Capitale di rischio e capitale di credito nel fallimento

annuncio pubblicitario
www.judicium.it
MASSIMO ROSSI
Capitale di rischio e capitale di credito nel fallimento delle società
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Versamenti in conto capitale e apporti dei soci – 3. Finanziamenti dei soci. – 4. Segue:
finanziamenti dei soci nella società a responsabilità limitata: la disciplina introdotta con l’art. 2467 c.c. – 5.
Segue: trattamento concorsuale dei crediti postergati. – 6. Segue: crediti postergati e compensazione ex art.
56 l.f. – 7. Finanziamenti soci e prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo e negli accordi di
ristrutturazione dei debiti: l’art. 182-quater l.f…. – 8. Segue: …e l’art. 182-quinquies l.f. – 9. Segue: rilievo
procedimentale dei crediti predecubili ex artt. 182-quater e 182-quinquies l.f. – 10. Segue: cenni sul regime
giuridico dei crediti postergati nei concordati preventivo e fallimentare. – 11. Trattamento concorsuale dei
versamenti a fondo perduto... – 12. Segue: …e dei versamenti in conto capitale. – 13. I crediti del socio
illimitatamente responsabile discendenti dalla soddisfazione di pretese verso la società. – 14. I creditori
particolari nelle società azionarie con patrimoni destinati: la prospettiva prevalente… – 15. Segue: …la
soluzione preferibile. – 16. Segue: alcuni esiti operativi. – 17. Debito da conferimento e compensazione. –
18. I titolari di obbligazioni e altri titoli di debito: profili generali – 19. L’organizzazione degli
obbligazionisti nella crisi dell’impresa. – 20. Segue: istanza di fallimento. – 21. Segue: insinuazione al
passivo. – 22. Segue: approvazione del concordato. – 23. Segue: determinazione del valore d’insinuazione.
– 24. Segue: disciplina dei premi. – 25. Segue: obbligazioni convertibili. – 26. Obbligazioni, strumenti
finanziari e titoli di debito. – 27. Tutele individuali e tutele collettive: il diritto di opposizione e il diritto di
recesso. – 28. Segue: nel concordato… - 29. Segue: …e nel fallimento.
1. La forma societaria esprime, come noto, non tanto il soggetto cui imputare l’attività,
prima ancora che i risultati, dell’impresa, bensì la disciplina che ne regola il
finanziamento1: ciò richiede che si precisi quali, fra le diverse specie che quest’ultimo
concretamente assume, assurgano a pretese creditorie e rilevino nel contesto del
concorso fallimentare che dalla crisi di tale finanziamento origina.
Infatti, se il finanziamento dell’impresa sociale – del quale l’insolvenza e, più
ampiamente, la crisi esprimono peculiari disfunzioni – si presta a essere considerato, dal
punto di vista dell’attività organizzata, in termini unitari e globali, tali cioè da includere
sia i valori formalmente destinati dai soci all’esercizio dell’attività in termini di
conferimento – che vanno a formare il capitale sociale –, sia il complesso delle risorse
che confliuscono all’impresa in forme diverse, a partire da quella del credito, è solo alle
seconde che le procedure di soddisfazione collettiva riservano rilievo.
Ciò perché, quanto al capitale sociale e, più ampiamente, al patrimonio netto –
valori riservati, come anticipato, ai soci – la disciplina concorsuale comporta,
pacificamente, l’esclusione di questi ultimi dal novero dei soggetti cui è consentito
insinuarsi al passivo della società fallita o partecipare all’approvazione del concordato,
quale corollario della tesi che limitatamente a tali valori i soci vantino una mera
aspettativa residuale, destinata ad essere soddisfatta, rispettivamente, nella fase “attiva”
Cfr. G. FERRI jr, Fattispecie societaria e strumenti finanziari partecipativi, in C. MONTAGNANI (a cura di), Profili
patrimoniali e finanziari della riforma, Milano, 2003, p. 67 ss., spec. p. 69 ss., B. LIBONATI, Introduzione, in AA.VV.,
Diritto delle società. Manuale breve, I ed., Milano, 2004, p. XXIX ss., spec. p. XIII, e P. FERRO-LUZZI, Riflessioni
sulla riforma; I: la società per azioni come organizzazione del finanziamento d’impresa, in Riv. dir. comm., 2005, I, p. 673 ss.
1
2
della società, entro i limiti di quanto disposto dalla disciplina della partecipazione agli
utili e della distribuzione delle riserve, nonché delle riduzioni c.d. reali del capitale
sociale, e nelle fasi di liquidazione o di crisi della società, all’esito (vale a dire, al di
fuori) delle rispettive vicende, e comunque soltanto dopo che siano stati integralmente
soddisfatti i creditori sociali2.
2. Tuttavia, se dal punto di vista teorico è netta la distinzione fra le pretese (eventuali e
residuali) dei soci e quelle (attuali) dei creditori, la natura formale e, perciò, strumentale
dell’autonomia giuridica riconosciuta alle società – a prescindere dall’assegnazione
della personalità giuridica, limitata alla sola classe delle società di capitali – ha da
sempre consentito la configurabilità di rapporti negoziali fra i soci e la società cui
costoro partecipino, distinti dal rapporto discendente dalla partecipazione al capitale
sociale e tendenzialmente ascrivibili sia a contratti di scambio, sia a negozi di
finanziamento o, più genericamente, ad apporti di valori alla società in forme diverse
dal conferimento.
L’attenzione della dottrina e della giurisprudenza si è appuntata proprio su
questa seconda serie di vicende: infatti, la circostanza che i soci scelgano di far
confluire risorse alla società attraverso modalità distinte da un formale aumento di
capitale solleva il dubbio che tale operatività sia ispirata dall’intento di sottrarre
l’ulteriore impiego di risorse al rischio di residualità che è tipico dell’investimento in
forma di conferimento, ponendosi tali valori sul medesimo piano dei crediti sociali3 ma,
nel contempo, conservando ai soci il controllo dell’iniziativa imprenditoriale mediante
l’esercizio dei poteri amministrativi di norma connessi alla partecipazione sociale.
In particolare, il rilievo che il socio, in virtù sia della sua conoscenza della
reale situazione dell’impresa sociale, sia della contestuale partecipazione al capitale
sociale e, dunque, agli esiti economici dell’attività in termini almeno teoricamente
illimitati (o, comunque, senz’altro non limitati all’eventuale remunerazione connessa
alla prestazione del c.d. capitale di credito), possa ottenere dall’apporto atipico di risorse
vantaggi pressoché equivalenti a quelli di un conferimento, senza peraltro far soggiacere
quei valori al corrispondente regime di residualità, ha indotto a interrogarsi sui limiti di
In tal senso, ex multis, cfr. F. DI SABATO, Capitale sociale e responsabilità interna nelle società persone, Milano, 2005
(rist. inal. dell’edizione del 1967), p. 290 ss. e p. 304 ss.; A. BONSIGNORI, Gli aspetti processuali, in F. GALGANO
e A. BONSIGNORI, Il fallimento delle società, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da F. Galgano, X, Padova,
1988, p. 267; S. SATTA, Diritto fallimentare, II ed. aggiornata e ampliata da R. Vaccarella e F.P. Luiso, Padova,
1990, p. 434; A. NIGRO, La società per azioni nelle procedure concorsuali, in Tratt. soc. per az. diretto da G.E.
Colombo e G.B. Portale, 9, Torino, 1993, p. 209 ss., spec. p. 346 s.; M.S. SPOLIDORO, voce Capitale sociale, in
Enc. dir., Agg. IV, 2000, p. 195 ss., spec. p. 208 ss.; G.B. PORTALE, Capitale sociale e società per azioni
sottocapitalizzata, in Tratt. soc. per az. diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 1**, Torino, 2004, p. 3 ss., spec.
p. 14 s; M. SCIUTO, La classificazione dei creditori nel concordato preventivo (un’analisi comparativistica), in Giur. comm.,
2007, I, p. 572; A. PACIELLO, La funzione normativa del capitale nominale, in RDS, 2010, p. 2 ss., spec. p. 10 s.; ciò
nondimeno, si è talora qualificato il socio anche come creditore della società per la liquidazione del suo
apporto da conferimento, in virtù di una sorta di credito «postergato» che, però, dovrebbe oggi essere a rigore
ritenuto di secondo livello, in considerazione del fatto che il primo livello è quello che spetta ai soci ex artt.
2467 e 2497-quinquies c.c.: per la risalente opinione si veda E. SIMONETTO, Responsabilità e garanzia nel diritto
delle società, Padova, 1959, spec. p. 115 ss. e p. 311 ss., nonché, più recentemente, G. COTTINO, Le società.
Diritto commerciale, v. I, t. II, IV ed., Padova, 1999, p. 482 s.
3 Cfr., in tal senso, C. ANGELICI, voce Società per azioni e società in accomandita per azioni, in Enc. dir., Milano,
1990, p. 977 ss., spec. p. 1022.
2
3
quella alterità formale della società cui prima si accennava e che è alla base del
problema riferito4.
3. La prassi societaria presenta vicende fra loro diversificate che, almeno sino
all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 2467 c.c., concernente i finanziamenti
dei soci nella s.r.l., venivano dai più ascritte entro la nozione di capitale in senso
“materiale” o “funzionale” e concettualizzate nella categoria del c.d. “quasi capitale”5.
Vengono in considerazione, in primo luogo, quegli apporti qualificati dagli
stessi soci nei termini di “versamenti in conto capitale”, i quali, per quanto estranei alla
formale imputazione a capitale sociale, tuttavia a quella vicenda sembrano ispirati,
orientando l’interprete a rintracciare nelle regole del patrimonio netto la relativa
disciplina: è questo, infatti, il consolidato orientamento della giurisprudenza italiana
che, ammettendo da tempo la liceità di tali apporti in una prospettiva di favor per
l’interesse alla patrimonializzazione della società6, ne predica la rilevazione contabile
nell’ambito delle poste del patrimonio netto e, più in particolare, nel novero delle
riserve disponibili, sulla base di un’opera di qualificazione dei predetti versamenti
fondata sull’indagine dell’effettiva volontà delle parti7.
Alla medesima categoria talora apparterrebbero, secondo alcuni, anche gli
apporti effettuati dai soci in forma di finanziamento con obbligo di restituzione, sulla
base del convincimento che sarebbe vigente nell’ordinamento un principio di corretto
finanziamento della società e, più in particolare, di adeguata dotazione patrimoniale
dell’impresa sotto forma di capitale sociale8; sicché, l’apporto di risorse in forme
diverse dal conferimento, in situazioni di manifesta insufficienza del capitale sociale
rispetto all’oggetto dell’impresa9, dovrebbe essere “riqualificato” – al pari dei c.d.
versamenti in conto capitale ma, in tal caso, anche contro l’intenzione dei soci
manifestata nel negozio di finanziamento – in termini di fatto coincidenti con la
disciplina del patrimonio netto10.
Sul tema, in generale, cfr. A. PAVONE LA ROSA, La teoria dell’imprenditore occulto nell’opera di Walter Bigiavi, in
Riv. dir. civ., 1967, I, p. 623 ss., spec. p. 671 ss.; G.B. PORTALE, Capitale sociale e conferimenti nella società per azioni,
in Riv. soc., 1970, p. 33 ss.; ID., Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Riv. soc., 1991, 3 ss., nonché,
più recentemente, ID., Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Tratt. soc. per az. diretto da G.E.
Colombo e G.B. Portale, 1**, Torino, 2004, p. 3 ss.; P. ABBADESSA, Il problema dei prestiti dei soci nelle società di
capitali: una proposta di soluzione, in Giur. comm., 1988, I, p. 497 ss.; C. ANGELICI, Società per azioni cit., p. 1020 ss.;
ID., Appunti sull’art. 2346 c.c., con particolare riguardo al conferimento mediante compensazione, in Giur. comm., 1988, I, p.
175 ss.
5 Sul quale si veda M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali” dei soci e tutela del patrimonio nelle società di capitali,
Milano, 2005, p. 118 ss., ove ultt. riff. bibl.
6 Cfr. M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali” cit., p. 49.
7 Per il risalente e consolidato orientamento cfr. Cass. 3 dicembre 1980, n. 6315 (in Giur. comm., 1981, II, p.
895 ss., con nota di P. FERRO-LUZZI, I «versamenti in conto capitale», e in Riv. dir. comm., 1981, II, p. 239 ss., con
nota di F. CHIOMENTI, Ancora sugli apporti al capitale di rischio).
8 Cfr. G.B. PORTALE, Capitale sociale e società per azioni cit., p. 41 ss.; contra, M. STELLA RICHTER jr, La costituzione
delle società di capitali, in AA. VV., La riforma delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso diretto da P.
Abbadessa e G.B. Portale, 1, Torino, 2006, p. 271 ss., spec. p. 286 s.
9 Il riferimento è alla c.d. “sottocapitalizzazione nominale”, che parte della dottrina intravede nel caso in cui i
soci fissino un ammontare del capitale sociale manifestamente inadeguato, sopperendo al fabbisogno
patrimoniale e finanziario della società mediante apporti non imputati a capitale, in qualsivoglia modo
qualificati: cfr. G.B. PORTALE, Capitale sociale e società per azioni cit., p. 41 ss., nonché p. 143 ss.
10 E si vedano G.B. PORTALE, Capitale sociale e società per azioni cit., p. 143 ss., e P. ABBADESSA, Il problema dei
prestiti cit., p. 509 ss. Questa prospettiva sembra confermata anche nel vigore dell’art. 2467 c.c.: rileva G.B.
PORTALE, I «finanziamenti» dei soci cit., p. 679, che a mente del nuovo art. 2467 c.c. si avrebbe una
4
4
L’assimilazione ai conferimenti dei valori apportati dai soci sia in forma di
versamenti in conto capitale, sia in quella di finanziamenti con obbligo di rimborso
erogati in un momento di sottocapitalizzazione nominale della società, sembrerebbe
indurre a negare a tali vicende qualsivoglia rilievo sia procedimentale sia, più
significativamente, sostanziale in sede concorsuale.
Ciò perché, a rigore, ai versamenti e agli apporti dei soci comunque denominati
– diversi dai conferimenti – dovrebbe estendersi la disciplina concorsuale prevista per
questi ultimi11, sebbene con effetti, paradossalmente, più stringenti di quanto è a dirsi
per il rimborso del valore dei conferimenti.
Infatti, in primo luogo, i versamenti dei soci sovente non risultano
proporzionali alla quota di capitale sociale detenuta da ciascuno, sì che il principio
secondo il quale i valori del patrimonio netto sono destinati ai soci in ragione della loro
partecipazione sociale impedisce che il valore dei predetti apporti possa essere riservato
a coloro che li abbiano effettivamente erogati. Tanto che, al fine di ovviare a questo
problema, si è suggerito di iscrivere riserve “personalizzate” o “targate”, ossia destinate
a essere distribuite non proporzionalmente a tutti i soci ma soltanto a quelli che le hanno
originariamente apportate12.
Una seconda “distorsione” discende, poi, dell’applicazione a tali versamenti
della disciplina delle riserve disponibili, a motivo del fatto che le eventuali perdite
incidono definitivamente sui relativi valori. Infatti, il progressivo deterioramento della
situazione finanziaria e patrimoniale della società potrebbe erodere il patrimonio netto e
determinare la perdita (definitiva) delle riserve e, segnatamente, di quelle in cui fosse
stato medio tempore iscritto il valore degli apporti dei soci, mentre potrebbero residuare,
ancorché solo parzialmente, valori soggetti alla disciplina del capitale sociale e dunque
destinati a essere rimborsati agli azionisti, con esiti penalizzanti proprio per coloro, fra i
soci, che – anche senza alcun vincolo di proporzionalità rispetto alla relativa
partecipazione – abbiano effettuato finanziamenti alla società nella prospettiva di
scongiurare o, addirittura, invertire gli esiti (comuni a tutti i partecipanti al capitale) di
una crisi che comprometta le sorti dell’impresa sociale13. Né sembra ovviare a tale
problema il suggerimento, comune alla giurisprudenza e a larga parte della dottrina, di
applicare a tali valori la disciplina delle riserve da soprapprezzo: infatti, anch’esse sono
destinate a essere incise dalle perdite, sia pure per ultime, prima che sia eroso il capitale
sociale (art. 2424 c.c.)14.
I problemi cui si è fatto cenno sono solo in parte risolti per effetto
dell’introduzione del nuovo art. 2467 c.c.; se, infatti, quella norma esclude la
riconduzione dei finanziamenti dei soci alla disciplina del patrimonio netto, residua il
«riqualificazione forzata del prestito in conferimento (=capitale proprio)», ancorché, in punto di disciplina, la
legge fonderebbe «due classi nel quadro del rimborso del capitale proprio».
11 Cfr., sia pure problematicamente, A. NIGRO, La società cit., p. 346 s.
12 Cfr. G.E. COLOMBO, Il bilancio d’esercizio, in Tratt. soc. per az. diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 7*,
Torino, 1994, p. 23 ss., spec. p. 517; G. TANTINI, I versamenti dei soci nelle società, in Tratt. soc. per az. diretto da
G.E. Colombo e G.B. Portale, 1***, Torino, 2004, p. 745 ss., spec. p. 781; G.B. PORTALE, Appunti in tema di
“versamenti in conto futuri aumenti di capitale” eseguiti da un solo socio, in Banca borsa e tit. di credito, 1995, I, p. 93 ss.,
spec. p. 97; più di recente, limitatamente ai versamenti in conto capitale, M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali”
cit., p. 149 s., nel testo e a nota 172); ma sul tema si vedano i dubbi mossi da M.S. SPOLIDORO, voce Capitale
sociale cit., p. 234. In giurisprudenza, fra le più recenti, cfr. Cass. 24 luglio 2007, n. 16393, in Società, 2009, 453
ss.
13 A meno che non si accolga la tesi di P. ABBADESSA, Il problema dei prestiti dei soci cit., p. 511 ss., che configura
i versamenti in conto capitale come conferimento in godimento di denaro sui relativi valori.
14 Cfr. ancora Cass. 24 luglio 2007, n. 16393.
5
dubbio che essa trovi applicazione per la sola fattispecie per la quale è espressamente
prevista. Ciò perché, per un verso, è discusso se il principio fissato nell’art. 2467 c.c.
possa valere anche per i finanziamenti dei soci erogati nel contesto di società azionarie15
e, per altro verso, nella relativa fattispecie non sembrano risolversi completamente le
vicende riconducibili ai versamenti in conto capitale, sui quali, pertanto, si dovrà più
avanti ritornare (§§ 11 e 12). Nondimeno, è indubbio che è dall’art. 2467 c.c. che la
riflessione deve prendere avvio.
4. L’art. 2467 c.c., introdotto in occasione della riforma delle società del 2003, dispone
che il rimborso dei finanziamenti concessi in qualsiasi forma dai soci in favore della
società “in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata
[…dall’impresa], risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al
patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe
stato ragionevole un conferimento”, sia postergato e, se avvenuto nell’anno precedente
la dichiarazione di fallimento, sia restituito.
Deve rilevarsi, al riguardo, che l’introduzione di una fattispecie tipica di
credito postergato se rappresenta l’esito del lungo dibattito che ha occupato la dottrina e
la giurisprudenza sul tema dei versamenti in conto capitale, sotto una diversa luce
sembra costituire, significativamente, una scelta di discontinuità16 rispetto alle
conclusioni cui, sul punto, pervenivano la maggior parte degli autori e la
giurisprudenza17. Il dibattito che ne è seguito, tuttavia, indotto forse anche dalla
formulazione non perspicua dell’art. 2467 c.c.18, mostra di non esserne talvolta
adeguatamente consapevole, con esiti particolarmente rilevanti anche sul tema che ci
occupa.
Nel senso che l’art. 2467 c.c. sia espressione di un principio generale in materia di finanziamento dei soci
valevole per tutte le società capitalistiche, cfr. G.B. PORTALE, I «finanziamenti» dei soci cit., p. 681, seguito da A.
NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, II ed., Bologna, 2012, p. 335;
nonché le caute aperture di M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali” cit., p. 231 ss.; sulla possibilità di applicare
analogicamente l’art. 2467 c.c. alle società per azioni quando «il suo concreto assetto di interessi si atteggia in
termini “personalistici”» cfr. C. ANGELICI, da ultimo in Principi e problemi, nel Trattato di diritto civile e commerciale
Cicu-Messineo, La società per azioni, I, Milano, 2012, p. 491 ss. In giurisprudenza cfr. Trib. Pistoia, 8 settembre
2008 (in Fall., 2009, p. 799 ss., con nota di L. PANZANI, Classi di creditori nel concordato preventivo e crediti postergati
dei soci di società di capitali, e in Banca borsa e tit. di credito, 2009, II, p. 191 ss., con nota di G. BALP, Dell’applicazione
dell’art. 2467 c.c. alla società per azioni). La possibilità di estendere analogicamente la disciplina dell’art. 2467 c.c.
alla società per azioni viene in genere proposta limitatamente ai finanziamenti che provengano da soci la cui
partecipazione esprima interessi anche imprenditoriali, idonei a tradursi in concrete decisioni organizzative, a
motivo del rilievo, anche quantitativo, che tale partecipazione assume: argomento indotto dall’osservazione
che è sul presupposto della istituzionale inerenza del socio di s.r.l. alla gestione della società che si spiega il
rigoroso regime dei finanziamenti dei soci dettato dall’art. 2467 c.c. (cfr. G. TERRANOVA, sub art. 2467, in G.
NICCOLINI, A. STAGNO D’ALCONTRES (a cura di), Società di capitali. Commentario, III, Napoli, 2004, p. 1449 ss.,
spec. p. 1476 s.; C. ANGELICI, Diligentia quam in suis e business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2006, I, p.
675 ss., spec. p. 682); nondimeno, va rilevato che nella s.r.l. il fatto che il socio sia, in concreto, estraneo al
governo della società non sembra escludere l’applicazione dell’art. 2467 c.c. Sull’estensione dell’art. 2467 c.c.
alle società di persone – problema in vero non particolarmente avvertito dalla dottrina, verosimilmente in
ragione del peculiare regime di responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali – cfr. M. MAUGERI, Dalla
struttura alla funzione della disciplina sui finanziamenti dei soci, in Riv. dir. comm., 2008, I, p. 133 ss., spec. p. 147 ss.
16 Lo rileva G. TERRANOVA, sub art. 2467 cit. p. 1449 ss.
17 Per il dibattito cfr. M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali” cit.
18 Sulla cui genesi cfr., fra gli altri, G.B. PORTALE, I «finanziamenti» dei soci nelle società di capitali, in Banca borsa tit.
di cred., 2003, I, p. 663 ss., nel testo e a nota 1.
15
6
Infatti, malgrado il tenore letterale dell’art. 2467 c.c. possa indurre l’interprete
a immaginare la forzata riqualificazione in conferimenti19 dei finanziamenti dei soci,
larga parte della dottrina ha espresso la condivisibile opinione che tali pretese
mantengano natura creditoria20, consistendo la postergazione nel rinvio del rimborso del
valore del credito all’esito dell’integrale soddisfazione degli altri creditori sociali.
Si consideri, del resto, che per quanto la norma sembri sottendere un giudizio
di ragionevolezza21 del conferimento nell’ipotesi in cui, invece, le particolari condizioni
in cui versi la società scoraggino (ossia, rendano irragionevole) il ricorso al credito,
tuttavia, in tale situazione, neppure il conferimento risulta di per sé ragionevole: anzi, a
rigore sembra esserlo senz’altro meno di un finanziamento, poiché, se il conferimento
assegna al socio la possibilità di essere rimborsato dell’ammontare versato e di ricevere
una remunerazione, sotto forma di partecipazione agli utili della società, solo ove non vi
siano perdite, ossia soltanto se vi siano risorse sufficienti a soddisfare i creditori sociali,
si fa difficoltà a individuare un interesse del socio a investire ulteriore capitale nella
società quando questa versi nello stato di cui tratta l’art. 2467, comma 2, c.c.,
sostenendo che esso apra a guadagni potenzialmente illimitati, com’è tipico per le
operazioni di investimento.
Al contrario, si deve rilevare che la questione non è tanto quella di ricercare un
comportamento socialmente tipico dal punto di vista del socio; piuttosto, muovendo dal
rilievo che la ratio della norma è quella di offrire tutela alle ragioni dei creditori sociali
rispetto a quelle dei finanziatori-soci in situazioni nelle quali va assottigliandosi la
garanzia patrimoniale della società, il requisito della ragionevolezza può assumere un
più preciso significato se valutato proprio nell’ottica dei creditori, rispetto ai quali
soltanto il conferimento si presterebbe a essere ritenuto ragionevole, poiché il tentativo
di salvaguardare il valore del patrimonio netto non sarebbe compiuto “a loro spese”.
Il conferimento, però, rimane irragionevole per i soci: per questo è parimenti
irragionevole che, nei rapporti fra i soci, il valore delle sovvenzioni fatte a mente
dell’art. 2467 c.c. riceva lo stesso trattamento giuridico degli investimenti, sia nella
In giurisprudenza, cfr. Trib. Firenze, 26 aprile 2010, in www.ilcaso.it.
In tal senso cfr., fra gli altri, G. TERRANOVA, sub art. 2467 cit., p. 1457 s.; E. FAZZUTTI, sub art. 2467 c.c., in
M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La riforma delle società, III, Torino, 2003, p. 48 ss., spec. p. 50; G.
GUIZZI, Il passivo in AA. VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, p. 292; B. LIBONATI, Corso di diritto
commerciale, Milano, 2009, p. 514 s.; N. SALANITRO, Profili sistematici della società a responsabilità limitata, Milano,
2005, p. 37; G. TANTINI, I versamenti dei soci cit., p. 798; U. TOMBARI, «Apporti spontanei» e «prestiti» dei soci nelle
società di capitali, in AA. VV., Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso diretto da P.
Abbadessa e G.B. Portale, 1, Torino, 2006, p. 553 ss., spec. p. 562 s.; M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali”
cit., p. 151, nonché, ID., Sul regime concorsuale dei finanziamenti soci, in Giur. comm., 2010, I, p. 805 ss., p. 806, nel
testo e a nota 2; O. CAGNASSO, La società a responsabilità limitata in Tratt. dir. comm. diretto da G. Cottino, V,
Padova, 2007, p. 108; A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 156 s. e 292 s.; A. PACIELLO, La
funzione cit., p. 11, a nota 57; D. VATTERMOLI, Crediti subordinati e concorso tra creditori, Milano, 2012, p. 126 s.;
C.F. GIAMPAOLINO, Profili fallimentari, in V. FICARI e C.F. GIAMPAOLINO, Profili fallimentari e tributari, nel
Trattatto delle società a responsabilità limitata, diretto da C. Ibba e G. Marasà, VIII, Padova, 2012, p. 3 ss., spec. p.
78 s.; G. GUERRIERI, I finanziamenti dei soci, in La nuova società a responsabilità limitata, a cura di M. Bione, R.
Guidotti e E. Pederzini, nel Tratt. dir. comm. e dir. pubbli. econ. diretto da F. Galgano, LXV, Padova, 2012, p. 59
ss., spec. p. 76 s. Contra G.B. PORTALE, Capitale sociale e società cit., p. 148 s., in nota 43-bis, nonché ID., I
«finanziamenti» cit., p. 678 s.; A. IRACE, sub art. 2497-quinquies, in M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La
riforma cit., p. 341 ss., spec. p. 342.
21 Sul criterio di ragionevolezza, in giurisprudenza, cfr. Trib. Milano 24 aprile 2007, in Giur. it., 2007, 2500,
secondo il quale il criterio di ragionevolezza utilizzato dal legislatore per individuare i finanziamenti dei soci
postergati comporta la necessità di tener conto della situazione della società al tempo del finanziamento
confrontata con i comportamenti che nel mercato sarebbe ragionevole aspettarsi.
19
20
7
forma tipica del conferimento, sia nella forma atipica dei versamenti in conto capitale,
come invece condurrebbe fatalmente a concludere la tesi della riqualificazione dei
finanziamenti.
Se così è, la ratio dell’art. 2467 c.c. non riposa, allora, nell’esigenza di
allineare, sul piano formale, l’operazione di apporto a quanto essa tendeva a realizzare
sul piano sostanziale, ossia un investimento di capitale di rischio, ma, più
semplicemente – e in coerenza al dettato normativo – a orientare la libertà dei soci nella
scelta delle forme attraverso le quali somministrare alla società i necessari mezzi
economici.
In linea di principio, non v’è alcuna regola che imponga un’adeguata dotazione
di capitale proprio rispetto all’oggetto dell’impresa: i soci, quindi, sono liberi di
scegliere attraverso quale forma apportare valori alla società; tuttavia, seguendo la
stessa logica sottesa alla disciplina concorsuale che, in caso di insolvenza, esclude i soci
dalle decisioni sull’organizzazione dell’impresa decotta, a motivo del rilievo che,
essendo (tendenzialmente) perso il capitale proprio della società, soggetto a quel rischio
tipico sono ormai le posizioni dei creditori, in una situazione quale quella appalesata ai
sensi dell’art. 2467, comma 2, c.c., la legge, nel regolare il possibile conflitto fra soci e
creditori, non si spinge sino a escludere i primi dalla determinazione
dell’organizzazione dell’impresa, ma interviene per circoscriverne gli ambiti, in
particolare sotto il profilo della disciplina del finanziamento, al fine di evitare che il
costo di tali interventi possa essere sopportato anche dai creditori.
È convincente concludere, allora, che il disposto del primo comma dell’art.
2467 c.c. istituisca un rapporto di priorità esclusivamente fra crediti appartenenti a
classi distinte, nella neutralità della disciplina della destinazione del valore del
patrimonio netto.
D’altronde, l’utilizzo, da parte della legge, dell’espressione “finanziamenti”
sembra senz’altro evocativo di una vicenda che, di là della veste formale che assume, si
caratterizza per il fatto che il finanziatore, nel perseguimento di finalità di sovvenzione,
effettua una prestazione senza ottenere contestualmente nulla dal finanziato e che, anzi,
consiste proprio in una rinuncia (temporanea o definitiva) alla immediata esigibilità di
una qualsiasi controprestazione, generando così in capo al sovvenuto la disponibilità di
una concreta e specifica utilità22.
5. Pertanto, di là di ogni considerazione generale sul funzionamento della
postergazione, sul quale non vi sono soluzioni condivise23, è senz’altro ragionevole
ritenere i crediti discendenti da finanziamenti dei soci (con obbligo di rimborso: giacché
per quelli a fondo perduto non si pongono, all’evidenza, problemi) siano ascrivibili al
passivo dello stato patrimoniale e, dunque, in principio destinatari, quantomeno nelle
fasi della liquidazione ordinaria e delle procedure concorsuali – ove pressoché
La restituzione del valore della sovvenzione, come pure la sua remunerazione è non solo eventuale (si pensi
ai finanziamenti a fondo perduto), ma anche marginale: cfr. G. FERRI jr, Investimento e conferimento, Milano,
2001, p. 465, seguito, di recente, in materia di finanziamenti dei soci ex art. 2467 c.c. da M. MAUGERI, Sul
regime cit., p. 814 s.
23 Sul significato normativo della postergazione ex lege cfr., oltre ai contributi già citati, G. PRESTI, sub art.
2467, in P. BENAZZO e S. PATRIARCA, Codice commentato delle s.r.l., Torino, 2006, p. 98 ss.; D. SCANO, I
finanziamenti dei soci nella s.r.l. e l’art. 2467 c.c., in Riv. dir. comm., 2003, I, p. 879 ss.; F. VASSALLI,
Sottocapitalizzazione delle società e finanziamenti dei soci, in Riv. dir. impr., 2004, p. 267 ss.; A. ZOPPINI, La nuova
disciplina dei finanziamenti dei soci nella società a responsabilità limitata e i prestiti provenienti da “terzi” (con particolare
riguardo alle società fiduciarie), in Riv. dir. priv., 2004, p. 417 ss.
