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http://www.10righedailibri.it
I edizione: agosto 2011
© 2011 Arcana Edizioni Srl
Via Isonzo 34, Roma
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico e logo design: Maurizio Ceccato | IFIX Project
Cover: Laura Oliva
La presente opera di saggistica è rivolta all’analisi e alla promozione di autori e opere di ingegno.
Si avvale dell’articolo 70, I e III comma, della Legge 22 aprile 1941 n. 633
circa le utilizzazioni libere, nonché dell’articolo 10 della Convenzione di Berna.
ISBN: 978-88-6231-159-5
www.arcanaedizioni.com
ELEONORA BAGAROTTI
THE WHO
PURE AND EASY
TESTI COMMENTATI
Prefazione di Ernesto Assante
arcana
A mio figlio Pietro
This is your generation
This is your generation, baby
THE WHO.
[Londra, 1964]
“Gli Who hanno cambiato il mio mondo”.
– EDDIE VEDDER
“Volete sapere perché erano i più grandi? Perché sono stati i primi a fare rock
duro”.
– JACK BLACK
“Gli Who hanno incarnato una serie di estremi contraddittori: spiritualità e
alienazione, unità e ribellione, intelligenza e passione”.
– AHMET ERTEGUN
“Pete Townshend è un chitarrista fantastico e un songwriter eccezionale”.
– STEVE JONES (SEX PISTOLS)
“Più di ogni altra band, gli Who sono il nostro modello”.
– BONO
“Sono stati la mia ispirazione”.
– BRIAN MAY (QUEEN)
“Da ragazzino, quando andavo a trovare mio padre, sull’autobus ascoltavo THE
WHO SELL OUT. Non c’è stato periodo nella mia vita in cui non l’abbia ascoltato, a partire da quando avevo undici anni. Non so quante volte l’ho ascoltato: non mi ha soltanto influenzato, mi è entrato dentro”.
– MATT FRIEDBERGER (FIERY FURNACES)
“Quello che amo di Pete è il modo in cui coniuga un’energia assoluta, viscerale e intenzioni serissime”.
– ROBERT WYATT
“Ero un grande fan degli Who da ragazzo. Soltanto in seguito ho scoperto che
Pete Townshend scriveva tutte le canzoni, e col senno di poi sembrava strano
che fosse Roger Daltrey a cantarle. Ma funzionava”.
– PETER BUCK (R.E.M.)
“Ovunque vada, porto sempre con me un pezzo degli Who. Non mi stanco
mai di ascoltarli, mi tirano su il morale”.
– BOBBY GILLESPIE (PRIMAL SCREAM)
“Hanno avuto un influsso enorme su di me. Sono tra i cinque gruppi migliori di tutti i tempi. Ed è grandioso che vengano da Shepherd’s Bush...”.
– MICK JONES (THE CLASH)
“Pete Townshend è un uomo dotato di un’energia creativa senza pari”.
– CARLO VERDONE
SOMMARIO
Prefazione di Ernesto Assante
Intro. Maximum R&B
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Pete Townshend Solo
Ghost Track
17
37
61
67
97
109
141
197
201
231
237
287
321
357
389
423
427
475
523
Bibliografia
Ringraziamenti
Keyword
529
531
533
MY GENERATION
Intermezzo #1
A QUICK ONE
Intermezzo #2
THE WHO SELL OUT
TOMMY
Intermezzo #3
WHO’S NEXT
Intermezzo #4
QUADROPHENIA
THE WHO BY NUMBERS
WHO ARE YOU
FACE DANCES
IT’S HARD
Intermezzo #5
ENDLESS WIRE
Prefazione.
Era il nel 1964 quando un quartetto di giovanissimi mod londinesi pubblicava il suo
primo singolo. Era il 3 luglio, il gruppo aveva il nome di The High Numbers e il
45 giri conteneva due brani: Zoot Suit e I’m The Face. La band aveva già avuto un
altro nome, quello di The Detours, e ne avrebbe avuto di lì a poco un altro, ben
più singolare e fortunato, The Who, con il quale sarebbe passata alla storia.
Tra breve saranno passati cinquant’anni e per una band il cui singolo più famoso,
My Generation, recitava “spero di morire prima di diventare vecchio” sono certamente tanti. Roger Daltrey, il vocalist, intona ancora quello straordinario ritornello, da
solo o assieme al chitarrista, compositore e anima della formazione, Pete Townshend,
mentre agli altri due componenti originali della band britannica, il batterista Keith Moon e il bassista John Entwistle, sono scomparsi, il primo per un overdose di droghe e
farmaci il 7 settembre del 1978, il secondo nel 2002, in un albergo di Las Vegas, dopo aver consumato una quantità eccessiva di cocaina. Ma quel grido non sembra mai
fuori luogo. Perché, vi piaccia o no, gli Who sono il rock.
Certo, direte voi, ma ci sono altri, anche più importanti. Ci sono i Beatles e gli
Stones, gli Zeppelin e Hendrix, i Cream e Dylan, e l’elenco potrebbe continuare a
lungo. Ma, parliamoci chiaro, qualsiasi fan del rock potrebbe vivere nella solita,
classica, isola deserta senza i dischi degli uni o degli altri. Ma se pensa di essere, se
sa di essere, un rocker, non può vivere senza la musica degli Who. E se ci riesce,
senza sofferenza, allora, scusatemi, non è davvero un appassionato di rock. Perché
il segreto, il mistero, il fascino, la forza, la potenza, la passione, il sentimento, l’originalità, l’energia, il sentimento del rock, sono tutti racchiusi nella musica degli
Who, in ogni brano degli Who, in ogni parola degli Who, in ogni nota degli Who.
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PREFAZIONE
Va bene, non ci volete credere, pensate che siano stati importanti, fondamentali, ma che si può vivere anche ascoltando altro. Bene, proviamo a darvi ragione. Di
certo, però, gli Who hanno scritto alcune delle pagine più importanti della storia della musica popolare e del rock del secolo appena trascorso, attraversando cinque decenni senza che la loro leggenda venisse minimamente scalfita dal tempo. Di sicuro
sono stati campioni della “british invasion” degli anni Sessanta, re del rock planetario e maestri dell’hard rock nel decennio successivo, padri putativi della generazione punk. Gli Who hanno prodotto canzoni come My Generation, I Can’t Explain,
The Kids Are Alright, See Me, Feel Me, Pinball Wizard, tanto per citarne alcune, che
sono oggi considerate dei veri e propri classici del rock, al pari di quelle dei Beatles,
degli Stones, di Bob Dylan, hanno scritto due opere rock, TOMMY nel 1969 e
QUADROPHENIA nel 1973, che hanno avuto numerose versioni cinematografiche e
teatrali, hanno venduto qualcosa come cento milioni di dischi e i loro album, ancora oggi, tutte le volte che vengono ristampati, trovano nuovi e vecchi appassionati pronti ad acquistarli. E a differenza degli Stones, gli unici altri ancora in attività
della prima ondata del british rock, hanno realizzato un nuovo album, dopo un
lunghissimo silenzio, che è ricco di musica eccellente. D’accordo, non vi basta, e può
anche essere. “Ma siamo stati una band unica, con una straordinaria magia che ci
ha legato, assieme a un grande sense of humour”, ci ha detto Roger Daltrey. “Abbiamo fatto una musica che non concedeva mezze passioni, o la si amava, o la si odiava, e noi stessi non eravamo per le mezze misure, avevamo un’ attitudine sfrontata,
non avevamo paura, come era nel primo rock’n’roll”. E ha ragione.
