cesare beccaria: per una vera scienza del diritto penale

CESARE BECCARIA: PER UNA VERA SCIENZA DEL DIRITTO
PENALE1:
Con Cesare Beccaria, figura di spicco dell’Illuminismo, si comincia a porre l’esigenza
di una vera scienza del diritto penale e si iniziano quindi le prime grandi costruzioni di
<< sistema >> che offrono allo storico un valido terreno per la sua indagine e gli
permettono anche di formulare un giudizio concreto, anche perchè i problemi veramente
vivi del diritto penale che si presentano oggi, risalgono proprio al movimento
illuminista e possono quindi trovare chiarimento nell’esame storico dell’Illuminismo.
A partire dal Beccaria, dalla seconda metà del secolo XVIII, vanno determinandosi, in
concreto, i problemi che sono tuttora oggetto degli studi di diritto criminale.
Ora, pur attraverso l’indeterminatezza e il conflitto delle diverse teorie illuministiche, è
possibile concentrarci su due correnti principali di pensiero; due correnti esistenti a
partire dagli antecedenti storici del pensiero del secolo XVIII quale esso si determina in
particolar modo in Francia, che si riportano l’una al << razionalismo cartesiano >>,
l’altra all’ << empirismo >>. Due correnti che entrano in contrasto, dove il conflitto si
rende più evidente e più acuto nel campo della morale e in genere dei problemi sociali,
dove i presupposti metafisici e gnoseologici sono portati alle loro conseguenze più
estreme. Razionalismo cartesiano che dà luogo a un astrattismo morale di carattere
assiomatico, laddove, invece, l’empirismo, negato ogni vero concetto di universalità,
sbocca fatalmente in una morale epicurea, individualistica ed egoistica.
Moralismo astratto e utilitarismo saranno infatti i motivi dominanti di tutta la filosofia
sociale dell’Illuminismo.
Nel campo del diritto le due correnti di pensiero acquistano una fisionomia particolare
dando luogo, da una parte, alle teorie << contrattualistiche >> e, dall’altra, a quelle più
propriamente << giusnaturalistiche >>.
Il << contrattualismo >> è la conseguenza più logica e coerente dell’empirismo di tipo
individualistico e l’affermazione più esplicita del suo utilitarismo egoistico. Contrario
alla negazione astratta dell’individuo, esso pone l’esigenza della rivendicazione dei
diritti propri della sfera individuale, ma per le sue basi empiristiche non può che vedere
l’individuo in una astratta particolarità, inserito in un mondo sociale visto come somma
quantitativa di singoli e non come loro vera unità. Così che gli individui sono portati al
tentativo di instaurare, nella loro immediata molteplicità, un’unità, ma questa unità non
può che essere assolutamente estrinseca e non può che presentarsi come mero strumento
utile per il benessere egoistico del singolo. Difatti il contratto non è la risoluzione della
molteplicità e l’affermazione di una realtà che superi davvero l’individuo, ma è la
ragione stessa della molteplicità e il suo caput et fundamentum.
Il contratto sorge per rivendicare la libertà dell’individuo, ma il concetto di libertà che
difende non può che essere quello empiristico di coesistenza e reciproca limitazione
delle libertà, quindi degli arbitrì, di ciascuno. Difatti il suo scopo è solo il
raggiungimento di un equilibrio in grado di portare benessere e tranquillità.
Al tempo stesso si afferma il << giusnaturalismo >>, che ha assunto nella storia della
filosofia del diritto diversi significati, che noi ora consideriamo in quello più
caratteristico e che più serve a precisarne la diversità rispetto all’utilitarismo del
contrattualismo. E in questo senso il giusnaturalismo è l’affermazione di un diritto
1
Cesare Borgia (di), studente del IV anno, Laurea Magistrale in Giurisprudenza,
Università degli Studi di Perugia, Italia.
ideale di carattere razionale e divino, la fede in una giustizia eterna e alla cui razionalità
evidente dobbiamo sottoporci: è il riconoscimento, insomma, di un diritto affatto
trascendente e indipendente da ogni contingenza propria della sfera umana: è la legge
del nostro essere.
Contrattualismo e giusnaturalismo che si presentano entrambi con il carattere
dell’antistoricità, aventi entrambi carattere “statico”. Difatti, come ho già evidenziato, il
contratto mira ad un equilibrio, ad un tranquillità che prende forma soltanto a partire
dall’ideale di staticità. D’altra parte, per il giusnaturalismo, se è l’affermazione di un
diritto eterno e di carattere divino, non può che presentarsi sotto la veste di quella
astratta razionalità che domina le vicende storiche ponendolo di conseguenza al di fuori
della storia stessa.
