IL PATRIMONIO DEL FONDO COMUNE D'INVESTIMENTO MOBILIARE Sommario 1. Introduzione 2. Teoria della comunione 3. Teoria della proprietà della società di gestione 4. Teoria della soggettività del Fondo 5. Teoria del patrimonio separato 6. Conclusioni 1. Introduzione In quest'ultimo decennio la drastica riduzione dei tassi d'interesse e la profonda evoluzione dei mercati finanziari hanno spinto i risparmiatori e le imprese italiane a modificare significativamente le loro politiche d'investimento. Molti di coloro che un tempo erano chiamati i "BOT people", gli irriducibili investitori in titoli di Stato (titoli che in effetti allora garantivano rendimenti elevati in condizioni di assenza di rischio), oggi investono prevalentemente in azioni ed in Fondi comuni d'investimento, acquistano obbligazioni strutturate ad alta redditività emesse da paesi emergenti, sottoscrivono polizze di assicurazione sulla vita con rendimenti parametrati agli indici delle principali Borse mondiali e talora effettuano direttamente i loro investimenti sui mercati finanziari internazionali tramite gli strumenti telematici che vanno sempre più diffondendosi fra le famiglie. Si tratta di una silenziosa "rivoluzione finanziaria" ch e ha radicalmente trasformato la figura del risparmiatore medio italiano il quale, nel contesto storico -economico sopra descritto, ha progressivamente ridotto la tradizionale propensione al risparmio ed incrementato, per contro, la propensione al rischio al fine di ottenere una remunerazione del proprio capitale ritenuta soddisfacente. Anche le imprese hanno modificato nel medesimo senso le proprie strategie d'investimento finanziario: i classici BOT e CCT sono stati rapidamente sostituiti da "pronti co ntro termine", Fondi d'investimento (talvolta con specializzazione settoriale) ed azioni. Rivolgendosi agli investitori istituzionali, alle imprese ed ai grossi investitori privati, sono in arrivo a breve nel nostro Paese anche gli "Hedge Funds", i Fondi d'investimento ad alto rischio che operano professionalmente con politiche fortemente speculative sfruttando l'effetto della leva finanziaria. La nota e recente vicenda del gigantesco dissesto del LTCM (Long Term Capital Management), uno dei principali hedge funds operante a livello mondiale, sta a dimostrare che non sempre il perseguimento del rendimento più elevato, direttamente correlato ad un altissimo livello di rischio, si rivela una scelta vincente. L'investitore accorto ed evoluto infatti non è alla ricerca della massima redditività in senso assoluto, ma si orienta piuttosto verso strumenti finanziari che garantiscono un corretto rapporto fra rischio e rendimento e conseguono delle 2 performances giudicate positive in relazione al benchmark di riferimento. Conformemente all'antico e saggio principio "conoscere per decidere", per effettuare delle scelte d'investimento razionali e consapevoli è necessario conoscere approfonditamente gli strumenti finanziari ai quali ci si rivolge, sia sotto il profilo operativo che sotto l'aspetto giuridico. Solo in questo modo è possibile valutare compiutamente il livello di rischio in relazione al rendimento atteso. Lo scopo del presente lavoro è quello di analizzare sotto il profilo giuridico la figura del p atrimonio dei Fondi comuni d'investimento di diritto italiano per fornire una risposta a tre importanti questioni: 1) chi è il proprietario del patrimonio del Fondo; 2) qual'è la natura giuridica del Fondo; 3) che ne è del patrimonio del Fondo nell'ipotesi di insolvenza della società che lo gestisce. 2. Teoria della comunione La prima ipotesi che è stata formulata, alla luce dei primi progetti legislativi che erano stati elaborati in Italia e tenuto conto altresì dell'art. 1 del decreto francese 57 -1342 del 28 dicembre 1957, è quella secondo cui, se la società di gestione provvede a gestire il Fondo nell'interesse dei partecipanti, sembra logico ritenere che il patrimonio appartenga a questi ultimi. Ponendosi in quest'ottica i sottoscrittori risulterebbero essere comproprietari dei valori mobiliari che costituiscono il Fondo, ciascuno secondo le quote corrispondenti alla somma di denaro conferita. 3 Tale opinione riconduce l'istituto nello schema della comunione, regolamentata dal nostro Codice Civ ile dagli artt. 1100 e seguenti. In questo modo si è pensato di poter assimilare il negozio dell'investment trust ad una figura giuridica largamente radicata nel diritto dei Paesi continentali, riconoscendo la proprietà del patrimonio del Fondo ad una collettività di soggetti distinti dall'ente di gestione, in modo da poter giustificare il fatto che tale patrimonio sia separato da quello della società gerente. Questo spiegherebbe anche il perchè la società di gestione sia tenuta a rispondere ai partecipanti per la gestione secondo le regole del mandato: evidentemente se la proprietà del patrimonio è in capo ai comunisti, è loro facoltà stipulare un contratto di mandato (art. 1703 C.C.) con la società affinchè essa amministri il bene comune in loro nome e per loro conto. La teoria in esame è stata ampiamente dibattuta e criticata da parte della più autorevole dottrina ed oggi appare completamente abbandonata. Le critiche che le si possono muovere sono numerose e fondate, ed un esame approfondito dimostra c ome essa non sia credibile sotto molti aspetti e non possa perciò risultare accoglibile. Anzitutto occorre sottolineare il diverso scopo che soggiace ai Fondi comuni di investimento ed alla comunione. In quest'ultima infatti i singoli soggetti mettono in comune uno o più beni, al fine di trarne i frutti e/o le utilità che essi sono in grado di fornire naturalmente, a prescindere dal fatto che con essi venga esercitata o meno un'attività (mero godimento della res communis). Ben diversamente stanno le cos e nel caso dei Fondi comuni di investimento. Infatti i beni che vengono conferiti dai partecipanti (le somme versate al momento dell'entrata nel Fondo) non rappresentano direttamente l'oggetto del godimento, il quale è invece costituito dalla ricchezza che si forma in 4 seguito all'investimento ed alla gestione economica del patrimonio. Quindi, mentre nel caso della comunione si contempla una situazione statica, o comunque non necessariamente dinamica, riguardo ai Fondi comuni il fine del godimento si sostanz ia in un'attività esclusivamente dinamica. In caso contrario non solo si andrebbe contro il dettato legislativo quando afferma che le somme versate dai partecipanti devono essere investite in titoli e in altre attività finanziarie, ma addirittura verrebbe meno lo scopo della società di gestione, la quale invece è stata attentamente regolamentata dal legislatore. E' evidente che già da questa prima considerazione emerge l'incompatibilità fra i due istituti, ma ne esistono altre, forse più profonde, che si riferiscono alla posizione giuridica dei partecipanti. In particolare, nel caso della comunione, i comunisti hanno la proprietà della cosa, in parte a titolo individuale ed in parte a titolo collettivo, con i conseguenti diritti di disporne e di amministrarla. Relativamente ai Fondi comuni di investimento la posizione dei partecipanti è affatto diversa. Essi non solo non sono legittimati a disporre e ad amministrare il patrimonio del Fondo (nè come collettività nè tantomeno come singoli), ma non possono n emmeno influire sull'attività svolta dalla società gerente. Ciò è in evidente contrasto con i principi della comunione, in cui, anche nell'ipotesi che la gestione della cosa venga affidata a terzi, rimane ai comunisti sia il potere di revoca, sia sopratutto quello di indirizzo dell'attività amministrativa, espressamente sancito dall'art. 1105 C.C.. L'unico diritto, che peraltro viene esercitato individualmente, riconosciuto ai partecipanti del Fondo è quello relativo al rimborso delle quote possedute, che s i sostanzia in un diritto di credito verso la società di gestione per un importo che varia pressochè giornalmente. Nella comunione ovviamente non esiste nulla di analogo. 5 I partecipanti, intesi come collettività, non hanno quindi alcun diritto, tantomeno quelli che invece sono riconosciuti ai comunisti. Sotto il profilo della posizione giuridica del singolo si possono rilevare ulteriori incompatibilità. Ogni comunista, salvo patto contrario (che però ha precisi limiti temporali), può ottenere in qualsia si momento lo scioglimento della comunione (art. 1111 C.C.), mentre nei Fondi i partecipanti, nè individualmente, nè collettivamente, non hanno il potere di provocare lo scioglimento del Fondo prima del termine previsto dal regolamento. Il regime civilistico della comunione infatti, basato sul diritto di ciascuno dei partecipanti di domandare in qualunque momento lo scioglimento del rapporto giuridico, si pone in assoluto contrasto con le esigenze pratiche che sono alla base dei Fondi comuni. Quanto al regolamento, esso non è modificabile nemmeno dalla maggioranza dei sottoscrittori, mentre lo è nel caso della comunione. Nei Fondi comuni di investimento infatti il regolamento viene redatto ed approvato dalla società di gestione e successivamente approvato dalla Banca d'Italia; il partecipante può accettarlo o meno (sottoscrivendo o no le quote del Fondo, ma non può apportarvi alcuna modifica. Inoltre i membri della comunione hanno diritto a ricevere la loro quota del bene comune in natura, salvo che la c osa non possa essere agevolmente divisa (art. 114 C.C.). I partecipanti del Fondo invece hanno solo diritto al rimborso in denaro della loro quota (art. 15 Legge n. 77/83) al momento del riscatto ed è escluso che possano ricevere il controvalore in titoli provenienti dal patrimonio del Fondo. Anche questo aspetto pone in evidenza come sia del tutto improponibile considerare il patrimonio come un bene comune dei sottoscrittori, visto che, non solo soggettivamente ma nemmeno 6 collettivamente, essi non present figura dei comunisti. ano alcuna analogia con la Dal punto di vista della responsabilità personale dei soggetti si deve rilevare poi che ai membri della comunione è in capo una responsabilità solidale ed illimitata per le obbligazioni sorte a causa di essa (art. 1115 C.C.). L'istituto dei Fondi, per rendere idonei questi organismi ed attirare i capitali dei risparmiatori, prevede al contrario la limitazione della responsabilità alla quota detenuta dal singolo sottoscrittore. Si può anche aggiungere che mentre nel caso della comunione i creditori personali del comunista possono, qualora sia possibile effettuare la divisione, far separare la sua quota al fine di rivalersene e su di essa esercitare il soddisfacimento dei loro diritti, nel Fondo comune i creditori particolari del sottoscrittore possono esercitare la loro azione sulla sua quota (art. 3, 2 ° comma, Legge n. 77), ma non hanno alcuna facoltà di ottenere la separazione di una parte del patrimonio del Fondo. L'ultima critica che si può muovere a questa teoria si basa sulla considerazione che nei Fondi comuni di investimento si è in mancanza di un qualsiasi accordo fra i partecipanti, i quali anzi, proprio per come l'istituto è tecnicamente strutturato, operano come soggetti a sè. Si prospetterebbe quindi il caso del tutto atipico di una comunione di carattere meramente incidentale che sorge per il fatto che una pluralità di soggetti acquistano quote di comproprietà di titoli ed attività finanziarie, per la ragione che hanno versato delle somme ad un comune organismo che le gestisce nel loro collettivo interesse. L'ipotesi di un simile tipo di comunione sorgente da rapporti di fatto è parsa da respingere, non solo perchè non sembra credibile alla luce della normativa che il Codice Civile prevede circa la comunione, ma sopratutto perchè qualora il legislatore dei Fondi avesse inteso avvalorare questa eventualità ne avrebbe fatta esplicita menzione nel testo 7 legislativo, attribuendo efficacia costitutiva a tali situazioni di fatto multilaterali. A questo punto sembra che le argomentazioni proposte siano state sufficientemente articolate nel dimostrare che l'ipotesi del Fondo come comunione dei partecipanti non si adatta nè dal punto di vista giuridico con la disciplina civilistica che regolamenta la materia, nè dal punto di vista funzionale date le diverse caratteristiche strutturali che i due istituti presentano. L'inconciliabilità fondamentale deriva da un principio basilare che le normative continentali hanno inteso imporre ai Fondi: quello di separare il diritto di proprietà dalla facoltà di amministrare e, di conseguenza, di sollevare il sottoscrittore da ogni responsabilità di gestione. Tale principio non trova alcun riscontro nella comunione, così come è prevista dal nostro coordinamento giuridico. 3. Teoria della proprietà della società di gestione L'ipotesi che il patrimonio del Fondo appartenga alla società di gestione è nata come reazione alla teoria esaminata nel paragrafo precedente. Se infatti si è escluso che la proprietà dei beni che costituiscono il Fondo spetti ai partecipanti, è sembrato plausibile, dovendo individuare un altro soggetto a cui assegnarla, ritenere che si trattasse della società gerente. Questo ragionamento, che per la verità fin dal primo approccio appare un po' semplicistico, non ha mai avuto molto seguito da parte della dottrina tranne alcune eccezioni, anche se in apparenza sembrerebbe trovare conferma da alcuni elementi che in parte avevamo già evidenziato precedentemente. 8 La società di gestione infa tti è l'unico organo che ha il potere di amministrare il patrimonio, non è sottoposta a limitazioni della gestione o ingerenze da parte dei partecipanti, non può essere da essi revocata, approva il regolamento del Fondo, istituisce di propria iniziativa il Fondo comune, ottiene l'autorizzazione in tal senso da parte della Banca d'Italia. Qualora si dimostrasse che quest'ipotesi è fondata ed accettabile si semplificherebbe molto il rapporto società gerente-partecipanti e cadrebbe ogni dubbio sulla natura giuridica del Fondo. L'opportunità di giungere ad una soluzione agevole del problema non deve però trarre in inganno: il fatto che sia semplice e comoda non comporta che sia anche corretta; anzi, vedremo che, sulla base delle numerose critiche che le sono state mosse e dal disposto legislativo, è da escludersi che possa ritenersi una teoria accoglibile. Anzitutto dobbiamo rilevare che al 2 ° comma dell'art. 3 Legge n. 77/83 il legislatore si è preoccupato di precisare che il patrimonio del Fondo comun e è distinto a tutti gli effetti da quello della società di gestione. Già questo punto solleva i primi dubbi: perchè se esso appartiene alla società di gestione questa deve tenerlo distinto dal suo restante patrimonio? Evidentemente la legge ha voluto impedire che ci fosse una commistione tra due diversi patrimoni, allo scopo di salvaguardare gli interessi di un altro soggetto: i partecipanti. Ciò appare coerente con quanto enunciato nel primo comma dello stesso articolo, in cui si precisa che la società di gestione investe in titoli e in altre attività finanziarie le somme versate dai partecipanti, non il proprio patrimonio, ed aggiunge che risponde verso questi ultimi per la gestione secondo le regole del mandato. 9 Se dunque la disciplina delinea l'ente di gestione facendo riferimento alle caratteristiche proprie della figura del mandatario, appare evidente che lo spirito della legge non era certo quello di attribuire alla società la proprietà del patrimonio del Fondo. Qualora infatti la società gerente godesse di un diritto di proprietà esclusivo sui beni del Fondo non vi sarebbe alcuna ragione per cui essa dovesse rispondere, non solo ai partecipanti ma a qualsivoglia altro soggetto, per il modo in cui li amministra. L'art. 4 approfondisce la questione, puntualizzando che la società di gestione esercita la sua attività nell'interesse dei partecipanti. Le successive limitazioni gestionali esposte nello stesso articolo hanno evidentemente lo scopo di tutelare i sottoscrittori, quindi la difesa del risparmio che essi hanno versato appare del tutto prioritaria, dal complesso della normativa, rispetto ad ogni altro interesse. Tenute presenti queste considerazioni è immediato rendersi conto come la teoria in esame sia insufficiente a tradurre in termini giuridici i complessi rapporti fra i vari soggetti che sono presenti nell'istituto dei Fondi comuni. L'ipotesi che la società