Teologo e presbitero della Chiesa anglicana del Kenya, il prof

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J.H. OWINO KOMBO
The Doctrine of God in African Christian Thought. The Holy Trinity,
Theological Hermeneutics and the African Intellectual Culture
(Studies in Reformed Theology, 14), Brill, Leiden-Boston 2007, 298 pp.
Teologo e presbitero della Chiesa anglicana del Kenya, il prof. Owino Kombo ha conseguito il dottorato in teologia presso la Stellenbosch University,
in Sud Africa, ed è attualmente docente di teologia sistematica presso la
Daystar University di Nairobi. In questo lavoro, affronta il tema della inculturazione della dottrina di Dio nel mondo africano. Nell’ambito anglicano, il tema aveva avuto una prima elaborazione in J. Mbiti ma si può ben
dire che la sua tematica ha ormai investito molta parte della teologia protestante e cattolica africana. Qual è allora l’originalità di questo lavoro?
L’originalità sta nella preoccupazione che lo muove. Owino Kombo è
convinto che l’inculturazione del tema di Dio nel mondo africano sia avvenuta troppo facilmente e senza troppa criticità e si impegna, di conseguenza, a riprendere l’intera questione su basi diverse. Queste basi sono
chiarite nei due capitoli che costituiscono la prima (pp. 27-78) delle quattro parti del lavoro. Nel primo capitolo il nostro autore analizza la Bibbia
per mostrare come la fede trinitaria sia profondamente radicata nelle scritture: la Trinità «is not a New Testament innovation but ... it has its roots in
the Old Testament» (p. 48). Accettare l’autorità delle Scritture significa
quindi accettare una concezione trinitaria e salvifica di Dio. Nel secondo
capitolo analizza invece il pensiero dei padri, la loro concezione del monoteismo e la loro fede nella incarnazione, il progressivo sviluppo della fede trinitaria ed il posto che questa avrà nei simboli di fede. Utilizzando gli
studi di J.H. Newmann, di B. Lonergan e di H. Berkhof sullo sviluppo dottrinale delle antiche chiese giunge alla conclusione che la loro chiarificazione dottrinale si appoggia sì alla metafisica greca ma, al tempo stesso,
sostiene che l’aiuto che viene loro dallo Spirito non può essere scartato come inutile: al contrario impedisce loro «to make the measure of temporary
relevance the measure of dogma» (p. 76).
Questi due criteri – la coerenza con l’autorità delle scritture e la fedeltà
alla guida dello Spirito – appaiono così i due criteri che, secondo Owino
Kombo, guidano lo sviluppo del dogma. Per questo nella seconda (pp. 79137) e nella terza parte (pp. 139-227) dedica ben sette capitoli a delineare lo sviluppo prima del pensiero trinitario occidentale e poi di quello africano. Sono ricostruzioni storiche funzionali all’assunto del lavoro ma, in
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larga misura, pacifiche e tranquille anche nei punti eventualmente discutibili. Il pensiero occidentale è raccolto attorno all’influenza del neoplatonismo, al pensiero di Tommaso ed alla presentazione di Dio come “Essenza” da una parte; attorno alla concezione moderna, al pensiero di K. Barth
e di K. Rahner ed alla presentazione di Dio come “Soggetto assoluto” dall’altra. Alcune riflessioni sulla rinascita del personalismo comunitario e
sulla presentazione di Dio come “Comunione nell’unità” chiudono questa
inquadratura. Il pensiero africano è raccolto attorno ad alcuni modelli:
quello della correlazione tra il pensiero africano e la fede cristiana di B.
Idowu, quello della praeparatio evangelica di J.S. Mbiti e quello legato alle tesi di R. Otto sul mysterium tremendum et fascinans di G.M. Setiloane.
La sua conclusione è nitida: «african theology needs to move beyond the
african concepts of God» (p. 226). Il suo giudizio sulla teologia africana è
altrettanto pesante: la metodologia comparativa tra Bibbia e cultura africana, fin qui utilizzata, è «structurally incapable of articulating the Trinity» (ivi). La teologia africana ha così finito per preoccuparsi più della articolazione della Trinità nei suoi rapporti con il mondo attraverso forme di
intermediazione, come il concetto di antenato, che non della Trinità in se
stessa. In questo modo, sempre a parere di Owino Kombo, la teologia africana rischia di perdere anche il suo valore di attualità. Per milioni di Africani, la fede in Cristo sofferente e crocifisso è stata la forza per affrontare
emarginazione e torture e per mantenere viva la speranza nella salvezza.
Questo è il Vangelo, questa è la fede. Ma «if Christ makes such a difference, how is it that at the level of formal theology, the Christ has not affected
the African Christians’ naming of God?» (p. 227).
La quarta parte (pp. 229-277) rappresenta lo sforzo personale di Owino
Kombo per ripensare tutta la problematica della Trinità. La sua tesi prende le mosse dalla maniera africana di pensare Dio: «in the African context
is not a static substance or essence, and neither he is mere man on an infinitely magnified scale. On the contrary, he is the “Great Muntu”; a “subjet” with the ultimate personality and thus distinct from everyone and
everything else» (p. 235). Proprio perché chiaramente monoteista, la nozione trinitaria di Dio è per il pensiero africano «a completely new concept» (p. 236); per altro, la nozione di Dio uno e trino si radica nella incarnazione ed è al centro della fede e della pietà cristiana. Mentre nel pensiero africano la paternità di Dio è innanzitutto una connotazione del Dio
creatore, nel pensiero biblico-cristiano la paternità di Dio si risolve nell’evento-Gesù: il Padre è il Padre di Gesù.
