impresa e l’emergere del lavoro cognitivo e indipendente. Dall’altra, tuttavia, vi sono differenze piuttosto marcate che riguardano in particolare la composizione del tessuto
imprenditoriale, costruito in prevalenza dai “piccoli”, e la presenza di tradizioni ordinistiche che insieme a commercianti e
artigiani hanno per anni impropriamente rappresentato nell’opinione pubblica del nostro paese il bacino unico del lavoro autonomo. Acta ha saputo ritagliarsi il giusto spazio, dando voce
e corretta rappresentazione di quel mondo del lavoro professionale indipendente che non ha legami con gli albi e non si riconosce nel segmento degli artigiani o dei commercianti.
L’intuizione iniziale, che risale al 2004, è semplice: raccogliere
diversi professionisti senza distinzioni per unirli in una coalizione che mettesse in primo piano le questioni di equità e di giustizia rispetto ai diritti di cittadinanza e allo stato sociale, oltre
che al mercato del lavoro e nei confronti delle imprese. Prima
ancora di guardare al contenuto lavorativo espresso, Acta raduna i lavoratori di ogni settore che esercitano con partita Iva, svolgono attività di consulenza come freelance e indipendenti, e vivono quotidianamente problemi del tutto simili: un fisco vessatorio, una previdenza senza garanzie, difficoltà nei pagamenti,
dumping sociale e un sostanziale abbandono sul fronte delle po252
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litiche di sviluppo. Fare da soli non basta più ai suoi iscritti, la
distanza dalle tradizionali forme politiche e sindacali di rappresentanza è così marcata che sorge quasi spontaneo per chi vi
opera mettere a fattor comune tempo, idee e soldi. Nell’organizzazione interna Acta trova alcune spinte aggregative che si
concretizzano in tre attività distinte: analisi e proposte sul fronte delle politiche pubbliche, azione coordinata di comunicazione, costituzione di servizi specifici per freelance. Sono tre componenti forti della consulenza: la lettura critica del capitalismo
intellettuale, in particolare di ciò che viene definito legislativamente nei contesti politici e istituzionali; la necessità di parlare, divulgare, aggregare; e infine la volontà di rispondere alle esigenze di mutualismo e servizio. Sul primo fronte Acta produce
una certa quantità di analisi, commenti e proposte che riguardano fisco, previdenza e assistenza, confrontandosi criticamente con proposte legislative legate a nomi come Pietro Ichino, Giuliano Cazzola, Tiziano Treu, di cui abbiamo parlato più estesamente in chiusura del precedente capitolo, confrontandosi attivamente anche con il sindacato. Nel maggio del 2009 presentava pubblicamente anche una proposta specifica per la “maternità universale” e la tutela pensionistica di chi deve affiancare
al proprio lavoro anche un’attività di cura.31 Sul fronte della comunicazione, dopo alcuni anni di attesa, Acta sposa in pieno la
filosofia del social networking. La sua community digitale, che
ruota intorno al sito istituzionale (www.actainrete.it), trova spazio per fare coalizione anche su Facebook, Twitter, Friendfeed e
LinkedIn. I materiali Acta circolano su numerosi social media,
da Flickr a YouTube, da Scribd a Del.icio.us. Il battage arriva
presto sugli organi di stampa e Acta guadagna anche le prime
pagine dei giornali, a partire dal “Corriere della Sera”.32 L’azione
di comunicazione e informazione passa però anche per canali
indiretti. Lo sforzo di collegamento con altre associazioni trova
un importante sbocco con la Rete, una sorta di coordinamento
leggero, nato nel corso del 2009, che raccoglie altre undici realtà
associative trasversali e interprofessionali.33 Sul fronte dei servizi invece Acta riesce con pochi mezzi a mettere in piedi, sulla
base della collaborazione di volontari, convenzioni, giornate di
formazione, uno spazio di co-working e servizi di consulenza personalizzata su fisco e previdenza. Ma ciò che più di ogni altra
cosa aiuta Acta nella sua graduale crescita è la sua ferma battaglia sui temi sociali, a partire dalle sperequazioni che riguardano il sistema pensionistico e l’assistenza. Al deficit di rappresentanza Acta contrappone, prima ancora che rappresentanti,
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diverse e più realistiche rappresentazioni del lavoro, con la ferma convinzione che il lavoro autonomo sia un valore da difendere. Abbandona il formalismo del mondo sindacale, le logiche
di connivenza, la voglia di accaparrarsi poltrone. Ciò che denuncia è pubblico, prima di tutto via Internet, dove c’è spazio
per raccogliere soprattutto commenti e racconti in presa diretta. Il 1° dicembre 2009 alcuni soci occupano simbolicamente lo
scalone interno della Triennale di Milano, per protestare contro
una proposta di emendamento alla legge finanziaria che chiede
di innalzare le aliquote previdenziali dei professionisti autonomi. Il presidio del luogo simbolo della “Milano creativa” prende
la forma di un happening: finte sacche di sangue sono attaccate al braccio di lavoratrici e lavoratori autonomi a simboleggiare le troppe sanguisughe in giro che vogliono attaccarsi a chi lavora in proprio. Da lì a pochi giorni il Parlamento ritira
l’emendamento alla finanziaria e Acta intasca il successo. Il messaggio più forte per rilanciare la necessità di unirsi arriva a fine
2010, quando Acta diffonde il “Manifesto dei lavoratori autonomi”, scritto in collaborazione tra i soci.34 L’obiettivo principale
è di tracciare un ritratto aggiornato della condizione del lavoro
indipendente di seconda generazione, offrendo all’universo del
lavoro e all’opinione pubblica un programma per il riconoscimento del valore del lavoro professionale e cognitivo in genere.
Insieme al testo, Acta progetta anche il suo lancio a livello nazionale, rimettendo piede là dove un anno prima era entrata con
forme di protesta. Il 12 gennaio 2011 si ripresenta in Triennale
e mette in scena uno spettacolo autofinanziato, sotto la direzione della regista argentina Marcela Serli. Alcuni soci si prestano
al mestiere d’attore per interpretare se stessi e leggere brani del
Manifesto. Prendendo spunto anche dal bellissimo post sul sito
di un socio romano, Giacomo Mason,35 ai lavoratori autonomi
si sbatte in faccia una cruda verità: non aspettarsi la solidarietà
di nessuno perché non si dà solidarietà ai fantasmi, agli invisibili. Dunque non resta che unirsi, come dice il vecchio adagio,
prendere in mano i propri destini, perché i diritti dei freelance
sono quelli di tutti i lavoratori, perché la protezione delle singole professioni non basta e occorre unire i lavoratori, non dividerli, perché le partite Iva non hanno diritto a nessun ammortizzatore sociale e i loro contributi Inps finanziano gli ammortizzatori di altre categorie. Per Acta è indispensabile scrollarsi di dosso la falsa immagine di evasori, finti dipendenti, invisibili. L’economia, come hanno “recitato” in Triennale i professionisti di Acta, ha bisogno di queste figure: più robusti di254
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ventano, più forti saranno tutti i lavoratori, anche i dipendenti,
perché si tratta di lotta contro la concorrenza al ribasso ed equità
nei pagamenti. Da soli i lavoratori freelance finiscono sbatacchiati tra grandi imprese e lavoratori subordinati, tra lobby politiche e sindacali. Insieme potranno forse contare di più. Sembrerà strano, ma in questo mondo di linguaggi crittati e di comunicazioni remote, scoprire parole antiche, sentirle suonare
convincenti, è un piacere, un divertimento. Acta ha posto anche
il problema di come pronunciarle.
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Note
1. Passaggi
1
Agostino d’Ippona, Le Confessioni, Edizioni Paoline, Milano 2002, p. 98.
Ivi, p. 105.
3
A quell’epoca poteva capitare di peggio agli insegnanti nel mercato privato, come quel tale, poi dichiarato santo, che fu trafitto a morte dagli allievi a colpi di stilo, cfr. Robert A. Kaster, Guardians of Language. The Grammarian and Society in Late Antiquity, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1988, paperback 1997.
4
Ibid.
5
Richard Florida, Cities and the Creative Class, Routledge, New York
2005; vedi anche The Economic Geography of Talent, in “Annals of the Association of American Geographers”, settembre 2002, pp. 743-755.
6
www.intranetmanagement.it, nel commento a un libro di Pier Cesare
Rivoltella.
7
Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in
Italia, a cura di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli, Feltrinelli, Milano 1997.
8
www.1099.com, The Webzine for Independent Professionals.
9
Intervista a cura di Matteo Sanfilippo, del 14 giugno 2010, sul blog di
Claudia Cucchiarato www.vivoaltrove.it, che trae il nome dal titolo del libro
pubblicato dall’autrice presso Bruno Mondadori nel 2010. Utile come reportage, il libro della Cucchiarato purtroppo sembra dar credito alla teoria
che “è tutta colpa della generazione anni sessanta”, una teoria che viene
espressa in maniera molto più radicale da testi come What Did the Baby Boomers Ever Do for Us? di Francis Beckett (Biteback Publishing, London 2010),
un guazzabuglio di mistificazioni e falsità sulle cause della condizione lavorativa e sociale oggi.
10
I professionisti non iscritti ad albi sono liberi di scegliere se regolamentare il rapporto secondo le norme sul contratto d’opera o le norme sul
contratto d’opera intellettuale, cfr. Riccardo Salomone, Le libere professioni
intellettuali, vol. 55 del Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da Francesco Galgano, Cedam, Padova 2010, pp. 146 ss.
2
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11
“La generazione delle venticinquenni-trentacinquenni, figlie di donne acculturate che in tempi diversi hanno svolto la loro carriera in Italia, cercano sbocchi professionali coerenti con i loro studi, e non li trovano in Italia, ma li rinvengono con maggiore facilità all’estero. [...] Evviva la fuga delle cervelle, e le mamme si preparino anch’esse a visitare le proprie figlie all’estero [...]. E perché no anche la fuga delle mamme delle cervelle, per segnalare che qualcosa deve cambiare nel nostro paese...” scrive la psicologa
Antonietta Cacciani in una lettera a [email protected]
12
Ma non si tratta solo di giovani, come scrive sul blog www.vivoaltrove.it
una persona che ha costituito nel 2002 un’associazione di volontariato per
over quaranta che hanno perso il lavoro: “Non sono solo i giovani che vorrebbero andarsene, ho molti casi di persone ‘mature’, di quarantacinquenni
o cinquantenni che continuano a pensare che sarebbe meglio andare via”.