gerente sia proprietaria del patrimonio del Fondo è contestabile a questo punto con due ordini di argomentazioni. In primo luogo è da rilevare come la disciplina civilistica italiana proteggga l'interesse del soggetto a cui sta in capo il diritto di proprietà, mentre, come si è già sottolineato, nel caso dei Fondi la normativa prevede che la società di gestione operi tenendo presente l'interesse dei partecipanti, ed è appunto in quest'ottica che va vista la sua posizione rispetto al patrimonio gestito. Dal punto di vista degli interessi contemplati dalla legge, tenendo anche conto della rete di controlli, di vigilanza e di revisioni che viene prescritta dalle norme relative ai Fondi, è del tutto evidente che l'interesse protetto è "in primis" quello dei sottoscrittori, i quali, non dimentichiamolo, sono 10 proprio coloro che forniscono i mezzi finanziari necessari a costituire il patrimonio di valori mobiliari che la società provvede a gestire. In secondo luogo, anche con riferimento alle modalità di gestione ed al contenuto dei poteri spettanti alla società gerente, è possibile formulare delle considerazioni che escludono l'eventualità c he essa sia titolare del diritto soggettivo di proprietà sui beni del Fondo. Mentre infatti generalmente il proprietario espleta i poteri inerenti al suo diritto senza vincoli finalistici, il legislatore ha voluto imporre alla società di gestione di esercitare la propria attività finalizzandola al perseguimento degli obiettivi del Fondo. La società dunque non solo non ha la facoltà di godimento dei beni del Fondo, ma addirittura il suo diritto di disporne è limitato al raggiungimento di specifiche finalità indicate con precisione dalla normativa. Gli effetti degli atti di disposizione da essa compiuti si riflettono sui partecipanti, non su essa medesima, per cui appare improponibile ricondurle la titolarità del diritto di proprietà sul patrimonio del Fondo comune. Se poi consideriamo il fatto che l'istituto del Fondo comune di investimento si basa su un rapporto fiduciario tra il soggetto che fornisce i mezzi finanziari (la massa dei sottoscrittori) e quello che li amministra nell'interesse dell'altro (la società di gestione), appare chiaro che la teoria in esame si pone in contraddizione con il concetto di affidamento che sottostà a tale rapporto. La conferma di ciò è data dal fatto che la società gerente si fa pagare dai sottoscrittori una commissione per l'attività di amministrazione e di negoziazione di valori mobiliari che svolge per loro conto. E' evidente che se il patrimonio effettivamente le appartenesse non vi sarebbe ragione per cui essa dovesse farsi pagare dai partecipanti per gestire un complesso di beni di sua proprietà. 11 Non a caso la maggior parte delle legislazioni continentali è concorde nel tendere alla salvaguardia del patrimonio versato dai sottoscrittori e nel voler tutelare questo concetto di affidamento imponendo di mantenere separate le conseguenze di eventuali obbligazioni assunte in proprio dalla società gerente da quelle sorgenti dall'attività del Fondo. Precisa infatti l'art. 3, 2 ° comma, della Legge n. 77/83: "Sul Fondo non sono ammesse azioni dei creditori della società gerente". In conclusione è quindi fuori dubbio che la proprietà sostanziale dei beni che compongono il patrimonio del Fondo non spetta alla società di gestione, la quale ne è piuttosto la titolare formale, nel senso che ha il diritto di disporne in modo esclusivo, ma solo per il perseguimento dei fini che sono indicati dalla legge. 4. Teoria della soggettività del Fondo Partendo dall'osservazione che le teorie tradizionali non riuscivano ad identificare un soggetto giuridico (fosse esso la collettività dei partecipanti o la società di gestione) al quale imputare la proprietà dei beni del Fondo, alcuni autori sono giunti alla conclusione che tale soggetto non esiste, ma esiste solo il Fondo che si qualifica come soggetto di diritto non personificato. Se infatti la normativa italiana non ha voluto riconoscere al Fondo una propria personalità giuridica, ma allo stesso tempo lo ha reso titolare delle obbligazioni attive e passive sorgenti in seguito alla sua gestione, è parso logico ritenere che esso sia i n ogni modo un soggetto (titolare delle predette obbligazioni), e quindi, essendo un patrimonio, si è ritenuto di poterlo ricondurre alla figura della fondazione, sia pure 12 non riconosciuta in quanto appunto priva di personalità giuridica. Il merito di questa teoria, che pure come vedremo presta il fianco ad un certo numero di critiche, è soprattutto metodologico: per la prima volta si è superato il dualismo partecipanti / società di gestione, prendendo in esame l'idea del Fondo come soggetto a sè stante. L'ipotesi di un istituto a struttura fondazionale spiegherebbe la ragione per cui i partecipanti non possono esercitare alcuna ingerenza nell'amministrazione del patrimonio e non sono legittimati ad apportare modificazioni all'atto costitutivo. Inoltre si comprenderebbe perchè la società di gestione sia responsabile verso di essi secondo le regole del mandato: l'art. 18 C. C. relativo alle fondazioni cita infatti che gli amministratori sono responsabili verso l'ente secondo le regole del mandato. Pur con le debite differenze, l'analogia appare evidente di primo acchito. Come nel Fondo comune, nella fondazione prevale l'elemento patrimoniale, perchè essa si costituisce per destinare allo scopo stabilito dal fondatore un