22
8
unanimemente la dottrina e la giurisprudenza ritengono operativo il principio di
postergazione24 –, delle discipline ivi contemplate per la soddisfazione delle pretese
creditorie che si appuntano sulla società.
Sul piano della disciplina, ciò implica che i titolari di crediti subordinati
risultano legittimati a insinuarsi al passivo25 e, prima ancora, a promuovere il fallimento
della società26. Ovviamente, ai fini della postergazione non è rilevante chi (socio, ex
socio o avente causa del socio) sia attualmente creditore della società o sia già stato
rimborsato, ma solo che il finanziamento a suo tempo erogato alla società fosse soggetto
alla disciplina di cui all’art. 2467 c.c.27, poiché in questa sede rileva il carattere
oggettivo della destinazione; e, d’altra parte, la verifica delle condizioni per la
postergazione sembra dover risalire al momento della concessione della sovvenzione28.
Inoltre, poiché l’art. 2467 c.c. si rivolge a regolare il rimborso, prescrivendone la
postergazione (o, se del caso, la restituzione), si può ritenere che il conflitto di interessi
istituito e risolto dalla norma si instauri fra il credito subordinato e quelli sussistenti
all’atto del rimborso (e non soltanto al momento in cui è sorta l’obbligazione
restitutoria): non invece rispetto ai crediti sorti dopo tale momento, rispetto ai quali il
pagamento del credito non può assumere valore pregiudizievole.
Le modalità di ammissione al passivo del credito postergato sembrano dover
attingere solo in parte alla disciplina dei crediti condizionali; se è vero, infatti, che in
sede concorsuale il rimborso del credito subordinato è condizionato sospensivamente
all’integrale soddisfazione dei crediti poziori, è evidente che l’applicazione del
regolamento normativo previsto per i crediti sottoposti a condizione dettato nell’art. 55,
comma 3, l.f. e consistente nella ammissione con riserva ai sensi dell’art. 96, comma 3,
n. 1, l.f., non sia adeguato.
Infatti, per i crediti condizionali ammessi con riserva trova applicazione il
sistema delineato agli artt. 113 e 113-bis, l.f. che, al fine di conservare integra la
possibilità del riparto rispetto a quei crediti che, sebbene di esistenza o esigibilità ancora
incerta, hanno pur sempre titolo, ove si verifichi l’evento dedotto in condizione, per
concorrere proporzionalmente con gli altri, impongono opportuni accantonamenti ad
V., per tutti, G. TERRANOVA, sub art. 2467 cit., p. 1463 ss.; G. FERRI jr, In tema cit., p. 969 ss.; M. MAUGERI,
Finanziamenti “anomali” cit., p. 112 ss.; D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 128 s. In giurisprudenza tale
orientamento è stato espresso da Trib. Milano, 24 aprile 2007 (in Giur. it., 2007, p. 2500, con nota di O.
CAGNASSO, Prime prese di posizione giurisprudenziale in tema di finanziamenti dei soci a responsabilità limitata, nonché in
Banca borsa tit. di credito, 2007, p. 610 ss., con nota di G. BALP, Sulla qualificazione dei finanziamenti dei soci ex art.
2467 cod. civ. e sull’ambito di applicazione della norma), e da Trib. Milano, 25 ottobre 2005, in Società, 2006, 1267.
25 Cfr. G. FERRI jr, In tema cit., p. 994; G. GUIZZI, Il passivo cit., p. 291; L. MANDRIOLI, La disciplina dei
finanziamenti dei soci nelle società di capitali di capitali, in Società, 2006, p. 180; A. BARTALENA, I finanziamenti dei soci
nella società a responsabilità limitata, in AGE, 2003, II, p. 395; O. CAGNASSO, La società cit., p. 116. Contra, M.
IRRERA, Finanziamenti dei soci, in Il nuovo diritto societario. Commentario diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O.
Cagnasso, P. Montalenti, Artt. 2409-bis – 2483, Bologna, 2004, p. 1794; L. GALEOTTI FLORI, L’inefficacia del
rimborso del finanziamento dei soci tra l’art. 65 l.f. e l’art. 2467 c.c., in Giur. comm., 2005, II, p. 74 ss., spec. p. 79; D.
VATTERMOLI, Crediti cit., p. 127. Si noti, peraltro, che in dottrina si è ritenuto che l’ammissione al passivo
debba essere concessa anche nel caso in cui il socio abbia restituito alla curatela l’ammontare ricevuto dalla
società a rimborso del credito da finanziamento soci ai sensi dell’art. 2467 c.c.: così M. MAUGERI, Sul regime
cit., p. 819 s.
26 Cfr. D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 359.
27 Cfr. E. FAZZUTTI, sub art. 2467 cit., p. 50. Si discute, in vero, se un finanziamento originariamente erogato
da un terzo, per effetto della cessione a favore di un socio possa essere postergato ex art. 2467 c.c.: in senso
negativo v. C.F. GIAMPAOLINO, Profili cit., p. 88 ss.; più in generale, sul problema cfr. D. VATTERMOLI, Crediti
cit., p. 139.
28 Cfr. O. CAGNASSO, La società cit., p. 108.
24
9
ogni ripartizione. Ma tale meccanismo sembra estraneo all’area della postergazione,
poiché operare accantonamenti anche a favore dei crediti subordinati avrebbe l’effetto,
per certi versi paradossale, di impedire proprio il verificarsi dell’evento cui il rimborso
di tali crediti è condizionato, ossia l’integrale pagamento delle pretese situate in una
posizione superiore.
Si deve ritenere, piuttosto, con la più avvertita dottrina, che l’inclusione nel
passivo debba realizzarsi con “clausola di postergazione” e che, dunque, non operino a
favore dei titolari di tali pretese gli accantonamenti previsti, in generale, per i crediti
ammessi con riserva29.
Quanto ai crediti da finanziamenti dei soci soddisfatti entro l’anno precedente
alla dichiarazione di fallimento la legge, come si rammentava, prescrive la restituzione
alla massa del rimborso, delineando così uno strumento funzionalmente revocatorio che,
per quanto sotto il profilo procedimentale appaia più affine alla disciplina dei pagamenti
di crediti che alla data del fallimento non siano ancora scaduti, recata all’art. 65 l.f.,
sembra tuttavia derogare in pejus all’azione revocatoria dei pagamenti contemplata
nell’art. 67 l.f.30: a ogni modo, in seguito alla restituzione del valore rimborsato il
creditore sembra poter insinuare al passivo il credito reviviscente, con clausola di
postergazione, sia che tale esito lo si ritenga imposto a mente dei principi generali, sia
che lo si desuma, ancorché in via analogica, dall’art. 70, comma 2, l.f.31.
Va infine precisato che la postergazione e, in particolare, quella discendente
dalla legge, è incompatibile con la perduranza di forme di previlegio o di garanzia per il
relativo soddisfacimento, che gravino sul medesimo patrimonio: del resto, sarebbe
radicalmente contraddittorio consentire ai privati di “sfuggire” al regime della
postergazione per il tramite di garanzie incidenti sullo stesso attivo; diversamente,
invece, è a dirsi per garanzie rilasciate da terzi32.
6. Il dibattito intorno al trattamento concorsuale dei crediti postergati evoca l’ulteriore
problema dell’applicabilità a tali pretese dell’art. 56 l.f. a mente del quale i creditori
possono compensare i loro debiti verso il fallito, ancorché non scaduti alla data della
dichiarazione di fallimento e a meno che il creditore abbia acquistato il credito per atto
tra vivi dopo l’avvio del fallimento o nell’anno anteriore. L’operatività della
compensazione costituisce una deroga33 ai generali principi di concorsualità della
procedura e di trattamento paritario dei creditori sociali ed è perciò considerata dalla
Così G. GUIZZI, Il passivo cit., p. 291, seguito da M. MAUGERI, Sul regime cit., p. 817. In questo senso, ma
con riguardo alla postergazione convenzionale, già A. MAFFEI ALBERTI, Prestiti postergati e liquidazione coatta
amministrativa, in Banca borsa tit. di credito, 1983, I, p. 23 ss., spec. p. 25; G.F. CAMPOBASSO, I prestiti postergati cit.,
p. 141. Nel senso, invece, della piena operatività della disciplina dei crediti ammessi con riserva cfr. M.
MORAMARCO, La postergazione del finanziamento dei soci nelle società a responsabilità limitata ed il concordato preventivo, in
Dir. fall., 2007, II, p. 77 ss., spec. p. 94, nonché S. BONFATTI, Prestiti da soci, finanziamenti infra gruppo e strumenti
“ibridi” di capitale, in Il rapporto banca-impresa nel nuovo diritto societario, Milano, 2004, 288 ss. Sui profili
dell’ammissione cfr., da ultimo, D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 386 ss.
30 Cfr., sul tema, G. FERRI jr, In tema cit., p. 976; S. LOCORATOLO, Postergazione dei crediti e fallimento, Milano,
2010, p. 51 ss.; D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 130 s.
31 Cfr. M. CAMPOBASSO, I finanziamenti cit., p. 452; G. GUIZZI, Il passivo cit., p. 285; A. NIGRO e D.
VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 156 s.; D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 380 ss., ma già, per un cenno, p.
130; G. GUERRIERI, I finanziamenti cit., p. 82.
32 Cfr. D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 41 ss., secondo il quale tale conclusione s’imporrebbe anche per la
subordinazione convenzionale assoluta (integrando in tal caso la scelta della subordinazione una rinuncia
tacita alla garanzia) e per i privilegi d’ordine legale, in considerazione della specialità della disciplina che
qualifica un credito come subordinato, rispetto a quella che fissa i crediti privilegiati.
33 Cfr. S. SATTA, Diritto fallimentare cit., p. 185.
29
10
dottrina più avveduta come istituto speciale di stretta interpretazione34; del resto, la
destinazione selettiva del patrimonio sociale alla preferenziale soddisfazione di alcune
soltanto delle poste del passivo cui essa dà luogo, di fronte all’inequivoca volontà della
legge, ha suggerito ad alcuni l’applicazione restrittiva del disposto, soprattutto per quel
che concerne la valutazione delle condizioni alle quali è consentita la compensazione
dei crediti.
In particolare, nonostante il contrario avviso della giurisprudenza più recente35,
si è suggerito di verificare la sussistenza delle condizioni di esigibilità, di omogeneità e
di liquidità del credito non sulla base del particolare atteggiamento dei crediti ai fini del
concorso, ma dei caratteri originari del credito; trovando conferma, in questo senso,
nell’art. 56, comma 1, l.f. che rende irrilevante l’eventuale mancata scadenza del debito
del fallito prima della dichiarazione di fallimento: infatti, se la verifica delle condizioni
di compensabilità dovesse essere operata sulla base delle particolare configurazione dei
rapporti obbligatori ai fini del concorso tale precisazione risulterebbe inutile a motivo
della previsione della scadenza di tutti i debiti del fallito alla data della dichiarazione di
fallimento (art. 55, comma 2, l.f.)36.
Coloro che hanno affrontato il problema dell’applicabilità dell’art. 56 l.f. anche
a beneficio dei titolari di crediti postergati sembrano per lo più propendere per la
soluzione negativa sulla base di molteplici argomenti37, similmente a quanto già si
sosteneva nel passato per le ipotesi di postergazione convenzionale. Prevalentemente, si
è osservato che per effetto della soggezione alla disciplina della postergazione il credito
sarebbe sospensivamente condizionato all’integrale soddisfazione delle ragioni dei
creditori poziori, mancando perciò il requisito della sua esigibilità38; altri hanno negato
la compensazione segnalando che il carattere subordinato dei crediti esprima la
sostanziale partecipazione dei finanziatori al rischio d’impresa39, operando una
riqualificazione del credito che ne esclude l’omogeneità con il controcredito vantato
dalla società. Si tratta tuttavia di argomenti non convincenti, a cominciare da quello che
nega l’esigibilità del credito: la regola di postergazione, infatti, sembra destinata a
operare soltanto nella fase di liquidazione del patrimonio del debitore; quindi non può
dirsi che il credito, ancorché subordinato, non sia anche esigibile alla scadenza: al
contrario, lo è senz’altro al di fuori del fallimento (e, più ampiamente, di operazioni di
liquidazione generale), come è riprova nell’art. 2467 c.c. che rende ripetibile il solo
pagamento effettuato “nell’anno precedente il fallimento”, suggerendo a contrario che
pagamenti più risalenti siano legittimi e dunque, a maggior ragione, doverosi. Né,
d’altra parte, la compensazione può essere negata assecondando l’idea che l’originaria
esigibilità del credito venga meno nel corso della procedura o della liquidazione
Cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 147.
È ormai consolidato l’orientamento comparso con la Cass. 20 marzo 1991, n. 3006, in Fall., 1991, p. 1042:
in questo senso, infatti, si vedano, da ultimo, Cass. 12 febbraio 2008, n. 3280, in Fall., 2008, p. 605; Cass. 27
aprile 2010, n. 10025, in Fall., 2010, p. 1463; Cass. 18 marzo 2005, n. 6006, in Corr. giur., 2005, p. 969; Cass. 13
agosto 2004, n. 15779, in Mass. giur. it., 2004.
36 Cfr. G. GUIZZI, Il passivo cit., p. 285.
37 Cfr. M. MAUGERI, Sul regime cit., p. 819, e C.F. GIAMPAOLINO, Profili cit., p. 72 ss.; contra A. NIGRO e D.
VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 149, sia pure manifestando perplessità sulla scelta legislativa, e G.
GUERRIERI, I finanziamenti cit., p. 94, ma già per un cenno, p. 81, a nota 64. In giurisprudenza, nel senso
dell’inapplicabilità dell’art. 56 ai prestiti postergati cfr. Trib. Milano, 24 ottobre 2008, in RDS, III, 2009, p.
392.
38 G.F. CAMPOBASSO, I prestiti cit., p. 145; A. MAFFEI ALBERTI, Prestiti cit., p. 25 s.
39 G.B. PORTALE, «Prestiti subordinati» e «prestiti irredimibili» (Appunti), in Banca borsa, 1996, I, p. 1 ss., spec. p. 13
s.
34
35
11
ordinaria della società: a ben vedere, infatti, solo in termini descrittivi e atecnici il
credito postergato può dirsi, in quelle fasi, condizionato e dunque inesigibile; in realtà,
esso è esigibile poiché la postergazione è destinata a operare solo al momento della
destinazione del ricavato della liquidazione del patrimonio del debitore, quale disciplina
dell’ordine di distribuzione dell’attivo. Parimenti non convincente, per le ragioni
esposte nei paragrafi precedenti, è la tesi che si fonda sulla riqualificazione del credito
in conferimento.
Piuttosto, com’è stato proposto, l’operatività della compensazione sembra
doversi escludere perché consentendo al creditore postegato di avvalersi di tale istituto
si giungerebbe a esiti contradditori con l’art. 2467 c.c.: per tal via, infatti, si
sottrarrebbero all’attivo fallimentare risorse destinate a soddisfare in via preferenziale,
sia pure anche solo parzialmente, i creditori postergati, pregiudicando il raggiungimento
della finalità sottostante l’istituto40. In altre parole, ai fini dell’esclusione della
compensazione per i crediti di cui si tratta sembra decisivo osservare che la disciplina
dell’art. 2467 c.c. si pone in radicale contraddizione con quella modalità di estinzione
delle obbligazioni, escludendone l’operatività proprio sulla base degli stessi principi
generali che la regolano e, in particolare, a norma dell’art. 1246, n. 5, c.c. che la
preclude in caso di divieto di legge41. Infatti, se sul piano della fattispecie il credito
subordinato non manca di alcun requisito che ne consenta la compensabilità ex art. 56
l.f.42, su quello, distinto, della disciplina si mostra incompatibile con gli effetti indotti
dall’estinzione dei crediti per compensazione.
E si consideri, al riguardo, che solo apparentemente l’art. 1246, n. 5, c.c.
sembra richiamare un divieto espresso e specifico previsto da una norma di legge: al
contrario, si rileva sovente che tale divieto andrebbe rintracciato non soltanto in
disposizioni che espressamente prevedano l’esclusione della compensazione ma anche
in norme o principi, presenti nell’ordinamento, con i quali la possibilità di contrapporre
all’obbligo di pagamento di debito un controcredito liquido ed esigibile si ponga in
insanabile contrasto43.
7. Negli ultimi anni, il legislatore ha più volte novellato la legge fallimentare, in
particolare in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti e concordati, fra l’altro
regolando il diffuso fenomeno dei c.d. “finanziamenti ponte” e, più in generale,
dell’erogazione di “nuova finanza” a favore dell’impresa in crisi: ci si riferisce, nel
dettaglio, all’art. 182-quater l.f., in materia di prededucibilità dei crediti nel concordato
preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti (originariamente introdotto
dall’art. 48, comma 1, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni con l. 30
Cfr. M. MAUGERI, Finanziamenti cit., p. 136, nel testo e alle note 142 e 143.
Cfr. D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 378 s. Peraltro, come rileva l’A. da ultimo citato, va segnalato che la
compensazione deve ritenersi esclusa anche per il caso in cui la postergazione derivi da un patto del negozio
di finanziamento – si pensi, per esempio, alle obbligazioni il cui rimborso sia subordinato all’integrale
pagamento degli altri creditori – in ragione non tanto del n. 5 dell’art. 1246 c.c., ma del precedente n. 4, ove si
contempla la rinuncia alla compensazione operata precedentemente dal creditore: il che sembra imposto dalla
natura stessa del patto di subordinazione che risulterebbe incompatibile con la natura satisfattoria della
compensazione.
42 Cfr. S. LOCORATOLO, Postergazione cit., 137, il quale pure conclude per la non applicabilità dell’art. 56 l.f. ai
crediti postergati.
43 In questo senso cfr., F. MARTORANO, Compensazione del debito per conferimento, in AA. VV., La riforma delle
società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, 1, Torino, 2006, p. 519
ss., spec. p. 535 ex multis, Cass. 22 dicembre 1994, n. 11040, in Mass. giur. it., 1994; Cass. 27 maggio 1982, n.
3264, in Mass. giur. it., 1982.
40
41
12
luglio 2010, n. 122, e successivamente modificato, da ultimo con il d.l. 22 giugno 2012,
n. 83, convertito con modificazioni con l. 7 agosto 2012, n. 134), e all’art. 182quinquies l.f., in tema di finanziamento e continuità aziendale nel concordato preventivo
e negli accordi di ristrutturazione dei debiti (inserito dal medesimo d.l. n. 83/2012)44.
Entrambe le disposizioni trovano applicazione anche per i finanziamenti
effettuati da soci, sì da incidere, almeno in parte, la disciplina dei crediti postergati che
sopra si è descritta e originare numerosi profili problematici, anche a motivo di una
certa estemporaneità e disorganicità dei ricordati interventi normativi.
In particolare, l’art. 182-quater l.f., nell’intento di favorire soluzioni
concordate della crisi45, dispone, nel primo comma, che i crediti derivanti da
finanziamenti in qualsiasi forma erogati all’impresa in esecuzione di un concordato
preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato siano
“prededucibili”; nel secondo comma, poi, parifica ai crediti appena indicati – con
l’effetto, quindi, di estendere loro il trattamento dei crediti prededucibili – quelli
derivanti da finanziamenti effettuati in funzione della presentazione delle domande di
ammissione alla procedura di concordato preventivo o di omologazione dell’accordo di
ristrutturazione, nei cui piani siano rispettivamente previsti e a condizione che la
prededuzione sia espressamente disposta nel provvedimento che ammette l’impresa al
concordato preventivo ovvero in quello che omologa l’accordo di ristrutturazione.
Si tratta dell’esplicitazione di un principio da taluni già invocato per i crediti
concessi all’impresa in crisi, in particolare nelle ipotesi di concordati non puramente
liquidatori, all’indomani del d.l. n. 35/2005; infatti, mentre per il concordato preventivo
si sarebbe potuti giungere alla medesima conclusione, ancorché, per talune ipotesi,
attraverso un’interpretazione estensiva dell’art. 111, comma 2, l.f.46, non altrettanto
Sul percorso legislativo che ha condotto all’attuale quadro normativo cfr., da ultimo, ASSONIME, Le nuove
soluzioni concordate della crisi dell’impresa. Circolare n. 4/2013, in Riv. soc., 2013, p. 541 ss.
45 N. ABRIANI, Il finanziamento dei soci alle imprese in crisi alla luce del nuovo art. 182-quater l.fall.: dal sous-sol della
postergazione all’attico della prededuzione?, in Riv. dir. impr., 2010, p. 429 ss., spec. p. 436.
46 Quanto al concordato preventivo, persiste in giurisprudenza il dibattito, dagli esiti ancora incerti, sulla
possibilità di considerare prededucibili i crediti propedeutici alla presentazione della relativa domanda di
ammissione, originato dall’impiego, nell’art. 111, comma 2, l.f., dell’espressione “[crediti] sorti in occasione o in
funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge”: cfr. al riguardo Trib. Milano, 20 agosto 2009,
in Fall., 2009, 1413; nel medesimo senso, Trib. Udine, 15 ottobre 2008, ibid. In una diversa prospettiva cfr.
invece Trib. Treviso, 16 giugno 2008, in Corr. mer., 2008, p. 1015. In dottrina, per la soluzione favorevole cfr.,
M. MAUGERI, Sul regime concorsuale dei finanziamenti soci, in Giur. comm., 2010, I, p. 805 ss., spec. p. 837 s.,
nonché, più in generale, S. BONFATTI, Le procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa. Uno sguardo
d’insieme, in S. BONFATTI e P.F. CENSONI, Manuale cit., p. 501 ss., spec. p. 507 s., secondo il quale le fattispecie
previste dall’art. 182-quater l.f. prevede “fattispecie specifiche di prededucibilità di crediti sorti in funzione od
in esecuzione del concordato, che si sommano (e sostanzialmente si sovrappongono) a quelle previste in via
generale dall’art. 111 l.fall.”; di “rapporto di specialità fra l’art. 182-quater l.f. e l’art. 111 l.f. discute O. DE
CICCO, Concordato cit., p. 265, a nota 20. Rileva, invece, G.B. NARDECCHIA, sub art. 182-quater, in Commentario
alla legge fallimentare diretto da C. Cavallini, III, Milano, 2010, p. 851 ss., spec. p. 852, che “l’art. 182-quater l.f.
rappresenta […] una significativa novità rispetto all’art. 111 l.f. in quanto estende il regime della prededuzione
anche a crediti sorti successivamente alla chiusura del concordato preventivo”.
Si consideri, altresì, che la giurisprudenza di legittimità, nel passato, nell’ambito del percorso che l’ha
progressivamente portata a estendere, sia pure al ricorrere di rigorose condizioni, l’applicazione dell’art. 111
l.f. anche a talune categorie di crediti sorti nel contesto della procedura di concordato preventivo, in due
importanti pronunce aveva affermato, fra l’altro, che in tema di concordato preventivo, qualora la gestione
dell’impresa assurga a dimensione di modalità essenziale della singola procedura concordataria (siccome
diretta ad una più proficua liquidazione patrimoniale a favore dei creditori concorrenti), in quanto risulti parte
della proposta di concordato, sia oggetto dell’ammissione da parte del tribunale e dell’approvazione da parte
dei creditori, e formi altresì oggetto dell’omologazione finale, si rende applicabile, in caso di successivo
fallimento, la norma di cui all’art. 111 comma 1 n. 1 l.f., dovendosi, per l’effetto, considerare le spese della
44
13
poteva dirsi con riferimento agli accordi di ristrutturazione, essendo assai dubbia la
riconduzione di tale istituto nel novero delle procedure concorsuali47.
La prededucibilità – è opportuno premettere – attiene all’eventuale successivo
fallimento dell’impresa finanziata, con l’esito che, al di fuori di tale procedura, quei
crediti dovranno essere rimborsati secondo la disciplina generale e le previsioni
contrattuali convenute fra le parti: le quali, ovviamente, sono destinate a variare a
seconda che si tratti di finanziamenti funzionali agli accordi di ristrutturazione dei debiti
o ai concordati e, in quest’ultimo caso, a seconda che siano erogati ai fini della
presentazione della domanda di ammissione o in esecuzione del concordato48.
Di là, però, dai problemi di carattere generale che la norma origina, a
cominciare dall’esatta precisazione dei finanziamenti cui si rivolge, ciò che interessa
segnalare ai fini della presente indagine è che, per effetto del nuovo art. 182-quater,
comma 3, l.f., in deroga agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c., il principio della
prededucibilità trova applicazione anche per l’ipotesi in cui i predetti finanziamenti
siano concessi dai soci, sia pure entro il limite dell’ottanta per cento del relativo
ammontare: tuttavia, a dispetto della sua apparente chiarezza, l’attuale formulazione
delle previsione – che si deve all’intento del legislatore di emendare le versioni
precedenti dai problemi interpretativi subito segnalati dalla dottrina49 – resta
significativamente oscura sotto numerosi profili, a cominciare dal suo ambito di
applicazione.
Infatti, l’espressione “finanziamenti effettuati dai soci” potrebbe far pensare a
qualsiasi tipo di società: soccorre, però, l’espresso richiamo agli artt. 2467 e 2497quinquies c.c., che induce senz’altro a circoscrivere la previsione ai finanziamenti dei
soci di società a responsabilità limitata e a quelli infra gruppo, gli unici che allo stato
trovano un’espressa disciplina. Ne discende, pertanto, che, salvo a estendere la
fattispecie dell’art. 2467 c.c. agli altri tipi sociali, i finanziamenti effettuati dai soci al di
gestione dell’impresa come spese della procedura (cfr. Cass. 12 marzo 1999, n. 2192, in Fall., 2000, p. 370; ma
in tal senso già Cass. 5 agosto 1996, n. 7140, in Fall., 1997, p. 269).
47 E vedi, infatti, per tutti, S. BONFATTI, Le procedure cit., p. 508, e G.B. NARDECCHIA, sub art. 182-quater, in G.
LO CASCIO, Codice commentato del fallimento, II ed., Milano, 2013, p. 2202 ss., spec. p. 2217 s.
48 Sul problema e sulle alternative prospettate in dottrina cfr. G.B. NARDECCHIA, sub art. 182-quater cit., p.
2202 ss. Va segnalato che taluni propendono per ritenere che i finanziamenti erogati in funzione degli accordi
di ristrutturazione o in funzione della presentazione della domanda di concordato debbano ricevere integrale
pagamento nel contesto dell’eventuale concordato, salvo ovviamente una diversa previsione contrattuale: in
definitiva, secondo queste impostazioni, la prededucibilità dell’art. 182-quater l.f. sarebbe destinata a operare
anche fuori dal fallimento. A favore di questa impostazione militerebbero alcuni argomenti, fra i quali quello,
testuale, che, come si dirà più avanti nel testo, dispone l’esclusione dal voto sul concordato i relativi creditori
e che, secondo le impostazioni che si riferiscono, si spiega soltanto per il loro disinteresse rispetto all’esito del
concordato stesso: cfr. L. STANGHELLINI, Finanziamenti ponte e finanziamenti alla ristrutturazione, in Fall., 2010, p.
1346 ss., spec. p. 1350 s., cui adde A. BASSI, La illusione della prededuzione, in Giur. comm., 2011, I, p. 342 ss., spec.
p. 355 ss.
49 Cfr., fra gli altri, S. AMBROSINI, Appunti “flash” sull’art. 182-quater della legge fallimentare, in www.ilcaso.it, 15
giugno 2010, sez. II – Dottrina, opinioni e interventi; P. VALENSISE, sub art. 182-quater, in A. NIGRO, M.
SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La legge fallimentare cit., p. 2337 ss.; L. STANGHELLINI, Finanziamenti-ponte
cit., p. 1346 ss.; M. MAUGERI, Sul regime concorsuale dei finanziamenti soci, in Giur. comm., 2010, I, p. 805 ss.; A.
BASSI, La illusione cit., p. 342 ss.; O. DE CICCO, Concordato preventivo e classi di creditori: dalla postergazione alla
prededuzione, in Giur. comm., 2011, II, p. 257 ss.; N. ABRIANI, Il finanziamento cit., p. 429 ss.; G. FERRI jr,
Insolvenza e crisi dell’impresa organizzata in forma societaria, in Riv. dir. comm., 2011, I, p. 413 ss., spec. p. 431 ss.; G.
RACUGNO, Concordato preventivo e accordi di ristrutturazione dei debiti. Le novità introdotte dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78
e dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, in Tratt. dir. fall. diretto da V. Buonocore e A. Bassi, coordinato da G. Capo, F.
De Santis e B. Meoli, III, Padova, 2011, p. 603 ss.
14
fuori delle ipotesi indicate troveranno disciplina nei precedenti commi 1 e 2 dell’art.
182-quater l.f.
Sotto un diverso profilo, il tenore testuale del comma in esame sembrerebbe
circoscrivere la deroga espressa agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. ai soli
finanziamenti effettuati da soci: nondimeno, è noto che l’art. 2497-quinquies c.c.,
dettato in materia di gruppi, estende la disciplina prevista nell’art. 2467 c.c. ai
finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e
coordinamento o da altri soggetti a quest’ultima sottoposti, a prescindere, oltre che dal
tipo di società, dalla sussistenza di un rapporto sociale fra società beneficiaria e
finanziatore. Si tratta dunque di chiarire se la deroga all’art. 2497-quinquies c.c.,
disposta dall’art. 182-quater, comma 3, c.c., trovi applicazione solo per l’ipotesi in cui il
finanziatore sia socio della società, oppure – come in vero sembra preferibile50 – anche
per il caso in cui non sussista fra le parti un tale rapporto, ma la più rigorosa disciplina
del rimborso di tali finanziamenti si spieghi per l’appartenenza al medesimo gruppo.
Un altro, e ben più serio, ordine di problemi è sollevato dalla seconda parte
dell’art. 182-quater, comma 3, l.f., a mente della quale “Si applicano i commi primo e
secondo quando il finanziatore ha acquisito la qualità di socio in esecuzione
dell’accordo di ristrutturazione dei debiti o del concordato preventivo”51. Riguardo a
questo inciso sono possibili almeno tre diverse soluzioni interpretative: secondo una
prima lettura52, potrebbe ritenersi che il terzo comma dell’art. 182-quater l.f. rechi due
distinte fattispecie, in forza delle quali il beneficio della prededucibilità per l’ipotesi di
successivo fallimento dell’impresa spetterebbe ai crediti discendenti dai finanziamenti
contemplati nel primo e nel secondo comma della medesima disposizione (1) in forma
integrale a coloro che siano divenuti soci in un momento successivo e, più
precisamente, in esecuzione dell’accordo o del concordato, e (2) nella misura
dell’ottanta per cento a coloro che già fossero soci della società, i quali, dunque, con
ogni probabilità53, sopporterebbero per il restante venti per cento del credito il regime
della postergazione54. Secondo un’altra impostazione55, invece, potrebbe ritenersi che la
E si veda, infatti, nel medesimo senso già L. STANGHELLINI, Finanziamenti-ponte cit., p. 1364, che
espressamente propende per l’applicazione analogica della disposizione anche ai non soci, cui adde N.
ABRIANI, Il finanziamento cit., p. 440.
51 Per il problema, nel vigore della precedente versione della norma, cfr. L. STANGHELLINI, Finanziamenti-ponte
cit., p. 1364.
52 A favore della quale propende G. GUERRIERI, I finanziamenti cit., p. 85.
53 La circostanza che il terzo comma dell’art. 182-quater l.f. disponga la deroga alla disciplina dei finanziamenti
dei soci contemplata negli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. di per sé non implica che i prestiti erogati in quella
sede dai soci soddisfino necessariamente anche le condizioni di applicabilità dell’art. 2467 c.c.: cfr., sul
problema G. FERRI jr, Insolvenza cit., p. 433 s.