13
The Brain-Drain, Emigration Flows for Qualified Scientists. Il caso italiano, curato da Maria Carolina Brandi e Sveva Avveduto dell’Istituto di ricerca sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr, è nella Sezione 4 della
ricerca.
14
Cfr. sulla situazione universitaria negli Stati Uniti i contributi di Andrew Ross e di alcuni suoi studenti della New York University in The University Against Itself: The Nyu Strike and the Future of the Academic Workplace, Temple University Press, New York 2007.
15
Si verifica un doppio processo, che soffoca l’idea di libertà individuale: la competenza viene percepita come un handicap, non come una risorsa,
nella pratica quotidiana viene gestita in maniera prudente e timorosa, successivamente viene sempre più isolata e separata dalla consistenza morale.
Nella prima fase è sottoposta a un’azione inconscia di mutilazione, nella seconda si atrofizza lentamente. Ne parliamo in maniera più chiara ed estesa
nel prossimo capitolo.
16
Sottotitolo Il nuovo mercato del lavoro scientifico, Odradek, Roma
2006.
17
Non ci vuole molto per esercitare questa funzione: con tutti i limiti,
un’iniziativa come quella del sito www.lavoce.info risponde a tali esigenze e
crea una dinamica per cui altri gruppi di docenti e di giornalisti onesti si
mettono sulla stessa lunghezza d’onda (Sbilanciamoci.com, nelMerito.com,
noiseFromAmeriKa.org ecc.) sviluppando un’atmosfera culturale con un po’
di senso radical, il minimo che si può chiedere a una democrazia borghese.
18
Si tratta della ricerca biennale Isfol Plus, cfr. Gianni Corsetti, Emiliano Mandrone, Il lavoro: tra forma e sostanza. Una lettura dell’occupazione non
standard in Italia, in “Economia e Lavoro”, n. 2, 2010, pp. 71-97. I dati del
2010 saranno disponibili nella primavera-estate del 2011.
19
Importanti a questo proposito i contributi di Orsola Razzolini, assegnista di ricerca dell’Università Bocconi che ha già ottenuto significativi riconoscimenti internazionali, sulla legittimità di considerare lavoro autonomo
anche quello di un professionista con una struttura organizzativa minima. Cfr.
I “confini” del diritto del lavoro nella sua evoluzione storica: un’introduzione, in
“Annali di storia dell’impresa”, n. 18, 2007, pp. 431 ss. e la voce “Lavoro autonomo organizzato”, in Marcello Pedrazzoli (a cura di), Lessico giuslavoristico.
Impresa, vol. 2, Bononia University Press, Bologna (in corso di stampa).
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Elena Fabrizi, Rinaldo Evangelista, L’instabilità dei nuovi lavori. Un’analisi dei percorsi lavorativi, in “Economia e Lavoro”, 2010, n. 2, pp. 24-46.
21
Annalisa Murgia, Dalla precarietà lavorativa alla precarietà sociale. Biografie in transito tra lavoro e non lavoro, Odoya, Bologna 2010.
22
Richard Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999.
23
Nel capitolo 5 mostriamo uno dei tanti esempi d’incongruenza di questo archetipo con la realtà quotidiana.
24
Riccardo Salomone, Le libere professioni intellettuali, cit., p. 68.
25
Nel 2010 sono stati autorizzati 1203 milioni di ore, di cui 341,8 milioni di Cig ordinaria, 488,8 milioni di Cig straordinaria (aumentata del 126,4
per cento rispetto al 2009) e 373 milioni di Cig in deroga (aumentata del
206,5 per cento rispetto al 2009). Le ore effettivamente utilizzate sono state
poco al di sotto del 50 per cento (fonte Inps).
26
L’esito del referendum alla Fiat Mirafiori sul “piano Marchionne” è
stato molto eloquente in tal senso: mentre tra gli operai lo scarto tra i “no”
e i “sì” è stato di soli 9 voti, tra i colletti bianchi i “sì” hanno raccolto il 95,5
per cento di consensi.
27
Da questo punto di vista l’impostazione data da alcune componenti del movimento delle donne è estremamente significativa, non solo per il
rifiuto di appartenenza che non sia il legame di genere ma per il superamento dell’idea di “rappresentanza” come istituto al quale conferire una
delega. A partire da questi presupposti può iniziare un ragionamento sul
senso del lavoro, cfr. il documento Immagina che il lavoro. Un manifesto
del lavoro delle donne e degli uomini scritto da donne e rivolto a tutte e tutti perché il discorso della parità fa acqua da tutte le parti e il femminismo
non ci basta più, presentato il 24 ottobre 2009 a cura della Libreria delle
Donne di Milano.
28
Günther Anders, Claude Eatherly, Burning Conscience: The Case of the
Hiroshima Pilot, Claude Eatherly, Told in His Letters to Günther Anders, Weidenfeld and Nicolson, New York-London 1961.
29
Questo racconto fu presentato durante il convegno internazionale “Psiche, Affetti e Tecnica” organizzato da Coirag e tenutosi a Milano l’8-9-10 giugno 2007.
30
Jacques Derrida, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002.
31
Cfr. Armanda Kidd Damarin, La produzione e le occupazioni flessibili,
in “Sviluppo e Organizzazione”, Croa, Centro di ricerca sull’organizzazione
aziendale, Università Bocconi, Milano, n. 223, settembre-ottobre 2007.
32
Cfr. Dario Banfi, Liberi Professionisti Digitali, Apogeo, Milano 2006.
33
Cfr. Dario Banfi, Moonlighter, ghost worker e l’Altro lavoro, Humanitech.it, 13 gennaio 2010.
34
La campagna Cgil “Giovani non più disposti a tutto”, lanciata attraverso il sito www.nonpiu.it a metà novembre del 2010 secondo Arnaldo Funaro fu ideata in nuce da lui già un anno prima. A riprova indica i materiali da lui realizzati e visibili sul sito Blog Guerrilla (http://www.bloguerrilla.it/
2009/05/28/siamo-tutti-diversamente-occupati/).
35
Emiliana Armano, Precarietà e innovazione nel postfordismo. Una ricerca qualitativa sui lavoratori della conoscenza a Torino, Odoya, Bologna
2010, p. 32.
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36
Ibid.
Mark Granovetter, La forza dei legami deboli e altri saggi, Liguori, Napoli 1998.
38
Gay W. Seidman, Beyond the Boycott: Labor Rights, Human Rights,
and Transnational Activism, American Sociological Association’s Rose Series
in Sociology, Russell Sage Foundation, New York 2007.
39
Per ricostruire la vicenda nella sua genesi e negli sviluppi si leggano
sul sito di Acta (www.actainrete.it) questi articoli: La lettera scomparsa: Acta denuncia le politiche Inps!, 3 maggio 2010; Pensioni: “Meglio l’ignoranza
del sommovimento sociale”?, 6 ottobre 2010; Acta risponde a Paolo Attivissimo, 27 ottobre 2010; Un’altra incauta dichiarazione di Mastrapasqua, 22 dicembre 2010.
37
2. Da gentiluomini a mercenari. L’ideologia del professionalismo e
la sua crisi
1
International Labour Office (Ilo), Management Consulting. A Guide to
the Profession, a cura di Milan Kubr, Geneva 20024, p. 131.
2
Burton J. Bledstein, The Culture of Professionalism. The Middle Class
and the Development of Higher Education in America, W.W. Norton & Co.,
New York 1976.
3
Ivi, p. 81.
4
Ivi, p. 101.
5
Fernando Fasce, La democrazia degli affari: comunicazione aziendale e
discorso pubblico negli Stati Uniti, 1900-1940, Carocci, Roma 2000.
6
Matthias Kipping, The Consultancy Business in Historical and Comparative Perspective, Oxford University Press, Oxford 1999; Matthias Kipping,
Lars Engwall (a cura di), Management Consulting. Emergence and Dynamics
of a Knowledge Industry, Oxford University Press, Oxford 2002.
7
Marco Soresina, Professioni e liberi professionisti in Italia dall’Unità alla Repubblica, in “Quaderni di Storia”, maggio 2003. La letteratura riguardante la storia delle professioni in Italia è, tranne pochissime eccezioni, dedicata esclusivamente alle professioni regolamentate. Qui abbiamo preso in
considerazione, oltre alle riflessioni di carattere storico-metodologico che
valgono per tutti i discorsi sul professionalismo, soltanto le analisi dedicate
alle professioni tecniche (pp. 165-201), perché la loro evoluzione è strettamente legata a quella dell’impresa e le “nuove” professioni non regolamentate in genere appartengono al settore dei servizi alle imprese. Con maggiore approfondimento e completezza se ne è occupata più di recente Maria
Malatesta, Professionisti e gentiluomini. Storia delle professioni nell’Europa
contemporanea, Einaudi, Torino 2006. Il capitolo dedicato agli ingegneri è il
quarto, Ingegneri ed élite, pp. 199-244. Alla bibliografia contenuta in questo
volume si rimanda per ulteriori riferimenti.
8
Willem Tousijn, Tra Stato e mercato: le libere professioni in Italia in una
prospettiva storico-evolutiva, in Willem Tousijn (a cura di), Le libere professioni in Italia, il Mulino, Bologna 1987, p. 28.
9
“Il problema della disoccupazione dei tecnici caratterizzò tutto il pe-
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riodo tra le due guerre”, Fabio Bugarini, Ingegneri, architetti, geometri. La
lunga marcia delle professioni tecniche, in Willem Tousijn (a cura di), Le libere professioni in Italia, cit., p. 323.
10
Willem Tousijn, (a cura di), Le libere professioni in Italia, cit., pp. 1415.
11
Maria Malatesta, Professionisti e gentiluomini, cit., p. 349.
12
Luigi Ferrarella, Milano ha 20 mila avvocati (la metà di tutta la Francia), in “Corriere della Sera”, 16 settembre 2010.
13
Maria Malatesta, Professionisti e gentiluomini, cit., p. 349.
14
Ivi, p. 353.
15
Gian Paolo Prandstraller, Professionisti e knowledge workers. Il caso
italiano, in “Economia e Lavoro”, n. 2, 2003, pp. 23-30; vedi anche a cura
dello stesso autore, Le nuove professioni nel terziario. Ricerca sul professionalismo degli Anni 80, Franco Angeli, Milano 1994 (4a edizione).
16
Federico Butera, Enrico Donati, Ruggero Cesaria, I lavoratori della conoscenza. Quadri, middle manager e alte professionalità tra professione e organizzazione, Franco Angeli, Milano 1997.
17
Andrew Ross, No Collar. The Humane Workplace and its Hidden Costs,
Basic Books, New York 2003. Cfr. anche Sergio Bologna, Ceti medi senza futuro?, Derive&Approdi, Roma 2007, pp. 108-136.