Quindi utilitarismo, razionalismo astratto e antistoricismo sono dunque i caratteri
principali delle concezioni giuridiche dell’Illuminismo e a essi sono informate le teorie
della scienza del diritto penale che dal movimento illuministico prendono le mosse.
Le conseguenze principali in campo penalistico sono naturalmente quelle riguardanti <<
il fine della pena >>: che per il contrattualismo sarà la difesa del contratto sociale per la
salvaguardia dei diritti dei singoli individui che al contratto hanno aderito al fine di
difendere appunto la sfera del loro essere particolare ed egoistico; e per le teorie
giusnaturalistiche sarà invece la difesa di una giustizia ideale, divina, che per questo suo
carattere trascendentale finisce col mutarsi in un’ideologia retorica.
Nel campo della scienza del diritto penale risulta quindi trovarsi di fronte a due correnti
in grado rivelare “parziali” verità. Così che il giurista sente, nella sua esperienza della
realtà umana e nella soluzione pratica e concreta dei problemi che da questa realtà
prendono forma, che il particolarismo astratto dell’utilitarismo non può essere
sufficiente a dar ragione del suo diritto, e tenta allora di trovare riparo nel suo opposto,
di contemperarlo con quella che è l’astratta universalità del razionalismo. Trovandosi,
infine, dinanzi ad una necessità di concretezza (che si traduce in quella certezza del
diritto, fondamentale nel campo della scientia iuris) che difficilmente può derivare da
due astratti e che invece rischia di portare ad un mero eclettismo ancora più
confusionario. Eclettismo che ora cercherò di chiarire prendendo in esame la storia del
diritto penale dal Beccaria in poi. Anche perchè il chiarimento dell’eclettismo, dei suoi
motivi fondamentali e del suo svolgersi storicamente, ci aprirà le porte alla migliore
comprensione della Scuola Positiva del diritto penale (che però non prendere in esame
in questo articolo, ma è oggetto di approfondimento nella tesi di laurea che sto
elaborando).
Nella storia della scienza del diritto penale italiano l’opera di Cesare Beccaria assume
una importanza enorme e diviene quasi il fondamento imprescindibile per la giusta
comprensione dei penalisti che verranno dopo. Difatti poche altre opere hanno avuto
una ripercussione così grande nel campo della cultura, sia italiana che straniera,
suscitando tanto entusiasmo quanto il libro “Dei delitti e delle pene” del nostro.
Così come non c’è stato, dopo di lui, studio di diritto penale che da quest’opera non
abbia preso le mosse, sia per svilupparne in modo ulteriore le idee in esso contenute, sia
per fronteggiarle, sia per modificarle o temperarle.
Volendo determinare il valore, il libro è un’applicazione coerente dell’idea
contrattualistica al << problema penale >> (così come lo chiamava il Bettiol); una prima
costruzione sistematica intorno a un principio unico, il quale è peraltro mutuato
completamente dagli illuministi stranieri.
Beccaria ebbe come collaboratori Pietro e Alessandro Verri e il suo pensiero fu
perfettamente aderente a quello degli illuministi francesi dell’epoca. Di qui la leggenda
che il libro non fosse opera del Beccaria, bensì di uno scrittore francese del tempo;
ovvero fosse stato scritto da lui, ma per ordine e secondo i criteri degli enciclopedisti2.
Si servì anche, quanto alle collaborazioni, delle discussioni che animavano il Caffè,
periodico milanese.
Ora, per il Beccaria mondo << umano >> e << divino >> diventano due mondi
completamente separati fra cui non ci deve essere contraddizione per il solo fatto che
non ci può essere. Si preoccupò quindi di tenere distinti i principì religiosi e quelli
politici. E a riguardo dei due motivi principali determinati come propri dell’Illuminismo
– giusanturalismo e contrattualismo – si ritrovano entrambi in Beccaria, ma in lui non si
confondono in un vero eclettismo, come spesso per altri criminalisti posteriori, e
rimangono ben distinti; e la netta distinzione non può che portare al trionfo dell’uno a
scapito dell’altro. Per il Beccaria esiste la giustizia divina, ma essa non interessa affatto
il sistema del nostro diritto positivo che deve avere basi esclusivamente umane.
Quali basi? Il libro si apre con l’affermazione della nota formula della morale
utilitarista: << La massima felicità divisa sul maggior numero >>. Questo deve essere il
fine essenziale di tutta l’attività sociale e il principio informatore di tutte le leggi, le
quali, quindi, non sono che convenzioni a cui gli uomini pervengono per salvaguardare i
loro diritti e le proprie rispettive sfere di azione. Le leggi, insomma, sono la
manifestazione di quel contratto sociale posto a fondamento del vivere civile.
