www.judicium.it MASSIMO ROSSI Capitale di rischio e capitale di credito nel fallimento delle società SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Versamenti in conto capitale e apporti dei soci – 3. Finanziamenti dei soci. – 4. Segue: finanziamenti dei soci nella società a responsabilità limitata: la disciplina introdotta con l’art. 2467 c.c. – 5. Segue: trattamento concorsuale dei crediti postergati. – 6. Segue: crediti postergati e compensazione ex art. 56 l.f. – 7. Finanziamenti soci e prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti: l’art. 182-quater l.f…. – 8. Segue: …e l’art. 182-quinquies l.f. – 9. Segue: rilievo procedimentale dei crediti predecubili ex artt. 182-quater e 182-quinquies l.f. – 10. Segue: cenni sul regime giuridico dei crediti postergati nei concordati preventivo e fallimentare. – 11. Trattamento concorsuale dei versamenti a fondo perduto... – 12. Segue: …e dei versamenti in conto capitale. – 13. I crediti del socio illimitatamente responsabile discendenti dalla soddisfazione di pretese verso la società. – 14. I creditori particolari nelle società azionarie con patrimoni destinati: la prospettiva prevalente… – 15. Segue: …la soluzione preferibile. – 16. Segue: alcuni esiti operativi. – 17. Debito da conferimento e compensazione. – 18. I titolari di obbligazioni e altri titoli di debito: profili generali – 19. L’organizzazione degli obbligazionisti nella crisi dell’impresa. – 20. Segue: istanza di fallimento. – 21. Segue: insinuazione al passivo. – 22. Segue: approvazione del concordato. – 23. Segue: determinazione del valore d’insinuazione. – 24. Segue: disciplina dei premi. – 25. Segue: obbligazioni convertibili. – 26. Obbligazioni, strumenti finanziari e titoli di debito. – 27. Tutele individuali e tutele collettive: il diritto di opposizione e il diritto di recesso. – 28. Segue: nel concordato… - 29. Segue: …e nel fallimento. 1. La forma societaria esprime, come noto, non tanto il soggetto cui imputare l’attività, prima ancora che i risultati, dell’impresa, bensì la disciplina che ne regola il finanziamento1: ciò richiede che si precisi quali, fra le diverse specie che quest’ultimo concretamente assume, assurgano a pretese creditorie e rilevino nel contesto del concorso fallimentare che dalla crisi di tale finanziamento origina. Infatti, se il finanziamento dell’impresa sociale – del quale l’insolvenza e, più ampiamente, la crisi esprimono peculiari disfunzioni – si presta a essere considerato, dal punto di vista dell’attività organizzata, in termini unitari e globali, tali cioè da includere sia i valori formalmente destinati dai soci all’esercizio dell’attività in termini di conferimento – che vanno a formare il capitale sociale –, sia il complesso delle risorse che confliuscono all’impresa in forme diverse, a partire da quella del credito, è solo alle seconde che le procedure di soddisfazione collettiva riservano rilievo. Ciò perché, quanto al capitale sociale e, più ampiamente, al patrimonio netto – valori riservati, come anticipato, ai soci – la disciplina concorsuale comporta, pacificamente, l’esclusione di questi ultimi dal novero dei soggetti cui è consentito insinuarsi al passivo della società fallita o partecipare all’approvazione del concordato, quale corollario della tesi che limitatamente a tali valori i soci vantino una mera aspettativa residuale, destinata ad essere soddisfatta, rispettivamente, nella fase “attiva” Cfr. G. FERRI jr, Fattispecie societaria e strumenti finanziari partecipativi, in C. MONTAGNANI (a cura di), Profili patrimoniali e finanziari della riforma, Milano, 2003, p. 67 ss., spec. p. 69 ss., B. LIBONATI, Introduzione, in AA.VV., Diritto delle società. Manuale breve, I ed., Milano, 2004, p. XXIX ss., spec. p. XIII, e P. FERRO-LUZZI, Riflessioni sulla riforma; I: la società per azioni come organizzazione del finanziamento d’impresa, in Riv. dir. comm., 2005, I, p. 673 ss. 1 2 della società, entro i limiti di quanto disposto dalla disciplina della partecipazione agli utili e della distribuzione delle riserve, nonché delle riduzioni c.d. reali del capitale sociale, e nelle fasi di liquidazione o di crisi della società, all’esito (vale a dire, al di fuori) delle rispettive vicende, e comunque soltanto dopo che siano stati integralmente soddisfatti i creditori sociali2. 2. Tuttavia, se dal punto di vista teorico è netta la distinzione fra le pretese (eventuali e residuali) dei soci e quelle (attuali) dei creditori, la natura formale e, perciò, strumentale dell’autonomia giuridica riconosciuta alle società – a prescindere dall’assegnazione della personalità giuridica, limitata alla sola classe delle società di capitali – ha da sempre consentito la configurabilità di rapporti negoziali fra i soci e la società cui costoro partecipino, distinti dal rapporto discendente dalla partecipazione al capitale sociale e tendenzialmente ascrivibili sia a contratti di scambio, sia a negozi di finanziamento o, più genericamente, ad apporti di valori alla società in forme diverse dal conferimento. L’attenzione della dottrina e della giurisprudenza si è appuntata proprio su questa seconda serie di vicende: infatti, la circostanza che i soci scelgano di far confluire risorse alla società attraverso modalità distinte da un formale aumento di capitale solleva il dubbio che tale operatività sia ispirata dall’intento di sottrarre l’ulteriore impiego di risorse al rischio di residualità che è tipico dell’investimento in forma di conferimento, ponendosi tali valori sul medesimo piano dei crediti sociali3 ma, nel contempo, conservando ai soci il controllo dell’iniziativa imprenditoriale mediante l’esercizio dei poteri amministrativi di norma connessi alla partecipazione sociale. In particolare, il rilievo che il socio, in virtù sia della sua conoscenza della reale situazione dell’impresa sociale, sia della contestuale partecipazione al capitale sociale e, dunque, agli esiti economici dell’attività in termini almeno teoricamente illimitati (o, comunque, senz’altro non limitati all’eventuale remunerazione connessa alla prestazione del c.d. capitale di credito), possa ottenere dall’apporto atipico di risorse vantaggi pressoché equivalenti a quelli di un conferimento, senza peraltro far soggiacere quei valori al corrispondente regime di residualità, ha indotto a interrogarsi sui limiti di In tal senso, ex multis, cfr. F. DI SABATO, Capitale sociale e responsabilità interna nelle società persone, Milano, 2005 (rist. inal. dell’edizione del 1967), p. 290 ss. e p. 304 ss.; A. BONSIGNORI, Gli aspetti processuali, in F. GALGANO e A. BONSIGNORI, Il fallimento delle società, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da F. Galgano, X, Padova, 1988, p. 267; S. SATTA, Diritto fallimentare, II ed. aggiornata e ampliata da R. Vaccarella e F.P. Luiso, Padova, 1990, p. 434; A. NIGRO, La società per azioni nelle procedure concorsuali, in Tratt. soc. per az. diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 9, Torino, 1993, p. 209 ss., spec. p. 346 s.; M.S. SPOLIDORO, voce Capitale sociale, in Enc. dir., Agg. IV, 2000, p. 195 ss., spec. p. 208 ss.; G.B. PORTALE, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Tratt. soc. per az. diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 1**, Torino, 2004, p. 3 ss., spec. p. 14 s; M. SCIUTO, La classificazione dei creditori nel concordato preventivo (un’analisi comparativistica), in Giur. comm., 2007, I, p. 572; A. PACIELLO, La funzione normativa del capitale nominale, in RDS, 2010, p. 2 ss., spec. p. 10 s.; ciò nondimeno, si è talora qualificato il socio anche come creditore della società per la liquidazione del suo apporto da conferimento, in virtù di una sorta di credito «postergato» che, però, dovrebbe oggi essere a rigore ritenuto di secondo livello, in considerazione del fatto che il primo livello è quello che spetta ai soci ex artt. 2467 e 2497-quinquies c.c.: per la risalente opinione si veda E. SIMONETTO, Responsabilità e garanzia nel diritto delle società, Padova, 1959, spec. p. 115 ss. e p. 311 ss., nonché, più recentemente, G. COTTINO, Le società. Diritto commerciale, v. I, t. II, IV ed., Padova, 1999, p. 482 s. 3 Cfr., in tal senso, C. ANGELICI, voce Società per azioni e società in accomandita per azioni, in Enc. dir., Milano, 1990, p. 977 ss., spec. p. 1022. 2 3 quella alterità formale della società cui prima si accennava e che è alla base del problema riferito4. 3. La prassi societaria presenta vicende fra loro diversificate che, almeno sino all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 2467 c.c., concernente i finanziamenti dei soci nella s.r.l., venivano dai più ascritte entro la nozione di capitale in senso “materiale” o “funzionale” e concettualizzate nella categoria del c.d. “quasi capitale”5. Vengono in considerazione, in primo luogo, quegli apporti qualificati dagli stessi soci nei termini di “versamenti in conto capitale”, i quali, per quanto estranei alla formale imputazione a capitale sociale, tuttavia a quella vicenda sembrano ispirati, orientando l’interprete a rintracciare nelle regole del patrimonio netto la relativa disciplina: è questo, infatti, il consolidato orientamento della giurisprudenza italiana che, ammettendo da tempo la liceità di tali apporti in una prospettiva di favor per l’interesse alla patrimonializzazione della società6, ne predica la rilevazione contabile nell’ambito delle poste del patrimonio netto e, più in particolare, nel novero delle riserve disponibili, sulla base di un’opera di qualificazione dei predetti versamenti fondata sull’indagine dell’effettiva volontà delle parti7. Alla medesima categoria talora apparterrebbero, secondo alcuni, anche gli apporti effettuati dai soci in forma di finanziamento con obbligo di restituzione, sulla base del convincimento che sarebbe vigente nell’ordinamento un principio di corretto finanziamento della società e, più in particolare, di adeguata dotazione patrimoniale dell’impresa sotto forma di capitale sociale8; sicché, l’apporto di risorse in forme diverse dal conferimento, in situazioni di manifesta insufficienza del capitale sociale rispetto all’oggetto dell’impresa9, dovrebbe essere “riqualificato” – al pari dei c.d. versamenti in conto capitale ma, in tal caso, anche contro l’intenzione dei soci manifestata nel negozio di finanziamento – in termini di fatto coincidenti con la disciplina del patrimonio netto10. Sul tema, in generale, cfr. A. PAVONE LA ROSA, La teoria dell’imprenditore occulto nell’opera di Walter Bigiavi, in Riv. dir. civ., 1967, I, p. 623 ss., spec. p. 671 ss.; G.B. PORTALE, Capitale sociale e conferimenti nella società per azioni, in Riv. soc., 1970, p. 33 ss.; ID., Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Riv. soc., 1991, 3 ss., nonché, più recentemente, ID., Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Tratt. soc. per az. diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 1**, Torino, 2004, p. 3 ss.; P. ABBADESSA, Il problema dei prestiti dei soci nelle società di capitali: una proposta di soluzione, in Giur. comm., 1988, I, p. 497 ss.; C. ANGELICI, Società per azioni cit., p. 1020 ss.; ID., Appunti sull’art. 2346 c.c., con particolare riguardo al conferimento mediante compensazione, in Giur. comm., 1988, I, p. 175 ss. 5 Sul quale si veda M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali” dei soci e tutela del patrimonio nelle società di capitali, Milano, 2005, p. 118 ss., ove ultt. riff. bibl. 6 Cfr. M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali” cit., p. 49. 7 Per il risalente e consolidato orientamento cfr. Cass. 3 dicembre 1980, n. 6315 (in Giur. comm., 1981, II, p. 895 ss., con nota di P. FERRO-LUZZI, I «versamenti in conto capitale», e in Riv. dir. comm., 1981, II, p. 239 ss., con nota di F. CHIOMENTI, Ancora sugli apporti al capitale di rischio). 8 Cfr. G.B. PORTALE, Capitale sociale e società per azioni cit., p. 41 ss.; contra, M. STELLA RICHTER jr, La costituzione delle società di capitali, in AA. VV., La riforma delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, 1, Torino, 2006, p. 271 ss., spec. p. 286 s. 9 Il riferimento è alla c.d. “sottocapitalizzazione nominale”, che parte della dottrina intravede nel caso in cui i soci fissino un ammontare del capitale sociale manifestamente inadeguato, sopperendo al fabbisogno patrimoniale e finanziario della società mediante apporti non imputati a capitale, in qualsivoglia modo qualificati: cfr. G.B. PORTALE, Capitale sociale e società per azioni cit., p. 41 ss., nonché p. 143 ss. 10 E si vedano G.B. PORTALE, Capitale sociale e società per azioni cit., p. 143 ss., e P. ABBADESSA, Il problema dei prestiti cit., p. 509 ss. Questa prospettiva sembra confermata anche nel vigore dell’art. 2467 c.c.: rileva G.B. PORTALE, I «finanziamenti» dei soci cit., p. 679, che a mente del nuovo art. 2467 c.c. si avrebbe una 4 4 L’assimilazione ai conferimenti dei valori apportati dai soci sia in forma di versamenti in conto capitale, sia in quella di finanziamenti con obbligo di rimborso erogati in un momento di sottocapitalizzazione nominale della società, sembrerebbe indurre a negare a tali vicende qualsivoglia rilievo sia procedimentale sia, più significativamente, sostanziale in sede concorsuale. Ciò perché, a rigore, ai versamenti e agli apporti dei soci comunque denominati – diversi dai conferimenti – dovrebbe estendersi la disciplina concorsuale prevista per questi ultimi11, sebbene con effetti, paradossalmente, più stringenti di quanto è a dirsi per il rimborso del valore dei conferimenti. Infatti, in primo luogo, i versamenti dei soci sovente non risultano proporzionali alla quota di capitale sociale detenuta da ciascuno, sì che il principio secondo il quale i valori del patrimonio netto sono destinati ai soci in ragione della loro partecipazione sociale impedisce che il valore dei predetti apporti possa essere riservato a coloro che li abbiano effettivamente erogati. Tanto che, al fine di ovviare a questo problema, si è suggerito di iscrivere riserve “personalizzate” o “targate”, ossia destinate a essere distribuite non proporzionalmente a tutti i soci ma soltanto a quelli che le hanno originariamente apportate12. Una seconda “distorsione” discende, poi, dell’applicazione a tali versamenti della disciplina delle riserve disponibili, a motivo del fatto che le eventuali perdite incidono definitivamente sui relativi valori. Infatti, il progressivo deterioramento della situazione finanziaria e patrimoniale della società potrebbe erodere il patrimonio netto e determinare la perdita (definitiva) delle riserve e, segnatamente, di quelle in cui fosse stato medio tempore iscritto il valore degli apporti dei soci, mentre potrebbero residuare, ancorché solo parzialmente, valori soggetti alla disciplina del capitale sociale e dunque destinati a essere rimborsati agli azionisti, con esiti penalizzanti proprio per coloro, fra i soci, che – anche senza alcun vincolo di proporzionalità rispetto alla relativa partecipazione – abbiano effettuato finanziamenti alla società nella prospettiva di scongiurare o, addirittura, invertire gli esiti (comuni a tutti i partecipanti al capitale) di una crisi che comprometta le sorti dell’impresa sociale13. Né sembra ovviare a tale problema il suggerimento, comune alla giurisprudenza e a larga parte della dottrina, di applicare a tali valori la disciplina delle riserve da soprapprezzo: infatti, anch’esse sono destinate a essere incise dalle perdite, sia pure per ultime, prima che sia eroso il capitale sociale (art. 2424 c.c.)14. I problemi cui si è fatto cenno sono solo in parte risolti per effetto dell’introduzione del nuovo art. 2467 c.c.; se, infatti, quella norma esclude la riconduzione dei finanziamenti dei soci alla disciplina del patrimonio netto, residua il «riqualificazione forzata del prestito in conferimento (=capitale proprio)», ancorché, in punto di disciplina, la legge fonderebbe «due classi nel quadro del rimborso del capitale proprio». 11 Cfr., sia pure problematicamente, A. NIGRO, La società cit., p. 346 s. 12 Cfr. G.E. COLOMBO, Il bilancio d’esercizio, in Tratt. soc. per az. diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 7*, Torino, 1994, p. 23 ss., spec. p. 517; G. TANTINI, I versamenti dei soci nelle società, in Tratt. soc. per az. diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 1***, Torino, 2004, p. 745 ss., spec. p. 781; G.B. PORTALE, Appunti in tema di “versamenti in conto futuri aumenti di capitale” eseguiti da un solo socio, in Banca borsa e tit. di credito, 1995, I, p. 93 ss., spec. p. 97; più di recente, limitatamente ai versamenti in conto capitale, M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali” cit., p. 149 s., nel testo e a nota 172); ma sul tema si vedano i dubbi mossi da M.S. SPOLIDORO, voce Capitale sociale cit., p. 234. In giurisprudenza, fra le più recenti, cfr. Cass. 24 luglio 2007, n. 16393, in Società, 2009, 453 ss. 13 A meno che non si accolga la tesi di P. ABBADESSA, Il problema dei prestiti dei soci cit., p. 511 ss., che configura i versamenti in conto capitale come conferimento in godimento di denaro sui relativi valori. 14 Cfr. ancora Cass. 24 luglio 2007, n. 16393. 5 dubbio che essa trovi applicazione per la sola fattispecie per la quale è espressamente prevista. Ciò perché, per un verso, è discusso se il principio fissato nell’art. 2467 c.c. possa valere anche per i finanziamenti dei soci erogati nel contesto di società azionarie15 e, per altro verso, nella relativa fattispecie non sembrano risolversi completamente le vicende riconducibili ai versamenti in conto capitale, sui quali, pertanto, si dovrà più avanti ritornare (§§ 11 e 12). Nondimeno, è indubbio che è dall’art. 2467 c.c. che la riflessione deve prendere avvio. 4. L’art. 2467 c.c., introdotto in occasione della riforma delle società del 2003, dispone che il rimborso dei finanziamenti concessi in qualsiasi forma dai soci in favore della società “in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata […dall’impresa], risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”, sia postergato e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento, sia restituito. Deve rilevarsi, al riguardo, che l’introduzione di una fattispecie tipica di credito postergato se rappresenta l’esito del lungo dibattito che ha occupato la dottrina e la giurisprudenza sul tema dei versamenti in conto capitale, sotto una diversa luce sembra costituire, significativamente, una scelta di discontinuità16 rispetto alle conclusioni cui, sul punto, pervenivano la maggior parte degli autori e la giurisprudenza17. Il dibattito che ne è seguito, tuttavia, indotto forse anche dalla formulazione non perspicua dell’art. 2467 c.c.18, mostra di non esserne talvolta adeguatamente consapevole, con esiti particolarmente rilevanti anche sul tema che ci occupa. Nel senso che l’art. 2467 c.c. sia espressione di un principio generale in materia di finanziamento dei soci valevole per tutte le società capitalistiche, cfr. G.B. PORTALE, I «finanziamenti» dei soci cit., p. 681, seguito da A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, II ed., Bologna, 2012, p. 335; nonché le caute aperture di M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali” cit., p. 231 ss.; sulla possibilità di applicare analogicamente l’art. 2467 c.c. alle società per azioni quando «il suo concreto assetto di interessi si atteggia in termini “personalistici”» cfr. C. ANGELICI, da ultimo in Principi e problemi, nel Trattato di diritto civile e commerciale Cicu-Messineo, La società per azioni, I, Milano, 2012, p. 491 ss. In giurisprudenza cfr. Trib. Pistoia, 8 settembre 2008 (in Fall., 2009, p. 799 ss., con nota di L. PANZANI, Classi di creditori nel concordato preventivo e crediti postergati dei soci di società di capitali, e in Banca borsa e tit. di credito, 2009, II, p. 191 ss., con nota di G. BALP, Dell’applicazione dell’art. 2467 c.c. alla società per azioni). La possibilità di estendere analogicamente la disciplina dell’art. 2467 c.c. alla società per azioni viene in genere proposta limitatamente ai finanziamenti che provengano da soci la cui partecipazione esprima interessi anche imprenditoriali, idonei a tradursi in concrete decisioni organizzative, a motivo del rilievo, anche quantitativo, che tale partecipazione assume: argomento indotto dall’osservazione che è sul presupposto della istituzionale inerenza del socio di s.r.l. alla gestione della società che si spiega il rigoroso regime dei finanziamenti dei soci dettato dall’art. 2467 c.c. (cfr. G. TERRANOVA, sub art. 2467, in G. NICCOLINI, A. STAGNO D’ALCONTRES (a cura di), Società di capitali. Commentario, III, Napoli, 2004, p. 1449 ss., spec. p. 1476 s.; C. ANGELICI, Diligentia quam in suis e business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2006, I, p. 675 ss., spec. p. 682); nondimeno, va rilevato che nella s.r.l. il fatto che il socio sia, in concreto, estraneo al governo della società non sembra escludere l’applicazione dell’art. 2467 c.c. Sull’estensione dell’art. 2467 c.c. alle società di persone – problema in vero non particolarmente avvertito dalla dottrina, verosimilmente in ragione del peculiare regime di responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali – cfr. M. MAUGERI, Dalla struttura alla funzione della disciplina sui finanziamenti dei soci, in Riv. dir. comm., 2008, I, p. 133 ss., spec. p. 147 ss. 16 Lo rileva G. TERRANOVA, sub art. 2467 cit. p. 1449 ss. 17 Per il dibattito cfr. M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali” cit. 18 Sulla cui genesi cfr., fra gli altri, G.B. PORTALE, I «finanziamenti» dei soci nelle società di capitali, in Banca borsa tit. di cred., 2003, I, p. 663 ss., nel testo e a nota 1. 