18
Cfr. Pietro Ichino, Libere professioni in libertà vigilata su www.lavoce.info,
26 ottobre 2010, e i commenti dei lettori; vedi anche il sito www.pietroichino.it
19
Nella homepage del sito si legge: “I professionals americani hanno da
tempo perduto la loro sicurezza del posto di lavoro e il loro status da ceto
medio, che si sono conquistati con gli studi universitari e con il duro lavoro. Oggi, nella situazione economica attuale stiamo perdendo i nostri impieghi, le nostre assicurazioni sanitarie e talvolta le nostre case. Ma abbiamo ancora le nostre competenze e possiamo usarle per lottare per costruire
una rete di protezione decente e un’economia equa. Aderisci a United Professionals per costruire un sistema di mutuo soccorso, per far pressione in
favore di una riforma sanitaria e di sussidi di disoccupazione adeguati e per
realizzare un’economia che abbia riguardo per le nostre competenze invece
di sprecarle e gettarle nella spazzatura”.
20
John e Barbara Ehrenreich, The Professional-managerial Class, in “Radical America”, vol. 11, nn. 1 e 3, 1977. I due autori negli anni precedenti si
erano occupati dell’organizzazione del sistema medico-sanitario americano
e delle diverse figure professionali in esso operanti.
21
Sulle ideologie e utopie tecnocratiche cfr. Sergio Bologna, I “lavoratori della conoscenza” fuori e dentro l’impresa, in “Annali di storia dell’impresa”, n. 17, 2006.
22
La conferenza di Weber è stata pubblicata la prima volta nel 1919 (Wissenschaft als Beruf, in Geistige Arbeit als Beruf. Vier Vorträge vor dem Freistudentischen Bund, Duncker & Humblot, München 1919) e poi riprodotta
nell’edizione dei suoi scritti sulla scienza (Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, J.C.B. Mohr, Tübingen 1922, pp. 524-555; 2a edizione a cura di
J. Winckelmann, 1951, pp. 566-597; 2a ed. e successive pp. 528-613). Le traduzioni sono di Sergio Bologna dalla raccolta Max Weber, Schriften 18941922, Kröner, Stuttgart 2002.
23
In Germania il giovane “è dipendente dal direttore d’Istituto quanto
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un impiegato in fabbrica, perché il direttore d’Istituto in piena buona fede è
convinto che l’Istituto sia ‘roba sua’ e si comporta di conseguenza, ‘quindi /il
giovane’ si trova spesso a condurre un’esistenza precaria quanto un qualunque ‘proletaroide’”, in Wissenschaft als Beruf, cit., p. 477; Weber è uno dei
primi a usare il termine prekär – presente nell’uso della lingua tedesca già
agli inizi del Novecento – ed è interessante che lo utilizzi riferendosi ai giovani che aspirano a una carriera accademica.
24
Il pericolo di una scienza “incomprensibile” non è l’argomento della
critica di Weber, che è molto più preoccupato della possibile sottovalutazione delle caratteristiche “morali” nella professione a causa del progressivo affermarsi del tecnicismo; tutta l’ultima parte del testo invece è dedicata alla
condanna dei docenti che utilizzano l’autorità della cattedra per diffondere
le loro idee politiche.
25
“Un commerciante o un grande industriale senza ‘fantasia commerciale’, cioè senza delle idee, delle idee geniali, rimane per tutta la vita un uomo che nel migliore dei casi è un esecutore o un impiegato tecnico, non sarà
mai capace di creare qualcosa di nuovo dal punto di vista organizzativo. Nel
lavoro scientifico la Eingebung non svolge affatto un ruolo diverso da quello che esercita sul piano della gestione di problemi pratici da parte del moderno imprenditore – anche se la corporazione degli scienziati s’immagina
tutt’altro”, Max Weber, Wissenschaft als Beruf, cit., p. 484.
26
Richard Barker, The Big Idea: No, Management is not a Profession,
“Harvard Business Review”, luglio-agosto 2010.
27
Andrew Abbott, Professional Ethics, in “The American Journal of Sociology”, vol. 88, n. 5, marzo 1983, pp. 855-885; “all’inizio del Novecento gli
appartenenti a tutte le professioni subirono un declino di status, [...] la diffusione di codici etici professionali è stata un modo per rivendicare uno status perduto, [...] il fenomeno culturale e sociale del professionalismo ha difeso la classe media dal nuovo mondo capitalistico della grande impresa conferendo onore, dignità e sicurezza all’individuo indipendentemente dall’impiego salariato”, p. 865.
28
Ivi, p. 881.
29
Mettono in risalto l’importanza di questi concetti nella teoria delle
professioni di Weber anche gli autori del capitolo 9 del manuale di sociologia pubblicato nel 2010 dal Vs-Verlag: Handbuch Arbeitssoziologie, 2010, Teil
C, Alma Demsky von der Hagen e G. Günther Voss, Beruf und Profession, pp.
751-803).
30
Annalisa Murgia, Dalla precarietà lavorativa alla precarietà sociale, cit.
31
Immagina che il lavoro, in “Sottosopra”, ottobre 2009, a cura della Libreria delle Donne di Milano. Sul tema della sovrapposizione tra tempo di
lavoro e tempo di vita, produzione e riproduzione, e sulle possibilità di tradire la dedizione assoluta al lavoro si legga anche Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre
Corte, Verona 2010.
32
Matthias Kipping, Lars Engwall (a cura di), Management Consulting,
cit..
33
Sul caso italiano cfr. la tesi di Cristina Crucini, The Management Consultancy Business in Italy: Evolution, Structure and Operation, p. 326, pre-
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sentata all’Università di Reading nell’ottobre 2004. Ringraziamo Matthias
Kipping per avercene fatta avere una copia.
34
Ilo, Management Consulting, cit., p. 801.
35
Zygmunt Bauman, La società individualizzata, il Mulino, Bologna 2002,
pp. 35-36.
36
Luigi Meneghello, Jura. Ricerche sulla natura delle forme scritte, Rizzoli, Milano 2003, pp. 119-120.
37
Intervista riportata su www.intranetmanagement.it, il sito di Giacomo Mason.
38
Andrea Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo, Carocci, Roma 2008; Christian Marazzi, Il comunismo del capitale. Biocapitalismo, finanziarizzazione dell’economia e appropriazioni del comune, Ombre Corte,
Verona 2010; Cristina Morini, Per amore o per forza, cit.
39
Eliot Freidson, Professionalism. The Third Logic, Blackwell, London
2000, p. 122 (tr. it. Professionalismo, la terza logica, Dedalo, Bari 2002).
40
Manuel Castells (a cura di), The Network Society, a Cross Cultural Perspective, Edward Elgar, Northampton, Mass., 2004.
41
Keith Macdonald, The Sociology of Professions, Sage, London 1995.
42
Charles R. Derber (a cura di), Professionals as Workers. Mental Labour
in Advanced Capitalism, C.K. Hall, Boston 1982.
43
Magali Sarfatti Larson, Proletarianization and Educated Labor, in
“Theory and Society”, vol. 9, n. 1, gennaio 1980, pp. 131-175.
44
Federico Chicchi, Lavoro flessibile e pluralizzazione degli ambiti di riconoscimento sociale, in Identità e appartenenza nella società della globalizzazione. Consumi, lavoro, territorio, a cura di Egeria Di Nallo, Paolo Guidicini, Michele La Rosa, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 118-119.
45
Ronald M. Epstein, Edward M. Hundert, Defining and Assessing Professional Competence, in “Journal of American Medical Association”, vol. 287,
n. 2, gennaio 2002, pp. 226-235.
46
Michael Polanyi, The Logic of Tacit Inference, in Knowing and Being:
Essays, a cura di M. Greene, University of Chicago Press, Chicago 1969, pp.
123-158.
47
È il titolo di un intervento di David C. Leach sullo stesso numero del
“Journal of American Medical Association”.
48
Luigi Meneghello, Jura, cit., pp. 103-104.
49
Max Weber, Wissenschaft als Beruf, cit.
50
Andrew Abbott, The System of Professions. An Essay on the Division
of Expert Labor, University of Chicago Press, Chicago 1988, p. 84.
51
Ivi, p. 128.
52
Specula Lombardia, Il lavoro dei laureati in tempo di crisi, giugno 2010,
p. 165.
53
Cfr. Marco Revelli, Poveri, noi, Einaudi, Torino 2010.
54
Ferruccio Gambino, La classe media come categoria della normalità
nella sociologia statunitense, in Tensioni e tendenze nell’America di Reagan, a
cura di E. Pace, Cedam, Padova 1989, pp. 63-87.
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3. Il lungo degrado del lavoro subordinato
1
Ubs Research Focus, Il futuro dell’euro, agosto 2010.
Sono considerati bassi salari, secondo la definizione proposta dall’Ocse,
i salari che stanno al di sotto dei due terzi del salario medio, cfr. Thorsten
Kalina, Claudia Weinkopf, Niedriglohnbeschäftigung 2008: Stagnation auf
hohem Niveau – Lohnspektrum franst nach unten aus, Institut Arbeit und
Qualifikation (Iaq), Universität Duisburg-Essen. Lo studio non si effettua su
un’inchiesta diretta ma sui dati dell’indagine permanente socio-economica
del Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung (Diw). Lo studio Iaq è giunto al suo terzo anno consecutivo.
3
Titolo del servizio Der Volltreffer von Schröder (“Schröder ha fatto centro”), in “Frankfurter Rundschau”, 2 agosto 2010.
4
Nel termine tedesco Leiharbeitsfirmen non vi è il concetto di agenzia
ma di impresa vera e propria, non una struttura di servizio d’intermediazione
ma un’azienda il cui prodotto è la fornitura di manodopera. Non si tratta di
problemi terminologici, ma di sostanza, infatti quelle che per noi sono agenzie d’intermediazione in Germania hanno competenze e obblighi di datori
di lavoro veri e propri.
5
Da cui il termine Leiharbeiter.
6
Unsoziale Leiharbeit, in “Frankfurter Rundschau”, 2 agosto 2010.
7
www.wirtschaftquerschuss.blogspot.com
8
Markus Breitscheidel, Arm durch Arbeit. Ein Undercover-Bericht, Ullstein, Berlin 2010.
9
Alg sta per Arbeitslosengeld (sussidio di disoccupazione).
10
Bundesvorstand, Leiharbeit in Deutschland. Fünf Jahre nach der Deregulierung, Deutscher Gewerkschaftsbund, Berlin, agosto 2009.
