LOGOS E STORIA sara - Progetto Fahrenheit

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Antonio Quarta
CONTRO IL SOGGETTO ‘CANNIBALE’
Rileggendo Lévi-Strauss
1. Critica del soggetto come critica del moderno
“Tra le nozioni del vocabolario della filosofia moderna – ha scritto
Gianni Vattimo – quella di soggetto occupa senza dubbio una posizione di
primo piano, anche per essere stata sottoposta a critiche spesso violente e
senza appello, specialmente nel nostro secolo. La filosofia contemporanea, in particolare, ha accumulato una quantità di ragioni contro l’idea
stessa di soggetto, tanto che sembra che ci siano sufficienti argomenti per
non parlarne piú, per dare l’addio alla nozione di soggetto. E ciò è tanto
piú interessante se messo in parallelo con il fenomeno della società di
massa, che sembra minacciare sempre piú l’autonomia del soggetto, dell’individuo, del singolo, per ragioni che non necessariamente hanno da
fare con quelle della filosofia”1.
A quale soggetto eventualmente si darebbe l’addio? Molti concordano
nell’identificarlo con il soggetto costruito dal pensiero filosofico moderno: il soggetto di Cartesio, per intenderci, interpretato come un soggetto
‘forte’, fondato sulla verità e la sicurezza del cogito: “Penso, dunque
sono”. La certezza che il soggetto ha di sé in quanto res cogitans è una
verità di cui non si può dubitare e alla quale tutte le altre in qualche modo
si modellano.
Tra Otto e Novecento vari filosofi, con argomenti diversi e da varie prospettive, hanno messo in discussione l’attendibilità di tale certezza. I maestri della cosiddetta “scuola del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud) sono
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Antonio Quarta
accomunati da un atteggiamento critico nei confronti della visione
‘sostanzialistica’ del soggetto cartesiano inteso come ‘cifra’ del moderno.
Si pensi alla nozione marxiana di “ideologia”, che sarebbe una rappresentazione di cui qualcuno, singolo o gruppo, è persuaso, e che ricoprirebbe la realtà vera delle cose; una rappresentazione “che pare vera mentre in realtà è falsa, cioè una menzogna di cui tuttavia chi la professa non
è consapevole in quanto menzogna. L’ideologia costituirebbe dunque
anche un limite alla certezza che il soggetto ha di sé, alla verità di questa
certezza”2.
Nietzsche riteneva che la coscienza di sé (la sicurezza che l’individuo ha
sul piano conoscitivo e su quello morale) non sia altro che “la voce del
gregge in noi” e, infine, Freud ha mostrato che la coscienza è, per cosí
dire, “un effetto di superficie di una serie di giochi e conflitti che si svolgono in una sfera che sfugge alla coscienza”3.
Queste sono, in estrema sintesi, le ragioni principali, sebbene non le uniche, che la filosofia contemporanea avanza contro il soggetto. Sono valide o no? Risponde Vattimo: “A me sembra di sì, e mi sembra di poter
sostenere che se c’è un processo di liberazione che il soggetto deve compiere, non è semplicemente un processo di liberazione del soggetto da
false rappresentazioni, opinioni comuni, desideri repressi, ma forse anche
un processo di emancipazione dal soggetto, proprio al fine di lasciarsi in
qualche modo il soggetto alle proprie spalle”4.
La filosofia francese degli anni attorno al Sessantotto opera una scelta
risoluta: quella dell’antiumanismo5. Si tratta di una tendenza maggioritaria e di chiara ascendenza heideggeriana. Michel Foucault chiude l’opera
Le parole e le cose (1966) con la dichiarazione della “morte dell’uomo”;
nello stesso anno Jacques Lacan interpreta la psicoanalisi come un movimento radicalmente antiumanistico: “Il centro autentico dell’essere umano
non si trova piú ormai nello stesso luogo che la tradizione umanistica gli
riservava”6. Una esplicita dichiarazione di antiumanismo radicale è contenuta nell’opera di Louis Althusser Per Marx (1965), opera che esalta la
definizione dell’umanismo come ideologia e che apertamente parla di un
“antiumanismo filosofico di Marx” che riduce in “cenere il mito filosofico (teorico) dell’uomo”7.
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Contro il soggetto ‘cannibale’. Rileggendo Lévi-Strauss
Perché la generazione filosofica degli anni Sessanta colpisce e denuncia
l’umanismo? È ovvio che questa denuncia non significa certo che nel progetto di quella generazione vi fosse la difesa della barbarie o l’arringa a
favore del non-umano. In realtà proprio in nome degli effetti catastrofici
(per l’uomo) dell’umanesimo moderno, quest’ultimo doveva apparire
come il nemico del pensiero: l’umanismo della filosofia moderna, in apparenza emancipazione e difesa della dignità umana, si sarebbe capovolto
nel suo contrario diventando la causa principale dell’oppressione.
Se il pensiero moderno si è liberato dall’idolo del dogmatismo, quello
contemporaneo dovrà liberarsi dall’ultimo idolo residuo: l’antropologia.
Cosí, almeno, pensa Foucault quando invita ad uscire dal sonno dogmatico: “A tutti coloro che vogliono ancora parlare dell’uomo, del suo regno,
e della sua liberazione, a tutti coloro che pongono ancora domande su ciò
che l’uomo è nella sua essenza, a tutti coloro che vogliono muovere da lui
per accedere alla verità, a tutti coloro che reciprocamente riconducono
ogni conoscenza alle verità dell’uomo stesso […], che non vogliono pensare senza pensare subito che è l’uomo che pensa, a tutte queste forme
maldestre e alterate, non possiamo che contrapporre un riso filosofico,
cioè, in parte, silenzioso”8.
2. La dissoluzione della metafisica umanistica
Il padre dell’antropologia strutturale Claude Lévi-Strauss continua
ancora a chiamare l’antropologia “scienza dell’uomo” ma in realtà con la
sua opera mira a dissolvere il soggetto (e l’oggetto) stesso dell’antropologia. Scrive infatti Lévi-Strauss in Tristi tropici (1955): “Il mondo è incominciato senza l’uomo e finirà senza di lui. Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita ha catalogato e cercato di comprendere, sono un’efflorescenza passeggera d’una creazione in rapporto alla quale essi non
hanno alcun senso, se non quello di permettere alla umanità di sostenere il
suo ruolo. […] Piuttosto che antropologia bisognerebbe chiamare ‘entropologia’ questa disciplina destinata a studiare nelle sue manifestazioni piú
alte questo processo di disintegrazione”9.
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Antonio Quarta
La diffidenza di Lévi-Strauss nei confronti del “cogito riflessivo” è
espressa in termini netti. Ne Il pensiero selvaggio si legge: “Chi pretende
di insediarsi nelle pretese evidenze dell’io, non ne viene piú fuori. La
conoscenza degli uomini sembra talvolta piú facile a chi si lasci intrappolare dall’identità personale. In tal modo, però, si chiude la porta alla conoscenza dell’uomo: ogni ricerca etnografica muove da ‘confessioni’ scritte
o inconfessate”10.
Il fine delle scienze umane non consiste nel costituire l’uomo, ma nel
dissolverlo11. Dissolvere l’uomo significa ridimensionare il momento
cosciente – intenzionale della sua attività e rilevare per contro sia il
momento inconscio sia quegli aspetti per i quali l’uomo, invece che agire,
è per cosí dire “agito” – “agito” non soltanto dalla pressione delle “cose”
e delle istituzioni sociali, ma anche da quelle strutture che lo attraversano
operando secondo norme e procedure proprie largamente autonome dalla
volontà e dalla coscienza individuale. “Dissolvere” l’uomo significa, infine, studiarlo fino in fondo con gli stessi strumenti con i quali si sono studiati i fenomeni della natura12. Significa cioè impiegare, su vasta scala e
senza pregiudizi, procedure di tipo quantitativo, statistico-matematico.
Lévi-Strauss ha sempre difeso la tesi che i fenomeni ‘che contano’, le leggi
che governano l’attività umana appartengano alle strutture profonde dell’uomo, vale a dire al suo livello inconscio: “Di tutti i fenomeni sociali
solo il linguaggio sembra oggi suscettibile d’uno studio veramente scientifico, in grado di spiegare la maniera in cui si è formato e di prevedere
certe modalità della sua evoluzione interiore. Questi risultati sono stati
ottenuti, grazie alla fonologia, nella misura in cui essa ha saputo, al di là
delle manifestazioni coscienti e storiche della lingua, sempre superficiali,
cogliere realtà oggettive. Queste ultime consistono in sistemi di relazioni,
che sono essi stessi il prodotto dell’attività inconscia dello spirito”13.
Per effetto di questa accentuazione del ruolo dell’inconscio le nozioni di
soggettività, di prassi e di attività libero-cosciente dell’uomo vengono progressivamente emarginate. Correlativamente anche la prospettiva o
dimensione storica di queste attività ha perso rilievo. Lo schema antropologico che con insistenza Lévi-Strauss ha proposto si riassume nel contrasto tra la profondeur inconscio-strutturale e il livello cosciente-fenomeni-
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Contro il soggetto ‘cannibale’. Rileggendo Lévi-Strauss
co. Ridotta a vicenda évenementielle, la storicità si risolve in rappresentazione teatrale di una vicenda i cui autori e registi sono altrove. A oltrepassare questo livello puramente fenomenico lo studioso è spinto da uno specifico modello epistemologico in base al quale si può fare scienza rigorosa non già di eventi disordinati e casuali, bensì solo di fatti strutturalmente regolati.
In alcune pagine autobiografiche di Tristi tropici, nel sottolineare le
discipline che hanno concorso nella formazione del proprio metodo (psicanalisi, marxismo, geologia), l’autore ricorda, come una giovanile rivelazione, una passeggiata nella campagna della Languedoc, una passeggiata che diventa l’emblema del proprio percorso conoscitivo: “Ogni paesaggio si presenta dapprima come un immenso disordine, che lascia liberi di
scegliere il senso che si preferisce attribuirgli. Ma al di là delle speculazioni agricole, degli accidenti geografici, dei mutamenti della storia e della
preistoria, il piú nobile fra tutti non è forse il senso che precede, ordina e,
in larga misura spiega gli altri?”14.
Alla varietà apparentemente disordinata della natura è sotteso un senso,
un “significato conduttore”; cogliere tale significato, non cronologicamente ma logicamente, sarà compito dello studioso.
In un’altra pagina della stessa opera, descrivendo la figura dell’etnologo Lévi-Strauss afferma di se stesso: “Sono un teologo in quanto ritengo
che l’importante non sia il punto di vista dell’uomo ma quello di Dio,
ovvero cerco di capire gli uomini e il mondo come se fossi completamente fuori gioco, come se fossi un osservatore di un altro pianeta ed avessi
una prospettiva assolutamente oggettiva e completa”15. Solo da una prospettiva esterna, con un “occhio di Dio” sul mondo è possibile cogliere
l’assetto strutturale dei fenomeni sociali.
Lévi-Strauss ribadisce questa scelta metodologica nello studio dei miti.
Anche in questo caso sembra di trovarsi di fronte ad una congerie disordinata, arbitraria di espressioni tipiche di una determinata cultura, irriducibili a quelle di una cultura diversa. Ebbene egli si propone di aggirare
questo ostacolo, dimostrando come nell’ambito della mitologia – ambito
nel quale lo spirito sembra avere la massima libertà di abbandonarsi alla
sua spontaneità creatrice – si verifica l’azione delle forme strutturali dello
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spirito, che guidano, secondo una logica rigorosa, i pensieri e le attività
degli uomini. In polemica con chi considera i miti tentativi informi di fornire spiegazioni di fenomeni non immediatamente e facilmente comprensibili, Lévi-Strauss intende mostrare come i miti “si pensano negli uomini
e a loro insaputa”16 e sono riconducibili ad un ordine che non è logico ma
di tipo simbolico, omologo ma non identico all’ordine logico.
Quest’ordine, al di là delle differenze, costituisce il denominatore comune, il principio generatore di tutte le società: “Non è dalla società che
nasce il simbolo, ma è dal simbolo che nasce la società”17.
Mentre la ragione dialettica esalta la distinzione tra il soggetto e l’oggetto, l’io e l’altro, la ragione analitica di Lévi-Strauss supera questa
distinzione-opposizione proponendo il principio dell’identificazione agli
altri e “addirittura al piú ‘altro’ fra tutti gli altri, l’animale”18.
