Considerazioni di carattere generale sulla crisi

Considerazioni di carattere generale sulla crisi. Anzi sulle crisi. Perché sono due. La crisi
economica, la crisi ecologica.
Come vedremo, forte parallelismo.
Il che dovrebbe impedire di cercare di risolvere l’una aggravando l’altra.
Per esempio incentivare la domanda di case prescindendo dalla disciplina urbanistica e
aggravando i guasti ambientali.
È quello che sta tentando di fare il governo italiano con il suo piano case.
Insomma. L’ecologia non deve essere considerata come una risorsa da spendere per fare
ripartire l’economia.
Ambedue le crisi, quella economica e quella ecologica, costituiscono una minaccia
gravissima per l’umanità e dovrebbero essere affrontate con un nuovo tipo di economia
che eviti sia l’indebitamento della finanza sia quello con la natura.
In che consiste il forte parallelismo tra le due crisi.
Consiste nel fatto che ambedue nascono da un insostenibile indebitamento.
La crisi finanziaria è stata provocata dalla diffusione di falsi crediti, che non trovavano
riscontri nell’economia reale e non potevano quindi essere restituiti. La crisi ecologica
nasce anch’essa da crediti fasulli che non possono essere restituiti. Sono i danni
irreversibili arrecati dalla produzione umana alla biosfera. Anche in questo caso si tratta di
prestiti senza copertura.
La domanda che dovrebbe nascere dalla crisi finanziaria non è quella che leggiamo ogni
giorno sui giornali: quanto durerà e l’altra che viene subito dopo: come fare per fare
ripartire al più presto la crescita? Ma piuttosto, qual è la connessione di questa crisi con il
tipo di sviluppo che caratterizza la nostra economia: e l’altra fondamentale: è realizzabile
una economia che eviti sia l’indebitamento del denaro sia quello con la natura?
Apro una breve parentesi per fare un rapidissimo commento al cosiddetto G20, la
riunione dei capi di governo che si è tenuta in questi giorni a Londra. Per dire subito che,
contrariamente a quel che si poteva temere, ne sono usciti risultati apprezzabili.
Soprattutto per quel che riguarda gli aspetti sui quali hanno giustamente insistito i governi
europei; la necessità di mettere le briglie a una finanza sregolata. Vedi la denuncia, più
che tardiva, ma significativa, di quel gigantesco scandalo che è costituito dai cosiddetti
paradisi fiscali.
Tuttavia il G20 non si è occupato minimamente del tema di cui sto trattando: che non è
quello di far rientrare la finanza nei limiti dell’economia reale ma quello di far rientrare
l’economia nei limiti dell’ecologia. Figuriamoci. Il solo accennarne sarebbe parso una
bestemmia. Ma non significa che il problema non esiste. Prima o poi anche questo nodo
verrà al pettine.
Consideriamo per prima proprio la crisi ecologica. Da che cosa è determinata? Di solito si
dice che è determinata dalla scarsità ecologica, cioè dal fatto che le risorse sono “finite”
nel senso di limitate, e che il ritmo della produzione porta inevitabilmente al loro
esaurimento. E si risponde subito dagli economisti ortodossi con l’accusa di
malthusianesimo.
Il reverendo Malthus, com’è ben noto, aveva predetto che una popolazione che cresce in
proporzioni geometriche è incompatibile con una produzione che cresce in proporzioni
aritmetiche. Non aveva previsto che l’aumento della produttività agricola, dovuto al
progresso tecnologico, avrebbe consentito un aumento della produzione persino superiore
a quello della popolazione.
Ma, a parte che le risorse naturali sono comunque limitate e che la tecnologia può
ritardarne il loro esaurimento, non evitarlo, il problema ecologico più grave non sta
nell’esaurimento quantitativo delle risorse. La terra non è una cava, un contenitore di
risorse: è un sistema di relazioni naturali interconnesse estremamente complesso. La
produzione industriale, soprattutto quando si avvale di energie non rinnovabili impiega
tecniche che incidono su queste relazioni turbandole e provocando squilibri alla lunga
insostenibili. E non tanto alla lunga.
Il riscaldamento dell’atmosfera terrestre provocato dall’emissione artificiale di anidride
carbonica appartiene a questo tipo di squilibri che possono evolvere catastroficamente in
tempi rapidi.
L’insostenibilità non riguarda solo l’esaurimento delle risorse ma anche la produzione di
rifiuti. La terra è ormai cosparsa di discariche che inquinano suolo e sottosuolo in modo
sempre più devastante.
La risposta della saggezza convenzionale è che la tecnologia consentirà di distruggere
quei rifiuti con inceneritori e termovalorizzatori. A parte che come la prima legge della
termodinamica ci insegna, niente si crea e niente si distrugge, ma tutto si trasforma, è
proprio il modo di trasformazione dei rifiuti che crea problemi. Gli inceneritori e i
termovalorizzatori rilasciano diossina e generano ceneri tossiche che richiedono a loro
volta altre discariche. La termodinamica non è un’opinione.
Un’altra risposta è che la produzione evolve verso forme sempre meno materialistiche: e
si cita ad esempio l’elettronica e i computer. È una grande bugia. Lo sviluppo elettronico
genera una immensa spazzatura elettronica, il cosiddetto e-waste. La produzione dei
computer e dei semiconduttori – cito uno studio di Pietro Bevilacqua – è resa possibile da
giganteschi scavi per ricavare gli innumerevoli materiali di cui necessita: piombo, rame,
mercurio, cadmio, quarzo, perfino oro, tantalio, titanio. E l’industria mineraria consuma tra
il 7 e il 10 per cento dell’energia mondiale. Per fabbricare i computer si usano innumerevoli
gas tossici e sostanze nocive come acido arsenico, nichel, cobalto, tungsteno, titanio.