E per Giustizia il Beccaria non intende altro che il vincolo necessario per tenere uniti gli
interessi particolari, che senza di esso si scioglierebbero riportando un antico stato di
antisocialità. La base della Giustizia umana è in Beccaria l’idea della << utilità comune
>>, nata dall’urto delle passioni e dalle opposizioni degli interessi.
Dal concetto utilitaristico della felicità della molteplicità e dal contratto sociale come
essenziale strumento per il perseguimento di quel fine, scaturisce logicamente il
fondamento del diritto di punire. Difatti, per il Beccaria, stando a questa costruzione le
pene che oltrepassano la necessità di conservare il deposito della salute pubblica sono
<< ingiuste >> e tanto più ingiuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la
sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi.
Gli uomini, spinti dalla necessità, cedono parte della propria libertà ma ciascuno non ne
vuol mettere nel << pubblico deposito >> che la minima porzione possibile, quella sola
in grado di assicurarne la difesa. L’aggregato di queste minime porzioni possibili forma
il diritto di punire, di conseguenza tutto il più è abuso e non giustizia. Tutto il più è
quindi << ingiustizia >>. E in relazione a questo fondamento del diritto penale il
Beccaria può determinare i criteri per la misura dei delitti, per la gravità della pena, e in
genere il concetto della finalità e dei caratteri della pena.
Se il punto di partenza è quello della massima utilità sociale e della salvaguardia dei
diritti dei singoli, è chiaro che il fine della pena non può che essere quello di impedire al
reo di arrecare nuovi danni ai cittadini, e di distogliere gli altri dal farne di simili.
D’altra parte siccome il reo ha anch’esso una individualità da rispettare, la pena deve
essere la minore possibile e solo in quanto strettamente necessaria.
Le pene non devono essere soltanto << utili >>, ma anche << necessarie >>.
Quanto alla misura dei delitti unico criterio possibile è quello del << danno sociale >>.
Per il Beccaria qualunque altro criterio (intenzione del delinquente, dignità dell’offeso,
gravità del peccato) è infondato data l’imperscrutabilità dell’intimo animo del
delinquente.
Intorno a questi concetti centrali prendono forma tutte le conseguenze a cui perviene il
Beccaria. Uno su tutti quello del rifiuto della pena di morte così motivato dal Beccaria:
<< Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che
2
Linguet, Annali politici e letterari
detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare
i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio >> 3.
Mi chiedo a questo punto: quale è stato il significato del pensiero di Cesare Beccaria
nella storia della scienza del diritto penale? Intanto rappresenta il primo vero tentativo
di un ordinamento sistematico del diritto penale attorno a un chiaro e preciso pensiero
informatore. A prescindere dal valore dell’opera, il libro Dei delitti e delle pene
rappresenta un punto di riferimento, un principio di orientamento valido, tale da far
passare a vera coscienza scientifica un problema fino ad allora risolto in modo arbitrario
e spesso confusionario.
Una costruzione che a partire, sempre e per ogni aspetto, dai presupposti fondamentali
giungeva a dare risoluzione ad ogni singolo problema.
Quanto al valore si ricollega specialmente alla corrente illuminista che fa capo all’idea
del contratto sociale ed è questa idea che informa il sistema.
Nel Beccaria c’è una pena umana e una pena divina; e se la pena divina è soltanto
divina, di essa allora non deve interessarsi il diritto. Così tiene distinte le due sfere.
Il fine della pena è quindi quello della difesa degli interessi sociali; della molteplicità di
cui ho parlato all’inizio della indagine; di una società che è contratto. In poche parole il
fine della pena è la difesa sociale; la stessa che è possibile ritrovare nella maggior parte
dei criminalisti posteriori. La difesa quindi di individui contro << alcuni >> individui.
La difesa di un tipo di società a quei tempi, però, ancora non molto chiara; divisa tra una
concezione di società per natura composta da uomini e delinquenti e una concezione di
società che è umana in quanto l’umanità rappresenta un valore spirituale, una idea.
Questa diversa concezione animerà anche il dibattito tra la Scuola Classica e la Scuola
Positiva portando persino alla crisi della scienza del diritto penale.
Bibliografia:
- U. Spirito, Storia del diritto penale italiano, Torino, 1932
- Linguet, Annali politici e letterari
- Beccaria, Opere, Milano, 1821
- Cantù, Beccaria e il diritto penale, Firenze, 1862
- Beccaria, Dei delitti e delle pene
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Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII