IL PATRIMONIO DEL FONDO COMUNE D`INVESTIMENTO

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IL PATRIMONIO DEL FONDO COMUNE D'INVESTIMENTO MOBILIARE
Sommario
1. Introduzione
2. Teoria della comunione
3. Teoria della proprietà della società di gestione
4. Teoria della soggettività del Fondo
5. Teoria del patrimonio separato
6. Conclusioni
1. Introduzione
In quest'ultimo decennio la drastica riduzione dei tassi
d'interesse e la profonda evoluzione dei mercati finanziari
hanno spinto i risparmiatori e le imprese italiane a modificare
significativamente le loro politiche d'investimento.
Molti di coloro che un tempo erano chiamati i "BOT people",
gli irriducibili investitori in titoli di Stato (titoli che in
effetti allora garantivano rendimenti elevati in condizioni di
assenza di rischio), oggi investono prevalentemente in azioni
ed in Fondi comuni d'investimento, acquistano obbligazioni
strutturate ad alta redditività emesse da paesi emergenti,
sottoscrivono polizze di assicurazione sulla vita con
rendimenti parametrati agli indici delle principali Borse
mondiali e talora effettuano direttamente i loro investimenti
sui mercati finanziari internazionali tramite gli strumenti
telematici che vanno sempre più diffondendosi fra le famiglie.
Si tratta di una silenziosa "rivoluzione finanziaria" ch
e ha
radicalmente trasformato la figura del risparmiatore medio
italiano il quale, nel contesto storico
-economico sopra
descritto, ha progressivamente ridotto la tradizionale
propensione al risparmio ed incrementato, per contro, la
propensione al rischio al fine di ottenere una remunerazione
del proprio capitale ritenuta soddisfacente.
Anche le imprese hanno modificato nel medesimo senso le
proprie strategie d'investimento finanziario: i classici BOT e
CCT sono stati rapidamente sostituiti da "pronti co
ntro
termine", Fondi d'investimento (talvolta con specializzazione
settoriale) ed azioni.
Rivolgendosi agli investitori istituzionali, alle imprese ed ai
grossi investitori privati, sono in arrivo a breve nel nostro
Paese anche gli "Hedge Funds", i Fondi d'investimento ad alto
rischio che operano professionalmente con politiche fortemente
speculative sfruttando l'effetto della leva finanziaria.
La
nota e recente vicenda del gigantesco dissesto del LTCM (Long
Term Capital Management), uno dei principali
hedge funds
operante a livello mondiale, sta a dimostrare che non sempre il
perseguimento del rendimento più elevato, direttamente
correlato ad un altissimo livello di rischio, si rivela una
scelta vincente.
L'investitore accorto ed evoluto infatti non è alla ricerca
della massima redditività in senso assoluto, ma si orienta
piuttosto verso strumenti finanziari che garantiscono un
corretto rapporto fra rischio e rendimento e conseguono delle
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performances giudicate positive in relazione al benchmark di
riferimento.
Conformemente all'antico e saggio principio "conoscere per
decidere", per effettuare delle scelte d'investimento razionali
e consapevoli è necessario conoscere approfonditamente gli
strumenti finanziari ai quali ci si rivolge, sia sotto il
profilo operativo che sotto l'aspetto giuridico.
Solo in questo modo è possibile valutare compiutamente il
livello di rischio in relazione al rendimento atteso.
Lo scopo del presente lavoro è quello di analizzare sotto il
profilo giuridico la figura del p
atrimonio dei Fondi comuni
d'investimento di diritto italiano per fornire una risposta a
tre importanti questioni:
1) chi è il proprietario del patrimonio del Fondo;
2) qual'è la natura giuridica del Fondo;
3) che ne è del patrimonio del Fondo nell'ipotesi di insolvenza
della società che lo gestisce.
2. Teoria della comunione
La prima ipotesi che è stata formulata, alla luce dei primi
progetti legislativi che erano stati elaborati in Italia e
tenuto conto altresì dell'art. 1 del decreto francese 57 -1342
del 28 dicembre 1957, è quella secondo cui, se la società di
gestione provvede a gestire il Fondo nell'interesse dei
partecipanti, sembra logico ritenere che il patrimonio
appartenga a questi ultimi.
Ponendosi in quest'ottica i sottoscrittori risulterebbero
essere comproprietari dei valori mobiliari che costituiscono il
Fondo, ciascuno secondo le quote corrispondenti alla somma di
denaro conferita.
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Tale opinione riconduce l'istituto nello schema della
comunione, regolamentata dal nostro Codice Civ ile dagli artt.
1100 e seguenti.
In questo modo si è pensato di poter assimilare il negozio
dell'investment trust ad una figura giuridica largamente
radicata nel diritto dei Paesi continentali, riconoscendo la
proprietà del patrimonio del Fondo ad una collettività di
soggetti distinti dall'ente di gestione, in modo da poter
giustificare il fatto che tale patrimonio sia separato da
quello della società gerente.
Questo spiegherebbe anche il perchè la società di gestione sia
tenuta a rispondere ai partecipanti per la gestione secondo le
regole del mandato: evidentemente se la proprietà del
patrimonio è in capo ai comunisti, è loro facoltà stipulare un
contratto di mandato (art. 1703 C.C.) con la società affinchè
essa amministri il bene comune in loro nome e per loro conto.
La teoria in esame è stata ampiamente dibattuta e criticata
da parte della più autorevole dottrina ed oggi appare
completamente abbandonata.
Le critiche che le si possono muovere sono numerose e fondate,
ed un esame approfondito dimostra c ome essa non sia credibile
sotto molti aspetti e non possa perciò risultare accoglibile.