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Entrando nel merito della inculturazione, Owino Kombo osserva che la
radice Ntu è una categoria dell’esistenza e non appartiene all’essenza; per
questo i termini Umuntu, Ikintu, Ahantu e Ukuntu appartengono ad un
orizzonte esistenziale. Per un verso indicano un Dio che è sconosciuto, indeterminato, al di là del mondo dei sensi; per un altro, rimandano invece
a quel Dio che è all’origine di tutte le cose. Appoggiandosi alla lettura metafisica di A. Kagame (p. 241), il nostro può concludere che «the term that
can best capture the unity factor in the context of the Trinity is the “Great
Muntu”» (p. 240). Secondo Owino Kombo, questo termine permetterebbe
sia di illuminare la vitalità di Dio come principium da cui derivano il Figlio e lo Spirito sia come homoousios in cui i tre condividono l’unico Ntu.
L’interpretazione trinitaria di questo Ntu non è però un assoluto perché
questo equivarrebbe ad identificare Dio con la “Forza vitale” e con il suo
potere. Il Dio onorato nella fede cristiana assume insieme sia questo potere sia la sua mancanza in modo profondo ed unico (pp. 243-244). Ne viene il divino paradosso di un “powerless Power”, il solo in grado di provare ad esprimere la complessità trinitaria e pasquale del Dio cristiano.
La conclusione del nostro autore è che l’inculturazione africana del Dio
cristiano può essere espressa nel “Great Muntu” e questo va inteso come
Unità e come Trinità, come “Comunità nell’Unità”. In questo modo Owino
Kombo si stacca completamente dal pensiero di J.N.K Mugambi che, nel
suo lavoro African Heritage and Contemporary Christianity, abbandona la
nozione di persona e chiede di orientarsi verso il concetto di modes of God’s manifestation to man perché meno essenziali e più esistenziali e vitali; si stacca anche dal pensiero di Ch. Nyamiti che, nel suo lavoro Christ
as our Ancestor, parla di lui come the brother Ancestor; secondo il nostro
autore, la categoria dello Ancestor è del tutto inadatta a parlare della Trinità perché da una parte “Dio” e “Ancestor” andrebbero tenuti insieme
pur non indicando la stessa cosa e dall’altra non apparirebbe chiaramente la diversità del Padre dal Figlio una volta che siano resi come “The Ancestor” e come “The Brother Ancestor”.
Non è difficile cogliere lo sforzo di Owino Kombo per pensare correttamente la fede trinitaria, controllando criticamente l’utilizzo delle categorie ed il loro impianto. Con gli altri autori, condivide la convinzione di una
unica teologia africana, continentale ed interdisciplinare, chiamata ad elaborarsi in un serrato dialogo al di là delle differenze culturali tra etnie nilotico-sahariane, clan afro-asiatici e gruppi legati al bacino del Niger e del
Congo. Del pari, risulta evidente la sua fondazione nella tradizione prote3/2007 ANNO LX
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stante; radicato nel mistero pasquale, il suo pensiero assume il crocifisso
come il criterio che fonda e motiva la teologia. Leggendolo, vengono alla
mente le tesi di Lutero nella disputa di Heidelberg del 1518: «non ille digne Theologus dicitur, qui invisibilia Dei “per ea, quae facta sunt, intellecta conspicit” sed qui visibilia et posteriora per passionem et crucem intelligit». Per questo Owino Kombo ritiene che l’inculturazione della concezione cristiana di Dio nella teologia africana sia avvenuta con troppa facilità e senza sufficiente consapevolezza critica.
A ben guardare, la sua proposta è insieme metodologica e contenutistica.
La sua proposta metodologica è fondata nelle scritture ed assume come modello il cammino delle antiche chiese e del loro ricorso alla metafisica per
una comprensione profonda e significativa della fede cristiana. La sua sintonia con il pensiero della riforma lo porta a parlare di Dio solo alla luce del
crocifisso, solo sub contraria specie, trascurando così il significato cristologico della creazione. Non ho intenzione di riaprire il dibattito barthiano sulla teologia naturale e sulla analogia entis ma, una volta chiarito che la nozione teologica di “creazione” non ha nulla da spartire con quella di “natura pura”, resta da chiedersi se la realtà creata non sia anch’essa – come il
Vaticano I ricorda ai cattolici – una legittima via per giungere a Dio.
Per questo condivido con Owino Kombo la convinzione di un eccesso di
disinvoltura nell’equiparare alla fede il dato tradizionale della cultura africana ma ritengo che bisognerà guardarsi anche dal seminare il sospetto
che la creazione non può dire nulla a proposito del Dio cristiano. Per altro
proprio il legame cristologico tra il Dio creatore ed il Dio salvatore, evidente in un testo tradizionale come l’inno di Col 1, 15-20, lascia intuire
come i due momenti siano due momenti di un’unica storia salvifica. Da
questo punto di vista va detto che la rivelazione trinitaria attraversa ogni
cultura come criterio critico rispetto ad ogni assolutizzazione delle dinamiche culturali; resta però la legittimità della Chiesa e della teologia di assumere le categorie culturali di un popolo e, attraverso la complessità di
un’azione che comprende l’accogliere, il purificare ed il portare a perfezione, renderle capaci – per quanto è possibile al linguaggio umano – di
esprimere la realtà e l’agire di Dio.
La posizione di Owino Kombo è comunque meno semplice e più articolata. Dal mondo creato, attraverso la filosofia, ricava la nozione di Ntu e per
il suo mezzo risale a Dio e ricostruisce una proposta trinitaria cristiana che
ricolma la nozione culturale di qualcosa che la sorpassa e la apre a significati nuovi. Questa proposta è davvero così nuova come Owino Kombo preEUNTES DOCETE
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tende o è soltanto una variante delle teologie africane che partono da altri
dati culturali, come l’Ancestor o simili? Alle pagine 271-276, Owino Kombo offre una sintesi ragionata del suo metodo in cinque punti: formulare una
sintesi della dottrina trinitaria, evidenziare cosa in essa fa problema alla
mentalità africana, formulare una soluzione alla questione, valutarla sulla
base della tradizione cristiana e della problematica africana ed, infine,
adattarlo e riadattarlo continuamente alle necessità del mondo africano. Su
questa base, il valore della proposta starebbe nel valore metafisico della nozione di Ntu, che l’autore ritiene particolarmente adatta alla funzione di
pensare la Trinità e che, comunque, va pensata in ordine alla fede cristiana e rimodellata in vista di una attenzione continua alla realtà africana.