15 6 Infatti, malgrado il tenore letterale dell’art. 2467 c.c. possa indurre l’interprete a immaginare la forzata riqualificazione in conferimenti19 dei finanziamenti dei soci, larga parte della dottrina ha espresso la condivisibile opinione che tali pretese mantengano natura creditoria20, consistendo la postergazione nel rinvio del rimborso del valore del credito all’esito dell’integrale soddisfazione degli altri creditori sociali. Si consideri, del resto, che per quanto la norma sembri sottendere un giudizio di ragionevolezza21 del conferimento nell’ipotesi in cui, invece, le particolari condizioni in cui versi la società scoraggino (ossia, rendano irragionevole) il ricorso al credito, tuttavia, in tale situazione, neppure il conferimento risulta di per sé ragionevole: anzi, a rigore sembra esserlo senz’altro meno di un finanziamento, poiché, se il conferimento assegna al socio la possibilità di essere rimborsato dell’ammontare versato e di ricevere una remunerazione, sotto forma di partecipazione agli utili della società, solo ove non vi siano perdite, ossia soltanto se vi siano risorse sufficienti a soddisfare i creditori sociali, si fa difficoltà a individuare un interesse del socio a investire ulteriore capitale nella società quando questa versi nello stato di cui tratta l’art. 2467, comma 2, c.c., sostenendo che esso apra a guadagni potenzialmente illimitati, com’è tipico per le operazioni di investimento. Al contrario, si deve rilevare che la questione non è tanto quella di ricercare un comportamento socialmente tipico dal punto di vista del socio; piuttosto, muovendo dal rilievo che la ratio della norma è quella di offrire tutela alle ragioni dei creditori sociali rispetto a quelle dei finanziatori-soci in situazioni nelle quali va assottigliandosi la garanzia patrimoniale della società, il requisito della ragionevolezza può assumere un più preciso significato se valutato proprio nell’ottica dei creditori, rispetto ai quali soltanto il conferimento si presterebbe a essere ritenuto ragionevole, poiché il tentativo di salvaguardare il valore del patrimonio netto non sarebbe compiuto “a loro spese”. Il conferimento, però, rimane irragionevole per i soci: per questo è parimenti irragionevole che, nei rapporti fra i soci, il valore delle sovvenzioni fatte a mente dell’art. 2467 c.c. riceva lo stesso trattamento giuridico degli investimenti, sia nella In giurisprudenza, cfr. Trib. Firenze, 26 aprile 2010, in www.ilcaso.it. In tal senso cfr., fra gli altri, G. TERRANOVA, sub art. 2467 cit., p. 1457 s.; E. FAZZUTTI, sub art. 2467 c.c., in M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La riforma delle società, III, Torino, 2003, p. 48 ss., spec. p. 50; G. GUIZZI, Il passivo in AA. VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, p. 292; B. LIBONATI, Corso di diritto commerciale, Milano, 2009, p. 514 s.; N. SALANITRO, Profili sistematici della società a responsabilità limitata, Milano, 2005, p. 37; G. TANTINI, I versamenti dei soci cit., p. 798; U. TOMBARI, «Apporti spontanei» e «prestiti» dei soci nelle società di capitali, in AA. VV., Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, 1, Torino, 2006, p. 553 ss., spec. p. 562 s.; M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali” cit., p. 151, nonché, ID., Sul regime concorsuale dei finanziamenti soci, in Giur. comm., 2010, I, p. 805 ss., p. 806, nel testo e a nota 2; O. CAGNASSO, La società a responsabilità limitata in Tratt. dir. comm. diretto da G. Cottino, V, Padova, 2007, p. 108; A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 156 s. e 292 s.; A. PACIELLO, La funzione cit., p. 11, a nota 57; D. VATTERMOLI, Crediti subordinati e concorso tra creditori, Milano, 2012, p. 126 s.; C.F. GIAMPAOLINO, Profili fallimentari, in V. FICARI e C.F. GIAMPAOLINO, Profili fallimentari e tributari, nel Trattatto delle società a responsabilità limitata, diretto da C. Ibba e G. Marasà, VIII, Padova, 2012, p. 3 ss., spec. p. 78 s.; G. GUERRIERI, I finanziamenti dei soci, in La nuova società a responsabilità limitata, a cura di M. Bione, R. Guidotti e E. Pederzini, nel Tratt. dir. comm. e dir. pubbli. econ. diretto da F. Galgano, LXV, Padova, 2012, p. 59 ss., spec. p. 76 s. Contra G.B. PORTALE, Capitale sociale e società cit., p. 148 s., in nota 43-bis, nonché ID., I «finanziamenti» cit., p. 678 s.; A. IRACE, sub art. 2497-quinquies, in M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La riforma cit., p. 341 ss., spec. p. 342. 21 Sul criterio di ragionevolezza, in giurisprudenza, cfr. Trib. Milano 24 aprile 2007, in Giur. it., 2007, 2500, secondo il quale il criterio di ragionevolezza utilizzato dal legislatore per individuare i finanziamenti dei soci postergati comporta la necessità di tener conto della situazione della società al tempo del finanziamento confrontata con i comportamenti che nel mercato sarebbe ragionevole aspettarsi. 19 20 7 forma tipica del conferimento, sia nella forma atipica dei versamenti in conto capitale, come invece condurrebbe fatalmente a concludere la tesi della riqualificazione dei finanziamenti. Se così è, la ratio dell’art. 2467 c.c. non riposa, allora, nell’esigenza di allineare, sul piano formale, l’operazione di apporto a quanto essa tendeva a realizzare sul piano sostanziale, ossia un investimento di capitale di rischio, ma, più semplicemente – e in coerenza al dettato normativo – a orientare la libertà dei soci nella scelta delle forme attraverso le quali somministrare alla società i necessari mezzi economici. In linea di principio, non v’è alcuna regola che imponga un’adeguata dotazione di capitale proprio rispetto all’oggetto dell’impresa: i soci, quindi, sono liberi di scegliere attraverso quale forma apportare valori alla società; tuttavia, seguendo la stessa logica sottesa alla disciplina concorsuale che, in caso di insolvenza, esclude i soci dalle decisioni sull’organizzazione dell’impresa decotta, a motivo del rilievo che, essendo (tendenzialmente) perso il capitale proprio della società, soggetto a quel rischio tipico sono ormai le posizioni dei creditori, in una situazione quale quella appalesata ai sensi dell’art. 2467, comma 2, c.c., la legge, nel regolare il possibile conflitto fra soci e creditori, non si spinge sino a escludere i primi dalla determinazione dell’organizzazione dell’impresa, ma interviene per circoscriverne gli ambiti, in particolare sotto il profilo della disciplina del finanziamento, al fine di evitare che il costo di tali interventi possa essere sopportato anche dai creditori. È convincente concludere, allora, che il disposto del primo comma dell’art. 2467 c.c. istituisca un rapporto di priorità esclusivamente fra crediti appartenenti a classi distinte, nella neutralità della disciplina della destinazione del valore del patrimonio netto. D’altronde, l’utilizzo, da parte della legge, dell’espressione “finanziamenti” sembra senz’altro evocativo di una vicenda che, di là della veste formale che assume, si caratterizza per il fatto che il finanziatore, nel perseguimento di finalità di sovvenzione, effettua una prestazione senza ottenere contestualmente nulla dal finanziato e che, anzi, consiste proprio in una rinuncia (temporanea o definitiva) alla immediata esigibilità di una qualsiasi controprestazione, generando così in capo al sovvenuto la disponibilità di una concreta e specifica utilità22. 5. Pertanto, di là di ogni considerazione generale sul funzionamento della postergazione, sul quale non vi sono soluzioni condivise23, è senz’altro ragionevole ritenere i crediti discendenti da finanziamenti dei soci (con obbligo di rimborso: giacché per quelli a fondo perduto non si pongono, all’evidenza, problemi) siano ascrivibili al passivo dello stato patrimoniale e, dunque, in principio destinatari, quantomeno nelle fasi della liquidazione ordinaria e delle procedure concorsuali – ove pressoché La restituzione del valore della sovvenzione, come pure la sua remunerazione è non solo eventuale (si pensi ai finanziamenti a fondo perduto), ma anche marginale: cfr. G. FERRI jr, Investimento e conferimento, Milano, 2001, p. 465, seguito, di recente, in materia di finanziamenti dei soci ex art. 2467 c.c. da M. MAUGERI, Sul regime cit., p. 814 s. 23 Sul significato normativo della postergazione ex lege cfr., oltre ai contributi già citati, G. PRESTI, sub art. 2467, in P. BENAZZO e S. PATRIARCA, Codice commentato delle s.r.l., Torino, 2006, p. 98 ss.; D. SCANO, I finanziamenti dei soci nella s.r.l. e l’art. 2467 c.c., in Riv. dir. comm., 2003, I, p. 879 ss.; F. VASSALLI, Sottocapitalizzazione delle società e finanziamenti dei soci, in Riv. dir. impr., 2004, p. 267 ss.; A. ZOPPINI, La nuova disciplina dei finanziamenti dei soci nella società a responsabilità limitata e i prestiti provenienti da “terzi” (con particolare riguardo alle società fiduciarie), in Riv. dir. priv., 2004, p. 417 ss. 22 8 unanimemente la dottrina e la giurisprudenza ritengono operativo il principio di postergazione24 –, delle discipline ivi contemplate per la soddisfazione delle pretese creditorie che si appuntano sulla società. Sul piano della disciplina, ciò implica che i titolari di crediti subordinati risultano legittimati a insinuarsi al passivo25 e, prima ancora, a promuovere il fallimento della società26. Ovviamente, ai fini della postergazione non è rilevante chi (socio, ex socio o avente causa del socio) sia attualmente creditore della società o sia già stato rimborsato, ma solo che il finanziamento a suo tempo erogato alla società fosse soggetto alla disciplina di cui all’art. 2467 c.c.27, poiché in questa sede rileva il carattere oggettivo della destinazione; e, d’altra parte, la verifica delle condizioni per la postergazione sembra dover risalire al momento della concessione della sovvenzione28. Inoltre, poiché l’art. 2467 c.c. si rivolge a regolare il rimborso, prescrivendone la postergazione (o, se del caso, la restituzione), si può ritenere che il conflitto di interessi istituito e risolto dalla norma si instauri fra il credito subordinato e quelli sussistenti all’atto del rimborso (e non soltanto al momento in cui è sorta l’obbligazione restitutoria): non invece rispetto ai crediti sorti dopo tale momento, rispetto ai quali il pagamento del credito non può assumere valore pregiudizievole. Le modalità di ammissione al passivo del credito postergato sembrano dover attingere solo in parte alla disciplina dei crediti condizionali; se è vero, infatti, che in sede concorsuale il rimborso del credito subordinato è condizionato sospensivamente all’integrale soddisfazione dei crediti poziori, è evidente che l’applicazione del regolamento normativo previsto per i crediti sottoposti a condizione dettato nell’art. 55, comma 3, l.f. e consistente nella ammissione con riserva ai sensi dell’art. 96, comma 3, n. 1, l.f., non sia adeguato. Infatti, per i crediti condizionali ammessi con riserva trova applicazione il sistema delineato agli artt. 113 e 113-bis, l.f. che, al fine di conservare integra la possibilità del riparto rispetto a quei crediti che, sebbene di esistenza o esigibilità ancora incerta, hanno pur sempre titolo, ove si verifichi l’evento dedotto in condizione, per concorrere proporzionalmente con gli altri, impongono opportuni accantonamenti ad V., per tutti, G. TERRANOVA, sub art. 2467 cit., p. 1463 ss.; G. FERRI jr, In tema cit., p. 969 ss.; M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali” cit., p. 112 ss.; D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 128 s. In giurisprudenza tale orientamento è stato espresso da Trib. Milano, 24 aprile 2007 (in Giur. it., 2007, p. 2500, con nota di O. CAGNASSO, Prime prese di posizione giurisprudenziale in tema di finanziamenti dei soci a responsabilità limitata, nonché in Banca borsa tit. di credito, 2007, p. 610 ss., con nota di G. BALP, Sulla qualificazione dei finanziamenti dei soci ex art. 2467 cod. civ. e sull’ambito di applicazione della norma), e da Trib. Milano, 25 ottobre 2005, in Società, 2006, 1267. 25 Cfr. G. FERRI jr, In tema cit., p. 994; G. GUIZZI, Il passivo cit., p. 291; L. MANDRIOLI, La disciplina dei finanziamenti dei soci nelle società di capitali di capitali, in Società, 2006, p. 180; A. BARTALENA, I finanziamenti dei soci nella società a responsabilità limitata, in AGE, 2003, II, p. 395; O. CAGNASSO, La società cit., p. 116. Contra, M. IRRERA, Finanziamenti dei soci, in Il nuovo diritto societario. Commentario diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, Artt. 2409-bis – 2483, Bologna, 2004, p. 1794; L. GALEOTTI FLORI, L’inefficacia del rimborso del finanziamento dei soci tra l’art. 65 l.f. e l’art. 2467 c.c., in Giur. comm., 2005, II, p. 74 ss., spec. p. 79; D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 127. Si noti, peraltro, che in dottrina si è ritenuto che l’ammissione al passivo debba essere concessa anche nel caso in cui il socio abbia restituito alla curatela l’ammontare ricevuto dalla società a rimborso del credito da finanziamento soci ai sensi dell’art. 2467 c.c.: così M. MAUGERI, Sul regime cit., p. 819 s. 26 Cfr. D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 359. 27 Cfr. E. FAZZUTTI, sub art. 2467 cit., p. 50. Si discute, in vero, se un finanziamento originariamente erogato da un terzo, per effetto della cessione a favore di un socio possa essere postergato ex art. 2467 c.c.: in senso negativo v. C.F. GIAMPAOLINO, Profili cit., p. 88 ss.; più in generale, sul problema cfr. D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 139. 28 Cfr. O. CAGNASSO, La società cit., p. 108. 24 9 ogni ripartizione. Ma tale meccanismo sembra estraneo all’area della postergazione, poiché operare accantonamenti anche a favore dei crediti subordinati avrebbe l’effetto, per certi versi paradossale, di impedire proprio il verificarsi dell’evento cui il rimborso di tali crediti è condizionato, ossia l’integrale pagamento delle pretese situate in una posizione superiore. Si deve ritenere, piuttosto, con la più avvertita dottrina, che l’inclusione nel passivo debba realizzarsi con “clausola di postergazione” e che, dunque, non operino a favore dei titolari di tali pretese gli accantonamenti previsti, in generale, per i crediti ammessi con riserva29. Quanto ai crediti da finanziamenti dei soci soddisfatti entro l’anno precedente alla dichiarazione di fallimento la legge, come si rammentava, prescrive la restituzione alla massa del rimborso, delineando così uno strumento funzionalmente revocatorio che, per quanto sotto il profilo procedimentale appaia più affine alla disciplina dei pagamenti di crediti che alla data del fallimento non siano ancora scaduti, recata all’art. 65 l.f., sembra tuttavia derogare in pejus all’azione revocatoria dei pagamenti contemplata nell’art. 67 l.f.30: a ogni modo, in seguito alla restituzione del valore rimborsato il creditore sembra poter insinuare al passivo il credito reviviscente, con clausola di postergazione, sia che tale esito lo si ritenga imposto a mente dei principi generali, sia che lo si desuma, ancorché in via analogica, dall’art. 70, comma 2, l.f.31. Va infine precisato che la postergazione e, in particolare, quella discendente dalla legge, è incompatibile con la perduranza di forme di previlegio o di garanzia per il relativo soddisfacimento, che gravino sul medesimo patrimonio: del resto, sarebbe radicalmente contraddittorio consentire ai privati di “sfuggire” al regime della postergazione per il tramite di garanzie incidenti sullo stesso attivo; diversamente, invece, è a dirsi per garanzie rilasciate da terzi32. 6. Il dibattito intorno al trattamento concorsuale dei crediti postergati evoca l’ulteriore problema dell’applicabilità a tali pretese dell’art. 56 l.f. a mente del quale i creditori possono compensare i loro debiti verso il fallito, ancorché non scaduti alla data della dichiarazione di fallimento e a meno che il creditore abbia acquistato il credito per atto tra vivi dopo l’avvio del fallimento o nell’anno anteriore. L’operatività della compensazione costituisce una deroga33 ai generali principi di concorsualità della procedura e di trattamento paritario dei creditori sociali ed è perciò considerata dalla Così G. GUIZZI, Il passivo cit., p. 291, seguito da M. MAUGERI, Sul regime cit., p. 817. In questo senso, ma con riguardo alla postergazione convenzionale, già A. MAFFEI ALBERTI, Prestiti postergati e liquidazione coatta amministrativa, in Banca borsa tit. di credito, 1983, I, p. 23 ss., spec. p. 25; G.F. CAMPOBASSO, I prestiti postergati cit., p. 141. Nel senso, invece, della piena operatività della disciplina dei crediti ammessi con riserva cfr. M. MORAMARCO, La postergazione del finanziamento dei soci nelle società a responsabilità limitata ed il concordato preventivo, in Dir. fall., 2007, II, p. 77 ss., spec. p. 94, nonché S. BONFATTI, Prestiti da soci, finanziamenti infra gruppo e strumenti “ibridi” di capitale, in Il rapporto banca-impresa nel nuovo diritto societario, Milano, 2004, 288 ss. Sui profili dell’ammissione cfr., da ultimo, D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 386 ss. 30 Cfr., sul tema, G. FERRI jr, In tema cit., p. 976; S. LOCORATOLO, Postergazione dei crediti e fallimento, Milano, 2010, p. 51 ss.; D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 130 s. 31 Cfr. M. CAMPOBASSO, I finanziamenti cit., p. 452; G. GUIZZI, Il passivo cit., p. 285; A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 156 s.; D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 380 ss., ma già, per un cenno, p. 130; G. GUERRIERI, I finanziamenti cit., p. 82. 32 Cfr. D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 41 ss., secondo il quale tale conclusione s’imporrebbe anche per la subordinazione convenzionale assoluta (integrando in tal caso la scelta della subordinazione una rinuncia tacita alla garanzia) e per i privilegi d’ordine legale, in considerazione della specialità della disciplina che qualifica un credito come subordinato, rispetto a quella che fissa i crediti privilegiati. 33 Cfr. S. SATTA, Diritto fallimentare cit., p. 185. 29 10 dottrina più avveduta come istituto speciale di stretta interpretazione34; del resto, la destinazione selettiva del patrimonio sociale alla preferenziale soddisfazione di alcune soltanto delle poste del passivo cui essa dà luogo, di fronte all’inequivoca volontà della legge, ha suggerito ad alcuni l’applicazione restrittiva del disposto, soprattutto per quel che concerne la valutazione delle condizioni alle quali è consentita la compensazione dei crediti. In particolare, nonostante il contrario avviso della giurisprudenza più recente35, si è suggerito di verificare la sussistenza delle condizioni di esigibilità, di omogeneità e di liquidità del credito non sulla base del particolare atteggiamento dei crediti ai fini del concorso, ma dei caratteri originari del credito; trovando conferma, in questo senso, nell’art. 56, comma 1, l.f. che rende irrilevante l’eventuale mancata scadenza del debito del fallito prima della dichiarazione di fallimento: infatti, se la verifica delle condizioni di compensabilità dovesse essere operata sulla base delle particolare configurazione dei rapporti obbligatori ai fini del concorso tale precisazione risulterebbe inutile a motivo della previsione della scadenza di tutti i debiti del fallito alla data della dichiarazione di fallimento (art. 55, comma 2, l.f.)36. Coloro che hanno affrontato il problema dell’applicabilità dell’art. 56 l.f. anche a beneficio dei titolari di crediti postergati sembrano per lo più propendere per la soluzione negativa sulla base di molteplici argomenti37, similmente a quanto già si sosteneva nel passato per le ipotesi di postergazione convenzionale. Prevalentemente, si è osservato che per effetto della soggezione alla disciplina della postergazione il credito sarebbe sospensivamente condizionato all’integrale soddisfazione delle ragioni dei creditori poziori, mancando perciò il requisito della sua esigibilità38; altri hanno negato la compensazione segnalando che il carattere subordinato dei crediti esprima la sostanziale partecipazione dei finanziatori al rischio d’impresa39, operando una riqualificazione del credito che ne esclude l’omogeneità con il controcredito vantato dalla società. Si tratta tuttavia di argomenti non convincenti, a cominciare da quello che nega l’esigibilità del credito: la regola di postergazione, infatti, sembra destinata a operare soltanto nella fase di liquidazione del patrimonio del debitore; quindi non può dirsi che il credito, ancorché subordinato, non sia anche esigibile alla scadenza: al contrario, lo è senz’altro al di fuori del fallimento (e, più ampiamente, di operazioni di liquidazione generale), come è riprova nell’art. 2467 c.c. che rende ripetibile il solo pagamento effettuato “nell’anno precedente il fallimento”, suggerendo a contrario che pagamenti più risalenti siano legittimi e dunque, a maggior ragione, doverosi. Né, d’altra parte, la compensazione può essere negata assecondando l’idea che l’originaria esigibilità del credito venga meno nel corso della procedura o della liquidazione Cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 147. È ormai consolidato l’orientamento comparso con la Cass. 20 marzo 1991, n. 3006, in Fall., 1991, p. 1042: in questo senso, infatti, si vedano, da ultimo, Cass. 12 febbraio 2008, n. 3280, in Fall., 2008, p. 605; Cass. 27 aprile 2010, n. 10025, in Fall., 2010, p. 1463; Cass. 18 marzo 2005, n. 6006, in Corr. giur., 2005, p. 969; Cass. 13 agosto 2004, n. 15779, in Mass. giur. it., 2004. 36 Cfr. G. GUIZZI, Il passivo cit., p. 285. 37 Cfr. M. MAUGERI, Sul regime cit., p. 819, e C.F. GIAMPAOLINO, Profili cit., p. 72 ss.; contra A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 149, sia pure manifestando perplessità sulla scelta legislativa, e G. GUERRIERI, I finanziamenti cit., p. 94, ma già per un cenno, p. 81, a nota 64. In giurisprudenza, nel senso dell’inapplicabilità dell’art. 56 ai prestiti postergati cfr. Trib. Milano, 24 ottobre 2008, in RDS, III, 2009, p. 392. 38 G.F. CAMPOBASSO, I prestiti cit., p. 145; A. MAFFEI ALBERTI, Prestiti cit., p. 25 s. 39 G.B. PORTALE, «Prestiti subordinati» e «prestiti irredimibili» (Appunti), in Banca borsa, 1996, I, p. 1 ss., spec. p. 13 s. 34 35 11 ordinaria della società: a ben vedere, infatti, solo in termini descrittivi e atecnici il credito postergato può dirsi, in quelle fasi, condizionato e dunque inesigibile; in realtà, esso è esigibile poiché la postergazione è destinata a operare solo al momento della destinazione del ricavato della liquidazione del patrimonio del debitore, quale disciplina dell’ordine di distribuzione dell’attivo. Parimenti non convincente, per le ragioni esposte nei paragrafi precedenti, è la tesi che si fonda sulla riqualificazione del credito in conferimento. Piuttosto, com’è stato proposto, l’operatività della compensazione sembra doversi escludere perché consentendo al creditore postegato di avvalersi di tale istituto si giungerebbe a esiti contradditori con l’art. 2467 c.c.: per tal via, infatti, si sottrarrebbero all’attivo fallimentare risorse destinate a soddisfare in via preferenziale, sia pure anche solo parzialmente, i creditori postergati, pregiudicando il raggiungimento della finalità sottostante l’istituto40. In altre parole, ai fini dell’esclusione della compensazione per i crediti di cui si tratta sembra decisivo osservare che la disciplina dell’art. 2467 c.c. si pone in radicale contraddizione con quella modalità di estinzione delle obbligazioni, escludendone l’operatività proprio sulla base degli stessi principi generali che la regolano e, in particolare, a norma dell’art. 1246, n. 5, c.c. che la preclude in caso di divieto di legge41. Infatti, se sul piano della fattispecie il credito subordinato non manca di alcun requisito che ne consenta la compensabilità ex art. 56 l.f.42, su quello, distinto, della disciplina si mostra incompatibile con gli effetti indotti dall’estinzione dei crediti per compensazione. E si consideri, al riguardo, che solo apparentemente l’art. 1246, n. 5, c.c. sembra richiamare un divieto espresso e specifico previsto da una norma di legge: al contrario, si rileva sovente che tale divieto andrebbe rintracciato non soltanto in disposizioni che espressamente prevedano l’esclusione della compensazione ma anche in norme o principi, presenti nell’ordinamento, con i quali la possibilità di contrapporre all’obbligo di pagamento di debito un controcredito liquido ed esigibile si ponga in insanabile contrasto43. 7. Negli ultimi anni, il legislatore ha più volte novellato la legge fallimentare, in particolare in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti e concordati, fra l’altro regolando il diffuso fenomeno dei c.d. “finanziamenti ponte” e, più in generale, dell’erogazione di “nuova finanza” a favore dell’impresa in crisi: ci si riferisce, nel dettaglio, all’art. 182-quater l.f., in materia di prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti (originariamente introdotto dall’art. 48, comma 1, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni con l. 30 Cfr. M. MAUGERI, Finanziamenti cit., p. 136, nel testo e alle note 142 e 143. Cfr. D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 378 s. Peraltro, come rileva l’A. da ultimo citato, va segnalato che la compensazione deve ritenersi esclusa anche per il caso in cui la postergazione derivi da un patto del negozio di finanziamento – si pensi, per esempio, alle obbligazioni il cui rimborso sia subordinato all’integrale pagamento degli altri creditori – in ragione non tanto del n. 5 dell’art. 1246 c.c., ma del precedente n. 4, ove si contempla la rinuncia alla compensazione operata precedentemente dal creditore: il che sembra imposto dalla natura stessa del patto di subordinazione che risulterebbe incompatibile con la natura satisfattoria della compensazione. 42 Cfr. S. LOCORATOLO, Postergazione cit., 137, il quale pure conclude per la non applicabilità dell’art. 56 l.f. ai crediti postergati. 43 In questo senso cfr., F. MARTORANO, Compensazione del debito per conferimento, in AA. VV., La riforma delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, 1, Torino, 2006, p. 519 ss., spec. p. 535 ex multis, Cass. 22 dicembre 1994, n. 11040, in Mass. giur. it., 1994; Cass. 27 maggio 1982, n. 3264, in Mass. giur. it., 1982. 40 41 12 luglio 2010, n. 122, e successivamente modificato, da ultimo con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni con l. 7 agosto 2012, n. 134), e all’art. 182quinquies l.f., in tema di finanziamento e continuità aziendale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti (inserito dal medesimo d.l. n. 83/2012)44. Entrambe le disposizioni trovano applicazione anche per i finanziamenti effettuati da soci, sì da incidere, almeno in parte, la disciplina dei crediti postergati che sopra si è descritta e originare numerosi profili problematici, anche a motivo di una certa estemporaneità e disorganicità dei ricordati interventi normativi. In particolare, l’art. 182-quater l.f., nell’intento di favorire soluzioni concordate della crisi45, dispone, nel primo comma, che i crediti derivanti da finanziamenti in qualsiasi forma erogati all’impresa in esecuzione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato siano “prededucibili”; nel secondo comma, poi, parifica ai crediti appena indicati – con l’effetto, quindi, di estendere loro il trattamento dei crediti prededucibili – quelli derivanti da finanziamenti effettuati in funzione della presentazione delle domande di ammissione alla procedura di concordato preventivo o di omologazione dell’accordo di ristrutturazione, nei cui piani siano rispettivamente previsti e a condizione che la prededuzione sia espressamente disposta nel provvedimento che ammette l’impresa al concordato preventivo ovvero in quello che omologa l’accordo di ristrutturazione. Si tratta dell’esplicitazione di un principio da taluni già invocato per i crediti concessi all’impresa in crisi, in particolare nelle ipotesi di concordati non puramente liquidatori, all’indomani del d.l. n. 35/2005; infatti, mentre per il concordato preventivo si sarebbe potuti giungere alla medesima conclusione, ancorché, per talune ipotesi, attraverso un’interpretazione estensiva dell’art. 111, comma 2, l.f.46, non altrettanto Sul percorso legislativo che ha condotto all’attuale quadro normativo cfr., da ultimo, ASSONIME, Le nuove soluzioni concordate della crisi dell’impresa. Circolare n. 4/2013, in Riv. soc., 2013, p. 541 ss. 45 N. ABRIANI, Il finanziamento dei soci alle imprese in crisi alla luce del nuovo art. 182-quater l.fall.: dal sous-sol della postergazione all’attico della prededuzione?, in Riv. dir. impr., 2010, p. 429 ss., spec. p. 436. 46 Quanto al concordato preventivo, persiste in giurisprudenza il dibattito, dagli esiti ancora incerti, sulla possibilità di considerare prededucibili i crediti propedeutici alla presentazione della relativa domanda di ammissione, originato dall’impiego, nell’art. 111, comma 2, l.f., dell’espressione “[crediti] sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge”: cfr. al riguardo Trib. Milano, 20 agosto 2009, in Fall., 2009, 1413; nel medesimo senso, Trib. Udine, 15 ottobre 2008, ibid. In una diversa prospettiva cfr. invece Trib. Treviso, 16 giugno 2008, in Corr. mer., 2008, p. 1015. In dottrina, per la soluzione favorevole cfr., M. MAUGERI, Sul regime concorsuale dei finanziamenti soci, in Giur. comm., 2010, I, p. 805 ss., spec. p. 837 s., nonché, più in generale, S. BONFATTI, Le procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa. Uno sguardo d’insieme, in S. BONFATTI e P.F. CENSONI, Manuale cit., p. 501 ss., spec. p. 507 s., secondo il quale le fattispecie previste dall’art. 182-quater l.f. prevede “fattispecie specifiche di prededucibilità di crediti sorti in funzione od in esecuzione del concordato, che si sommano (e sostanzialmente si sovrappongono) a quelle previste in via generale dall’art. 111 l.fall.”; di “rapporto di specialità fra l’art. 182-quater l.f. e l’art. 111 l.f. discute O. DE CICCO, Concordato cit., p. 265, a nota 20. Rileva, invece, G.B. NARDECCHIA, sub art. 182-quater, in Commentario alla legge fallimentare diretto da C. Cavallini, III, Milano, 2010, p. 851 ss., spec. p. 852, che “l’art. 182-quater l.f. rappresenta […] una significativa novità rispetto all’art. 111 l.f. in quanto estende il regime della prededuzione anche a crediti sorti successivamente alla chiusura del concordato preventivo”. Si consideri, altresì, che la giurisprudenza di legittimità, nel passato, nell’ambito del percorso che l’ha progressivamente portata a estendere, sia pure al ricorrere di rigorose condizioni, l’applicazione dell’art. 111 l.f. anche a talune categorie di crediti sorti nel contesto della procedura di concordato preventivo, in due importanti pronunce aveva affermato, fra l’altro, che in tema di concordato preventivo, qualora la gestione dell’impresa assurga a dimensione di modalità essenziale della singola procedura concordataria (siccome diretta ad una più proficua liquidazione patrimoniale a favore dei creditori concorrenti), in quanto risulti parte della proposta di concordato, sia oggetto dell’ammissione da parte del tribunale e dell’approvazione da parte dei creditori, e formi altresì oggetto dell’omologazione finale, si rende applicabile, in caso di successivo fallimento, la norma di cui all’art. 111 comma 1 n. 1 l.f., dovendosi, per l’effetto, considerare le spese della 44 13 poteva dirsi con riferimento agli accordi di ristrutturazione, essendo assai dubbia la riconduzione di tale istituto nel novero delle procedure concorsuali47. La prededucibilità – è opportuno premettere – attiene all’eventuale successivo fallimento dell’impresa finanziata, con l’esito che, al di fuori di tale procedura, quei crediti dovranno essere rimborsati secondo la disciplina generale e le previsioni contrattuali convenute fra le parti: le quali, ovviamente, sono destinate a variare a seconda che si tratti di finanziamenti funzionali agli accordi di ristrutturazione dei debiti o ai concordati e, in quest’ultimo caso, a seconda che siano erogati ai fini della presentazione della domanda di ammissione o in esecuzione del concordato48. Di là, però, dai problemi di carattere generale che la norma origina, a cominciare dall’esatta precisazione dei finanziamenti cui si rivolge, ciò che interessa segnalare ai fini della presente indagine è che, per effetto del nuovo art. 182-quater, comma 3, l.f., in deroga agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c., il principio della prededucibilità trova applicazione anche per l’ipotesi in cui i predetti finanziamenti siano concessi dai soci, sia pure entro il limite dell’ottanta per cento del relativo ammontare: tuttavia, a dispetto della sua apparente chiarezza, l’attuale formulazione delle previsione – che si deve all’intento del legislatore di emendare le versioni precedenti dai problemi interpretativi subito segnalati dalla dottrina49 – resta significativamente oscura sotto numerosi profili, a cominciare dal suo ambito di applicazione. Infatti, l’espressione “finanziamenti effettuati dai soci” potrebbe far pensare a qualsiasi tipo di società: soccorre, però, l’espresso richiamo agli artt. 2467 e 2497quinquies c.c., che induce senz’altro a circoscrivere la previsione ai finanziamenti dei soci di società a responsabilità limitata e a quelli infra gruppo, gli unici che allo stato trovano un’espressa disciplina. Ne discende, pertanto, che, salvo a estendere la fattispecie dell’art. 2467 c.c. agli altri tipi sociali, i finanziamenti effettuati dai soci al di gestione dell’impresa come spese della procedura (cfr. Cass. 12 marzo 1999, n. 2192, in Fall., 2000, p. 370; ma in tal senso già Cass. 5 agosto 1996, n. 7140, in Fall., 1997, p. 269). 47 E vedi, infatti, per tutti, S. BONFATTI, Le procedure cit., p. 508, e G.B. NARDECCHIA, sub art. 182-quater, in G. LO CASCIO, Codice commentato del fallimento, II ed., Milano, 2013, p. 2202 ss., spec. p. 2217 s. 48 Sul problema e sulle alternative prospettate in dottrina cfr. G.B. NARDECCHIA, sub art. 182-quater cit., p. 2202 ss. Va segnalato che taluni propendono per ritenere che i finanziamenti erogati in funzione degli accordi di ristrutturazione o in funzione della presentazione della domanda di concordato debbano ricevere integrale pagamento nel contesto dell’eventuale concordato, salvo ovviamente una diversa previsione contrattuale: in definitiva, secondo queste impostazioni, la prededucibilità dell’art. 182-quater l.f. sarebbe destinata a operare anche fuori dal fallimento. A favore di questa impostazione militerebbero alcuni argomenti, fra i quali quello, testuale, che, come si dirà più avanti nel testo, dispone l’esclusione dal voto sul concordato i relativi creditori e che, secondo le impostazioni che si riferiscono, si spiega soltanto per il loro disinteresse rispetto all’esito del concordato stesso: cfr. L. STANGHELLINI, Finanziamenti ponte e finanziamenti alla ristrutturazione, in Fall., 2010, p. 1346 ss., spec. p. 1350 s., cui adde A. BASSI, La illusione della prededuzione, in Giur. comm., 2011, I, p. 342 ss., spec. p. 355 ss. 49 Cfr., fra gli altri, S. AMBROSINI, Appunti “flash” sull’art. 182-quater della legge fallimentare, in www.ilcaso.it, 15 giugno 2010, sez. II – Dottrina, opinioni e interventi; P. VALENSISE, sub art. 182-quater, in A. NIGRO, M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La legge fallimentare cit., p. 2337 ss.; L. STANGHELLINI, Finanziamenti-ponte cit., p. 1346 ss.; M. MAUGERI, Sul regime concorsuale dei finanziamenti soci, in Giur. comm., 2010, I, p. 805 ss.; A. BASSI, La illusione cit., p. 342 ss.; O. DE CICCO, Concordato preventivo e classi di creditori: dalla postergazione alla prededuzione, in Giur. comm., 2011, II, p. 257 ss.; N. ABRIANI, Il finanziamento cit., p. 429 ss.; G. FERRI jr, Insolvenza e crisi dell’impresa organizzata in forma societaria, in Riv. dir. comm., 2011, I, p. 413 ss., spec. p. 431 ss.; G. RACUGNO, Concordato preventivo e accordi di ristrutturazione dei debiti. Le novità introdotte dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78 e dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, in Tratt. dir. fall. diretto da V. Buonocore e A. Bassi, coordinato da G. Capo, F. De Santis e B. Meoli, III, Padova, 2011, p. 603 ss. 14 fuori delle ipotesi indicate troveranno disciplina nei precedenti commi 1 e 2 dell’art. 182-quater l.f. Sotto un diverso profilo, il tenore testuale del comma in esame sembrerebbe circoscrivere la deroga espressa agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. ai soli finanziamenti effettuati da soci: nondimeno, è noto che l’art. 2497-quinquies c.c., dettato in materia di gruppi, estende la disciplina prevista nell’art. 2467 c.c. ai finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento o da altri soggetti a quest’ultima sottoposti, a prescindere, oltre che dal tipo di società, dalla sussistenza di un rapporto sociale fra società beneficiaria e finanziatore. Si tratta dunque di chiarire se la deroga all’art. 2497-quinquies c.c., disposta dall’art. 182-quater, comma 3, c.c., trovi applicazione solo per l’ipotesi in cui il finanziatore sia socio della società, oppure – come in vero sembra preferibile50 – anche per il caso in cui non sussista fra le parti un tale rapporto, ma la più rigorosa disciplina del rimborso di tali finanziamenti si spieghi per l’appartenenza al medesimo gruppo. Un altro, e ben più serio, ordine di problemi è sollevato dalla seconda parte dell’art. 182-quater, comma 3, l.f., a mente della quale “Si applicano i commi primo e secondo quando il finanziatore ha acquisito la qualità di socio in esecuzione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti o del concordato preventivo”51. Riguardo a questo inciso sono possibili almeno tre diverse soluzioni interpretative: secondo una prima lettura52, potrebbe ritenersi che il terzo comma dell’art. 182-quater l.f. rechi due distinte fattispecie, in forza delle quali il beneficio della prededucibilità per l’ipotesi di successivo fallimento dell’impresa spetterebbe ai crediti discendenti dai finanziamenti contemplati nel primo e nel secondo comma della medesima disposizione (1) in forma integrale a coloro che siano divenuti soci in un momento successivo e, più precisamente, in esecuzione dell’accordo o del concordato, e (2) nella misura dell’ottanta per cento a coloro che già fossero soci della società, i quali, dunque, con ogni probabilità53, sopporterebbero per il restante venti per cento del credito il regime della postergazione54. Secondo un’altra impostazione55, invece, potrebbe ritenersi che la E si veda, infatti, nel medesimo senso già L. STANGHELLINI, Finanziamenti-ponte cit., p. 1364, che espressamente propende per l’applicazione analogica della disposizione anche ai non soci, cui adde N. ABRIANI, Il finanziamento cit., p. 440. 51 Per il problema, nel vigore della precedente versione della norma, cfr. L. STANGHELLINI, Finanziamenti-ponte cit., p. 1364. 52 A favore della quale propende G. GUERRIERI, I finanziamenti cit., p. 85. 53 La circostanza che il terzo comma dell’art. 182-quater l.f. disponga la deroga alla disciplina dei finanziamenti dei soci contemplata negli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. di per sé non implica che i prestiti erogati in quella sede dai soci soddisfino necessariamente anche le condizioni di applicabilità dell’art. 2467 c.c.: cfr., sul problema G. FERRI jr, Insolvenza cit., p. 433 s. 54 Di là dalla scelta fra le alternative prospettate nel testo, è conclusione pressoché unanime in dottrina che la quota residua del venti per cento del credito, ricorrendone le condizioni, sia soggetta alle discipline degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c.: cfr., ex multis, L. STANGHELLINI, Finanziamenti-ponte cit., p. 1364; G. RACUGNO, Concordato cit., p. 606 s.; O. DE CICCO, Concordato cit., p. 266; S. BONFATTI, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in S. BONFATTI e P.F. CENSONI, Manuale cit., p. 629 ss., spec. p. 664; G.B. NARDECCHIA, sub art. 182-quater cit., p. 2205, e G. GUERRIERI, I finanziamenti cit., p. 86. 55 Le possibili soluzioni interpretative sono indicate da A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali. Appendice di aggiornamento in relazione al d.l. n. 83/2012, conv. dalla l. n. 134/2012, 2013, reperibile in formato elettronico sul sito internet dell’editore Mulino (www.mulino.it), p. 15 s., che mostrano di propendere per la seconda, giacché in tal modo “il senso di insoddisfazione per l’attribuzione del carattere di prededucibilità al credito vantato dai nuovi soci risulterebbe, in effetti, di molto attenuato, posto che a fronte dei possibili benefici uti socius derivanti dalla complessiva operazione, il finanziatore, per effetto della sua entrata nella compagine societaria, rinuncerebbe in parte (nella misura non inferiore al 20%) alla “garanzia” della prededuzione che gli avrebbe comunque assicurato l’art. 182-quater, co. 1 e 2”. 