Anzitutto occorre sottolineare il diverso scopo che soggiace
ai Fondi comuni di investimento ed alla comunione.
In quest'ultima infatti i singoli soggetti mettono in comune
uno o più beni, al fine di trarne i frutti e/o le utilità che
essi sono in grado di fornire naturalmente, a prescindere dal
fatto che con essi venga esercitata o meno un'attività (mero
godimento della res communis).
Ben diversamente stanno le cos e nel caso dei Fondi comuni di
investimento. Infatti i beni che vengono conferiti dai
partecipanti (le somme versate al momento dell'entrata nel
Fondo) non rappresentano direttamente l'oggetto del godimento,
il quale è invece costituito dalla ricchezza che si forma in
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seguito all'investimento ed alla gestione economica del
patrimonio.
Quindi, mentre nel caso della comunione si contempla una
situazione statica, o comunque non necessariamente dinamica,
riguardo ai Fondi comuni il fine del godimento si sostanz ia in
un'attività esclusivamente dinamica. In caso contrario non solo
si andrebbe contro il dettato legislativo quando afferma che le
somme versate dai partecipanti devono essere investite in
titoli e in altre attività finanziarie, ma addirittura verrebbe
meno lo scopo della società di gestione, la quale invece è
stata attentamente regolamentata dal legislatore.
E' evidente che già da questa prima considerazione emerge
l'incompatibilità fra i due istituti, ma ne esistono altre,
forse più profonde, che si riferiscono alla posizione giuridica
dei partecipanti.
In particolare, nel caso della comunione, i comunisti hanno la
proprietà della cosa, in parte a titolo individuale ed in parte
a titolo collettivo, con i conseguenti diritti di disporne e di
amministrarla.
Relativamente ai Fondi comuni di investimento la posizione dei
partecipanti è affatto diversa. Essi non solo non sono
legittimati a disporre e ad amministrare il patrimonio del
Fondo (nè come collettività nè tantomeno come singoli), ma non
possono n emmeno influire sull'attività svolta dalla società
gerente.
Ciò è in evidente contrasto con i principi della comunione, in
cui, anche nell'ipotesi che la gestione della cosa venga
affidata a terzi, rimane ai comunisti sia il potere di revoca,
sia sopratutto quello di indirizzo dell'attività
amministrativa, espressamente sancito dall'art. 1105 C.C..
L'unico diritto, che peraltro viene esercitato individualmente,
riconosciuto ai partecipanti del Fondo è quello relativo al
rimborso delle quote possedute, che s i sostanzia in un diritto
di credito verso la società di gestione per un importo che
varia pressochè giornalmente. Nella comunione ovviamente non
esiste nulla di analogo.
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I partecipanti, intesi come collettività, non hanno quindi
alcun diritto, tantomeno quelli che invece sono riconosciuti ai
comunisti.
Sotto il profilo della posizione giuridica del singolo si
possono rilevare ulteriori incompatibilità.
Ogni comunista, salvo patto contrario (che però ha precisi
limiti temporali), può ottenere in qualsia
si momento lo
scioglimento della comunione (art. 1111 C.C.), mentre nei Fondi
i partecipanti, nè individualmente, nè collettivamente, non
hanno il potere di provocare lo scioglimento del Fondo prima
del termine previsto dal regolamento.
Il regime civilistico della comunione infatti, basato sul
diritto di ciascuno dei partecipanti di domandare in qualunque
momento lo scioglimento del rapporto giuridico, si pone in
assoluto contrasto con le esigenze pratiche che sono alla base
dei Fondi comuni.
Quanto al regolamento, esso non è modificabile nemmeno dalla
maggioranza dei sottoscrittori, mentre lo è nel caso della
comunione.
Nei Fondi comuni di investimento infatti il regolamento viene
redatto ed approvato dalla società di gestione e
successivamente approvato dalla Banca d'Italia; il partecipante
può accettarlo o meno (sottoscrivendo o no le quote del Fondo,
ma non può apportarvi alcuna modifica.
Inoltre i membri della comunione hanno diritto a ricevere la
loro quota del bene comune in natura, salvo che la c
osa non
possa essere agevolmente divisa (art. 114 C.C.).
I partecipanti del Fondo invece hanno solo diritto al rimborso
in denaro della loro quota (art. 15 Legge n. 77/83) al momento
del riscatto ed è escluso che possano ricevere il controvalore
in titoli provenienti dal patrimonio del Fondo.
Anche questo aspetto pone in evidenza come sia del tutto
improponibile considerare il patrimonio come un bene comune dei
sottoscrittori, visto che, non solo soggettivamente ma nemmeno
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collettivamente, essi non present
figura dei comunisti.
ano alcuna analogia con la
Dal punto di vista della responsabilità personale dei
soggetti si deve rilevare poi che ai membri della comunione è
in capo una responsabilità solidale ed illimitata per le
obbligazioni sorte a causa di essa (art. 1115 C.C.). L'istituto
dei Fondi, per rendere idonei questi organismi ed attirare i
capitali dei risparmiatori, prevede al contrario la limitazione
della responsabilità alla quota detenuta dal singolo
sottoscrittore.
Si può anche aggiungere che mentre nel caso della comunione i
creditori personali del comunista possono, qualora sia
possibile effettuare la divisione, far separare la sua quota al
fine di rivalersene e su di essa esercitare il soddisfacimento
dei loro diritti, nel Fondo comune i creditori particolari del
sottoscrittore possono esercitare la loro azione sulla sua
quota (art. 3, 2 ° comma, Legge n. 77), ma non hanno alcuna
facoltà di ottenere la separazione di una parte del patrimonio
del Fondo.