54 Di là dalla scelta fra le alternative prospettate nel testo, è conclusione pressoché unanime in dottrina che la
quota residua del venti per cento del credito, ricorrendone le condizioni, sia soggetta alle discipline degli artt.
2467 e 2497-quinquies c.c.: cfr., ex multis, L. STANGHELLINI, Finanziamenti-ponte cit., p. 1364; G. RACUGNO,
Concordato cit., p. 606 s.; O. DE CICCO, Concordato cit., p. 266; S. BONFATTI, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti,
in S. BONFATTI e P.F. CENSONI, Manuale cit., p. 629 ss., spec. p. 664; G.B. NARDECCHIA, sub art. 182-quater
cit., p. 2205, e G. GUERRIERI, I finanziamenti cit., p. 86.
55 Le possibili soluzioni interpretative sono indicate da A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle
imprese. Le procedure concorsuali. Appendice di aggiornamento in relazione al d.l. n. 83/2012, conv. dalla l. n. 134/2012,
2013, reperibile in formato elettronico sul sito internet dell’editore Mulino (www.mulino.it), p. 15 s., che
mostrano di propendere per la seconda, giacché in tal modo “il senso di insoddisfazione per l’attribuzione del
carattere di prededucibilità al credito vantato dai nuovi soci risulterebbe, in effetti, di molto attenuato, posto
che a fronte dei possibili benefici uti socius derivanti dalla complessiva operazione, il finanziatore, per effetto
della sua entrata nella compagine societaria, rinuncerebbe in parte (nella misura non inferiore al 20%) alla
“garanzia” della prededuzione che gli avrebbe comunque assicurato l’art. 182-quater, co. 1 e 2”.
50
15
prededucibilità sia ammessa soltanto a favore dei finanziatori che siano divenuti soci in
esecuzione delle predette soluzioni negoziali, peraltro nella misura dell’ottanta per cento
del relativo ammontare, sollevando, così, il dubbio sul trattamento del residuo venti per
cento del credito: infatti, la circostanza che l’erogazione dei finanziamenti – almeno per
quelli propedeutici al concordato e all’accordo di ristrutturazione dei debiti – potrebbe
precedere l’acquisto della qualità di socio, induce a dubitare della sicura applicabilità
degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c.56. Infine, secondo una terza prospettiva, potrebbe
ritenersi che l’art. 182-quater, comma 3, l.f. detti una disciplina uniforme per i crediti
rivenienti dai predetti finanziamenti, che dunque sarebbero beneficiari della
prededucibilità sino all’ottanta per cento del relativo ammontare in ogni caso, e quindi
anche se il finanziatore ha acquisito la qualità di socio in esecuzione dell’accordo o del
concordato57.
È dubbio, infine, se la deroga agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c., operata
dall’art. 182-quater, comma 3, l.f., riguardi i soli crediti non rimborsati al momento
della dichiarazione di fallimento, lasciando salvo, in tal modo, il potere della procedura
di far valere l’obbligo restitutorio a carico del creditore che abbia ricevuto il pagamento
del debito (pur qualificato come prededucibile secondo la richiamata norma
concorsuale) nell’anno precedente l’apertura della procedura fallimentare: i più, in vero,
propendono per l’integrale disapplicazione delle previsioni codicistiche, rilevando la
contraddittorietà della diversa soluzione interpretativa che, da un lato, consenta al
curatore di ottenere la restituzione del pagamento e, dall’altro, ascriva le reviviscenti
pretese fra i crediti prededucibili58; tuttavia, di là dal rilievo, operativo, che la
“moltiplicazione” dei crediti prededucibili è destinata a rendere sempre più ricorrente,
nei fatti, l’ipotesi di un attivo patrimoniale insufficiente, che a norma dell’art. 111-bis,
comma 5, l.f. impone l’applicazione dei principi di graduazione e proporzionalità anche
a tali crediti59: a prescindere da questo, si diceva, va osservato che l’art. 182-quater l.f.,
volendo derogare agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c., non può che realizzare tale
intento nei limiti della sovrapposizione fra le due discipline, vale a dire esclusivamente
nella graduazione del credito ai fini della ripartizione dell’attivo fallimentare; per tale
ragione, la previsione dell’art. 2467 c.c. che impone al creditore la restituzione alla
massa di quanto ricevuto in pagamento del debito nell’anno precedente il fallimento, sul
piano formale, rimane estraneo alla deroga: infatti, tale restituzione, per un verso, non
impedisce l’insinuazione al passivo del reviviscente credito fra le pretese prededucibili
(o, se del caso, per l’ottanta per cento fra queste ultime e per il residuo venti per cento
fra quelle postergate), in linea con quanto previsto dall’art. 182-quater l.f., ma, per altro
Va inoltre osservato che sin dalla previgente versione della norma, ove pure si limitava il beneficio della
prededucibilità all’ottanta per cento dell’ammontare del credito, M. MAUGERI, Sul regime concorsuale dei
finanziamenti soci, in Giur. comm., 2010, I, p. 805 ss., spec. p. 837 s., assecondando la ratio della norma,
suggerisce che la prededuzione operi per l’intero credito da finanziamento soci, la differenza di disciplina
sussistendo, allora, nella circostanza che per il residuo venti per cento l’eventuale postergazione ex art. 2467 e
2497-quinquies c.c. trovi applicazione, ma soltanto fra i crediti prededucibili, a norma dell’art. 111-bis, ultimo
comma, l.f. Questa suggestiva prospettiva, peraltro, secondo l’A., sarebbe in grado di spiegare adeguatamente
la circostanza per cui l’art. 182-quater, ultimo comma, l.f. a rigore sembra escludere dal voto e dal computo
delle maggioranze l’intero credito da finanziamento soci e non, invece, la sola percentuale dell’80% per la
quale troverebbe applicazione il regime di postergazione.
57 Cfr. F. GUERRERA, Le soluzioni negoziali, in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, II ed., Milano, 2013, p.
133 ss., spec. p. 147, e G.B. NARDECCHIA, sub art. 182-quater cit., p. 2220.
58 Cfr. M. MAUGERI, Sul regime cit., p. 836, nel testo e a nota 99, e S. BONFATTI, Gli accordi di ristrutturazione dei
debiti, in S. BONFATTI e P.F. CENSONI, Manuale cit., p. 629 ss., spec. p. 665 s.
59 Cfr. G. GUERRIERI, I finanziamenti cit., p. 88.
56
16
verso, consente di recuperare all’attivo le risorse necessarie al pagamento dei debiti, in
un momento nel quale ancora non si conosce l’esatto ammontare di quelli prededucibili
e, dunque, non è possibile prevedere la capienza dell’attivo patrimoniale ai fini della
relativa integrale soddisfazione.
8. L’introduzione, a opera dell’art. 33, comma 1, lett. f), d.l. n. 83/2012, di un nuovo art.
182-quinquies l.f., recante disposizioni in tema di finanziamento e di continuità
aziendale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione, è rivolta, fra
l’altro, a disciplinare la sorte dei finanziamenti erogati all’impresa in crisi nel contesto
di tali procedure nel tempo corrente fra la presentazione delle relative domande e
l’omologazione del concordato o dell’accordo. Si trattava, del resto, di un tema
dibattuto e apparentemente non risolto dalla disciplina previgente, almeno per quel che
riguarda le fasi di formazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti; un discorso
diverso, invece, si sarebbe forse potuto fare per il concordato preventivo, potendosi
infatti già rintracciare una disciplina adeguata alla fattispecie nell’art. 167 l.f.60,
concernente i poteri di amministrazione dei beni durante la procedura, al quale
verosimilmente si dovrà far riferimento per le ipotesi estranee all’ambito di applicazione
della disciplina che si commenta.
Il nuovo art. 182-quinquies, comma 1, l.f. dispone, in dettaglio, che “Il debitore
che presenta, anche ai sensi dell’art. 161 sesto comma, una domanda di ammissione al
concordato preventivo o una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione
dei debiti ai sensi dell’art. 182-bis, primo comma, o una proposta di accordo ai sensi
dell’art. 182-bis, sesto comma, può chiedere al tribunale di essere autorizzato, assunte
se del caso sommarie informazioni, a contrarre finanziamenti, prededucibili ai sensi
dell’art. 111, se un professionista designato dal debitore in possesso dei requisiti di cui
all’art. 67, terzo comma, lett. d), verificato il complessivo fabbisogno finanziario
dell’impresa sino all’omologazione, attesta che tali finanziamenti sono funzionali alla
migliore soddisfazione dei creditori”. Il secondo e terzo comma della previsione
precisano, peraltro, che tale autorizzazione possa riguardare “anche finanziamenti
individuati soltanto per tipologia ed entità, e non ancora oggetto di trattative”, nonché la
concessione di “pegno o ipoteca a garanzia dei medesimi finanziamenti”.
Cfr. L. STANGHLLINI, Finanziamenti-ponte cit., p. 1348. Si tratta, in vero, di una conclusione che nel vigore
dell’originario art. 111 l.f. non trovava pacifico e incondizionato sostegno nella giurisprudenza, la quale, nei
successivi arresti, si mostrava incline a ritenere prededucibili ai sensi dell’art. 111 l.f. i crediti sorti in funzione
della procedura, ossia ai soli “debiti della massa, contratti cioè per le spese e dunque a causa dello svolgimento
e della gestione della procedura, nell’interesse dei creditori” (così la recente Cass. 24 luglio 2007, n. 16387, in
Fall., 2008, p. 431); e vale la pena di notare che l’intervenuta autorizzazione del giudice delegato ai sensi
dell’art. 167, comma 2, l.f., non sarebbe valsa, di per sé, ad accertare la predetta strumentalità: per la
precisazione dei termini del dibattito giurisprudenziale cfr. Cass. 9 settembre 2002, n. 13056, in Dir. fall., 2002,
II. Più in particolare, poi, si deve rilevare che la giurisprudenza negava in passato la prededucibilità di crediti
nascenti da finanziamenti effettuati da terzi a favore dell’impresa al precipuo fine di rendere più agevole
l’adempimento del concordato, ancorché tali operazioni fossero state autorizzate dal giudice delegato: si
vedano, in tal senso, Cass. 8 ottobre 1974, n. 2621, e App. Bologna, 24 gennaio 1984, in Giur. it., 1984, I, 369.
Tuttavia, la dottrina più recente – sia pure con accenti talora diversi – segnala come la nuova formulazione
dell’art. 111, comma 2, l.f., che estende il carattere della prededucibilità in duplice direzione (nel senso, cioè, di
comprendervi (i) non più soltanto i crediti sorti nel solo contesto del fallimento, ma anche nell’ambito delle
altre procedure concorsuali regolate dalla legge fallimentare, e (ii) non più esclusivamente quelli originati in
funzione di tali procedure, ma anche quelli contratti, più genericamente, in occasione delle stesse) induce a
superare il pregresso orientamento restrittivo della giurisprudenza e a ritenere che i crediti efficacemente sorti
ex art. 167 l.f. siano prededucibili nell’eventuale successivo fallimento.
60
17
Orbene, di là dai molti dubbi che anche queste disposizioni suscitano e da alcune
aporie d’indole testuale che emergono (come il riferimento ai “finanziamenti
prededucibili”, che in vero va inteso, più esattamente, ai crediti che discendono da tali
operazioni61), ciò che ai presenti fini interessa segnalare è che la norma non sembra
recare alcuna distinzione in ragione della natura del finanziatore, originando
l’interrogativo sulla sorte dei crediti rivenienti dai finanziamenti erogati dai soci della
società: si tratta, in particolare, di chiedersi se il finanziamento effettuato dal socio,
ancorché nel quadro dell’autorizzazione (se del caso generica) del tribunale, sia
destinato, per l’ipotesi di successivo fallimento dell’impresa, a essere annoverato fra i
crediti prededucibili – come vorrebbe il primo comma dell’art. 182-quinquies l.f. – o,
all’opposto, sia degradato fra i crediti postergati, a norma degli artt. 2467 e 2497quinquies c.c.; ovvero, infine, se possa trovare applicazione analogica il precedente art.
182-quater, comma 3, l.f., che prima si è descritto.
Verosimilmente, il conflitto fra le previsioni degli artt. 2467 e 2497-quinquies
c.c., da un lato, e l’art. 182-quinquies, commi 1, 2 e 3, l.f., dall’altro, sembra dover
essere risolto a favore dei primi, con l’esito che il finanziamento, ancorché autorizzato
dal tribunale, è destinato alla postergazione (beninteso: solo qualora abbia le
caratteristiche indicate dalla disciplina civilistica62): in questo senso induce il rilievo,
d’ordine testuale, che il legislatore sembra ritenere la disciplina concorsuale non
necessariamente speciale rispetto a singole disposizioni del codice civile, come dimostra
il confronto con l’art. 182-quater, comma 3, l.f.; l’incipit di quest’ultima previsione,
infatti, espressamente “deroga agli artt. 2467 e 2497-quinquies del codice civile”,
suggerendo a contrario di ritenere che, ove una deroga espressa non vi sia, quelle
previsioni, in presenza dei relativi presupposti, debbano trovare applicazione63.
9. Va segnalato, infine, che l’art. 182-quater, comma 5, l.f. esclude dal voto e dal
computo delle maggioranze per l’approvazione del concordato preventivo, nonché per il
raggiungimento della percentuale prevista dall’art. 182-bis, commi 1 e 6, l.f., i crediti
discendenti da finanziamenti erogati in funzione della presentazione della domanda di
ammissione alla procedura di concordato preventivo e di omologazione dell’accordo di
ristrutturazione dei debiti di cui al comma 2, anche se i relativi titolari siano soci64;
diversamente dalla previgente versione della norma, l’esclusione dal voto nel
Cfr. in questo senso, opportunamente, A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Appendice cit., p. 16 s., ove pure una
prima rassegna degli aspetti problematici della novella.
62 E cfr. la precedente nota 54.
63 Per il medesimo ordine di considerazioni cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Appendice cit., p. 18 s., secondo i
quali, peraltro, le soluzioni interpretative alternative a quella preferita dovrebbero essere scartate anche in
ragione di ulteriori rilievi: in dettaglio, non convincerebbe l’applicazione analogica dell’art. 182-quater, comma
3, l.f., perché “pur ammettendo l’esperibilità, nella specie, del magistero analogico, infatti, non si saprebbe né
per quale parte del credito riconoscere la prededuzione (l’art. 182-quater, co. 3 stabilisce, come si ricorderà,
che la prededuzione opera fino alla misura dell’80% del credito), né chi è competente a determinarla”; non
persuaderebbe, però, neppure la soluzione volta a ritenere in ogni caso prededucibili i crediti rivenienti da
siffatte operazioni di finanziamento, a prescindere dalla natura soggettiva del sovventore, poiché, sebbene “se
la legge non distingue, sembra invero del tutto illogico riconoscere la prededuzione, da un lato, nella misura
massima dell’80% ad un credito da finanziamento la cui erogazione sia prevista nella proposta sottoposta al
vaglio dei creditori (ossia, i soggetti più direttamente coinvolti dalla prededuzione) e, dunque, condizionata
all’approvazione di questi ultimi; e, dall’altro lato, nella misura del 100% ai crediti da finanziamenti la cui
erogazione è sottratta al vaglio dei creditori concorrenti, essendo condizionata solo all’autorizzazione del
tribunale”.
64 Espressione nella quale A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Appendice cit., p. 16, suggeriscono di ritenere
comprese anche società appartenenti al medesimo gruppo.
61
18
concordato preventivo non sembra invece disposta, almeno espressamente, per crediti
discendenti da finanziamenti erogati in esecuzione di un accordo di ristrutturazione
omologato (cui, in tesi, consegua la procedura di concordato), che pure godono, ai sensi
del primo comma dell’art. 182-quater l.f., in caso di successivo fallimento, del beneficio
della prededucibilità.
L’esclusione dal voto nel concordato preventivo di tali crediti non sembra
spiegarsi, come sarebbe invece a dirsi per il concordato fallimentare65, in ragione del
rilievo che essi devono trovare integrale pagamento nel piano concordatario 66: piuttosto,
la norma sembra ispirata dalla volontà di evitare condizionamenti sull’esito del voto dei
creditori o del raggiungimento della quota debitoria necessaria per l’omologazione
dell’accordo di ristrutturazione dei debiti67.
Su un piano più generale, però, l’esclusione dal voto dei crediti per
finanziamenti dei soci che, in deroga all’art. 2467 e 2497-quinquies c.c., sono qualificati
come prededucibili, sembrerebbe esprimere un significato normativo ben più rilevante:
tale disciplina, cioè, potrebbe essere interpretata come espressione di un più ampio
principio che non consente di assegnare rilievo procedimentale nei concordati a siffatte
pretese68. Il rilevo, tuttavia, non sembra cogliere nel segno, poiché tal esclusione non si
spiega in ragione della natura postergata delle relative pretese (che, del resto, è esclusa
dell’espressa deroga agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. iscritta nel terzo comma della
norma in esame) ma, piuttosto, a motivo del peculiare regime giuridico di prededuzione
che alle condizioni dell’art. 182-quater l.f. le connota nell’eventuale successivo
fallimento. Proprio quest’ultima conclusione, tuttavia, induce a riproporre
l’interrogativo, emerso già nella vigenza della prima versione dell’art. 182-quater l.f., se
l’esclusione dal voto riguardi l’intero credito o, come sembra preferibile, soltanto la
quota dell’ottanta per cento, che è destinata a beneficiare, in caso di fallimento, della
prededucibilità: la sola, in vero, alla quale, a rigore, si applicano “il primo e il secondo
comma” dell’art. 182-quater l.f.69.
10. L’art. 182-quater l.f., in realtà, lascia impregiudicato il dubbio concernente la
partecipazione al voto nelle procedure di concordato dei crediti subordinati, originato,
fra l’altro, dall’assenza, nella disciplina che espressamente regola tali vicende, di
qualsiasi riferimento ai crediti postergati. Al proposito, alcuni tendono a escludere (non
soltanto qualsivoglia soddisfazione concordataria per i crediti subordinati ma anche) il
riconoscimento ai relativi titolari del diritto di voto, per lo più a motivo della sostanziale
qualificazione in conferimenti di tali poste70. Diversamente, una volta affermato che la
postergazione non fa venir meno la natura di crediti alle relative pretese, sembra
imposta la loro partecipazione (almeno formale) al concorso, non intravedendosi nella
65
s.
In questo senso, ma nell’ambito del concordato fallimentare, cfr. A. BONSIGNORI, Del concordato cit., p. 265
A meno che non si propenda, ovviamente, per gli orientamenti indicati alla precedente nota 49.
Cfr. G.B. NARDECCHIA, sub art. 182-quater, in Commentario cit., p. 859.
68 Lo paventa anche O. DE CICCO, Concordato cit., p. 266.
69 Ma si veda, oltre a quanto riferito nella precedente nota 57, N. ABRIANI, Il finanziamento cit., p. 439, nel testo
e a nota 24, secondo il quale l’esclusione dal voto riguarderebbe l’intero credito del socio (e, dunque, sia
l’ottanta per cento prededucibile, sia il venti per cento postergato), il che “sembra inoltre avvalorare
l’impostazione volta ad escludere i creditori postergati (per i finanziamenti precedentemente concessi) dal
voto sul concordato”.
70 Cfr. L. GALEOTTI FLORI, L’inefficacia del rimborso del finanziamento dei soci tra l’art. 65 l.f. e l’art. 2467 c.c., in Giur.
comm., 2005, II, p. 74 ss., spec. p. 80 s. In giurisprudenza cfr. Trib. Firenze 26 aprile 2010, cit., p. 5 ss.
66
67
19
disciplina alcun serio ostacolo al riconoscimento del diritto di voto sulla proposta
concordataria né, d’altra parte, sembrano emergere interessi alla cui protezione sia
congrua la radicale misura dell’esclusione dai quorum costitutivi e deliberativi71. Dal
primo punto di vista, si deve osservare, infatti, che la l.f., agli artt. 127 e 177, assegna a
tutti i crediti il diritto di concorrere all’approvazione del concordato, escludendo
soltanto – secondo un’indicazione talora ritenuta tassativa72 – quelli privilegiati dei
quali la proposta preveda l’integrale pagamento e una serie di titolari di pretese
accomunati da peculiari rapporti con l’impresa in crisi. In particolare, è significativo
rilevare che l’art. 127, comma 1, l.f., trattando del concordato fallimentare e, dunque, di
una vicenda destinata a seguire il fallimento dell’impresa, prevede espressamente che se
la proposta interviene in seguito alla definizione dello stato passivo il voto debba essere
accordato anche ai creditori ammessi provvisoriamente e con riserva: circostanza che
costituisce un ulteriore indizio del fatto che se l’ordinamento espressamente consente la
partecipazione al voto anche di creditori la cui pretesa non si sia consolidata o,
addirittura, non sia ancora venuta a giuridica esistenza, non può contestualmente
impedire quella di chi vanta attualmente e sicuramente un credito verso l’impresa,
ancorché diversamente graduato nella sua soddisfazione in rapporto al resto del ceto
creditorio73.
Tuttavia, muovendo dalla ratio sottesa alla disciplina del voto dei creditori
privilegiati, taluni hanno inteso argomentare l’esclusione dal computo dei quorum dei
subordinati ritenendo che ai secondi debba applicarsi, sia pure in termini analogici, il
regolamento normativo dettato per i primi, ai quali sarebbe preclusa la partecipazione al
voto sulla premessa che le relative pretese trovino integrale soddisfazione e che,
pertanto, i titolari di tali crediti non abbiano alcun interesse a esprimersi su una proposta
che non è in grado di incidervi significativamente: per la medesima ragione, ancorché in
termini esattamente rovesciati, i titolari di crediti postergati non potrebbero votare sulla
proposta di concordato poiché non sarebbe loro consentita alcuna partecipazione al
dividendo concordatario74. E ciò in ossequio al principio secondo il quale il diritto di
Ed è quanto affermano L. STANGHELLINI, L’approvazione dei creditori cit., p. 1065; ID., sub art. 124 cit., p.
1977; G. PRESTI, sub art. 2467, p. 121; nonché F. GUERRERA, Le soluzioni concordatarie cit., p. 167; M. MAUGERI,
Sul regime cit., p. 823; S. LOCORATOLO, Postergazione cit., p. 153 ss.; G. RACUGNO, Concordato preventivo, accordi di
ristrutturazione e transazione fiscale. I. Profili di diritto sostanziale, in Tratt. dir. fall., diretto da V. Buonocore e A.
Bassi, I, Padova, 2010, p. 470 ss., spec. p. 528, in nota 241; in giurisprudenza, cfr. Trib. Milano, 18 maggio
2006, in www.judicium.it, e Trib. Bologna, 17 ottobre 2006, riferito da D. GALLETTI, La formazione di classi nel
concordato preventivo: ipotesi applicative, in www.ilcaso.it. Contra, pur nella qualificazione in termini creditorî, G.
TERRANOVA, sub art. 2467 c.c. cit., p. 1487 ss., intravedendo nella disciplina della postergazione una finalità
tendenzialmente sanzionatoria, nonché A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 299 e p. 378, D.
VATTERMOLI, Subordinazione legale cit., p. 290 ss.; S. AMBROSINI, Il concordato preventivo cit., p. 45; A. AUDINO,
sub art. 160 cit., p. 928; P. LICCARDO, sub art. 177, in A. NIGRO, M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La
legge fallimentare cit., p. 2191 ss., p. 2195, limitatamente alle ipotesi di postergazione ex lege.
72 Cfr. R. SACCHI, Il principio di maggioranza nel concordato e nell’amministrazione controllata, Milano, 1984, p. 266; D.
VATTERMOLI, Subordinazione legale cit., p. 290 s.; contra A. BONSIGNORI, Del concordato preventivo, in Legge
fallimentare, a cura di F. Bricola, F. Galgano, G. Santini, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, p.
364 s.), anche se la giurisprudenza e la dottrina non mancano, come si dirà, di ritenere escluse dal voto alcune
peculiari categorie creditorie.
73 Cfr. S. LOCORATOLO, Postergazione cit., p. 161 s.
74 Cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 298 ss. e p. 378 s., nonché D. VATTERMOLI,
Subordinazione legale cit., p. 292, secondo il quale, in particolare, «in questa ipotesi i subordinati dovrebbero
essere considerati indifferenti alla proposta presentata dal debitore, in quanto il valore concorsuale del loro
credito si è ridotto a zero» (sul valore concorsuale, cfr. ivi, p. 283, a nota 5); anzi, osserva, l’A., «in tale
circostanza, condizionare l’approvazione o meno del concordato al voto espresso dai subordinati (ossia, si
ripete, da soggetti privi di interesse) sembra rappresentare un fattore di inefficienza per la procedura che è
71
20
partecipare all’approvazione della proposta sarebbe riconosciuto soltanto a quei
creditori cui tale soluzione non sia indifferente, quantitativamente e cronologicamente,
rispetto a qualsiasi altra75.
Si deve però dubitare dell’omogeneità, dal punto di vista dei creditori
subordinati, delle soluzioni concordataria e fallimentare. Infatti, se è lecito ipotizzare
che, per la cronica inefficienza della procedura fallimentare, la soluzione concordataria
risulti tendenzialmente più fruttuosa per costoro, ciò nondimeno all’approvazione e alla
successiva omologazione di un concordato nel quale, in ipotesi, nulla si preveda (o nulla
possa prevedersi) a favore dei crediti subordinati, si accompagna l’effetto esdebitativo
che rende definitivamente inesigibili i crediti concorsuali oggetto di falcidia.
In secondo luogo, poi, è evidente che l’opzione concordataria potrebbe
precludere la liquidazione (fallimentare o meno) del patrimonio dell’impresa, e dunque
la possibilità di asseverarne la capienza ai fini della soddisfazione dei crediti
subordinati, come pure di attingere a quegli strumenti, quali le azioni revocatorie,
restitutorie e risarcitorie funzionali a una ricostituzione di tale patrimonio della quale
potrebbero beneficiare anche i crediti postergati, sì che l’adesione a tale proposta
sembra incidere le pretese e gli interessi dei relativi titolari76.
Al contrario, è proprio il fatto che i creditori privilegiati partecipino
all’approvazione del concordato ora votando per la parte di credito non coperta dalla
garanzia, ora addirittura soltanto per quella destinata a rimanere definitivamente
insoddisfatta, a indurre a concludere per la concessione del diritto di voto anche ai
creditori subordinati. Come per i creditori privilegiati, per i quali la partecipazione
all’approvazione della proposta è consentita nel caso in cui la loro soddisfazione sia
potenzialmente deteriore di quella cui avrebbero diritto in caso di liquidazione
opportuno eliminare». L’esclusione dal voto dei subordinati o, comunque, l’attribuzione al medesimo di un
valore non determinante ai fini dell’approvazione della proposta, rappresenterebbe peraltro una scelta
comune a diversi Paesi dell’Unione europea (fra i quali, Germania, Spagna e Portogallo) e al sistema
nordamericano: cfr. ivi p. 290 ss. ove ampia bibl. straniera.
75 E infatti, coerentemente alla prospettiva segnalata, quella dottrina, se per un verso ammette a votare i
creditori privilegiati qualora, pur prevedendo la proposta la loro integrale soddisfazione, tuttavia ne differisca
oltre i termini originari l’adempimento, per altro verso esclude che possano partecipare all’approvazione della
proposta quei creditori chirografari che, in caso di concordato con suddivisione in classi, siano in ipotesi
destinatari di un pagamento integrale delle relative pretese: in questo senso A. NIGRO e D. VATTERMOLI,
Diritto della crisi cit., p. 299; L. STANGELLINI, sub art. 124 l. fall. cit., p. 1980 s., limitatamente però al caso dei
privilegiati soddisfatti oltre le scadenze originarie, nonché ID., L’approvazione dei creditori cit., p. 1061 s.; contra E.
SABATELLI, Profili genetici del “nuovo” concordato fallimentare, in La nuova giur. civ. comm., 2007, p. 229. Sul
riconoscimento del diritto di voto a talune categorie di creditori si legga L. STANGHELLINI, Le crisi cit., p. 226,
secondo il quale la disciplina, al proposito, è retta da un principio di correlazione «fra potere di decidere e
rischio», nel senso che è «corretto che solo chi subisce le conseguenze di una determinata decisione possa
esprimersi su di essa, perché solo così diviene fondata la presunzione che il suo voto rispecchi la volontà
comune, presunzione che […] sta alla base della compressione dei diritti di coloro che ne dissentono». Così
pure D. VATTERMOLI, Subordinazione legale cit., p. 296, secondo cui «l’idea che è alla base della
“marginalizzazione” dei creditori subordinati nel concorso aperto nei confronti del debitore è, in ultima
analisi, assai semplice: il “governo” della procedura concordataria deve essere assicurato a coloro che
concretamente subiscono gli effetti, positivi o negativi dell’andamento della stessa».
76 Cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 299 s., nonché D. VATTERMOLI, Subordinazione
legale cit., p. 297, il quale osserva che «in termini assoluti, infatti, non è vero (o non è detto che lo sia) che in
tale ipotesi i subordinati siano indifferenti alla soluzione concordataria rispetto a quella offerta dalla
liquidazione e successiva ripartizione endofallimentare del patrimonio del debitore». Tuttavia, l’A., sul
presupposto che non sia (tendenzialmente) lecito riconoscere alcunché ai postergati, segnala che il
riconoscimento a costoro del diritto di voto, che sarebbe senz’altro esercitato in termini negativi,
equivarrebbe ad assegnar loro il potere di frustrare la possibilità di giungere ad una soluzione concordataria
della crisi «in ipotesi vantaggiosa per la restante massa dei creditori».
21
fallimentare, così per i creditori subordinati il computo nel quorum è logicamente, oltre
che giuridicamente, imposto a motivo della possibilità che il concordato definitivamente
pregiudichi i loro diritti verso l’impresa in crisi77.
Deve però aggiungersi che il diritto di voto dei subordinati, a fronte
dell’ambiguità del testo normativo, è stato talora negato adducendo il conflitto
d’interessi che colpirebbe i titolari di tali poste in confronto con il resto del ceto
creditorio: infatti, mentre i secondi sarebbero portatori d’interessi concorsuali, i primi
esprimerebbero interessi potenzialmente extraconcorsuali, in ragione del rilievo che non
potrebbero ricevere alcunché nell’ambito della proposta concordataria, risultando
peraltro definitivamente penalizzati per gli effetti tipicamente esdebitativi associati
all’omologazione e all’esecuzione del concordato; dunque, invece che contribuire
all’approvazione della proposta, i relativi titolari sarebbero indotti a ostacolarne l’esito,
assecondando così l’auspicio che l’impresa, una volta tornata in bonis, possa essere
finalmente in grado di soddisfare le loro pretese78.
Tuttavia, la selezione dei crediti da ammettere al voto sulla base degli interessi
che sarebbero loro tipicamente propri, oltre che necessariamente comuni, non sembra
autorizzata dal tenore delle disposizioni prima richiamate, le quali, al contrario,
ammettono in generale tutti i crediti a parteciparvi, salve le previsioni eccezionali
contestualmente disciplinate79.
In secondo luogo, più radicalmente, sembra opinabile la stessa premessa del
ragionamento, consistente nella tendenziale ricorrenza e omogeneità di tali interessi in
capo alle diverse tipologie creditorie e nell’assunto che i postergati abbiamo sempre
interesse a impedire l’approvazione del concordato. Al contrario, è possibile che costoro
agevolino la soluzione concordataria, sia nella prospettiva di poter mantenere (pur in
termini quantitativamente o tipologicamente diversi) la partecipazione al ristrutturato
finanziamento dell’impresa, sia in quella di evitare la soluzione fallimentare che
potrebbe assumere tratti pregiudizievoli per i titolari di tali crediti (e si pensi,
esemplificando, al caso in cui si tratti di soci-amministratori che abbiano ragione di
temere le conseguenze di natura risarcitoria o penale eventualmente associate
all’apertura del fallimento)80.
Più in generale, poi, va segnalato come la possibilità che taluni titolari di
crediti assumano atteggiamenti ostruzionistici riguardo alla soluzione concordataria,
come pure quella che particolari rapporti correnti fra l’impresa in crisi e i titolari del
Cfr. S. LOCORATOLO, Postergazione cit., p. 166 ss.
Cfr. D. VATTERMOLI, Subordinazione legale cit., p. 297, secondo il quale il punto della questione si ridurrebbe
ad un interrogativo che andrebbe risolto in senso negativo: «in ambito concordatario, può essere riconosciuto
ad un singolo creditore un diritto (nella specie, quello di voto) sorretto da un interesse individuale ed
extraconcorsuale – potenzialmente contrario con quello, propriamente concorsuale, di cui è portatrice la
restante massa dei creditori –, dato dalla possibilità, teorica, di soddisfacimento sul patrimonio del debitore
tornato in bonis?». Le ragioni della risposta negativa riposerebbero, secondo l’A., «nel volume di rischio
incorporato dal credito (assolutamente) postergato: rischio che, riducendo ex ante il valore concorsuale – nei
termini prima specificati – del credito, giustifica, come si diceva, la “marginalizzazione” di chi ne è titolare
nelle scelte strategiche che concernono la governance della procedura».
79 Ma per l’esclusione dal voto in caso di conflitto di interessi (o, in alternativa, l’inserimento in una classe
separata) si veda, da ultimo, G. D’ATTORRE, Il conflitto d’interessi fra creditori nei concordati, in Giur. comm., 2010, I,
p. 392 ss.; nonché, in generale, sul tema del conflitto di interessi fra creditori, R. SACCHI, Concordato preventivo,
conflitto di interessi fra creditori e sindacato dell’autorità giudiziaria, in Fall., 2009, p. 30 ss.; M. FABIANI, Brevi riflessioni
cit., p. 437 ss.
80 Cfr. Trib. Monza 5 agosto 2010 cit., p. 14, ove si dà atto che un socio aveva acquistato numerosi crediti per
favorire, attraverso il relativo voto sulla proposta, l’approvazione del concordato.
77
78
22
credito vantato inquinino la valutazione sulla proposta o, comunque, ne condizionino
l’approvazione, sia ben presente al legislatore. Tuttavia, la disciplina fallimentare non
sembra presumere che tali conflitti d’interesse originino dalla tipologia o dalla
graduazione del credito vantato, potendo invece discendere da fattori diversi quali, ad
esempio, le cause della crisi che investono l’impresa, la composizione del relativo
patrimonio, l’incidenza sul passivo dei crediti privilegiati, la possibilità di esperire
azioni revocatorie e, dal punto di vista dei creditori, l’eventualità di subirle; o, ancora, i
rischi connessi all’apertura o alla prosecuzione della procedura fallimentare, le concrete
possibilità di cedere sul mercato l’azienda, etc.81.
Dinanzi a tali e tante variabili non è scontato che i creditori subordinati vantino
necessariamente interessi extraconcorsuali, mentre il resto del ceto creditorio sia
accomunato da interessi concorsuali omogenei, come è riprova, fra l’altro, nella ratio
che ispira la possibilità di suddividere i creditori in classi, sulla base di posizione
giuridica e interessi economici omogenei, e offrire a ciascuna un trattamento
differenziato.
Pertanto, la soluzione di eventuali conflitti d’interesse e comportamenti
ostruzionistici è rimessa dal legislatore, per un verso, all’individuazione di particolari
rapporti d’interesse sussistenti fra l’impresa e il titolare della pretesa, a prescindere dai
caratteri che quest’ultima assuma82, e, per altro verso, all’eventuale decisione del
tribunale in sede di omologazione del concordato, nell’ambito della quale, come è noto,
il giudice può essere chiamato a valutare se il creditore opponente (appartenente ad una
classe dissenziente) che ha espresso voto negativo sulla proposta “possa risultare
soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative
concretamente praticabili” (c.d. cram down, e cfr. gli artt. 129, comma 5, e 180, comma
4, l.f.), o comunque a decidere eventuali ulteriori opposizioni che, secondo
un’accreditata prospettiva, potrebbero avviare un sindacato sulla legalità sostanziale
delle modalità con le quali, in concreto, è stato esercitato il potere attribuito alla
maggioranza83 e, dunque, di fatto, disinnescare i problemi sollevati dalla dottrina
contraria a riconoscere ai postergati il diritto di voto.
Cfr., al riguardo, le esemplificazioni offerte da F. GUERRERA, Le soluzioni concordatarie cit., p. 166 s., nonché
le considerazioni di G. PRESTI, sub art. 2467 cit., p. 121, e di M. MAUGERI, Sul regime cit., p. 823 ss.
82 L’art. 127, comma 5, l.f. prescrive, infatti, l’esclusione dal voto e dal computo delle maggioranze per il
coniuge del debitore, nonché per i suoi parenti e affini fino al quarto grado e per coloro che sono diventati
cessionari o aggiudicatari dei crediti di dette persone da meno di un anno prima della dichiarazione di
fallimento; e tale disciplina, a mente del successivo comma 6 si applica anche ai crediti delle società
controllanti o controllate o sottoposte a comune controllo. Inoltre, a norma del comma 7, i trasferimenti di
crediti avvenuti dopo la dichiarazione di fallimento non attribuiscono il diritto di voto, salvo che siano
effettuati a favore di banche o altri intermediari finanziari. Il disposto dell’art. 127, comma 5, è
sostanzialmente replicato, per il concordato preventivo, nell’art. 177, comma 3, l. fall. (salvo precisare che, ai
fini della particolare disciplina del trasferimento dei crediti, il termine annuale decorre dall’anno precedente
alla proposta di concordato, e che in caso di concordato preventivo non trova applicazione la disciplina che
esclude il voto delle società appartenenti al gruppo).
83 Cfr. F. GUERRERA, Le soluzioni concordatarie cit., p. 166 s., il quale rileva che, per questa via, «si dovrebbero
neutralizzare i conflitti di interesse e gli abusi di taluni creditori, che possono annidarsi nelle soluzioni concordate
delle crisi d’impresa, a prescindere dalle ipotesi di formale esclusione di costoro dalla votazioni», segnalando
come il problema sia avvertito, principalmente, «per i creditori cc.dd. forti, assistiti generalmente da garanzie
collaterali (fideiussioni dei soci, pegno di titoli, etc.); ma anche per quanti vantano, ad es. come imprenditori,
un interesse ad espandersi nel settore di riferimento o per gli stessi soci titolari di crediti che, sebbene
postergati (art. 2467 c.c.), non dovrebbero per ciò stesso ritenersi totalmente e pregiudizialmente esclusi dal
“concorso” con gli altri crediti in sede concordataria»; in una prospettiva analoga cfr. M. FABIANI, Brevi
riflessioni su omogeneità degli interessi cit., p. 443 ss.; L. STANGHELLINI, Le crisi di impresa cit., p. 223. E potrebbe
81
23
11. Come la descritta disciplina dei finanziamenti dei soci recata all’art. 2467 c.c.
reagisca sul risalente dibattito in tema di versamenti in conto capitale è questione non
ancora sufficientemente approfondita. Per un verso, infatti, è tutt’altro che pacifico che
essa trovi applicazione per i finanziamenti dei soci nelle società azionarie, sia pure al
ricorrere di peculiari caratteristiche della partecipazione sociale, come talora, anche in
giurisprudenza, si propone84. Per altro verso, essa non sembra in alcun modo incidere il
tema dei versamenti in conto capitale, così come la dottrina e la giurisprudenza hanno
inteso classificarli, isolando almeno quattro fattispecie di apporti in forme diverse dal
conferimento85; vale a dire, innanzitutto: (i) i versamenti a copertura di perdite,
effettuati al fine di escludere, operando sulla fattispecie (e non sulla relativa
disciplina)86, il determinarsi di perdite di capitale; (ii) i versamenti a fondo perduto, che
si distinguono dai primi in quanto, pur escludendo anch’essi ab origine l’obbligazione
restitutoria, nondimeno prescindono da perdite di capitale e vanno tendenzialmente ad
accrescere il patrimonio della società; (iii) i versamenti in conto aumento di capitale e,
infine, (iv) i versamenti in conto di futuro aumento di capitale, che si caratterizzano per
il rilievo che i soci condizionano risolutivamente l’apporto alla formale deliberazione di
un aumento di capitale che nel caso sub (iv) si assume già adottata.
Con riguardo ai versamenti iscritti sub (i) e (ii), si osserva sovente che tali
apporti accrescano il valore del patrimonio netto: si tratta, in realtà, di un effetto solo
indiretto, derivante dell’aumento del valore dell’attivo che, in assenza di perdite, genera
un aumento dei valori complessivamente soggetti alla disciplina del patrimonio netto,
senza che ciò, ovviamente, implichi alcuna variazione del capitale sociale (il quale, del
resto, non è una realtà materialistica, bensì costituisce peculiare disciplina di una
porzione del patrimonio della società87); tali apporti – significativamente denominati
come versamenti a fondo perduto – si caratterizzano, infatti, per l’assenza dell’obbligo
di rimborso dei valori erogati, che rimangono definitivamente acquisiti al patrimonio
sociale. Tale rilievo, se da un lato recede alla radice i problemi del trattamento
concorsuale di tali apporti, dall’altro contribuisce comunque a qualificarne la natura in
termini di finanziamento, poiché l’originaria e definitiva rinuncia al rimborso dei
relativi valori vale a negare che questi versamenti esprimano, ancorché in forma atipica,
una funzione di investimento (cui sarebbe, invece, connaturale una prospettiva, sia pure
solo potenziale, di generazione di nuova ricchezza e partecipazione alla sua
ripartizione)88; il che induce a rappresentare la vicenda, sul piano contabile, come un
aumento dell’attivo dello stato patrimoniale, senza che vi sia una contestuale
apposizione di voci nel passivo del bilancio.
trattarsi di un sindacato idoneo a sopperire la mancanza nel nostro ordinamento, a differenza di quello
nordamericano, di una clausola generale che imponga che il piano sia fair and equitable: L. STANGHELLINI,
Creditori «forti» e governo della crisi d’impresa nelle nuove procedure concorsuali, in Fall., 2006, p. 386. Per l’applicazione
del principio si veda, ancorché in termini non sufficientemente chiari, Trib. Monza 5 agosto 2010 cit., p. 13
ss.
84 Cfr. supra nota 15.
85 Cfr. la classificazione proposta da G. TANTINI, I “versamenti in conto capitale” tra conferimenti e prestiti, Milano,
1990, p. 7 ss., e v. M. MAUGERI, Finanziamenti cit., p. 45 ss.
86 Cfr. App. Genova 30 novembre 2005, in Società, 2007, p. 1487, e Trib. Mantova, 13 agosto 2004, in
www.ilcaso.it.
87 Cfr. G. FERRI jr, voce Patrimonio netto, in Dizionari del diritto privato promossi da N. Irti, Diritto commerciale,
a cura di N. Abriani, Milano, 2011, p. 610 ss., e già ID., Investimento cit., p.
88 G. FERRI jr, Investimento cit., p. 465 ss.
24
È scontato, perciò, che la rilevata assenza del diritto al rimborso del
finanziamento in capo ai soci-sovventori li escluda da qualsivoglia rilievo in sede
concorsuale; allo stesso modo, e per le medesime ragioni, la sicura riconduzione di tali
apporti fra le voci del finanziamento della società impedisce anche che, limitatamente ai
valori così apportati, i sovventori vantino pretese sull’eventuale valore attivo risultante
alla chiusura del fallimento che resta riservato, in via esclusiva, ai soci.
12. Quanto, invece, ai versamenti indicati sub (iii) e (iv) – come pure, più in generale,
ad apporti non riconducibili a una funzione di sovvenzione (senza poter qui
approfondire il copioso dibattito sui criteri attraverso i quali si pervenga a un simile
esito classificatorio89) – l’originaria destinazione a capitale di rischio induce a
intravedervi una funzione di investimento e, più precisamente, di investimento in forma
di società, da cui discende che il guadagno che ci si attende dalla destinazione di valore
all’impresa sociale è espresso non già nell’attesa restituzione del capitale impiegato e
(eventualmente) nella sua periodica remunerazione (sia pure in forme tali per cui una o
entrambe le voci da ultimo indicate siano originariamente soggette al rischio di impresa,
come oggi è senz’altro consentito, ad esempio, nell’ambito della emissione di
obbligazioni e altri titoli di debito: art. 2411 c.c.), bensì, più propriamente, nella
ripartizione del risultato economico dell’intera operazione, corrispondente, nella sua
forma tipica, a una quota (tendenzialmente proporzionale alla propria partecipazione
sociale) del patrimonio netto e alla partecipazione agli utili.
È quindi altrettanto chiaro che, là dove effettivamente la società deliberi
l’aumento di capitale (o concluda il procedimento di iscrizione della deliberazione già
adottata al momento dell’apporto), l’originario versamento (al quale si diceva essere
estranea qualsivoglia finalità di sovvenzione e, in particolare, quella avente le forme del
versamento a fondo perduto, contraddittorio alla predetta finalità di guadagno) venga
imputato a capitale. Il che comporta, anzitutto, che il suo eventuale rimborso segua le
regole della distribuzione del patrimonio netto e, conseguentemente, che tale
imputazione al capitale sociale impedisca che possa porsi una qualche pretesa del socio
in sede fallimentare.
Ben più problematico si presenta, invece, il caso in cui la crisi dell’impresa
sopraggiunga senza che i valori apportati dai soci siano stati formalmente imputati a
capitale sociale. Sul piano sostanziale, del resto, non si manca di osservare che la scelta
di finanziare l’impresa sociale mediante un apporto atipico risulti preferita, giacché
mantiene impregiudicata la possibilità, per i soci, di trasformare il relativo valore in
capitale sociale, qualora la società versi in condizioni favorevoli, al fine di godere della
più elevata remunerazione garantita dall’investimento; ovvero di invocarne la
restituzione in forma di rimborso del finanziamento per il caso in cui, al contrario, la
società versi in condizioni negative, tali quantomeno da incidere sul valore del
patrimonio netto, così condividendo con i creditori sociali il concorso sul patrimonio
della società90. In risposta a tali preoccupazioni, la dottrina e la giurisprudenza offrono
al problema soluzioni accomunate, al fondo, dall’intento di posporre le pretese dei soci
a quelle degli altri creditori sociali.
Cfr. G. FERRI jr, Investimento cit., p. 497 ss., spec. p. 501 ss., nonché M. MAUGERI, Finanziamenti anomali cit.,
p. 142 ss.
90 Cfr. supra note 3 e 4, nonché, da ultimo, D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 148, nel testo e a nota 188.
89
25
In particolare, la giurisprudenza, come si è cennato, assecondando – secondo i
consueti canoni dell’ermeneutica contrattuale – l’intento dei soci91, è decisamente
orientata a individuare nei versamenti in discorso schemi contrattuali non ascrivibili a
finalità di sovvenzione, bensì operazioni, ancorché atipiche ma non per questo vietate,
sussumibili entro la categoria del capitale di rischio; conseguentemente, la relativa
restituzione, nel caso di mancata deliberazione dell’aumento di capitale, diverrebbe
attuale soltanto all’esito dello scioglimento della società e dopo la definizione dei
rapporti con i creditori sociali92. E si tratta di una conclusione che ha significativi
risvolti operativi, poiché la circostanza che il valore dei versamenti non imputati a
capitale divenga esigibile in sede di liquidazione o all’esito della procedura concorsuale
importa che ogni rimborso anticipato sia in tesi suscettibile di revocatoria ai sensi
dell’art. 65 l.f., quando non addirittura di soggezione alla disciplina della ripetizione
dell’indebito (oggettivo: art. 2033 c.c.) là dove si ritenga inesistente il credito prima
della definizione dei rapporti con i terzi.
In dottrina, il dibattito assume contorni più sfumati, tendenzialmente negandosi
che il rimborso di tali apporti debba necessariamente essere rinviato tout court in sede
di liquidazione (ordinaria o concorsuale) della società – in termini, di fatto, addirittura
più stringenti che per i valori soggetti alla disciplina del capitale sociale – potendo, anzi,
essere anticipato fin da quando gli obiettivi per il cui raggiungimento il versamento è
stato compiuto non siano raggiunti o non siano più raggiungibili93, e quindi anche in un
momento estraneo a vicende liquidatorie. In una prospettiva, va aggiunto, nella quale
tali versamenti non sono sospensivamente condizionati all’effettiva deliberazione, ma
sono condizionati risolutivamente alla mancata adozione dell’aumento94, se del caso
asseverata con l’adozione di una deliberazione negativa95 o comunque derivante da
accadimenti oggettivi, fra le quali può essere incluso il fallimento della società.
Tale diversa impostazione, come chiaro, incide sull’individuazione della
disciplina e sulla rappresentazione contabile di questi versamenti. In particolare, il
definitivo mancato aumento del capitale comporta, in capo alla società, il sorgere
dell’obbligo di restituzione dei valori a coloro che li hanno originariamente versati, e
tale conclusione – in sé ovvia – pone, però, una delicata serie di problemi per quel che
riguarda l’iscrizione in bilancio dei valori concernenti i versamenti in conto futuro
aumento di capitale, e costituisce uno degli ostacoli più significativi ad appostare tali
somme al patrimonio netto sotto forma di riserve – sia pure, come si anticipava,
“personalizzate” – per la ragione, dirimente, che i valori che sono soggetti a quella
Ma v. Cass. 14 dicembre 1998, n. 12539, in Not., 1999, 538, ove si segnala che, in assenza di elementi
probatori destinati a chiarire l’effettiva volontà delle parti, “la chiave di lettura della qualificazione non può
che essere ricercata nella terminologia adottata dal bilancio: questo è soggetto all’approvazione dei soci e le
qualificazioni che i versamenti hanno ricevuto nel bilancio diventano determinanti per stabilire se si tratta di
finanziamento o di conferimento” e ciò in quanto i soci non possono sfuggire all’efficacia interna del bilancio
e la “relativa deliberazione di approvazione ha efficacia nei confronti dei soggetti legati dal rapporto sociale”.
Nel medesimo senso, più recentemente, cfr. Cass. 13 agosto 2008, n. 21563, in Mass. giur. it. 2008; App. Roma
28 maggio 2009; App. Milano 30 aprile 2007, in Giur. it., 2007, 2449.
92 E nella giurisprudenza di legittimità si vedano, oltre alla citata sentenza n. 6315/1980, fra le più recenti,
Cass. 13 agosto 2008, n. 21563, in Mass. giur. it., 2008; Cass. 30 marzo 2007, n. 7980, in Società, 2007, 846;
Cass. 31 marzo 2006, n. 7692, in Impresa, 2006, 1039.
93 Cfr. G. FERRI, Le società, in Tratt. dir. civ., diretto da F. Vassalli, X, tomo terzo, 1987, p. 451; G. COTTINO, Le
società. Diritto commerciale, IV ed., I, t. 2, Padova, 1999, p. 266.
94 Si vedano, in questo senso, Cass. 6 luglio 2001, n. 9209, in Foro it., 2001, I, 3621; App. Milano, 31 gennaio
2003, in Giur. it., 2003, 1178.
95 Cfr. ancora G. FERRI, Le società cit., p. 451.
91
26
disciplina spettano ai soci, e ad essi soltanto, e non possono essere riservati ad alcuni fra
di essi.
Piuttosto, sembra coerente ai principi ritenere che sino a quando i valori
apportati da(taluni fra)i soci in forma di versamenti in conto aumento di capitale o, più
ampiamente, in termini non ascrivibili a funzioni di sovvenzione, non siano
formalmente imputati a capitale96, essi debbano essere rappresentanti fra i debiti della
società97. Il che comporta che in occasione del fallimento, là dove la società, attraverso i
competenti organi, non deliberi l’aumento del capitale se del caso originariamente
prefigurato, il socio-apportante potrà insinuare il proprio credito al passivo.
Tuttavia, la rilevata causa d’investimento – sia pure realizzato in forma atipica
– che sottende a detti apporti, già nel vigore del sistema previgente alla riforma del 2003
ha indotto alcuni a suggerirne la postergazione del rimborso rispetto agli altri crediti98:
misura che sembra potersi giustificare alla luce dei principi generali e, segnatamente, in
considerazione del fatto che il patrimonio sociale è destinato dapprima alla
soddisfazione dei creditori sociali e, solo all’esito dell’integrale pagamento di costoro,
al rimborso (e all’eventuale remunerazione se eccedente) degli investitori.
Dovrebbe trattarsi, però, per tali ragioni, di una postergazione di secondo
grado, ossia di una subordinazione a tutti i crediti della società, sia chirografari, sia
postergati ex lege o pattiziamente; costituendosi, così, una gerarchia in base alla quale la
destinazione ai soci del patrimonio netto e, prima ancora, la sua determinazione, è
subordinata in principio all’integrale soddisfazione dei creditori in senso stretto, quindi
a quella degli investitori “atipici”, rispetto ai quali cioè l’apparenza del finanziamento
sottende una funzione di investimento dei relativi valori.
13. Al di là della posizione che si assuma in ordine all’estensione alle altre società di
capitali e alle società di persone della disciplina in materia di finanziamenti dei soci di
cui all’art. 2467 c.c. e lasciando da parte le ipotesi di postergazione convenzionale e di
quella sorta di postergazione “individuale”99 di cui agli artt. 61 e ss. l.f., ci si deve
interrogare sul trattamento concorsuale del credito del socio per il pagamento di debiti
sociali; e ci si riferisce, segnatamente, alle pretese creditorie dei soci illimitatamente
responsabili di società in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché dei soci
amministratori della società in accomandita per azioni (ma non diversamente è a dirsi
per il caso di responsabilità dell’unico socio di società di capitali ai sensi degli artt.
2325, comma 2, e 2462, comma 2, c.c., anche se in questa ipotesi non è previsto il suo
fallimento in estensione, come si evince inequivocabilmente dall’art. 147, comma 1, l.f.)
per i pagamenti operati, anche nel contesto delle procedure concorsuali eventualmente
Il che, del resto, è coerente al principio per cui l’imputazione di valori a capitale sociale è riservata ai
conferimenti: cfr. G. FERRI, Le società cit., p. 451; B. LIBONATI, L’informazione societaria e i documenti contabili, in
AA. VV., L’informazione societaria. Atti del convegno internazionale di studi. Venezia, 5-6-7 novembre 1981, Milano,
1982, p. 1019 ss., spec. p. 1022; G. FERRI jr, Investimento cit., p. 510 ss. e p. 516 ss.
97 Cfr. M.S. SPOLIDORO, voce Capitale sociale cit., p. 204.
98 Cfr. G. FERRI jr, Investimento cit., p. 541 ss. Contra, nel silenzio della disciplina positiva, P. FERRO-LUZZI,
«Conto finanziamento soci» e «fondi speciali iscritti in bilancio» ex art. 2442 c.c., in Giur. comm., 1982, II, p. 891 ss.,
nonché G. TANTINI, I “versamenti in conto capitale” tra conferimenti e prestiti, Milano, 1990, p. 119, M. IRRERA, I
«prestiti» dei soci alla società. Ricostruzione del fenomeno e prospettive di qualificazione e disciplina, Padova, 1992, p. 212, e
M.S. SPOLIDORO, voce Capitale sociale cit., p. 202.
99 Cfr. G. GUIZZI, Il passivo cit., p. 291; nonché, più in generale, sul tema dei coobbligati solidali si veda ID.,
Effetti del fallimento sui debiti pecuniari, in Commentario alla legge fallimentare diretto da C. Cavallini, Milano, 2010,
vol. I, p. 1093 ss., spec. p. 1101 ss.; G. STELLA, Creditore di più coobligati solidali, ivi, p. 1173 ss.; D. VATTERMOLI,
Crediti cit., p. 165 ss.
96
27
aperte in seguito al fallimento della società partecipata, in ossequio al loro peculiare
regime di responsabilità patrimoniale.
È ben noto, al riguardo, che il socio che ha soddisfatto un debito della società
ha sì diritto di rivalersi pro quota sugli altri soci illimitatamente responsabili – poiché il
principio di solidarietà vale soltanto verso i terzi – ma, prima ancora, ha diritto di agire
(per l’intero) verso la società100. Il debito soddisfatto, del resto, si appunta ancora in via
principale sul patrimonio della società; quindi, il relativo pagamento da parte del socio,
avendo il solo scopo di rendere più agevole la soddisfazione dei creditori sociali, non
determina la diminuzione del passivo della società (esito che andrebbe
ingiustificatamente a vantaggio anche degli altri soci101) ma, più semplicemente, la
sostituzione del socio che ha pagato nella stessa posizione del creditore soddisfatto, con
evidenti risvolti sulla determinazione del valore reale della partecipazione sociale.
Tale vicenda, come chiaro, può presentarsi sia nella fase attiva della società sia,
più frequentemente, nel corso della liquidazione ordinaria e del procedimento
fallimentare; è nell’ambito della seconda serie d’ipotesi e, segnatamente, nel quadro
della concorso fallimentare, però, che ad essa si associano peculiari profili problematici
concernenti la relativa disciplina: le norme concorsuali, infatti, mantengono distinti il
fallimento dei soci illimitatamente responsabili da quello della relativa società,
consentendo che ciascun creditore sociale possa ottenere il pagamento dell’intero nel
contesto del fallimento di uno o più soci “salvo il regresso fra i fallimenti dei soci per la
parte pagata in più della quota rispettiva” (art. 148, comma 3, ultimo periodo, l.f.).
Secondo una prospettiva, quella norma, nel rinviare espressamente al regresso
fra i “fallimenti dei soci”, implicitamente escluderebbe che il fallimento del socio che è
stato escusso oltre la quota di sua spettanza sulle perdite possa insinuarsi per ottenere
dalla società la restituzione di quanto versato ai creditori, nel senso che l’azione di
regresso sarebbe circoscritta soltanto agli altri fallimenti; si ritiene, infatti, che i rapporti
fra società e socio debbano essere regolati in una fase successiva: segnatamente,
all’esito del fallimento e, dunque, dell’integrale soddisfazione dei creditori sociali102.
Tale orientamento sembra anche rispondere all’esigenza pratica di superare i
numerosi profili problematici che si pongono, in generale, per l’insinuazione al passivo
dei crediti dei coobbligati e ai quali si aggiungono, in particolare, quelli tipici del
credito del socio illimitatamente responsabile che, come noto, e salvo casi peculiari, pur
avendo pagato taluni fra i creditori e vantando, perciò, attualmente, un credito di pari
ammontare per la somma pagata, resta obbligato anche nei riguardi degli altri creditori
sociali, sì che su quel credito di regresso costoro hanno diritto di soddisfare
prioritariamente le proprie pretese. In altre e più semplici parole, oltre ai comuni
problemi di “moltiplicazione fittizia” del passivo che siffatta insinuazione (talora
richiesta dalla giurisprudenza in forma addirittura precedente all’effettivo pagamento
Cfr. F. DI SABATO, Capitale cit., p. 309 ss., e G. FERRI, Delle società. Artt. 2247-2324, in Commentario del cod.
civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, III ed., Bologna-Roma, 1981, p. 221.
101 G. FERRI jr, Investimento cit., p. 140, a nota 45.
102 A. JORIO, Il fallimento delle società, in S. AMBROSINI, G. CAVALLI, A. JORIO, Il fallimento, in Tratt. dir. comm.,
diretto da G. Cottino, XI, tomo II, p. 765 ss., spec. p. 772 s. Il problema sembra, in vero, sfumare là dove si
accolga quell’isolata impostazione che propugna anche in sede fallimentare l’attuazione del beneficium excussionis
nel senso, in particolare, «che la liquidazione dell’attivo dei fallimenti dei soci deve necessariamente seguire la
liquidazione (e la ripartizione) dell’attivo della società»: così A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit.,
p. 331 s. In giurisprudenza cfr. Trib. Caltanissetta, 21 marzo 1961, in Giur. it., 1962, I, 2, c. 460.
100
28
dei debiti sociali e, perciò, nella modalità dell’ammissione con riserva103) solleva, la
circostanza che il socio resti illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali sino
alla completa soddisfazione dei creditori e salvi gli effetti della esdebitazione, sconsiglia
di dare seguito al rimborso di singoli pagamenti effettuati, prima di aver provveduto alla
definizione dei rapporti con i terzi: infatti, tali rimborsi, proprio per effetto della
perdurante responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali, sarebbero giocoforza
destinati a essere oggetto di liquidazione fallimentare ovvero di azione esecutiva,
contribuendo a rendere ancora più articolate le relative procedure.
Là dove si accolga tale orientamento, suggerito dal tenore letterale dell’art.
148, comma 3, l.f. deve però precisarsi che la natura creditoria delle pretese dei soci per
il pagamento di debiti sociali impone di ritenere che il relativo rimborso prima ancora
che precedere, sul piano cronologico, la ripartizione dell’eventuale residuo attivo a
favore dell’intera compagine sociale, in termini ben più radicali contribuisca a
determinarne la sussistenza e l’eventuale ammontare: una diversa soluzione, infatti,
sposterebbe, nei rapporti interni, la responsabilità dal patrimonio sociale a quello del
socio, “inquinando” il risultato finale dell’investimento104.
Al contrario, qualora si preferisca ritenere che il disposto dell’art. 148, comma
3, ultimo periodo, l.f. lasci, in realtà, impregiudicato il problema dell’insinuazione del
socio che ha pagato un debito sociale al passivo del fallimento della società (che rimane,
del resto, obbligata in via principale), sorge il dubbio, per le ragioni dianzi segnalate,
che la relativa ammissione debba essere disposta con clausola di postergazione: e ciò
proprio al fine di evitare che la partecipazione del socio-creditore alle successive
ripartizioni prima che tutti i creditori siano stati soddisfatti integralmente, esponga il
relativo rimborso a una instabilità che, pur non incidendo i saldi delle vicende in esame,
tuttavia contribuisce non poco alla complicazione delle procedure.
Il problema, d’altra parte, è destinato a complicarsi nel caso in cui la procedura
fallimentare si chiuda per l’omologazione di un concordato che, a mente dell’art. 153
l.f., ha effetti esdebitativi che, salvo patto contrario, si estendono anche ai fallimenti dei
soci illimitatamente responsabili; in particolare, escludendo la possibilità per il socio
che ha soddisfatto crediti sociali di insinuarsi al passivo della società, il richiamato
effetto esdebitativo potrebbe avere effetti distorsivi nei rapporti fra soci.
È appena il caso di rilevare, infine, che il problema qui richiamato neppure si
pone per il caso dell’unico azionista o unico socio di s.r.l. illimitatamente responsabile
ai sensi degli artt. 2325, comma 2, e 2462, comma 2, c.c., a motivo del rilievo che in
questo caso il mancato fallimento del socio non comporta l’applicazione dell’art. 148,
comma 3, ultimo periodo, l.f., ma direttamente dell’art. 62 l.f. (se il pagamento è
avvenuto prima del fallimento) ovvero dell’art. 1203 c.c. se successivo all’avvio della
procedura105.
14. Un’ulteriore fattispecie di credito subordinato può presentarsi, infine, nelle società
azionarie che abbiano istituto uno o più patrimoni destinati regolati agli artt. 2447-bis e
ss. c.c.; infatti, contrariamente alle convinzioni più diffuse, un’attenta indagine sulle
disposizioni richiamate induce a ritenere che anche per il caso in cui la deliberazione
Sul tema cfr. G. STELLA, Creditore di più coobbligati solidali, in Commentario alla legge fallimentare diretto da C.
Cavallini, Milano, 2010, vol. I, p. 1173 ss., spec. p. 1192 ss.
104 F. DI SABATO, Capitale cit., p. 342 ss.
105 Sul tema cfr. G. GUIZZI, Effetti del fallimento sui debiti pecuniari, in Commentario alla legge fallimentare diretto da
C. Cavallini, Milano, 2010, vol. I, p. 1093 ss., spec. p. 1101 ss., nonché G. STELLA, Creditore cit., p. 1173 ss.
103
29
istitutiva non preveda, ai sensi dell’art. 2447-quinquies, comma 3, c.c., la responsabilità
sussidiaria del patrimonio residuo della società, nondimeno, qualora il patrimonio
destinato risulti incapiente, i creditori particolari potranno soddisfarsi sul patrimonio
residuo con postergazione rispetto agli altri creditori sociali c.d. generali106.
Un significativo indice normativo, in tal senso, si rintraccia nell’art. 2447septies c.c., concernente il bilancio della società che abbia costituito uno o più patrimoni
destinati, il cui primo comma dispone che i beni e i rapporti inerenti al patrimonio
destinato siano indicati, sia pure distintamente, nello stato patrimoniale della società,
rispettivamente all’attivo e al passivo.
Sebbene il secondo comma dell’articolo richiamato imponga agli
amministratori, per ciascun patrimonio destinato eventualmente istituito, la formazione
di un separato rendiconto, allegato al bilancio e redatto secondo i criteri e le modalità
propri di tale documento contabile – verosimilmente, nella prospettiva di favorire, a
vantaggio dei soci, dei creditori e del mercato in generale, una migliore comprensione
delle prospettive reddituali e delle condizioni di capienza del patrimonio separato di
quanto non sia altrimenti ritraibile dalla sola visione del bilancio della società107,
ancorché nel relativo stato patrimoniale le singole voci debbano trovare distinta
rappresentazione (onde consentirne un’autonoma evidenza) – la previsione dirimente è
quella collocata nel primo comma, a mente della quale nel bilancio della società e,
segnatamente, nello stato patrimoniale, debbono confluire le attività e le passività
afferenti il patrimonio destinato. E ciò, si osservi, a prescindere dal regime di
responsabilità per il quale la società, con la deliberazione di costituzione del patrimonio
destinato, abbia concretamente optato, come si evince dal confronto fra il primo e il
quarto comma dell’articolo in discorso: difatti, mentre la comprensione nello stato
patrimoniale della società dei beni e dei rapporti compresi nel patrimonio destinato è
doverosa in ogni caso, l’impegno e la relativa valutazione della responsabilità illimitata
del patrimonio generale della società per le obbligazioni nascenti dall’attività
concernenti lo specifico affare devono essere indicate in calce allo stato patrimoniale
solo qualora la deliberazione costitutiva del patrimonio destinato preveda una tale
responsabilità.
A rigore, ne discende che anche il passivo dell’affare, indipendentemente dalle
condizioni di capienza o meno della porzione di attivo a esso specificatamente
destinato, concorre alla determinazione del risultato complessivo della gestione
societaria, il quale poi, nel rispetto della disciplina del patrimonio netto, rappresenta ciò
che è riservato ai soci. Vale a dire che in forza della regola dettata dall’art. 2447-septies,
comma 1, c.c., anche se le passività relative al patrimonio destinato non sono suscettibili
di essere saldate integralmente a motivo dell’incapienza di quest’ultimo, il
corrispondente valore, in quanto iscritto al passivo dello stato patrimoniale della società,
concorre alla determinazione del valore del patrimonio netto della società, incidendo
così le somme eventualmente spettanti ai soci.
Questa conclusione sembra a tal punto necessaria che la dottrina prevalente,
muovendo dal diverso assunto secondo cui, optando per la soluzione più radicale, la
società dovrebbe rimanere indenne dagli esiti negativi dell’affare perseguito con il
patrimonio destinato, segnala l’esigenza di un’interpretazione “correttiva” del primo
comma dell’art. 2447-septies c.c., suggerendo che, nel caso in cui l’esposizione
Cfr. G. GUIZZI, Mala gestio dello specifico affare e del patrimonio destinato e responsabilità degli amministratori. Profili
sistematici, in Riv. dir. comm., 2008, I, p. 379 ss., spec. p. 393 ss.
107 Cfr. A. NIUTTA, I patrimoni e finanziamenti destinati, Roma, 2006, p. 137 s.
106
30
debitoria del patrimonio destinato conduca a un esito negativo (ossia il valore della
passività superi quello delle attività) quest’ultimo debba essere eliso mediante apposite
poste correttive iscritte fittiziamente all’attivo108, talora giustificate con il rilievo che
sarebbe proprio l’art. 2447-septies c.c., là dove, nel comma 3, impone l’evidenziazione
del regime di responsabilità per le singole poste del passivo, a richiedere implicitamente
l’evidenziazione di poste fittizie funzionali alla correzione dell’esito.
15. Si tratta, però, di una soluzione non convincente; e, dunque, dinanzi agli obiettivi
ostacoli cui l’orientamento prevalente va incontro, sembra preferibile individuare
nell’art. 2447-quinquies, comma 3, c.c., non tanto una norma destinata a disciplinare il
conflitto di interessi dei soci e dei creditori generali, da un lato, e dei creditori del
patrimonio destinato, dall’altro, nel senso cioè che, salvo le precisazioni più volte
richiamate, il patrimonio della società, detratto il valore delle poste che concorrono a
formare il patrimonio destinato all’esclusivo perseguimento di uno specifico affare,
sarebbe destinato dapprima alla soddisfazione dei creditori sociali e quindi, nel caso di
residui, ai soci, con l’effetto di escludere ogni partecipazione dei creditori particolari,
benché non integralmente soddisfatti con i valori ritraibili dal patrimonio destinato109.
Piuttosto, si è proposto di leggervi una norma rivolta (prima a istituire, quindi)
a disciplinare il conflitto di interessi fra distinte classi di creditori sociali, nella
neutralità delle pretese dei soci. Ciò perché, in assenza di una diversa disposizione della
deliberazione di costituzione del patrimonio destinato, i creditori particolari non
possono concorrere pariteticamente, ancorché sussidiariamente, con i creditori generali
sul patrimonio residuo della società, dovendo quest’ultimo essere riservato alla
prioritaria integrale soddisfazione della seconda classe di creditori. Una volta che i
creditori sociali generali siano stati, però, integralmente soddisfatti, quella norma non
varrebbe a risolvere a favore dei soci l’ulteriore e distinto conflitto sulla destinazione
del valore residuo, escludendo così qualsivoglia soddisfazione, anche postergata, dei
creditori particolari: un tale esito, infatti, incontra proprio nell’art. 2447-septies, comma
1, c.c. un ostacolo difficilmente superabile.
Insomma, secondo l’opinione110 più aderente al dettato normativo, l’art. 2447quinquies comma 3, c.c. non vale a escludere il debito della società nei confronti dei
creditori sociali, ma a operare sul distinto piano della responsabilità111 non tanto
negandola, quanto modulandola e, in particolare, subordinando le pretese dei creditori
sociali particolari a quelle dei creditori sociali generali.
Del pari, l’art. 156, commi 1 e 2, l.f., a mente del quale i creditori particolari
del patrimonio destinato partecipano alla ripartizione dei valori rivenienti dalla
Cfr., fra gli altri, G. RACUGNO, La rappresentazione contabile dello specifico affare, in Giur. comm., 2007, I, p. 619
ss., spec. p. 633, e G. STRAMPELLI, Profili contabili dei patrimoni destinati, in Riv. soc., 2011, p. 585 ss., spec. p. 622
s., ove ultt. riff. In questo senso cfr. anche l’Organismo italiano per la contabilità (Oic), nel principio contabile
2, emesso nel mese di ottobre 2005 (disponibile on-line sul sito internet del predetto Organismo
www.fondazioneoic.it).
109 In questo senso la dottrina prevalente: cfr., ex multis, F. D’ALESSANDRO, Patrimoni destinati e vincoli comunitari,
in Società, 2004, p. 1061 ss.; M. LAMANDINI, Patrimoni «destinati» e tutela dei creditori, negli Scritti in onore di
Vincenzo Buonocore, Milano, 2005, III, 2, p. 2813 ss., spec. p. 2817 s.; G. GIANNELLI, sub art. 2447-quinquies, in
Società di capitali. Commentario a cura di G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, II, Napoli, 2004, p. 1240 ss., spec.
p. 1242; A. NIUTTA, I patrimoni cit., 91 s.
110 Cfr. ancora G. GUIZZI, Mala gestio cit., p. 393 ss.
111 Cfr. R. NICOLÒ, Della responsabilità patrimoniale, del concorso dei creditori e delle cause di prelazione, già in Comm. cod.
civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1945, e ora in ID., Raccolta di scritti, tomo III, Milano, 1993, p.
499 ss.
108
31
liquidazione del patrimonio destinato incapiente e possono insinuarsi al passivo in caso
di responsabilità illimitata della società, non determina, per gli altri casi, l’esclusione dei
creditori particolari dalla partecipazione al dividendo fallimentare ma, più
limitatamente, ne impedisce la partecipazione al concorso sino a quando non siano
compiute le operazioni di liquidazione del patrimonio destinato e, comunque, non prima
dell’integrale soddisfazione dei creditori sociali generali112.
La regola di soluzione del conflitto fra diverse classi di creditori sociali vale,
tuttavia, in termini bidirezionali, nel senso che dall’art. 2447-quinquies, comma 3, c.c.
discende l’insensibilità del patrimonio destinato alle pretese dei creditori generali della
società sino a quando tale destinazione permanga, e dunque non siano ancora soddisfatti
i creditori sociali particolari; in altre parole, il concorso dei creditori sociali generali
della società sarà, per un verso, ritardato al momento in cui il patrimonio torni a pieno
titolo nel contesto della garanzia patrimoniale generale della società e, per altro verso,
limitato a solo quanto effettivamente residui dopo che si sia provveduto all’integrale
rimborso di tutti i creditori particolari.
L’interpretazione proposta risulta coerente con la disciplina generale della
liquidazione della società per azioni e, segnatamente, con gli artt. 2491, comma 2, e
2495, comma 2, c.c. In entrambi i casi, infatti, la legge mostra di ritenere prevalenti
rispetto agli interessi dei soci e, in particolare, alle loro aspettative sul residuo
eventualmente riveniente dalla liquidazione, le pretese dei creditori sociali che, per un
verso, vincolano l’operatività dei liquidatori, dei quali limitano i poteri nelle ripartizioni
ai soci di acconti sulla quota di liquidazione e, per altro verso, consentono ai creditori,
una volta che la liquidazione si sia chiusa, di poter agire nei confronti dei soci per
vedere soddisfatto il proprio credito, ovviamente nei limiti di quanto ricevuto da costoro
in sede di riparto. Le norme citate si riferiscono senza dubbio a tutte le società per
azioni e, dunque, anche a quelle che eventualmente abbiano costituito uno o più
patrimoni destinati, e mostrano di non distinguere fra classi di creditori sociali, i quali
sono, indifferentemente, tanto quelli che vantano pretese privilegiate sul patrimonio
sociale, quanto quelli che vantano pretese privilegiate sul patrimonio destinato.
In altre parole, il legislatore, nel disciplinare la peculiare figura dei patrimoni
destinati, non ha inteso sovvertire la caratteristica tipica dell’operazione societaria:
l’essere, cioè, una disciplina organizzativa del finanziamento e dell’organizzazione di
un’attività d’impresa che si appunta su un unico e autonomo centro di riferimento di
situazioni giuridiche soggettive e i cui risultati economici sono destinati in termini
residuali ai soci. Infatti, proprio la perdurante unitarietà della società anche quando essa
abbia deciso la costituzione di uno o più patrimoni destinati non vale a modificare il
rapporto sussistente, in ordine alla destinazione dell’attivo patrimoniale, fra soci e
creditori sociali.
16. Ma v’è di più: questa soluzione consente di risolvere numerosi profili problematici
che la dottrina, all’indomani della novella del 2003 e della riforma del diritto
fallimentare, aveva segnalato in merito ai patrimoni destinati, a cominciare dal rilievo
che, paradossalmente, sottraendo la fattispecie in discorso alle norme sul capitale
sociale e, più in generale, a quelle che presiedono alla destinazione del patrimonio netto,
alla società fosse consentito, di fatto, di esercitare lo specifico affare in regime di
limitazione della responsabilità, con la possibilità di accumulare perdite su perdite, dal
In vero, proprio sul disposto dell’art. 156, comma 2, l.f. fa leva l’opinione, contraria a quanto sostenuto nel
testo, di D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 88 s., a nota 3.
112
32
momento che se il patrimonio destinato scende a zero o diviene negativo non è
prescritto che cessi il perseguimento dello specifico affare113.
Infatti, assecondando la prospettiva proposta, trovano piena e completa
applicazione le norme sul capitale e sul patrimonio netto, da cui discende che la società
vede significativamente limitata la possibilità di accumulare perdite, incidendo il saldo
negativo del patrimonio destinato sul valore del patrimonio netto.
In secondo luogo, sembrano ulteriormente depotenziati i dubbi, tuttora
persistenti, in ordine alla fallibilità del patrimonio destinato. Quella eventualità, come è
noto, è apparentemente esclusa dalla disciplina positiva, la quale dispone che in caso di
incapienza del patrimonio destinato si applichino le norme della liquidazione delle
società di capitali in quanto compatibili (art. 156, comma 1, l.f. e 2447-novies, comma
2, c.c.). E in dottrina, a sostegno di questa tesi, si è osservato che risulterebbe incongruo
il fallimento di un soggetto che, nonostante il frazionamento patrimoniale operato con la
costituzione del patrimonio destinato, rimane unitario: ciò perché la segregazione di
componenti del patrimonio e la specializzazione della responsabilità non significano, di
per sé, frazionamento del centro di imputazione114.
Non sempre, però, da tali premesse si deducono le naturali conseguenze: in
particolare, il rilievo che la responsabilità patrimoniale continui ad appuntarsi
integralmente sul patrimonio della società, sia pure diversamente graduata, induce a
escludere il fallimento della società, quando non addirittura del patrimonio destinato, a
motivo dell’incapienza di quest’ultimo, in ragione del fatto che il giudizio
sull’insolvenza ha ad oggetto l’impresa complessivamente considerata e non un sua
particolare articolazione organizzativa, per quanto rilevante ai fini dello specifico
atteggiarsi della responsabilità patrimoniale.
E, d’altra parte, questa soluzione normativa risulta adeguata alla circostanza
che l’incapienza del patrimonio destinato, di per sé, non implica ancora l’insolvenza
della società; né, per altri versi, la capienza del patrimonio destinato esclude che
l’impresa sociale sia ormai decotta.
In ogni caso, però, l’esito della prospettiva indicata impone di ritenere che il
creditore del patrimonio destinato, a prescindere del contenuto della deliberazione
costitutiva del patrimonio medesimo (e, segnatamente, del fatto che essa preveda la
responsabilità residuale del patrimonio della società), potrà ricorrere per la
dichiarazione di insolvenza della società e, se del caso, proporre insinuazione del
relativo credito al passivo del fallimento; e ciò anche nel caso in cui il patrimonio
destinato risulti tuttora capiente: infatti, l’insolvenza della società, risolvendosi in una
disfunzione dell’organizzazione, potrebbe avere risvolti negativi anche sulla gestione
del patrimonio destinato.
17. Le annotazioni relative alla peculiare disciplina in tema di destinazione del
patrimonio sociale a creditori e soci consentono di accennare al risalente dibattito in
tema di compensazione del debito da conferimento del socio con i crediti vantati nei
riguardi della società115 che, sia nel contesto della liquidazione, sia in quello delle
procedure concorsuali suscita vivaci perplessità poiché attraverso tale istituto il sociocreditore ottiene, almeno parzialmente, e cioè nei limiti della predetta estinzione, di
Cfr., per questi rilievi critici, F. D’ALESSANDRO, Patrimoni destinati cit., p. 1061 ss.
Cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 342 s.
115 Sul problema, stante la vasta bibliografia, si vedano, oltre agli autori indicati nelle note seguenti, G. FERRI
jr, Investimento cit., p. 273 ss., e, più di recente, F. MARTORANO, Compensazione cit., passim.
113
114
33
sovvertire il principio secondo il quale la propria aspettativa sul rimborso del
conferimento sia non solo eventuale ma soprattutto residuale rispetto all’integrale
pagamento dei creditori. A partire da questo rilievo, la dottrina si è interrogata se sia
consentito ritenere il debito del socio per i decimi non ancora versati soggetto
all’operatività dell’art. 56 l.f.
In realtà, come non si manca di notare116, il tema sembra poter ricevere
soluzioni distinte a seconda che la società sia ancora in fase attiva e si trovi in bonis,
ovvero che sia pendente la liquidazione o che sia stata avviata la procedura
fallimentare117. Del resto, nella “vita attiva” dell’impresa sociale il ricorso all’istituto
della compensazione potrebbe addirittura assumere tratti vantaggiosi per la società e per
i suoi creditori (si pensi, esemplificando, alle ipotesi di aumento di capitale attraverso
compensazione di debiti preesistenti, nel contesto delle quali, pur rimanendo invariato il
saldo patrimoniale, si determina la diminuzione del passivo reale per la degradazione
dei valori compensati a componenti del patrimonio netto; o, ancora, alla possibilità per
la società di eccepire la compensazione verso il socio moroso, in un momento nel quale
la precarietà delle condizioni economiche e patrimoniali di quest’ultimo potrebbe
rendere incerto l’esito dell’esecuzione sui suoi beni)118.
D’altra parte, nonostante i numerosi tentativi intrapresi, la dottrina non è stata
sinora in grado di attingere dalla disciplina della compensazione e, segnatamente, dalle
eccezioni alla sua operatività contemplate nell’art. 1246 c.c., un generale divieto al
ricorso a tale istituto nei rapporti fra soci e società; in un contesto – va aggiunto – nel
quale la giurisprudenza e, in particolare, quella di legittimità, è decisamente orientata ad
ammettere la compensazione del debito di conferimento119.
Tuttavia, l’approccio analitico al problema sembra consentire di giungere a una
diversa soluzione, almeno per i casi in cui la società sia in stato di liquidazione o sia
soggetta alla procedura fallimentare120.
Nelle vicende appena evocate, infatti, l’operatività della compensazione fra il
debito di conferimento e i crediti vantati dal socio verso la società potrebbe ritenersi
vietata a mente dell’art. 1246, n. 5, c.c., come sembra doversi ricavare dai principi
iscritti negli artt. 2280 e 2491 c.c. e nell’art. 150 l.f., in ragione del diverso significato
funzionale che l’esecuzione del conferimento assolve nelle diverse fasi in cui si
puntualizza la vicenda societaria e che si esprime in statuti normativi fra loro
significativamente distinti.
Alla funzione d’investimento che il conferimento assume nel corso della “vita
attiva” della società nell’ambito della liquidazione o in sede concorsuale si assiste
all’emersione di una funzione del conferimento quale strumento di indiretta
soddisfazione dei creditori sociali. Tant’è vero che l’esigibilità del debito di
N. SALANITRO, Azioni; obbligazioni; bilancio; modificazioni dell’atto costitutivo, in Rassegna di diritto societario (1962),
Riv. soc., 1964, p. 147 ss., spec. p. 160 s.; C. ANGELICI, Appunti sull’art. 2346 c.c., con particolare riguardo al
conferimento mediante compensazione, in Giur. comm., 1988, I, p. 175 ss., spec. p. 185; F. DI SABATO, Sulla estinzione
per compensazione del debito di conferimento, in Contr. e impr., 1995, p. 651 ss., spec. p. 656 ss.
117 Ma per l’esclusione tout court della compensazione fra crediti e debito da conferimento cfr. G. FERRI,
Manuale di diritto commerciale, XIII ed. a cura di C. Angelici e G.B. Ferri, Torino, 2010, p. 337, sulla base del
rilievo che le due posizioni non competono al socio nella stessa qualità: il credito, infatti, gli spetta in quanto
terzo, il debito, invece, gli grava uti socius; in termini simili v. P. FERRO-LUZZI, I contratti associativi, Milano,
2001 (rist. 1973), p. 317 s., a nota 31.
118 Cfr. C. ANGELICI, Appunti cit., p. 185.
119 Cfr., da ultimo, Cass. 19 marzo 2009, n. 6711; ma, in senso diametralmente opposto, cfr. Cass. 10
dicembre 1992, n. 13095, richiamata da C.F. GIAMPAOLINO, Profili cit., p. 75 a nota 60.
120 Nel medesimo senso già N. SALANITRO, Azioni cit., p. 160 s.
116
34
conferimento da parte della società – pur sancita dalle previsioni richiamate – deve
ritenersi condizionata (senz’altro nella liquidazione, ma verosimilmente anche in sede
fallimentare121) all’insufficienza del patrimonio sociale al pagamento dei creditori
sociali. Infatti, sia l’art. 2280, sia l’art. 2491 c.c. subordinano la possibilità dei
liquidatori di chiedere proporzionalmente ai soci i versamenti ancora dovuti alla
circostanza che “i fondi disponibili risultano insufficienti per il pagamento dei debiti
sociali”. E nella stessa prospettiva l’art. 150 l.f. consente al giudice delegato, su
proposta del curatore, di ingiungere ai soci a responsabilità limitata e ai precedenti
titolari della quote o delle azioni “di eseguire i versamenti ancora dovuti, quantunque
non sia scaduto il termine per il pagamento”: norma che, per quanto non lo specifichi
espressamente, muove dal presupposto dell’insufficienza del patrimonio a soddisfare
integralmente il passivo sociale o, meglio, dalla mancanza di mezzi idonei a pagare i
creditori sociali (in un’accezione che allora potrebbe non necessariamente evocare
l’incapienza del patrimonio in quanto tale)122.
L’esigibilità del debito di conferimento risponde, nelle due fasi predette, a una
funzione radicalmente diversa da quella imposta al conferimento nella vita attiva della
società. Si tratta, infatti, nella liquidazione ordinaria, di definire l’originaria operazione
d’investimento: finalità cui è presupposto indispensabile la regolazione dei rapporti con
i terzi; ovvero, di procedere all’esecuzione concorsuale sul patrimonio della società
insolvente al fine di soddisfare le ragioni dei creditori sociali. In entrambi i casi, il
conferimento è espressamente destinato dalla legge alla soddisfazione di (tutti) i
creditori sociali. Il che spiega l’irrilevanza, sicuramente nella procedura fallimentare
(ma forse anche nell’ambito della disciplina della liquidazione ordinaria, sia pure non
sia prevista una disciplina consimile a quella dell’art. 150 l.f. 123), dell’eventuale termine
non ancora scaduto per effettuare il versamento.
Al riguardo, taluno ha ritenuto inconferente al problema che ci occupa il
richiamo alla previsione dell’art. 150 l.f., sostenendo che il potere ivi sancito a favore
del curatore di agire per il versamento dei decimi trovi il proprio limite nell’eccezione
Contra A. NIGRO, La società per azioni cit., p. 349 ss., sulla base del rilievo formale secondo il quale l’art. 150
l. f. non riproduce il previgente inciso dell’art. 852 cod. comm., a mente del quale il curatore avrebbe potuto
chiedere ulteriori versamenti solo allorché essi fossero risultati necessari per soddisfare il passivo della società,
e del rilievo sostanziale per cui tale decreto ingiuntivo può essere richiesto in qualsiasi momento e dunque
anche prima che si abbia la formazione del passivo, dimostrandosi la sostanziale diversità delle due fasi, quella
fallimentare e quella di liquidazione ordinaria, soltanto nella seconda della quali si persegue una finalità
liquidativa. In vero, quanto al primo argomento, si può rilevare che nel contesto della procedura fallimentare
l’assenza di fondi disponibili per il pagamento dei creditori può ragionevolmente presumersi a motivo del
dissesto conclamato, sì che la riproduzione dell’inciso avrebbe potuto costituire un freno alla procedura,
ulteriormente pregiudicando gli interessi dei creditori, che qui prevale rispetto a quello dei soci alla
massimizzazione del risultato della liquidazione (e in senso non dissimile v. G.F. CAMPOBASSO, Fallimento della
società per azioni ed esecuzione dei conferimenti in denaro, in Riv. dir. civ., 1976, I, p. 511 ss., spec. p. 539 ss.). Sul
secondo, invece, deve rilevarsi che se, in effetti, la procedura fallimentare potrebbe non determinare lo
scioglimento della società, d’altra parte costituisce una fase in cui, almeno tendenzialmente, si definisce l’esito
dell’originaria operazione d’investimento.
122 Senza che questo implichi, nel caso di liquidazione concorsuale, che i soci possano eccepire la esistenza di
fondi disponibili sufficienti per il pagamento dei creditori sociali, in ragione della prevalenza dell’esigenza di
un rapido soddisfacimento dei creditori rispetto all’opposto interesse dei soci come gruppo a che le
operazioni di liquidazione siano condotte secondo criteri di redditività (se necessario anche dilazionandole nel
tempo), cioè secondo criteri che consentano di rendere ottimale il risultato economico finale dell’attività di
impresa: così G.F. CAMPOBASSO, Fallimento cit., p. 537 s., e, di recente, C.F. GIAMPAOLINO, Profili cit., p. 74.
123 Contra G. FERRI jr, Investimento e conferimento cit., p. 243, a nota 41.
121
35
di compensazione124. Tale impostazione, tuttavia, non sembra valorizzare a sufficienza i
dati normativi e sistematici a disposizione, sottolineando soltanto i termini meramente
formali e procedimentali della vicenda.
In realtà, il legislatore, consentendo l’avvio del procedimento monitorio verso i
soci anche se non è ancora scaduto il termine per il pagamento, segnala la prevalenza
della procedura sulla scansione temporale che lo statuto può avere previsto per il
versamento dei decimi; questo profilo, peraltro, non esaurisce la peculiarità del
procedimento speciale in discorso rispetto all’ordinaria escussione dei crediti della
società. La l.f., infatti, mostra di considerare con particolare rilievo l’interesse della
società a ottenere i versamenti ancora dovuti atteso che il procedimento delineato
nell’art. 150 l.f. deroga, a favore del fallimento, alla procedura monitoria ordinaria (nel
cui solco, per gli altri profili, invece, si inserisce: e cfr. l’art. 150, comma 2, l.f.,
introdotto con la recente riforma) assegnando la competenza all’emissione del decreto al
giudice delegato e semplificando l’onere della prova a carico della procedura, al fine di
intensificare le possibilità di ottenere agevolmente dai soci i valori necessari a
soddisfare le pretese dei creditori125.
Ciò nondimeno, l’art. 150 l.f., specie nella prospettiva tradizionale, potrebbe
destare qualche perplessità in ragione del fatto che, di per sé, il fallimento della società
dovrebbe risultare neutro per i soci a responsabilità limitata e per le loro obbligazioni
verso la società medesima, in coerenza al principio secondo il quale la sentenza
dichiarativa di fallimento importa la scadenza dei debiti del solo fallito (art. 55, comma
2, l.f.), non anche di quelli dei suoi debitori in bonis, quali a rigore, sviluppando la
tradizionale tesi soggettivistica, dovrebbero essere ritenuti i soci. In effetti, in dottrina si
spiega con difficoltà questa previsione, individuandovi, talora, l’esigenza di imprimere
un’accelerazione alla procedura fallimentare126 e, talaltra, l’espressione della costante
prevalenza dell’interesse della società127; ancora, si è proposto di ritenere l’art. 150 l.f.
ispirato al principio per cui i termini convenuti fra i soci per l’esecuzione dei
conferimenti avrebbero valore solo nel rapporto fra costoro e la società, non potendo
essere opposti ai creditori sociali128.
In realtà, sembrano preferibili quegli orientamenti che hanno segnalato le
affinità analogiche sussistenti fra il predetto art. 150 e l’art. 55, comma 2, l.f., a mente
del quale i debiti del fallito si intendono scaduti alla data del fallimento. Ciò perché,
come rilevava già la dottrina più risalente, sia pure con diversità di accenti, il fallimento
finisce per colpire indirettamente anche il debito degli azionisti129, nonostante che sul
piano formale a fallire sia l’ente sociale e non i soci: la società, del resto, altro non è che
la collettività dei soci e, dunque, è l’opportunità legislativa a scegliere i limiti entro i
Cfr. M.S. SPOLIDORO, I conferimenti in denaro, in Tratt. soc. per az. a cura di G.E. Colombo e G.B. Portale,
1**, Torino, 2004, p. 247 ss., spec. p. 427; F. MARTORANO, Compensazione cit., p. 541; A.R. ADIUTORI, sub art.
150, in A. NIGRO, M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La legge fallimentare cit., II, 1971 ss., spec. p. 1975 s.
125 Ci si riferisce, in particolare, da un lato, al fatto che l’art. 150 l. fall. attribuisce al giudice delegato, in deroga
all’art. 637 c.p.c., la competenza all’emissione di un decreto ingiuntivo, peraltro senza che occorra la prova
scritta, differentemente da quanto previsto in generale dall’art. 633, comma 1, c.p.c.; dall’altro lato, che
appunto di decreto ingiuntivo si tratta, come adesso precisa l’art. 150, comma 2, l. fall. (introdotto con la
riforma del 2006, ai sensi del quale contro il provvedimento del giudice delegato «può essere proposta
opposizione ai sensi dell’art. 645» c.p.c.: cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto delle crisi cit., p. 333, ma già
A. NIGRO, La società per azioni cit., p. 347).
126 S. SATTA, Diritto fallimentare cit., p. 434.
127 A. NIGRO, La società per azioni cit., p. 209.
128 G. AULETTA, Esecuzione dei conferimenti sociali e compensazione, in Dir. e giur., 1945, p. 118 s.
129 Cfr. E. SIMONETTO, Prestazione del socio e compensazione, in Riv. dir. comm., 1955, I, p. 237 ss., spec. p. 242 ss.
124
36
quali estendere ai soci gli effetti del fallimento. In altre parole, l’art. 150 l.f. non è che
un’ulteriore dimostrazione di come l’ordinamento giuridico mostri di intendere la
personalità giuridica o, più ampiamente, la distinta soggettività e l’autonomia dell’ente
societario (il che vale, allora, anche per le società personali); nel senso, cioè, che
l’autonomia e la distinta soggettività cui più volte si è fatto riferimento costituiscono per
il sistema uno strumento funzionale a determinati fini e dunque capace di estendersi e
ridursi in ragione dei diversi interessi che emergono130.
Da questo punto di vista, solo formalmente il socio può essere ritenuto debitore
verso la società, mentre nella sostanza lo è nei confronti della collettività dei creditori
sociali. Ma la prospettiva, in realtà, tende a essere sfalsata, nella misura in cui il socio è
allo stesso tempo creditore della società (al pari di tutti gli altri creditori sociali) e
debitore non (più) della società ma della massa dei creditori, evocando una vicenda
nella quale la dottrina e la giurisprudenza escludono unanimemente l’operatività della
compensazione131.
Sembra condivisibile, allora, vedere nella destinazione normativa del valore del
conferimento alla soddisfazione di tutti i creditori sociali (imposta nel fallimento
dall’art. 150 l.f. e in sede di liquidazione dagli artt. 2280 e 2491 c.c.) un principio che
risulterebbe violato dalla compensazione ex art. 56 l.f.132. E la violazione, in particolare,
consisterebbe in ciò: che consentendo al socio di dedurre in compensazione di un
proprio credito verso la società il debito di conferimento si realizzerebbe l’effetto di
sottrarre il valore di quest’ultimo alla sua funzione normativa133: esso infatti si
rivelerebbe funzionale non già al pagamento di tutti i debiti sociali, bensì all’estinzione,
ancorché parziale, di quello verso il socio134.