Sì, capisco, c’è ancora qualcuno che non ci crede, che non capisce che gli Who
sono il rock, nella maniera più assoluta e completa. Perché raccontano esattamente
il mito, la leggenda, il desiderio, la ribellione, la passione, la disperazione, la vita
del rock. “Ogni canzone ha a che vedere con esperienze personali”, ci spiega Pete
Townshend, “e ogni cosa che scrivo, in qualche modo, è frutto delle mie esperienze
e delle mie sensazioni. Non scrivo pensando a me stesso, io credo di continuare a scrivere come facevo all’ inizio della mia carriera, per uno di quei fan di Shepherd’s
Bush che ascoltava My Generation e Anyway Anyhow Anywhere e che venne a dirmi:
‘Ecco, questo è quello di cui abbiamo bisogno, è quello che vogliamo dire, all’establishment e al mondo intero’. E io credo di aver mantenuto fede a questo impegno
durante la mia carriera, cercando di continuare a scrivere per loro. Adesso anche i fan
di allora sono più anziani, hanno la mia età, sono sposati, divorziati, alcuni sono
morti, altri hanno famiglia, alcuni hanno figli e altri no, alcuni sono diventati ricchi e altri combattono con la miseria, ma io continuo a scrivere per loro, sulle loro
relazioni e la loro vita. Ci metto dentro le mie esperienze e la mia musica.
“Al momento non c’è, non credo che ci sia, una voce rock’n’roll abbastanza forte per protestare contro il modo in cui sono trattati e inscatolati i ragazzi, una voce
che dica ‘ecco cosa sei, ecco cosa c’è di sbagliato nella società’. I ragazzi sono importanti, la loro voce è importante, la loro protesta è assolutamente vitale e necessaria,
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PURE AND EASY
i loro desideri sono quelli che fanno muovere il mondo. Io faccio parte di una generazione fortunata, eravamo i primi a urlare forte e chiaro i nostri desideri, e gli
adulti si dovettero fermare ad ascoltarci. Oggi non è più così.
C’è stata una rivoluzione negli anni Settanta, era condizionata dalle droghe psichedeliche e ha cambiato la società. Molti di quei cambiamenti sono stati importanti e divertenti, hanno resistito al tempo, ma penso che per la maggior parte siano stati orribili. E quella rivoluzione ha prodotto grande musica, per un breve periodo di tempo, ma ha anche fatto cambiare volto al rock’n’roll, gli ha fatto perdere
l’elemento che io credo fosse fondamentale all’inizio della sua storia, il fatto di aver
dato una voce a persone che erano frustrate, isolate e perse”.
La storia degli Who è fatta di questo, è fatta di rock, di musica e di straordinarie canzoni che hanno saputo raccontare (e per molti versi ancora raccontano) i
mutamenti di generazioni diverse, l’affacciarsi sul palcoscenico del mondo di un soggetto sociale così particolare come il giovane, il rifiuto, la rabbia, l’amore, la religiosità, la passione, la vecchiaia alla fine, di quelli che dagli anni Sessanta in poi hanno
vissuto la vita in maniera diversa, lottando per cambiare un mondo fatto a immagine e somiglianza degli adulti. E per le canzoni, giustamente, gli Who passeranno
alla storia: non per le follie di Keith Moon, non per il microfono trattato come una
fionda da Roger Daltrey o per i salti e il mulinello del braccio sulla chitarra di Pete
Townshend, o ancora per l’incredibile imperturbabilità di John Entwistle. Resteranno perché Pete Townshend è certamente, accanto a Lennon e McCartney, l’autore più profondo e completo che il rock inglese abbia mai avuto, che ha saputo mettere insieme un catalogo di perle assolutamente impareggiabile.
Va bene, non vi ho convinto. Allora, per favore, prima di leggere questo libro fate
una cosa. La “dovete” fare, perché serve a capire la storia che state per leggere, serve a
cambiare il vostro punto di vista, comunque. Accendete il vostro giradischi, se amate
il vinile, oppure il lettore Cd o quello mp3. Mettete su WHO’S NEXT (un album senza
il quale, francamente, vivere non ha senso) e arrivate alla traccia numero 9, che dura
8 minuti e 36. Si tratta di Won’t Get Fooled Again. Mettiamo anche il caso che la canzone non vi piaccia, cosa che è ragionevolmente possibile. In questa canzone, semmai
non lo ricordiate, c’è un momento, prima del finale, nel quale Roger Daltrey lancia
un urlo potentissimo. In quell’urlo, in quell’incredibile e grandissimo urlo, è nascosto
il segreto del rock’n’roll, la miscela di passione, amore, rabbia e libertà che questa musica da più di cinquant’anni propone. In quell’urlo c’è tutto, ed è impossibile non capirlo. Spero di morire prima di diventare vecchio, cantava Pete Townshend in My
Generation. Sono passati moltissimi anni, e anche noi siamo invecchiati assieme agli
Who e non siamo morti. Perché siamo convinti, comunque, che il rock, questo rock,
il rock degli Who, sia ancora una straordinaria musica di vita.
ERNESTO ASSANTE
MAGGIO
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2011
Intro.
Maximum R&B
“Da ragazzi, io e John Entwistle formammo con altri due amici un gruppo musicale. Frequentavamo la Acton County School. Iniziammo a suonare brani degli
Shadows e io mi sentivo terribilmente felice. In quel periodo ero un adolescente
inquieto e insicuro, e il fatto di avere un pubblico che ci apprezzasse quando ci
esibivamo mi regalava un’eccitazione incredibile. Soprattutto, mi dava sicurezza in
me stesso. Ero molto timido e defilato rispetto ai miei coetanei, per non parlare
delle ragazze. Il giorno in cui ho preso in mano un banjo, e più tardi una chitarra
elettrica, e ho iniziato a suonare, è andata decisamente meglio”. Parola di Pete
Townshend.
Sembra strano, e in effetti lo è. Eppure, non è difficile immaginarselo così, Pete
Townshend, malgrado il successo e la fulgidissima carriera pluridecennale – e qualitativamente alta – che lo hanno portato fin qui. Qui oggi, in un tardo pomeriggio
londinese durante il quale, mentre la confezione di LIVE AT LEEDS DELUXE fa bella
mostra nelle vetrine dei negozi, accanto ai Cd di popstar ben più giovani e cliccate
dai teenager, scende copiosa la neve.
In un altro mondo, se Townshend non portasse gli occhiali e il cappello, oggi
verrebbe fermato per la richiesta di un autografo. Ma quello è il mondo del palcoscenico, quello che da un lato più gli appartiene e, dall’altro, paradossalmente,gli
scorre a fianco ma in linea parallela.
Difficilmente s’incontrano persone timide e defilate come Pete Townshend.
Quello che spaccava la chitarra e sfidava Jimi Hendrix al Festival di Monterey, nel
1967. Quello che ha composto ed eseguito con oceanica energia capolavori del
rock divenuti bandiera di più movimenti; il primo autore di opere rock, pioniere
del sintetizzatore e della meditazione trascendentale. Il tutto, senza mai enfatizzare
alcuno di questi aspetti, specialmente una volta sceso dal palco.