L'ultima critica che si può muovere a questa teoria si basa
sulla considerazione che nei Fondi comuni di investimento si è
in mancanza di un qualsiasi accordo fra i partecipanti, i quali
anzi, proprio per come l'istituto è tecnicamente strutturato,
operano come soggetti a sè. Si prospetterebbe quindi il caso
del tutto atipico di una comunione di carattere meramente
incidentale che sorge per il fatto che una pluralità di
soggetti acquistano quote di comproprietà di titoli ed attività
finanziarie, per la ragione che hanno versato delle somme ad un
comune organismo che le gestisce nel loro collettivo interesse.
L'ipotesi di un simile tipo di comunione sorgente da rapporti
di fatto è parsa da respingere, non solo perchè non sembra
credibile alla luce della normativa che il Codice Civile
prevede circa la comunione, ma sopratutto perchè qualora il
legislatore dei Fondi avesse inteso avvalorare questa
eventualità ne avrebbe fatta esplicita menzione nel testo
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legislativo, attribuendo efficacia costitutiva a tali
situazioni di fatto multilaterali.
A questo punto sembra che le argomentazioni proposte siano
state sufficientemente articolate nel dimostrare che l'ipotesi
del Fondo come comunione dei partecipanti non si adatta nè dal
punto di vista giuridico con la disciplina civilistica che
regolamenta la materia, nè dal punto di vista funzionale date
le diverse caratteristiche strutturali che i due istituti
presentano.
L'inconciliabilità fondamentale deriva da un principio
basilare che le normative continentali hanno inteso imporre ai
Fondi: quello di separare il diritto di proprietà dalla facoltà
di amministrare e, di conseguenza, di sollevare il
sottoscrittore da ogni responsabilità di gestione.
Tale principio non trova alcun riscontro nella comunione, così
come è prevista dal nostro coordinamento giuridico.
3. Teoria della proprietà della società di gestione
L'ipotesi che il patrimonio del Fondo appartenga alla
società di gestione è nata come reazione alla teoria esaminata
nel paragrafo precedente. Se infatti si è escluso che la
proprietà dei
beni che costituiscono il Fondo spetti ai
partecipanti, è sembrato plausibile, dovendo individuare un
altro soggetto a cui assegnarla, ritenere che si trattasse
della società gerente.
Questo ragionamento, che per la verità fin dal primo approccio
appare un po' semplicistico, non ha mai avuto molto seguito da
parte della dottrina tranne alcune eccezioni, anche se in
apparenza sembrerebbe trovare conferma da alcuni elementi che
in parte avevamo già evidenziato precedentemente.
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La società di gestione infa tti è l'unico organo che ha il
potere di amministrare il patrimonio, non è sottoposta a
limitazioni della gestione o ingerenze da parte dei
partecipanti, non può essere da essi revocata, approva il
regolamento del Fondo, istituisce di propria iniziativa il
Fondo comune, ottiene l'autorizzazione in tal senso da parte
della Banca d'Italia.
Qualora si dimostrasse che quest'ipotesi è fondata ed
accettabile si semplificherebbe molto il rapporto società
gerente-partecipanti e cadrebbe ogni dubbio sulla natura
giuridica del Fondo.
L'opportunità di giungere ad una soluzione agevole del
problema non deve però trarre in inganno: il fatto che sia
semplice e comoda non comporta che sia anche corretta; anzi,
vedremo che, sulla base delle numerose critiche che le sono
state mosse e dal disposto legislativo, è da escludersi che
possa ritenersi una teoria accoglibile.
Anzitutto dobbiamo rilevare che al 2
° comma dell'art. 3
Legge
n. 77/83 il legislatore si è preoccupato di precisare
che il patrimonio del Fondo comun
e è distinto a tutti gli
effetti da quello della società di gestione. Già questo punto
solleva i primi dubbi: perchè se esso appartiene alla società
di gestione questa deve tenerlo distinto dal suo restante
patrimonio?
Evidentemente la legge ha voluto impedire che ci fosse una
commistione tra due diversi patrimoni, allo scopo di
salvaguardare gli interessi di un altro soggetto: i
partecipanti.
Ciò appare coerente con quanto enunciato nel primo comma dello
stesso articolo, in cui si precisa che la società di
gestione
investe in titoli e in altre attività finanziarie le somme
versate dai partecipanti, non il proprio patrimonio, ed
aggiunge che risponde verso questi ultimi per la gestione
secondo le regole del mandato.
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Se dunque la disciplina delinea l'ente di gestione facendo
riferimento alle caratteristiche proprie della figura del
mandatario, appare evidente che lo spirito della legge non era
certo quello di attribuire alla società la proprietà del
patrimonio del Fondo. Qualora infatti la società gerente
godesse di un diritto di proprietà esclusivo sui beni del Fondo
non vi sarebbe alcuna ragione per cui essa dovesse rispondere,
non solo ai partecipanti ma a qualsivoglia altro soggetto, per
il modo in cui li amministra.
L'art. 4 approfondisce la questione, puntualizzando che la
società di gestione esercita la sua attività nell'interesse dei
partecipanti. Le successive limitazioni gestionali esposte
nello stesso articolo hanno evidentemente lo scopo di tutelare
i sottoscrittori, quindi la difesa del risparmio che essi hanno
versato appare del tutto prioritaria, dal complesso della
normativa, rispetto ad ogni altro interesse.
Tenute presenti queste considerazioni è immediato rendersi
conto come la teoria in esame sia insufficiente a tradurre in
termini giuridici i complessi rapporti fra i vari soggetti che
sono presenti nell'istituto dei Fondi comuni.