11
Franz Schultheis, Berthold Vogel, Michael Gemperle (a cura di), Ein
halbes Leben. Biografische Zeugnisse aus einer Arbeitswelt im Umbruch, Uvk
Verlagsgesellschaft, Konstanz 2010.
12
I dati sono tratti da Statistisches Jahrbuch 2010, tab. 3.10. Le cifre dell’occupazione indipendente sono accertate fino al 2005, poi si tratta di medie annuali rilevate dall’Ufficio federale di statistica, quindi può darsi che
per il 2009 siano sovrastimati, cfr. www.destatis.de
13
Statistisches Bundesamt, Qualität der Arbeit, 2010, p. 42.
14
Tra i tanti, uno dei siti più vivaci è www.chefduzen.de, il forum “degli sfruttati”.
15
Un esempio interessante è quello che fa capo al sito www.gründerinnen
agentur.de
16
Das wird nicht gut gehen, intervista con il segretario generale del sindacato Frank Bsirske, in “Berliner Zeitung”, 19 dicembre 2010.
17
Jill Andresky Fraser, White-Collar Sweatshop. The Deterioration of Work
and Its Reward in Corporate America, W.W. Norton, New York 2001.
18
Lo slogan del sito era tratto da Secrets of Self-Employment. Surviving
and Thriving on the Ups and Downs of Being Your Own Boss, un libro che la
coppia di autori, Sarah e Paul Edwards, aveva pubblicato riprendendo un
loro testo uscito nel 1991.
19
Jill Andresky Fraser, Not with a Bang (but with a Cauliflower), www.Econo
Whiner.com, 4 novembre 2009.
2
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20
America’s White Collar Workers May Be Even Worse off than Their BlueCollar Brethren, su www.1099.com, The Magazine for Independent Professionals.
21
Barbara Ehrenreich, Una paga da fame. Come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo, Feltrinelli, Milano 2004.
22
Ivi, p. 153.
23
Jeff Schmidt, The Disciplined Minds. A Critical Look at Salaried Professionals and the Soul-Battering System that Shapes Their Lives, Rowman &
Littlefield, Lanham (MD) 2000.
24
Cfr. per esempio i dialoghi della sezione Our Stories (Overeducated –
My Story) su www.unitedprofessionals.com
25
Steven Greenhouse, The Big Squeeze: Tough Times for the American
Worker, Anchor Books, New York 2009.
26
Ivi, p. 7.
27
www.seiu.org
28
Ralph Nader, Andy Stern’s Rackets, 23 aprile 2008, su www.counterpunch.org
29
Andrew Ross, Nice Work If You Can Get It: Life and Labor in Precarious
Times, New York University Press, New York 2009.
30
Monika Krause et al. (a cura di), The University Against Itself: The Nyu
Strike and the Future of the Academic Workplace, cit.
31
Istat, Il disagio nelle relazioni lavorative. Anni 2008-2009, www.istat.it,
15 settembre 2010.
32
Heinz Leymann, Mobbing and Psychological Terror at Workplaces, in
“Violence and Victims”, n. 5, 1990, pp. 119-126.
33
http://www.mobbingportal.com/casesofmobbing.html
34
http://osha.europa.eu. Per le problematiche psicosociali è nato un nuovo portale nell’ottobre del 2010, The European Network for Mental Health
Promotion (www.mentalhealthpromotion.net).
35
European Survey of Enterprises on New and Emerging Risks (Esener),
la più recente è del giugno 2010; non prende in considerazione le imprese
con meno di 10 dipendenti, né i settori agricoltura, pesca e foreste.
36
“Il ritmo di lavoro è stressante, siamo nella società dei turni di 24 ore
e a rimetterci è la salute mentale; questo fenomeno ormai rappresenta un’emergenza sociale. Basti pensare che una persona su quattro attraversa, almeno una volta nella vita, un episodio di depressione importante, che richiederebbe l’intervento del medico”, Sergio Iavicoli, direttore del dipartimento Medicina del lavoro dell’Ispesl (www.italiachiamaitalia.net, 18 febbraio 2010).
37
www.eurometis.org. Yves Clot è autore del libro Le travail à cœur. Pour
en finir avec les risques psychosociaux, La Découverte, Paris 2010.
38
La Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita
e di lavoro, nella sua ultima survey ha constatato che “un numero minore di
lavoratori ha la sensazione che la sua salute e sicurezza sia a rischio a causa del lavoro”, in Changes over Time. First Findings from the Fifth European
Working Condition Survey, novembre 2010.
39
Per uno “stato dell’arte” dell’iniziativa sindacale sui danni psichici da
stress cfr. Gino Rubini, Come viene valutato e gestito lo stress da lavoro, in
“Inchiesta”, luglio-settembre 2010, pp. 13-17.
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Matteo Gaddi, Lotte operaie nella crisi, Edizioni Punto Rosso, Milano
2010.
41
The Italian Productivity Slowdown: The Role of the Bargaining Model,
in “International Journal of Manpower”, vol. 31, n. 7.
4. Dove non c’è la notizia
1
Cfr. Inpgi Comunicazione, anno XXVII, nn. 5-6, maggio-giugno 2010,
pp. 8 e 11. Al 31 dicembre 2009 risultano iscritti alla gestione separata dell’Inpgi – Istituto di previdenza dei giornalisti italiani – ben 30.194 giornalisti freelance e collaboratori, mentre nella gestione ordinaria, che raccoglie
i lavoratori con contratti di lavoro dipendente, gli iscritti risultano 18.567.
Questo rapporto quasi doppio tra insider e outsider rappresenta uno dei contesti più interessanti e meno studiati per quanto riguarda le trasformazioni
dell’economia postfordista nella determinazione di un mercato del lavoro e
di un settore produttivo in cui prevalgono i lavoratori autonomi su quelli dipendenti.
2
Paolo Murialdi, Storia del giornalismo italiano. Dalle gazzette a Internet, il Mulino, Bologna 2006.
3
Amartya Sen, Tenore di vita. Tra benessere e libertà, Marsilio, Venezia
1993.
4
Renzo Santelli (a cura di) Libro bianco sul lavoro nero. Storie di violazioni e soprusi nel mondo dell’informazione, Centro di documentazione giornalistica, Roma 2006. Così scrive Mario Fiorella, magistrato del Lavoro, nell’Introduzione: “La situazione del settore dell’informazione è tale che può essere paragonata soltanto a quelle più marginali del mercato del lavoro, alcuni settori dell’agricoltura e dell’edilizia, dove le regole sono sistematicamente eluse e si fa ricorso a manodopera precaria, facilmente ricattabile e
appetibile perché può sostituire quei lavoratori in grado di fare valere i propri diritti con altri che non ne hanno la forza o la possibilità”. Precariato, lavoro nero, compensi irrisori, sfruttamento del volontariato di chi aspira a
intraprendere la carriera giornalistica, ma non trova le condizioni per svolgere un regolare praticantato, insicurezza e mortificazione della dignità professionale sono la regola non soltanto nelle piccole realtà editoriali.
5
Ivi, p. 66.
6
Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2007. È interessante come Luciano Gallino identifichi la
mercificazione del lavoro soltanto in alcune formule di contratti oramai tipizzati, come il lavoro a chiamata e lo staff leasing, e attribuisca alla legislazione un ruolo chiave in questo. Scrive l’autore: “Il lavoro in affitto rappresenta il culmine della separazione del lavoro dalla persona del lavoratore che lo effettua. [...] Il lavoratore viene assunto da una determinata impresa, detta ‘fornitrice’, o ‘somministratrice’, dopodiché da questa viene fisicamente spedito presso un’altra impresa, ma lavora nella sede e per conto
di un’altra. Il contratto tra impresa somministratrice e quella utilizzatrice è
un mero contratto commerciale, analogo a quelli che regolano la cessione
d’un qualsiasi tipo di merce”. La rappresentazione è corretta, ma incomple-
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ta. L’analisi non approfondisce infatti due aspetti: la contiguità tra lavoro autonomo e formule contrattuali cosiddette flessibili, come il lavoro a progetto, dove in uguale misura prevale la ratio del diritto commerciale su quella
del diritto del lavoro e l’esistenza di condizioni di lavoro che non subiscono
le dinamiche della precarietà, ma sono soggette ugualmente alla logica del
minor costo. Per allargare l’orizzonte critico basta analizzare la struttura dei
conti economici delle imprese per notare come e dove sono registrate queste speciali tipologie di “merci”. I collaboratori sono contabilizzati tra i costi variabili fuori dallo stato patrimoniale di un’impresa. Tra questi non ci
sono solo interi staff in leasing, ma anche consulenti e collaboratori per i
quali non è prevista alcuna attività di rendicontazione contributiva, ovvero
legata alla previdenza sociale e al sistema di welfare italiano. Con loro le imprese hanno vincoli unicamente sul fronte del fisco e rappresentano appunto soltanto una spesa da mettere a bilancio e detrarre dal reddito d’impresa,
come avviene per materie prime e servizi.
7
Manifesto programmatico, www.senzabavaglio.info
8
Nel 2007 l’Ifj – International Federation of Journalists (www.ifj.org) –
ha condotto un’indagine sui compensi dei freelance. In Italia il rapporto tra
le retribuzioni lorde dei contrattualizzati e quelle dei lavoratori indipendenti
è di 10 a 3,4.
9
Vedi l’ampio servizio dedicato a questo tema in “Alfabeta 2”, n. 2, settembre 2010, p. 27, dove l’espressione “Operai della conoscenza” dà il titolo
all’intervento di Sergio Bologna.
