Riconoscimento dei diritti ed istruzione

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Riconoscimento dei diritti ed istruzione
Dal novero dei diritti cosiddetti naturali non si può espungere in alcun modo il diritto
all’istruzione o, per usare un’espressione mutuata dal linguaggio degli esperti della materia, il
diritto alla piena formazione della personalità
L’istruzione è condizione sine qua non per pervenire allo stato di uomo. Il tratto che distingue
l’uomo dalle altre specie animali è la cultura. Alla nozione di cultura si collegano elementi quali
l’intelligenza, la razionalità, l’immaginazione, la simbolizzazione, la memoria del passato, la
proiezione nel futuro e via discorrendo. Dunque, allo stato di uomo si giunge mediante la cultura e
la cultura si acquisisce con l’istruzione, ossia tramite quel processo di apprendimento attraverso il
quale l’individuo si impossessa dei contenuti di conoscenza, li volge alla soluzione dei suoi
problemi esistenziali, utilizzando i metodi che ritiene i più idonei. L’apprendimento è un processo
che ha del prodigioso perché consente all’individuo di utilizzare il bagaglio culturale accumulato
dalle precedenti generazioni nel loro lento e faticoso lavorio di adattamento all’ambiente e
trasmesso attraverso il patrimonio genetico. L’individuo non ha bisogno di ripercorrere le tappe
dei suoi antenati, può mettere a frutto il patrimonio ereditato dalla specie.
Da queste schematiche osservazioni si può comprendere come l’istruzione costituisca un diritto
fondamentale dell’individuo - cittadino non secondario al diritto alla vita, alla salute, alla libertà,
alla pacifica convivenza sociale, eccetera. L’istruzione non è solo un diritto, è anche un dovere, per
l’analogo e concorrente diritto della comunità organizzata di avvalersi, per il suo progredire, del
contributo di cittadini avvertiti e responsabili. Per tale ragione, l’ordinamento statuale giunge a
renderla obbligatoria.
Questa lunga premessa per capire quanto importante sia la formazione delle giovani
generazioni, soprattutto in una società, come la nostra, caratterizzata da complessità e incessante
divenire, e per valutare la qualità delle politiche scolastiche nel nostro Paese, sulle quali ci
proponiamo di focalizzare la nostra riflesione.
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Preliminarmente va precisato che termini quali “istruzione” e “scuola” non sono sinonimi,
avendo il primo un significato più ampio rispetto al secondo - non tutta la formazione degli
individui passa per i banchi della scuola; altre agenzie di formazione vengono ad occupare oggi
spazi sempre più significativi, come la televisione e la telematica. Va tuttavia affermato che la
scuola resta pur sempre la più importante istituzione deputata alla preparazione dei giovani ai
ruoli adulti, non fosse altro perché lo fa in modo sistematico e intenzionale.
E allora, domandiamoci: qual è lo stato di salute di questa “canuta” istituzione formativa che è
la scuola? Non buono, a nostro modo di vedere. Non tragga, infatti, in inganno il “furore
riformatore” dal quale essa è stata pervasa negli ultimi anni. Non c’è stato governo di destra o di
sinistra che, appena insediato, abbia resistito alla tentazione di avviare una riforma scolastica, vuoi
sul piano degli ordinamenti vuoi su quello programmatico. Ora, una riforma scolastica ogni cinque
anni – quand’anche una legislatura duri cinque anni! – non è facile da metabolizzare né da parte
dei docenti né delle famiglie né degli stessi studenti, costretti a modificare nel corso della loro
scolarizzazione mete da raggiungere, contenuti di apprendimento, didattiche, metodologie e così
via. Dovrebbe essere chiaro a tutti che la scuola ha tempi diversi dalla politica, avendo bisogno di
ritmi più distesi per dispiegare più compiutamente le sue potenzialità. Purtroppo talvolta ci si
muove ignorando bellamente tutto ciò, con conseguenze di parossistica schizofrenia.
L’aspetto più singolare e sorprendente di questo “furore riformatore” è che le riforme messe in
campo riguardano per lo più settori della scuola che già funzionano bene, senza toccare
all’opposto quelli che danno risultati scadenti.
Non c’è stata riforma di questi anni che non abbia toccato la scuola elementare la quale,
guarda caso, è il segmento con i livelli di efficacia più alti, riconosciuti persino da organismi
internazionali di analisi comparate sui vari sistemi di istruzione. In altri termini, la nostra scuola
elementare, per unanime riconoscimento, occupa un posto di assoluto prestigio nel panorama
mondiale dei sistemi di istruzione. Perché, allora, mettere mano in continuazione ad un segmento
che funziona? E perché, al contrario, nulla si fa per la secondaria superiore, ferma ai programmi
Gentile del 1923? E’ proprio la secondaria di secondo grado a cacciarci tra i reietti del mondo in
fatto di istruzione superiore. Senza andare ancora a scomodare i suaccennati organismi
internazionali, ci si può fermare a registrare il livello di insoddisfazione delle imprese che ricevono
gli studenti appena sfornati dalla scuola superiore. L’inettitudine al lavoro sembra essere il
connotato più ricorrente nella generalità dei neoassunti.