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INTRO. MAXIMUM R&B
Cammina piano e ha l’aria rilassata, Pete. Gli piace questo assaggio di neve, anche
se Londra si blocca e va in tilt, esattamente come qualsiasi capitale del Sud. Con
buona pace di chi ritiene che al Nord tutto, miracolosamente, funzioni.
Il fondo del suo cappotto nero svolazza di qua e di là, in risposta al ritmo del
suo passo. Indossa una raffinata sciarpa di seta che ha tutta l’aria di essere molto
costosa. In fatto di stile, difficilmente Pete ha sbagliato un colpo.
Ogni tanto, raramente, sorride. Non accade spesso, ma se lo fa ci deve essere
un’ottima ragione. In quel caso, gli si illuminano gli occhi. Non accorgersene è
impossibile. Ed è contagioso, un potente virus.
“Secondo te, dovrei partire da ‘Hope I die before I get old’ per aprire un libro che
parla dei testi degli album degli Who? O sarebbe troppo banale?”, gli chiedo.
“Beh, non sono la persona giusta per dirti di farlo. Quella frase, me la tirano in
ballo continuamente. So di avere una certa età, ma lo facevano già vent’anni fa...
La rockstar è un brutto mestiere per invecchiare”, risponde Pete.
“Ma il rock ormai è Storia, quindi le rockstar non hanno età!”, gli faccio notare.
Per chi non mi conosce, l’osservazione potrebbe sembrare un atto diplomatico; in
verità lo penso sul serio. E Pete coglie la mia sincerità.
“Giusta osservazione. Noi rockstar possiamo solo morire, e il viaggio è diretto,
senza fermate”, dice scherzando. O forse no. Per Keith e John, in fondo, è stato così.
A ogni modo, una volta salutato Pete, rifletto su alcuni aspetti. Il primo riguarda la sua disponibilità e la fiducia nei miei confronti, di sicuro ricambiate all’ennesima potenza. Il secondo, invece, riguarda alcuni accordi presi con lui per poter
aggiungere ai versi dei testi più significativi degli Who i suoi commenti. Esiste
infatti tantissimo materiale storico e bibliografico sulla band, ma l’opportunità di
avere qualche riflessione di Townshend riguardo ad alcune canzoni e album del gruppo, in un’ottica odierna, è indubbiamente una prospettiva che lascia spazio a inedite sorprese.
Si sta affacciando il decimo anniversario dell’attentato alle Twin Towers, ma la storia
degli Who ha avuto inizio molto tempo prima. Un inizio classico, a dire il vero. Era il
1959. Banalmente, credo proprio che per parlare di MY GENERATION partirò da lì.
Come accadde ad alcuni membri dei Beatles e dei Rolling Stones, Pete
Townshend e John Entwistle erano compagni di scuola che condividevano la stessa passione per la musica. John, che era nato nel quartiere di Chiswick il 9 ottobre
del 1944 e, proprio come Pete, aveva genitori musicisti, era uno dei pochi amici
del timido e introverso Townshend. Pete era nato il 19 maggio 1945 nello stesso
quartiere londinese ed era il primogenito di un sassofonista e di una cantante. La
sua infanzia e adolescenza non furono semplici. Uno dei motivi era sicuramente il
complesso di cui soffriva riguardo al suo aspetto fisico e il modo in cui questo si
rifletteva nel rapporto con i suoi coetanei. Il suo naso decisamente abbondante,
unito al fisico alto e un po’ troppo scavato, lo poneva al di fuori della categoria dei
“belli” ma anche da quella degli “accettabili”.
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PURE AND EASY
In realtà, questo malessere era legato a un motivo molto più importante, anzi
fondamentale, rappresentato dal senso di precarietà e insicurezza ereditati da una
situazione familiare problematica, che mise Pete in serio pericolo quando, ancora
bambino, fu affidato alla nonna materna, malata di mente. Tuttavia, essendo nato e
cresciuto in un universo fatto di musica, Townshend da subito scoprì di possedere
un talento incredibile, scaturito dalle frequenti occasioni di ascolto di tutti i generi
musicali possibili, grazie al mestiere dei genitori e in particolare del padre Cliff.
Con l’amico John, i pomeriggi trascorrevano velocemente attraverso l’ascolto di
vecchi dischi di jazz, sparati a tutto volume sul vecchio piatto mono. La prima formazione musicale di Townshend, in qualità di semplice fruitore e appassionato, proveniva soprattutto dai dischi di John Lee Hooker, Jimmy Smith e Slim Harpo.
Fu però l’incontro con il “bullo” Roger Daltrey e con il suo gruppo a cambiare
definitivamente lo scenario della direzione musicale di Pete Townshend, che il
cantante, appena conosciuto, non esitò a definire “a nose on a stick” (“un naso su
un palo”). Lo stesso accadde a John Entwistle, che fino a quel momento suonava la
tromba, oltre che con Townshend, anche con una band di Dixieland. Grazie all’unione con la band di Daltrey, per la prima volta Entwistle prese in mano il basso. In
pratica, se la storia del rock ha avuto in John il più grande bassista di sempre, bisogna ringraziare Roger, che in quel momento era semplicemente sprovvisto di qualcuno che sapesse suonare lo strumento.
Da lì ai Detours, il passo per Townshend fu breve. Infatti John, che per primo
conobbe Roger, lo invitò di lì a poco a unirsi al gruppo insieme a lui, nel ruolo di
chitarrista. Nella band inzialmente c’erano anche il batterista Doug Sanden e il
cantante Colin Dawson, che poco dopo se ne andò cedendo lo scettro del frontman
a Roger Daltrey che, nato il 1 marzo 1944 nel quartiere di Hammersmith da una
famiglia di origini modeste, era quasi coetaneo di John e Pete. Tuttavia, da vero ribelle, Roger aveva già abbandonato gli studi mentre Pete avrebbe iniziato di lì a poco
l’istituto d’arte, e John era uno studente lavoratore.
“Non avevamo molte possibilità”, ha dichiarato Daltrey a proposito degli inizi
degli Who. “All’epoca, nel nostro quartiere di Londra, si diventava calciatori o
pugili o mafiosi. Oppure si diventava famosi con la musica”.
Il repertorio dei Detours, la band di Roger, appunto, era vario e si basava sull’alternanza di strumentali degli Shadows e dei Venture e pezzi di rock’n’roll americano
targato anni Cinquanta. In scaletta spiccavano in particolare brani rhythm & blues.
Nel frattempo, Pete Townshend si iscrisse alla Ealing Art School. Gli studi artistici rappresentano un altro “classico” delle rockstar inglesi di quella generazione,
da John Lennon a David Bowie. Non a caso, in contemporanea, Pete acquistò la
sua prima chitarra elettrica: una Gibson. Alla Ealing Art School avvenne un altro
incontro destinato a rivelarsi fondamentale nella sua vita privata e professionale: si
fidanzò, giovanissimo, con una graziosa compagna, Karen Astley, che sarebbe diventata sua moglie e la madre dei suoi tre figli Aminta, Emma e Joseph. Karen, inoltre,
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INTRO. MAXIMUM R&B
era figlia del compositore e ingegnere del suono Edwin Astley, che in futuro, insieme ad alcuni suoi figli a loro volta musicisti, avrebbe collaborato con successo alle
produzioni discografiche degli Who e di Pete in qualità di solista.
Tornando ai Detours, in quegli anni si esibivano soprattutto nella zona Ovest
di Londra – Hammersmith, Shepherd’s Bush, Acton, Greenford, Harrow, Chiswick
e Ealing – per 10 sterline a serata, ma con una richiesta specifica: i gestori dovevano essere bendisposti e preparare il palcoscenico al meglio. Nessuna scusa: Roger
pretendeva che il pubblico fosse attento e ascoltasse la band.
Il gruppo aveva un seguito piuttosto sostanzioso. Alcuni compagni della scuola
d’arte suggerirono a Pete di cambiare nome. Uno di loro, Richard Barnes, che in
futuro sarebbe diventato il biografo ufficiale della band, suggerì The Who. Pete,
Roger e John si entusiasmarono subito. Era un nome diretto e semplice, e suonava
perfetto.
Tuttavia, mancava ancora un tassello fondamentale perché gli Who diventassero
la band che tutti conosciamo. Il batterista Doug Sanden fu invitato ad andarsene
poiché “non funzionava” con il resto della band. Roger Daltrey, che inizialmente
suonava la chitarra, decise di dedicarsi definitivamente al canto e all’armonica a bocca.
John Entwistle dimostrò subito di essere uno straordinario bassista, duttile e in
grado di trasformare con facilità ogni brano in una potentissima architettura ritmica. L’unico problema era proprio lo stile di Doug, un po’ datato e poco accattivante.
Profondamente distante dal furore che già caratterizzava le personalità degli altri musicisti, sembrava ancora più smorto e insipido.
Tutto ciò divenne lampante quando gli Who vennero scartati da un’audizione
per la Philips Records, alla quale tenevano parecchio. Nonostante la delusione, si
trattò di una sconfitta profetica: di lì a poco, un vorace batterista dalla personalità
eccentrica si sarebbe abbattuto nella vita di Pete, John e Roger.
Keith Moon era nato il 23 agosto 1946 a Wembley. Quando incontrò gli Who per
la prima volta, era un ragazzino dai lineamenti dolci e dal carattere ipercinetico. Folle e
carismatico, si presentò all’Oldfield pub la sera in cui la band stava facendo alcune
audizioni per trovare il batterista ideale. Keith arrivò vestito in modo sgargiante e con i
capelli tinti di rosso. Si sedette accanto a John, Pete e Roger e si mise a osservare il
provino di un tizio che stava finendo di suonare sul piccolo palco del pub.
“Io so fare di meglio”, disse quando giunse il suo turno. Dopo aver bevuto qualche bicchierino per farsi coraggio, Keith salì sul palco e suonò con un tale vigore
che ruppe immediatamente il pedale della grancassa e un paio di bacchette.
Townshend, stupefatto, guardò John e Roger: nessun dubbio, era lui il quarto
uomo del gruppo.
Nel maggio del 1964, quando la distruzione di batteria e chitarra durante le esibizioni dal vivo era ormai divenuta un must della band, gli Who conobbero Pete
Meaden, esponente di un nascente movimento giovanile di Londra, quello mod. Il
termine deriva da modernist, una parola utilizzata negli anni Cinquanta per descri21
PURE AND EASY
vere i musicisti e i fan del modern jazz, ma usata anche nel mondo dell’arte, dell’architettura e del design. Nel 1959 uscì il romanzo Absolute Beginners di Colin
MacInnes, i cui protagonisti esibivano alcuni tratti caratteristici del movimento: la
predilezione per i vestiti eleganti e i parka, tagli di capelli impeccabili, una forte
passione per la musica soul, un certo piacere nell’uso delle anfetamine e, soprattutto, una vespa da guidare. La filosofia mod consisteva nel prendere il meglio della
società, non tanto per seguire passivamente una moda (anche se il look era per tutti
un tassello fondamentale) bensì per puntare alla continua ricerca di una perfezione
estetica e comportamentale individuale.
Visto lo scenario, il piano di Pete Meaden era quello di fare degli Who il gruppo-icona del movimento, vestendo i musicisti in base al più classico stile mod e
cambiando nuovamente il nome del gruppo: da The Who a The High Numbers. Il
tutto, però, avvenne non senza accese discussioni, dovute in particolare allo scetticismo del teddy boy Roger Daltrey, cresciuto nel mito di Elvis & c. Occorre ricordare, tra le altre cose, che esisteva un fenomeno contrapposto al movimento mod,
quello dei rocker. Una rivalità talvolta anche violenta, che finirà sulle cronache dei
giornali e sarà ripresa, anni dopo, in quel capolavoro intitolato QUADROPHENIA.
Il piano funzionò: la scena musicale mod aveva il suo fulcro al club The Scene,
a Wardour Street, nel quartiere londinese di Soho. Gli High Numbers si esibivano
allo Scene ogni lunedì sera, proponendo sonorità rhythm & blues. In poco tempo,
divennero il gruppo mod più importante del momento. Maximum R&B!
Meaden mise mano a un paio di vecchi brani che, a suo avviso, ben incarnavano la personalità musicale e artistica della band. Uscì così un 45 giri con una rielaborazione di Got Love If You Want di Slim Harpo, che prese il titolo di I’m The Face.
Il lato B conteneva invece la canzone Zoot Suit, originariamente cantata dagli Showmen. Le critiche e le vendite non furono tuttavia straordinarie e il testo non era niente di speciale. Il primo singolo del gruppo, quando ancora si chiamava The High
Numbers, resta pur sempre una rarità per i collezionisti. Ma solo per quelli più
puri e disposti a spendere parecchio denaro. Per tutti gli altri, infatti, più tardi le
due canzoni sono state inserite in alcune compilation.
22
I’M THE FACE
“Ricordo bene il periodo che seguì l’uscita di I’m The Face”, mi racconta Pete. “Ci
si ricorda sempre del Sabato del Villaggio, non è così?”, prosegue citando a sorpresa
Giacomo Leopardi, forse per omaggiare la mia nazionalità. “Quell’atmosfera che
prelude a qualcosa di speciale che è già nell’aria, e che probabilmente accadrà, ma
c’è ancora un’attesa... Il che è emozionante ma anche foriero di sensazioni spiacevoli, come l’ansia e la paura di non farcela. Tuttavia, eravamo davvero molto motivati. Londra, in quel momento, rappresentava per noi lo scenario ideale perché
potesse accadere ciò che avevamo sempre sognato. Qualcosa ci diceva che tutto
sarebbe andato bene, che eravamo sulla strada giusta. O quasi...”.
“Pensavo da qualche tempo a come sarebbe dovuto essere il primo disco degli
Who”, ricordò poi Pete Meaden. “La sera prima della registrazione, scrissi di getto
le parole di I’m The Face, la melodia c’era già”.
Il testo di Meaden suonava molto mod e rappresentava un’entrata perfetta per Roger
Daltrey, che iniziava a proporsi come leader della band, spesso indossando occhiali
scuri e ostentando un’aria cool che avrebbe di sicuro colpito i fan. A parte questo aspetto, musicalmente il brano non era particolarmente intrigante.
Un ritaglio di giornale dell’epoca, riportato su un numero speciale di «NME»
sulla sottocultura mod, ne divide i seguaci in diverse categorie. Tra queste, si citano
i “Faces” e i “Tickets”. I “Faces” sono coloro che fanno tendenza in ogni campo: il
ballare, il parlare, lo sballarsi, lo stare in compagnia. Se gli altri non ti seguono, non
sei un “Face”. Quindi, per “Face” s’intende un leader del gruppo. Proprio come si
presenta Roger quando canta la canzone I’m The Face. I “Tickets” sono invece quelli che “devono seguire tutto ciò che fa un Face”.
Da Absolute Beginners di Colin MacInnes, poi divenuto un film diretto da Julien
Temple nel 1985 e interpretato tra gli altri da David Bowie – che da ragazzino fu un
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PURE AND EASY
mod e un seguace degli Who, influenze riscontrabili, insieme ad espliciti riferimenti ai Kinks, nel suo album d’esordio DAVID BOWIE (Deram, 1967) – e dalla cantante
Patsy Kensit, alle sfilate di moda che iniziavano a inserire il parka in passerella; dalla
moda della Lambretta, che contagiò tantissimi giovani in tutto il mondo, al taglio di
capelli deciso, all’estetica pulita e geometrica dei vestiti delle modette, le rappresentanti femminili del movimento, fino agli articoli che citavano le prime risse tra mod
e rocker, riprese più tardi in QUADROPHENIA; dallo ska all’R&B e al revival degli
anni Ottanta e al Britpop degli anni Novanta, la sottocultura mod ha assunto espressioni particolari e diverse, ispirando le nuove correnti culturali di più generazioni. La
stessa eredità degli Who non è solo musicale ma sociale e artistica nel senso più
ampio del termine. Alla fine degli anni Settanta, artisti come Paul Weller e i suoi Jam
presero esempio da Townshend e dagli Who, in quanto ad approccio scenico e a certe
sonorità, riuscendo a portare una ventata d’innovazione nello stile musicale mod.
All’inizio degli anni Novanta, il fenomeno Britpop fa emergere band strettamente
collegate al nuovo modernismo come Oasis, Blur, Ocean Colour Scene.
Non c’è dubbio: gli Who, con il trascorrere dei decenni, restano dai “Faces”. E
continuano a fare tendenza.
I’m the face baby, is that clear
I’m the face baby, is that clear
I’m the face if you want it,
I’m the face if you want it, dear,
All the others are third class tickets by me, baby, is that clear
Io sono il volto piccola, ti è chiaro?
Sono il volto tesoro, ti è chiaro?
Sono il volto se lo desideri,
Sono il volto se lo vuoi, cara
Tutti gli altri sono biglietti di terza classe per me, piccola, ti è chiaro?
L’occasione di tornare a chiamarsi The Who giunse dopo un’altra audizione deludente per gli High Numbers. Stavolta a bocciarli fu la EMI. Ancora una volta, però,
all’ennesimo momento di disperazione fece seguito un incontro fondamentale, quello con Kit Lambert e Chris Stamp, due giovani registi di successo che assunsero il
management della band. In verità, i due volevano realizzare un film sulla musica pop,
anzi, una sorta di primordiale reality sulla scoperta e sulla nascita di una rock band.
Certo, un’idea geniale e ben distante dal modello X Factor.
Incapparono negli High Numbers in alcuni club londinesi dove la band si esibiva. Lambert li notò per primo e ne rimase profondamente colpito. La sera dopo,
Kit tornò a rivedere il gruppo insieme a Stamp, che rimase a sua volta letteralmente sbigottito dall’energia che la band trasudava, qualunque cosa suonasse. Fu così che
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INTRO. MAXIMUM R&B
Lambert e Stamp decisero di investire sul gruppo, che tornò a chiamarsi definitivamente The Who.
Stamp ricorda che “Pete, oltre al windmill, iniziò quella sera ad aprire le braccia
in orizzontale: faceva quel numero chiamato birdman, e lo riproponeva ogni volta.
Beh, sia lui che gli altri possedevano una carica unica. Erano molto giovani, ma io
e Kit capimmo immediatamente le loro potenzialità”.
Il termine “windmill” significa mulinello e si riferisce alle rotazioni del braccio
di Townshend tra un accordo e l’altro. Per stessa ammissione di Townshend, che lo
prese ad esempio, il primo ad aver utilizzato quel gesto scenografico, immortalato
in moltissime fotografie e poster, fu Keith Richards nei concerti degli Stones.
Fu in quel frangente che Pete Townshend compose la sua prima canzone per gli
Who, intitolata I Can’t Explain. La sua vena compositiva era molto incoraggiata da
Kit Lambert, figlio di un musicista e uomo di teatro, cresciuto in un ambiente culturalmente fervido e divenuto ben presto il tipico dandy inglese con un senso degli affari molto acuto, ma dotato anche della rara capacità di riconoscere il vero talento,
anche solo in forma embrionale. Con Pete, Kit ebbe un rapporto molto stretto. Fu
una sorta di secondo padre per lui, lo sostenne e lo ispirò, talvolta anche attraverso
lo scontro diretto.
“Lambert era una spina nel fianco, ma una spina necessaria, di cui avevo molto
bisogno”, ricorda Townshend. “Tanto che mi spinse a cimentarmi nella composizione. Fu così che scrissi I Can’t Explain. Senza Keith Lambert e la sua insistenza, io
da solo non l’avrei mai fatto. Da lì, tutto ebbe inizio. Fu come aprire un cassetto e
vedere ciò che conteneva, invece di tenerlo chiuso e non chiedersi mai quali ricchezze potesse nascondere”.
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I CAN’T EXPLAIN
Poche canzoni nella storia del rock hanno avuto lo stesso impatto di I Can’t Explain.
Un impatto che invita, sin dai primi accordi di chitarra, a entrare in una spirale ritmica estremamente accattivante, basata su un testo intimistico piuttosto raffinato, dai
rimandi psicologici e filosofici. Quel chiedersi “chi sono veramente... non lo capisco nemmeno io”, tipico di tantissimi giovani.
È la prima tappa degli Who. Una canzone che, insieme a My Generation, è un
inno adolescenziale. Una nota curiosa: l’assolo non accreditato è di Jimmy Page.
Ancora oggi, l’esordio compositivo di Pete Townshend resta un must, ogni volta
riproposto dal vivo con la stessa esplosività. Inarrivabile.
“Ne avevamo di belle canzoni in scaletta”, ha dichiarato Roger, “ma I Can’t
Explain possedeva qualcosa di diverso. Esprimeva qualcosa che veniva da dentro. Era
diversa da tutte le altre. Credo proprio che Pete, da subito, stesse tirando fuori la
sua genialità”.
Got a feeling inside,
Can’t explain,
It’s a certain kind,
Can’t explain,
I feel hot and cold,
Can’t explain,
Yeah, down in my soul, yeah
Can’t explain
Dizzy in the head
26
INTRO. MAXIMUM R&B
And I’m feelin’ blue
The things you said
Well, maybe they’re true
Getting funny dreams
Again and again
I know what it means but
Can’t explain
I think it’s love,
Try to say to you
When I feel blue
But I can’t explain
Provo una sensazione dentro,
Non so spiegarlo,
È di un certo tipo,
Non so spiegarlo,
Sento caldo e freddo,
Non so spiegarlo,
Sì, nel profondo della mia anima, sì,
Non so spiegarlo.
Ho le vertigini
E mi sento triste
Le cose che hai detto,
Beh, forse sono vere
Sto facendo sogni strani,
Ancora e ancora,
So cosa significa ma
Non so spiegarlo
Penso che sia amore,
Provo a dirtelo
Quando mi sento triste
Ma non so spiegarlo,
All’inizio degli anni Settanta, Townshend scrisse su «Rolling Stone» a proposito
di I Can’t Explain: “Sembra parlare della frustrazione di un giovane che è talmente
incoerente e immaturo da non riuscire a spiegare il suo stato d’animo a un borghese intellettuale, bla bla bla. Oppure, certamente, potrebbe riferirsi alle droghe”.
Nella biografia della band Before I Get Old, Dave Marsh approfondisce il processo compositivo della canzone: “Brani come I Can’t Explain assumono importanza
proprio in virtù delle parole. Sono queste, probabilmente, l’unica dimensione in
cui questo timido, cocciuto e ingannevole giovane uomo può rivelarsi per ciò che è
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PURE AND EASY
veramente, poiché può sottolineare, nelle sue canzoni, il fatto che sta parlando di
un ‘personaggio’ e non di se stesso”.
Vi sono ulteriori aspetti di I Can’t Explain che colpiscono: il primo è che in
questo sdoppiamento di personalità ci sono i germi di alcune canzoni e tematiche
future di Townshend (una su tutte I’m One da QUADROPHENIA, che approfondiremo
nel capitolo dedicato alla rock opera ) e la convinzione di Pete che ogni processo creativo nasca dall’incontro tra l’artista e il pubblico, che senza l’interpretazione dell’ascoltatore la musica non abbia significato.
Racconta Pete in Behind Blue Eyes di Geoffrey Giuliano: “Quando suonammo I
Can’t Explain per la prima volta al Goldhawk, un gruppo di ragazzi venne da me
per dirmi: ‘Que-e-sta è la nostra canzone. Hai detto ciò che noi cercavamo di dire’.
Io chiesi loro: ‘Che cosa?’. Mi risposero: ‘Hai spiegato esattamente quello che proviamo’. Dissi: ‘Ciò che ho detto è che voi non riuscite a spiegare cosa provate’. Loro
risposero: ‘Ebbene, è proprio così, e vogliamo che continui a descrivere sensazioni
come queste’. E allora scrissi Anyway, Anyhow, Anywhere e My Generation, e penso
che fu in quel momento che trovai la mia voce”.
Sulla partecipazione creativa dell’ascoltatore si baserà il suo futuro e più importante progetto solista: LIFEHOUSE. Pete lo realizzerà da solo, e non con gli Who, soltanto nel 2000. E, a riprova del fatto che l’interazione con il pubblico è fondamentale,
non solo il finale della commedia musicale si conclude con un “concerto universale”
ma, accanto al progetto discografico stesso, Townshend produce anche The Lifehouse
Method, un software basato sull’interazione multimediale tra musicisti di tutto il
mondo e la propria musica, grazie a una chiave d’accesso sul suo sito internet.
Tra le migliori cover di I Can’t Explain, va senz’altro nominata quella di David
Bowie, da sempre un grande fan degli Who e, più tardi, amico e collaboratore di Pete
Townshend. Secondo alcuni critici, la sua versione sarebbe addirittura migliore
dell’originale. Segno che il brano contiene in sé la chiave autonoma e universale
che appartiene solo ai capolavori.
Era il mese di gennaio del 1965: malgrado il successo e l’interessamento di un
produttore americano, Shel Talmy, gli Who finirono con il litigare e andarono in
bancarotta. I dissidi erano dovuti al fatto che il ruolo di leader era passato a
Townshend, divenuto autore dei pezzi, mentre Daltrey restava il frontman. A un
certo punto, sembrò che Roger volesse lasciare dal gruppo. Se anni dopo, specialmente dopo l’interpretazione di TOMMY, Daltrey fece scintille nel ruolo di cantante, all’epoca si sentiva pur sempre il fondatore dei Detours, colui che aveva concesso a Pete e a John di unirsi alla sua band. Ora che Townshend componeva le canzoni originali suonate poi dal gruppo, era passato in secondo piano. E questo non gli
piaceva per niente.
Le perdite economiche subite dagli Who in quel periodo furono il risultato degli
strumenti distrutti durante i primi concerti, ma soprattutto della causa legale che Kit
Lambert e Chris Stamp intrapresero contro Shel Talmy della casa discografica ameri28
INTRO. MAXIMUM R&B
cana Decca, che chiaramente non aveva intenzione di mollare il gruppo tanto facilmente. Gli Who, dal canto loro, volevano andarsene e lavorare per Kit e Chris.
Se gli inizi, per un motivo o per l’altro, furono in salita, di lì a poco il ciclone
avrebbe travolto il gruppo, portandolo definitivamente alla ribalta.
Gli Who proponevano un’immagine accattivante e, al tempo stesso, smaccatamente british, indossando giacche le cui stoffe riprendevano la bandiera inglese. Un
altro singolo di successo, Anyway Anyhow Anywhere, fece crescere ancora di più la
curiosità nei confronti della band, che ormai veniva spesso invitata in alcuni noti
programmi musicali televisivi dell’epoca, come Ready, Steady, Go!.
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ANYWAY, ANYHOW, ANYWHERE
Con questa canzone, Townshend compone, a tutti gli effetti, il primo inno anarchico. Per questo e altri motivi, Pete diverrà uno dei pochi, se non l’unico, rocker
apprezzati – o, comunque, rispettati – dai musicisti punk, che incendieranno Londra
nel decennio successivo con l’intenzione di azzerare il passato.
“In questa canzone è entrata la Pop Art”, spiegò Pete a Kit Lambert quando gliela
fece sentire per la prima volta. “Tutti eravamo alla ricerca di abiti pop, musica pop e
comportamenti pop. Questo è ciò che in tanti dimenticano: noi musicisti non cambiamo il nostro modo di vivere, una volta scesi dal palco. Noi viviamo la Pop Art”.
Gli studi di Townshend, sostenuti dalle filosofie in voga all’epoca, intendevano
l’arte come un modo di essere, che si estendeva dalla scelta degli abiti ai locali da
frequentare. Nella quotidianità, l’arte era intesa come un’attitudine, un’espressione
dei comportamenti. Non esisteva distinzione tra arte e vita.
Townshend aveva ragione, e Lambert si entusiasmò immediatamente. Perfino
Brian Jones dei Rolling Stones, quando uscì Anyway, Anyhow, Anywhere, si dichiarò
un fan degli Who e divenne amico di Pete: “Gli Who sono l’unico gruppo giovane
che riesca a produrre un tipo di arte che coniuga la musica all’aspetto visivo. E questo
significa una cosa sola: successo”, dichiarò alla stampa.
Keith Richards gli fece eco rimarcando il fatto che “gli Who sono stati la miglior
cosa accaduta nel 1965”. Il tutto, a dispetto del fatto di aver ispirato il famosissimo
windmill reso universalmente famoso da Townshend.
“Un furto? Non proprio”, mi spiega Pete sorridendo. “Ero un grande fan degli
Stones. Per cui, vedere Keith Richards suonare la chitarra in quel modo mi colpì,
inevitabilmente. Ma non fu un vero e proprio furto, non solo quello. Cercai di
ripeterlo e allargai il movimento, mettendoci molta più forza. Il sound che ottenni
mi piacque moltissimo e divenne del tutto naturale farlo sempre. Del resto, si ruba
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INTRO. MAXIMUM R&B
solamente ciò che si apprezza davvero. Keith Richards è stata una fonte ispiratrice,
non solo per me. Conoscendolo, penso che non se la sia presa. Anzi, direi che non
ci ha mai neppure pensato su”.
Chissà... forse Pete pensava, come il protagonista di Anyway, Anyhow, Anywhere, di “poter andare in ogni modo, in ogni caso, in ogni luogo”.
I can go anyway,
Way I choose,
I can live anyhow
Win or lose
I can go anywhere
For something new
Anywhere, anyhow, anyway
I choose
I can do anything
Right or wrong
I can talk anyhow
And get along
I don’t care anyway
I never lose
Anyway, anyhow, anywhere
I choose
Io posso andare in ogni modo
Modo io scelga
Posso vivere in ogni caso
Che vinca o che perda
Posso andare in ogni luogo
Per qualcosa di nuovo
In ogni luogo, in ogni caso, in ogni modo
Io scelga
Io posso fare ogni cosa,
Giusta o sbagliata,
Posso parlare come mi pare
E continuare così
Non me ne frega in ogni caso
Non perdo mai
In ogni modo, in ogni caso, in ogni luogo
Io scelga
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PURE AND EASY
“Scrissi Anyway, Anyhow, Anywhere perché volevo andare contro qualsiasi costrizione, specialmente quelle imposte”, spiega Pete. “Ancora oggi, è una canzone che
suona meravigliosamente libera. E menefreghista”.
All’epoca, Pete viveva in Ebury Street. E una sera, ascoltando rapito un album del
sassofonista Charlie Parker, scrisse di getto su un foglio di carta tre parole: anyway,
anyhow, anywhere. “Lo feci per descrivere il modo in cui Parker suonava”, spiegò.
“Lui era un’anima senza corpo, cavalcava, volava sulla musica”. Decise di scrivere una
canzone costruendola attorno a una sola frase, ma la libertà musicale di Parker gli
suggerì di costruirci attorno una storia: avrebbe parlato di un ragazzino punk.
Daltrey, però, non era d’accordo. La sua interpretazione doveva essere l’espressione di ciò che sentiva e, dato che gli Who suonavano brani R&B, decise di trascorrere un’intera notte con Pete e riscrisse le parole del testo. Per questo Anyway, Anyhow,
Anywhere è l’unico brano degli Who firmato da entrambi.
Nothing gets in my way
Not even locked doors
Don’t follow the lines
That been laid before
I get along
Anyway I dare
Anyway, anyhow, anywhere
Nulla può fermarmi sulla mia strada
Nemmeno le porte chiuse
Non seguo le vie
Che sono state già tracciate
Io procedo
In ogni modo rischio
In ogni modo, in ogni caso, in ogni luogo
Sul palco, gli Who furono da subito una furia coinvolgente poiché mostravano
in diretta quel film straordinario chiamato rock’n’roll. Un dramma scenico, caratterizzato da un instancabile veicolo di attrazione rappresentato dalla loro aggressività: le Rickenbacker fracassate, la distruzione completa delle batteria, e poi anche
delle stanze d’albergo... Si trattava di pubbliche demolizioni, in un certo senso ufficiali, di tutto ciò che era istituzionalizzato. Una violenza contro le ingiustizie, un
grido della gioventù dell’epoca, fino ad allora rimasto soffocato nel grigiume che
ancora caratterizzava l’Inghilterra.
Nel Regno Unito, proprio dai lunghi e grigi anni del rigido razionamento postbellico necessario per “vincere la pace” – definizione coniata dall’economista John
Maynard Keynes – nascono nuove tendenze e dinamiche culturali.
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INTRO. MAXIMUM R&B
Nel 1960 un tribunale assolve dal reato di oscenità lo scrittore David Herbert
Lawrence per aver scritto il suo romanzo più famoso, L’amante di Lady Chatterley.
Due anni dopo Antony Burgess pubblica Arancia meccanica, che il grande regista
Stanley Kubrick trasforma in film nel 1971.
Come cantava Bob Dylan dai lontani Stati Uniti, “The times, they’re a-changin’”
(“I tempi stanno per cambiare”), e lo si capisce dal contesto più ampio, in cui gli
Who emergono graffiando all’ennesima potenza, sostenuti dalle ottime composizioni del loro acrobatico chitarrista. E dall’imperioso basso di Entwistle, dalla voce rauca
di Daltrey, dal drumming a perdifiato di Moon.
Con la pubblicazione del 45 giri My Generation, che poi darà il nome al primo
album degli Who, la storia della musica rock acquisisce un altro capitolo straordinario, capace di influenzare l’attitudine e le convinzioni della gioventù londinese, e
non solo. La canzone scala subito tutte le classifiche e lo stesso accadrà, più tardi, con
un altro brano firmato Pete Townshend: The Kids Are Alright.
MY GENERATION uscì nel dicembre 1965: in quel preciso istante, gli Who iniziarono la salita verso la loro leggendaria carriera artistica. Delusi dal trattamento ricevuto dalla Decca, firmarono un contratto di cinque anni con l’Atlantic Records,
che produsse un’altra chicca: il singolo Substitute.
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SUBSTITUTE
“Substitute era il mio ennesimo tentativo di descrivere la situazione di disagio di molti
giovani. Gli stessi che avevano già trovato uno sfogo alla propria frustrazione in canzoni come (I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones”, spiega Townshend. “Tuttavia, ho finito con lo scrivere piuttosto un divertissement. La storia di un tizio strano,
che sembra ciò che non è, sostituisce qualcun altro. Considero Substitute una canzone
ben riuscita, che continua a piacermi molto, anche quando la suono dal vivo”.
You think we look pretty good together,
You think my shoes are made of leather
But I’m a substitute for another guy
I look pretty tall but my heels are high
The simple things you see are all complicated
I look pretty young but I’m just back-dated
Tu pensi che sembriamo molto carini, insieme,
Pensi che le mie scarpe siano di pelle
Ma io sono un sostituto di un altro ragazzo
Sembro piuttosto slanciato ma i miei tacchi sono alti
Le cose semplici che vedi sono tutte complicate
Sembro abbastanza giovane ma sono proprio anzianotto
Il testo del brano è ironico, ma il riferimento al colore della pelle che sembra bianca, nonostante il padre del protagonista sia nero, è in realtà un’allusione ai pregiudizi razziali. Pregiudizi molto sentiti da Townshend, che tra l’altro nutriva sin da allora un enorme rispetto nei confronti della cultura nera, visti i suoi gusti musicali. La
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INTRO. MAXIMUM R&B
questione razziale verrà ripresa da Pete in un suo album, colonna sonora di un lungometraggio purtroppo di scarso successo ma che, a distanza di anni, continua a ribadire il proprio valore: WHITE CITY.
In America la frase “I look all white but my dad was black” (“Sembro tutto bianco ma mio padre è nero”) fu sostituita, in fase di registrazione, con “I try walking
forward but my feet walk back” (“Cerco di camminare avanti ma i miei piedi vanno
all’indietro”) poiché la casa discografica temeva che il riferimento alla razza avrebbe
danneggiato l’airplay del brano.
Dal punto di vista testuale, Substitute è uno dei brani più contorti e intriganti
di Townshend, nonché un’estensione del suo conflitto esistenziale. Come osserva
Dave Marsh, infatti, è costruita su uno schema di affermazione-negazione (che
tornerà poi in A Legal Matter), in cui le qualità apparenti del protagonista vengono
prima presentate e poi smentite.
Il concetto su cui si basa Substitute potrebbe tuttavia riferirsi al fatto che per
Pete gli Who erano “sostituti” dei Rolling Stones. Apprezzava molto sia (I Can’t Get
No) Satisfaction sia un altro brano pubblicato nel 1965, The Tracks Of My Tears dei
Miracles, in cui Smokey Robinson utilizzava la parola “substitute”.
Substitute
Lies for fact
(Substitute) I can see right
Through your plastic mac
(Substitute) I look all white
But my dad was black
(Substitute) My fine looking suit
Is really made out of sack
Sostituisco
Le bugie ai fatti
(Sostituisco) Riesco a vedere attraverso
Il tuo impermeabile di plastica
(Sostituisco) Sembro tutto bianco
Ma mio padre era nero
(Sostituto) Il mio bel vestito
In realtà è ricavato da un sacco
Nel testo emergono anche accenni alle differenze sociali e un velato, sardonico
maschilismo, tipico della cultura mod. Simon Reynolds e Joy Press, nel libro The Sex
Revolts. Gender, Rebellion And Rock’n’Roll, scrivono: “Nella prima parte degli anni
Sessanta il rock inglese era roba da uomini [...] Quella mod era una sottocultura
dominata dai maschi: dato che le anfetamine toglievano il desiderio sessuale e
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PURE AND EASY
aumentavano il narcisismo, i ragazzi vestivano in un certo modo per impressionare
gli altri maschi. Le ragazze restavano ai margini”.
Esplicativi in tal senso sono gli ultimi versi:
(Substitute) you for my mum
At least I’d get my washing done
(Sostituisco) te con mia madre
Almeno avrò pronto il mio bucato
Un altro arguto commento su Substitute è quello che Richard Thompson scrisse su «Uncut» nell’ottobre del 2009: “L’utilizzo del linguaggio in un modo nuovo,
che nessuno prima aveva mai utilizzato – un certo tipo di slang britannico e un
lessico che nessuno aveva mai sentito – rende il brano unico”.
Questa englishness venne ripresa anche nei vari revival del mod. I Blur fecero
una cover di Substitute, che in tal modo creò il ponte ideale con il Britpop.
Nel frattempo, uscì il 33 giri MY GENERATION, prodotto da Shel Talmy e registrato agli IBC Studios di Upper Regent Street a Londra nell’ottobre e nel novembre 1965.
L’album conteneva brani di Pete Townshend, a eccezione di I Don’t Mind (James
Brown), Please, Please, Please (Brown/Terry), I’m a Man (McDaniel, versione inedita) e
The Ox (Townshend/Moon/Entwistle/Hopkins). Venne pubblicato anche negli Stati
Uniti, nell’aprile 1966, con il titolo THE WHO SINGS MY GENERATION.
In qualunque edizione dell’album, è con Out In The Street che gli Who si presentano, da subito. Quasi a voler dire: “Ci siamo. Siamo qua fuori, d’ora in poi ci
ascolterete tutti”. Un monito che ha portato loro fortuna.
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MY GENERATION.
OUT IN THE STREET
Out In The Street si apre con lo stile flamenco della chitarra di Pete Townshend ma
il sound rimane decisamente rock.
“Penso che vi siano brani, in MY GENERATION, che suonano datati, ma non in
senso necessariamente negativo bensì perché rappresentano pienamente lo spirito
dell’epoca”, spiega Townshend. “Out In The Street è una canzone che propone subito un’immagine, molto netta e, per certi aspetti, mod. Era ciò che voleva Kit
Lambert. Così, la scegliemmo per aprire l’album”.
Out in the street
I’m talkin’ ’bout slowly
I’m not gonna rest, woman, you don’t know me,
Well, you don’t know me, no
Yeah, but I’m gonna know you
Per la strada
Sto parlando lentamente
Non mi riposerò, donna, tu non mi conosci,
Bene, non mi conosci, no,
Ma io conoscerò te
In The Who On Record di John Atkins, la canzone viene così commentata:
“Testualmente il brano è crudo. Le incessanti ripetizioni del verso ‘you’re gonna
know me’ (‘mi conoscerai’) sono quelle di un personaggio determinato a mostrare
un atteggiamento aggressivo per impressionare le donne. Un modo di fare sessista e
giovanile, che imita molti contenuti standard delle canzoni R&B”.
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MY GENERATION
Listen to me
I’m telling you
You look at me, woman
Yeah, tell the truth
I know your mind
I can see that you’re in need
I’ll show you, woman, yeah, that
You belong to me,
Ascoltami,
Te lo sto dicendo, donna,
Guardami,
Sì, sono sincero
So cosa pensi
Riesco a capire che hai bisogno di me,
Ti dimostrerò, donna, sì
Che tu mi appartieni,
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I DON’T MIND
“I Don’t Mind di James Brown ci piaceva molto. All’inizio, amavamo eseguire cover
di canzoni blues e questa è una di quelle che ci veniva meglio. Dal mio punto di vista,
come chitarrista, suonarla mi dava molta soddisfazione e credo si senta”, dice
Townshend a proposito della canzone.
“Il testo? Non era la nostra priorità, non ancora. Erano gli anni in cui le canzoni parlavano d’amore, ammiccavano ai rapporti tra maschio e femmina. C’era già
nell’aria una certa sensualità, che sarebbe scoppiata definitivamente più tardi ma
che nel blues si percepiva anche dalle stesse sonorità. I Don’t Mind era sufficientemente cool, c’è un ragazzo che dice a una ragazza ‘Ok, te ne vai ma non m’importa
nulla, ti mancherò, puoi scommetterci’, ed è una canzone di quelle che a Roger
piaceva interpretare”, conclude Pete.
I don’t mind your love
I don’t mind the one you’re thinkin’ of
I know, I know
You gonna miss me
Non m’interessa il tuo amore
Non m’interessa quello a cui stai pensando
Lo so, lo so
Che ti mancherò
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THE GOOD’S GONE
The Good’s Gone è una canzone dallo stile piuttosto severo, cantata da Daltrey con
voce profonda. In sottofondo, il piano di Hopkins e la batteria di Moon si rincorrono amabilmente.
“Mi ricordo quando la registrammo”, dice Pete. “Roger era sempre molto insoddisfatto e faceva critiche ogni volta che ci trovavamo a registrare. Fu così per tutto
l’album, idem per The Good’s Gone. Non gli piaceva il sound. ‘Spazzatura...’, ‘Mi
viene da vomitare!’, ‘È una totale schifezza’: questi erano i suoi commenti. Noi andavamo avanti lo stesso. Alla fine, non eravamo poi tanto male. Penso che Roger fosse
molto teso all’idea che il nostro primo album non ci rappresentasse veramente.
Non è un caso che MY GENERATION segnò la fine della fase mod degli Who”, conclude Townshend.
Il brano parla di una relazione agli sgoccioli e di un membro della coppia che
vuole andarsene. Ma l’altra persona, cosa ne pensa? È d’accordo? Non è dato saperlo. The Good’s Gone fa leva sulla volontà di persuasione e sul triste confronto con
ciò che era prima e che si è esaurito nel rapporto d’amore.
I know when I’ve had enough
When I think your love is rough
The good’s gone
The good’s gone
The good’s gone
The good’s gone
The good’s gone out of our love
I know it’s wrong
We should enjoy it, but
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PURE AND EASY
The good’s gone
The good’s gone
Quando penso che il tuo amore è aspro
Capisco di averne avuto abbastanza
Il buono se n’è andato
Il buono se n’è andato
Il buono se n’è andato
Il buono se n’è andato
Il buono se n’è andato via dal nostro amore
So che è sbagliato
Dovremmo godercelo, però
Il buono se n’è andato
Il buono se n’è andato
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