Condivido con l’autore che molte nozioni culturali africane sono più in
grado di articolare la mediazione cristiana che di pensarla; a mio avviso,
la nozione di Ancestor è più in grado di spiegare la soteriologia che non di
pensare la cristologia in funzione trinitaria. Qui sta certamente il punto di
merito di questo lavoro. Resta aperto l’interrogativo sulla funzione cristologica attribuita alla nozione Ntu. Lascio agli africani il compito di chiarire il valore africano del modello “Comunità nell’Unità” e la categoria del
“Great Muntu”, troppo simili alla riscoperta della dimensione comunitaria
ed alla nozione del “Grande-Io” di H. Mühlen; mentre però, per questi, il
“Grande-Io” ha un valore ecclesiologico in Owino Kombo il “Great Muntu” ha una valenza cristologico-trinitaria. Per parte mia, ritengo che questo tipo di utilizzo non sia possibile senza una fondazione metafisica e questa abbia bisogno di una adeguata teologia della creazione, la sola che può
giustificare teologicamente una realtà intelligibile in grado di risalire dal
mondo a Dio per una via di rivelazione tracciata da Dio stesso.
Gianni Colzani
L. MARTÍNEZ FERRER – R. ACOSTA NASSAR
Inculturación. Magisterio de la Iglesia y documentos eclesiásticos
(Teología, 5), Promesa, San José (Costa Rica) 2006, 382 pp.
Professore di Storia della Chiesa presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma, Luis Martinez Ferrer ha compiuto i suoi studi a Navarra ed a Madrid mentre Ricardo Acosta Nassar, dopo gli studi di ingegneria, ha conseguito il dottorato in Teologia presso la stessa Università della
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S. Croce. In questo testo offrono un quadro dell’insegnamento del magistero sull’inculturazione.
Su questo tema esisteva il volumetto di H. Carrier, Vangelo e culture: da
Leone XIII a Giovanni Paolo II, edito in spagnolo e catalano, italiano e polacco; ci si può allora chiedere quale sia la ragione e l’originalità di questo nuovo lavoro. La ragione sta probabilmente nella crescente importanza che il dibattito sulla inculturazione è andato via via assumendo mentre
l’originalità sta nella particolare attenzione che il testo riserva alla situazione dell’America Latina. Di fatto il testo è una antologia di documenti di
vario genere, pontifici e conciliari, encicliche e semplici discorsi, sinodi
di vescovi e documenti dell’episcopato latino-americano. Non mancano
nemmeno l’Instrumentum Laboris del sinodo del 1987, alcuni testi della
Commissione Teologica Internazionale ed una citazione della Guida per i
catechisti della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli (1993).
Nonostante i compilatori riassumano tutti questi diversi generi sotto la
categoria di “Magistero autentico” e di “Magistero ordinario” (pp. 21-22),
è difficile vedere sotto questa categoria un Instrumentum Laboris. Accompagnare i documenti con qualche riga introduttoria per fissarne il valore
ed il senso avrebbe reso più comoda la consultazione di questo strumento
di lavoro. Ad uno strumento di lavoro non si domanda altro, infatti, che la
comodità e la facilità dell’uso. Tra i molti testi citati mi piace segnalare il
discorso di Giovanni Paolo II all’Unesco del 2 giugno1980 (pp. 156-164);
troppo dimenticato, rappresenta uno dei testi più incisivi sul nostro tema.
Del pari l’ampia citazione dei testi delle Conferenze generali dell’Episcopato latino-americano (Medellín, Puebla e Santo Domingo: pp. 302-351)
rappresenta un contributo di sicuro interessante.
L’antologia di testi è preceduta da due studi: L. Martínez Ferrer offre
una introduzione generale su cultura e inculturazione (pp. 25-81) mentre
R. Acosta Nassar presenta uno studio sull’insegnamento di Puebla e Santo Domingo (pp. 83-120). Il carattere introduttorio di studi che, in poche
pagine, spaziano dalle scritture alla storia delle missioni, dal magistero alla attualità culturale e pastorale non esige un esame critico ma una valutazione di massima e la valutazione di massima è positiva. L’abbondanza
delle citazioni, il rimando continuo ai passi del magistero, la chiarezza dei
concetti sono valori apprezzabili anche se mi sarei aspettato un chiarimento delle diverse maniere di intendere la cultura (pp. 39-47) ed una migliore selezione di alcune citazioni. Molto più scolastico con i vantaggi e gli
svantaggi del genere il contributo di R. Acosta Nassar.
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In conclusione, si può dire che il lavoro è buono e può rappresentare un
utile strumento per gli studenti, specie latino-americani; anche gli specialisti potranno trarre qualche vantaggio da questa ordinata presentazione
del pensiero magisteriale.
G.C.
ANGELA MICHELIS
Liberta e responsabilità. La filosofia di Hans Jonas
Città Nuova, Roma 2007, 359 pp., e 20,00.
Hans Jonas ha trovato in Angela Michelis una esegeta preparata, onesta e
intelligente nel darci la ricostruzione di un segmento specifico del pensatore in questione, vale a dire della chiarificazione degli organismi viventi, progredienti dal metabolismo alla libertà, che mettono capo all’uomo, sintesi di
preformazione strutturale e di compito etico, dignificato del nome di persona.
Centrato attorno alle categorie fondamentali della libertà e della responsabilità, il capitolo IV si apre col richiamo al Coro dell’Antigone che celebra il potere e l’operosità dell’uomo nel mondo. Ne è sollecitato Jonas, che
imbastisce la sua tesi fondamentale di approccio biologico e filosofico all’organismo umano, pulsione di vita e sede di scelte etiche. Egli appella
metodicamente all’esperienza della vita in alternativa agli schemi culturali spesso arbitrari: espedienti ipotetico-deduttivi, ideologici, pericolosi per
il destino del genere umano.