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Nelle democrazie moderne le riforme scolastiche, come tutte le altre riforme, dovrebbero
tendere ad ampliare la sfera dei diritti della persona. E, allora, ci si domanda se l’ultima riforma,
quella che porta il nome della ministra Maria Stella Gelmini, vada in questa direzione.
Il ritorno al maestro unico, la riduzione del tempo scuola, la contrazione degli organici relativi
ai docenti di sostegno, che costituiscono gli elementi strutturali della riforma, sono provvedimenti
che tendono ad espandere o piuttosto a contrarre i diritti della persona?
Un esame non superficiale conduce a propendere per la seconda ipotesi.
Della riforma in corso di attuazione, infatti, appaiono risibili le motivazioni pedagogiche che le
fanno da supporto. Per esempio, per giustificare il ritorno al maestro unico (sino ad oggi la scuola
elementare ha funzionato con un’organizzazione di tipo modulare, con tre insegnanti su due classi)
si è sostenuto che il ragazzo in fascia di età 6 - 10 anni ha bisogno di una sola figura di riferimento
educativo, pena la messa a rischio del suo equilibrio psicologico a causa degli eventuali messaggi
contrastanti provenienti dalle diverse figure significative. Un’affermazione ardita, che non trova
riscontro nella realtà sia che si badi al quotidiano della vita, fatta di figure plurime (genitori, figure
parentali, la stessa scuola dell’infanzia che prevede l’alternarsi di due educatrici), sia che si guardi
alle più aggiornate teorie psicologiche che descrivono il ragazzo di questa età come un soggetto
dall’intelligenza complessa, dalle potenzialità di apprendimento straordinarie, dalla capacità di
giudizio critico in grado di districarsi tra messaggi diversi e contrastanti. Altro che l’esserino
sprovveduto descrittoci dall’ormai superata visione piagettiana dell’età evolutiva! Altro che la
sconfinata fiducia in una sola figura educativa, il maestro unico appunto, che si intende di tutto, di
lingua come di matematica, di studi antropologici come di discipline motorie, e via dicendo. Al
ragazzino dall’intelligenza complessa e fertile di quest’età, non ci si può limitare a raccontare le
fiabe della nonna o propinare delle mezze verità! Ecco, da questo punto di vista, la Riforma
Gelmini sembra voler mortificare le prodigiose potenzialità di apprendimento dell’alunno.
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Un discorso diverso è quello che attiene alla riduzione del tempo scolastico. Qui è investito in
modo diretto il diritto allo svolgimento pieno della personalità. Sulla questione, i fautori della
riduzione invocano il diritto delle famiglie a trattenere in casa il più a lungo possibile i loro figli e
l’opposto dovere dei genitori di non spogliarsi degli obblighi educativi sulla prole discendenti dalla
Costituzione. Diritti e doveri che nessuno può contestare. Ci mancherebbe. Ma preso atto di ciò,
va considerato, come si accennava in apertura, che l’istruzione è cosa terribilmente seria, tale da
richiedere un tempo adeguato per appropriarsene. La riduzione del tempo scuola, lo capiscono
anche le pietre, non può che andare a detrimento degli alunni più deboli, dei figli delle famiglie più
povere. Non ne risentono, certo, i figli delle famiglie abbienti che dispongono di altri mezzi per
assicurare loro una robusta formazione di base.
Alle medesime conclusioni si giunge allorché si pongano limiti di accesso alla scuola sia per i
ragazzi extracomunitari che per i portatori di handicap.
Per questi ultimi, l’orientamento ministeriale propende per una contrazione di organico degli
insegnanti di sostegno. Contrarre gli organici di sostegno significa conculcare il diritto alla piena
formazione dei “diversamente abili”. E dire che siamo stati i primi al mondo, verso la metà degli
anni “70, ad introdurre nella scuola comune i ragazzi disabili ospitati sin lì negli istituti speciali, in
completo isolamento! Persino gli inglesi sono venuti da noi per capire quest’innovazione di
altissima civiltà. Ora, far mancare gli insegnanti di sostegno nella scuola comune significa ricacciare
i disabili nelle istituzioni speciali, dove potranno anche con profitto apprendere gli alfabeti
necessari ad attenuare gli effetti dell’handicap, ma dove mancherà lo scambio relazionale con i
normodotati, con coloro cioè che, avendo vissuto in positivo le loro esperienze, possono aiutare i
compagni con menomazioni a colmare le povertà di pensiero, di linguaggio, di sentimenti indotte
dalla disabilità.
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