L'ipotesi che la società gerente sia proprietaria del
patrimonio del Fondo è contestabile a questo punto con due
ordini di argomentazioni.
In primo luogo è da
rilevare come la disciplina civilistica
italiana proteggga l'interesse del soggetto a cui sta in capo
il diritto di proprietà, mentre, come si è già sottolineato,
nel caso dei Fondi la normativa prevede che la società di
gestione operi tenendo presente l'interesse dei partecipanti,
ed è appunto in quest'ottica che va vista la sua posizione
rispetto al patrimonio gestito.
Dal punto di vista degli interessi contemplati dalla legge,
tenendo anche conto della rete di controlli, di vigilanza e di
revisioni che viene prescritta dalle norme relative ai Fondi, è
del tutto evidente che l'interesse protetto è "in primis"
quello dei sottoscrittori, i quali, non dimentichiamolo, sono
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proprio coloro che forniscono i mezzi finanziari necessari a
costituire il patrimonio di valori mobiliari che la società
provvede a gestire.
In secondo luogo, anche con riferimento alle modalità di
gestione ed al contenuto dei poteri spettanti alla società
gerente, è possibile formulare delle considerazioni che
escludono l'eventualità c he essa sia titolare del diritto
soggettivo di proprietà sui beni del Fondo.
Mentre infatti generalmente il proprietario espleta i poteri
inerenti al suo diritto senza vincoli finalistici, il
legislatore ha voluto imporre alla società di gestione di
esercitare la propria attività finalizzandola al perseguimento
degli obiettivi del Fondo.
La società dunque non solo non ha la facoltà di godimento dei
beni del Fondo, ma addirittura il suo diritto di disporne è
limitato al raggiungimento di specifiche finalità indicate con
precisione dalla normativa. Gli effetti degli atti di
disposizione da essa compiuti si riflettono sui partecipanti,
non su essa medesima, per cui appare improponibile ricondurle
la titolarità del diritto di proprietà sul patrimonio del Fondo
comune.
Se poi consideriamo il fatto che l'istituto del Fondo comune
di investimento si basa su un rapporto fiduciario tra il
soggetto che fornisce i mezzi finanziari (la massa dei
sottoscrittori) e quello che li amministra nell'interesse
dell'altro (la società di gestione), appare chiaro che la
teoria in esame si pone in contraddizione con il concetto di
affidamento che sottostà a tale rapporto.
La conferma di ciò è data dal fatto che la società gerente si
fa pagare dai sottoscrittori una commissione per l'attività di
amministrazione e di negoziazione di valori mobiliari che
svolge per loro conto. E' evidente che se il patrimonio
effettivamente le appartenesse non vi sarebbe ragione per cui
essa dovesse farsi pagare dai partecipanti per gestire un
complesso di beni di sua proprietà.
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Non a caso la maggior parte delle legislazioni continentali
è concorde nel tendere alla salvaguardia del patrimonio versato
dai sottoscrittori e nel voler tutelare questo concetto di
affidamento imponendo di mantenere separate le conseguenze di
eventuali obbligazioni assunte in proprio dalla società gerente
da quelle sorgenti dall'attività del Fondo.
Precisa infatti l'art. 3, 2 ° comma, della Legge n. 77/83: "Sul
Fondo non sono ammesse azioni dei creditori della società
gerente".
In conclusione è quindi fuori dubbio che la proprietà
sostanziale dei beni che compongono il patrimonio del Fondo non
spetta alla società di gestione, la quale ne è piuttosto la
titolare formale, nel senso che ha il diritto di disporne in
modo esclusivo, ma solo per il perseguimento dei fini che sono
indicati dalla legge.
4. Teoria della soggettività del Fondo
Partendo dall'osservazione che le teorie tradizionali non
riuscivano ad identificare un soggetto giuridico (fosse esso la
collettività dei partecipanti o la società di gestione) al
quale imputare la proprietà dei beni del Fondo, alcuni autori
sono giunti alla conclusione che tale soggetto non esiste, ma
esiste solo il Fondo che si qualifica come soggetto di diritto
non personificato.
Se infatti la normativa italiana non ha voluto riconoscere al
Fondo una propria personalità giuridica, ma allo stesso tempo
lo ha reso titolare delle obbligazioni attive e passive
sorgenti in seguito alla sua gestione, è parso logico ritenere
che esso sia i n ogni modo un soggetto (titolare delle predette
obbligazioni), e quindi, essendo un patrimonio, si è ritenuto
di poterlo ricondurre alla figura della fondazione, sia pure
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non riconosciuta in quanto appunto priva di personalità
giuridica.
Il merito di questa teoria, che pure come vedremo presta il
fianco ad un certo numero di critiche, è soprattutto
metodologico:
per la prima volta si è superato il dualismo partecipanti /
società di gestione, prendendo in esame l'idea del Fondo come
soggetto a sè stante.
L'ipotesi di un istituto a struttura fondazionale
spiegherebbe la ragione per cui i partecipanti non possono
esercitare alcuna ingerenza nell'amministrazione del patrimonio
e non sono legittimati ad apportare modificazioni all'atto
costitutivo.
Inoltre si comprenderebbe perchè la società di gestione sia
responsabile verso di essi secondo le regole del mandato:
l'art. 18 C. C. relativo alle fondazioni cita infatti che gli
amministratori sono responsabili verso l'ente secondo le regole
del mandato. Pur con le debite differenze, l'analogia appare
evidente di primo acchito.
Come nel Fondo comune, nella fondazione prevale l'elemento
patrimoniale, perchè essa si costituisce per destinare allo
scopo stabilito dal fondatore un complesso di beni.
Entrambi poi sono enti di diritto privato che non rientrano
nella categoria delle società.
L'incongruenza sostanziale fra i due istituti nasce dal
fatto che le fondazioni non hanno tra i loro scopi lo
svolgimento di attività economiche, mentre è innegabile che lo
scopo esclusivo dei Fondi comuni di investimento sia proprio
quello di esercitare un'attività economica di intermediazione
finanziaria finalizzata ad ottenere un reddito, nell'interesse
dei partecipanti. Pur ammettendo che i sottoscrittori di una
fondazione non riconosciuta possano mirare ad ottenere un
proprio vantaggio economico (ma che questo sia addirittura
sancito istituzionalmente appare opinabile), non c'è dubbio che
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lo scopo del fondatore, secondo la nostra normativa, non può
che essere altruistico, m entre, applicando questo schema ai
Fondi si dovrebbe individuare, sia pure con evidenti forzature,
la figura della società gerente quale promotore, ed è
senz'altro evidente che essa non opera con spirito altruistico,
ma, al contrario, è un'impresa commerciale che persegue scopi
di lucro.
Una prima osservazione che si può avanzare riguarda il
regime di autonomia patrimoniale del Fondo. Se è innegabile che
il legislatore della Legge n. 77 abbia voluto assegnare a
questi organismi uno status di patrimoni d
istinti da quelli
degli altri organi (art. 3, comma 2 °), è altrettanto vero che
essi non dispongono di un'organizzazione autonoma rispetto alla
società di gestione che permetta loro di auto-amministrarsi.
Secondo la teoria in esame si sarebbe perciò portati a
ritenere che la società gerente non sia un soggetto distinto,
ma semplicemente un organo del soggetto "Fondo", del tutto
priva di una propria personalità giuridica. In quest'ottica
essa sarebbe solo l'amministratore della fondazione, non
un'impresa commerciale che esercita un'attività economica.
Il disposto dell'art. 1 della Legge istitutiva dei Fondi comuni
smentisce decisamente quest'ipotesi allorquando precisa che gli
enti di gestione devono essere delle società per azioni, aventi
uno specifico capitale, che hanno per oggetto esclusivo la
gestione di uno o più Fondi. Questa considerazione è suffragata
dal fatto che essa non è sottoposta a limitazioni del potere di
rappresentanza, in quanto, essendo un oggetto autonomo e non
solo un organo, gode p ienamente dei diritti che le vengono
attribuiti dalla Legge e che non possono venir limitati dal
Fondo.
Tale riflessione evidenzia come un Fondo comune di
investimento, pur godendo di autonomia patrimoniale secondo la
normativa speciale che lo regolamenta, non sia in grado di
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esercitarla autonomamente, ma necessiti di un altro soggetto
che operi in sua vece spinto da un preciso fine di lucro.
Accreditando la tesi della "soggettività" si sarebbe portati a
considerare imprenditore il Fondo stesso, ma non
si potrebbe
neppure negare la stessa qualifica alla società di gestione,
dato che essa trova nell'esercizio di tale attività (che non
svolge per fini altruistici, bensì per ritrarne un profitto) la
ragione della propria esistenza.
L'ipotesi dell'applicabilità dello schema della fondazione
all'istituto dei Fondi si rivela opinabile anche sotto il
profilo dell'azione di responsabilità verso gli amministratori.
Infatti l'art. 25 C.C. relativo alle fondazioni all'ultimo
comma recita: "Le azioni contro gli
amministratori per fatti
riguardanti la loro responsabilità devono essere autorizzate
dall'autorità governativa e sono esercitate dal commissario
straordinario, dai liquidatori o dai nuovi amministratori".
Per i Fondi comuni la situazione è diversa, in quanto l'art. 3,
5° comma, Legge n. 77 precisa che tale azione può essere
esercitata dal commissario straordinario, dai commissari
liquidatori (previa autorizzazione della Banca d'Italia) ma
anche da ciascun partecipante, nel limite del proprio
interesse.
Ciò è in contrasto con i principi che stanno alla base della
teoria della soggettività del Fondo in quanto, se l'ipotesi
della fondazione fosse corretta, l'azione di responsabilità
dovrebbe spettare all'organo stesso (ma il Fondo, come si è
detto poc'anzi, non è in grado di operare autonomamente) o
all'autorità pubblica.
Inoltre il soggetto "partecipante" non è contemplato nella
disciplina relativa alle fondazioni, eppure riveste un ruolo
del tutto preminente, ed ampiamente tutelato, nei Fondi comuni
di investimento.
Anche gli artt. 26 e 28 C.C. si rivelano del tutto
inadeguati a rappresentare giuridicamente la realtà dei Fondi:
è infatti da escludersi che l'autorità governativa possa
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imporre a questi ultimi di unificare l'amministrazione dei
propri patrimoni o addirittura di trasformare la destinazione
del patrimonio (ad esempio imponendo a più Fondi di riunirsi in
una holding e di trasformarsi in una società finanziaria).
Molte delle incongruenze che sorgono derivano probabilmente
dal fatto che esiste un ampio dibattito circa l'ammissibilità
delle fondazioni non riconosciute dal nostro ordinamento.
Il problema non ha ancora trovato una soluzione unitaria: una
parte della dottrina infatti non è propensa a riconoscere
l'esistenza di questo istituto in quanto non accetta la
discussa questione della distinzione fra personalità e
soggettività giuridica.
Un'altra parte invece accetta l'esistenza di questa figura, ma
non le riconosce una validità generale: essa, secondo
l'opinione di questi autori, deve essere
ricondotta entro
precisi limiti e riferita alle ipotesi contemplate dall'art. 39
C.C. relativo ai comitati.