Quanto viene espresso in questo denso volume si trova soprattutto in Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica (trad. it. 1999), i cui nuclei
essenziali della riflessione jonasiana evidenziano due fuochi ellittici dell’antropologia: libertà e responsabilità. Partendo dalla costatazione che
siamo limitati, “contemplativi prospettici” ed “esseri corporei”, l’autore
caratterizza l’uomo come atto incessante di autocontinuazione tra vita e
mondo, tra pensiero ed estensione, tra materia e informazione, con rinverdimento di teorie platonico-aristoteliche e con buona pace dei materialisti, positivisti e darwiniani moderni. L’uomo si attesta libero e creativo in
quanto produttore di utensili, riproduttore pittorico del mondo (homo pictor), edificatore di tombe. Vista e cinestesia aprono alla possibilità della
teoresi metafisica a glorificazione della vita e a rivendicazione etica dell’imputabilità delle azioni soggettive che mette conto della libertà. Sofocle
attesta che l’uomo inclina al bene e al male. Jonas commenta che le civil3/2007 ANNO LX
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tà progrediscono col lavoro diviso e specialistico e con l’utilizzazione del
linguaggio comunicativo e simbolico. Virtù è arte di saper scegliere l’orientamento giusto e fecondo nel contesto stimolante delle circostanze,
adattando i mezzi più appropriati ai fini dell’ordine del bene. L’uomo si
concretizza civilmente tra illuminazione dell’universalità del Logos e la
pluralità dei linguaggi concettuali, tra luminosità dell’idea (di essere) e
consenso (synaisthesis) alle opinioni altrui criticamente vagliate. Compito
inderogabile del nostro tempo è, per Jonas, la chiamata a raccolta di scienza e filosofia per accerchiare fenomenologicamente l’ontologia del mondo
della vita. All’autrice, che conosce fin troppo bene gli scritti editi e inediti di H. Jonas, chiediamo la prosecuzione del suo lavoro esegetico che ci
parli dello studioso della gnosi e del nichilismo, nonché delle coraggiose
critiche al suo maestro Heidegger.
Paolo Miccoli
PAOLO CARLOTTI
In servizio della parola. Magistero e teologia morale in dialogo
LAS, Roma 2007, 192 pp., e 12,00.
La ricerca teologica segue la sorte di tutte le scienze ed è sottoposta al processo evolutivo con accelerazioni ed arresti. Anche il Magistero della
Chiesa si trova in questa situazione non in quanto fonte-testimone della
teologia ma come partner di un dibattito aperto, avendo esso una portata
in rapporto al riconoscimento dell’autorità che esprime. Questo aspetto
non va inteso come autoritarismo ma come approfondimento dell’intelligenza della fede. In tal senso esso svolge un ruolo disinteressato di servizio verso l’umanità che ricerca la verità sia in senso storico, sia in senso
relazionale in quanto libero da condizionamenti ideologici e politici, superando così i progetti etici individualistici in quanto il singolo condivide
con il prossimo la verità morale.
La presenza del Magistero in campo morale è giustificata da due elementi: l’odierna emergenza etica che si manifesta in modo nuovo ed impellente specie in campo biologico ed in quello socio economico e il relativismo etico dei nostri contemporanei. D’altra parte per molti problemi attuali non troviamo nella Bibbia riferimenti espliciti. Eppure urgono risposte ed il Magistero è chiamato a dare delle indicazioni teologiche e morali a causa della sua competenza in “moribus”.
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La teologia è invitata a dare un contributo per gli approfondimenti ma è
al Magistero che spetta di riaffermare e delineare il pensiero della Chiesa
con i suoi interventi precisando per ciascuno di essi non solo il contenuto
ma l’estensione e la consistenza.
Il lavoro è diviso in quattro capitoli. Il primo tratta del contenuto, della
portata e dei vari interventi del Magistero, precisandone gli aspetti ed il peso dottrinale. Indicando il retroterra di alcune questioni che riguardano la
morale e cercando di esplicitare il significato teologico di alcuni interventi.
Il secondo capitolo analizza i documenti che direttamente si sono occupati dei “mores”, dando ad essi la valutazione teologica e sottolineando come alcune questioni sembrano assodate mentre altre restano ancora aperte.
Nel terzo capitolo viene messo in luce il rapporto esistente tra Magistero
e Dottrina sociale della Chiesa. Dopo una sorta di ricognizione storica da
Leone XIII fino ai nostri giorni, si passa all’analisi dettagliata del Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, mettendo in evidenza il rapporto tra
Teologia morale e Dottrina sociale della Chiesa, sottolineando il ruolo specifico della teologia e quello di altre discipline interessate all’argomento.
L’ultimo capitolo tratta del tema della pena di morte e del nuovo atteggiamento del Magistero nella valutazione di questo argomento.
L’Autore parte dall’assunto che ogni investigazione teologica è soggetta
a gradualità, e volge la sua attenzione ad un settore specifico della teologia morale che ha per oggetto il sociale in quanto lo ritiene il più sensibile ai processi evolutivi dell’umanità. Le argomentazioni che provengono da
ambiti solamente razionali costituiscono la fonte secondaria della teologia
morale e poiché dalla fonte primaria della S. Scrittura non possiamo desumere elementi diretti per le nostre argomentazioni, allora il Magistero si rivela un punto di riferimento di grande interesse storico e dottrinale.
L’autore, pur nella delicatezza del tema, parla della possibilità di evoluzione del pensiero magisteriale, realtà per lo più ammessa soprattutto in
campo morale… in «numerose posizioni che rivendicano come autentico
sviluppo del Magistero ecclesiale» (p. 13). Egli sostiene che questa evoluzione è presente in modo tenue e lento «da restare quasi impercettibile anche all’osservatore esperto» (p. 14).