18. Nelle società azionarie è tipica la raccolta dei mezzi finanziari necessari per
l’esercizio dell’impresa in forma di capitale proprio (i.e.: conferimenti e, secondo
alcune prospettive, altri versamenti in conto capitale) e di capitale altrui
(sovvenzioni)135; con riguardo a quest’ultimo, le risorse affluiscono sia mediante distinti
e autonomi negozi di finanziamento – comunque denominati e qualsivoglia struttura
assumano – sia per il tramite di operazioni unitarie di finanziamento all’esito delle quali
è offerta la sottoscrizione di titoli di debito (obbligazioni e altri strumenti finanziari) che
rappresentano frazioni identiche di operazioni collettive, con significativi riflessi anche
di natura organizzativa sulla relativa disciplina136.
Sulla strumentalità della società cfr. M. MAUGERI, Partecipazione sociale e attività d’impresa, Milano, 2010, p. 99,
nonché, si licet, M. ROSSI, Responsabilità e organizzazione dell’esercizio dell’impresa di gruppo, in Riv. dir. comm., 2007, I,
p. 613 ss., spec. p. 643 s.
131 Cfr., ex multis, S. SATTA, Diritto fallimentare cit., p. 185 s., ove ult. riff.; G. GUIZZI, Il passivo cit., p. 285; A.
NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 148.
132 Contra A. NIGRO, La società per azioni cit., p. 351.
133 Contra F. MARTORANO, Compensazione cit., p. 548.
134 Cfr. G. FERRI jr, Investimento cit., p. 287.
135 Cfr. G. FERRI jr, Investimento cit., p. 497 ss.
136 Sul tema la produzione scientifica è pressoché sconfinata; pertanto ci si limita a segnalare, oltre alle opere
generali ove è possibile attingere ulteriori indicazioni bibliografiche, quegli studi che più specificatamente
riguardano la disciplina delle obbligazioni nel contesto della crisi dell’impresa; pertanto, si vedano, in generale,
D. PETTITI, I titoli obbligazionari delle società per azioni, Milano, 1964; G. FERRI, Le società cit., p. 522 ss.; G.F.
CAMPOBASSO, Le obbligazioni, in Tratt. soc. per az., diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, V, Torino, 1988, p.
379 ss.; B. LIBONATI, Titoli di credito e strumenti finanziari, Milano, 1999, passim; R. CAVALLO BORGIA, Della
società per azioni. Tomo IV. Delle obbligazioni, in Commentario Scialoja-Branca a cura di F. Galgano, Bologna-Roma,
2005, passim; G. FERRI jr, Fattispecie societaria e strumenti finanziari, in Riv. dir. comm., 2003, I, p. 805 ss., G.L.
BRANCADORO, sub artt. 2410 ss., in Società di capitali. Commentario a cura di G. Niccolini e A. Stagno
130
37
Non è questa la sede per affrontare approfonditamente il tema; basti
rammentare che l’emissione di obbligazioni e, più in generale, di titoli di debito, rileva
non soltanto sotto il profilo patrimoniale e finanziario – dando luogo, tendenzialmente,
al sorgere di un’obbligazione debitoria della società verso i possessori dei titoli in parola
concernente i valori erogati e la relativa remunerazione –, ma anche sotto quello
organizzativo: infatti, sul piano tipologico, è elemento caratterizzante della vicenda la
formazione di un gruppo organizzato che raccoglie i possessori delle obbligazioni e che
è titolare di specifiche competenze destinate funzionalmente alla tutela collettiva degli
obbligazionisti137.
In vero, è tuttora aperto in dottrina e nella giurisprudenza il dibattito intorno al
contenuto e ai limiti delle competenze funzionali che la legge assegna all’assemblea
degli obbligazionisti e al loro rappresentante comune, nonché, specularmente, ai
margini riservati all’iniziativa del singolo obbligazionista; e tali questioni si pongono
anche nel contesto della crisi dell’impresa, rispetto al quale ci si interroga, in
particolare, sulle peculiarità della partecipazione degli obbligazionisti alle procedure
concorsuali, di cui è dato rintracciare un referente normativo espresso negli artt. 2415,
comma 1, n. 3, e 2418, comma 2, c.c., nonché negli artt. 58, 93, comma 9, 125, comma
4, e 171, commi 4 e 5, l.f.
La persistente presenza di margini d’incertezza è il frutto di una vicenda che, a
fronte dell’unitaria operazione di emissione obbligazionaria e del principio di
organizzazione degli obbligazionisti, non genera né riguardo ai rapporti fra titolari delle
obbligazioni, né riguardo a quelli fra costoro e la società, la completa unificazione del
gruppo, come segnala l’art. 2419 c.c., in forza del quale le competenze assegnate
all’assemblea degli obbligazionisti e al rappresentante comune “non precludono le
azioni individuali degli obbligazionisti, salvo che queste siano incompatibili con le
deliberazioni dell’assemblea previste dall’art. 2415”: tale disposizione, del resto, se
rivela la prevalenza delle decisioni adottate dall’assemblea degli obbligazionisti nelle
materie di sua spettanza rispetto alla contraria iniziativa di ciascun titolare di
obbligazioni – nonché, evidentemente, degli atti esecutivi delle stesse posti in essere dal
rappresentante comune, ai sensi dell’art. 2418, comma 1, c.c. – nel contempo conferma
la sussistenza di un significativo margine di autonomia per l’iniziativa del singolo
obbligazionista.
19. La dottrina si è interrogata a fondo sul novero delle competenze dell’assemblea
degli obbligazionisti e del rappresentante comune, la cui individuazione risulta
fondamentale nell’applicazione della disciplina in commento; si consideri, infatti, che
d’Alcontres, II, Napoli, 2004, p. 928 ss.; A. GIANNELLI, sub artt. 2410 ss., in Obbligazioni. Bilancio, a cura di M.
Notari e L.A. Bianchi, nel Commentario alla riforma delle società diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi,
M. Notari, Milano, 2006, p. 5 ss., e L. AUTUORI, sub artt. 2415 ss., ivi, p. 203 ss.; L. PISANI, Le obbligazioni, in
AA. VV., Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B.
Portale, 1, Torino, 2006, p. 763 ss., nonché, quanto alla disciplina del codice di commercio, per tutti, le ampie
pagine di G. BONELLI, Del fallimento, III ed., Milano, 1939, v. III; in particolare, sui temi della crisi della
società, R. SACCHI, Gli obbligazionisti nel concordato della società, Milano, 1981, passim; F. DI GIROLAMO, Le
obbligazioni e gli altri titoli di debito nel fallimento dell’emittente, con uno sguardo alla riforma del diritto societario, in Giur.
comm., 2008, I, p. 1109 ss.; F. GUERRERA, Struttura finanziaria, classi dei creditori e ordine delle prelazioni nei concordati
delle società, in Dir. fall., 2010, I, p. 707 ss.; L. PISANI, Prestito obbligazionario e crisi dell’impresa, in AA. VV., La
struttura finanziaria e i bilanci delle società di capitali. Studi in onore di Giovanni E. Colombo, Torino, 2011, p. 89 ss.,
nonché ID., I titoli obbligazionari tra riforma del diritto societario e riforma del diritto concorsuale, Torino, 2010.
137 Cfr. G. FERRI, Le società cit., p. 523 ss.
38
ritenere – come in giurisprudenza si è proposto138 – che i poteri di rappresentanza
processuale che l’art. 2418 c.c. assegna al rappresentante comune incontrino un limite
insuperabile nei diritti soggettivi medio tempore maturati in capo ai singoli
obbligazionisti, potrebbe far propendere – quantomeno nel contesto delle procedure
concorsuali e, segnatamente, in quella fallimentare – per la sostanziale dissoluzione
dell’organizzazione di gruppo, in considerazione del rilievo che alla data della sentenza
dichiarativa di fallimento, a norma dell’art. 55 l.f., si consolida il diritto di credito
discendente dai titoli obbligazionari.
Si tratta, però, di una prospettiva che non solo è rimasta pressoché isolata, ma
che risulta contraddetta dalla disciplina positiva che, per un verso, assegna
all’assemblea degli obbligazionisti la competenza generale a deliberare sulle
modificazioni delle condizioni del prestito – espressione nella quale si rintraccia sovente
un potere generale di rimodulazione non soltanto delle condizioni accessorie del prestito
obbligazionario, ma anche di quelle sostanziali, nel novero delle quali si enumerano la
misura degli interessi, i termini del rimborso, la relativa entità, le garanzie, etc.139 –
nonché quella, specifica, a deliberare sulla proposta di concordato (art. 2415, comma 1,
n. 2 e 3, c.c.)140; e, per altro verso, nel regolare i profili funzionali del rappresentante
comune, gli conferisce il potere di rappresentanza processuale degli obbligazionisti
anche “nel concordato preventivo, nel fallimento, nella liquidazione coatta
amministrativa e nell’amministrazione straordinaria della società debitrice” (art. 2418,
comma 2, c.c.), e lo annovera espressamente fra i legittimati alla promozione della
domanda di ammissione al passivo “anche per singoli gruppi di creditori” (art. 93,
comma 9, l.f.).
Alla luce di queste disposizioni sembra preferibile ritenere che, anche nelle fasi
che accompagnano la crisi dell’impresa, la tutela dell’interesse comune degli
obbligazionisti resti affidata ai competenti organi del gruppo organizzato141, in concorso
con le iniziative che ciascun singolo obbligazionista intenda promuovere a norma
dell’art. 2419 c.c.
20. Tuttavia, sembra necessario in questa sede concentrarsi sulle singole questioni che
incrociano la crisi dell’impresa, a cominciare dal problema della legittimazione alla
dichiarazione di fallimento che l’art. 6 l.f. riserva, fra gli altri, ad uno o più creditori, nel
novero dei quali non è dubbio siano compresi anche gli obbligazionisti.
In proposito, è ragionevole ritenere che ciascun obbligazionista, proprio in
quanto titolare di pretese creditorie che si appuntano sul patrimonio della società, sia
legittimato a proporre autonomamente istanza di fallimento; la vicenda si presenta, però,
problematica quando l’opportunità della promozione di essa sia oggetto di una
deliberazione dell’assemblea degli obbligazionisti, nell’ambito della generale
competenza a conoscere degli “altri oggetti d’interesse comune degli obbligazionisti”
(art. 2415, comma 1, n. 5, c.c.). Nel caso in cui l’assemblea deliberi la promozione
dell’istanza, l’eventuale ricorso del singolo obbligazionista, per quanto improbabile,
Trib. Milano, 2 marzo 1970, in Foro it., 1970, I, 1810.
Cfr. G. FERRI, Le società cit., p. 533 s., R. CAVALLO BORGIA, Delle obbligazioni cit., p. 148 ss., ove ultt. riff.
bibll.; in termini parazialmente distinti cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 496 s., il quale infatti
esclude che l’assemblea possa pronunciarsi sui dati tipizzanti della fattispecie, vale a dire il suo essere mutuo
fruttifero frazionato in titoli di credito.
140 Cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 499 s.
141 Cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 516; A. NIGRO, Le società per azioni cit., p. 362.
138
139
39
non sembra potersi escludere stante il tenore dell’art. 2419 c.c., diversamente, invece,
da quanto sarebbe a dirsi nell’ipotesi in cui l’assemblea rigetti la proposta di
deliberazione (melius: adotti una deliberazione negativa avente tale contenuto); anche
nel secondo caso, però, sembra ragionevole riconoscere la legittimazione ex art. 6 l.f. a
ciascun titolare di obbligazioni, e ciò non tanto perché la mancata adozione della
deliberazione non costituisca essa stessa decisione incompatibile ex art. 2419 c.c.,
quanto perché il peculiare contenuto che essa assume, fondato com’è sulla situazione
presente al momento della deliberazione medesima, non sembra impedire una
successiva diversa valutazione dei fatti, di per sé suscettibile di riespandere la
legittimazione del singolo.
Tutti problemi che, in vero, neppure ha senso porre nel caso in cui l’istanza di
fallimento sia proposta dal rappresentante comune di propria iniziativa, attingendo al
generale dovere di “tutelare gli interessi comuni” degli obbligazionisti nei confronti
della società (art. 2418 c.c.): non è dubbio, infatti, che anche tale soggetto, per quanto
non appartenga ad alcuna delle categorie menzionate nell’art. 6 l.f., tuttavia, in virtù
della rappresentanza dell’organizzazione degli obbligazionisti (e, dunque, di creditori
della società), sia ex lege legittimato all’esercizio del potere assegnato ai creditori nel
menzionato art. 6 l.f.; nondimeno, la sua iniziativa, a mente dell’art. 2419 c.c., non
sembra idonea a paralizzare quella (successiva e) contraria di ciascun obbligazionista.
21. Si pone, in secondo luogo, il problema dell’insinuazione al passivo dei crediti degli
obbligazionisti, secondo il valore determinato ai sensi dell’art. 58 l.f. (sul quale infra §
23). Nel vigore del sistema previgente, nonostante che in un caso142 la giurisprudenza
avesse negato la legittimazione del rappresentante comune a insinuare al passivo il
valore delle obbligazioni ancora in circolazione anche per l’ipotesi in cui agisse in
esecuzione di un’acconcia deliberazione dell’assemblea degli obbligazionisti – e ferma
restando la possibilità di domande individuali di ammissione al passivo, senz’altro
ammissibili stante il chiaro disposto dell’art. 2419 c.c. – l’opinione prevalente era di
segno contrario143, corroborata dall’art. 2418, comma 2, c.c., a mente del quale il
rappresentante comune “per la tutela degli interessi comuni ha la rappresentanza
processuale degli obbligazionisti anche nell’amministrazione controllata, nel concordato
preventivo, nel fallimento e nella liquidazione coatta amministrativa della società
debitrice”.
I provvedimenti di riforma del diritto delle società di capitali intervenuti nel
decennio appena trascorso hanno lasciato sostanzialmente inalterate le disposizioni
richiamate, alle quali, però, si è aggiunto, da ultimo, il succitato art. 93, comma 9, l.f.
che nel testo novellato ad opera del d.lgs. n. 5/2006 consente che la domanda di
ammissione al passivo sia proposta “dal rappresentante comune degli obbligazionisti ai
sensi dell’art. 2418, secondo comma, del codice civile, anche per singoli gruppi di
creditori”. Proprio la nuova disciplina fallimentare convince della persistente
legittimazione del rappresentante comune a insinuare al passivo il valore complessivo
del credito obbligazionario scaduto per effetto dell’apertura della procedura
Cfr. Trib. Milano, 2 marzo 1970, cit.
Cfr. R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 63 ss.; G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 516. In
giurisprudenza cfr. Trib. Parma, 16 dicembre 2004 (decr.), nell’ambito del procedimento avviato in occasione
della crisi di Parmalat s.p.a., ined. ma citato in M. BENINCASA, sub art. 58, in Commentario alla legge fallimentare
diretto da C. Cavallini, I, Milano, 2010, p. 1162, in nota 13.
142
143
40
fallimentare144: infatti, la legittimazione del rappresentante comune ivi sancita, che
sembra poter prescindere anche da un’apposita deliberazione dell’assemblea degli
obbligazionisti, pare assegnare a tale figura il potere-dovere di insinuare al passivo del
fallimento il complessivo valore delle obbligazioni determinato ai sensi dell’art. 58 l.f.
Sono necessarie, però, alcune precisazioni. In primo luogo, il tenore letterale
dell’art. 93, comma 9, l.f., prescrivendo che il rappresentante comune può – e non deve
– proporre la domanda di insinuazione al passivo, potrebbe indurre a ritenere che
l’insinuazione non rappresenti un dovere ma, più semplicemente, una peculiare
legittimazione processuale straordinaria rimessa alla discrezionalità del rappresentante
comune ovvero sollecitata dalla richiesta di uno o più obbligazionisti, come
confermerebbe l’inciso “anche per singoli gruppi di creditori”. Tuttavia, i dubbi
d’ordine testuale indotti dalla norma richiamata, alla luce delle considerazioni
precedenti, possono essere sgombrati rilevando che la peculiarità dell’art. 93, comma 9,
l.f. riposi non tanto nel prevedere la legittimazione del rappresentante comune, in vero
desumibile già a mente dell’art. 2418, comma 2, c.c., bensì, all’opposto, nell’introdurre
una deroga a tale ultima disposizione, nel senso che il ricorso che il rappresentante degli
obbligazionisti deve promuovere a tutela dell’interesse comune di costoro può essere
circoscritto ad alcuni soltanto fra i titolari delle obbligazioni e, segnatamente, a
beneficio di quanti non vi abbiano ancora provveduto autonomamente (come deve
ritenersi senz’altro consentito ex art. 2419 c.c.), ovvero non vi abbiano rinunciato145.
Sul piano operativo, deve rilevarsi che la circostanza che l’insinuazione al
passivo sia proposta del rappresentante comune – tendenzialmente per l’intero valore
delle obbligazioni ancora in circolazione – impone di ritenere che l’indicazione
nominativa dei titolari del credito (ossia, degli attuali possessori delle obbligazioni in
circolazione) richiesta nel contesto dell’atto di ricorso dall’art. 93, comma 2, n. 1, l.f.,
possa essere validamente adempiuta con l’indicazione della serie e del numero di
ciascun titolo, senza distinguere le obbligazioni al portatore da quelle nominative (si
noti, del resto, che nella disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi
imprese insolventi si prevede espressamente, in materia di concordato, che “nel caso di
ammissione di strumenti finanziari che non consentano l’individuazione nominativa dei
soggetti legittimati, saranno ammessi nell’elenco i crediti relativi all’importo
complessivo di ogni singola categoria di strumenti finanziari”: art. 4-bis, comma 6,
primo periodo, d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, conv. con modificazioni dalla legge 18
febbraio 2004, n. 39).
22. Come si è anticipato, il perdurante significato organizzativo concernente l’emissione
di obbligazioni è confermato anche dalla disciplina dell’approvazione dei concordati
Deve, peraltro, ritenersi confermato l’indirizzo della dottrina (cfr. R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 63, e
G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 516) secondo il quale non v’è necessità che l’iniziativa del
rappresentante comune sia preceduta da una deliberazione dell’assemblea degli obbligazionisti, trattandosi di
un potere direttamente riconosciuto dalla legge al primo, strumentale alla tutela degli interessi comuni della
categoria: cfr. A. NARDONE, sub art. 93, in A. NIGRO, M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La legge
fallimentare cit., II, p. 1194 ss., spec. p. 1200 s.
145 Contra F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1137 ss., secondo il quale la novellata formula dell’art. 93,
comma 8, l.f., nel senso che “al rappresentante comune degli obbligazionisti compete il diritto-dovere di agire
non solo nell’interesse di tutti i creditori, ma anche di singoli (o per singoli) gruppi di essi e, va aggiunto,
persino nell’interesse di singoli obbligazionisti. In conclusione, il singolo obbligazionista non può proporre
autonomamente domanda di ammissione al passivo, ma conserva il diritto di impedire al rappresentate
comune di agire anche nel suo interesse”.
144
41
preventivo e, soprattutto, fallimentare; in termini generali, infatti, l’art. 2415, comma 1,
numero 3, c.c., relativo alle competenze dell’assemblea degli obbligazionisti, dispone
che essa deliberi “sulla proposta di amministrazione controllata e di concordato”,
inducendo i più a concludere che gli obbligazionisti debbano esprimersi unitariamente
sulla proposta di soluzione concordataria della crisi e conseguendone, quale corollario,
l’integrale applicazione dei principi della collegialità, il primo e più significativo dei
quali è costituito dalla regola maggioritaria146; con l’esito che, ai fini delle maggioranze
necessarie per l’approvazione del concordato, il voto degli obbligazionisti concorrerà
per l’intero ammontare delle obbligazioni emesse e non estinte147.
La dottrina e la giurisprudenza di merito, al riguardo, hanno avuto modo di
precisare che la deliberazione dell’assemblea ha carattere propedeutico all’esercizio del
voto da parte del rappresentante comune148: si tratta di una interpretazione che, specie
all’indomani della riforma, riceve significativa conferma nell’art. 125, ultimo comma,
l.f. con cui il legislatore dispone che per il caso in cui la società abbia emesso
“obbligazioni o strumenti finanziari oggetto della proposta di concordato” fallimentare,
la comunicazione ai creditori della proposta ai fini del procedimento di approvazione
della stessa sia inoltrata “agli organi che hanno il potere di convocare le rispettive
assemblee, affinché possano esprimere il loro eventuale dissenso”, all’uopo
prolungando il termine previsto nel secondo comma della norma in commento – in vero,
per un difetto di coordinamento originato dall’art. 9, d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169,
l’art. 125, ultimo comma, rimanda al precedente comma terzo – per l’invio al tribunale
da parte dei creditori delle eventuali dichiarazioni di dissenso, con l’esplicito fine di
“consentire l’espletamento delle predette assemblee”.
Ora, lasciando da parte i dubbi sul significato dell’espressione “obbligazioni o
strumenti finanziari oggetto della proposta di concordato”, da taluno ritenuta priva di
senso149 e che invece i più, al fine di conservare al disposto un qualche significato
normativo, reputano relativa alle ipotesi – verosimilmente prevalenti – in cui la proposta
Cfr. F. FERRARA, La posizione degli obbligazionisti nel concordato della società emittente, in Dir. fall., 1960, p. 19 ss.,
spec. p. 32; R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 23 ss. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 499 s.
147 Cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 500; R. CAVALLO BORGIA, Delle obbligazioni cit., p. 156 ss.
Così anche A. LA MALFA, sub art. 125, in Commentario alla legge fallimentare, diretto da C. Cavallini, III, Milano,
2010, p. 59 ss., spec. p. 80; B. ARMELI, sub art. 171, ivi, p. 617 ss., spec. p. 627 s.; G. DI CECCO, sub 125, in A.
NIGRO, M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La legge fallimentare cit., II, p. 1703 ss., spec. p. 1723 s.; F.
GUERRERA, Le soluzioni negoziali cit., p. 164 e p. 172; A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 297,
i quali, per l’ipotesi in cui gli obbligazionisti siano stati raggruppati in una classe, s’interrogano se, ai fini della
determinazione della volontà della classe, valgano le regole civilistiche sulla delibera dell’assemblea degli
obbligazionisti, oppure quelle proprie della maggioranza all’interno della classe ex art. 128, comma 1, l.f. In
vero, non sembra che a conclusioni diverse si possa pervenire per gli accordi di ristrutturazione dei debiti
previsti nell’art. 182-bis l.f.: sebbene, infatti, né la disciplina codicistica né quella fallimentare si occupino
espressamente del problema, la competenza organizzativa dell’assemblea degli obbligazionisti, seguendo gli
esiti della migliore dottrina sul tema (cfr., ancora, G. FERRI, Le società, cit., p. 509, e R. CAVALLO BORGIA, op.
ult. cit., p. 151), può verosimilmente rintracciarsi nella previsione dell’art. 2415, comma 2, n. 2, c.c.,
concernente le deliberazioni “sulle modificazioni delle condizioni del prestito”: contra, v. L. AUTUORI, sub artt.
2415 ss. cit., p. 216 s.
148 In dottrina, in tal senso, cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 499. Su questa fase cfr. Trib. Milano,
9 dicembre 1987, in Giur. comm., 1988, II, 609 ss., che, contrariamente a parte della dottrina (e si veda, oltre a
Campobasso, loc. ult. cit., R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 87 s., ove ultt. riff.) secondo il quale le esclusioni
dal voto nell’adunanza dei creditori previste dall’art. 177 l.f. non si estendono alla fase propedeutica costituita
dalla deliberazione sulla proposta di concordato preventivo della società da parte dell’assemblea degli
obbligazionisti.
149 Cfr. P.F. CENSONI, Il concordato fallimentare, in S. BONFATTI e P.F. CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, IV
ed., Padova, 2011, p. 461 s.
146
42
rechi forme di decurtazione o, più genericamente, di novazione di tali crediti150, si deve
osservare che la norma citata esprime un valore particolarmente rilevante ai fini di
quanto si viene dicendo. Infatti, la necessità di agevolare la convocazione delle
assemblee degli obbligazionisti e, più in generale, dei titolari di altri strumenti
finanziari, cui è ispirato l’art. 125, ultimo comma, l.f., si spiega soltanto con l’esigenza
di consentire a tali organi di adottare una deliberazione sulla proposta di concordato
fallimentare, della quale, se del caso, il rappresentante comune dovrà rendersi
successivamente portavoce151. La diversa e isolata opinione, tesa a dimostrare che
ciascun obbligazionista sia legittimato a dissentire autonomamente e individualmente
dalla proposta di concordato, degradando così la convocazione dell’assemblea degli
obbligazionisti a finalità meramente informative o, al più, ricognitive, non sembra
potersi giustificare a fronte sia del chiaro tenore letterale dell’art. 2415, comma 1, n. 3,
c.c., sia del predetto art. 125, ultimo comma, l.f.
In questo senso, è interessante notare come la riformulazione della norma da
ultimo richiamata dissolva ogni residua ambiguità insita nel previgente testo normativo
che, invece, con minore chiarezza espositiva recitava: “se vi sono obbligazionisti la
proposta di concordato deve essere comunicata al rappresentante degli obbligazionisti e
il termine concesso ai creditori per far pervenire nella cancelleria del tribunale la loro
dichiarazione di dissenso, deve essere raddoppiato”.
Ambiguità che, al contrario, potrebbe ritenersi tuttora sussistente nell’art. 171,
commi 4 e 5, l.f., concernente il concordato preventivo, ove si prevede che “se vi sono
obbligazionisti, il termine previsto dall’art. 163, primo comma, n. 2 [relativo alla
convocazione dell’adunanza dei creditori; anche in questo caso a motivo di un difetto di
coordinamento con il nuovo art. 163, il rinvio deve intendersi al secondo comma, n. 2],
deve essere raddoppiato”, stabilendosi, altresì, che “in ogni caso l’avviso di
convocazione per gli obbligazionisti è comunicato al loro rappresentante comune”.
A prima vista, infatti, la diversa formulazione della norma – il cui testo, si noti,
è rimasto inalterato152 – potrebbe indurre a ritenere che, a differenza che per il
concordato fallimentare, in quello preventivo ciascun obbligazionista sia legittimato a
partecipare al voto sulla proposta; ma si tratta di una soluzione che è contraddetta sul
piano testuale dal chiaro disposto dell’art. 2415, comma 1, numero 3), c.c., e che sul
piano sistematico non appare convincente, istituendo un trattamento non soltanto
diverso ma, addirittura, opposto fra le due specie di concordati difficilmente
Cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 297, i quali segnalano come potrebbero esservi,
per converso, ipotesi in cui esistono obbligazionisti “e questi non debbono essere messi al corrente della
presentazione di una proposta di concordato, perché privi della legittimazione al voto: e questa ipotesi può
aversi qualora le obbligazioni siano assistite da una garanzia reale sui beni della società e la proposta preveda il
pagamento integrale dei privilegiati; oppure, sia previsto un pagamento integrale degli obbligazionisti, pur se
chirografari”.
151 A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 297, osservano che “la nuova formulazione della
norma sembra dar ragione a chi, anche in passato, riteneva che in realtà il voto dell’obbligazionista «si fonde»
nella deliberazione dell’assemblea degli obbligazionisti, così che all’esterno (e ai fini dell’accettazione della
proposta) gli obbligazionisti appaiono come un unico creditore, titolare di un credito pari all’ammontare del
prestito obbligazionario ancora non estinto”.
152 Il mancato richiamo, nella norma citata, degli strumenti finanziari (presente invece nell’art. 125, ultimo
comma, l.f.) ha suggerito ad alcuni di estendere in via analogica l’ambito di applicazione del disposto al fine di
comprendervi anche tali figure di nuova introduzione (cfr., in tal senso, P.F. CENSONI, Il concordato preventivo,
in S. BONFATTI e P.F. CENSONI, Manuale cit., p. 598; B. ARMELI, sub art. 171 cit., p. 628); si tratta, tuttavia, di
uno sforzo interpretativo forse non necessario, giacché, come si preciserà più avanti nel testo, gli strumenti
finanziari che il codice consente alle società azionarie di emettere devono ritenersi come una species del più
ampio genus delle obbligazioni.
150
43
giustificabile. Si consideri, del resto, che l’argomento talora evocato per negare la
legittimazione dell’organizzazione degli obbligazionisti circa le condizioni del prestito –
vale a dire, la maturazione medio tempore del diritto di credito – se potrebbe, in tesi,
spiegare la legittimazione al voto del singolo titolare di obbligazioni per il caso di
concordato fallimentare, in particolare deducendola dalla scadenza del credito
discendente dall’art. 55, comma 2, l.f., con difficoltà potrebbe, invece, giustificare un
sistema addirittura rovesciato: nel cui contesto, cioè, la legittimazione individuale è
espressamente esclusa per il concordato che chiude il fallimento, mentre è riconosciuta
– così, di fatto, dissolvendo l’organizzazione degli obbligazionisti – in un momento in
cui non soltanto non è scontato che l’impresa sia insolvente ma, soprattutto, il debito
non è ancora necessariamente scaduto.
Nonostante la recente riforma dell’art. 178 l.f. abbia esteso al concordato
preventivo il meccanismo del “silenzio assenso”, già in vigore per quello fallimentare
nell’art. 128 l.f., l’oggetto della deliberazione dell’assemblea degli obbligazionisti
potrebbe assumere un contenuto diverso a seconda che essa sia chiamata a esprimersi su
un concordato fallimentare o preventivo: infatti, mentre per il primo la proposta di
deliberazione assumerà in ogni caso contenuto negativo (vale a dire, di non
adesione)153, per il secondo potrebbe avere l’uno o l’altro valore, giacché l’assemblea
potrebbe sia deliberare di aderire alla proposta, rendendo di fatto superflua la
partecipazione all’adunanza dei creditori, sia di non aderirvi, imponendo in tal modo al
rappresentante comune di prendere parte all’adunanza o, quantomeno, di comunicare
nei termini di legge il voto contrario degli obbligazionisti154.
Di là, però, da questo profilo, ciò che vale la pena indagare sono gli eventuali
poteri del singolo dinanzi alla deliberazione o, meglio, alla sua mancata adozione, da
parte dell’assemblea. Al riguardo, il problema sembra dover essere risolto distinguendo
l’ipotesi in cui l’assemblea abbia rigettato la proposta di deliberazione (di adesione o, se
del caso, di non adesione), adottando, cioè, una deliberazione negativa, da quella in cui
l’inerzia degli organi preposti alla convocazione dell’assemblea o l’impossibilità di
funzionamento di quest’ultima abbia impedito l’adozione di qualsiasi deliberazione.
Infatti, è solo nel primo caso, e non anche nel secondo, che sussiste una deliberazione
idonea a paralizzare l’iniziativa individuale del singolo ai sensi dell’art. 2419 c.c.155.
Cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 297.
Cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 499, che rileva come l’oggetto della deliberazione
dell’assemblea degli obbligazionisti in ordine al concordato non attiene direttamente l’approvazione della
proposta, «ma la definizione dell’atteggiamento da tenersi in merito alla stessa».
155 Cfr., sia pure nel vigore del sistema previgente, A. BONSIGNORI, Del concordato, in Legge fallimentare, a cura di
F. Bricola, F. Galgano, G. Santini, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1977, p. 127 ss., spec. p. 242
s., nonché ID., Del concordato preventivo cit., p. 371 s.; G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 501, A. NIGRO,
Le società per azioni cit., p. 275; in termini non del tutto coincidenti cfr. R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 71 ss.
Nel nuovo sistema, si v. R. CAVALLO BORGIA, Delle obbligazioni cit., p. 159, e B. ARMELI, sub art. 171 cit., p.