3. Diversità delle culture e unità del genere umano
L’oggettivazione del soggetto e il superamento dell’etnocentrismo sono
indirizzati al raggiungimento del medesimo obiettivo: distruggere il mito
della dignità esclusiva della natura umana, ovvero, come è detto nel
Pensiero selvaggio, “risolvere l’umano in non-umano”19. L’etnocentrismo
che privilegia una cultura contestando l’umanità di gente che definisce
barbara o selvaggia ha preso le mosse dalla separazione tra umanità e animalità iniziando un processo e innescando un meccanismo di emarginazione progressiva a vantaggio di minoranze malate di umanismo egoista.
La storia degli ultimi quattro secoli mostra che l’uomo occidentale, “arrogandosi il diritto di separare radicalmente l’umanità dall’animalità, accordando all’una ciò che toglieva all’altra, apriva un circolo vizioso, e che la
stessa frontiera, costantemente spostata indietro, sarebbe servita a escludere dagli uomini altri uomini, e a rivendicare, a beneficio di minoranze
sempre piú ristrette, il privilegio di un umanismo nato corrotto per aver
desunto dall’amor proprio il suo principio e la sua nozione”20.
Lévi-Strauss confuta appassionatamente l’etnocentrismo contemporaneo bollandolo come una forma di “cannibalismo intellettuale”, in base al
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Contro il soggetto ‘cannibale’. Rileggendo Lévi-Strauss
quale al di fuori della propria cultura non c’è che la barbarie, essendo il
proprio modo di vivere il solo “umano”.
Questo modo di ragionare è invece profondamente barbarico: quando
pretendiamo di stabilire una discriminazione tra le culture, ci identifichiamo nel modo piú completo con ciò che cerchiamo di negare. Il barbaro è
anzitutto “l’uomo che crede nella barbarie”21 e che ritiene di poter fare
“legittimamente” violenza al prossimo sulla base delle proprie “giuste”
credenze: “Nelle Grandi Antille, pochi anni dopo la scoperta
dell’America, mentre gli spagnoli spedivano commissioni d’inchiesta per
stabilire se gli indigeni fossero o no dotati di un’anima, questi ultimi si
occupavano di immergere i prigionieri bianchi sott’acqua per verificare,
con una sorveglianza prolungata, se il loro cadavere fosse o meno soggetto a putrefazione”22.
Lévi-Strauss rifiuta l’idea di classificare le culture in termini evoluzionistici: le culture non formano un’unica linea evolutiva culminante nella
cultura occidentale. La classificazione delle culture è un fatto relativo che
dipende dai parametri valutativi che si assumono. Le altre culture, o
meglio, le culture “altre” non sono tappe arretrate della nostra cultura; esse
hanno quasi sempre l’età della nostra, pur avendo usato diversamente il
tempo a disposizione: “non esistono popoli bambini, tutti sono adulti,
anche quelli che non hanno tenuto il diario della loro infanzia e della loro
adolescenza”23. Nessuna cultura ha il monopolio della perfezione antropologica: “Ciascuna delle decine e centinaia di migliaia delle società che
sono coesistite sulla terra, o che si sono succedute da quando l’uomo vi ha
fatto la sua propria apparizione, si è valsa di una certezza morale, simile a
quella che potevamo invocare noi stessi, per proclamare che in essa –
fosse pure ridotta a una piccola banda nomade o a una capanna sperduta
nel cuore della foresta – si condensavano tutto il senso e la dignità di cui
è suscettibile la vita umana. […] Ci vuole una buona dose di egocentrismo
e di ingenuità per credere che l’uomo sia interamente rifugiato in uno solo
dei modi storici e geografici del suo essere, quando, invece, la verità dell’uomo sta nel sistema delle differenze e delle loro comuni proprietà”24.