La competenza magisteriale per la morale rivelata non è stata mai contestata, mentre bisogna riconoscere che circa la legge naturale non sempre
c’è stata pacifica accoglienza e questo ha provocato ripercussioni sul modo di essere presente del Magistero nel dibattito pubblico in cui non tutti
accettano la stessa fede. Di qui sorge il problema dell’evoluzione e dell’e3/2007 ANNO LX
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stensione delle linee guida del Magistero nella nostra società che non sono state rettamente intese.
L’autore vuole raggiungere lo scopo di leggere l’insegnamento della
Chiesa come partner di un dibattito pubblico. Questa partecipazione non
consiste nell’«imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e
modi di comportamento che appartengono alla fede… ma contribuire alla
purificazione della ragione, e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che
è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato»
(Deus caritas est, n. 28). Questa leale collaborazione richiede la perfetta
comprensione della specificità del Magistero in un contesto di fede. Il suo
utilizzo varia in chi è credente che lo accoglie nella fede e in chi, pur essendo privo di fede, va alla ricerca onesta della verità.
La conoscenza approfondita del Magistero aiuta ad evitare l’odiosa critica di autoritarismo spesso rivolta ad un servizio fatto all’uomo nei vari
momenti della storia. La voce del Magistero è la voce libera di tutta la
Chiesa in quanto ricerca della verità da condividere specialmente in ambito morale. L’analisi dei documenti porta alla conoscenza dei vari aspetti
del dialogo, a volte risultato chiaro e a volte oscuro tra il Magistero e la riflessione teologica.
Ed ora qualche appunto. L’opera risulta di non facile lettura, per la mole di documenti e di pareri citati, unitamente ad uno stile personale dell’autore, preciso, ma, a volte, con termini non di uso corrente, con neologismi e un periodare lungo e contorto... Ma nessuno è perfetto. Questo non
toglie che un lavoro del genere sia una buona sintesi non solo per una migliore comprensione del Magistero “in moribus” ma anche per aggiornare
alcuni appunti di Ecclesiologia.
Mario Di Ianni
ENRICO GUGLIELMINETTI
“DUE” di Filosofia
Jaca Book, Milano 2007, 168 pp., e 16,00.
Saggio impegnativo di filosofia teoretica pone il problema cruciale dell’intendimento del fondamento, o principio, dell’essere e del dire. Problema
che Eraclito enunciava come “uno in sé diviso” e che Platone in qualche
modo chiariva postulando il due (Días) accanto all’uno (Hèn). Problema
che attraversa l’intero arco della filosofia occidentale in modalità diverse
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man mano che si passa dal Medioevo alla Modernità e alla post-Modernità. Altra cosa è ragionare con l’analogia entis, altra con la coerenza logica
della coscienza certa, altra ancora affacciare la differenza ontologica tra
essere e ente, tra nulla e destino storico dell’uomo.
L’autore delimita il campo speculativo. Si ritaglia percorsi significativi,
nella storia del pensiero, circa l’intendimento del “principio” (fondamento, assoluto, Dio), esplorando in chiave teoretica la filosofia di sant’Agostino e di Dante, di Schelling, di W. Benjamin e di J. Derrida come emblemi
di evoluzione del pensiero speculativo. Soggiace all’intenzione dell’autore
il venire a capo di due aspetti complementari della questione: asserire e
intendere l’Assoluto. Porre l’Uno in senso ontognoseologico è già riceverlo
e attestarlo come “principio” a fondamento e sensatezza della realtà; sforzarsi di decodificarlo come scaturigine, condizione di possibilità, causa efficiente e finale dell’ente, germinazione nichilista del destino storico dell’uomo nel mondo, è operazione ermeneutica di estrema difficoltà in quanto si è costretti a “fluidificare” l’irremovibile inconcussum fundamentum,
facendolo interagire con la humana condicio che tira in ballo temporalità,
contraddizione, stasi oppositiva nel dire, agire, volere, riportando l’intendimento dell’essere fondante a sfondo di senso del dire e del significare.
Mentre in Agostino e in Dante la prospettiva è onto-teologica, nel senso
che l’uomo (tra sì e no, abisso di virtù e vizio, contemplazione e nostalgia
dell’Assoluto) parte dall’Uno ineffabile e si risolve nella Monotriade divina, pienezza di vita donante, con Schelling la prospettiva assume toni gnostici nell’affrontare il tema del fondamento e della personalità in Dio: tema che, proiettato sul destino storico dell’uomo, si fa dramma esistenziale
della libertà creaturale che ripete, in qualche modo, il destino di Cristo tra
vittima e Redentore, tra Dioniso e il Padre celeste.
Più orientati in senso storicistico e strutturale i percorsi di Walter Benjamin e di Jacques Derrida: il primo batte le vie del materialismo storico,
intriso di teologia messianica, per illustrare l’umano destino rivoluzionario, il secondo discute il problema dell’origine del significato in Husserl,
superandolo in direzione di un’“origine oscillante”, fatta di tempo e di verità, di archetipi e di intenzionalità ermeneutica, essenzialmente oppositiva e non polare o tensionale. E questo nel rilievo che il concetto umano
non è assoluto, né dell’Assoluto, ma dell’uomo, limitato e contraddittorio:
dell’uomo “duale”.
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TZVETAN TODOROV
Lo spirito dell’illuminismo
Garzanti, Milano 2007, 128 pp., e 11,00.
Che cosa promette ed esibisce questo rapido, acuto e incisivo saggio, scritto per risvegliare la coscienza pigra degli europei odierni? L’intenzione del
filosofo bulgaro è reagire alla banalità conformistica degli opinionisti, al
pragmatismo della società globalizzante, ai canti di sirene della mentalità
collettiva, ove “Marcel si sente ogni villan che parteggiando viene”.