complesso di beni. Entrambi poi sono enti di diritto privato che non rientrano nella categoria delle società. L'incongruenza sostanziale fra i due istituti nasce dal fatto che le fondazioni non hanno tra i loro scopi lo svolgimento di attività economiche, mentre è innegabile che lo scopo esclusivo dei Fondi comuni di investimento sia proprio quello di esercitare un'attività economica di intermediazione finanziaria finalizzata ad ottenere un reddito, nell'interesse dei partecipanti. Pur ammettendo che i sottoscrittori di una fondazione non riconosciuta possano mirare ad ottenere un proprio vantaggio economico (ma che questo sia addirittura sancito istituzionalmente appare opinabile), non c'è dubbio che 13 lo scopo del fondatore, secondo la nostra normativa, non può che essere altruistico, m entre, applicando questo schema ai Fondi si dovrebbe individuare, sia pure con evidenti forzature, la figura della società gerente quale promotore, ed è senz'altro evidente che essa non opera con spirito altruistico, ma, al contrario, è un'impresa commerciale che persegue scopi di lucro. Una prima osservazione che si può avanzare riguarda il regime di autonomia patrimoniale del Fondo. Se è innegabile che il legislatore della Legge n. 77 abbia voluto assegnare a questi organismi uno status di patrimoni d istinti da quelli degli altri organi (art. 3, comma 2 °), è altrettanto vero che essi non dispongono di un'organizzazione autonoma rispetto alla società di gestione che permetta loro di auto-amministrarsi. Secondo la teoria in esame si sarebbe perciò portati a ritenere che la società gerente non sia un soggetto distinto, ma semplicemente un organo del soggetto "Fondo", del tutto priva di una propria personalità giuridica. In quest'ottica essa sarebbe solo l'amministratore della fondazione, non un'impresa commerciale che esercita un'attività economica. Il disposto dell'art. 1 della Legge istitutiva dei Fondi comuni smentisce decisamente quest'ipotesi allorquando precisa che gli enti di gestione devono essere delle società per azioni, aventi uno specifico capitale, che hanno per oggetto esclusivo la gestione di uno o più Fondi. Questa considerazione è suffragata dal fatto che essa non è sottoposta a limitazioni del potere di rappresentanza, in quanto, essendo un oggetto autonomo e non solo un organo, gode p ienamente dei diritti che le vengono attribuiti dalla Legge e che non possono venir limitati dal Fondo. Tale riflessione evidenzia come un Fondo comune di investimento, pur godendo di autonomia patrimoniale secondo la normativa speciale che lo regolamenta, non sia in grado di 14 esercitarla autonomamente, ma necessiti di un altro soggetto che operi in sua vece spinto da un preciso fine di lucro. Accreditando la tesi della "soggettività" si sarebbe portati a considerare imprenditore il Fondo stesso, ma non si potrebbe neppure negare la stessa qualifica alla società di gestione, dato che essa trova nell'esercizio di tale attività (che non svolge per fini altruistici, bensì per ritrarne un profitto) la ragione della propria esistenza. L'ipotesi dell'applicabilità dello schema della fondazione all'istituto dei Fondi si rivela opinabile anche sotto il profilo dell'azione di responsabilità verso gli amministratori. Infatti l'art. 25 C.C. relativo alle fondazioni all'ultimo comma recita: "Le azioni contro gli amministratori per fatti riguardanti la loro responsabilità devono essere autorizzate dall'autorità governativa e sono esercitate dal commissario straordinario, dai liquidatori o dai nuovi amministratori". Per i Fondi comuni la situazione è diversa, in quanto l'art. 3, 5° comma, Legge n. 77 precisa che tale azione può essere esercitata dal commissario straordinario, dai commissari liquidatori (previa autorizzazione della Banca d'Italia) ma anche da ciascun partecipante, nel limite del proprio interesse. Ciò è in contrasto con i principi che stanno alla base della teoria della soggettività del Fondo in quanto, se l'ipotesi della fondazione fosse corretta, l'azione di responsabilità dovrebbe spettare all'organo stesso (ma il Fondo, come si è detto poc'anzi, non è in grado di operare autonomamente) o all'autorità pubblica. Inoltre il soggetto "partecipante" non è contemplato nella disciplina relativa alle fondazioni, eppure riveste un ruolo del tutto preminente, ed ampiamente tutelato, nei Fondi comuni di investimento. Anche gli artt. 26 e 28 C.C. si rivelano del tutto inadeguati a rappresentare giuridicamente la realtà dei Fondi: è infatti da escludersi che l'autorità governativa possa 15 imporre a questi ultimi di unificare l'amministrazione dei propri patrimoni o addirittura di trasformare la destinazione del patrimonio (ad esempio imponendo a più Fondi di riunirsi in una holding e di trasformarsi in una società finanziaria). Molte delle incongruenze che sorgono derivano probabilmente dal fatto che esiste un ampio dibattito circa l'ammissibilità delle fondazioni non riconosciute dal nostro ordinamento. Il problema non ha ancora trovato una soluzione unitaria: una parte della dottrina infatti non è propensa a riconoscere l'esistenza di questo istituto in quanto non accetta la discussa questione della distinzione fra personalità e soggettività giuridica. Un'altra parte invece accetta l'esistenza di questa figura, ma non le riconosce una validità generale: essa, secondo l'opinione di questi autori, deve essere ricondotta entro precisi limiti e riferita alle ipotesi contemplate