Infine c'è una minoranza che ritiene tale figura meritevole di
una generale validità, ma comunque avanza grossi dubbi in
merito all'ammissibilità di una fondazione che abbia per
oggetto esclusivo l'esercizio di un'attività d'impresa,
tantopiù se si tratta di una fondazione non riconosciuta.
Le opinioni a riguardo sono largamente concordi
nell'escludere quest'ultima eventualità per le ragioni che sono
state presentate all'inizio di questo paragrafo: uno spirito
altruistico giustifica lo scopo della fondazione mentre un fine
di lucro (per la società gerente ed i partecipanti) sta alla
base dei Fondi comuni.
Voler negare questo punto significherebbe travisare il
significato che le fondazioni rivestono nel nostro ordinamento,
tentando di ricondurle a figure giuridiche, quali le Anstalten,
che ad esso sono estranee.
L'ultima critica che si può muovere a questa teoria si basa
sull'osservazione che ne lle fondazioni è previsto dal Codice
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Civile che il conferimento dei beni per raggiungere un
particolare fine, indicato dall'atto costitutivo, abbia
carattere permanente: chi ha devoluto parte del proprio
patrimonio per il raggiungimento di un certo scopo non può in
seguito chiedere che gli sia reso, tantomeno se ciò deve
dipendere dalla sua esclusiva volontà.
Nei Fondi la situazione è ben diversa: tale carattere di
permanenza è del tutto assente, a motivo delle peculiari
caratteristiche tecnico -operative ch e presentano questi
istituti finanziari.
Il legislatore infatti ha espressamente previsto che il
partecipante possa smobilizzare in ogni momento il proprio
investimento ed abbia diritto a tornare in possesso del
controvalore in denaro della propria quota in tempi contenuti .
Il patrimonio del Fondo pertanto non ha carattere permanente in
quanto varia quotidianamente per effetto dell'entrata e
dell'uscita dei sottoscrittori.
Manca inoltre, rispetto alle fondazioni, la rinuncia definitiva
del sottoscrittore ad una parte del proprio patrimonio in vista
del perseguimento di uno scopo.
Nei Fondi si ha soltanto un investimento finanziario effettuato
dal partecipante con l'intenzione di incrementare la somma
conferita e di rientrarne in possesso nei tempi da lui stesso
stabiliti, in osservanza con le disposizioni di Legge.
Dalle considerazioni sopraesposte si deduce che l'ipotesi
della soggettività del Fondo, ricondotta allo schema
fondazionale, pur presentando alcuni spunti validi, non è in
grado di offrire una
soluzione corretta e soddisfacente al
problema della natura giuridica dei Fondi comuni di
investimento.
5. Teoria del patrimonio separato
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Le teorie illustrate in precedenza, che pure si sono
rivelate utili per il contributo che hanno apportato al
dibattito sul problema in esame, sono risultate inaccettabili
per il fatto che fornivano solo risposte valide a questioni
parziali, ma non erano in grado di dare una spiegazione
coerente a tutti gli articolati aspetti presenti nei Fondi
comuni di investimento.
Le suddette teorie, pur partendo da presupposti diversi e
prospettando soluzioni diverse, presentano un elemento comune
di carattere metodologico: tutte tentano di ricondurre la
figura dei Fondi comuni entro schemi giuridici già noti.
Per fare un passo avanti nella nostra indagine quindi dobbiamo
scegliere un metodo di lavoro del tutto diverso: occorre
ammettere anzitutto che ci si trova di fronte ad un istituto
giuridico nuovo, non riconducibile a schemi già noti presenti
nel nostro ordinamento; fatto
questo si cercherà di
identificarne gli aspetti peculiari e si tenterà di formulare
una definizione della natura dei Fondi che sia in grado di
tradurre in termini giuridici la complessa realtà di rapporti e
di scopi sottostante a questi organismi.
Questo modo di procedere appare il più corretto e il più
efficace, alla luce delle elaborazioni teoriche che sono state
presentate dalla dottrina che più recentemente ha affrontato
queste tematiche.
Tale approccio peraltro trova conferma nelle intenzioni
espresse dal legislatore, quando afferma: "Circa il rilievo
sulla natura giuridica del Fondo, va rilevato che trattasi di
nuovo istituto, del quale l'autonomia patrimoniale costituisce
caratteristica essenziale, come del resto affermato
esplicitamente nel testo del provvedimento" (Relazione della 6 °
commissione permanente finanze e tesoro
disegno di legge n. 1609).
- Berlanda
- sul
Gli elementi in nostro possesso da cui partire per formulare
la teoria sono i seguenti:
1) i Fondi comuni sono istituti giuridici nuovi ed originali;
18
2) essi godono di autonomia patrimoniale;
3) i sottoscrittori non sono proprietari del patrimonio del
Fondo,
sebbene esso sia costituito grazie ai loro
conferimenti in
denaro;
4) la società di gestione ha ampi poteri di amministrazione di
tale
patrimonio, ma non ne ha la facoltà di godimento e non
ne è la
proprietaria. Essa esercita un'attività d'impresa
che si
estrinseca nel perseguimento delle finalità
istituzionali del
Fondo; a tale scopo i suoi poteri sono
funzionalmente vincolanti
nell'interesse dei partecipanti,
verso i quali essa risponde per
la gestione secondo le
regole del mandato.