Il punto di vista di Todorov, distante dalla condanna senza appello di
Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’Illuminismo, è inequivocabile: attualizzare lo spirito dell’illuminismo e farlo interagire con le sfide odierne
significa interrogarlo a fondo criticandolo radicalmente. Interrogazioni e
critiche che vertono sugli snodi cruciali della cultura des lumières, ossia
sui valori di autonomia, laicità, verità, umanità, universalità, affacciati dai
vari Voltaire, Montesquieu, Diderot, Rousseau, Hume. L’autore riconosce
«che lo spirito dell’illuminismo abbia riportato un successo sull’avversario» piuttosto dogmatico, ma sottoscrive anche il suo limite: «non è che gli
obiettivi prefissati siano stati raggiunti, ma è stato accolto l’ideale e, ancor
oggi, si critica l’ordine esistente prendendo le mosse dallo spirito dell’illuminismo» pp. 17-18). Dell’Illuminismo accogliamo i valori di autonomia, umanesimo, universalità e socialità, scartando le vie del rifiuto a priori e delle deviazioni. In particolare, rifiuto della perfectibilité de l’homme,
del progresso meccanico, della colonizzazione e dell’antropocentrismo razionalista che rappresentano il rifiuto del cristianesimo; ma nello stesso
tempo, ritorsione e critica delle deviazioni dell’illuminismo tipo la “solitudine” dell’uomo (Sade, Blanchot, Bataille), il totalitarismo politico, il
terrorismo e la globalizzazione tecnocratica, bersagliati dalle manifestazioni di moda, opinioni, internet, religione politica.
A conclusione del saggio vengono a evidenza pregi e limiti di un particolare segmento di filosofia della storia, nel Settecento. L’autore dichiara:
«senza Europa (una e molteplice) niente illuminismo; e anche: senza illuminismo niente Europa» (p. 118).
Collocandoci da un diverso punto di vista, avanziamo all’autore due domande sulla comprensione più approfondita dello spirito dell’illuminismo:
1) le asserite deviazioni non sono già implicite nei princìpi formulati e nelle rivendicazioni di ottimismo antropocentrico mal poste tipo l’uomo di natura, il cosmopolitismo razionalistico, i condizionamenti del potere politiEUNTES DOCETE
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co ad opera dei plutocrati?, inoltre: 2) la critica sistematica, come metodo
e come arma di polemica anticlericale, non si ritorce già potenzialmente,
in statu nascenti, nella retorica dei sopravvenienti totalitarismi politici e
tecnocratici, allorché si separano verità e libertà: la verità dei razionalisti
e la libertà dei nichilisti?...
P.M.
ALAIN BADIOU
Il secolo
Trad. it. di V. Verdiani, Feltrinelli, Milano 2006, 201 pp., e 18,00.
Continuano le interpretazioni e i bilanci sul Novecento, “secolo breve”,
“secolo infelice”, o semplicemente “secolo”, come lo battezza il filosofo
francese Badiou in questo volume che raccoglie tre corsi universitari al
Collège international de philosophie, inducendo uditori e lettori ad ascoltare il “rutto” fragoroso del male quale si è espresso nella voce di alcuni
poeti e, di rincalzo, a interloquire criticamente ed ermeneuticamente con
essi. Approfondendo la fenomenologia della crudeltà novecentesca, Badiou avanza un’interpretazione degli snodi essenziali di un segmento storico europeo che vorremmo dimenticare ma che ci insegue come incubo
notturno. Operazione intellettuale all’insegna della franchezza: sfata la retorica della malafede dei protagonisti politici, ideologici ed estetici del
Novecento e revoca il credito che egli stesso aveva concesso al mito rivoluzionario degli anni ’60.
Il genere saggistico è congeniale a Badiou, ingegno versatile di filosofo,
drammaturgo e romanziere. Con scrittura corposa ed essenziale l’autore ci
offre 13 stazioni riflessive, cariche di pathos e di volontà esorcizzante. Diamo qui le indicazioni essenziali di uno scenario disumano, apertosi all’insegna di promesse utopiche e conclusosi con terrore di morte e aridità spirituale.
Si parte dalla presentazione della “Belva” (Stalin) ad opera del poeta
russo Mandel’štam la cui poesia raccoglie gli umori vitalistici, volontaristici e nostalgici di inizio di secolo che propaganda “l’uomo-programma”
che si pasce di illusioni compensative sul piano estetico. La “Violenza” si
mostra nel voler “spezzare in due la Storia del mondo” (Nietzsche). Chiosa Badiou: è la mitizzazione del Due che impone opzioni fondamentaliste
e proclama la lotta finale. Il “Ventre del male” partorisce mostri (Brecht):
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occorre guardare in faccia questi idoli nefandi: il novum, l’avversario, la
rovina della lingua, la decisione di uccidere e di essere uccisi, la maschera. Sì, la “Maschera” va esposta quale l’ha saputa indagare Pirandello, e
sottolineare le nostre avversioni alle stregonerie dialettiche di Hegel e al
nichilismo. Occorre sottolineare in particolar modo il “novum” promesso
dal Comunismo e dal Nazifascismo che hanno attratto nel vortice del nihil
famiglie e società. Né va trascurata la Psicoanalisi, forma spregiudicata di
ripensare l’uomo e la donna al di là dei pregiudizi borghesi e in nome della soggettivazione sessuata. Altro elemento epocale: l’“Erranza”, proposta
da Saint-John Perse e da P. Celan con approdo al “nichilismo sereno”. Si
impongono Denaro-Successo-Sesso che hanno vellicato la volontà generale di marciare verso il post-Human. Alla “Crudeltà” rilevata da J. Pessoa
e da B. Brecht va opposta la Condivisione fraterna. Sintomo di disgregazione è stata anche l’arte delle Avanguardie con la retorica di Manifesti
sovversivi che hanno incentrato nel Superuomo la commistione utopica di
finito-infinito. Esito: morte di Dio e morte dell’uomo. Il volere politico
sovrumano ha generato l’inumano nel “secolo” concluso.
P.M.
RALF DAHRENDORF
Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo
Laterza, Roma-Bari 2007, 244 pp., e 15,00.