dall'art. 39 C.C. relativo ai comitati. Infine c'è una minoranza che ritiene tale figura meritevole di una generale validità, ma comunque avanza grossi dubbi in merito all'ammissibilità di una fondazione che abbia per oggetto esclusivo l'esercizio di un'attività d'impresa, tantopiù se si tratta di una fondazione non riconosciuta. Le opinioni a riguardo sono largamente concordi nell'escludere quest'ultima eventualità per le ragioni che sono state presentate all'inizio di questo paragrafo: uno spirito altruistico giustifica lo scopo della fondazione mentre un fine di lucro (per la società gerente ed i partecipanti) sta alla base dei Fondi comuni. Voler negare questo punto significherebbe travisare il significato che le fondazioni rivestono nel nostro ordinamento, tentando di ricondurle a figure giuridiche, quali le Anstalten, che ad esso sono estranee. L'ultima critica che si può muovere a questa teoria si basa sull'osservazione che ne lle fondazioni è previsto dal Codice 16 Civile che il conferimento dei beni per raggiungere un particolare fine, indicato dall'atto costitutivo, abbia carattere permanente: chi ha devoluto parte del proprio patrimonio per il raggiungimento di un certo scopo non può in seguito chiedere che gli sia reso, tantomeno se ciò deve dipendere dalla sua esclusiva volontà. Nei Fondi la situazione è ben diversa: tale carattere di permanenza è del tutto assente, a motivo delle peculiari caratteristiche tecnico -operative ch e presentano questi istituti finanziari. Il legislatore infatti ha espressamente previsto che il partecipante possa smobilizzare in ogni momento il proprio investimento ed abbia diritto a tornare in possesso del controvalore in denaro della propria quota in tempi contenuti . Il patrimonio del Fondo pertanto non ha carattere permanente in quanto varia quotidianamente per effetto dell'entrata e dell'uscita dei sottoscrittori. Manca inoltre, rispetto alle fondazioni, la rinuncia definitiva del sottoscrittore ad una parte del proprio patrimonio in vista del perseguimento di uno scopo. Nei Fondi si ha soltanto un investimento finanziario effettuato dal partecipante con l'intenzione di incrementare la somma conferita e di rientrarne in possesso nei tempi da lui stesso stabiliti, in osservanza con le disposizioni di Legge. Dalle considerazioni sopraesposte si deduce che l'ipotesi della soggettività del Fondo, ricondotta allo schema fondazionale, pur presentando alcuni spunti validi, non è in grado di offrire una soluzione corretta e soddisfacente al problema della natura giuridica dei Fondi comuni di investimento. 5. Teoria del patrimonio separato 17 Le teorie illustrate in precedenza, che pure si sono rivelate utili per il contributo che hanno apportato al dibattito sul problema in esame, sono risultate inaccettabili per il fatto che fornivano solo risposte valide a questioni parziali, ma non erano in grado di dare una spiegazione coerente a tutti gli articolati aspetti presenti nei Fondi comuni di investimento. Le suddette teorie, pur partendo da presupposti diversi e prospettando soluzioni diverse, presentano un elemento comune di carattere metodologico: tutte tentano di ricondurre la figura dei Fondi comuni entro schemi giuridici già noti. Per fare un passo avanti nella nostra indagine quindi dobbiamo scegliere un metodo di lavoro del tutto diverso: occorre ammettere anzitutto che ci si trova di fronte ad un istituto giuridico nuovo, non riconducibile a schemi già noti presenti nel nostro ordinamento; fatto questo si cercherà di identificarne gli aspetti peculiari e si tenterà di formulare una definizione della natura dei Fondi che sia in grado di tradurre in termini giuridici la complessa realtà di rapporti e di scopi sottostante a questi organismi. Questo modo di procedere appare il più corretto e il più efficace, alla luce delle elaborazioni teoriche che sono state presentate dalla dottrina che più recentemente ha affrontato queste tematiche. Tale approccio peraltro trova conferma nelle intenzioni espresse dal legislatore, quando afferma: "Circa il rilievo sulla natura giuridica del Fondo, va rilevato che trattasi di nuovo istituto, del quale l'autonomia patrimoniale costituisce caratteristica essenziale, come del resto affermato esplicitamente nel testo del provvedimento" (Relazione della 6 ° commissione permanente finanze e tesoro disegno di legge n. 1609). - Berlanda - sul Gli elementi in nostro possesso da cui partire per formulare la teoria sono i seguenti: 1) i Fondi comuni sono istituti giuridici nuovi ed originali; 18 2) essi godono di autonomia patrimoniale; 3) i sottoscrittori non sono proprietari del patrimonio del Fondo, sebbene esso sia costituito grazie ai loro conferimenti in denaro; 4) la società di gestione ha ampi poteri di amministrazione di tale patrimonio, ma non ne ha la facoltà di godimento e non ne è la proprietaria. Essa esercita un'attività d'impresa che si estrinseca nel perseguimento delle finalità istituzionali del Fondo; a tale scopo i suoi poteri sono funzionalmente vincolanti nell'interesse dei partecipanti, verso i quali essa risponde per la gestione secondo le regole del mandato. Sulla base di queste considerazioni si perviene alla seguente definizione: "La costituzione del Fondo comune d'investimento fa sorgere un patrimonio separato (da quello della società di gestione e dei partecipanti) qualificato dallo scopo cui è destinato, sul quale spetta alla società di gestione (in quanto strumento della sua attività d'impresa) la titolarità di una situ azione giuridica reale il cui contenuto presenta elementi propri del diritto di proprietà ma da esso si differenzia per la presenza di un vincolo finalistico che crea alla società l'obbligo, di cui sono beneficiari i partecipanti al Fondo, di esercitare i poteri contenuti in quella situazione nell'interesse di quest'ultimi". Il punto fondamentale su cui s'impernia questa teoria è quindi che il Fondo è un patrimonio separato, sul quale non gravano diritti di proprietà in senso tradizionale. Questa situaz ione reale non ha equivalenti nel nostro ordinamento, ma d'altra parte nasce dal tentativo di adattare un istituto giuridico, il trust, peculiare dell'ordinamento anglosassone ad un sistema continentale di derivazione romanistica come il nostro. Se ne deduce che la titolarità del Fondo deve spettare alla società di gestione, dato che costituisce lo strumento primario di cui essa si avvale nell'esercizio della propria attività di impresa, ma questa 19 titolarità è attribuita alla società nell'interesse primario dei partecipanti e quindi non dà luogo ad un diritto soggettivo, bensì ad una "funzione". L'analogia più prossima che si può trovare per la situazione della società nei confronti del Fondo è con la posizione del trustee negli ordinamenti di common law, il che costituisce una indubbia conferma dell'esattezza della nostra tesi, ove si ricordi l'origine storica dell'istituto dell'investment trust e gli scopi perseguiti dai legislatori europei nel tentativo di riprodurne il modello. Alcuni studiosi su questo punto hanno sollevato un'obiezione circa l'illegittimità di una tale formulazione giuridica. Essi hanno fatto presente che la nostra normativa si basa sul principio che esiste un ben specificato e definito numero (numerus clausus) di diritti reali tassativamente previsti dal legislatore, tra i quali non è ricompresa questa particolare figura di "titolarità funzionale" di carattere fiduciario. Una simile critica, per quanto formalmente appaia corretta, è sembrata da respingere in quanto pare prescindere dalle ragioni per cui una collettività si dà un ordinamento giuridico. E' infatti evidente che rientra tra le facoltà del legislatore la possibilità di adeguare il diritto alle realtà che emergono nella società, altrimenti, con il trascorrere del tempo, uno Stato si troverebbe a disporre di una normativa che non è in grado di soddisfare le esigenze che la collettività manifesta. In quest'ottica appare pacifico accettare che l'autorità legislativa possa senz'altro superare il predetto principio mediante u na legislazione speciale ed introdurre, anche implicitamente, nuove figure di diritti reali. Il fatto che la società di gestione si ponga come titolare del patrimonio del Fondo rispetto a terzi per esercitare la sua attività economica, vincolata funzionalmente all'interesse dei partecipanti, ha fatto sorgere delle critiche verso questa particolare situazione giuridica. Essa infatti non ha nulla a 20 che vedere con il concetto di proprietà previsto dall'art. 832 C.C., ma si pone come "titolarità funzionale" finalizzata al raggiungimento di un determinato scopo, sancito dalla Legge, che viene perseguito affinchè ne traggano beneficio dei terzi (i partecipanti) e non il soggetto a cui tale diritto sta in capo (la società gerente). Il Fondo quindi, privo di personalità giuridica ma dotato di autonomia patrimoniale, risulta essere un patrimonio separato sul quale non grava alcun diritto di proprietà in senso stretto. Quest'osservazione, che per quanto possa apparire ardita è indubbiamente aderente alla realtà che il legislatore della Legge n. 77 ha inteso descrivere, ha suscitato la disapprovazione di una parte della dottrina. Alcuni autori infatti hanno ritenuto inammissibile quest'ipotesi, argomentando che nel nostro ordinamento esiste un'unica alternativa: o un bene è proprietà di qualcuno, oppure non appartiene a nessuno (res nullius). Quest'obiezione, non priva di fondamento, potrebbe forse essere considerata insuperabile qualora si accettasse una concezione statistica del diritto, ma in un'ottica dinamic a (che, come si ricordava in precedenza, è corretta alla luce della volontà espressa del legislatore) non rappresenta certo un ostacolo invalicabile. Per giunta esistono altre situazioni giuridiche per le quali la dottrina ha colto la necessità di superare l'alternativa sopra citata e riconoscere che in determinate ipotesi gli schemi normativi tradizionali non sono in grado di fornire una rappresentazione giuridica del fenomeno aderente alla realtà. Qualcosa di simile era già emerso circa i comitati (ar t. 39 e segg. C.C.) allorquando era stato rilevato che la titolarità formale, in capo ai gestori dei comitati, doveva essere concepita in riferimento al complesso dei beni del "fondo", che, pertanto, si connota come un "patrimonio fiduciario", con una specifica destinazione di scopo. 21 Non sembra che la mancanza di un diritto di proprietà, nella sua eccezione tradizionale, gravante sul patrimonio del Fondo possa creare particolari problemi dottrinali. In particolare l'esigenza della certezza dei rapporti giuridici è stata rispettata dalla Legge n. 77/83, la quale ha appositamente individuato un soggetto, la società gerente, che è funzionalmente titolare dei beni del Fondo comune nelle relazioni giuridiche con i terzi. La dottrina più autorevole (Marchetti) è ampiamente concorde su questa tesi: "Da sempre, come è noto, si discute su quale sia il rapporto fra società di gestione, partecipanti, Fondo e, in particolare, a chi spetti la proprietà del Fondo (meglio, delle attività che lo compongono) se esso sia d ella società di gestione ovvero una comproprietà dei partecipanti. In conformità dell'opinione dominante, che corrisponde anche alla tradizione dell'istituto che nasce nel mondo anglosassone, la titolarità del Fondo è per la nostra Legge attribuita alla società di gestione nell'interesse, tuttavia, dei singoli partecipanti. Se ne deduce che si tratta di una particolare forma di proprietà fiduciaria". Alla medesima conclusione peraltro era già giunta da tempo la dottrina di taluni ordinamenti giuridici l atino-americani. Anche nel caso di questi paesi infatti si era posto il problema di formulare una disciplina che, al tempo stesso, fosse il più possibile fedele al modello del trust e potesse inserirsi, con una certa coerenza di principi, nel sistema preesistente. La questione era stata risolta introducendo la figura del fideicomiso, definibile come un "mandato irrevocabile" in forza del quale si giunge alla "costituzione di un patrimonio autonomo, con destinazione unitaria dei beni che lo compongono ad un determinato scopo". Il risultato era fondamentalmente quello espresso dalla dottrina italiana, sia pure con sfumature leggermente diverse: "... una volta identificato nel fideicomiso un negozio fiduciario tipico, legislativamente previsto, traslativo del 22 diritto di proprietà soggetto, tuttavia (sempre per espressa disposizione di legge), a limiti temporanei e di esercizio, non si vede quale ostacolo possa rimanere ad ammettere francamente l'esistenza di una proprietà fiduciaria" (Jaeger, La separazione del patrimonio fiduciario nel fallimento). Sulla base dei concetti sopraesposti sembra ora giunto il momento di esprimere una valutazione complessiva su queste tematiche. Da un esame generale della Legge n. 77/83 pare che il legislatore, proprio perchè conscio di istituire una nuova figura giuridica con tutte le conseguenze che ne derivano, si sia preoccupato di formulare una disciplina precisa e rigorosa, stabilendo i diritti e gli obblighi dei soggetti interessati dai rapporti sorgenti in conseguenza all 'attività dei Fondi comuni e tutelando adeguatamente tutti coloro che, per diverse ragioni, volontariamente o meno, sono coinvolti dall'operato di questi istituti. La normativa in questione ha il pregio di essere stata concepita tenendo ben presenti le situazioni reali che ne sarebbero potute derivare, per questo l'ipotesi del Fondo come patrimonio separato appare credibile alla luce della realtà operativa e dei rapporti di diritto che l'esperienza dei Fondi in Italia ha suscitato. Sicuramente il legisl atore avrebbe fatto meglio ad indicare esplicitamente quale natura giuridica intendesse assegnare ai Fondi comuni di investimento e quali fossero i diritti reali ad esso inerenti; ciò avrebbe fugato molte perplessità espresse dalla dottrina e chiarito alcuni dubbi interpretativi. In ogni caso ritengo che, stante l'attuale normativa, la teoria qui presentata risulti essere l'unica meritevole di accoglimento in quanto, meglio delle altre, riesce ad interpretare la sostanza della volontà legislativa per tradurla in modo non riduttivo in uno schema giuridico nuovo, aderente alla realtà economica attuale. 23 6. Conclusioni La soluzione prospettata, come si è visto, si fonda sulla necessità di individuare, per definire la situazione giuridica del Fondo d'investimento, un diritto reale atipico che possa consentire una dissociazione fra proprietà legale e proprietà formale, ponendosi come elemento eversivo rispetto al citato "numerus clausus". Tale riflessione apre la strada ad una problematica di notevole portata e di grande attualità: il recepimento dell'istituto giuridico del trust nel nostro ordinamento civilistico, a seguito della Convenzione de l'Aja del 1 ° Luglio 1985, ratificata con la Legge 16/10/1989, n. 364 ed entrata in vigore il 1° Gennaio 1992. La figura giuridica del trust esula dagli ambiti del presente lavoro e sarà prossimamente oggetto di uno specifico studio monografico. Basterà qui ricordare che da tale istituto possono derivare importanti conseguenze ed applicazioni in materia tributaria, nel diritto successorio e nella tutela giuridica di patrimoni privati. Sulla base dei concetti precedentemente sviluppati è quindi possibile formulare le seguenti risposte ai quesiti che ci eravamo posti all'inizio della trattazione: 1) Il patrimonio del Fondo non ha alcun proprietario in senso stretto. Su di esso grava un diritto reale atipico caratterizzato dallo sdoppiamento del diritto di proprietà allo scopo di tutelare i partecipanti e di imporre alla società di gestione un vincolo finalistico al quale conformare il proprio operato. 2) Il Fondo è un patrimonio separato, con una specifica destinazione (l'investimento in valori mobiliari) ed è privo di personalità giuridica. 24 3) Nell'ipotesi di insolvenza della società di gestione il patrimonio del Fondo non può essere aggredito dai creditori. A tale proposito il legislatore ha espressamente sancito che il patrimonio del Fondo comune è distinto a tutti gli effetti da quello della società di gestione, pertanto, trattandosi di patrimonio separato, e sso rimane a disposizione dei partecipanti indipendentemente dalle vicende che possano coinvolgere la società gerente. LB = Luca Bisceglie 25