Inoltre i computer richiedono enormi volumi di risorse idriche. La produzione a sempre più
buon mercato di computer, e di televisori, induce infine a sostituirli con prodotti nuovi.
Così, secondo alcune stime ogni anno nei soli Stati Uniti si gettano nelle discariche rifiuti
elettronici sufficienti a coprire un campo di calcio alto 1600 metri.
La risposta tecnologica non è dunque la soluzione del problema, ma è il problema. La
tecnologia trasforma. Non può né creare né distruggere risorse.
Un’altra risposta convenzionale afferma che la migliore soluzione del problema della
scarsità sta nell’affidarsi al mercato. Altro errore. Il mercato, con i suoi prezzi, è
efficacissimo nel misurare le scarsità relative: per esempio, quelle di petrolio in termini di
carbone. Non è assolutamente in grado di misurare quelle assolute: può misurare la
scarsità di un bene rispetto a un altro, non la scarsità di tutti i beni rispetto alle risorse
dell’ambiente. Insomma non si può aggirare la seconda legge della termodinamica (il
fatale aumento dell’entropia, del disordine) violando la prima.(niente si crea niente si
distrugge).
Questi concetti non sono colti dalla scienza economica dominante. E la ragione sta nei
suoi fondamenti paradigmatici. Nel paradigma tradizionale l’economia è rappresentata
come un sistema circolare chiuso tra produzione e consumo. Di ciò che viene prima della
produzione non si interessa perché non rileva problemi di scarsità di risorse. Di ciò che
viene dopo non si interessa perché non considera problemi di smaltimento di rifiuti.
Energia solare e crosta terrestre sono considerate risorse infinitamente utilizzabili.
Gli economisti che per primi si sono misurati con l'ecologia hanno dimostrato
l'insostenibilità di questi assunti. Il processo economico non è un circuito chiuso: è un
flusso lineare che ha origine in risorse date di materia-energia, che il lavoro e l'intelligenza
trasformano in beni e servizi utili, degradandoli a rifiuti inutilizzabili ma indistruttibili.
Il principio fondamentale che dovrebbe regolare l’equilibrio dell’economia non può essere
la massimizzazione di quel flusso (throughput), ma la massimizzazione dei servizi utili da
trarne, e la sua minimizzazione in termini di materia-energia. In altri termini, con grave
scandalo degli economisti, il più alto rapporto possibile tra i servizi resi e risorse utilizzate.
Massimizzare i primi, minimizzare le seconde. Il che implica naturalmente, la necessità di
misurare le une e le altre con misure indipendenti.
E quindi, impone di mettere finalmente in cantina quello strumento assolutamente
fuorviante che è il PIL, il quale somma vantaggi e costi, mezzi e fini, risorse e utilità, i beni
economici e i mali. E conferma il severo giudizio dell'economista Morgenstern: di essere la
più stupida misura inventata dagli economisti.
Questa è la prima grande riforma, che ridarebbe all'economia un significato, come
strumento di un benessere che, a quel punto, deve essere specificato in termini qualitativi
livello di istruzione, di salute, di sicurezza, eccetera. Con una serie, cioè di indicatori
specifici, non con un numero generico e insignificante.
Ciò permetterebbe di misurare l'efficacia dell'economia, il livello della sua qualità, e la sua
efficienza, il rapporto tra quel livello e le risorse utilizzate.
In proposito, per concludere sul tema della sostenibilità ecologica, ci sono quattro modi di
affrontare il problema della scarsità. Il primo è quello privatistico. Quando si prevedono
condizioni eccezionali di scarsità alimentare, per esempio allo scoppio di una guerra, ogni
famiglia cerca di fare provvista senza curarsi d'altro. Allo stesso modo un paese può “fare
provvista” delle risorse naturali disponibili senza curarsi delle conseguenze che ne
deriveranno agli altri. Il secondo è quello di forzare l'offerta, per esempio, cercando petrolio
in posti sempre più remoti o carbone in strati sempre più profondi: si tratta, in pratica, di
non riconoscere il problema della scarsità. La terza risposta è quella dell'efficienza. Si
utilizzano tecnologie produttive che minimizzano l'uso delle risorse, come il risparmio
energetico. La quarta, la più radicale, non riguarda i mezzi dell'economia, ma i suoi fini. Ci
si impegna a ridurre la domanda di materia-energia. A modificare le nostre aspirazioni
anziché le nostre operazioni. Non si esce dal regno dell'economia, ma di quell'economia
che sì è emancipata da ogni finalità superiore per diventare essa stessa un fine, Come
dice Seme Latouche, una religione. Non si tratta però di "decrescita", ma di "a- crescita":
di una condizione che gli economisti classici definivano uno stato stazionario: che non è
affatto uno stato statico, ma uno nel quale il progresso si misura non quantitativamente
(crescita) ma qualitativamente (sviluppo). Ciò che cresce non è il corpo, come nei
dinosauri, dei quali non si è saputo più nulla, ma la mente. Non la quantità dei beni di cui
disporre, ma la capacità di goderne, non l'avere ma l'essere. Una dimensione non fisica
ma culturale, che non incide sugli equilibri ecologici.
In pratica si tratta di un mix tra le due ultime risposte, quella dell'efficienza e quella della
sufficienza, che dovrebbero guidare le politiche di una economia sostenibile.
Tutt’al contrario il capitalismo negli ultimi quarant’anni, ha contribuito potentemente alla
insostenibilità, attraverso la dilatazione della finanza.