Questo libro, a metà strada tra memoriale biografico e saggistica etico-politica, riporta al noto giudizio di Croce: la storia non è giustiziera, ma giudicatrice comprendente delle azioni umane. Spostando l’asse considerativo
dalla storia allo storiografo, incontriamo il sociologo liberale Dahrendorf,
tedesco di nascita e inglese di adozione, alle prese con la rivendicazione
dei valori di libertà, razionalità, democrazia, parità soggettiva, sicurezza,
progresso, appartenenza adeguata, già incarnati da Erasmo da Rotterdam,
umanista e testimone ideale dello spirito liberale dei secoli XV-XVI, e rivendicati da intellettuali del Novecento quali I. Berlin, R. Aron, N. Bobbio, K. Popper che hanno saputo resistere alle tentazioni del totalitarismo
nazifascista e comunista. Pensatori che non incarnano lo stile operativo di
“sporcarsi le mani” con azioni rivoluzionarie, o di inneggiare all’idolatria
teorica del Führer di turno. Vivono e operano nell’ottica di chi si è votato
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alle ragioni storico-filosofiche della vita e del mondo, più o meno favoriti
da circostanze propizie e trovando in se stessi i motivi di arrestare il passo
verso derive pericolose. Che cosa elogia Dahrendorf nei liberali “erasmiani” della classe 1900-1910 (interessante la tabella alquanto ironica della
Societas erasmiana, pp. 216-217 dove figurano: membri, candidati, membri stranieri, membri promotori, candidati respinti)? Essenzialmente lo stile della discussione dei problemi politici e la difesa delle “virtù della libertà”: fortitudo, iustitia, temperantia, prudentia, cioè: riaffermare la capacità di ragionare con la propria testa; il coraggio di battersi per la “signoria del diritto, la democrazia politica e le regole dell’economia di mercato”; la moderazione dell’osservatore impegnato, la “disponibilità a prestare ascolto ad argomenti critici e ad imparare dall’esperienza”.
Perché raccogliere questi pensatori nella societas erasmiana? Perché Erasmo, a differenza di Tommaso Moro e di Martin Lutero, “non fu un santo o
un riformatore, ma proprio per questo fu precursore delle virtù liberali”.
Pagine ricche di aneddoti e di veli su certi peccati “veniali” alla Bobbio che, nel 1935, scrisse una lettera opportunista a Mussolini, dichiarandosi fascista entusiasta per non subire intralci alla sua incipiente carriera
universitaria, o sugli astensionismi dell’ebrea Jeanne Hersch che vituperava la filosofia di Heidegger e si teneva al di fuori di coinvolgimenti politici in Svizzera, patria elettiva. Dietro lo stile scintillante e apologetico di
queste pagine si insinua il dubbio di circostanze e personaggi più complessi e contraddittori di quanto faccia credere l’autore.
P.M.
LUC FERRY
Vivere con filosofia. Trattato di filosofia a uso delle nuove generazioni
Garzanti, Milano 2007, 254 pp., e 17,50
L’autore, professore di Filosofia in Francia, noto in molti paesi per le traduzioni dei suoi saggi, porta, con questo libro, intitolato nella lingua originale Apprendre à vivre (2006), la filosofia fuori dalle aule scolastiche.
Accetta una sfida e inizia un “gioco”: con i ragazzi delle nuove generazioni ai quali promette di non usare parole difficili e di tradurre alla loro
portata temi complessi concernenti il senso della vita, l’enigma del mondo e il bisogno di salvezza che ci scavano dentro sotto forma di domande.
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Intende così soddisfare l’istinto di domanda che caratterizza la curiosità
preadolescenziale dei ragazzi d’oggi sollecitati da svariati stimoli esistenziali e culturali. Filosofia, quindi, prospettata a intelligenze aurorali in
forma di coinvolgimento ludico-raziocinativo. L’autore crede nelle capacità intellettive ed emotive dei suoi selezionati destinatari (ma sospettiamo che intenda rivolgersi anche ad adulti). Per questo ne stimola le potenzialità del proficuo interrogare e rispondere, esercitandoli a “vivere
con filosofia”, determinando in loro uno stile di vita sapienziale, com’era
nel costume dei filosofi antichi.
Il libro è costruito attorno a cinque nuclei tematici che hanno scandito
23 secoli di pensiero filosofico. Dopo il capitolo introduttivo “Che cos’è
la filosofia?” ci si imbatte nei seguenti temi: 1) la saggezza secondo gli
stoici, 2) la chiarificazione cristiana sui concetti di theoría, etica, saggezza; 3) la filosofia moderna come avvento di umanesimo e di scienza matematica (Rousseau e Cartesio); 4) la visione “postmoderna” del mondo
(ossia il nichilismo nicciano); 5) il compito della filosofia odierna dopo la
decostruzione e dopo “i maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud):
ripensare theoría, morale e salvezza in una metodica dilatazione del pensiero, improntato a discussione, confronto tollerante con interlocutori dissenzienti, saggezza dell’amore che sa dire la verità sulle cose.
L’autore, di sfuggita, si dichiara ateo, ma, da padre di tre figlie, è attento a non far pesare questa nota identitaria sui suoi teneri destinatari, inculcando loro il valore razionale delle religioni in senso illuministico. Li
stimola di continuo con l’esercizio di una razionalità pedagogicamente responsabile. Ammira la saggezza del cristianesimo e del buddhismo, ma ritiene il primo filosoficamente più promettente nelle risposte che ha fornito sugli enigmi del mondo e della vita.
Peccato che il libro si chiuda con l’esplicito congedo “dalle illusioni
della metafisica e della religione”. Con questa presa di posizione egli delega a filosofi di ispirazione spiritualista il compito di far capire ai ragazzi che metafisica e religione sono tutt’altro che illusioni.
P.M.
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FRANZ ROSENZWEIG
Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio
A cura di F.P. Ciglia, trad. it. di S. Carretti
Marietti 1820, Genova-Milano 2007, 169 pp., e 15,00
Questo opuscolo si compone di due scritti storico-letterari del famoso
filosofo ebreo F. Rosenzweig, autore del rinomato Hegel e lo Stato e de La
stella della redenzione.