Sulla base di queste considerazioni si perviene alla
seguente definizione: "La costituzione del Fondo comune
d'investimento fa sorgere un patrimonio separato (da quello
della società di gestione e dei partecipanti) qualificato dallo
scopo cui è destinato, sul quale spetta alla società di
gestione (in quanto strumento della sua attività d'impresa) la
titolarità di una situ azione giuridica reale il cui contenuto
presenta elementi propri del diritto di proprietà ma da esso si
differenzia per la presenza di un vincolo finalistico che crea
alla società l'obbligo, di cui sono beneficiari i partecipanti
al Fondo, di esercitare i poteri contenuti in quella situazione
nell'interesse di quest'ultimi".
Il punto fondamentale su cui s'impernia questa teoria è
quindi che il Fondo è un patrimonio separato, sul quale non
gravano diritti di proprietà in senso tradizionale.
Questa situaz ione reale non ha equivalenti nel nostro
ordinamento, ma d'altra parte nasce dal tentativo di adattare
un istituto giuridico, il trust, peculiare dell'ordinamento
anglosassone ad un sistema continentale di derivazione
romanistica come il nostro. Se ne deduce che la titolarità del
Fondo deve spettare alla società di gestione, dato che
costituisce lo strumento primario di cui essa si avvale
nell'esercizio della propria attività di impresa, ma questa
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titolarità è attribuita alla società nell'interesse primario
dei partecipanti e quindi non dà luogo ad un diritto
soggettivo, bensì ad una "funzione".
L'analogia più prossima che si può trovare per la situazione
della società nei confronti del Fondo è con la posizione del
trustee negli ordinamenti di common law, il che costituisce una
indubbia conferma dell'esattezza della nostra tesi, ove si
ricordi l'origine storica dell'istituto dell'investment trust e
gli scopi perseguiti dai legislatori europei nel tentativo di
riprodurne il modello.
Alcuni studiosi su questo punto hanno sollevato un'obiezione
circa l'illegittimità di una tale formulazione giuridica. Essi
hanno fatto presente che la nostra normativa si basa sul
principio che esiste un ben specificato e definito numero
(numerus clausus) di diritti reali tassativamente previsti dal
legislatore, tra i quali non è ricompresa questa particolare
figura di "titolarità funzionale" di carattere fiduciario.
Una simile critica, per quanto formalmente appaia corretta, è
sembrata da respingere in quanto pare prescindere dalle ragioni
per cui una collettività si dà un ordinamento giuridico.
E' infatti evidente che rientra tra le facoltà del legislatore
la possibilità di adeguare il diritto alle realtà che emergono
nella società, altrimenti, con il trascorrere del tempo, uno
Stato si troverebbe a disporre di una normativa che non è in
grado di soddisfare le esigenze che la collettività manifesta.
In quest'ottica appare pacifico accettare che l'autorità
legislativa possa senz'altro superare il predetto principio
mediante u na legislazione speciale ed introdurre, anche
implicitamente, nuove figure di diritti reali.
Il fatto che la società di gestione si ponga come titolare
del patrimonio del Fondo rispetto a terzi per esercitare la sua
attività economica, vincolata funzionalmente all'interesse dei
partecipanti, ha fatto sorgere delle critiche verso questa
particolare situazione giuridica. Essa infatti non ha nulla a
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che vedere con il concetto di proprietà previsto dall'art. 832
C.C., ma si pone come "titolarità funzionale"
finalizzata al
raggiungimento di un determinato scopo, sancito dalla Legge,
che viene perseguito affinchè ne traggano beneficio dei terzi
(i partecipanti) e non il soggetto a cui tale diritto sta in
capo (la società gerente).
Il Fondo quindi, privo di personalità giuridica ma dotato di
autonomia patrimoniale, risulta essere un patrimonio separato
sul quale non grava alcun diritto di proprietà in senso
stretto.
Quest'osservazione, che per quanto possa apparire ardita è
indubbiamente aderente alla realtà
che il legislatore della
Legge n. 77 ha inteso descrivere, ha suscitato la
disapprovazione di una parte della dottrina. Alcuni autori
infatti hanno ritenuto inammissibile quest'ipotesi,
argomentando che nel nostro ordinamento esiste un'unica
alternativa: o un bene è proprietà di qualcuno, oppure non
appartiene a nessuno (res nullius).
Quest'obiezione, non priva di fondamento, potrebbe forse essere
considerata insuperabile qualora si accettasse una concezione
statistica del diritto, ma in un'ottica dinamic a (che, come si
ricordava in precedenza, è corretta alla luce della volontà
espressa del legislatore) non rappresenta certo un ostacolo
invalicabile. Per giunta esistono altre situazioni giuridiche
per le quali la dottrina ha colto la necessità di superare
l'alternativa sopra citata e riconoscere che in determinate
ipotesi gli schemi normativi tradizionali non sono in grado di
fornire una rappresentazione giuridica del fenomeno aderente
alla realtà.
Qualcosa di simile era già emerso circa i comitati (ar t. 39
e segg. C.C.) allorquando era stato rilevato che la titolarità
formale, in capo ai gestori dei comitati, doveva essere
concepita in riferimento al complesso dei beni del "fondo",
che, pertanto, si connota come un "patrimonio fiduciario", con
una specifica destinazione di scopo.
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Non sembra che la mancanza di un diritto di proprietà, nella
sua eccezione tradizionale, gravante sul patrimonio del Fondo
possa creare particolari problemi dottrinali.
In particolare l'esigenza della certezza dei rapporti giuridici
è stata rispettata dalla Legge n. 77/83, la quale ha
appositamente individuato un soggetto, la società gerente, che
è funzionalmente titolare dei beni del Fondo comune nelle
relazioni giuridiche con i terzi.