628, che si sofferma sull’ipotesi di mancanza del rappresentante comune, segnalando, in particolare, in quel
caso si dovrebbe assistere alla sospensione dei termini concessi dalla legge per lo svolgimento delle adunanze
degli obbligazionisti, così da consentire la nomina di tale soggetto (così anche M. PADELLARO, sub art. 171, in
A. NIGRO, M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La legge fallimentare cit., III, p. 2154 ss., spec. p. 2158): in
difetto, “si ritiene che la qualifica di obbligazionisti, ai fini e agli effetti dell’art. 171 l.f., sia destinata a perdere
rilevanza, con la conseguenza che i soggetti interessati saranno convocati e si presenteranno all’adunanza
come singoli, disponendo ciascuno del proprio diritto di voto nel modo che riterrà più opportuno” (per il
problema, nel vigore del sistema previgente, cfr. A. BONSIGNORI, Del concordato preventivo cit., p. 280). Sul tema
cfr. anche G. RACUGNO, Concordato cit., I, p. 521, a nota 213, secondo il quale “in caso di mancata nomina da
parte dell’assemblea degli obbligazionisti [del rappresentante comune], provvederà all’uopo il tribunale (art.
2417, secondo comma, c.c.), e, fino a tale nomina, la domanda di concordato deve ritenersi improcedibile”.
153
154
44
Assecondando questa prospettiva, si rileva sovente che, in caso di
deliberazione, agli obbligazionisti assenti o dissenzienti sia consentito soltanto di
promuovere impugnazione avverso la deliberazione della loro assemblea156, senza
potere anche proporre opposizione in sede di omologazione del concordato ai sensi
degli artt. 129 e 180 l.f. Si tratta, però, in quest’ultimo caso, di una conclusione che
potrebbe infrangersi dinanzi al fatto che l’istituto dell’opposizione cui si è appena fatto
cenno è consentito a qualsiasi interessato, espressione che nella sua genericità potrebbe
comprendere anche i singoli obbligazionisti. Piuttosto, il rilievo unitario del gruppo e la
conseguente soggezione della minoranza alla valutazione (soprattutto sulla convenienza
economica del piano concordatario) compiuta dalla maggioranza, sembrano impedire di
sollevare dinanzi al tribunale fallimentare questioni sia sulla convenienza della proposta
(e, in questo senso, un precedente normativo potrebbe rintracciarsi nell’art. 2503-bis,
comma 1, c.c., dettato in tema di fusione – ma applicabile anche alla scissione in virtù
del richiamo operato dall’art. 2506-ter, comma 5, c.c. – a mente del quale “i possessori
di obbligazioni delle società partecipanti alla fusione possono fare opposizione a norma
dell’art. 2503, salvo che la fusione sia stata approvata dall’assemblea degli
obbligazionisti”), sia su profili lato sensu di legittimità della procedura che siano stati
oggetto di valutazione in sede di adozione della deliberazione.
È appena il caso di notare, infine, che con la riforma riceve soluzione anche il
dubbio – assai rilevante nel sistema previgente – sulla considerazione unitaria o,
all’opposto, atomistica degli obbligazionisti nel computo delle maggioranze richieste
per l’approvazione del concordato: si ricorderà, infatti, che prima del recente intervento
riformatore, la legge fallimentare richiedeva a tal fine il consenso della maggioranza
numerica dei creditori aventi diritto al voto, la quale rappresentasse almeno i due terzi
della somma dei loro crediti. A tale riguardo, mentre era (e rimane) indubbio che il
valore dei crediti relativi all’emissione obbligazionaria corrispondesse a quello di tutte
le obbligazioni emesse e ancora non estinte, si discuteva, invece, se il voto espresso dal
rappresentante comune dovesse essere computato, ai fini del distinto quorum capitario,
in numero pari a quello degli obbligazionisti, soluzione verso la quale la dottrina
sembrava propendere157. Il problema è adesso superato dalla nuova disciplina che ai fini
dell’approvazione del concordato non esige più la maggioranza assoluta dei creditori,
ma soltanto quella (capitalistica) del valore dei crediti che si appuntano sull’impresa in
crisi o fallita.
23. Un aspetto di centrale rilievo è quello concernente il valore del credito
obbligazionario da insinuare al passivo. Si deve rammentare, al riguardo, che,
tendenzialmente, l’emissione di obbligazioni e, più in generale, di titoli di debito
realizza un’operazione nella quale all’iniziale apporto, da parte del sottoscrittore, di un
determinato valore (che, come più avanti si dirà, può essere somministrato
strumentalmente anche attraverso la prestazione di opere e servizi: cfr. art. 2346, ultimo
comma, c.c.), si conviene il rimborso della quota capitale inizialmente versata e la
V. in tal senso A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 297, ma già A. NIGRO, Le società per
azioni cit., p. 276. Per il dibattito precedente alla riforma del diritto fallimentare cfr. R. SACCHI, Gli
obbligazionisti cit., p. 23 ss., e G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 499 s.
157 E si vedano, sul problema, F. FERRARA, La posizione cit., p. 33 ss.; D. PETTITI, I titoli cit., p. 232 ss.; A.
BONSIGNORI, Del concordato preventivo cit., p. 371 s., tendenzialmente tutti orientati per il rilievo unitario del
gruppo, e R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 35 ss., e G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 500 s., di
opposto parere.
156
45
relativa remunerazione, in forma d’interessi periodici talora indicizzati all’andamento
della società o a indici di mercato a essa estranei, come pure, ai sensi del novellato art.
2411, ultimo comma, c.c., anche l’originaria esclusione del rimborso della quota
capitale.
L’art. 58 l.f. fissa i criteri per la determinazione del valore dei crediti derivanti
da obbligazioni e altri titoli di debito da insinuare al passivo, sostanzialmente replicando
quanto già disposto dall’art. 851 del codice di commercio del 1882. Nel vigore del
previgente codice, tuttavia, era previsto che s’insinuasse al passivo il valore di
emissione delle obbligazioni, eventualmente detratto quanto fosse stato medio tempore
rimborsato in base a eventuali ammortamenti scaglionati; il tenore della disposizione,
però, era oggetto di critica da parte della dottrina158 in ragione del rilievo che le società,
frequentemente, non si obbligano a restituire quanto originariamente versato (ossia, il
prezzo di emissione), bensì il valore nominale del titolo159: vale a dire che ai fini del
concorso fallimentare il credito avrebbe dovuto ammontare al valore che il creditore
avrebbe potuto esigere, non al corrispettivo pagato all’atto della sottoscrizione. E ciò
conformemente alla prassi che, talora, vuole il valore nominale superiore al prezzo di
emissione, in ragione del rilievo che il rimborso può comprendere anche la quota parte
di remunerazione del finanziamento (nella forma del c.d. premio di emissione, dove la
differenza è fra il prezzo di emissione e il valore nominale del rimborso, ovvero del c.d.
premio di rimborso, ove la differenza è fra il valore nominale dell’obbligazione e
l’importo, in tesi maggiore, che sarà corrisposto alla scadenza).
L’art. 58 l.f., sin dalla sua versione originaria, in effetti ha emendato il “vizio”
della previgente disciplina, rinviando espressamente al prezzo nominale (e adesso,
ancora più chiaramente, al valore nominale) delle obbligazioni160; nondimeno, esso non
sembra risolvere tutti i profili dubbi concernenti il valore del credito da insinuare al
passivo.
Se da un lato, infatti, la dottrina conviene che la scadenza di tutti i debiti del
fallito, genericamente disposta dall’art. 55, comma 2, l.f., trovi applicazione anche alle
obbligazioni e agli altri titoli di debito161, si discute, invece, se alle fattispecie
richiamate debba trovare altresì applicazione la disciplina dettata dall’art. 57 l.f. in tema
di crediti infruttiferi, in forza della quale quelli non ancora scaduti alla data del
fallimento “sono ammessi al passivo per l’intera somma. Tuttavia, a ogni singola
ripartizione saranno detratti gli interessi composti, in ragione del cinque per cento
all’anno, per il tempo che resta a decorrere dalla data del mandato di pagamento sino al
giorno della scadenza del credito”. La ratio della norma richiamata, come noto, riposa
sul rilievo che l’originaria mancata previsione della corresponsione periodica degli
interessi si spieghi in virtù del fatto che il valore del credito infruttifero comprende
anche tale remunerazione; pertanto, l’art. 57 l.f. vale a conservare parità di trattamento
fra i crediti infruttiferi e i crediti fruttiferi, per i quali invece la legge fallimentare
dispone la sospensione del corso degli interessi (in vero tendenziale: si veda infatti l’art.
55, comma 1, l.f. che, nonostante il contrario avviso talora espresso in dottrina, sembra
dover trovare applicazione anche alle obbligazioni garantite da pegno, ipoteca o
privilegio). In particolare, ci s’interroga se l’art. 57 l.f. trovi applicazione anche per le
Cfr. G. BONELLI, Del fallimento cit., p. 272.
Cfr. L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 92 s.
160 Cfr. B. INZITARI, sub art. 58 cit., p. 827; F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1114.
161 E v., per tutti, A. NIGRO, Le società per azioni cit., p. 361.
158
159
46
obbligazioni e gli altri titoli di debito per i quali non sia prevista alcuna remunerazione
oltre al rimborso del valore nominale dei titoli.
La dottrina coeva al codice di commercio del 1882, in ossequio al principio
adesso consacrato nell’art. 57 l.f., si mostrava incline a ritenere che il creditore avrebbe
potuto esigere il valore nominale delle obbligazioni (e non dunque il solo prezzo di
sottoscrizione di cui all’art. 851 cod. comm.) solo nel caso in cui le obbligazioni
predette fossero scadute162: in tale circostanza, infatti, il premio, corrispondente alla
differenza fra il prezzo pagato e il valore nominale del titolo, avrebbe rappresentato il
cumulo di una parte degli interessi periodici ritenuti e capitalizzati dalla società, in
ragione del decorso del numero degli anni calcolati dal piano di emissione.
Nel sistema vigente, può rilevarsi che nell’ipotesi in cui nell’ambito di
un’emissione obbligazionaria non sia prevista la corresponsione di alcun interesse ma
soltanto il pagamento, alla scadenza, del valore nominale (in tesi, maggiore del prezzo
di emissione, o comunque di un importo maggiore del valore nominale: c.d. premio di
rimborso), non sembrano sussistere ostacoli all’applicazione della disciplina dei crediti
infruttiferi recata nell’art. 57 l.f.163. Negli altri casi, quantitativamente prevalenti, in cui
le obbligazioni riconoscano ai loro possessori sia il diritto al pagamento del relativo
valore nominale (in tesi, maggiore del prezzo di emissione), sia la remunerazione
periodica in forma d’interessi, ancorché indicizzati (dunque, modalità di remunerazione
combinate), per la quota capitale sembra invece preferibile dare integrale applicazione
all’art. 58 l.f., anche in ragione del rilievo che le specificità sia temporali (un’emissione
obbligazionaria ha tendenzialmente un orizzonte di medio-lungo periodo) sia
organizzative potrebbero indurre a ritenere maggiormente adeguata una considerazione
autonoma di questa tipologia di finanziamento, come tale insuscettibile di essere
attratta, ancorché ne presenti per alcuni aspetti i caratteri, entro lo schema dei crediti
infruttiferi.
D’altra parte, sembra pacifico ritenere che per il caso di obbligazioni che
contemplino forme di remunerazione determinate sia mediante il pagamento di un
interesse periodico, sia attraverso altre tecniche d’indicizzazione, si dovrà dar luogo
all’insinuazione dell’ammontare del relativo credito che sia scaduto o venga a scadenza
alla data della dichiarazione di fallimento (arg. ex art. 55 e 59 l.f.)164.
24. Distinto problema è quello regolato nella seconda parte dell’art. 58 l.f., ove si legge
che “se è previsto un premio da estrarre a sorte, il suo valore attualizzato viene
distribuito tra tutti i titoli che hanno diritto al sorteggio”. Il tenore letterale della norma
risulta non soltanto semplificato165 ma, in realtà, almeno in parte modificato166 rispetto
al testo originario, nel vigore del quale si stabiliva che, per le obbligazioni rimborsabili
per estrazione a sorte, con somma superiore al prezzo nominale (premio a sorte)167, si
sarebbe dovuto insinuare al passivo della società un credito corrispondente al valore
attuale unitario dei titoli (in ogni caso non inferiore al prezzo nominale, detratto ciò che
Cfr. ancora G. BONELLI, Del fallimento cit., p. 272 s.
Cfr., in tal senso, L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 93, che osserva, peraltro, come la dottrina
prevalente suggerisca di coordinare la misura dell’interesse al cinque per cento, contemplato nell’art. 57 l.f.,
con la variabilità del saggio legale di interessi disposta dall’art. 1284 c.c.
164 Cfr. F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1132 s., e L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 93 s.
165 Così F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1116.
166 Cfr. L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 97 s.
167 Sulle obbligazioni “a premio” (ipotesi, in vero, ormai desueta nella pratica societaria: cfr. L. PISANI, Prestito
obbligazionario cit., p. 97), cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 426 ss.
162
163
47
sia stato pagato a titolo di rimborso di capitale168), ottenuto deducendo l’interesse
composto del cinque per cento dall’ammontare complessivo delle obbligazioni non
rimborsate, e dividendo il valore così calcolato per il numero delle obbligazioni non
estinte.
La versione previgente, in allora recata nel secondo comma dell’art. 58 l.f., era
dai più ritenuta applicabile ai c.d. premi generali, cioè a quei premi o sconti che la
società si obbligava a corrispondere a tutti gli obbligazionisti169, sia pure in momenti
cronologicamente distinti170, e che si distinguono dai c.d. premi speciali (o premi in
senso proprio), i quali, invece, sono utilità aleatorie aggiuntive alla rimunerazione
dell’investimento, attribuite ad alcuni soltanto degli obbligazionisti, individuati secondo
il sistema dell’estrazione a sorte171: mentre per i primi, l’estrazione è una delle modalità
astrattamente compendiabili, funzionali a scandire il tempo del rimborso – comunque
dovuto a tutti i titolari delle obbligazioni –, nei secondi è lo strumento necessario per
individuare quali, fra questi ultimi, siano anche destinatari delle predette utilità
aggiuntive.
La nuova formulazione, invece, sembra far riferimento, almeno in forma
espressa, ai soli premi speciali, come pare suggerire l’ultima parte della norma che
dispone la distribuzione del relativo valore “tra tutti i titoli che hanno diritto al
sorteggio”; nondimeno, secondo quanto si dirà più avanti, questo meccanismo può
trovare applicazione a qualsiasi premio a sorte172, dato che anche per quelli di tipo
generale l’aleatorietà temporale della sua attribuzione incide inevitabilmente sul valore
delle obbligazioni173. Del resto, l’eventualità che alcune fra le obbligazioni vengano
rimborsate prima della scadenza o, comunque, prima delle altre, consente di evidenziare
un lucro consistente nel differenziale fra il valore nominale del titolo (che viene
rimborsato) e il suo valore attualizzato (ottenuto applicando il tasso di sconto alla quota
parte del valore nominale relativa alla retribuzione del finanziamento). Alla data della
dichiarazione di fallimento, pertanto, le obbligazioni ancora in circolazione appartenenti
alla categoria in discorso dovrebbero risultare soggette alla disciplina dell’art. 57 l.f.;
Nella versione vigente della norma è venuto meno il divieto di attribuire alle obbligazioni un valore
inferiore al prezzo nominale, detratto quel che era stato pagato a titolo di rimborso: pertanto, non sembra
fino in fondo convincente l’opinione che l’attuale formulazione del primo comma non consentirebbe tuttora
di andare al di sotto della pari, ovviamente detratti eventuali rimborsi già operati (e vedi in tal senso F. DI
GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1117 s., che muove dal rilievo secondo il quale “il rimborso del capitale
rappresenta un aspetto indefettibile di obbligazione e titolo di debito”): in vero, l’abrogazione del divieto
sembra funzionale a comprendere nell’ambito di applicazione della norma il caso in cui le obbligazioni o, più
in generale, gli strumenti finanziari emessi dalla società, “condizionano i tempi e l’entità del rimborso del
capitale all’andamento economica della società”, fattispecie che anche l’A. da ultimo indicato mostra di
ritenere tipologicamente inclusa nella (ampliata) figura delle obbligazioni (ivi, p. 1122 ss.; sul tema si rinvia sin
d’ora al § 26).
169 Nondimeno, secondo G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 439, ne suggeriva l’applicazione, in via
analogica, anche ai premi speciali.
170 Cfr. B. INZITARI, sub art. 58 cit., p. 828; A. COPPOLA, sub art. 58 cit., p. 855; L. PISANI, Prestito obbligazionario
cit., p. 97 s.
171 Cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 425; B. INZITARI, sub art. 58 cit., p. 828; L. PISANI, Prestito
obbligazionario cit., p. 97 s.
172 L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 98.
173 Non sembra possibile, invece, estendere la sfera di applicazione della norma all’ipotesi, già considerata, di
obbligazioni aventi un valore nominale superiore al prezzo di emissione, rintracciando in questo caso il premio
nel differenziale fra prezzo di emissione e valore nominale: infatti, come già si è segnato, la fattispecie può
essere agevolmente ascritta all’art. 57 l.f., sottraendosi così alle difficoltà testuali imposte dalle esigenze di
attualizzazione dei valori nonché dal riferimento al metodo della sorte, che presuppone un trattamento
differenziato fra i titolari delle prestazioni.
168
48
tuttavia, la circostanza che alla predetta data ciascuna obbligazione incorpori anche
un’aspettativa all’estrazione e, dunque, a beneficiare di un premio (consistente nel
rimborso anticipato senza sconto) impone di ripartire il relativo valore attualizzato fra
tutte le obbligazioni, attingendo al disposto dell’art. 58 l.f. Si dovrà, insomma, dare
contestuale applicazione a entrambi gli artt. 57 e 58 l.f.
Ne discende che l’avvio della procedura fallimentare, se impedisce
l’attribuzione aleatoria di utilità addizionali ad alcuni soltanto tra gli aventi diritto,
tuttavia non fa venire meno il debito della società, avente a oggetto l’erogazione agli
obbligazionisti di una somma aggiuntiva al valore nominale delle obbligazioni ancora
non rimborsate, rappresentata dall’ammontare complessivo dei premi che avrebbero
dovuto essere estratti alle varie scadenze: vale a dire che il fallimento non estingue – né,
in forza dei principi generali, potrebbe farlo – il debito contratto dalla società174,
concernente i premi connessi al rimborso delle obbligazioni.
Piuttosto, nell’ambito della procedura fallimentare, il legislatore prende atto
che il meccanismo dell’estrazione a sorte dei titoli beneficiari del premio, andando a
vantaggio di alcuni soltanto dei creditori, non è coerente con il principio di
cristallizzazione della situazione debitoria alla data della sentenza dichiarativa di
fallimento, orientandosi così all’attribuzione pro-quota del valore del premio
debitamente attualizzato175. E si tratta, a ben vedere, di una soluzione imposta176 dal
rilievo che, alla data della sentenza dichiarativa di fallimento il credito relativo a
ciascuna obbligazione non ancora rimborsata si compone non soltanto del valore
nominale del titolo, ma anche dell’ulteriore valore, connesso ab origine a ciascuna
obbligazione, commisurato alle probabilità di risultare aggiudicatari del premio.
È evidente, allora, che, sebbene la norma non precisi più, come nel passato,
tale eventualità, non si dovrà tener conto dell’ammontare complessivo dei premi
astrattamente previsti nella deliberazione di emissione delle obbligazioni e, più in
generale, dei titoli di debito, ma esclusivamente di quelli non ancora corrisposti.
La norma tace in ordine alle modalità di attualizzazione del valore dei premi: al
riguardo, taluni suggeriscono l’applicazione del tasso legale semplice; altri, invece,
propendono per l’applicazione del tasso legale composto, attingendo in via analogica al
sistema fissato nell’art. 57 l.f.177.
Cfr. B. INZITARI, sub art. 58, in Il nuovo diritto fallimentare. Commentario diretto da A. Jorio e coordinato da M.
Fabiani, I, Bologna, 2006, p. 826 ss., spec. p. 829, e A. C OPPOLA, sub art. 58, in A. NIGRO, M. SANDULLI, V.
SANTORO (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, I, Torino, 2010, p. 853 ss., spec. p. 855.
175 F. DI GIOROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1116, spiega invece la previsione come coerente alla “regola
generale del diritto concorsuale della par condicio creditorum, in grado di livellare sul piano fallimentare situazioni
sostanziali, che, fuori dal concorso, sarebbero potute restare diseguali”.
176 Contra G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 439, secondo il quale la previsione è il frutto di una
specifica scelta legislativa, ispirata dal “principio della ripartizione egualitaria fra tutti gli obbligazionisti delle
utilità aleatorie che maturano successivamente al fallimento”, senza la quale, tuttavia, il meccanismo della
sorte non avrebbe incontrato alcun ostacolo in altre disposizioni della legge fallimentare, “trattandosi pur
sempre di dare esecuzione a un’obbligazione precedentemente assunta dalla società”.
177 Nel primo senso cfr. L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 98 s.; nel secondo v. B. INZITARI, sub art. 58
cit., p. 829, e M. BENINCASA, sub art. 58 cit., p. 1161, il quale tuttavia rileva che, in assenza di una espressa
previsione, il tasso di sconto dovrebbe essere “quello legale vigente al momento dell’apertura della procedura
concorsuale”. Si vedano, però, anche A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 140, secondo i quali
il tasso di attualizzazione dovrebbe coincidere con quello di rendimento previsto per le obbligazioni, oppure
con quello medio riconosciuto in operazioni finanziarie dello stesso tipo, a seconda se il tasso di rendimento
sia, rispettivamente, fisso o variabile.
174
49
25. In passato, un’isolata dottrina, muovendo dal rilievo che i titolari di obbligazioni
convertibili in azioni sopportino, quale costo del potere di conversione, una
rimunerazione sovente inferiore rispetto a quella normalmente riconosciuta per le
obbligazioni ordinarie o un prezzo di emissione maggiore rispetto a esse, si è interrogata
se ciò debba incidere sul meccanismo di determinazione del valore del credito da
insinuare al passivo a norma dell’art. 58 l.f. – ovviamente sul presupposto che la
conversione non sia avvenuta – segnatamente, nel senso di riconoscere un credito
maggiorato: in tal modo, il possessore di obbligazioni convertibili sarebbe rimborsato
(anche) del costo della clausola di conversione, definitivamente esaurita per il
fallimento della società, applicando in via analogica l’art. 76 l.f., dettato in materia di
contratti di borsa a termine ancora pendenti alla data della dichiarazione di
fallimento178.
In particolare, in virtù del richiamo di tale disciplina, l’opzione di conversione
dovrebbe ritenersi risolta per effetto della sentenza dichiarativa di fallimento, dovendosi
così procedere alla restituzione al titolare delle obbligazioni del valore di tale clausola,
ricavabile dalla differenza fra il saggio di interessi di mercato dei prestiti obbligazionari
e quello, in tesi più basso, al quale vengono remunerate le obbligazioni convertibili,
ovvero in considerazione della differenza fra i prezzi di emissione.
L’orientamento, tuttavia, è rimasto isolato: si osserva, infatti, per un verso, che
già sul piano pratico è estremamente difficile il calcolo di tale valore, e, per altro verso,
che il potere di conversione assegnato agli obbligazionisti, al pari degli altri diritti di
opzione di cui all’art. 1331 c.c., sarebbe insuscettibile di autonoma valutazione
patrimoniale ai fini dell’insinuazione al passivo179; né d’altronde l’intervenuto
fallimento potrebbe fondare una domanda di risarcimento del danno a carico della
società180.
26. Come si accennava, la riforma ha inteso estendere l’applicazione dell’art. 58 l.f.,
originariamente dettato per le sole obbligazioni, agli “altri titoli di debito”, espressione
che, nella sua genericità, è senz’altro evocativa non soltanto della figura tipica dei titoli
di debito introdotta per le società a responsabilità limitata nell’art. 2483 c.c., ma anche
degli altri strumenti finanziari di cui trattano gli artt. 2346, ultimo comma, 2349, comma
3, 2411, ultimo comma e 2447-ter, lett. e), c.c.181, ovviamente nei limiti delle
obbligazioni pecuniarie che incorporino; pertanto, quando l’apporto consista nella
concessione del godimento di beni, l’obbligazione restitutoria gravante sulla società
relativamente a questi ultimi risulterà soggetta al regime ordinario delle domande di
rivendicazione e restituzione. E al medesimo intento sembra ispirato il novellato art.
125, ultimo comma, l.f., il cui ambito di applicazione, come altrove si è notato, oltre che
alle obbligazioni, è adesso espressamente esteso anche agli strumenti finanziari.
Cfr. G. POLI, Obbligazioni convertibili e fallimento, in Riv. soc., 1976, p. 1120 ss.
Cfr. P. CASELLA, Le obbligazioni convertibili in denaro, Milano, 1983, p. 243 s.; G.F. CAMPOBASSO, Le
obbligazioni cit., p. 440, seguito da L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 99 s., che estende la soluzione anche
alle obbligazioni con warrant su azioni della società emittente; F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1119 ss.;
A. COPPOLA, sub art. 58 cit., p. 856; più in generale, cfr. L. GUGLIELMUCCI, sub artt. 72-83, Effetti del fallimento
sui rapporti giuridici preesistenti, in Commentario Scialoja-Branca, Legge fallimentare a cura di F. Bricola, F. Galgano, G.
Santini, Bologna-Roma, 1979, p. 1 ss., spec. p. 141 s.
180 Cfr. B. INZITARI, sub art. 58 cit., p. 830 s., seguito da F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1119 ss.
181 Cfr. F. Di GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1112 ss.; A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p.
134.
178
179
50
Le nuove norme sono coerenti al diffuso convincimento che gli strumenti
finanziari regolati dalle disposizioni appena richiamate, sebbene possano assumere,
come noto, tratti tipologicamente più estesi di quelli tradizionalmente ascrivibili al
modello socio-economico delle obbligazioni – che storicamente, infatti, escludeva
forme di partecipazione al rischio (almeno per ciò che riguarda la quota capitale del
finanziamento) e all’organizzazione –, tuttavia appartengano alla (ampliata) categoria
concettuale delle obbligazioni, alla cui disciplina generale devono, allora, ritenersi
soggetti182.
Ciò perché si tratta, in ogni caso – e, dunque, a prescindere: (i) dalle forme
strumentali mediante le quali approvvigionano valore alla società (denaro, beni in
natura, crediti, prestazioni d’opera e servizi); (ii) dall’eventuale riconoscimento di diritti
amministrativi; (iii) dalla disciplina che regola la sorte del capitale erogato e la
remunerazione del finanziamento –, di vicende che si compendiano in operazioni di
massa (come si evince dall’impiego della formula strumenti, che allude al carattere
frazionario di ciascun titolo183) di finanziamento dell’impresa, diverse dal
conferimento184 e perciò ascrivibili, come anche la legge fallimentare mostra di fare, nel
novero dei titoli di debito. Né sembra adeguato obiettare, in contrario, che l’art. 2411,
ultimo comma, c.c., espressamente estendendo la disciplina dettata per le obbligazioni
“agli strumenti finanziari, comunque denominati, che condizionano i tempi e l’entità del
rimborso del capitale all’andamento economico della società”, secondo un argomento a
contrario escluda l’applicazione di quelle norme agli strumenti finanziari che, invece,
conservino in ogni caso il diritto di credito del titolare per la quota capitale del
finanziamento. Si è condivisibilmente osservato, a riguardo, che la norma recata nel
terzo comma dell’art. 2411 c.c. risponda all’esigenza di precisare che i primi – quelli
cioè che partecipano al rischio economico – appartengono al tipo generale delle
obbligazioni: circostanza della quale, invece, sarebbe stato forse legittimo dubitare in
considerazione dei caratteri storicamente tipologici delle obbligazioni. Precisazione
della quale, al contrario, non vi sarebbe alcun bisogno a motivo della sostanziale
omogeneità fra gli altri strumenti finanziari e le obbligazioni in senso tradizionale185.
Piuttosto, proprio in considerazione della fattispecie contemplata nell’art. 2411,
comma 3, c.c., sembra necessario segnalare che, qualora l’operazione di finanziamento
subordini “i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della
società”, l’ammontare del credito per il quale potrà promuoversi insinuazione al passivo
dovrà essere valutata alla luce dei criteri previsti nell’ambito della deliberazione di
emissione delle obbligazioni, potendosi giungere, nei casi marginali, anche all’esito che
il fallimento della società comporti l’estinzione del credito obbligazionario. Si tratta, del
resto, di una soluzione non soltanto indotta dal tenore letterale della disposizione, ma
Cfr., in tal senso, G. FERRI jr, Fattispecie societaria e strumenti finanziari, in C. MONTAGNANI (a cura di), Profili
patrimoniali e finanziari della riforma. Atti del convegno di Cassino, 9 ottobre 2003, p. 67 ss., spec. p. 75 ss., e B.
LIBONATI, I “nuovi” strumenti finanziari partecipativi, in Riv. dir. comm., 2007, I, p. 1 ss., spec. p. 6 ss.
183 Cfr. G. FERRI jr, Fattispecie cit., p. 84 ss., seguito da F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1132.
184 Proprio per tale ragione, non mi sembra condivisibile il tentativo di includere entro la categoria degli
strumenti “ibridi” le azioni di risparmio di cui all’art. 145, comma 2, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (c.d. TUF):
esse, infatti, di là dai profili peculiari che presentano, appartengono senz’altro al novero delle azioni in senso
tecnico, e il relativo conferimento contribuisce alla formazione del capitale sociale; pertanto, a prescindere
dalla sorte concorsuale di eventuali privilegi patrimoniali di cui, a norma dell’art. 145 TUF, siano dotate, non
v’è dubbio che riguardo al valore della partecipazione, i relativi titolari non possono vantare alcuna pretesa nei
riguardi della procedura fallimentare. Per un’impostazione diversa cfr. F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p.
1133 ss.
185 Cfr. ancora G. FERRI jr, Fattispecie cit., p. 77 s., e B. LIBONATI, I “nuovi” cit., p. 9.
182
51
anche coerente allo schema generale di ogni operazione di sovvenzione, caratterizzato,
al fondo, dalla rinuncia all’immediata esigibilità di una prestazione, che le parti, nel
quadro dell’autonomia negoziale loro riconosciuta, possono prevedere – sia
originariamente, sia (più probabilmente) al verificarsi di peculiari condizioni (quali, ad
esempio, la dichiarazione di fallimento della società) – come definitiva186.
Quanto ai titoli di debito della s.r.l. va, infine, notato che essi trovano
menzione solo nell’art. 58 l.f., non anche fra le norme dei concordati fallimentare e
preventivo, che invece si rivolgono, rispettivamente, alle “obbligazioni e strumenti
finanziari” (art. 125, comma 4, l.f.) o addirittura, più semplicemente, agli
“obbligazionisti” (art. 171, commi 4 e 5 l.f.): il che è coerente con il rilievo che soltanto
all’emissione da parte di società azionarie di obbligazioni e di strumenti finanziari
corrisponde necessariamente una struttura organizzata dei finanziatori, la cui operatività
è estesa, come si è segnalato, anche nel contesto delle discipline della crisi. Per i titoli di
debito di s.r.l., del resto, il codice non prevede, almeno in linea di principio, la
formazione di un gruppo organizzato dei relativi titolari187, limitandosi a consentire che
la decisione di emissione dei titoli contempli la possibilità per la società di modificare le
condizioni del prestito e le modalità del rimborso “previo consenso della maggioranza
dei possessori” (art. 2483, comma 3, c.c.): e per quanto ciò non implichi, di per sé, la
costituzione di un’organizzazione di categoria, né consenta l’applicazione tout court in
via analogica della disciplina delle obbligazioni (la quale, però, potrebbe essere
richiamata, senza dubbio legittimamente, nella decisione di emissione dei titoli) 188,
sembra ragionevole ritenere che, riguardo ai profili concernenti i concordati e gli
accordi di ristrutturazione dei debiti, trovino applicazione i principi vigenti per le
obbligazioni, a cominciare dalla regola maggioritaria. Al contrario, in assenza di una
previsione siffatta e, più in generale, in difetto di qualsiasi forma organizzativa,
ancorché elementare, dei titolari dei titoli di debito, è preferibile ritenere che costoro
partecipino alle diverse fasi delle procedure concorsuali in forma individuale189, alla
stregua di qualsiasi altro creditore della società.
27. Senza voler toccare il tema degli effetti sull’organizzazione dell’apertura della
procedura fallimentare, qui mette conto segnalare che il compimento, da parte della
società, di operazioni straordinarie – espressione che dapprima la dottrina e, da ultimo,
anche il legislatore riservano a forme di riorganizzazione dell’esercizio entificato
dell’impresa, fra le quali si annoverano, innanzitutto, la trasformazione, la fusione e la
scissione ma nel cui ambito, a mente degli artt. 124 e 160 l.f., devono essere ricomprese
anche operazioni di ristrutturazione del finanziamento dell’impresa – evoca
l’applicazione di discipline nell’ambito delle quali la legge talora contempla istituti
G. FERRI jr, Investimento e conferimento, Milano, 2001, p. 465 ss.
A. LAUDONIO, Un’organizzazione collettiva per i possessori di titoli di debito ex art. 2483 c.c.?, in Dir. banca e mercato
finanziario, 2005, I, p. 429 ss.
188 Cfr. M. CAMPOBASSO, I titoli di debito delle s.r.l. fra autonomia privata e tutela del risparmio, in Il nuovo diritto delle
società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, 3, Torino, 2006, p.
743 ss., spec. p. 770, che rileva come ciò permetta, a ben vedere, di scegliere «modalità di raccolta del
consenso più semplici e meno costose»; A. LAUDONIO, Un’organizzazione cit., p. 429 ss.; A. MORELLO, Titoli di
debito, obbligazioni e operazioni di trasformazione, in Riv. dir. comm., 2009, I, p. 119 ss.
189 Nel medesimo senso cfr. F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1137 s.; diversamente, cfr. G. RACUGNO,
Concordato cit., I, p. 521 s., secondo il quale le norme sul concordato preventivo che si riferiscono alle
obbligazioni e agli altri strumenti finanziari dovrebbero trovare applicazione, in ogni caso, anche ai titoli di
debito emessi dalla società a responsabilità limitata.
186
187
52
destinati a tutela delle pretese dei creditori e, segnatamente, della garanzia patrimoniale
rappresentata dal patrimonio della società e dalla sua peculiare organizzazione.
Lasciando da parte la riduzione reale del capitale sociale, nonché la costituzione di
patrimoni destinati (artt. 2445 e 2447-quater c.c.) – i cui presupposti non sembrano
sussistenti nel contesto delle procedure concorsuali – ci si riferisce, nel dettaglio, alle
opposizioni dei creditori che trovano regolamento per la trasformazione eterogenea (art.
2500-novies c.c.), per la fusione e la scissione (artt. 2503, 2503-bis, 2506-ter, comma 5,
c.c.), e per la revoca dello stato di liquidazione (art. 2487-ter, comma 2, c.c.), attraverso
le quali ciascun creditore, alle condizioni previste dalle disposizioni richiamate, ha il
potere di sollevare dinanzi all’autorità giudiziaria competente un giudizio sulla
compatibilità (degli effetti) dell’operazione deliberata con la persistente esigenza di
solvibilità della società. In particolare, là dove il tribunale ritenga infondato il pericolo
di pregiudizio per le ragioni dei creditori oppure la società presti idonea garanzia, è
disposto che l’operazione deliberata abbia luogo nonostante l’opposizione:
diversamente, il perfezionamento dell’operazione è precluso. Inoltre, per le ipotesi di
fusione e scissione, nonché per quella di revoca dello stato di liquidazione (ma non è
escluso che la medesima disciplina trovi applicazione in via analogica anche per le altre
figure di opposizione dei creditori contemplate dalla legge), è consentito ovviare
all’eventuale opposizione dei creditori raccogliendo il consenso del ceto creditorio
all’operazione, oppure soddisfacendo coloro i quali lo abbiano invece negato. Infine,
per le sole operazioni di fusione e scissione, l’opposizione dei creditori è altresì esclusa
là dove la relazione degli esperti dovuta a norma dell’art. 2501-sexies c.c. sia redatta da
un’unica società di revisione che asseveri che la situazione patrimoniale e finanziaria
delle società partecipanti alla fusione o alla scissione “rende non necessarie garanzie” a
tutela dei creditori.
All’esito della riforma del diritto delle società di capitali 190 e di quella delle
procedure concorsuali, la possibilità che durante lo svolgimento della procedura la
società intraprenda operazioni straordinarie deve ritenersi non solo espressamente
consentita, per effetto dell’elisione degli originari divieti (cfr. artt. 2501, comma 2,
vecchio stile, e 2504-septies, comma 2, c.c.), ma anche suggerita dalla prospettiva che
non considera più il fallimento alla stregua di una causa di scioglimento della società
(almeno per quelle a forma capitalistica) e di cessazione dell’impresa. In questo
contesto, è ragionevole ritenere che proprio alle operazioni straordinarie sopra ricordate
si ricorra nel quadro della riorganizzazione dell’impresa e del suo finanziamento,
soprattutto191, ancorché non esclusivamente, quando si sperimenti la via concordataria.
È legittimo interrogarsi, perciò, se il potere di opporsi permanga in capo ai
creditori anche nell’ambito della procedura fallimentare, specie ove si assecondi
l’orientamento teso a circoscrivere la legittimità di tali operazioni a quelle il cui
contenuto non contrasti con le esigenze della procedura e con la situazione in cui versi
la società; si potrebbe segnalare, al riguardo, che proprio la circostanza che le predette
operazioni in tanto sarebbero consentite, in quanto risultino in concreto 192 neutre, se non
anche funzionali, alla disciplina della responsabilità patrimoniale della società fallita,
Per il dibattito precedente alla riforma, con riguardo evidentemente soltanto alla trasformazione, stante
l’espresso divieto in allora previsto per le fusioni e le scissioni, cfr. G. CABRAS, Le trasformazioni, in Tratt. soc.
per az. diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 7***, Torino, 1997, p. 3 ss., spec. p. 106 ss. e p. 110 s.
191 Cfr. F. GUERRERA e M. MALTONI, Concordati giudiziali e operazioni societarie di «riorganizzazione», in Riv. soc.,
2008, p. 17 ss., spec. p. 73 ss.
192 Cfr. B. LIBONATI, Corso di diritto commerciale, Milano, 2009, p. 564.
190
53
privi l’istituto dell’opposizione di qualsiasi concreto interesse. Tuttavia, a un esito
siffatto si oppone, innanzitutto, il rilievo che lo strumento dell’opposizione sembra
risultare a prima vista il più adeguato proprio al fine di asseverare – beninteso: dal punto
di vista dei creditori – la legittimità dell’operazione di riorganizzazione eventualmente
adottata dalla società con l’esigenza – immanente alle procedure concorsuali – alla
massimizzazione della soddisfazione delle pretese creditorie193.
Si tratta di domandarsi, allora, se la disciplina speciale delle procedure
concorsuali, per le ipotesi in discorso, rechi strumenti di tutela dei creditori idonei (e,
perciò, destinati) ad assorbire quelli previsti, in linea generale, dal legislatore. Questione
che – è bene precisare – neppure si pone per i creditori sociali di altre società,
formalmente estranee a quella sottoposta alla procedura concorsuale, eventualmente
coinvolte nella vicenda, rispetto alle quali non è dubbia l’integrale applicazione della
disciplina che regola le operazioni di riorganizzazione dell’impresa in discorso e,
quindi, segnatamente, di quella prevista per l’opposizione dei creditori194.
Il problema sembra presentare risvolti diversi a seconda che lo si affronti nel
contesto dei concordati preventivo e fallimentare ovvero in quello della procedura
fallimentare.
28. Per ciò che riguarda i concordati fallimentare e preventivo, i novellati artt. 124 e 160
l.f., recependo, ad opera della legge n. 80/2005 (concordato preventivo) e d.lgs. n.
5/2006 (concordato fallimentare) quanto originariamente previsto nel contesto della
disciplina dell’amministrazione straordinaria “speciale” delle grandi imprese in crisi
(d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito con modificazioni dalla legge 18 febbraio
2004, n. 39), consentono che la proposta di concordato contempli forme di
riorganizzazione del finanziamento dell’impresa ascrivibili al novero delle operazioni
straordinarie, fra le quali non è dubbio che si collochino trasformazioni, fusioni,
scissioni e aumenti di capitale. In queste vicende, pertanto, oltre ai numerosi profili
problematici concernenti la definizione del procedimento di deliberazione di tali
operazioni, appare pienamente legittimo sollevare l’ulteriore interrogativo sulla
applicabilità delle diverse figure di opposizione dei creditori, la cui soluzione è resa
particolarmente incerta dal rilievo che il procedimento di approvazione e omologazione
dei concordati contempla già, di per sé, numerosi istituti funzionali alla protezione
dell’interesse (comune a ogni creditore) alla migliore soddisfazione della proprie
pretese.
Sebbene il problema non sia stato oggetto di particolari approfondimenti, né
constino pronunce giurisprudenziali, si registra una tendenza favorevole a ritenere
l’istituto civilistico in discorso assorbito dagli altri rimedi a tutela dei crediti
specificamente accordati dalla legge fallimentare nell’ambito della disciplina dei
concordati; e a corroborare tale conclusione si richiama talora il disposto dell’art. 2503bis, comma 1, c.c., che preclude l’opposizione dei creditori alla fusione (e, in virtù del
rinvio operato dall’art. 2506-ter c.c., alla scissione) ai possessori di obbligazioni qualora
essa sia stata approvata dall’assemblea degli obbligazionisti: si rileva, infatti, che
similmente alla vicenda da ultimo richiamata, ove la tutela degli interessi comuni della
categoria è assegnata a un’organizzazione interna tale da fondare e giustificare la scelta
di sacrificare la volontà individuale, così pure la soggezione dell’impresa alla procedura
E cfr., per tutti, C. MONTAGNANI, sub art. 146, Commentario alla legge fallimentare, diretto da C. Cavallini, III,
Milano, 2010, p. 225, spec. p. 240.
194 Cfr. F. GUERRERA e M. MALTONI, Concordati cit., p. 88.
193
54
concorsuale avrebbe come effetto, fra l’altro, l’imposizione ai creditori di una
comunanza di interessi e la creazione di un’organizzazione per la soluzione dei conflitti
d’interesse, tali per cui una volta approvata la proposta di concordato sarebbe esclusa la
possibilità di autonoma opposizione all’operazione straordinaria eventualmente
prevista195.
Il parallelo con la disciplina degli obbligazionisti, però, rischia di essere
fuorviante, sia perché la vicenda organizzativa che origina dall’emissione delle
obbligazioni ha antecedenti non coincidenti con quelli che fondano la “comunità
accidentale”196 dei creditori nelle procedure di concordato, sia perché sembra indurre a
ritenere che in tali circostanze la tutela collettiva sia in ogni caso preferita a quella
individuale: laddove, in realtà, nel concordato convivono rimedi individuali e collettivi.
E a tacere del fatto, poi, che nel caso della fusione e della scissione, la stessa tutela
individuale viene meno tout court197 (a prescindere, cioè, dalla sua sostituzione con
strumenti collettivi) nel caso in cui la relazione degli esperti sul relativo progetto,
disciplinata nell’art. 2501-sexies c.c., sia redatta da un’unica società di revisione la
quale asseveri, sotto la propria responsabilità, che “la situazione patrimoniale e
finanziaria delle società partecipanti alla fusione rende non necessarie garanzie a tutela
dei suddetti creditori” (art. 2503 c.c.).
La condivisibile prospettiva di ritenere non applicabili ai casi in discorso le
discipline concernenti l’opposizione dei creditori deve essere spiegata, allora,
muovendo dal disvelamento del loro significato funzionale: si deve osservare, in questo
senso, che di là da alcune differenze che si riscontrano nelle discipline dettate dal codice
civile, le opposizioni dei creditori risultano tutte espressione di un medesimo istituto
giuridico, destinato a presidiare, per il tramite di forme di tutela “reali”, la garanzia
patrimoniale dei creditori198, a fronte dell’adozione, da parte della società, di talune
decisioni organizzative che siano anche soltanto “artificialmente” idonee a
pregiudicarla. Il che, vale la pena di segnalare, si spiega in ragione della peculiarità di
siffatte operazioni, tipiche di figure metaindividuali d’imputazione di situazioni
giuridiche, e per la considerazione necessariamente unitaria della garanzia patrimoniale
quando abbia a oggetto un complesso patrimoniale destinato all’esercizio dell’impresa.
Si tratta, infatti, in ogni caso, di verificare, con giudizio necessariamente prognostico, se
il nuovo quadro organizzativo consenta o meno alla società di adempiere regolarmente
alle proprie obbligazioni.
Ciò detto, non si può far a meno di rilevare che nell’ambito delle vicende
concordatarie il tema della verifica al pregiudizio alla garanzia patrimoniale sia superato
non solo sostanzialmente, ma anche dal punto di vista giuridico, da un duplice tipo di
problemi: innanzitutto, quello concernente la c.d. ristrutturazione dei debiti, vale a dire
la ridefinizione del passivo gravante sull’impresa societaria; in secondo luogo, quello
riguardante l’effettiva soddisfazione dei crediti, come eventualmente rideterminati per
effetto del piano concordatario. A questi due piani, almeno teoricamente distinti, la
Cfr. F. GUERRERA e M. MALTONI, Concordati cit., p. 87 s., seguiti da G. PALMIERI, Operazioni cit., p. 1098.
Cfr. F. GUERRERA e M. MALTONI, Concordati cit., p. 88.
197 Di “disconoscimento della spettanza del relativo potere” di opposizione discutono G. FERRI jr e G.
GUIZZI, Il progetto di fusione e i documenti preparatori. Decisione di fusione e tutela dei creditori, in Il nuovo diritto delle
società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, 4, Torino, 2006, p. 229 ss., spec. p. 261 s.
198 Cfr., C. SANTAGATA, Le fusioni, in Tratt. soc. per az., diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 7**, tomo 1,
2004, p. 518 ss., e G. FERRI jr e G. GUIZZI, Il progetto di fusione e i documenti preparatori. Decisione di fusione e tutela
dei creditori, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, 4, Torino, 2006, p. 229 ss.,
spec. p. 259 ss.
195
196
55
dottrina e la giurisprudenza si rivolgono con il rinvio alla valutazione della convenienza
e della fattibilità del piano.
È chiaro, infatti, che nella crisi dell’impresa si manifesta una disfunzione della
garanzia patrimoniale: ragion per cui non è più questione di verificarne l’efficienza
(che, del resto, la domanda di ammissione alla procedura e, vieppiù, la procedura
fallimentare avviata denunziano perduta) quanto di definire un nuovo assetto del
passivo e di indicare le risorse, se del caso rivenienti dal flusso di ricchezza generato da
una nuova organizzazione dell’impresa, idonee a consentirne la soddisfazione.
In secondo luogo, le valutazioni di convenienza e, per quanto qui più
specificatamente interessa, di fattibilità, a differenza delle opposizioni dei creditori,
implicano una valutazione unitaria sul piano concordatario, nel senso che il giudizio
sull’uno e sull’altro dei profili riguardano la proposta nella sua interezza e non i singoli
interventi riorganizzativi in essa previsti: il che renderebbe l’eventuale concorrente
opposizione dei creditori non solo ridondante, ma anche problematica, in particolare nel
caso in cui il tribunale fallimentare omologhi il concordato e il giudice dell’opposizione,
invece, accolga l’opposizione e per l’effetto impedisca il compimento del programmato
atto di riorganizzazione dell’impresa, aprendo verosimilmente la strada alla risoluzione
dell’accordo, in un momento in cui, però, potrebbero già essersi creati affidamenti in
capo ai terzi199.
Pertanto, di là dal problema, tuttora vivacemente dibattuto, in ordine ai confini
fra il sindacato sulla convenienza e sulla fattibilità del concordato, e, prima ancora, sulla
relativa competenza, che neppure il recente intervento delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione sembra aver risolto in termini convincenti200, e che appare, in definitiva,
riconducibile alla precisazione degli ambiti individuali e collettivi rimessi ai creditori201,
si deve ritenere che il rimedio dell’opposizione dei creditori sia destinato a essere
assorbito dagli altri strumenti procedimentali che presidiano gli interessi dei creditori
nell’ambito del concordato, in ossequio al principio di specialità202 della disciplina
concorsuale.
Questa conclusione vale sia per l’ipotesi in cui l’operazione straordinaria si
perfezioni con l’omologazione del concordato, sia nel caso in cui sia prevista nel tempo
successivo alla conclusione della procedura: a condizione, in vero, che costituisca parte
integrante del piano di concordato e che, quindi, riguardo a essa si siano potute
compiere le predette valutazioni di convenienza e di fattibilità. Del resto, in questo
senso induce il rilievo che le opposizioni di cui finora si è discorso non competono, di
regola, ai creditori tout court, ma soltanto a coloro che vantino pretese verso la società
anteriori all’iscrizione o alla pubblicazione del progetto di fusione o scissione (art. 2503
c.c.) e, deve ritenersi203, della pubblicazione dell’atto di trasformazione: similmente, per
Sul problema della stabilità delle operazioni straordinarie e, in particolare, della fusione e della scissione,
all’esito degli adempimenti pubblicitari cfr., fra gli altri, G. PALMIERI, Operazioni cit., p. 1098, che opta per la
relativa intangibilità, nonostante l’annullamento o la risoluzione del concordato; F. GUERRERA, Le soluzioni
cit., p. 187.
200 Ci si riferisce alla recente Cass. Ss.Uu., 23 gennaio 2013, n. 1521, annotata da G. TERRANOVA, La fattibilità
del concordato, in Riv. dir. comm., 2013, II, p. 188 ss., ove anche ultt. riff. bibll.
201 Per l’assegnazione anche a singoli interessati del potere di opporsi all’omologazione del concordato
denunciandone la non fattibilità cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 303 e p. 380; nel
medesimo senso F. GUERRERA, Le soluzioni negoziali, in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, II ed., Milano,
2013, p. 133 ss., spec. p. 178 ss.
202 Sul quale si veda A. PACIELLO, L’art. 2499 cit., p. 44.
203 Cfr., per tutti, M. MALTONI, sub art. 2500-novies, in N. ABRIANI e M. STELLA RICHTER jr, Codice commentato
delle società, t. II, Torino, 2010, p. 2286 ss., spec. p. 2288.
199
56
il caso dei concordati, i rimedi procedimentali ivi disciplinati si rivolgono a chi ha
finanziato in precedenza l’impresa in crisi, non anche a chi lo abbia fatto in un momento
successivo, quando già il processo riorganizzativo era stato programmato, ancorché non
compiutamente realizzato.
La prospettiva “globale” che si è appena suggerita consente di sciogliere anche
il nodo concernente la possibilità per i soci dissenzienti dall’operazione di recedere
dalla società: infatti, la sicura funzionalizzazione delle operazioni straordinarie alla
ristrutturazione del debito e alla soddisfazione dei crediti sembra escludere la
possibilità per i dissenzienti non soltanto di ricevere la liquidazione della relativa quota
(per le ragioni che si segnaleranno più avanti) ma, più radicalmente, di recedere dalla
società, degradando in tal modo la tutela individuale altrimenti consentita al singolo a
vantaggio dell’interesse collettivo alla sistemazione della crisi dell’impresa204; del resto,
in questo caso, il fatto che in astratto potrebbe dar luogo al recesso non è deliberato in
via autonoma dalla società (come è per le ipotesi di recesso ex art. 2437 c.c.), ma è il
risultato di un’operazione diversa e più ampia. E, d’altra parte, questa conclusione
sembra coerente al rilievo, d’ordine sostanziale, che, di là da ipotesi marginali, all’esito
del concordato le partecipazioni della società saranno verosimilmente assegnate ai
creditori o a nuovi investitori, entrambe categorie rispetto alle quali la possibilità di
disinvestimento – cui il recesso è funzionalmente orientato – appare discutibile: infatti,
a prescindere dal rilievo che normalmente sono destinati a divenire soci dopo il
compimento (o, comunque, la programmazione) del fatto che astrattamente legittima il
recesso, rispetto al quale, allora, non possono dirsi formalmente dissenzienti, per i
creditori il recesso si risolverebbe nell’opportunità di monetizzare quanto ricevuto in
soddisfazione dei crediti, di fatto sottraendosi, almeno parzialmente (cioè sul quomodo,
ancorché non sul quantum) al vincolo imposto a tutti i creditori dall’approvazione a
maggioranza della proposta concordataria; per i nuovi investitori, invece, esso
risulterebbe contraddittorio rispetto alla scelta di finanziare la proposta (globalmente
intesa) di concordato.
29. Nel corso della procedura fallimentare, il compimento di operazioni straordinarie
resta assegnato alla competenza funzionale degli organi della società 205; tuttavia,
trattandosi di decisioni che, per il loro naturale rilievo sull’organizzazione della società,
possono incidere anche sulla disciplina della responsabilità patrimoniale, si suole
ritenerle consentite nella misura in cui non siano incompatibili con le finalità o lo stato
della procedura, assegnando in tal modo valore generale206 all’espressione adoperata dal
legislatore per la trasformazione nell’art. 2499 c.c., e salvo rilevare che la fusione e la
scissione, a norma rispettivamente degli artt. 2501 e 2506 c.c., non sono consentite a
società in liquidazione che abbiano iniziato la distribuzione dell’attivo.
Assecondando, per tal via, un’impostazione da altri autorevolmente suggerita per il caso del recesso da
s.p.a. in ipotesi di fusione, che importi incidentalmente anche alcune variazioni rilevanti ai sensi della
disciplina del recesso (cfr. G. FERRI, Le società cit., p. 986 s.), peraltro recentemente rivalutata (cfr. G. FERRI jr
e G. GUIZZI, Il progetto cit., p. 238).
205 Cfr. D.U. SANTOSUOSSO, sub art. 2499, in Società di capitali. Commentario a cura di G. Niccolini e A. Stagno
d’Alcontres, III, Napoli, 2004, p. 1905 ss., spec. p. 1906; C. MONTAGNANI, sub art. 146 cit., p. 241; G.
PALMIERI, Operazioni straordinarie «corporative» e procedure concorsuali: note sistematiche e applicative, in Fall., 2009, p.
1092 ss., spec. p. 1097.
206 Cfr., in tal senso, A. NIGRO, Diritto societario e procedure concorsuali, in Il nuovo diritto delle società. Liber
amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, 1, Torino, 2006, p. 175 ss., spec. p.
192; D.U. SANTOSUOSSO, sub art. 2499 cit., p. 1907; G. PALMIERI, Operazioni cit., p. 1095.
204
57
In vero, nella maggior parte delle ipotesi l’adozione di una tale deliberazione
sembra destinata ad assecondare gli indirizzi provenienti dal curatore fallimentare 207 e,
più in generale, dai c.d. organi della procedura, per lo più in una prospettiva di
agevolazione delle fasi concorsuali e di alleggerimento dei pesi finanziari gravanti sulla
società fallita (si pensi, esemplificando, alla c.d. trasformazione liquidativa208): in questi
casi la coerenza dell’operazione è in certo qual modo preventivamente “certificata”
dagli organi della procedura. Tuttavia, sia nelle fattispecie da ultimo ricordate sia nelle
ipotesi in cui la deliberazione discenda invece dall’autonoma iniziativa degli organi
sociali, l’opposizione dei creditori, apparentemente, potrebbe rappresentare un efficace
presidio a tutela dell’interesse di questi ultimi alla massimizzazione del dividendo
fallimentare. Si deve però ricordare che, come per il caso dei concordati, anche (e, anzi,
vieppiù) nel fallimento, l’opposizione dei creditori, nella misura in cui è rivolta a
verificare la non incidenza negativa dell’operazione deliberata sulla garanzia
patrimoniale, appare scarsamente significativa in un momento nel quale la dichiarazione
d’insolvenza ne ha accertato la disfunzione.
In altre parole, neppure in questo caso è più il momento di porsi un problema
di conservazione della garanzia patrimoniale ma, piuttosto, di interrogarsi sulla
coerenza dell’operazione straordinaria con le finalità e lo stato della procedura. Al
riguardo, per quanto sia diffuso in dottrina il convincimento che la compatibilità delle
operazioni straordinarie, come pure di ogni modifica organizzativa della società, con le
finalità e lo stato della procedura sia rimessa agli organi della procedura, non si
rintraccia nella disciplina positiva alcuno strumento attraverso il quale esercitare un
siffatto sindacato se non ricorrendo alle regole di validità delle deliberazioni; e non è
dubbio, in questo senso, che le predette condizioni generali poste dall’art. 2499 c.c. altro
non rappresentino che un limite alle competenze funzionali rimesse ai soci, destinato ad
incidere, verosimilmente, più che sulla legittimità del procedimento di adozione della
deliberazione, sul relativo contenuto, determinandone, se del caso, la nullità per illiceità
dell’oggetto209.
Il rilievo che la legge fallimentare non impedisca il compimento di operazioni
straordinarie e, più ampiamente, di interventi di modificazione dell’organizzazione della
società – pendente il fallimento – ma neppure si preoccupi di dettare, al riguardo, alcuna
disciplina peculiare210, suggerisce allora di dare applicazione alla corrispondenti norme
dettate dal codice civile211, le quali, è appena il caso di notare, legittimando all’azione
Cfr., per un cenno, C. MOSCA, sub art. 2499, in L.A. BIANCHI (a cura di), Trasformazione – Fusione – Scissione,
nel Commentario alla riforma delle società diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi e M. Notario, Milano,
2008, p. 29 ss., spec. p. 50.
208 Cfr. G. CABRAS, Le trasformazioni cit., p. 109 s.; in giurisprudenza v. Trib. Cagliari 20.7.1988, in Impresa,
1989, 1252, secondo il quale “l’assemblea straordinaria di una società per azioni sottoposta alla procedura
dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi può deliberare il trasferimento della sede
sociale e la trasformazione in società a responsabilità limitata”, nonché App. Trieste 8.11.1986, in Foro it.,
1987, I, 229, che ha statuito che “è omologabile la deliberazione con la quale l’assemblea di società per azioni
in liquidazione abbia deciso la trasformazione in società a responsabilità limitata”. Si leggano, però, i dubbi in
ordine a tali operazioni di C. MONTAGNANI, sub art. 2499, in M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La
riforma delle società cit., III, p. 357 s., e di A. PACIELLO, L’art. 2499 c.c. cit., p. 44 s.
209 Cfr., in tal senso, C. MONTAGNANI, sub art. 146 cit., p. 243 ss.
210 Ma si veda il tentativo di C. MOSCA, sub art. 2499 cit., p. 50 ss., di rintracciare fra i poteri degli organi della
procedura una disciplina della valutazione della compatibilità della trasformazione con lo stato e le finalità
della procedura, nonché il cenno di D.U. SANTOSUOSSO, sub art. 2499 cit., 1906 s.
211 Per l’osservazione che “fallimento e società rappresentano discipline oggettive dell’impresa e costituiscono,
quindi, segmenti (potenzialmente) concorrenti” cfr. A. PACIELLO, L’art. 2499 cit., p. 44.
207
58
“chiunque vi abbia interesse” (artt. 2379 e 2479-ter c.c.), rappresentano un valido
rimedio anche per ciascuno dei creditori.
Maggiormente problematico, piuttosto, è l’interrogativo se il socio che non ha
concorso all’adozione di tali deliberazioni conservi anche in ambito concorsuale il
diritto, ove previsto, a recedere dalla società, che è alimentato dal rilievo che la
liquidazione della quota di partecipazione del recedente sembra doversi ritenere esclusa
dalla contestuale procedura fallimentare. Al riguardo, poiché la dottrina non sembra
rintracciare indicazioni normative avverse al riconoscimento del recesso a favore del
socio dissenziente, si discute se l’eventuale esercizio di tale diritto impedisca il
perfezionamento della deliberazione che vi ha dato luogo ovvero, più semplicemente,
sospenda la fase della liquidazione della quota212. Ancora una volta, l’opinabilità della
materia impedisce di offrire una soluzione sicura; fra le due opzioni, tuttavia, la seconda
appare preferibile213: infatti, mentre il riconoscimento di una sorta di “diritto di veto” a
favore del socio dissenziente sembra scontrarsi sia con il crescente rilievo che il
principio maggioritario assume nella disciplina dell’organizzazione societaria sia con gli
interessi specifici sottesi alla procedura fallimentare, la sospensione della liquidazione
della quota del recedente (beninteso: nei limiti in cui essa debba gravare sul patrimonio
sociale) – che può rintracciare negli artt. 2282 e 2491, comma 2, c.c. un valido referente
normativo214 – vale a bilanciare adeguatamente l’interesse del socio a recedere con
quello dei creditori a essere preferiti nella soddisfazione delle loro pretese.
Cfr., per le due opzioni, C. MOSCA, sub art. 2499 cit., p. 52 s.
In termini simili, sia pure con riguardo alla liquidazione della società, si veda C. MONTAGNANI,
Deliberazioni assembleari e procedure liquidatorie, Milano, 1999, pp. 64 ss., secondo la quale il diritto di recesso, pur
potendo “essere neutralizzato o solo condizionato nei tempi e nei modi del rimborso” dallo scioglimento
della società, non può comunque considerarsi incompatibile con lo stato di liquidazione; nel medesimo senso,
con riguardo sia alla trasformazione nella fase di liquidazione, sia a quella in caso di società sottoposta a
procedura concorsuale, G. CABRAS, Le trasformazioni cit., p. 211 s., che ritiene il recesso immediatamente
efficace (“l’esercizio del recesso, però, non è vano, poiché esonera il socio receduto – ovviamente solo nei
confronti degli altri soci e non dei creditori – dai rischi derivanti dall’attività sociale svolta, sia pure nei limiti
ammessi dalla legge, nella fase liquidativa”) ma “il credito del socio receduto per la liquidazione della sua
quota è postergato rispetto ai crediti vantati da terzi verso la società” (ivi, p. 212); D. GALLETTI, Gestioni
straordinarie e poteri modificativi dell’organizzazione societaria: il problema del recesso, in Giur. comm., 1998, II, p. 114 ss.,
147 ss., ove ultt. riff., nonché, più di recente e, soprattutto, nel vigore del sistema novellato, M. MALTONI, La
disciplina generale della trasformazione, in M. MALTONI e F. TASSINARI, La trasformazione delle società, II ed., Milano,
2011, p. 17 s., e C. MOSCA, sub art. 2499 cit., p. 52; si leggano però le perplessità di A. PACIELLO, L’art. 2499
cit., p. 46, nel testo e a nota 49, che propende per la disapplicazione delle norme relative al recesso, anche
sulla base del rilievo che il rinvio dell’efficacia del recesso alla conclusione della procedura concorsuale, di
fatto affermando implicitamente la persistenza della qualità di socio, “disconosce l’essenza stessa del rimedio
che consiste nello sterilizzare, per chi lo esercita, le conseguenze della decisione assembleare”.
214 Per un medesimo ordine di argomentazioni cfr. G. CABRAS, Le trasformazioni cit., p. 212.
212
213
Scarica