La trattazione intitolata Ecumene fu scritta nel 1917 allorché l’autore
svolgeva servizio militare, in qualità di sottufficiale tedesco, nella postazione contraerea dei Balcani, mentre la parte dedicata a Thalatta fu redatta nel 1919. Tra queste due date l’autore dà prova letteraria con Unità ed
eternità. Un colloquio fra corpo e anima (1918). Il titolo Globus è prevalso, nell’autore, sulla ipotizzata Sfaira. Esso mette conto degli interessi culturali per la storia romana e per la civiltà greca conosciute grazie al magistero di Fr. Meinecke; ma ci fa sapere altresì che all’origine del progetto di
tale scrittura sta la crisi esistenziale (1913) che determina il ritorno definitivo di Rosenzweig alla fede ebraica dopo che si era convertito al cristianesimo protestante.
Globus è una riflessione storico-letteraria, contrassegnata da criptiche
tracce di speculazione hegeliana, ma soprattutto animata da una nuova impostazione di comprensione della storia universale che rintraccia nella Bibbia la sapienza “oceanica” della scrittura profetica più consona alle mentalità geopolitiche orientali, mentre riserva alla civiltà omerica l’epica della terraferma: economia della casa e dei sudditi (la polis è di là da venire!).
Scrittura biblica unificante e scrittura omerica differenziante consentono la
visione integrativa della storia del Globo terraqueo, improntata a confronti
bellici e a urti polemici. Tale storia si realizza sui confini degli Stati in continui episodi di assestamento e di variazioni geografiche, come dimostrano
le vicende politiche e culturali europee che l’autore traccia in sintesi,
fidando nella memoria personale in mancanza occasionale di documentazione storiografica. Ne vien fuori, tra l’altro, un’inedita e vivace idea di Europa che può contribuire ad alimentare le odierne discussioni sull’identità
europea di vari popoli quando ancora dobbiamo prendere atto, con le battute conclusive del testo dell’autore che scrive: «Non ancora dimora l’umanità in un’unica casa. Non ancora è l’Europa l’anima del mondo» (p. 112).
Francesco P. Ciglia, curatore della presente edizione e benemerito diffusore del pensiero rosenzweighiano in Italia, apprezzando il merito della
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traduttrice, ha fatto seguire al testo una sezione documentaria di Lettere e
appunti su “Globus”, che chiariscono circostanze e passaggi di brani oscuri. Riproduce, inoltre, per la comprensione adeguata del tutto, in Postfazione, un suo saggio già pubblicato.
P.M.
MAREK A. ROSTKOWSKI
La cooperazione dei laici all’attività missionaria della Chiesa
nell’insegnamento di Giovanni Paolo II
Studia i Materialy Misjologiczne, Varsavia 2007, 332 pp.
I laici nella Chiesa sono soltanto delle persone poco competenti e delle
persone che, per non sbagliare, sono chiamate ad essere meramente sottomesse alle autorità religiose? O sono la manovalanza da impiegare quando le vocazioni sacerdotali e religiose sembrano diminuire? O devono solo fornire i soldi? Per rispondere a queste critiche che girano spesso e
chiarire la grandezza del ruolo dei laici e della loro vocazione specifica,
specialmente nell’attività missionaria della Chiesa, l’Autore ha scritto
questo libro che prima fu presentato come tesi di dottorato presso la Facoltà di Missiologia dell’Università Pontificia Gregoriana e che adesso viene
pubblicato nella collana SiMM (titolo in inglese: Missiological Studies and
Documents), al numero 11. Per portare a buon fine questa ricerca, l’A. si
appoggia sugli insegnamenti di Giovanni Paolo II durante il suo pontificato. L’opera comprende sei capitoli. Il primo traccia i fondamenti teologici
e ecclesiologici della vocazione missionaria dei laici. Partendo dalla dimensione sacramentale e dalla loro partecipazione al triplice ufficio di Gesù Cristo, l’A. giunge alla conclusione della loro vocazione alla santità, come “Christifideles” laici.
Subito dopo, il panorama si allarga. Il capitolo secondo esamina il ruolo
dei laici nell’insegnamento dei Papi prima del Concilio Vaticano II e poi gli
insegnamenti del Concilio e il contributo di Paolo VI; tutto ciò fino all’anno 1978. Questo sguardo storico situa bene la problematica e manifesta che
la partecipazione dei laici è ben presente, anche se in proporzioni ridotte
(cf. p. 113). A questo livello, si deve riconoscere che l’A. ha saputo trarre
gran vantaggio dagli studi missionari di P.A. Seumois e di P.J. Masson.
Nei tre capitoli seguenti, l’A., rilevando ogni volta il ruolo della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e delle Pontificie Opere MissioEUNTES DOCETE
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narie, pone l’accento su “la cooperazione spirituale” (cap. 3), e “la cooperazione materiale” (cap. 5) che mettono in rilievo il cap. 4, “la promozione
delle vocazioni missionarie”. Infine, prima della conclusione, il cap. 6 evidenzia i tratti dell’animazione e della formazione missionaria del popolo di
Dio. In questi capitoli, il contributo di Papa Giovanni Paolo II è notevole.
Nonostante le difficoltà odierne, le nuove forme di vita professionale o
il turismo come pure le migrazioni e il quadro rinnovato della vita internazionale mostrano come l’evangelizzazione possa fare sue tutte le vie che
sono quelle dell’esperienza umana singolare e comunitaria. C’è molto da
fare e sempre mancano operai per collaborare al Regno di Dio. Infine, la
bibliografia è molto abbondante, specialmente sia per quanto riguarda i testi del Papa che per quanto concerne la letteratura legata alla tematica, e
un indice degli autori facilita la consultazione. Ecco una buona lettura per
aiutare laici, preti, religiose e religiosi a collaborare fra di loro e soprattutto con le autorità ecclesiastiche.
Edmond Farahian
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