10
Michael Hardt, Antonio Negri, Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004. Con
il radicamento nel tessuto sociale del precariato siamo di fronte – sostiene
Negri – alla possibilità che tra forza lavoro e capitale non ci siano più legami predeterminati poiché si scoglie il nodo del “lavoro sotto comando”. Questo è ancora più vero quando interviene nella produzione del valore ciò che
Marx chiamava capitale variabile e che oggi assume la forma della conoscenza e del sapere che occorrono per la realizzazione di prodotti intangibili. Queste le parole di Toni Negri durante la conferenza A ruota libera del
20 novembre 2007 a Milano: “Chiedersi se la produttività è sociale o economica non ha più senso. Si parla della stessa cosa. Esercitare un’attività, vivere o lavorare è lo stesso. Siamo in un’epoca in cui è finita la specificità determinata del lavoro sotto comando. Il lavoro per Marx era una parte del capitale, una quota variabile, ma occorre fare un passo avanti. Oggi il capitale variabile si è staccato dal capitale. La forza lavoro si è staccata dal capitale! L’autorità, derivante dalla metafora dello stato nazione, è crollata. È
l’elemento biopolitico del lavoro che conta e che va riscattato. La forza lavoro, in quanto si precarizza e si distende nel tempo, non è più sotto comando: diventa attività in cui ciò che vale e determina valore è il fluire continuo di energia e di vita. I nuovi beni delle nazioni non sono più i capitali
generati da una classe operaia che produce, ma sono i linguaggi, le esperienze di consumo, la circolazione di beni materiali e soprattutto immateriali. Alla fine il lavoro legato al tempo determinato o indeterminato è soltanto salario. Il lavoro ha subìto una rottura di orizzonti temporali e spaziali
ed eliminato limiti geografici. La lotta del precariato assume di conseguenza la forma di una rete comune e si apre alla dimensione mondiale. Il lavo-
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ro, è vero, è diventato creativo, ma non solo. Anzi, forse è meglio dire che
sia creativo sempre. Ha rotto i limiti che lo facevano stare all’interno del capitale. Meglio ancora: è la forza lavoro che si è separata dal capitale” (Dario
Banfi, Precari, forza lavoro fuoriuscita dal Capitale?, Humanitech.it, 23 novembre 2007).
11
Tra le varie inesattezze contenute nel Rapporto del Cnel è interessante notare come a p. 154 si confronti il rischio di disoccupazione/inattività
(calcolato in base alle trasformazioni della posizione lavorativa) delle diverse tipologie professionali. I professionisti sembrerebbero avere il più basso
rischio di diventare disoccupati o inattivi: nel 2009 risulta disoccupato o inattivo solo il 3,2 per cento di coloro che nel 2008 erano occupati (al secondo
posto gli imprenditori con il 3,9 per cento, quindi i dirigenti con il 4,4 per
cento, all’ultimo posto i collaboratori con il 17,1 per cento). Questo confronto
è tuttavia ingannevole. Il passaggio da uno status di occupato a uno di disoccupato è chiaro per un dipendente o per un collaboratore, dove è definito da un licenziamento o dal decadere di un contratto. Molto meno chiaro
per un professionista (e più in generale per un lavoratore autonomo), che
può continuare a tenere aperta la partita Iva anche se il fatturato è crollato.
L’effetto della crisi non è visibile dai dati sulla disoccupazione e neppure da
quelli sul tempo lavorato, perché si lavora più che mai: diminuiscono gli incarichi e gli importi degli incarichi, aumentano i progetti, i preventivi presentati, le azioni di marketing e di ricerca di nuovi lavori e nuovi clienti,
l’impegno sulla formazione e l’aggiornamento. L’effetto della crisi è al contrario visibile sul fatturato e sugli incassi (ritardati).
12
Emiliano Mandrone, La riclassificazione del lavoro tra occupazione
standard e atipica: l’indagine Isfol Plus 2006, Collana Studi Isfol, n. 2008/1,
Roma, marzo 2008.
13
Massimo Giannini, Metamorfosi di una classe: da artefici del boom padano a reietti, in “il Venerdì di Repubblica”, 11 giugno 2010, p. 20.
14
“Alias” – “il manifesto”, 1° maggio 2010, p. 1.
15
Roberto Mania, Da manager a consulente, “La mia precarietà di lusso”,
Repubblica.it, 9 marzo 2009.
16
Sergio Bologna, Andrea Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di
seconda generazione, cit.
17
Beppe Grillo, Schiavi moderni. Il precario nell’Italia delle meraviglie,
Casaleggio Associati, Milano 2007.
18
Pietro Ichino, Falsificazioni pericolose, in “Corriere della Sera”, 15 agosto 2007.
19
Cfr. http://racconta.repubblica.it/generazione-perduta/
20
La voce “Retribuzione mensile netta attuale” per i lavoratori autonomi non ha senso, essendo privi di salario, ma in molti inseriscono comunque dati per questo campo.
21
Federico Pace, Psicologia della generazione perduta: i giovani dall’età
indefinita, Repubblica.it, 20 luglio 2010.
22
Forum Generazione perduta, Intervento n. 202.
23
Cfr. Intervento n. 210.
24
Cfr. Intervento n. 198.
25
Cfr. Intervento n. 176.
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26
Cfr. Intervento n. 186.
Cfr. Intervento n. 123.
28
Cfr. Intervento n. 122.
29
Federico Pace, Psicologia della generazione perduta, cit.
27
5. Precari e autonomi nell’economia dell’evento
1
European Parliament, Committee on Employment and Social Affairs,
Report on Atypical Contracts, Secured Professional Paths, Flexicurity and New
Forms of Social Dialogue, 26 giugno 2010. Ecco un passaggio significativo:
“Sollecita gli stati membri [...] a sviluppare normative riguardanti il lavoro
che salvaguardino effettivamente i diritti dei lavoratori occupati in forme
atipiche di lavoro, garantendo loro un trattamento eguale a quello dei lavoratori regolari a tempo pieno sulla base dei più elevati standard di protezione sociale”.
2
Cfr. “Il Giornale dell’Arte”, varie annate.
3
Camera di commercio di Milano, Servizio studi e supporto strategico,
Un approfondimento sull’industria culturale, a cura di Federica Flamminio,
19 novembre 2009; le filiere prese in considerazione erano: “pubblicità; editoria; attività dello spettacolo, intrattenimento e divertimento; attività fotografiche; produzioni e distribuzioni cinematografiche e di video; organizzazione di fiere, esposizioni e convegni; telecomunicazioni; design e styling;
ricerca e sviluppo; attività radiotelevisive; attività ricreative; istruzione universitaria e post-universitaria; attività di agenzie di stampa; attività di biblioteche, archivi, musei e altre attività culturali”.
4
Ministero per i Beni e le attività culturali, Unioncamere, Il sistema
economico integrato dei beni culturali, giugno 2009, consultabile sul sito del
Mibac. La ricerca, condotta dall’Istituto Tagliacarne, assegna alle imprese
specializzate nella gestione dei beni culturali una quota assai marginale del
volume d’affari; la parte del leone la fanno le imprese di costruzione impegnate nella riqualificazione del patrimonio architettonico.
5
Fabio Donato, Anna Maria Visser Travagli, Il Museo oltre la crisi. Dialogo fra museologia e management, Electa, Milano 2010.
6
Opera si è trovata al centro di una controversia di lavoro nel dicembre
2010 che riguardava 350 addetti alla Galleria degli Uffizi. Le gare per l’appalto
della gestione di un museo spesso non prevedono la “clausola sociale”, che
impegna il vincitore della gara a garantire i posti di lavoro esistenti.
7
Daniele Jalla, I nuovi scenari delle professioni museali, in La formazione vale un patrimonio. Beni culturali, saperi, occupazione, Rapporto annuale Civita 2007, a cura di Paolo Galluzzi e Pietro A. Valentino, Giunti, Milano
2007.
8
Il valore della cultura. Ricerca sugli investimenti delle imprese italiane
in cultura, 10 dicembre 2010, consultabile sul sito http://www.civita.it/
studi_e_progetti/centro_studi_gianfranco_imperatori/indagini_e_ricerche
9
L’impatto del Festival MITO SettembreMusica a Milano. Il profilo del pubblico e le ricadute sulla città, Centro di ricerca Art, Science and Knowledge,
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Università Bocconi, a cura di Severino Salvemini, Ilaria Morganti, Massimiliano Nuccio, Alessandro Rubini, Skira, Milano 2008.
10
Ispo, Conoscenza e apprezzamento del Festival MITO. Sondaggio Ispo su
un campione di cittadini milanesi e su un campione di assidui frequentatori dei
concerti. Sintesi dei risultati, a cura di Renato Mannheimer, http://www.prima
online.it
11
Sergio Bologna, Antonio Costa, Pier Paolo Poggio, Dalla classe operaia alla creative class, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia 2009, con allegato il dvd del documentario Oltre il ponte di Sabina Bologna sulla trasformazione della zona Tortona a Milano.
6. Lavorare a che prezzo?
1
A differenza di Istat, le indagini condotte da queste società riguardano le retribuzioni reali composte da elementi contrattuali di base e variabili legati alla contrattazione aziendale o individuale e includono premi occasionali, straordinari e premi di produzioni o benefit.
2
Dario Banfi, Come farsi pagare. Modelli di costruzione del prezzo e cultura d’impresa nella relazione con il consulente, white paper presentato nel
ciclo d’incontri “Lavorare a che prezzo?” e scaricabile dal sito www.acta inrete.it
3
Codice civile, articolo 2233.
4
Si veda quanto riportato nell’articolo di Rita Querzé, Scandalo del lavoro: operai della Romania a 5 euro l’ora, in “Corriere della Sera”, 11 settembre 2008.
5
Dario Banfi, Come farsi pagare il giusto? I metodi per quantificare il valore di tempo e talento, JOB 24 online, “Il Sole 24 Ore”, 19 marzo 2008.
6
Vedi Robert M. Solow, Il mercato del lavoro come istituzione sociale, il
Mulino, Bologna 1990, dove si descrive il mercato del lavoro come istituzione sociale il cui funzionamento dipende da quanto viene reciprocamente riconosciuto come accettabile dalle parti in causa. Per noi il punto controverso non è sul fatto che questo accada nei fatti, ma sulla diversa comprensione di “accettabile” in un sistema sbilanciato di forze e sulle regole
che lo definiscono.
7
OD&M Consulting, Rapporto Job Satisfaction, Bergamo 2007.
8
Blair, oratore da 7300 euro al minuto, Corriere.it, 5 aprile 2009.
9
Prima del decreto Bersani esistevano già categorie professionali per le
quali i tariffari non hanno mai avuto alcun effetto concreto: tra queste gli
architetti, i geometri e i giornalisti freelance.
10
Recentemente è stato ribadito da alcune sentenze della Corte suprema di Cassazione a sezioni unite, depositate il 18 dicembre 2008, che “gli
Studi di settore sono da considerarsi soltanto una elaborazione statistica, il
cui frutto è una ipotesi probabilistica che, per quanto seriamente approssimata, può solo costituire una presunzione semplice, non tenendo conto della specifica posizione del singolo contribuente”. Questa indicazione rende
esplicita una stortura evidente del sistema fiscale italiano. Le attività dell’Agenzia delle entrate che si avvalgono di questi strumenti soltanto per fina-
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lità ispettive hanno finito per costruire impropriamente una norma de facto, trasformando un’elaborazione statistica in una regola da rispettare.
11
Questa richiesta fu rivolta espressamente a uno degli autori sul blog
Humanitech.it da parte di un dirigente che voleva uscire dalla sua impresa
per iniziare un’attività come consulente esterno.
12
Todd Gabe, Kristen Colby e Kathleen Bell, The Effects of Workforce
Creativity on Earnings in U.S. Countries, in “Agricultural and Resource Economics Review”, vol. 36, n. 1, Narea, New York 2007.
13
OD&M Consulting, XI Rapporto sulle retribuzioni degli italiani 2010,
Bergamo 2010. Vedi anche Unioncamere, OD&M Consulting, Domanda di
lavoro e retribuzioni nelle imprese italiane – Rapporto 2010, Roma 2010.
14
Dario Banfi, Come farsi pagare”, cit., p. 4.
15
Lia Cigarini, Christian Marazzi, Klaus Neundlinger, Dario Banfi, Luca Romano, Sergio Bologna, Condizioni e identità del lavoro professionale. Riflessioni sul saggio di Sergio Bologna “Ceti medi senza futuro?”, Derive & Approdi, Roma 2008, p. 36 e Dario Banfi, Raccontarsi come lavoratori, Humanitech.it, 16 aprile 2008.
16
Il confronto è fatto soltanto sulla base di profili lavorativi equiparabili per contenuto professionale. Non è dato sapere quale sia il tempo di lavoro speso complessivamente nell’attività professionale.
17
Si veda lo sviluppo di queste tesi in Sergio Bologna, Ceti medi senza
futuro?, cit.
18
Suprema Corte di Cassazione – Sezione tributaria, Sentenze nn. 21122,
21123 e 21124/10.
19
Romano Calvo, Il rapporto tra pubblica amministrazione e professionisti autonomi, Actainrete.it, 2008.
20
Fabio Pammolli e Nicola C. Salerno, Le pensioni degli iscritti alla gestione separata dell’Inps. Quattro proposte per Acta per modifiche al DDL recepente il Protocollo governo-sindacati, Cerm – Competitività, Regolazione, Mercati, Editoriale Cerm 18/2007, Roma.
21
A conferma di questa tesi si può leggere la lettera pubblica scritta nel
mese di ottobre 2010 da Maurizio Petriccioli, segretario confederale della
Cisl, secondo il quale “è importante continuare a lavorare per migliorare la
situazione esistente”. Scrive il dirigente Cisl: “A questo proposito vorrei ricordare che grazie al protocollo del 23 luglio 2007, poi trasposto nella legge 247/2007, sono stati aumentati i contributi previdenziali dei collaboratori a progetto (portandoli in un triennio fino al 26 per cento), nonché migliorate le prestazioni sociali a carico dei parasubordinati (finanziate dal
contributo aggiuntivo dello 0,72 per cento). Da sempre, la Cisl è impegnata
a ridurre la forbice contributiva che attualmente separa il lavoro parasubordinato da quello dipendente. Una forbice che, oltre a determinare minori tutele previdenziali per i lavoratori ‘parasubordinati’, contribuisce a
realizzare un improprio utilizzo delle tipologie contrattuali ‘a progetto’. La
precarietà non si riduce con le chiacchiere o i proclami ma rafforzando
l’occupabilità dei lavoratori, e migliorando le tutele delle tipologie di rapporto di lavoro più flessibili”.
22
Non è un caso che questo modello sia molto diffuso tra gli informatici: l’overhead nel linguaggio dell’information technology è una “risorsa ac-
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cessoria” non strettamente necessaria impiegata nei processori di memoria
dei personal computer.
23
Per una valutazione più tecnica del calcolo dei costi orari si veda Ilise Benun, Peleg Top, What Should I Charge? Smart Pricing Strategies for Designers, paper presentato il 15 novembre 2007 durante un webinar di Marketing-Mentor.com e scaricabile liberamente da questo sito.
24
Vedi i commenti a Dario Banfi, Farsi pagare come freelance, Humanitech.it, 19 marzo 2008.
25
Ibid.
26
Vedi i commenti a Dario Banfi, Preventivi per il lavoro autonomo,
Humanitech.it, 15 novembre 2007.
27
Ascanio Orlandini, Il valore della conoscenza (o della consulenza?): una
parabola vera, JobTalk, IlSole24Ore.com, 13 giugno 2009.
28
Fabrizio Buratto, Creativi vs idraulici: si può retribuire la cultura 8 euro l’ora?, JobTalk, IlSole24Ore.com, 1° novembre 2008.
29
The oDesk Manifesto for Online Work, www.odesk.com
30
Twago aiuta nella crisi economica, www.twago.com/it/static/
what_twago
31
Ibid.
32
Nuovi lavori: il mistery shopper, www.acchiappasogni.info, 9 giugno
2009.
33
È utile ricordare che per alcune professioni esiste un duplice registro
produttivo: uno legato all’aspetto di ideazione, consulenza e creazione ex
novo, l’altro associato alla produzione di elementi ripetitivi, prodotti in serie, oggetti che hanno quantità precise. Un esempio: l’ideazione e impaginazione di una pubblicazione di tipo aziendale. Solitamente i grafici professionisti e art director quotano in diversa maniera lo studio grafico (layout
ecc.) e l’impaginazione del prodotto editoriale. Mentre nella prima fase si
punta sul tipo di quotazione che stiamo descrivendo, la seconda parte di lavoro, più ripetitiva, ha costi più strutturati, legati al tempo impiegato e alle quantità.
34
È particolarmente difficile trovare imprese che applicano sistemi precisi di calcolo relativi al ritorno degli investimenti (Roi) sulla spesa in consulenza. Ancora più raro è trovare chi sperimenta modelli per il Roi sulla costruzione o il rinforzo di asset intangibili.
35
Le prestazioni di lavoro autonomo sono regolate dal Codice civile (che
tratta agli artt. 2222-2228, titolo III del libro V, il tema del lavoro autonomo
e agli artt. 2229-2238, titolo III, capo II, le professioni intellettuali) che stabilisce che “la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione” e non lo vincola in maniera stretta ai
risultati. Il tentativo di impiegare modelli del tipo “pay per result” – come per
esempio sta crescendo tra professionisti del mondo legale, avvocati ecc. – è
frutto di accordi specifici che devono trovare l’esplicita approvazione delle
parti, come per esempio avviene nel mondo delle reti di vendita indiretta e
nei contratti che fissano provvigioni.
36
È alquanto singolare come i tentativi pubblici di spingere sui salari di produttività (si vedano la Risoluzione del 17 agosto 2010, n. 83/E e la
Circolare del 27 settembre 2010, n. 47/E dell’Agenzia delle entrate), so-
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stanzialmente detassandoli, per dare flessibilità alla produzione e far rialzare la testa alle imprese in tempo di crisi, siano nati come formule per
pagare il lavoro degli operai e finiti per remunerare figure di livello medio-alto, le uniche a quanto pare in grado di assorbire la flessibilità retributiva. I circa 60 milioni di euro l’anno messi dal governo italiano tra il
2008 e il 2011 per detassare (al 10 per cento) gli straordinari – secondo un
principio che nei confronti del lavoro autonomo si può definire semplicemente discriminatorio – sono stati spesi dalle imprese soltanto in minima
parte. Un vero flop, che ha fatto dirottare i soldi stanziati sulle forme di
retribuzione variabile, bonus e premi, oggi assegnati in prevalenza a quadri e dirigenti.
37
Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2006, www.istat.it
38
Vedi i commenti a Dario Banfi, Il tre per due del lavoro autonomo, Humanitech.it, 8 aprile 2008.
39
Eleonora Voltolina, La repubblica degli stagisti. Come non farsi sfruttare, Laterza, Roma-Bari 2010.
40
Dilva Giannelli, L’era del crowdsourcing, il lavoro a lotteria nell’era 2.0,
Generazione pro pro, Corriere.it, 17 febbraio 2010.
41
Ibid.
42
Su questo argomento si legga l’intervento On the Digital Labour Question tenuto da Andrew Ross il 29 settembre 2009 al Vera List Center for Art
and Politics di The New School (NY). La trascrizione del 16 ottobre 2009 è
rintracciabile nell’archivio di mailing dell’iDC, la “List of the Institute for Distributed Creativity”, sul sito mailman.thing.net nel messaggio inviato dallo stesso Andrew Ross in data 2 novembre 2009.
43
Darrell Etherington, Giving It Away: The Impact of Free Labour,
Webworkerdaily.com, 18 febbraio 2009 e Dario Banfi, Del lavorare gratis, Humanitech.it, 19 febbraio 2009.
44
Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, Derive&Approdi, Roma 2003,
p. 10.
45
La sentenza 10629.09 dell’8 maggio 2009 della Suprema corte di cassazione – Sezione lavoro spiega la distinzione tra lavoro subordinato e autonomo, definendo la subordinazione una “disponibilità del prestatore nei
confronti del datore, con assoggettamento del prestatore di lavoro al potere
organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, e al conseguente
inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all’attività di impresa”. In questa
lunga sentenza si ricorda che “la subordinazione può ritenersi sussistente
anche in assenza del vincolo di soggezione al potere direttivo del datore di
lavoro e in presenza, viceversa, dell’assunzione per contratto, da parte del
prestatore, dell’obbligo di porre a disposizione del datore le proprie energie
lavorative e di impiegarle con continuità secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro e in funzione dei programmi cui è destinata la prestazione per il perseguimento dei fini propri dell’impresa”. In
altre parole l’esistenza del vincolo di subordinazione va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito secondo criteri
distintivi (cosiddetti “sussidiari”) che separano l’una e l’altra forma di lavoro. Questi elementi sono: 1) la continuità e la durata del rapporto; 2) le mo-
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dalità di erogazione del compenso; 3) la regolamentazione dell’orario di lavoro; 4) la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti); 5) la sussistenza di un effettivo potere di auto-organizzazione in capo al prestatore, desunto anche dalla eventuale concomitanza di altri rapporti di lavoro.
46
Andrew Ross, Nice Work If You Can Get It, cit.
47
Jeremy Rifkin, La fine del lavoro, Dalai, Milano 1996.
48
Andrew Ross, On the Digital Labour Question, cit.
49
Ibid.
50
Ibid.
51
Vedi i commenti a Dario Banfi, Del lavorare gratis, cit.
52
Carlo Formenti, Lavorare senza saperlo: il capolavoro del capitale, in
“Alfabeta2”, n. 2, settembre 2010, p. 35 (vedi nota 9, p. 269).
53
Carlo Formenti, Dati personali o forza lavoro?, Alfabeta2.it, 24 luglio
2010.
54
Andrew Ross, Nice Work If You Can Get It, cit.
55
Luca De Biase, Economia della felicità. Dalla blogosfera al valore del
dono e oltre, Feltrinelli, Milano 2007.