I disastri provocati dall’ascesa irresistibile della civiltà occidentale
dimostrano, secondo Lévi-Strauss, che la storia non può venire considera-
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Antonio Quarta
ta una via di accesso alla verità. Contestando l’equazione filosofica dello
storicismo secondo cui l’Umanità si identifica con la storia (occidentale)
Lévi-Strauss, da un lato, fa polemicamente presente l’esistenza di cosiddetti “popoli senza storia” (o meglio, che “resistono” alla storia) e, dall’altro, parla degli uomini del nostro tempo come di individui “abbandonati in un nulla generato dalla storia, agitati in tutti i sensi dalla causa piú
elementare: la paura, la sofferenza e la fame”25.
Il sentimento prevalente di questa analisi è una forma di irrimediabile
pessimismo storico. Il discorso di Lévi-Strauss non si traduce né in una
serie di previsioni né in un insieme di proposte socio-politiche. Esso ha
piuttosto lo straordinario valore di ammonimento teso a far presente alla
“sovraeccitata” umanità odierna, i rischi mortali di un allontanamento
definitivo della cultura dalla natura.
NOTE
1
G. VATTIMO, Filosofia al presente. Conversazioni con F. Barone, R. Bodei,
I. Mancini, V. Mathieu, M. Perniola, P.A. Rovatti, E. Severino, C. Sini, Garzanti,
Milano 1990, p.108.
2
Ivi, p.109.
3
Ib.
4
Ib.
5
Cfr. O. POMPEO FARACOVI, Il marxismo francese contemporaneo fra dialettica e struttura, Feltrinelli, Milano 1972; G. GRAMPA, Dialettica e struttura.
Dibattito sull’antropologia nel marxismo francese contemporaneo, Vita e
Pensiero, Milano 1974; L. FERRY - A. RENAUT, Il 68 pensiero. Saggio sull’antiumanismo contemporaneo, trad. it. di E. Renzi, Rizzoli, Milano 1987 (1ª ed.,
Gallimard, Paris 1985).
6
Cfr. J. LACAN, Scritti, trad. it. di G. Contri, Einaudi, Torino 1974.
7
L. ALTHUSSER, Per Marx, trad. it. di F. Madonia, Editori Riuniti, Roma
1967, p.205.
8
M. FOUCAULT, Le parole e le cose, trad. it., Feltrinelli, Milano 1967, p.368.
9
C. LÉVI-STRAUSS, Tristi tropici, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1960,
pp.402-403.
10 C. LÉVI-STRAUSS, Il pensiero selvaggio, trad. it., Il Saggiatore, Milano
1964, p.271.
11 Ivi, p.268.
12 Cfr. S. MORAVIA, Lévi-Strauss e l’antropologia strutturale, Sansoni, Firenze
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Contro il soggetto ‘cannibale’. Rileggendo Lévi-Strauss
1973, p.16. Per una piú ampia ricostruzione biografico-intellettuale della formazione di Lévi-Strauss cfr., inoltre, dello stesso Moravia, La ragione nascosta.
Scienza e filosofia nel pensiero di C. Lévi-Strauss, Sansoni, Firenze 1969.
13 C. LÉVI-STRAUSS, Antropologia strutturale, trad. it. di P. Caruso, Il
Saggiatore, Milano 1966, p.73 (1ª ed., Plon, Paris 1958).
14 C. LÉVI-STRAUSS, Tristi tropici, cit., pp.54-55.
15
Ivi, p.51.
Cfr. C. LÉVI-STRAUSS, Mitologica: il crudo e il cotto, trad. it. di A. Bonomi,
Il Saggiatore, Milano 1966 (1ª ed., Plon, Paris 1964).
17 Cfr. P. CARUSO, Ragione analitica e ragione dialettica nella nuova antropologia, in “Aut-Aut”, 1964, 84, pp.52-60.
18 C. LÉVI-STRAUSS, Razza e storia e altri studi di antropologia, trad. it. di P.
Caruso e G. Neri, Einaudi, Torino 1967, p.92.
19 C. LÉVI-STRAUSS, Il pensiero selvaggio, cit., p.268.
16
20
24
C. LÉVI-STRAUSS, Razza e storia, cit., pp.93-94.
Ivi, p.106.
Ib.
Ivi, p.112.
C. LÉVI-STRAUSS, Il pensiero selvaggio, cit., pp.270-271.
25
C. LÉVI-STRAUSS, Tristi tropici, cit., p.139.
21
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