La dottrina più autorevole (Marchetti) è ampiamente concorde su
questa tesi: "Da sempre, come è noto, si discute su quale sia
il rapporto fra società di gestione, partecipanti, Fondo e, in
particolare, a chi spetti la proprietà del Fondo (meglio, delle
attività che lo compongono) se esso sia d
ella società di
gestione ovvero una comproprietà dei partecipanti. In
conformità dell'opinione dominante, che corrisponde anche alla
tradizione dell'istituto che nasce nel mondo anglosassone, la
titolarità del Fondo è per la nostra Legge attribuita alla
società di gestione nell'interesse, tuttavia, dei singoli
partecipanti. Se ne deduce che si tratta di una particolare
forma di proprietà fiduciaria".
Alla medesima conclusione peraltro era già giunta da tempo
la dottrina di taluni ordinamenti giuridici l atino-americani.
Anche nel caso di questi paesi infatti si era posto il problema
di formulare una disciplina che, al tempo stesso, fosse il più
possibile fedele al modello del trust e potesse inserirsi,
con una certa coerenza di principi, nel sistema preesistente.
La questione era stata risolta introducendo la figura del
fideicomiso, definibile come un "mandato irrevocabile" in forza
del quale si giunge alla "costituzione di un patrimonio
autonomo, con destinazione unitaria dei beni che lo compongono
ad un determinato scopo".
Il risultato era fondamentalmente quello espresso dalla
dottrina italiana, sia pure con sfumature leggermente diverse:
"... una volta identificato nel fideicomiso un negozio
fiduciario tipico, legislativamente previsto, traslativo del
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diritto di proprietà soggetto, tuttavia (sempre per espressa
disposizione di legge), a limiti temporanei e di esercizio, non
si vede quale ostacolo possa rimanere ad ammettere francamente
l'esistenza di una proprietà fiduciaria" (Jaeger, La
separazione del patrimonio fiduciario nel fallimento).
Sulla base dei concetti sopraesposti sembra ora giunto il
momento di esprimere una valutazione complessiva su queste
tematiche.
Da un esame generale della Legge n. 77/83 pare che il
legislatore, proprio perchè conscio di istituire una nuova
figura giuridica con tutte le conseguenze che ne derivano, si
sia preoccupato di formulare una disciplina precisa e rigorosa,
stabilendo i diritti e gli obblighi dei soggetti interessati
dai rapporti sorgenti in conseguenza all
'attività dei Fondi
comuni e tutelando adeguatamente tutti coloro che, per diverse
ragioni, volontariamente o meno, sono coinvolti dall'operato di
questi istituti.
La normativa in questione ha il pregio di essere stata
concepita tenendo ben presenti le situazioni reali che ne
sarebbero potute derivare, per questo l'ipotesi del Fondo come
patrimonio separato appare credibile alla luce della realtà
operativa e dei rapporti di diritto che l'esperienza dei Fondi
in Italia ha suscitato.
Sicuramente il legisl atore avrebbe fatto meglio ad indicare
esplicitamente quale natura giuridica intendesse assegnare ai
Fondi comuni di investimento e quali fossero i diritti reali ad
esso inerenti; ciò avrebbe fugato molte perplessità espresse
dalla dottrina e chiarito alcuni dubbi interpretativi.
In ogni caso ritengo che, stante l'attuale normativa, la teoria
qui presentata risulti essere l'unica meritevole di
accoglimento in quanto, meglio delle altre, riesce ad
interpretare la sostanza della volontà legislativa per tradurla
in modo non riduttivo in uno schema giuridico nuovo, aderente
alla realtà economica attuale.
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6. Conclusioni
La soluzione prospettata, come si è visto, si fonda sulla
necessità di individuare, per definire la situazione giuridica
del Fondo d'investimento, un diritto reale atipico che possa
consentire una dissociazione fra proprietà legale e proprietà
formale, ponendosi come elemento eversivo rispetto al citato
"numerus clausus".
Tale riflessione apre la strada ad una problematica di
notevole portata e di grande attualità: il recepimento
dell'istituto giuridico del trust nel nostro ordinamento
civilistico, a seguito della Convenzione de l'Aja del 1 ° Luglio
1985, ratificata con la Legge 16/10/1989, n. 364 ed entrata in
vigore il 1° Gennaio 1992.
La figura giuridica del trust esula dagli ambiti del presente
lavoro e sarà prossimamente oggetto di uno specifico studio
monografico. Basterà qui ricordare che da tale istituto possono
derivare importanti conseguenze ed applicazioni in materia
tributaria, nel diritto successorio e nella tutela giuridica di
patrimoni privati.
Sulla base dei concetti precedentemente sviluppati è quindi
possibile formulare le seguenti risposte ai quesiti che ci
eravamo posti all'inizio della trattazione:
1) Il patrimonio del Fondo non ha alcun proprietario in senso
stretto. Su di esso grava un diritto reale atipico
caratterizzato dallo sdoppiamento del diritto di proprietà allo
scopo di tutelare i partecipanti e di imporre alla società di
gestione un vincolo finalistico al quale conformare il proprio
operato.
2) Il Fondo è un patrimonio separato, con una specifica
destinazione (l'investimento in valori mobiliari) ed è privo di
personalità giuridica.
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3) Nell'ipotesi di insolvenza della società di gestione il
patrimonio del Fondo non può essere aggredito dai creditori.
A tale proposito il legislatore ha espressamente sancito che il
patrimonio del Fondo comune è distinto a tutti gli effetti da
quello della società di gestione, pertanto, trattandosi di
patrimonio separato, e
sso rimane a disposizione dei
partecipanti indipendentemente dalle vicende che possano
coinvolgere la società gerente.
LB = Luca Bisceglie
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