56
Yochai Benkler, La ricchezza della rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà, Università Bocconi, Milano 2007.
57
Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002.
58
Sergio Maistrello, La parte abitata della Rete, Tecniche Nuove, Milano 2007.
59
Così Luca Conti, Blogosfere vale 2,5 milioni di euro, Pandemia.info, 22
novembre 2007: “Dal prospetto informativo relativo alla quotazione in borsa del gruppo Il Sole 24 Ore, a pagina 531, si leggono i termini dell’accordo
tra Il Sole 24 Ore e Blogosfere intercorso il 27 luglio 2007. In tale data Il Sole 24 Ore rilevò il 30 per cento della società di blog per una somma non precisata. Oggi sappiamo che quel 30 per cento è stato rilevato con un aumento di capitale per 771.000 euro, attribuendo quindi a Blogosfere un valore di
2,5 milioni di euro circa. Il fatturato 2006 di Blogosfere è stato di 33.600 euro”. Tra i commenti al post si legge: “In realtà, da bilancio 2006 depositato
da Blogosfere Srl (scaricabile da chiunque) sono indicati costi della produzione per 165.000 euro circa e ricavi per 33.000 euro circa (25.000 dei quali, come specificato, provenienti da Google Adsense). Per una perdita di oltre 130.000 euro. Di fatto, stando a questo bilancio, è stata fatta una valutazione di 75 volte il fatturato 2006”.
60
Jacques Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, Cortina, Milano
1996.
61
Ivi, p. 8.
62
Ibid.
63
Ibid.
64
Adam Arvidsson, Giannino Malossi, Serpica Naro, Lavoro che passione!, in “Alfabeta2”, n. 2, settembre 2010.
65
Andrew Ross, On the Digital Labour Question, cit.
66
Pietro Ichino, La nozione di “giusta retribuzione” nell’articolo 36 della
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Costituzione, relazione tenuta al convegno promosso dall’Accademia dei Lincei, Roma, 22-23 aprile 2010, Pietroichino.it, 23 aprile 2010.
67
Ivi, p. 23.
68
Ibid. Si legge: “Questo nuovo orientamento dottrinale ha fatto seguito a una importante svolta legislativa: l’art. 63 della legge Biagi – d.lgs. 10
settembre 2003 n. 276 – in riferimento al contratto di lavoro (autonomo) a
progetto, stabilisce che ‘il compenso [...] deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e deve tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di
esecuzione del rapporto’; e il comma 772 dell’articolo 1 della legge n. 296/2006
precisa in proposito che ‘in ogni caso, i compensi corrisposti ai lavoratori a
progetto devono [...] tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per
prestazioni di analoga professionalità, anche sulla base dei contratti collettivi nazionali di riferimento”’.
69
Ivi, p. 19.
70
Ibid.
71
Costituzione della Repubblica italiana, articolo 38, comma 2: “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
72
Pietro Ichino, La nozione di “giusta retribuzione”, cit., p. 22.
7. Gli outsider del welfare state
1
Mario Draghi, Considerazioni finali sul 2008, www.bancaditalia.it, Roma, 29 maggio 2009.
2
Pietro Ichino, Scenari di riforma del mercato del lavoro italiano, relazione introduttiva al seminario organizzato a Bertinoro dalla Fondazione
Scuola di politica il 4 settembre 2008, www.pietroichino.it/?p=312
3
Intervento tenuto all’evento “Domanda di lavoro e retribuzioni nelle
imprese italiane”, Milano, Palazzo del lavoro, 12 novembre 2009.
4
Angela Padrone, La sfida degli outsider, Marsilio, Padova 2009.
5
Cfr. Andrea Fumagalli, 10 tesi sul reddito di cittadinanza, www.ecn.
org/andrea.fumagalli/10tesi.htm, 1998.
6
Emiliana Armano, Precarietà e innovazione nel posfordismo, cit.
7
Sergio Bevilacqua, Il popolo delle partite Iva, in AA.VV., Sinistra senza sinistra, Feltrinelli, Milano 2008.
8
Mario Sensini, Sacconi: cambieremo anche gli ammortizzatori sociali,
in “Corriere della Sera”, 21 dicembre 2009.
9
Antonella Gallino, La prossima volta cercate di nascere dipendenti, Actainrete.it, 3 dicembre 2010.
10
Legge 8 agosto 1995, n. 335 “Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare”, “Supplemento alla Gazzetta Ufficiale”, n. 190
del 16 agosto 1995.
11
Giovanna Altieri, Mimmo Carrieri, Il popolo del 10 per cento. Il boom
del lavoro atipico, Donzelli, Roma 2000.
12
Enrico Marro, Le minipensioni dei parasubordinati avranno appena il
36 per cento del reddito, Corriere.it, 28 ottobre 2010.
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13
A cura di della redazione Acta, L’invalidità non basta per essere categoria protetta, soprattutto se sei autonomo, Actainrete.it, 1° novembre 2010.
14
Alfonso Miceli, Che cosa accade se si salta un pagamento Inps?, Actainrete.it, 19 luglio 2010.
15
Cass. Civ. SSUU, 3240/10.
16
Una singolare eccezione nel quadro dei partiti di centrosinistra è rappresentata dal disegno di legge 1540 del 29 aprile 2009 presentato da Pietro
Ichino che parla espressamente di una stabilizzazione delle aliquote previdenziali per i lavoratori professionali autonomi al 20 per cento.
17
Bozza di Delega al governo per la predisposizione di uno Statuto dei lavori, www.governo.it, 2010.
18
Estatuto del trabajo autónomo, 2007, traduzione italiana di Elsa Orellana, Adele Oliveri, Silvia Rondani, Progetto di Legge dello Statuto del Lavoro Autonomo, Actainrete.it, 2010.
19
La proposta di Legge regionale della regione Veneto “Statuto regionale del lavoro autonomo” fu presentata il 2 ottobre 2009, ma bocciata un
anno dopo per la mancanza di copertura economica.
20
Disegno di legge n. 2145 d’iniziativa dei senatori Treu et al. comunicato alla Presidenza del Senato il 29 aprile 2010 “Statuto dei lavori autonomi. Delega al governo in materia di semplificazione degli adempimenti, pagamenti, garanzie del credito e tutela della maternità”.
21
Disegno di legge “Codice dei rapporti di lavoro. Modifiche agli articoli 2087-2134 del Codice Civile”, n. 1873, Senato della Repubblica, XVI Legislatura, comunicato alla Presidenza l’11 novembre 2009.
22
Disegno di legge n. 2145, cit.
23
La proposta di legge 1299 del 16 giugno 2008, “Delega al governo per
il completamento della riforma del sistema previdenziale mediante la revisione dei requisiti e del metodo di calcolo dei trattamenti di pensione, il riordino degli enti pubblici previdenziali e lo sviluppo delle forme pensionistiche complementari”.
24
Romano Calvo, Chi rappresenta i lavoratori autonomi nella crisi?, Actainrete.it, 22 dicembre 2010.
8. Voltare pagina, coalizzarsi
1
“Freelancing Matters” è una pubblicazione mensile, organo del Professional Contractors Group (Pcg), l’Associazione di lavoratori indipendenti britannica che conta circa 20.000 membri, in gran parte professionisti del
settore informatico e della ricerca energetica; le interviste qui parzialmente
riprodotte sono pubblicate sul numero di settembre 2010.
2
http://www.youtube.com/watch?v=YeJR3biNW94, cfr. anche www.blog.
coworking.info, www.coworking.pbwiki.com, www.groups.google. com/group/
coworking
3
Holm Friebe, Sascha Lobo, Wir nennen es Arbeit. Die digitale Boheme oder:
intelligentes Leben jenseits der Festanstellung, Heyne, München 2006.
4
Medienboard Berlin Brandenburg, Kreativwirtschaft in der Hauptstadtregion. Medien, IT, Kommunikation, 2009, brochure sulla consistenza dell’im-
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presa nel settore dell’economia della creatività, dove il tono è completamente
diverso, postmoderno e da marketing territoriale.
5
Jörn Morisse, Rasmus Engler, Wovon lebst du eigentlich? Vom Überleben in prekären Zeiten, Piper, München 2007.
6
Igel, Initiative gegen das Leistungsschutzrecht, lanciata dall’omonimo
sito nel dicembre 2010.
7
Taz-Reportage: die Digital-Nomaden, su YouTube.
8
Bericht über Selbständigenarbeit in Ver.di. April 2007-März 2007.
9
Forderungen der Ver.di. Bundeskommission Selbständige zur sozialen
Sicherung von Solo-Selbständige, Berlin, maggio 2009.
10
È un sistema che non gode di buona fama; si tratta di un contributo
volontario sotto forma di sottoscrizione di un contratto assicurativo che gode di un finanziamento pubblico; ma è stato dimostrato che serve più che
altro a incanalare i soldi pubblici verso le casse delle società assicuratrici; il
godimento del contributo statale si avrebbe solo raggiungendo la bella età
di novantatré anni.
11
Il termine freelance è stato tradotto in tedesco con Freie.
12
Non abbiamo elementi sufficienti per analizzare anche la situazione
a Vienna e in Austria, dove le problematiche sono analoghe ma le esperienze organizzative ancora incerte. La fonte più interessante, perché molto vicina alle nostre riflessioni, che ha condiviso sin dall’inizio, è quella di Klaus
Neundlinger, Die Performance der Wissensarbeit, Nausner&Nausner, GrazWien 2010, in particolare le pp. 78-139 e 142-221. Cfr. inoltre i suoi due interventi in italiano in Lia Cigarini et al., Condizioni e identità nel lavoro professionale, Derive&Approdi, Roma 2007, pp. 16-30.
13
The Littler Report, The Emerging New Workforce. Employment and Labor-Law Solutions for Contract Workers, Temporaries and Flex-Workers, aprile 2009, disponibile sul sito www.littler.com
14
In realtà independent contractor e freelance non sono intercambiabili,
il primo termine viene usato per indicare un professionista che ha un rapporto con una società nel quadro di un processo di esternalizzazione, freelance invece indica una condizione lavorativa più volatile e instabile. Il primo si usa di più per professioni tecniche, per il lavoro esperto per grandi
aziende, il secondo si usa di più per professioni dell’ambito “creativo”. Tuttavia il Pcg britannico, che si presenta come un’associazione di independent
contractors chiama il suo magazine “Freelancing Matters” e organizza annualmente il Freelancers Day.
15
“Quando il paese uscirà dalla devastante recessione e un numero sempre maggiore di appartenenti alla ‘generazione Y’ (quelli nati tra il 1977 e il
2002) si affaccerà al mercato del lavoro, lo ‘stigma’ associato alla parola ‘consulente’ subirà una drastica riduzione, [...] man mano che l’industriosa generazione dei Baby Boomers andrà in pensione, cominceremo a vedere un
numero crescente di appartenenti alla generazione Y rivolgersi di preferenza ai lavori di consulenza a part-time”, The Littler Report, cit., p. 5.
16
US Department of Labor, Bls, Contingent and Alternative Employment
Arrangements, February 2005, News, 27 luglio 2005. I contractors venivano
indicati come “bianchi, acculturati, sopra i trentacinque anni e in prevalenza maschi”, l’86 per cento dichiarava di preferire il lavoro autonomo a quello subordinato.
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17
Bls, Household Data. Table A-9. Selected Employment Indicators.
(www.bls.gov/cps/empsit_changes_table_a9_2011.htm). Erano rispettivamente 10,79 milioni e 5,316 milioni nel giugno 2009. Nel commento Employment from the Bls Household and Payroll Surveys: Summary of Recent
Trends, stessa data, si mettevano in luce alcune difficoltà a stimare sia il numero degli independent contractors, che spesso qualificavano se stessi nelle
risposte ai questionari come salariati, sia il numero dei multiple jobholders
(in totale 6,9 milioni), che svolgevano attività di lavoro autonomo come occupazione secondaria.
18
Steven F. Hipple, Self Employment in the United States, in “Monthly
Labor Review”, settembre 2010, pp. 17-32. Contributo fondamentale per capire i problemi della classificazione e della rilevazione statistica, riporta le
serie storiche più aggiornate.
19
Cfr. Sergio Bologna, Ceti medi senza futuro?, cit., pp. 38 ss.
20
Creative Workers Count, su www.workingtoday.org
21
Sara Horowitz, Althea Erickson, Gabrielle Wuolo, Independent, Innovative and Unprotected: How the Old Safety Net is Failing America’s New
Workforce, sul sito www.freelancersunion.org
22
Solo lo stato di New York ha riconosciuto ai venditori (sales representatives) il diritto di accedere alle prestazioni previste per i dipendenti delle
aziende per cui lavorano come independent contractors.
23
Steve Fraser, Labor Will Rule: Sidney Hillman and the Rise of American Labor, Free Press, New York 1991 (Cornell University Press 1993).
24
Il nonno di Sara Horowitz è stato vicepresidente dell’International Ladies’ Garment Workers’ Union (Ilgwu) di New York, un sindacato il cui leader, Dubisky, ha costituito assieme a Hillman l’American Labor Party negli
anni trenta.
25
Ford Foundation, John D. e Catherine T. MacArthur Foundation, J.P.
Morgan Chase Foundation, New York Community Trust, United Hospital
Fund, Rockefeller Family Fund, The Robert Wood Johnson Foundation, The
Rockefeller Foundation, The Prudential Foundation, Ira W. De Camp Foundation e altre.
26
Amarezza che si riscontra nei commenti di molte associazioni e iniziative sociali, dovuta al fatto che alcune delle figure di punta della ShoreBank hanno fatto parte dell’entourage di Hillary Clinton e che la stessa moglie di Obama, Michelle, viene dal quartiere di Chicago dove la banca ha
mosso i primi passi. Con il concorso dei principali gruppi bancari e di molte fondazioni, la ShoreBank è rinata sotto il nome di Urban Partnership Bank
con un diverso management ma formalmente con la medesima missione.
Una parte dell’opinione pubblica ha accusato Obama invece di aver voluto
mantenere in piedi la sua banca “preferita”, anche quando perdeva troppi
soldi. Alla fine di agosto 2010 erano ben 118 le banche regionali chiuse
d’autorità o fallite.
27
Il contratto in genere è suddiviso in due parti, la prima (commercial
provision) che deve contenere la descrizione più dettagliata possibile delle
modalità secondo le quali si svolgerà il lavoro, preferibilmente con un paragrafo specifico per ogni singolo compito, dove il consulente oltre a veder definiti compensi e tempi di pagamento, dovrebbe tutelarsi in particolare dal-
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le maggiori richieste che avvengono in corso d’opera in maniera informale,
senza essere esplicitate come tali. La seconda parte del contratto (legal background) è quella che si applica a tutti i contratti e stabilisce diritti/doveri delle parti in una serie di circostanze ricorrenti o potenziali (per esempio in caso di rimpiazzo per malattia).
28
Cfr. il documento dell’Apce del dicembre 2010 dove sono illustrate le
differenze tra le due normative, su www.apce.fr. In sostanza chi dirige un’impresa non è più responsabile in toto degli eventuali debiti accumulati dall’attività della medesima ma può costituire un capitale di rischio, inoltre può
optare tra l’imposizione fiscale sul reddito e quella sulle società.
29
Nel caso in cui il lavoratore indipendente utilizzi come ufficio la casa di proprietà non è chiaro come si risolva il problema.
30
In compenso c’è ancora, o di nuovo, chi ha conservato uno sguardo
amorevole e critico sui luoghi e i contesti sociali, come Marina Spada, nel
cinema, o Gabriele Basilico nella fotografia, poi c’è il Teatro della Cooperativa, sì, ci sono tante altre cose, produzioni multimediali, ma qui volevamo
parlare soprattutto di scrittura-inchiesta, di storia vivente, di prodotti da libreria che “ti aprono gli occhi”.
31
Marina Piazza, Anna M. Ponzellini, Anna Soru, Età pensionabile delle donne e riconoscimento del lavoro di cura: la nostra proposta, Actainrete.it
32
Cfr. Dario Di Vico, Partite Iva, il welfare negato dei lavoratori invisibili, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 2010, oppure Dario Di Vico, Partite Iva:
l’alleanza del lavoro autonomo, in “Corriere della Sera”, 11 gennaio 2011.
33
La somma degli iscritti dichiarati da queste associazioni è dell’ordine
di 16.000.
34
Il “Manifesto dei lavoratori autonomi di seconda generazione” si può
leggere per intero sul sito www.actainrete.it tra le pagine dell’area istituzionale (“Chi siamo”).
35
Giacomo Mason, Sei un lavoratore autonomo e devi solo morire,
www.intranetmanagement.it, 18 ottobre 2010.
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Indice
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1. Passaggi
Dove vuoi andare?, 10; Pur di andarsene, 15; Transiti verso la
coalizione, 18; Direzioni sbagliate, 20; Strade a uscita incerta,
23; Pensare a se stessi, 26; I diversi confini del rischio, 29; Sostanza tecnologica del vivere, 32; Forme di coalizione nella Rete, 38; Il valore della prossimità, 43
45
2. Da gentiluomini a mercenari. L’ideologia
del professionalismo e la sua crisi
Alle origini di un’ideologia, 46; Pastoie italiane, 48; Disagio e
risveglio dei ceti medi, 53; Max Weber e la “vocazione professionale”, 54; Business e professione, 57; Freelancing, 60; Consulenti di direzione: flagello o risorsa?, 64; Surrogati d’identità,
66; Personalità e scrittura, 70; Le “nuove” non-professioni, 73;
Conoscenza tacita, 76; Autorità, autorevolezza, 79; Transitare,
spostarsi, scavalcare confini, 81; Uno status sociale in perenne
equilibrio, 84
88
3. Il lungo degrado del lavoro subordinato
Una Cina in Europa, 88; Voci dall’interno, 95; Permane la centralità del lavoro subordinato, 97; Mental recession, 100; Il paese tranquillo, 108
114
4. Dove non c’è la notizia
Il silenzio dell’informazione sul lavoro autonomo, 115; Senza
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voce collettiva il lavoratore, da solo, diventa merce, 116; Freelance, meno diritti e più costi d’esercizio, 118; Il sindacato nonsindacato dei giornalisti freelance, 120; L’informazione come
autoregolazione di interessi di parte, 123; I freelance? Per la
stampa soltanto Untermenschen, 125; Il cambio di rotta arriva
dal “Corriere della Sera”, 129; I lavoratori autonomi che si raccontano sul web, 130; Nuove identità in cerca d’autore (e giornalisti capaci di ascoltarle), 132
137
5. Precari e autonomi nell’economia dell’evento
L’organizzazione del lavoro nell’economia degli eventi, 140; Arte, 142; Musica, 148; Magnete Milano, 152; Identità e coalizione, 154
159
6. Lavorare a che prezzo?
Avvicinarsi al tema del compenso per via descrittiva, 160; La
soddisfazione delle parti non basta, 162; Massimi e minimi, tra
paradossi e privilegi, 163; I tariffari sono la soluzione?, 164;
Vendere lavoro autonomo ai lavoratori dipendenti, quando il
monopsonio è di tipo psicologico, 166; Il modello di prezzo basato sulle equivalenze tra in e out, 167; Reductio ad Ral, fenomeno a larga diffusione, 170; Il lavoro autonomo come i mutui
subprime? , 173; Alla previdenza ci penserà la provvidenza (personale), 174; Il secondo modello: l’equiparazione tra imprese,
ovvero una falsa speranza, 176; Quanto vale sapere da quale
parte girare una vite?, 179; Il cottimo digitale, dannazione moderna del lavoro cognitivo, 181; Oltre il tempo, la ricompensa
della qualità, 185; Pagare il risultato del freelance con “retribuzioni variabili”, 186; Mandare in frantumi il lavoro per fare
buy-back sulla paga del consulente, 187; Il rischio è mio, ma lo
gestisci tu, 190; La nascita della Jackpot Economy, 191; Il lavoro gratuito, meglio di nessun lavoro?, 193; Se il lavoro è un
sogno che non si avvera allora svegliati, 195; Donare il tempo,
ma quando è un contributo professionale che cosa accade?, 197;
C’è una risposta nella nostra Costituzione?, 199; Lavoratori, non
merce, 203
205
7. Gli outsider del welfare state
L’apartheid sociale che emerge con la crisi, 205; Flexicurity, chi
l’ha vista?, 207; Lavoratori autonomi senza tetto né legge, 210;
Quando è la previdenza a strozzare il lavoro, 212; Meglio
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l’ignoranza del sommovimento sociale?, 215; Le ipotesi in campo per la riforma del welfare, 217; Le vecchie forme di rappresentanza, una palla al piede, 222
224
8. Voltare pagina, coalizzarsi
Berlino, 228; Un grande sindacato e i lavoratori autonomi, 231;
Nomadi sul serio, 234; New York: un’idea di sindacalismo per
i nostri tempi, 235; Londra, Westminster Hall, 244; Parigi e dintorni, 248; Milano, 251
257
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