50 15 prededucibilità sia ammessa soltanto a favore dei finanziatori che siano divenuti soci in esecuzione delle predette soluzioni negoziali, peraltro nella misura dell’ottanta per cento del relativo ammontare, sollevando, così, il dubbio sul trattamento del residuo venti per cento del credito: infatti, la circostanza che l’erogazione dei finanziamenti – almeno per quelli propedeutici al concordato e all’accordo di ristrutturazione dei debiti – potrebbe precedere l’acquisto della qualità di socio, induce a dubitare della sicura applicabilità degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c.56. Infine, secondo una terza prospettiva, potrebbe ritenersi che l’art. 182-quater, comma 3, l.f. detti una disciplina uniforme per i crediti rivenienti dai predetti finanziamenti, che dunque sarebbero beneficiari della prededucibilità sino all’ottanta per cento del relativo ammontare in ogni caso, e quindi anche se il finanziatore ha acquisito la qualità di socio in esecuzione dell’accordo o del concordato57. È dubbio, infine, se la deroga agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c., operata dall’art. 182-quater, comma 3, l.f., riguardi i soli crediti non rimborsati al momento della dichiarazione di fallimento, lasciando salvo, in tal modo, il potere della procedura di far valere l’obbligo restitutorio a carico del creditore che abbia ricevuto il pagamento del debito (pur qualificato come prededucibile secondo la richiamata norma concorsuale) nell’anno precedente l’apertura della procedura fallimentare: i più, in vero, propendono per l’integrale disapplicazione delle previsioni codicistiche, rilevando la contraddittorietà della diversa soluzione interpretativa che, da un lato, consenta al curatore di ottenere la restituzione del pagamento e, dall’altro, ascriva le reviviscenti pretese fra i crediti prededucibili58; tuttavia, di là dal rilievo, operativo, che la “moltiplicazione” dei crediti prededucibili è destinata a rendere sempre più ricorrente, nei fatti, l’ipotesi di un attivo patrimoniale insufficiente, che a norma dell’art. 111-bis, comma 5, l.f. impone l’applicazione dei principi di graduazione e proporzionalità anche a tali crediti59: a prescindere da questo, si diceva, va osservato che l’art. 182-quater l.f., volendo derogare agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c., non può che realizzare tale intento nei limiti della sovrapposizione fra le due discipline, vale a dire esclusivamente nella graduazione del credito ai fini della ripartizione dell’attivo fallimentare; per tale ragione, la previsione dell’art. 2467 c.c. che impone al creditore la restituzione alla massa di quanto ricevuto in pagamento del debito nell’anno precedente il fallimento, sul piano formale, rimane estraneo alla deroga: infatti, tale restituzione, per un verso, non impedisce l’insinuazione al passivo del reviviscente credito fra le pretese prededucibili (o, se del caso, per l’ottanta per cento fra queste ultime e per il residuo venti per cento fra quelle postergate), in linea con quanto previsto dall’art. 182-quater l.f., ma, per altro Va inoltre osservato che sin dalla previgente versione della norma, ove pure si limitava il beneficio della prededucibilità all’ottanta per cento dell’ammontare del credito, M. MAUGERI, Sul regime concorsuale dei finanziamenti soci, in Giur. comm., 2010, I, p. 805 ss., spec. p. 837 s., assecondando la ratio della norma, suggerisce che la prededuzione operi per l’intero credito da finanziamento soci, la differenza di disciplina sussistendo, allora, nella circostanza che per il residuo venti per cento l’eventuale postergazione ex art. 2467 e 2497-quinquies c.c. trovi applicazione, ma soltanto fra i crediti prededucibili, a norma dell’art. 111-bis, ultimo comma, l.f. Questa suggestiva prospettiva, peraltro, secondo l’A., sarebbe in grado di spiegare adeguatamente la circostanza per cui l’art. 182-quater, ultimo comma, l.f. a rigore sembra escludere dal voto e dal computo delle maggioranze l’intero credito da finanziamento soci e non, invece, la sola percentuale dell’80% per la quale troverebbe applicazione il regime di postergazione. 57 Cfr. F. GUERRERA, Le soluzioni negoziali, in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, II ed., Milano, 2013, p. 133 ss., spec. p. 147, e G.B. NARDECCHIA, sub art. 182-quater cit., p. 2220. 58 Cfr. M. MAUGERI, Sul regime cit., p. 836, nel testo e a nota 99, e S. BONFATTI, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in S. BONFATTI e P.F. CENSONI, Manuale cit., p. 629 ss., spec. p. 665 s. 59 Cfr. G. GUERRIERI, I finanziamenti cit., p. 88. 56 16 verso, consente di recuperare all’attivo le risorse necessarie al pagamento dei debiti, in un momento nel quale ancora non si conosce l’esatto ammontare di quelli prededucibili e, dunque, non è possibile prevedere la capienza dell’attivo patrimoniale ai fini della relativa integrale soddisfazione. 8. L’introduzione, a opera dell’art. 33, comma 1, lett. f), d.l. n. 83/2012, di un nuovo art. 182-quinquies l.f., recante disposizioni in tema di finanziamento e di continuità aziendale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione, è rivolta, fra l’altro, a disciplinare la sorte dei finanziamenti erogati all’impresa in crisi nel contesto di tali procedure nel tempo corrente fra la presentazione delle relative domande e l’omologazione del concordato o dell’accordo. Si trattava, del resto, di un tema dibattuto e apparentemente non risolto dalla disciplina previgente, almeno per quel che riguarda le fasi di formazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti; un discorso diverso, invece, si sarebbe forse potuto fare per il concordato preventivo, potendosi infatti già rintracciare una disciplina adeguata alla fattispecie nell’art. 167 l.f.60, concernente i poteri di amministrazione dei beni durante la procedura, al quale verosimilmente si dovrà far riferimento per le ipotesi estranee all’ambito di applicazione della disciplina che si commenta. Il nuovo art. 182-quinquies, comma 1, l.f. dispone, in dettaglio, che “Il debitore che presenta, anche ai sensi dell’art. 161 sesto comma, una domanda di ammissione al concordato preventivo o una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 182-bis, primo comma, o una proposta di accordo ai sensi dell’art. 182-bis, sesto comma, può chiedere al tribunale di essere autorizzato, assunte se del caso sommarie informazioni, a contrarre finanziamenti, prededucibili ai sensi dell’art. 111, se un professionista designato dal debitore in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, terzo comma, lett. d), verificato il complessivo fabbisogno finanziario dell’impresa sino all’omologazione, attesta che tali finanziamenti sono funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori”. Il secondo e terzo comma della previsione precisano, peraltro, che tale autorizzazione possa riguardare “anche finanziamenti individuati soltanto per tipologia ed entità, e non ancora oggetto di trattative”, nonché la concessione di “pegno o ipoteca a garanzia dei medesimi finanziamenti”. Cfr. L. STANGHLLINI, Finanziamenti-ponte cit., p. 1348. Si tratta, in vero, di una conclusione che nel vigore dell’originario art. 111 l.f. non trovava pacifico e incondizionato sostegno nella giurisprudenza, la quale, nei successivi arresti, si mostrava incline a ritenere prededucibili ai sensi dell’art. 111 l.f. i crediti sorti in funzione della procedura, ossia ai soli “debiti della massa, contratti cioè per le spese e dunque a causa dello svolgimento e della gestione della procedura, nell’interesse dei creditori” (così la recente Cass. 24 luglio 2007, n. 16387, in Fall., 2008, p. 431); e vale la pena di notare che l’intervenuta autorizzazione del giudice delegato ai sensi dell’art. 167, comma 2, l.f., non sarebbe valsa, di per sé, ad accertare la predetta strumentalità: per la precisazione dei termini del dibattito giurisprudenziale cfr. Cass. 9 settembre 2002, n. 13056, in Dir. fall., 2002, II. Più in particolare, poi, si deve rilevare che la giurisprudenza negava in passato la prededucibilità di crediti nascenti da finanziamenti effettuati da terzi a favore dell’impresa al precipuo fine di rendere più agevole l’adempimento del concordato, ancorché tali operazioni fossero state autorizzate dal giudice delegato: si vedano, in tal senso, Cass. 8 ottobre 1974, n. 2621, e App. Bologna, 24 gennaio 1984, in Giur. it., 1984, I, 369. Tuttavia, la dottrina più recente – sia pure con accenti talora diversi – segnala come la nuova formulazione dell’art. 111, comma 2, l.f., che estende il carattere della prededucibilità in duplice direzione (nel senso, cioè, di comprendervi (i) non più soltanto i crediti sorti nel solo contesto del fallimento, ma anche nell’ambito delle altre procedure concorsuali regolate dalla legge fallimentare, e (ii) non più esclusivamente quelli originati in funzione di tali procedure, ma anche quelli contratti, più genericamente, in occasione delle stesse) induce a superare il pregresso orientamento restrittivo della giurisprudenza e a ritenere che i crediti efficacemente sorti ex art. 167 l.f. siano prededucibili nell’eventuale successivo fallimento. 60 17 Orbene, di là dai molti dubbi che anche queste disposizioni suscitano e da alcune aporie d’indole testuale che emergono (come il riferimento ai “finanziamenti prededucibili”, che in vero va inteso, più esattamente, ai crediti che discendono da tali operazioni61), ciò che ai presenti fini interessa segnalare è che la norma non sembra recare alcuna distinzione in ragione della natura del finanziatore, originando l’interrogativo sulla sorte dei crediti rivenienti dai finanziamenti erogati dai soci della società: si tratta, in particolare, di chiedersi se il finanziamento effettuato dal socio, ancorché nel quadro dell’autorizzazione (se del caso generica) del tribunale, sia destinato, per l’ipotesi di successivo fallimento dell’impresa, a essere annoverato fra i crediti prededucibili – come vorrebbe il primo comma dell’art. 182-quinquies l.f. – o, all’opposto, sia degradato fra i crediti postergati, a norma degli artt. 2467 e 2497quinquies c.c.; ovvero, infine, se possa trovare applicazione analogica il precedente art. 182-quater, comma 3, l.f., che prima si è descritto. Verosimilmente, il conflitto fra le previsioni degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c., da un lato, e l’art. 182-quinquies, commi 1, 2 e 3, l.f., dall’altro, sembra dover essere risolto a favore dei primi, con l’esito che il finanziamento, ancorché autorizzato dal tribunale, è destinato alla postergazione (beninteso: solo qualora abbia le caratteristiche indicate dalla disciplina civilistica62): in questo senso induce il rilievo, d’ordine testuale, che il legislatore sembra ritenere la disciplina concorsuale non necessariamente speciale rispetto a singole disposizioni del codice civile, come dimostra il confronto con l’art. 182-quater, comma 3, l.f.; l’incipit di quest’ultima previsione, infatti, espressamente “deroga agli artt. 2467 e 2497-quinquies del codice civile”, suggerendo a contrario di ritenere che, ove una deroga espressa non vi sia, quelle previsioni, in presenza dei relativi presupposti, debbano trovare applicazione63. 9. Va segnalato, infine, che l’art. 182-quater, comma 5, l.f. esclude dal voto e dal computo delle maggioranze per l’approvazione del concordato preventivo, nonché per il raggiungimento della percentuale prevista dall’art. 182-bis, commi 1 e 6, l.f., i crediti discendenti da finanziamenti erogati in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo e di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui al comma 2, anche se i relativi titolari siano soci64; diversamente dalla previgente versione della norma, l’esclusione dal voto nel Cfr. in questo senso, opportunamente, A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Appendice cit., p. 16 s., ove pure una prima rassegna degli aspetti problematici della novella. 62 E cfr. la precedente nota 54. 63 Per il medesimo ordine di considerazioni cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Appendice cit., p. 18 s., secondo i quali, peraltro, le soluzioni interpretative alternative a quella preferita dovrebbero essere scartate anche in ragione di ulteriori rilievi: in dettaglio, non convincerebbe l’applicazione analogica dell’art. 182-quater, comma 3, l.f., perché “pur ammettendo l’esperibilità, nella specie, del magistero analogico, infatti, non si saprebbe né per quale parte del credito riconoscere la prededuzione (l’art. 182-quater, co. 3 stabilisce, come si ricorderà, che la prededuzione opera fino alla misura dell’80% del credito), né chi è competente a determinarla”; non persuaderebbe, però, neppure la soluzione volta a ritenere in ogni caso prededucibili i crediti rivenienti da siffatte operazioni di finanziamento, a prescindere dalla natura soggettiva del sovventore, poiché, sebbene “se la legge non distingue, sembra invero del tutto illogico riconoscere la prededuzione, da un lato, nella misura massima dell’80% ad un credito da finanziamento la cui erogazione sia prevista nella proposta sottoposta al vaglio dei creditori (ossia, i soggetti più direttamente coinvolti dalla prededuzione) e, dunque, condizionata all’approvazione di questi ultimi; e, dall’altro lato, nella misura del 100% ai crediti da finanziamenti la cui erogazione è sottratta al vaglio dei creditori concorrenti, essendo condizionata solo all’autorizzazione del tribunale”. 64 Espressione nella quale A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Appendice cit., p. 16, suggeriscono di ritenere comprese anche società appartenenti al medesimo gruppo. 61 18 concordato preventivo non sembra invece disposta, almeno espressamente, per crediti discendenti da finanziamenti erogati in esecuzione di un accordo di ristrutturazione omologato (cui, in tesi, consegua la procedura di concordato), che pure godono, ai sensi del primo comma dell’art. 182-quater l.f., in caso di successivo fallimento, del beneficio della prededucibilità. L’esclusione dal voto nel concordato preventivo di tali crediti non sembra spiegarsi, come sarebbe invece a dirsi per il concordato fallimentare65, in ragione del rilievo che essi devono trovare integrale pagamento nel piano concordatario 66: piuttosto, la norma sembra ispirata dalla volontà di evitare condizionamenti sull’esito del voto dei creditori o del raggiungimento della quota debitoria necessaria per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti67. Su un piano più generale, però, l’esclusione dal voto dei crediti per finanziamenti dei soci che, in deroga all’art. 2467 e 2497-quinquies c.c., sono qualificati come prededucibili, sembrerebbe esprimere un significato normativo ben più rilevante: tale disciplina, cioè, potrebbe essere interpretata come espressione di un più ampio principio che non consente di assegnare rilievo procedimentale nei concordati a siffatte pretese68. Il rilevo, tuttavia, non sembra cogliere nel segno, poiché tal esclusione non si spiega in ragione della natura postergata delle relative pretese (che, del resto, è esclusa dell’espressa deroga agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. iscritta nel terzo comma della norma in esame) ma, piuttosto, a motivo del peculiare regime giuridico di prededuzione che alle condizioni dell’art. 182-quater l.f. le connota nell’eventuale successivo fallimento. Proprio quest’ultima conclusione, tuttavia, induce a riproporre l’interrogativo, emerso già nella vigenza della prima versione dell’art. 182-quater l.f., se l’esclusione dal voto riguardi l’intero credito o, come sembra preferibile, soltanto la quota dell’ottanta per cento, che è destinata a beneficiare, in caso di fallimento, della prededucibilità: la sola, in vero, alla quale, a rigore, si applicano “il primo e il secondo comma” dell’art. 182-quater l.f.69. 10. L’art. 182-quater l.f., in realtà, lascia impregiudicato il dubbio concernente la partecipazione al voto nelle procedure di concordato dei crediti subordinati, originato, fra l’altro, dall’assenza, nella disciplina che espressamente regola tali vicende, di qualsiasi riferimento ai crediti postergati. Al proposito, alcuni tendono a escludere (non soltanto qualsivoglia soddisfazione concordataria per i crediti subordinati ma anche) il riconoscimento ai relativi titolari del diritto di voto, per lo più a motivo della sostanziale qualificazione in conferimenti di tali poste70. Diversamente, una volta affermato che la postergazione non fa venir meno la natura di crediti alle relative pretese, sembra imposta la loro partecipazione (almeno formale) al concorso, non intravedendosi nella 65 s. In questo senso, ma nell’ambito del concordato fallimentare, cfr. A. BONSIGNORI, Del concordato cit., p. 265 A meno che non si propenda, ovviamente, per gli orientamenti indicati alla precedente nota 49. Cfr. G.B. NARDECCHIA, sub art. 182-quater, in Commentario cit., p. 859. 68 Lo paventa anche O. DE CICCO, Concordato cit., p. 266. 69 Ma si veda, oltre a quanto riferito nella precedente nota 57, N. ABRIANI, Il finanziamento cit., p. 439, nel testo e a nota 24, secondo il quale l’esclusione dal voto riguarderebbe l’intero credito del socio (e, dunque, sia l’ottanta per cento prededucibile, sia il venti per cento postergato), il che “sembra inoltre avvalorare l’impostazione volta ad escludere i creditori postergati (per i finanziamenti precedentemente concessi) dal voto sul concordato”. 70 Cfr. L. GALEOTTI FLORI, L’inefficacia del rimborso del finanziamento dei soci tra l’art. 65 l.f. e l’art. 2467 c.c., in Giur. comm., 2005, II, p. 74 ss., spec. p. 80 s. In giurisprudenza cfr. Trib. Firenze 26 aprile 2010, cit., p. 5 ss. 66 67 19 disciplina alcun serio ostacolo al riconoscimento del diritto di voto sulla proposta concordataria né, d’altra parte, sembrano emergere interessi alla cui protezione sia congrua la radicale misura dell’esclusione dai quorum costitutivi e deliberativi71. Dal primo punto di vista, si deve osservare, infatti, che la l.f., agli artt. 127 e 177, assegna a tutti i crediti il diritto di concorrere all’approvazione del concordato, escludendo soltanto – secondo un’indicazione talora ritenuta tassativa72 – quelli privilegiati dei quali la proposta preveda l’integrale pagamento e una serie di titolari di pretese accomunati da peculiari rapporti con l’impresa in crisi. In particolare, è significativo rilevare che l’art. 127, comma 1, l.f., trattando del concordato fallimentare e, dunque, di una vicenda destinata a seguire il fallimento dell’impresa, prevede espressamente che se la proposta interviene in seguito alla definizione dello stato passivo il voto debba essere accordato anche ai creditori ammessi provvisoriamente e con riserva: circostanza che costituisce un ulteriore indizio del fatto che se l’ordinamento espressamente consente la partecipazione al voto anche di creditori la cui pretesa non si sia consolidata o, addirittura, non sia ancora venuta a giuridica esistenza, non può contestualmente impedire quella di chi vanta attualmente e sicuramente un credito verso l’impresa, ancorché diversamente graduato nella sua soddisfazione in rapporto al resto del ceto creditorio73. Tuttavia, muovendo dalla ratio sottesa alla disciplina del voto dei creditori privilegiati, taluni hanno inteso argomentare l’esclusione dal computo dei quorum dei subordinati ritenendo che ai secondi debba applicarsi, sia pure in termini analogici, il regolamento normativo dettato per i primi, ai quali sarebbe preclusa la partecipazione al voto sulla premessa che le relative pretese trovino integrale soddisfazione e che, pertanto, i titolari di tali crediti non abbiano alcun interesse a esprimersi su una proposta che non è in grado di incidervi significativamente: per la medesima ragione, ancorché in termini esattamente rovesciati, i titolari di crediti postergati non potrebbero votare sulla proposta di concordato poiché non sarebbe loro consentita alcuna partecipazione al dividendo concordatario74. E ciò in ossequio al principio secondo il quale il diritto di Ed è quanto affermano L. STANGHELLINI, L’approvazione dei creditori cit., p. 1065; ID., sub art. 124 cit., p. 1977; G. PRESTI, sub art. 2467, p. 121; nonché F. GUERRERA, Le soluzioni concordatarie cit., p. 167; M. MAUGERI, Sul regime cit., p. 823; S. LOCORATOLO, Postergazione cit., p. 153 ss.; G. RACUGNO, Concordato preventivo, accordi di ristrutturazione e transazione fiscale. I. Profili di diritto sostanziale, in Tratt. dir. fall., diretto da V. Buonocore e A. Bassi, I, Padova, 2010, p. 470 ss., spec. p. 528, in nota 241; in giurisprudenza, cfr. Trib. Milano, 18 maggio 2006, in www.judicium.it, e Trib. Bologna, 17 ottobre 2006, riferito da D. GALLETTI, La formazione di classi nel concordato preventivo: ipotesi applicative, in www.ilcaso.it. Contra, pur nella qualificazione in termini creditorî, G. TERRANOVA, sub art. 2467 c.c. cit., p. 1487 ss., intravedendo nella disciplina della postergazione una finalità tendenzialmente sanzionatoria, nonché A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 299 e p. 378, D. VATTERMOLI, Subordinazione legale cit., p. 290 ss.; S. AMBROSINI, Il concordato preventivo cit., p. 45; A. AUDINO, sub art. 160 cit., p. 928; P. LICCARDO, sub art. 177, in A. NIGRO, M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La legge fallimentare cit., p. 2191 ss., p. 2195, limitatamente alle ipotesi di postergazione ex lege. 72 Cfr. R. SACCHI, Il principio di maggioranza nel concordato e nell’amministrazione controllata, Milano, 1984, p. 266; D. VATTERMOLI, Subordinazione legale cit., p. 290 s.; contra A. BONSIGNORI, Del concordato preventivo, in Legge fallimentare, a cura di F. Bricola, F. Galgano, G. Santini, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 364 s.), anche se la giurisprudenza e la dottrina non mancano, come si dirà, di ritenere escluse dal voto alcune peculiari categorie creditorie. 73 Cfr. S. LOCORATOLO, Postergazione cit., p. 161 s. 74 Cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 298 ss. e p. 378 s., nonché D. VATTERMOLI, Subordinazione legale cit., p. 292, secondo il quale, in particolare, «in questa ipotesi i subordinati dovrebbero essere considerati indifferenti alla proposta presentata dal debitore, in quanto il valore concorsuale del loro credito si è ridotto a zero» (sul valore concorsuale, cfr. ivi, p. 283, a nota 5); anzi, osserva, l’A., «in tale circostanza, condizionare l’approvazione o meno del concordato al voto espresso dai subordinati (ossia, si ripete, da soggetti privi di interesse) sembra rappresentare un fattore di inefficienza per la procedura che è 71 20 partecipare all’approvazione della proposta sarebbe riconosciuto soltanto a quei creditori cui tale soluzione non sia indifferente, quantitativamente e cronologicamente, rispetto a qualsiasi altra75. Si deve però dubitare dell’omogeneità, dal punto di vista dei creditori subordinati, delle soluzioni concordataria e fallimentare. Infatti, se è lecito ipotizzare che, per la cronica inefficienza della procedura fallimentare, la soluzione concordataria risulti tendenzialmente più fruttuosa per costoro, ciò nondimeno all’approvazione e alla successiva omologazione di un concordato nel quale, in ipotesi, nulla si preveda (o nulla possa prevedersi) a favore dei crediti subordinati, si accompagna l’effetto esdebitativo che rende definitivamente inesigibili i crediti concorsuali oggetto di falcidia. In secondo luogo, poi, è evidente che l’opzione concordataria potrebbe precludere la liquidazione (fallimentare o meno) del patrimonio dell’impresa, e dunque la possibilità di asseverarne la capienza ai fini della soddisfazione dei crediti subordinati, come pure di attingere a quegli strumenti, quali le azioni revocatorie, restitutorie e risarcitorie funzionali a una ricostituzione di tale patrimonio della quale potrebbero beneficiare anche i crediti postergati, sì che l’adesione a tale proposta sembra incidere le pretese e gli interessi dei relativi titolari76. Al contrario, è proprio il fatto che i creditori privilegiati partecipino all’approvazione del concordato ora votando per la parte di credito non coperta dalla garanzia, ora addirittura soltanto per quella destinata a rimanere definitivamente insoddisfatta, a indurre a concludere per la concessione del diritto di voto anche ai creditori subordinati. Come per i creditori privilegiati, per i quali la partecipazione all’approvazione della proposta è consentita nel caso in cui la loro soddisfazione sia potenzialmente deteriore di quella cui avrebbero diritto in caso di liquidazione opportuno eliminare». L’esclusione dal voto dei subordinati o, comunque, l’attribuzione al medesimo di un valore non determinante ai fini dell’approvazione della proposta, rappresenterebbe peraltro una scelta comune a diversi Paesi dell’Unione europea (fra i quali, Germania, Spagna e Portogallo) e al sistema nordamericano: cfr. ivi p. 290 ss. ove ampia bibl. straniera. 75 E infatti, coerentemente alla prospettiva segnalata, quella dottrina, se per un verso ammette a votare i creditori privilegiati qualora, pur prevedendo la proposta la loro integrale soddisfazione, tuttavia ne differisca oltre i termini originari l’adempimento, per altro verso esclude che possano partecipare all’approvazione della proposta quei creditori chirografari che, in caso di concordato con suddivisione in classi, siano in ipotesi destinatari di un pagamento integrale delle relative pretese: in questo senso A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 299; L. STANGELLINI, sub art. 124 l. fall. cit., p. 1980 s., limitatamente però al caso dei privilegiati soddisfatti oltre le scadenze originarie, nonché ID., L’approvazione dei creditori cit., p. 1061 s.; contra E. SABATELLI, Profili genetici del “nuovo” concordato fallimentare, in La nuova giur. civ. comm., 2007, p. 229. Sul riconoscimento del diritto di voto a talune categorie di creditori si legga L. STANGHELLINI, Le crisi cit., p. 226, secondo il quale la disciplina, al proposito, è retta da un principio di correlazione «fra potere di decidere e rischio», nel senso che è «corretto che solo chi subisce le conseguenze di una determinata decisione possa esprimersi su di essa, perché solo così diviene fondata la presunzione che il suo voto rispecchi la volontà comune, presunzione che […] sta alla base della compressione dei diritti di coloro che ne dissentono». Così pure D. VATTERMOLI, Subordinazione legale cit., p. 296, secondo cui «l’idea che è alla base della “marginalizzazione” dei creditori subordinati nel concorso aperto nei confronti del debitore è, in ultima analisi, assai semplice: il “governo” della procedura concordataria deve essere assicurato a coloro che concretamente subiscono gli effetti, positivi o negativi dell’andamento della stessa». 76 Cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 299 s., nonché D. VATTERMOLI, Subordinazione legale cit., p. 297, il quale osserva che «in termini assoluti, infatti, non è vero (o non è detto che lo sia) che in tale ipotesi i subordinati siano indifferenti alla soluzione concordataria rispetto a quella offerta dalla liquidazione e successiva ripartizione endofallimentare del patrimonio del debitore». Tuttavia, l’A., sul presupposto che non sia (tendenzialmente) lecito riconoscere alcunché ai postergati, segnala che il riconoscimento a costoro del diritto di voto, che sarebbe senz’altro esercitato in termini negativi, equivarrebbe ad assegnar loro il potere di frustrare la possibilità di giungere ad una soluzione concordataria della crisi «in ipotesi vantaggiosa per la restante massa dei creditori». 21 fallimentare, così per i creditori subordinati il computo nel quorum è logicamente, oltre che giuridicamente, imposto a motivo della possibilità che il concordato definitivamente pregiudichi i loro diritti verso l’impresa in crisi77. Deve però aggiungersi che il diritto di voto dei subordinati, a fronte dell’ambiguità del testo normativo, è stato talora negato adducendo il conflitto d’interessi che colpirebbe i titolari di tali poste in confronto con il resto del ceto creditorio: infatti, mentre i secondi sarebbero portatori d’interessi concorsuali, i primi esprimerebbero interessi potenzialmente extraconcorsuali, in ragione del rilievo che non potrebbero ricevere alcunché nell’ambito della proposta concordataria, risultando peraltro definitivamente penalizzati per gli effetti tipicamente esdebitativi associati all’omologazione e all’esecuzione del concordato; dunque, invece che contribuire all’approvazione della proposta, i relativi titolari sarebbero indotti a ostacolarne l’esito, assecondando così l’auspicio che l’impresa, una volta tornata in bonis, possa essere finalmente in grado di soddisfare le loro pretese78. Tuttavia, la selezione dei crediti da ammettere al voto sulla base degli interessi che sarebbero loro tipicamente propri, oltre che necessariamente comuni, non sembra autorizzata dal tenore delle disposizioni prima richiamate, le quali, al contrario, ammettono in generale tutti i crediti a parteciparvi, salve le previsioni eccezionali contestualmente disciplinate79. In secondo luogo, più radicalmente, sembra opinabile la stessa premessa del ragionamento, consistente nella tendenziale ricorrenza e omogeneità di tali interessi in capo alle diverse tipologie creditorie e nell’assunto che i postergati abbiamo sempre interesse a impedire l’approvazione del concordato. Al contrario, è possibile che costoro agevolino la soluzione concordataria, sia nella prospettiva di poter mantenere (pur in termini quantitativamente o tipologicamente diversi) la partecipazione al ristrutturato finanziamento dell’impresa, sia in quella di evitare la soluzione fallimentare che potrebbe assumere tratti pregiudizievoli per i titolari di tali crediti (e si pensi, esemplificando, al caso in cui si tratti di soci-amministratori che abbiano ragione di temere le conseguenze di natura risarcitoria o penale eventualmente associate all’apertura del fallimento)80. Più in generale, poi, va segnalato come la possibilità che taluni titolari di crediti assumano atteggiamenti ostruzionistici riguardo alla soluzione concordataria, come pure quella che particolari rapporti correnti fra l’impresa in crisi e i titolari del Cfr. S. LOCORATOLO, Postergazione cit., p. 166 ss. Cfr. D. VATTERMOLI, Subordinazione legale cit., p. 297, secondo il quale il punto della questione si ridurrebbe ad un interrogativo che andrebbe risolto in senso negativo: «in ambito concordatario, può essere riconosciuto ad un singolo creditore un diritto (nella specie, quello di voto) sorretto da un interesse individuale ed extraconcorsuale – potenzialmente contrario con quello, propriamente concorsuale, di cui è portatrice la restante massa dei creditori –, dato dalla possibilità, teorica, di soddisfacimento sul patrimonio del debitore tornato in bonis?». Le ragioni della risposta negativa riposerebbero, secondo l’A., «nel volume di rischio incorporato dal credito (assolutamente) postergato: rischio che, riducendo ex ante il valore concorsuale – nei termini prima specificati – del credito, giustifica, come si diceva, la “marginalizzazione” di chi ne è titolare nelle scelte strategiche che concernono la governance della procedura». 79 Ma per l’esclusione dal voto in caso di conflitto di interessi (o, in alternativa, l’inserimento in una classe separata) si veda, da ultimo, G. D’ATTORRE, Il conflitto d’interessi fra creditori nei concordati, in Giur. comm., 2010, I, p. 392 ss.; nonché, in generale, sul tema del conflitto di interessi fra creditori, R. SACCHI, Concordato preventivo, conflitto di interessi fra creditori e sindacato dell’autorità giudiziaria, in Fall., 2009, p. 30 ss.; M. FABIANI, Brevi riflessioni cit., p. 437 ss. 80 Cfr. Trib. Monza 5 agosto 2010 cit., p. 14, ove si dà atto che un socio aveva acquistato numerosi crediti per favorire, attraverso il relativo voto sulla proposta, l’approvazione del concordato. 77 78 22 credito vantato inquinino la valutazione sulla proposta o, comunque, ne condizionino l’approvazione, sia ben presente al legislatore. Tuttavia, la disciplina fallimentare non sembra presumere che tali conflitti d’interesse originino dalla tipologia o dalla graduazione del credito vantato, potendo invece discendere da fattori diversi quali, ad esempio, le cause della crisi che investono l’impresa, la composizione del relativo patrimonio, l’incidenza sul passivo dei crediti privilegiati, la possibilità di esperire azioni revocatorie e, dal punto di vista dei creditori, l’eventualità di subirle; o, ancora, i rischi connessi all’apertura o alla prosecuzione della procedura fallimentare, le concrete possibilità di cedere sul mercato l’azienda, etc.81. Dinanzi a tali e tante variabili non è scontato che i creditori subordinati vantino necessariamente interessi extraconcorsuali, mentre il resto del ceto creditorio sia accomunato da interessi concorsuali omogenei, come è riprova, fra l’altro, nella ratio che ispira la possibilità di suddividere i creditori in classi, sulla base di posizione giuridica e interessi economici omogenei, e offrire a ciascuna un trattamento differenziato. Pertanto, la soluzione di eventuali conflitti d’interesse e comportamenti ostruzionistici è rimessa dal legislatore, per un verso, all’individuazione di particolari rapporti d’interesse sussistenti fra l’impresa e il titolare della pretesa, a prescindere dai caratteri che quest’ultima assuma82, e, per altro verso, all’eventuale decisione del tribunale in sede di omologazione del concordato, nell’ambito della quale, come è noto, il giudice può essere chiamato a valutare se il creditore opponente (appartenente ad una classe dissenziente) che ha espresso voto negativo sulla proposta “possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili” (c.d. cram down, e cfr. gli artt. 129, comma 5, e 180, comma 4, l.f.), o comunque a decidere eventuali ulteriori opposizioni che, secondo un’accreditata prospettiva, potrebbero avviare un sindacato sulla legalità sostanziale delle modalità con le quali, in concreto, è stato esercitato il potere attribuito alla maggioranza83 e, dunque, di fatto, disinnescare i problemi sollevati dalla dottrina contraria a riconoscere ai postergati il diritto di voto. Cfr., al riguardo, le esemplificazioni offerte da F. GUERRERA, Le soluzioni concordatarie cit., p. 166 s., nonché le considerazioni di G. PRESTI, sub art. 2467 cit., p. 121, e di M. MAUGERI, Sul regime cit., p. 823 ss. 82 L’art. 127, comma 5, l.f. prescrive, infatti, l’esclusione dal voto e dal computo delle maggioranze per il coniuge del debitore, nonché per i suoi parenti e affini fino al quarto grado e per coloro che sono diventati cessionari o aggiudicatari dei crediti di dette persone da meno di un anno prima della dichiarazione di fallimento; e tale disciplina, a mente del successivo comma 6 si applica anche ai crediti delle società controllanti o controllate o sottoposte a comune controllo. Inoltre, a norma del comma 7, i trasferimenti di crediti avvenuti dopo la dichiarazione di fallimento non attribuiscono il diritto di voto, salvo che siano effettuati a favore di banche o altri intermediari finanziari. Il disposto dell’art. 127, comma 5, è sostanzialmente replicato, per il concordato preventivo, nell’art. 177, comma 3, l. fall. (salvo precisare che, ai fini della particolare disciplina del trasferimento dei crediti, il termine annuale decorre dall’anno precedente alla proposta di concordato, e che in caso di concordato preventivo non trova applicazione la disciplina che esclude il voto delle società appartenenti al gruppo). 83 Cfr. F. GUERRERA, Le soluzioni concordatarie cit., p. 166 s., il quale rileva che, per questa via, «si dovrebbero neutralizzare i conflitti di interesse e gli abusi di taluni creditori, che possono annidarsi nelle soluzioni concordate delle crisi d’impresa, a prescindere dalle ipotesi di formale esclusione di costoro dalla votazioni», segnalando come il problema sia avvertito, principalmente, «per i creditori cc.dd. forti, assistiti generalmente da garanzie collaterali (fideiussioni dei soci, pegno di titoli, etc.); ma anche per quanti vantano, ad es. come imprenditori, un interesse ad espandersi nel settore di riferimento o per gli stessi soci titolari di crediti che, sebbene postergati (art. 2467 c.c.), non dovrebbero per ciò stesso ritenersi totalmente e pregiudizialmente esclusi dal “concorso” con gli altri crediti in sede concordataria»; in una prospettiva analoga cfr. M. FABIANI, Brevi riflessioni su omogeneità degli interessi cit., p. 443 ss.; L. STANGHELLINI, Le crisi di impresa cit., p. 223. E potrebbe 81 23 11. Come la descritta disciplina dei finanziamenti dei soci recata all’art. 2467 c.c. reagisca sul risalente dibattito in tema di versamenti in conto capitale è questione non ancora sufficientemente approfondita. Per un verso, infatti, è tutt’altro che pacifico che essa trovi applicazione per i finanziamenti dei soci nelle società azionarie, sia pure al ricorrere di peculiari caratteristiche della partecipazione sociale, come talora, anche in giurisprudenza, si propone84. Per altro verso, essa non sembra in alcun modo incidere il tema dei versamenti in conto capitale, così come la dottrina e la giurisprudenza hanno inteso classificarli, isolando almeno quattro fattispecie di apporti in forme diverse dal conferimento85; vale a dire, innanzitutto: (i) i versamenti a copertura di perdite, effettuati al fine di escludere, operando sulla fattispecie (e non sulla relativa disciplina)86, il determinarsi di perdite di capitale; (ii) i versamenti a fondo perduto, che si distinguono dai primi in quanto, pur escludendo anch’essi ab origine l’obbligazione restitutoria, nondimeno prescindono da perdite di capitale e vanno tendenzialmente ad accrescere il patrimonio della società; (iii) i versamenti in conto aumento di capitale e, infine, (iv) i versamenti in conto di futuro aumento di capitale, che si caratterizzano per il rilievo che i soci condizionano risolutivamente l’apporto alla formale deliberazione di un aumento di capitale che nel caso sub (iv) si assume già adottata. Con riguardo ai versamenti iscritti sub (i) e (ii), si osserva sovente che tali apporti accrescano il valore del patrimonio netto: si tratta, in realtà, di un effetto solo indiretto, derivante dell’aumento del valore dell’attivo che, in assenza di perdite, genera un aumento dei valori complessivamente soggetti alla disciplina del patrimonio netto, senza che ciò, ovviamente, implichi alcuna variazione del capitale sociale (il quale, del resto, non è una realtà materialistica, bensì costituisce peculiare disciplina di una porzione del patrimonio della società87); tali apporti – significativamente denominati come versamenti a fondo perduto – si caratterizzano, infatti, per l’assenza dell’obbligo di rimborso dei valori erogati, che rimangono definitivamente acquisiti al patrimonio sociale. Tale rilievo, se da un lato recede alla radice i problemi del trattamento concorsuale di tali apporti, dall’altro contribuisce comunque a qualificarne la natura in termini di finanziamento, poiché l’originaria e definitiva rinuncia al rimborso dei relativi valori vale a negare che questi versamenti esprimano, ancorché in forma atipica, una funzione di investimento (cui sarebbe, invece, connaturale una prospettiva, sia pure solo potenziale, di generazione di nuova ricchezza e partecipazione alla sua ripartizione)88; il che induce a rappresentare la vicenda, sul piano contabile, come un aumento dell’attivo dello stato patrimoniale, senza che vi sia una contestuale apposizione di voci nel passivo del bilancio. trattarsi di un sindacato idoneo a sopperire la mancanza nel nostro ordinamento, a differenza di quello nordamericano, di una clausola generale che imponga che il piano sia fair and equitable: L. STANGHELLINI, Creditori «forti» e governo della crisi d’impresa nelle nuove procedure concorsuali, in Fall., 2006, p. 386. Per l’applicazione del principio si veda, ancorché in termini non sufficientemente chiari, Trib. Monza 5 agosto 2010 cit., p. 13 ss. 84 Cfr. supra nota 15. 85 Cfr. la classificazione proposta da G. TANTINI, I “versamenti in conto capitale” tra conferimenti e prestiti, Milano, 1990, p. 7 ss., e v. M. MAUGERI, Finanziamenti cit., p. 45 ss. 86 Cfr. App. Genova 30 novembre 2005, in Società, 2007, p. 1487, e Trib. Mantova, 13 agosto 2004, in www.ilcaso.it. 87 Cfr. G. FERRI jr, voce Patrimonio netto, in Dizionari del diritto privato promossi da N. Irti, Diritto commerciale, a cura di N. Abriani, Milano, 2011, p. 610 ss., e già ID., Investimento cit., p. 88 G. FERRI jr, Investimento cit., p. 465 ss. 24 È scontato, perciò, che la rilevata assenza del diritto al rimborso del finanziamento in capo ai soci-sovventori li escluda da qualsivoglia rilievo in sede concorsuale; allo stesso modo, e per le medesime ragioni, la sicura riconduzione di tali apporti fra le voci del finanziamento della società impedisce anche che, limitatamente ai valori così apportati, i sovventori vantino pretese sull’eventuale valore attivo risultante alla chiusura del fallimento che resta riservato, in via esclusiva, ai soci. 12. Quanto, invece, ai versamenti indicati sub (iii) e (iv) – come pure, più in generale, ad apporti non riconducibili a una funzione di sovvenzione (senza poter qui approfondire il copioso dibattito sui criteri attraverso i quali si pervenga a un simile esito classificatorio89) – l’originaria destinazione a capitale di rischio induce a intravedervi una funzione di investimento e, più precisamente, di investimento in forma di società, da cui discende che il guadagno che ci si attende dalla destinazione di valore all’impresa sociale è espresso non già nell’attesa restituzione del capitale impiegato e (eventualmente) nella sua periodica remunerazione (sia pure in forme tali per cui una o entrambe le voci da ultimo indicate siano originariamente soggette al rischio di impresa, come oggi è senz’altro consentito, ad esempio, nell’ambito della emissione di obbligazioni e altri titoli di debito: art. 2411 c.c.), bensì, più propriamente, nella ripartizione del risultato economico dell’intera operazione, corrispondente, nella sua forma tipica, a una quota (tendenzialmente proporzionale alla propria partecipazione sociale) del patrimonio netto e alla partecipazione agli utili. È quindi altrettanto chiaro che, là dove effettivamente la società deliberi l’aumento di capitale (o concluda il procedimento di iscrizione della deliberazione già adottata al momento dell’apporto), l’originario versamento (al quale si diceva essere estranea qualsivoglia finalità di sovvenzione e, in particolare, quella avente le forme del versamento a fondo perduto, contraddittorio alla predetta finalità di guadagno) venga imputato a capitale. Il che comporta, anzitutto, che il suo eventuale rimborso segua le regole della distribuzione del patrimonio netto e, conseguentemente, che tale imputazione al capitale sociale impedisca che possa porsi una qualche pretesa del socio in sede fallimentare. Ben più problematico si presenta, invece, il caso in cui la crisi dell’impresa sopraggiunga senza che i valori apportati dai soci siano stati formalmente imputati a capitale sociale. Sul piano sostanziale, del resto, non si manca di osservare che la scelta di finanziare l’impresa sociale mediante un apporto atipico risulti preferita, giacché mantiene impregiudicata la possibilità, per i soci, di trasformare il relativo valore in capitale sociale, qualora la società versi in condizioni favorevoli, al fine di godere della più elevata remunerazione garantita dall’investimento; ovvero di invocarne la restituzione in forma di rimborso del finanziamento per il caso in cui, al contrario, la società versi in condizioni negative, tali quantomeno da incidere sul valore del patrimonio netto, così condividendo con i creditori sociali il concorso sul patrimonio della società90. In risposta a tali preoccupazioni, la dottrina e la giurisprudenza offrono al problema soluzioni accomunate, al fondo, dall’intento di posporre le pretese dei soci a quelle degli altri creditori sociali. Cfr. G. FERRI jr, Investimento cit., p. 497 ss., spec. p. 501 ss., nonché M. MAUGERI, Finanziamenti anomali cit., p. 142 ss. 90 Cfr. supra note 3 e 4, nonché, da ultimo, D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 148, nel testo e a nota 188. 89 25 In particolare, la giurisprudenza, come si è cennato, assecondando – secondo i consueti canoni dell’ermeneutica contrattuale – l’intento dei soci91, è decisamente orientata a individuare nei versamenti in discorso schemi contrattuali non ascrivibili a finalità di sovvenzione, bensì operazioni, ancorché atipiche ma non per questo vietate, sussumibili entro la categoria del capitale di rischio; conseguentemente, la relativa restituzione, nel caso di mancata deliberazione dell’aumento di capitale, diverrebbe attuale soltanto all’esito dello scioglimento della società e dopo la definizione dei rapporti con i creditori sociali92. E si tratta di una conclusione che ha significativi risvolti operativi, poiché la circostanza che il valore dei versamenti non imputati a capitale divenga esigibile in sede di liquidazione o all’esito della procedura concorsuale importa che ogni rimborso anticipato sia in tesi suscettibile di revocatoria ai sensi dell’art. 65 l.f., quando non addirittura di soggezione alla disciplina della ripetizione dell’indebito (oggettivo: art. 2033 c.c.) là dove si ritenga inesistente il credito prima della definizione dei rapporti con i terzi. In dottrina, il dibattito assume contorni più sfumati, tendenzialmente negandosi che il rimborso di tali apporti debba necessariamente essere rinviato tout court in sede di liquidazione (ordinaria o concorsuale) della società – in termini, di fatto, addirittura più stringenti che per i valori soggetti alla disciplina del capitale sociale – potendo, anzi, essere anticipato fin da quando gli obiettivi per il cui raggiungimento il versamento è stato compiuto non siano raggiunti o non siano più raggiungibili93, e quindi anche in un momento estraneo a vicende liquidatorie. In una prospettiva, va aggiunto, nella quale tali versamenti non sono sospensivamente condizionati all’effettiva deliberazione, ma sono condizionati risolutivamente alla mancata adozione dell’aumento94, se del caso asseverata con l’adozione di una deliberazione negativa95 o comunque derivante da accadimenti oggettivi, fra le quali può essere incluso il fallimento della società. Tale diversa impostazione, come chiaro, incide sull’individuazione della disciplina e sulla rappresentazione contabile di questi versamenti. In particolare, il definitivo mancato aumento del capitale comporta, in capo alla società, il sorgere dell’obbligo di restituzione dei valori a coloro che li hanno originariamente versati, e tale conclusione – in sé ovvia – pone, però, una delicata serie di problemi per quel che riguarda l’iscrizione in bilancio dei valori concernenti i versamenti in conto futuro aumento di capitale, e costituisce uno degli ostacoli più significativi ad appostare tali somme al patrimonio netto sotto forma di riserve – sia pure, come si anticipava, “personalizzate” – per la ragione, dirimente, che i valori che sono soggetti a quella Ma v. Cass. 14 dicembre 1998, n. 12539, in Not., 1999, 538, ove si segnala che, in assenza di elementi probatori destinati a chiarire l’effettiva volontà delle parti, “la chiave di lettura della qualificazione non può che essere ricercata nella terminologia adottata dal bilancio: questo è soggetto all’approvazione dei soci e le qualificazioni che i versamenti hanno ricevuto nel bilancio diventano determinanti per stabilire se si tratta di finanziamento o di conferimento” e ciò in quanto i soci non possono sfuggire all’efficacia interna del bilancio e la “relativa deliberazione di approvazione ha efficacia nei confronti dei soggetti legati dal rapporto sociale”. Nel medesimo senso, più recentemente, cfr. Cass. 13 agosto 2008, n. 21563, in Mass. giur. it. 2008; App. Roma 28 maggio 2009; App. Milano 30 aprile 2007, in Giur. it., 2007, 2449. 92 E nella giurisprudenza di legittimità si vedano, oltre alla citata sentenza n. 6315/1980, fra le più recenti, Cass. 13 agosto 2008, n. 21563, in Mass. giur. it., 2008; Cass. 30 marzo 2007, n. 7980, in Società, 2007, 846; Cass. 31 marzo 2006, n. 7692, in Impresa, 2006, 1039. 93 Cfr. G. FERRI, Le società, in Tratt. dir. civ., diretto da F. Vassalli, X, tomo terzo, 1987, p. 451; G. COTTINO, Le società. Diritto commerciale, IV ed., I, t. 2, Padova, 1999, p. 266. 94 Si vedano, in questo senso, Cass. 6 luglio 2001, n. 9209, in Foro it., 2001, I, 3621; App. Milano, 31 gennaio 2003, in Giur. it., 2003, 1178. 95 Cfr. ancora G. FERRI, Le società cit., p. 451. 91 26 disciplina spettano ai soci, e ad essi soltanto, e non possono essere riservati ad alcuni fra di essi. Piuttosto, sembra coerente ai principi ritenere che sino a quando i valori apportati da(taluni fra)i soci in forma di versamenti in conto aumento di capitale o, più ampiamente, in termini non ascrivibili a funzioni di sovvenzione, non siano formalmente imputati a capitale96, essi debbano essere rappresentanti fra i debiti della società97. Il che comporta che in occasione del fallimento, là dove la società, attraverso i competenti organi, non deliberi l’aumento del capitale se del caso originariamente prefigurato, il socio-apportante potrà insinuare il proprio credito al passivo. Tuttavia, la rilevata causa d’investimento – sia pure realizzato in forma atipica – che sottende a detti apporti, già nel vigore del sistema previgente alla riforma del 2003 ha indotto alcuni a suggerirne la postergazione del rimborso rispetto agli altri crediti98: misura che sembra potersi giustificare alla luce dei principi generali e, segnatamente, in considerazione del fatto che il patrimonio sociale è destinato dapprima alla soddisfazione dei creditori sociali e, solo all’esito dell’integrale pagamento di costoro, al rimborso (e all’eventuale remunerazione se eccedente) degli investitori. Dovrebbe trattarsi, però, per tali ragioni, di una postergazione di secondo grado, ossia di una subordinazione a tutti i crediti della società, sia chirografari, sia postergati ex lege o pattiziamente; costituendosi, così, una gerarchia in base alla quale la destinazione ai soci del patrimonio netto e, prima ancora, la sua determinazione, è subordinata in principio all’integrale soddisfazione dei creditori in senso stretto, quindi a quella degli investitori “atipici”, rispetto ai quali cioè l’apparenza del finanziamento sottende una funzione di investimento dei relativi valori. 13. Al di là della posizione che si assuma in ordine all’estensione alle altre società di capitali e alle società di persone della disciplina in materia di finanziamenti dei soci di cui all’art. 2467 c.c. e lasciando da parte le ipotesi di postergazione convenzionale e di quella sorta di postergazione “individuale”99 di cui agli artt. 61 e ss. l.f., ci si deve interrogare sul trattamento concorsuale del credito del socio per il pagamento di debiti sociali; e ci si riferisce, segnatamente, alle pretese creditorie dei soci illimitatamente responsabili di società in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché dei soci amministratori della società in accomandita per azioni (ma non diversamente è a dirsi per il caso di responsabilità dell’unico socio di società di capitali ai sensi degli artt. 2325, comma 2, e 2462, comma 2, c.c., anche se in questa ipotesi non è previsto il suo fallimento in estensione, come si evince inequivocabilmente dall’art. 147, comma 1, l.f.) per i pagamenti operati, anche nel contesto delle procedure concorsuali eventualmente Il che, del resto, è coerente al principio per cui l’imputazione di valori a capitale sociale è riservata ai conferimenti: cfr. G. FERRI, Le società cit., p. 451; B. LIBONATI, L’informazione societaria e i documenti contabili, in AA. VV., L’informazione societaria. Atti del convegno internazionale di studi. Venezia, 5-6-7 novembre 1981, Milano, 1982, p. 1019 ss., spec. p. 1022; G. FERRI jr, Investimento cit., p. 510 ss. e p. 516 ss. 97 Cfr. M.S. SPOLIDORO, voce Capitale sociale cit., p. 204. 98 Cfr. G. FERRI jr, Investimento cit., p. 541 ss. Contra, nel silenzio della disciplina positiva, P. FERRO-LUZZI, «Conto finanziamento soci» e «fondi speciali iscritti in bilancio» ex art. 2442 c.c., in Giur. comm., 1982, II, p. 891 ss., nonché G. TANTINI, I “versamenti in conto capitale” tra conferimenti e prestiti, Milano, 1990, p. 119, M. IRRERA, I «prestiti» dei soci alla società. Ricostruzione del fenomeno e prospettive di qualificazione e disciplina, Padova, 1992, p. 212, e M.S. SPOLIDORO, voce Capitale sociale cit., p. 202. 99 Cfr. G. GUIZZI, Il passivo cit., p. 291; nonché, più in generale, sul tema dei coobbligati solidali si veda ID., Effetti del fallimento sui debiti pecuniari, in Commentario alla legge fallimentare diretto da C. Cavallini, Milano, 2010, vol. I, p. 1093 ss., spec. p. 1101 ss.; G. STELLA, Creditore di più coobligati solidali, ivi, p. 1173 ss.; D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 165 ss. 96 27 aperte in seguito al fallimento della società partecipata, in ossequio al loro peculiare regime di responsabilità patrimoniale. È ben noto, al riguardo, che il socio che ha soddisfatto un debito della società ha sì diritto di rivalersi pro quota sugli altri soci illimitatamente responsabili – poiché il principio di solidarietà vale soltanto verso i terzi – ma, prima ancora, ha diritto di agire (per l’intero) verso la società100. Il debito soddisfatto, del resto, si appunta ancora in via principale sul patrimonio della società; quindi, il relativo pagamento da parte del socio, avendo il solo scopo di rendere più agevole la soddisfazione dei creditori sociali, non determina la diminuzione del passivo della società (esito che andrebbe ingiustificatamente a vantaggio anche degli altri soci101) ma, più semplicemente, la sostituzione del socio che ha pagato nella stessa posizione del creditore soddisfatto, con evidenti risvolti sulla determinazione del valore reale della partecipazione sociale. Tale vicenda, come chiaro, può presentarsi sia nella fase attiva della società sia, più frequentemente, nel corso della liquidazione ordinaria e del procedimento fallimentare; è nell’ambito della seconda serie d’ipotesi e, segnatamente, nel quadro della concorso fallimentare, però, che ad essa si associano peculiari profili problematici concernenti la relativa disciplina: le norme concorsuali, infatti, mantengono distinti il fallimento dei soci illimitatamente responsabili da quello della relativa società, consentendo che ciascun creditore sociale possa ottenere il pagamento dell’intero nel contesto del fallimento di uno o più soci “salvo il regresso fra i fallimenti dei soci per la parte pagata in più della quota rispettiva” (art. 148, comma 3, ultimo periodo, l.f.). Secondo una prospettiva, quella norma, nel rinviare espressamente al regresso fra i “fallimenti dei soci”, implicitamente escluderebbe che il fallimento del socio che è stato escusso oltre la quota di sua spettanza sulle perdite possa insinuarsi per ottenere dalla società la restituzione di quanto versato ai creditori, nel senso che l’azione di regresso sarebbe circoscritta soltanto agli altri fallimenti; si ritiene, infatti, che i rapporti fra società e socio debbano essere regolati in una fase successiva: segnatamente, all’esito del fallimento e, dunque, dell’integrale soddisfazione dei creditori sociali102. Tale orientamento sembra anche rispondere all’esigenza pratica di superare i numerosi profili problematici che si pongono, in generale, per l’insinuazione al passivo dei crediti dei coobbligati e ai quali si aggiungono, in particolare, quelli tipici del credito del socio illimitatamente responsabile che, come noto, e salvo casi peculiari, pur avendo pagato taluni fra i creditori e vantando, perciò, attualmente, un credito di pari ammontare per la somma pagata, resta obbligato anche nei riguardi degli altri creditori sociali, sì che su quel credito di regresso costoro hanno diritto di soddisfare prioritariamente le proprie pretese. In altre e più semplici parole, oltre ai comuni problemi di “moltiplicazione fittizia” del passivo che siffatta insinuazione (talora richiesta dalla giurisprudenza in forma addirittura precedente all’effettivo pagamento Cfr. F. DI SABATO, Capitale cit., p. 309 ss., e G. FERRI, Delle società. Artt. 2247-2324, in Commentario del cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, III ed., Bologna-Roma, 1981, p. 221. 101 G. FERRI jr, Investimento cit., p. 140, a nota 45. 102 A. JORIO, Il fallimento delle società, in S. AMBROSINI, G. CAVALLI, A. JORIO, Il fallimento, in Tratt. dir. comm., diretto da G. Cottino, XI, tomo II, p. 765 ss., spec. p. 772 s. Il problema sembra, in vero, sfumare là dove si accolga quell’isolata impostazione che propugna anche in sede fallimentare l’attuazione del beneficium excussionis nel senso, in particolare, «che la liquidazione dell’attivo dei fallimenti dei soci deve necessariamente seguire la liquidazione (e la ripartizione) dell’attivo della società»: così A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 331 s. In giurisprudenza cfr. Trib. Caltanissetta, 21 marzo 1961, in Giur. it., 1962, I, 2, c. 460. 100 28 dei debiti sociali e, perciò, nella modalità dell’ammissione con riserva103) solleva, la circostanza che il socio resti illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali sino alla completa soddisfazione dei creditori e salvi gli effetti della esdebitazione, sconsiglia di dare seguito al rimborso di singoli pagamenti effettuati, prima di aver provveduto alla definizione dei rapporti con i terzi: infatti, tali rimborsi, proprio per effetto della perdurante responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali, sarebbero giocoforza destinati a essere oggetto di liquidazione fallimentare ovvero di azione esecutiva, contribuendo a rendere ancora più articolate le relative procedure. Là dove si accolga tale orientamento, suggerito dal tenore letterale dell’art. 148, comma 3, l.f. deve però precisarsi che la natura creditoria delle pretese dei soci per il pagamento di debiti sociali impone di ritenere che il relativo rimborso prima ancora che precedere, sul piano cronologico, la ripartizione dell’eventuale residuo attivo a favore dell’intera compagine sociale, in termini ben più radicali contribuisca a determinarne la sussistenza e l’eventuale ammontare: una diversa soluzione, infatti, sposterebbe, nei rapporti interni, la responsabilità dal patrimonio sociale a quello del socio, “inquinando” il risultato finale dell’investimento104. Al contrario, qualora si preferisca ritenere che il disposto dell’art. 148, comma 3, ultimo periodo, l.f. lasci, in realtà, impregiudicato il problema dell’insinuazione del socio che ha pagato un debito sociale al passivo del fallimento della società (che rimane, del resto, obbligata in via principale), sorge il dubbio, per le ragioni dianzi segnalate, che la relativa ammissione debba essere disposta con clausola di postergazione: e ciò proprio al fine di evitare che la partecipazione del socio-creditore alle successive ripartizioni prima che tutti i creditori siano stati soddisfatti integralmente, esponga il relativo rimborso a una instabilità che, pur non incidendo i saldi delle vicende in esame, tuttavia contribuisce non poco alla complicazione delle procedure. Il problema, d’altra parte, è destinato a complicarsi nel caso in cui la procedura fallimentare si chiuda per l’omologazione di un concordato che, a mente dell’art. 153 l.f., ha effetti esdebitativi che, salvo patto contrario, si estendono anche ai fallimenti dei soci illimitatamente responsabili; in particolare, escludendo la possibilità per il socio che ha soddisfatto crediti sociali di insinuarsi al passivo della società, il richiamato effetto esdebitativo potrebbe avere effetti distorsivi nei rapporti fra soci. È appena il caso di rilevare, infine, che il problema qui richiamato neppure si pone per il caso dell’unico azionista o unico socio di s.r.l. illimitatamente responsabile ai sensi degli artt. 2325, comma 2, e 2462, comma 2, c.c., a motivo del rilievo che in questo caso il mancato fallimento del socio non comporta l’applicazione dell’art. 148, comma 3, ultimo periodo, l.f., ma direttamente dell’art. 62 l.f. (se il pagamento è avvenuto prima del fallimento) ovvero dell’art. 1203 c.c. se successivo all’avvio della procedura105. 14. Un’ulteriore fattispecie di credito subordinato può presentarsi, infine, nelle società azionarie che abbiano istituto uno o più patrimoni destinati regolati agli artt. 2447-bis e ss. c.c.; infatti, contrariamente alle convinzioni più diffuse, un’attenta indagine sulle disposizioni richiamate induce a ritenere che anche per il caso in cui la deliberazione Sul tema cfr. G. STELLA, Creditore di più coobbligati solidali, in Commentario alla legge fallimentare diretto da C. Cavallini, Milano, 2010, vol. I, p. 1173 ss., spec. p. 1192 ss. 104 F. DI SABATO, Capitale cit., p. 342 ss. 105 Sul tema cfr. G. GUIZZI, Effetti del fallimento sui debiti pecuniari, in Commentario alla legge fallimentare diretto da C. Cavallini, Milano, 2010, vol. I, p. 1093 ss., spec. p. 1101 ss., nonché G. STELLA, Creditore cit., p. 1173 ss. 103 29 istitutiva non preveda, ai sensi dell’art. 2447-quinquies, comma 3, c.c., la responsabilità sussidiaria del patrimonio residuo della società, nondimeno, qualora il patrimonio destinato risulti incapiente, i creditori particolari potranno soddisfarsi sul patrimonio residuo con postergazione rispetto agli altri creditori sociali c.d. generali106. Un significativo indice normativo, in tal senso, si rintraccia nell’art. 2447septies c.c., concernente il bilancio della società che abbia costituito uno o più patrimoni destinati, il cui primo comma dispone che i beni e i rapporti inerenti al patrimonio destinato siano indicati, sia pure distintamente, nello stato patrimoniale della società, rispettivamente all’attivo e al passivo. Sebbene il secondo comma dell’articolo richiamato imponga agli amministratori, per ciascun patrimonio destinato eventualmente istituito, la formazione di un separato rendiconto, allegato al bilancio e redatto secondo i criteri e le modalità propri di tale documento contabile – verosimilmente, nella prospettiva di favorire, a vantaggio dei soci, dei creditori e del mercato in generale, una migliore comprensione delle prospettive reddituali e delle condizioni di capienza del patrimonio separato di quanto non sia altrimenti ritraibile dalla sola visione del bilancio della società107, ancorché nel relativo stato patrimoniale le singole voci debbano trovare distinta rappresentazione (onde consentirne un’autonoma evidenza) – la previsione dirimente è quella collocata nel primo comma, a mente della quale nel bilancio della società e, segnatamente, nello stato patrimoniale, debbono confluire le attività e le passività afferenti il patrimonio destinato. E ciò, si osservi, a prescindere dal regime di responsabilità per il quale la società, con la deliberazione di costituzione del patrimonio destinato, abbia concretamente optato, come si evince dal confronto fra il primo e il quarto comma dell’articolo in discorso: difatti, mentre la comprensione nello stato patrimoniale della società dei beni e dei rapporti compresi nel patrimonio destinato è doverosa in ogni caso, l’impegno e la relativa valutazione della responsabilità illimitata del patrimonio generale della società per le obbligazioni nascenti dall’attività concernenti lo specifico affare devono essere indicate in calce allo stato patrimoniale solo qualora la deliberazione costitutiva del patrimonio destinato preveda una tale responsabilità. A rigore, ne discende che anche il passivo dell’affare, indipendentemente dalle condizioni di capienza o meno della porzione di attivo a esso specificatamente destinato, concorre alla determinazione del risultato complessivo della gestione societaria, il quale poi, nel rispetto della disciplina del patrimonio netto, rappresenta ciò che è riservato ai soci. Vale a dire che in forza della regola dettata dall’art. 2447-septies, comma 1, c.c., anche se le passività relative al patrimonio destinato non sono suscettibili di essere saldate integralmente a motivo dell’incapienza di quest’ultimo, il corrispondente valore, in quanto iscritto al passivo dello stato patrimoniale della società, concorre alla determinazione del valore del patrimonio netto della società, incidendo così le somme eventualmente spettanti ai soci. Questa conclusione sembra a tal punto necessaria che la dottrina prevalente, muovendo dal diverso assunto secondo cui, optando per la soluzione più radicale, la società dovrebbe rimanere indenne dagli esiti negativi dell’affare perseguito con il patrimonio destinato, segnala l’esigenza di un’interpretazione “correttiva” del primo comma dell’art. 2447-septies c.c., suggerendo che, nel caso in cui l’esposizione Cfr. G. GUIZZI, Mala gestio dello specifico affare e del patrimonio destinato e responsabilità degli amministratori. Profili sistematici, in Riv. dir. comm., 2008, I, p. 379 ss., spec. p. 393 ss. 107 Cfr. A. NIUTTA, I patrimoni e finanziamenti destinati, Roma, 2006, p. 137 s. 106 30 debitoria del patrimonio destinato conduca a un esito negativo (ossia il valore della passività superi quello delle attività) quest’ultimo debba essere eliso mediante apposite poste correttive iscritte fittiziamente all’attivo108, talora giustificate con il rilievo che sarebbe proprio l’art. 2447-septies c.c., là dove, nel comma 3, impone l’evidenziazione del regime di responsabilità per le singole poste del passivo, a richiedere implicitamente l’evidenziazione di poste fittizie funzionali alla correzione dell’esito. 15. Si tratta, però, di una soluzione non convincente; e, dunque, dinanzi agli obiettivi ostacoli cui l’orientamento prevalente va incontro, sembra preferibile individuare nell’art. 2447-quinquies, comma 3, c.c., non tanto una norma destinata a disciplinare il conflitto di interessi dei soci e dei creditori generali, da un lato, e dei creditori del patrimonio destinato, dall’altro, nel senso cioè che, salvo le precisazioni più volte richiamate, il patrimonio della società, detratto il valore delle poste che concorrono a formare il patrimonio destinato all’esclusivo perseguimento di uno specifico affare, sarebbe destinato dapprima alla soddisfazione dei creditori sociali e quindi, nel caso di residui, ai soci, con l’effetto di escludere ogni partecipazione dei creditori particolari, benché non integralmente soddisfatti con i valori ritraibili dal patrimonio destinato109. Piuttosto, si è proposto di leggervi una norma rivolta (prima a istituire, quindi) a disciplinare il conflitto di interessi fra distinte classi di creditori sociali, nella neutralità delle pretese dei soci. Ciò perché, in assenza di una diversa disposizione della deliberazione di costituzione del patrimonio destinato, i creditori particolari non possono concorrere pariteticamente, ancorché sussidiariamente, con i creditori generali sul patrimonio residuo della società, dovendo quest’ultimo essere riservato alla prioritaria integrale soddisfazione della seconda classe di creditori. Una volta che i creditori sociali generali siano stati, però, integralmente soddisfatti, quella norma non varrebbe a risolvere a favore dei soci l’ulteriore e distinto conflitto sulla destinazione del valore residuo, escludendo così qualsivoglia soddisfazione, anche postergata, dei creditori particolari: un tale esito, infatti, incontra proprio nell’art. 2447-septies, comma 1, c.c. un ostacolo difficilmente superabile. Insomma, secondo l’opinione110 più aderente al dettato normativo, l’art. 2447quinquies comma 3, c.c. non vale a escludere il debito della società nei confronti dei creditori sociali, ma a operare sul distinto piano della responsabilità111 non tanto negandola, quanto modulandola e, in particolare, subordinando le pretese dei creditori sociali particolari a quelle dei creditori sociali generali. Del pari, l’art. 156, commi 1 e 2, l.f., a mente del quale i creditori particolari del patrimonio destinato partecipano alla ripartizione dei valori rivenienti dalla Cfr., fra gli altri, G. RACUGNO, La rappresentazione contabile dello specifico affare, in Giur. comm., 2007, I, p. 619 ss., spec. p. 633, e G. STRAMPELLI, Profili contabili dei patrimoni destinati, in Riv. soc., 2011, p. 585 ss., spec. p. 622 s., ove ultt. riff. In questo senso cfr. anche l’Organismo italiano per la contabilità (Oic), nel principio contabile 2, emesso nel mese di ottobre 2005 (disponibile on-line sul sito internet del predetto Organismo www.fondazioneoic.it). 109 In questo senso la dottrina prevalente: cfr., ex multis, F. D’ALESSANDRO, Patrimoni destinati e vincoli comunitari, in Società, 2004, p. 1061 ss.; M. LAMANDINI, Patrimoni «destinati» e tutela dei creditori, negli Scritti in onore di Vincenzo Buonocore, Milano, 2005, III, 2, p. 2813 ss., spec. p. 2817 s.; G. GIANNELLI, sub art. 2447-quinquies, in Società di capitali. Commentario a cura di G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, II, Napoli, 2004, p. 1240 ss., spec. p. 1242; A. NIUTTA, I patrimoni cit., 91 s. 110 Cfr. ancora G. GUIZZI, Mala gestio cit., p. 393 ss. 111 Cfr. R. NICOLÒ, Della responsabilità patrimoniale, del concorso dei creditori e delle cause di prelazione, già in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1945, e ora in ID., Raccolta di scritti, tomo III, Milano, 1993, p. 499 ss. 108 31 liquidazione del patrimonio destinato incapiente e possono insinuarsi al passivo in caso di responsabilità illimitata della società, non determina, per gli altri casi, l’esclusione dei creditori particolari dalla partecipazione al dividendo fallimentare ma, più limitatamente, ne impedisce la partecipazione al concorso sino a quando non siano compiute le operazioni di liquidazione del patrimonio destinato e, comunque, non prima dell’integrale soddisfazione dei creditori sociali generali112. La regola di soluzione del conflitto fra diverse classi di creditori sociali vale, tuttavia, in termini bidirezionali, nel senso che dall’art. 2447-quinquies, comma 3, c.c. discende l’insensibilità del patrimonio destinato alle pretese dei creditori generali della società sino a quando tale destinazione permanga, e dunque non siano ancora soddisfatti i creditori sociali particolari; in altre parole, il concorso dei creditori sociali generali della società sarà, per un verso, ritardato al momento in cui il patrimonio torni a pieno titolo nel contesto della garanzia patrimoniale generale della società e, per altro verso, limitato a solo quanto effettivamente residui dopo che si sia provveduto all’integrale rimborso di tutti i creditori particolari. L’interpretazione proposta risulta coerente con la disciplina generale della liquidazione della società per azioni e, segnatamente, con gli artt. 2491, comma 2, e 2495, comma 2, c.c. In entrambi i casi, infatti, la legge mostra di ritenere prevalenti rispetto agli interessi dei soci e, in particolare, alle loro aspettative sul residuo eventualmente riveniente dalla liquidazione, le pretese dei creditori sociali che, per un verso, vincolano l’operatività dei liquidatori, dei quali limitano i poteri nelle ripartizioni ai soci di acconti sulla quota di liquidazione e, per altro verso, consentono ai creditori, una volta che la liquidazione si sia chiusa, di poter agire nei confronti dei soci per vedere soddisfatto il proprio credito, ovviamente nei limiti di quanto ricevuto da costoro in sede di riparto. Le norme citate si riferiscono senza dubbio a tutte le società per azioni e, dunque, anche a quelle che eventualmente abbiano costituito uno o più patrimoni destinati, e mostrano di non distinguere fra classi di creditori sociali, i quali sono, indifferentemente, tanto quelli che vantano pretese privilegiate sul patrimonio sociale, quanto quelli che vantano pretese privilegiate sul patrimonio destinato. In altre parole, il legislatore, nel disciplinare la peculiare figura dei patrimoni destinati, non ha inteso sovvertire la caratteristica tipica dell’operazione societaria: l’essere, cioè, una disciplina organizzativa del finanziamento e dell’organizzazione di un’attività d’impresa che si appunta su un unico e autonomo centro di riferimento di situazioni giuridiche soggettive e i cui risultati economici sono destinati in termini residuali ai soci. Infatti, proprio la perdurante unitarietà della società anche quando essa abbia deciso la costituzione di uno o più patrimoni destinati non vale a modificare il rapporto sussistente, in ordine alla destinazione dell’attivo patrimoniale, fra soci e creditori sociali. 16. Ma v’è di più: questa soluzione consente di risolvere numerosi profili problematici che la dottrina, all’indomani della novella del 2003 e della riforma del diritto fallimentare, aveva segnalato in merito ai patrimoni destinati, a cominciare dal rilievo che, paradossalmente, sottraendo la fattispecie in discorso alle norme sul capitale sociale e, più in generale, a quelle che presiedono alla destinazione del patrimonio netto, alla società fosse consentito, di fatto, di esercitare lo specifico affare in regime di limitazione della responsabilità, con la possibilità di accumulare perdite su perdite, dal In vero, proprio sul disposto dell’art. 156, comma 2, l.f. fa leva l’opinione, contraria a quanto sostenuto nel testo, di D. VATTERMOLI, Crediti cit., p. 88 s., a nota 3. 112 32 momento che se il patrimonio destinato scende a zero o diviene negativo non è prescritto che cessi il perseguimento dello specifico affare113. Infatti, assecondando la prospettiva proposta, trovano piena e completa applicazione le norme sul capitale e sul patrimonio netto, da cui discende che la società vede significativamente limitata la possibilità di accumulare perdite, incidendo il saldo negativo del patrimonio destinato sul valore del patrimonio netto. In secondo luogo, sembrano ulteriormente depotenziati i dubbi, tuttora persistenti, in ordine alla fallibilità del patrimonio destinato. Quella eventualità, come è noto, è apparentemente esclusa dalla disciplina positiva, la quale dispone che in caso di incapienza del patrimonio destinato si applichino le norme della liquidazione delle società di capitali in quanto compatibili (art. 156, comma 1, l.f. e 2447-novies, comma 2, c.c.). E in dottrina, a sostegno di questa tesi, si è osservato che risulterebbe incongruo il fallimento di un soggetto che, nonostante il frazionamento patrimoniale operato con la costituzione del patrimonio destinato, rimane unitario: ciò perché la segregazione di componenti del patrimonio e la specializzazione della responsabilità non significano, di per sé, frazionamento del centro di imputazione114. Non sempre, però, da tali premesse si deducono le naturali conseguenze: in particolare, il rilievo che la responsabilità patrimoniale continui ad appuntarsi integralmente sul patrimonio della società, sia pure diversamente graduata, induce a escludere il fallimento della società, quando non addirittura del patrimonio destinato, a motivo dell’incapienza di quest’ultimo, in ragione del fatto che il giudizio sull’insolvenza ha ad oggetto l’impresa complessivamente considerata e non un sua particolare articolazione organizzativa, per quanto rilevante ai fini dello specifico atteggiarsi della responsabilità patrimoniale. E, d’altra parte, questa soluzione normativa risulta adeguata alla circostanza che l’incapienza del patrimonio destinato, di per sé, non implica ancora l’insolvenza della società; né, per altri versi, la capienza del patrimonio destinato esclude che l’impresa sociale sia ormai decotta. In ogni caso, però, l’esito della prospettiva indicata impone di ritenere che il creditore del patrimonio destinato, a prescindere del contenuto della deliberazione costitutiva del patrimonio medesimo (e, segnatamente, del fatto che essa preveda la responsabilità residuale del patrimonio della società), potrà ricorrere per la dichiarazione di insolvenza della società e, se del caso, proporre insinuazione del relativo credito al passivo del fallimento; e ciò anche nel caso in cui il patrimonio destinato risulti tuttora capiente: infatti, l’insolvenza della società, risolvendosi in una disfunzione dell’organizzazione, potrebbe avere risvolti negativi anche sulla gestione del patrimonio destinato. 17. Le annotazioni relative alla peculiare disciplina in tema di destinazione del patrimonio sociale a creditori e soci consentono di accennare al risalente dibattito in tema di compensazione del debito da conferimento del socio con i crediti vantati nei riguardi della società115 che, sia nel contesto della liquidazione, sia in quello delle procedure concorsuali suscita vivaci perplessità poiché attraverso tale istituto il sociocreditore ottiene, almeno parzialmente, e cioè nei limiti della predetta estinzione, di Cfr., per questi rilievi critici, F. D’ALESSANDRO, Patrimoni destinati cit., p. 1061 ss. Cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 342 s. 115 Sul problema, stante la vasta bibliografia, si vedano, oltre agli autori indicati nelle note seguenti, G. FERRI jr, Investimento cit., p. 273 ss., e, più di recente, F. MARTORANO, Compensazione cit., passim. 113 114 33 sovvertire il principio secondo il quale la propria aspettativa sul rimborso del conferimento sia non solo eventuale ma soprattutto residuale rispetto all’integrale pagamento dei creditori. A partire da questo rilievo, la dottrina si è interrogata se sia consentito ritenere il debito del socio per i decimi non ancora versati soggetto all’operatività dell’art. 56 l.f. In realtà, come non si manca di notare116, il tema sembra poter ricevere soluzioni distinte a seconda che la società sia ancora in fase attiva e si trovi in bonis, ovvero che sia pendente la liquidazione o che sia stata avviata la procedura fallimentare117. Del resto, nella “vita attiva” dell’impresa sociale il ricorso all’istituto della compensazione potrebbe addirittura assumere tratti vantaggiosi per la società e per i suoi creditori (si pensi, esemplificando, alle ipotesi di aumento di capitale attraverso compensazione di debiti preesistenti, nel contesto delle quali, pur rimanendo invariato il saldo patrimoniale, si determina la diminuzione del passivo reale per la degradazione dei valori compensati a componenti del patrimonio netto; o, ancora, alla possibilità per la società di eccepire la compensazione verso il socio moroso, in un momento nel quale la precarietà delle condizioni economiche e patrimoniali di quest’ultimo potrebbe rendere incerto l’esito dell’esecuzione sui suoi beni)118. D’altra parte, nonostante i numerosi tentativi intrapresi, la dottrina non è stata sinora in grado di attingere dalla disciplina della compensazione e, segnatamente, dalle eccezioni alla sua operatività contemplate nell’art. 1246 c.c., un generale divieto al ricorso a tale istituto nei rapporti fra soci e società; in un contesto – va aggiunto – nel quale la giurisprudenza e, in particolare, quella di legittimità, è decisamente orientata ad ammettere la compensazione del debito di conferimento119. Tuttavia, l’approccio analitico al problema sembra consentire di giungere a una diversa soluzione, almeno per i casi in cui la società sia in stato di liquidazione o sia soggetta alla procedura fallimentare120. Nelle vicende appena evocate, infatti, l’operatività della compensazione fra il debito di conferimento e i crediti vantati dal socio verso la società potrebbe ritenersi vietata a mente dell’art. 1246, n. 5, c.c., come sembra doversi ricavare dai principi iscritti negli artt. 2280 e 2491 c.c. e nell’art. 150 l.f., in ragione del diverso significato funzionale che l’esecuzione del conferimento assolve nelle diverse fasi in cui si puntualizza la vicenda societaria e che si esprime in statuti normativi fra loro significativamente distinti. Alla funzione d’investimento che il conferimento assume nel corso della “vita attiva” della società nell’ambito della liquidazione o in sede concorsuale si assiste all’emersione di una funzione del conferimento quale strumento di indiretta soddisfazione dei creditori sociali. Tant’è vero che l’esigibilità del debito di N. SALANITRO, Azioni; obbligazioni; bilancio; modificazioni dell’atto costitutivo, in Rassegna di diritto societario (1962), Riv. soc., 1964, p. 147 ss., spec. p. 160 s.; C. ANGELICI, Appunti sull’art. 2346 c.c., con particolare riguardo al conferimento mediante compensazione, in Giur. comm., 1988, I, p. 175 ss., spec. p. 185; F. DI SABATO, Sulla estinzione per compensazione del debito di conferimento, in Contr. e impr., 1995, p. 651 ss., spec. p. 656 ss. 117 Ma per l’esclusione tout court della compensazione fra crediti e debito da conferimento cfr. G. FERRI, Manuale di diritto commerciale, XIII ed. a cura di C. Angelici e G.B. Ferri, Torino, 2010, p. 337, sulla base del rilievo che le due posizioni non competono al socio nella stessa qualità: il credito, infatti, gli spetta in quanto terzo, il debito, invece, gli grava uti socius; in termini simili v. P. FERRO-LUZZI, I contratti associativi, Milano, 2001 (rist. 1973), p. 317 s., a nota 31. 118 Cfr. C. ANGELICI, Appunti cit., p. 185. 119 Cfr., da ultimo, Cass. 19 marzo 2009, n. 6711; ma, in senso diametralmente opposto, cfr. Cass. 10 dicembre 1992, n. 13095, richiamata da C.F. GIAMPAOLINO, Profili cit., p. 75 a nota 60. 120 Nel medesimo senso già N. SALANITRO, Azioni cit., p. 160 s. 116 34 conferimento da parte della società – pur sancita dalle previsioni richiamate – deve ritenersi condizionata (senz’altro nella liquidazione, ma verosimilmente anche in sede fallimentare121) all’insufficienza del patrimonio sociale al pagamento dei creditori sociali. Infatti, sia l’art. 2280, sia l’art. 2491 c.c. subordinano la possibilità dei liquidatori di chiedere proporzionalmente ai soci i versamenti ancora dovuti alla circostanza che “i fondi disponibili risultano insufficienti per il pagamento dei debiti sociali”. E nella stessa prospettiva l’art. 150 l.f. consente al giudice delegato, su proposta del curatore, di ingiungere ai soci a responsabilità limitata e ai precedenti titolari della quote o delle azioni “di eseguire i versamenti ancora dovuti, quantunque non sia scaduto il termine per il pagamento”: norma che, per quanto non lo specifichi espressamente, muove dal presupposto dell’insufficienza del patrimonio a soddisfare integralmente il passivo sociale o, meglio, dalla mancanza di mezzi idonei a pagare i creditori sociali (in un’accezione che allora potrebbe non necessariamente evocare l’incapienza del patrimonio in quanto tale)122. L’esigibilità del debito di conferimento risponde, nelle due fasi predette, a una funzione radicalmente diversa da quella imposta al conferimento nella vita attiva della società. Si tratta, infatti, nella liquidazione ordinaria, di definire l’originaria operazione d’investimento: finalità cui è presupposto indispensabile la regolazione dei rapporti con i terzi; ovvero, di procedere all’esecuzione concorsuale sul patrimonio della società insolvente al fine di soddisfare le ragioni dei creditori sociali. In entrambi i casi, il conferimento è espressamente destinato dalla legge alla soddisfazione di (tutti) i creditori sociali. Il che spiega l’irrilevanza, sicuramente nella procedura fallimentare (ma forse anche nell’ambito della disciplina della liquidazione ordinaria, sia pure non sia prevista una disciplina consimile a quella dell’art. 150 l.f. 123), dell’eventuale termine non ancora scaduto per effettuare il versamento. Al riguardo, taluno ha ritenuto inconferente al problema che ci occupa il richiamo alla previsione dell’art. 150 l.f., sostenendo che il potere ivi sancito a favore del curatore di agire per il versamento dei decimi trovi il proprio limite nell’eccezione Contra A. NIGRO, La società per azioni cit., p. 349 ss., sulla base del rilievo formale secondo il quale l’art. 150 l. f. non riproduce il previgente inciso dell’art. 852 cod. comm., a mente del quale il curatore avrebbe potuto chiedere ulteriori versamenti solo allorché essi fossero risultati necessari per soddisfare il passivo della società, e del rilievo sostanziale per cui tale decreto ingiuntivo può essere richiesto in qualsiasi momento e dunque anche prima che si abbia la formazione del passivo, dimostrandosi la sostanziale diversità delle due fasi, quella fallimentare e quella di liquidazione ordinaria, soltanto nella seconda della quali si persegue una finalità liquidativa. In vero, quanto al primo argomento, si può rilevare che nel contesto della procedura fallimentare l’assenza di fondi disponibili per il pagamento dei creditori può ragionevolmente presumersi a motivo del dissesto conclamato, sì che la riproduzione dell’inciso avrebbe potuto costituire un freno alla procedura, ulteriormente pregiudicando gli interessi dei creditori, che qui prevale rispetto a quello dei soci alla massimizzazione del risultato della liquidazione (e in senso non dissimile v. G.F. CAMPOBASSO, Fallimento della società per azioni ed esecuzione dei conferimenti in denaro, in Riv. dir. civ., 1976, I, p. 511 ss., spec. p. 539 ss.). Sul secondo, invece, deve rilevarsi che se, in effetti, la procedura fallimentare potrebbe non determinare lo scioglimento della società, d’altra parte costituisce una fase in cui, almeno tendenzialmente, si definisce l’esito dell’originaria operazione d’investimento. 122 Senza che questo implichi, nel caso di liquidazione concorsuale, che i soci possano eccepire la esistenza di fondi disponibili sufficienti per il pagamento dei creditori sociali, in ragione della prevalenza dell’esigenza di un rapido soddisfacimento dei creditori rispetto all’opposto interesse dei soci come gruppo a che le operazioni di liquidazione siano condotte secondo criteri di redditività (se necessario anche dilazionandole nel tempo), cioè secondo criteri che consentano di rendere ottimale il risultato economico finale dell’attività di impresa: così G.F. CAMPOBASSO, Fallimento cit., p. 537 s., e, di recente, C.F. GIAMPAOLINO, Profili cit., p. 74. 123 Contra G. FERRI jr, Investimento e conferimento cit., p. 243, a nota 41. 121 35 di compensazione124. Tale impostazione, tuttavia, non sembra valorizzare a sufficienza i dati normativi e sistematici a disposizione, sottolineando soltanto i termini meramente formali e procedimentali della vicenda. In realtà, il legislatore, consentendo l’avvio del procedimento monitorio verso i soci anche se non è ancora scaduto il termine per il pagamento, segnala la prevalenza della procedura sulla scansione temporale che lo statuto può avere previsto per il versamento dei decimi; questo profilo, peraltro, non esaurisce la peculiarità del procedimento speciale in discorso rispetto all’ordinaria escussione dei crediti della società. La l.f., infatti, mostra di considerare con particolare rilievo l’interesse della società a ottenere i versamenti ancora dovuti atteso che il procedimento delineato nell’art. 150 l.f. deroga, a favore del fallimento, alla procedura monitoria ordinaria (nel cui solco, per gli altri profili, invece, si inserisce: e cfr. l’art. 150, comma 2, l.f., introdotto con la recente riforma) assegnando la competenza all’emissione del decreto al giudice delegato e semplificando l’onere della prova a carico della procedura, al fine di intensificare le possibilità di ottenere agevolmente dai soci i valori necessari a soddisfare le pretese dei creditori125. Ciò nondimeno, l’art. 150 l.f., specie nella prospettiva tradizionale, potrebbe destare qualche perplessità in ragione del fatto che, di per sé, il fallimento della società dovrebbe risultare neutro per i soci a responsabilità limitata e per le loro obbligazioni verso la società medesima, in coerenza al principio secondo il quale la sentenza dichiarativa di fallimento importa la scadenza dei debiti del solo fallito (art. 55, comma 2, l.f.), non anche di quelli dei suoi debitori in bonis, quali a rigore, sviluppando la tradizionale tesi soggettivistica, dovrebbero essere ritenuti i soci. In effetti, in dottrina si spiega con difficoltà questa previsione, individuandovi, talora, l’esigenza di imprimere un’accelerazione alla procedura fallimentare126 e, talaltra, l’espressione della costante prevalenza dell’interesse della società127; ancora, si è proposto di ritenere l’art. 150 l.f. ispirato al principio per cui i termini convenuti fra i soci per l’esecuzione dei conferimenti avrebbero valore solo nel rapporto fra costoro e la società, non potendo essere opposti ai creditori sociali128. In realtà, sembrano preferibili quegli orientamenti che hanno segnalato le affinità analogiche sussistenti fra il predetto art. 150 e l’art. 55, comma 2, l.f., a mente del quale i debiti del fallito si intendono scaduti alla data del fallimento. Ciò perché, come rilevava già la dottrina più risalente, sia pure con diversità di accenti, il fallimento finisce per colpire indirettamente anche il debito degli azionisti129, nonostante che sul piano formale a fallire sia l’ente sociale e non i soci: la società, del resto, altro non è che la collettività dei soci e, dunque, è l’opportunità legislativa a scegliere i limiti entro i Cfr. M.S. SPOLIDORO, I conferimenti in denaro, in Tratt. soc. per az. a cura di G.E. Colombo e G.B. Portale, 1**, Torino, 2004, p. 247 ss., spec. p. 427; F. MARTORANO, Compensazione cit., p. 541; A.R. ADIUTORI, sub art. 150, in A. NIGRO, M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La legge fallimentare cit., II, 1971 ss., spec. p. 1975 s. 125 Ci si riferisce, in particolare, da un lato, al fatto che l’art. 150 l. fall. attribuisce al giudice delegato, in deroga all’art. 637 c.p.c., la competenza all’emissione di un decreto ingiuntivo, peraltro senza che occorra la prova scritta, differentemente da quanto previsto in generale dall’art. 633, comma 1, c.p.c.; dall’altro lato, che appunto di decreto ingiuntivo si tratta, come adesso precisa l’art. 150, comma 2, l. fall. (introdotto con la riforma del 2006, ai sensi del quale contro il provvedimento del giudice delegato «può essere proposta opposizione ai sensi dell’art. 645» c.p.c.: cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto delle crisi cit., p. 333, ma già A. NIGRO, La società per azioni cit., p. 347). 126 S. SATTA, Diritto fallimentare cit., p. 434. 127 A. NIGRO, La società per azioni cit., p. 209. 128 G. AULETTA, Esecuzione dei conferimenti sociali e compensazione, in Dir. e giur., 1945, p. 118 s. 129 Cfr. E. SIMONETTO, Prestazione del socio e compensazione, in Riv. dir. comm., 1955, I, p. 237 ss., spec. p. 242 ss. 124 36 quali estendere ai soci gli effetti del fallimento. In altre parole, l’art. 150 l.f. non è che un’ulteriore dimostrazione di come l’ordinamento giuridico mostri di intendere la personalità giuridica o, più ampiamente, la distinta soggettività e l’autonomia dell’ente societario (il che vale, allora, anche per le società personali); nel senso, cioè, che l’autonomia e la distinta soggettività cui più volte si è fatto riferimento costituiscono per il sistema uno strumento funzionale a determinati fini e dunque capace di estendersi e ridursi in ragione dei diversi interessi che emergono130. Da questo punto di vista, solo formalmente il socio può essere ritenuto debitore verso la società, mentre nella sostanza lo è nei confronti della collettività dei creditori sociali. Ma la prospettiva, in realtà, tende a essere sfalsata, nella misura in cui il socio è allo stesso tempo creditore della società (al pari di tutti gli altri creditori sociali) e debitore non (più) della società ma della massa dei creditori, evocando una vicenda nella quale la dottrina e la giurisprudenza escludono unanimemente l’operatività della compensazione131. Sembra condivisibile, allora, vedere nella destinazione normativa del valore del conferimento alla soddisfazione di tutti i creditori sociali (imposta nel fallimento dall’art. 150 l.f. e in sede di liquidazione dagli artt. 2280 e 2491 c.c.) un principio che risulterebbe violato dalla compensazione ex art. 56 l.f.132. E la violazione, in particolare, consisterebbe in ciò: che consentendo al socio di dedurre in compensazione di un proprio credito verso la società il debito di conferimento si realizzerebbe l’effetto di sottrarre il valore di quest’ultimo alla sua funzione normativa133: esso infatti si rivelerebbe funzionale non già al pagamento di tutti i debiti sociali, bensì all’estinzione, ancorché parziale, di quello verso il socio134. 18. Nelle società azionarie è tipica la raccolta dei mezzi finanziari necessari per l’esercizio dell’impresa in forma di capitale proprio (i.e.: conferimenti e, secondo alcune prospettive, altri versamenti in conto capitale) e di capitale altrui (sovvenzioni)135; con riguardo a quest’ultimo, le risorse affluiscono sia mediante distinti e autonomi negozi di finanziamento – comunque denominati e qualsivoglia struttura assumano – sia per il tramite di operazioni unitarie di finanziamento all’esito delle quali è offerta la sottoscrizione di titoli di debito (obbligazioni e altri strumenti finanziari) che rappresentano frazioni identiche di operazioni collettive, con significativi riflessi anche di natura organizzativa sulla relativa disciplina136. Sulla strumentalità della società cfr. M. MAUGERI, Partecipazione sociale e attività d’impresa, Milano, 2010, p. 99, nonché, si licet, M. ROSSI, Responsabilità e organizzazione dell’esercizio dell’impresa di gruppo, in Riv. dir. comm., 2007, I, p. 613 ss., spec. p. 643 s. 131 Cfr., ex multis, S. SATTA, Diritto fallimentare cit., p. 185 s., ove ult. riff.; G. GUIZZI, Il passivo cit., p. 285; A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 148. 132 Contra A. NIGRO, La società per azioni cit., p. 351. 133 Contra F. MARTORANO, Compensazione cit., p. 548. 134 Cfr. G. FERRI jr, Investimento cit., p. 287. 135 Cfr. G. FERRI jr, Investimento cit., p. 497 ss. 136 Sul tema la produzione scientifica è pressoché sconfinata; pertanto ci si limita a segnalare, oltre alle opere generali ove è possibile attingere ulteriori indicazioni bibliografiche, quegli studi che più specificatamente riguardano la disciplina delle obbligazioni nel contesto della crisi dell’impresa; pertanto, si vedano, in generale, D. PETTITI, I titoli obbligazionari delle società per azioni, Milano, 1964; G. FERRI, Le società cit., p. 522 ss.; G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni, in Tratt. soc. per az., diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, V, Torino, 1988, p. 379 ss.; B. LIBONATI, Titoli di credito e strumenti finanziari, Milano, 1999, passim; R. CAVALLO BORGIA, Della società per azioni. Tomo IV. Delle obbligazioni, in Commentario Scialoja-Branca a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 2005, passim; G. FERRI jr, Fattispecie societaria e strumenti finanziari, in Riv. dir. comm., 2003, I, p. 805 ss., G.L. BRANCADORO, sub artt. 2410 ss., in Società di capitali. Commentario a cura di G. Niccolini e A. Stagno 130 37 Non è questa la sede per affrontare approfonditamente il tema; basti rammentare che l’emissione di obbligazioni e, più in generale, di titoli di debito, rileva non soltanto sotto il profilo patrimoniale e finanziario – dando luogo, tendenzialmente, al sorgere di un’obbligazione debitoria della società verso i possessori dei titoli in parola concernente i valori erogati e la relativa remunerazione –, ma anche sotto quello organizzativo: infatti, sul piano tipologico, è elemento caratterizzante della vicenda la formazione di un gruppo organizzato che raccoglie i possessori delle obbligazioni e che è titolare di specifiche competenze destinate funzionalmente alla tutela collettiva degli obbligazionisti137. In vero, è tuttora aperto in dottrina e nella giurisprudenza il dibattito intorno al contenuto e ai limiti delle competenze funzionali che la legge assegna all’assemblea degli obbligazionisti e al loro rappresentante comune, nonché, specularmente, ai margini riservati all’iniziativa del singolo obbligazionista; e tali questioni si pongono anche nel contesto della crisi dell’impresa, rispetto al quale ci si interroga, in particolare, sulle peculiarità della partecipazione degli obbligazionisti alle procedure concorsuali, di cui è dato rintracciare un referente normativo espresso negli artt. 2415, comma 1, n. 3, e 2418, comma 2, c.c., nonché negli artt. 58, 93, comma 9, 125, comma 4, e 171, commi 4 e 5, l.f. La persistente presenza di margini d’incertezza è il frutto di una vicenda che, a fronte dell’unitaria operazione di emissione obbligazionaria e del principio di organizzazione degli obbligazionisti, non genera né riguardo ai rapporti fra titolari delle obbligazioni, né riguardo a quelli fra costoro e la società, la completa unificazione del gruppo, come segnala l’art. 2419 c.c., in forza del quale le competenze assegnate all’assemblea degli obbligazionisti e al rappresentante comune “non precludono le azioni individuali degli obbligazionisti, salvo che queste siano incompatibili con le deliberazioni dell’assemblea previste dall’art. 2415”: tale disposizione, del resto, se rivela la prevalenza delle decisioni adottate dall’assemblea degli obbligazionisti nelle materie di sua spettanza rispetto alla contraria iniziativa di ciascun titolare di obbligazioni – nonché, evidentemente, degli atti esecutivi delle stesse posti in essere dal rappresentante comune, ai sensi dell’art. 2418, comma 1, c.c. – nel contempo conferma la sussistenza di un significativo margine di autonomia per l’iniziativa del singolo obbligazionista. 19. La dottrina si è interrogata a fondo sul novero delle competenze dell’assemblea degli obbligazionisti e del rappresentante comune, la cui individuazione risulta fondamentale nell’applicazione della disciplina in commento; si consideri, infatti, che d’Alcontres, II, Napoli, 2004, p. 928 ss.; A. GIANNELLI, sub artt. 2410 ss., in Obbligazioni. Bilancio, a cura di M. Notari e L.A. Bianchi, nel Commentario alla riforma delle società diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, 2006, p. 5 ss., e L. AUTUORI, sub artt. 2415 ss., ivi, p. 203 ss.; L. PISANI, Le obbligazioni, in AA. VV., Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, 1, Torino, 2006, p. 763 ss., nonché, quanto alla disciplina del codice di commercio, per tutti, le ampie pagine di G. BONELLI, Del fallimento, III ed., Milano, 1939, v. III; in particolare, sui temi della crisi della società, R. SACCHI, Gli obbligazionisti nel concordato della società, Milano, 1981, passim; F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni e gli altri titoli di debito nel fallimento dell’emittente, con uno sguardo alla riforma del diritto societario, in Giur. comm., 2008, I, p. 1109 ss.; F. GUERRERA, Struttura finanziaria, classi dei creditori e ordine delle prelazioni nei concordati delle società, in Dir. fall., 2010, I, p. 707 ss.; L. PISANI, Prestito obbligazionario e crisi dell’impresa, in AA. VV., La struttura finanziaria e i bilanci delle società di capitali. Studi in onore di Giovanni E. Colombo, Torino, 2011, p. 89 ss., nonché ID., I titoli obbligazionari tra riforma del diritto societario e riforma del diritto concorsuale, Torino, 2010. 137 Cfr. G. FERRI, Le società cit., p. 523 ss. 38 ritenere – come in giurisprudenza si è proposto138 – che i poteri di rappresentanza processuale che l’art. 2418 c.c. assegna al rappresentante comune incontrino un limite insuperabile nei diritti soggettivi medio tempore maturati in capo ai singoli obbligazionisti, potrebbe far propendere – quantomeno nel contesto delle procedure concorsuali e, segnatamente, in quella fallimentare – per la sostanziale dissoluzione dell’organizzazione di gruppo, in considerazione del rilievo che alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, a norma dell’art. 55 l.f., si consolida il diritto di credito discendente dai titoli obbligazionari. Si tratta, però, di una prospettiva che non solo è rimasta pressoché isolata, ma che risulta contraddetta dalla disciplina positiva che, per un verso, assegna all’assemblea degli obbligazionisti la competenza generale a deliberare sulle modificazioni delle condizioni del prestito – espressione nella quale si rintraccia sovente un potere generale di rimodulazione non soltanto delle condizioni accessorie del prestito obbligazionario, ma anche di quelle sostanziali, nel novero delle quali si enumerano la misura degli interessi, i termini del rimborso, la relativa entità, le garanzie, etc.139 – nonché quella, specifica, a deliberare sulla proposta di concordato (art. 2415, comma 1, n. 2 e 3, c.c.)140; e, per altro verso, nel regolare i profili funzionali del rappresentante comune, gli conferisce il potere di rappresentanza processuale degli obbligazionisti anche “nel concordato preventivo, nel fallimento, nella liquidazione coatta amministrativa e nell’amministrazione straordinaria della società debitrice” (art. 2418, comma 2, c.c.), e lo annovera espressamente fra i legittimati alla promozione della domanda di ammissione al passivo “anche per singoli gruppi di creditori” (art. 93, comma 9, l.f.). Alla luce di queste disposizioni sembra preferibile ritenere che, anche nelle fasi che accompagnano la crisi dell’impresa, la tutela dell’interesse comune degli obbligazionisti resti affidata ai competenti organi del gruppo organizzato141, in concorso con le iniziative che ciascun singolo obbligazionista intenda promuovere a norma dell’art. 2419 c.c. 20. Tuttavia, sembra necessario in questa sede concentrarsi sulle singole questioni che incrociano la crisi dell’impresa, a cominciare dal problema della legittimazione alla dichiarazione di fallimento che l’art. 6 l.f. riserva, fra gli altri, ad uno o più creditori, nel novero dei quali non è dubbio siano compresi anche gli obbligazionisti. In proposito, è ragionevole ritenere che ciascun obbligazionista, proprio in quanto titolare di pretese creditorie che si appuntano sul patrimonio della società, sia legittimato a proporre autonomamente istanza di fallimento; la vicenda si presenta, però, problematica quando l’opportunità della promozione di essa sia oggetto di una deliberazione dell’assemblea degli obbligazionisti, nell’ambito della generale competenza a conoscere degli “altri oggetti d’interesse comune degli obbligazionisti” (art. 2415, comma 1, n. 5, c.c.). Nel caso in cui l’assemblea deliberi la promozione dell’istanza, l’eventuale ricorso del singolo obbligazionista, per quanto improbabile, Trib. Milano, 2 marzo 1970, in Foro it., 1970, I, 1810. Cfr. G. FERRI, Le società cit., p. 533 s., R. CAVALLO BORGIA, Delle obbligazioni cit., p. 148 ss., ove ultt. riff. bibll.; in termini parazialmente distinti cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 496 s., il quale infatti esclude che l’assemblea possa pronunciarsi sui dati tipizzanti della fattispecie, vale a dire il suo essere mutuo fruttifero frazionato in titoli di credito. 140 Cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 499 s. 141 Cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 516; A. NIGRO, Le società per azioni cit., p. 362. 138 139 39 non sembra potersi escludere stante il tenore dell’art. 2419 c.c., diversamente, invece, da quanto sarebbe a dirsi nell’ipotesi in cui l’assemblea rigetti la proposta di deliberazione (melius: adotti una deliberazione negativa avente tale contenuto); anche nel secondo caso, però, sembra ragionevole riconoscere la legittimazione ex art. 6 l.f. a ciascun titolare di obbligazioni, e ciò non tanto perché la mancata adozione della deliberazione non costituisca essa stessa decisione incompatibile ex art. 2419 c.c., quanto perché il peculiare contenuto che essa assume, fondato com’è sulla situazione presente al momento della deliberazione medesima, non sembra impedire una successiva diversa valutazione dei fatti, di per sé suscettibile di riespandere la legittimazione del singolo. Tutti problemi che, in vero, neppure ha senso porre nel caso in cui l’istanza di fallimento sia proposta dal rappresentante comune di propria iniziativa, attingendo al generale dovere di “tutelare gli interessi comuni” degli obbligazionisti nei confronti della società (art. 2418 c.c.): non è dubbio, infatti, che anche tale soggetto, per quanto non appartenga ad alcuna delle categorie menzionate nell’art. 6 l.f., tuttavia, in virtù della rappresentanza dell’organizzazione degli obbligazionisti (e, dunque, di creditori della società), sia ex lege legittimato all’esercizio del potere assegnato ai creditori nel menzionato art. 6 l.f.; nondimeno, la sua iniziativa, a mente dell’art. 2419 c.c., non sembra idonea a paralizzare quella (successiva e) contraria di ciascun obbligazionista. 21. Si pone, in secondo luogo, il problema dell’insinuazione al passivo dei crediti degli obbligazionisti, secondo il valore determinato ai sensi dell’art. 58 l.f. (sul quale infra § 23). Nel vigore del sistema previgente, nonostante che in un caso142 la giurisprudenza avesse negato la legittimazione del rappresentante comune a insinuare al passivo il valore delle obbligazioni ancora in circolazione anche per l’ipotesi in cui agisse in esecuzione di un’acconcia deliberazione dell’assemblea degli obbligazionisti – e ferma restando la possibilità di domande individuali di ammissione al passivo, senz’altro ammissibili stante il chiaro disposto dell’art. 2419 c.c. – l’opinione prevalente era di segno contrario143, corroborata dall’art. 2418, comma 2, c.c., a mente del quale il rappresentante comune “per la tutela degli interessi comuni ha la rappresentanza processuale degli obbligazionisti anche nell’amministrazione controllata, nel concordato preventivo, nel fallimento e nella liquidazione coatta amministrativa della società debitrice”. I provvedimenti di riforma del diritto delle società di capitali intervenuti nel decennio appena trascorso hanno lasciato sostanzialmente inalterate le disposizioni richiamate, alle quali, però, si è aggiunto, da ultimo, il succitato art. 93, comma 9, l.f. che nel testo novellato ad opera del d.lgs. n. 5/2006 consente che la domanda di ammissione al passivo sia proposta “dal rappresentante comune degli obbligazionisti ai sensi dell’art. 2418, secondo comma, del codice civile, anche per singoli gruppi di creditori”. Proprio la nuova disciplina fallimentare convince della persistente legittimazione del rappresentante comune a insinuare al passivo il valore complessivo del credito obbligazionario scaduto per effetto dell’apertura della procedura Cfr. Trib. Milano, 2 marzo 1970, cit. Cfr. R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 63 ss.; G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 516. In giurisprudenza cfr. Trib. Parma, 16 dicembre 2004 (decr.), nell’ambito del procedimento avviato in occasione della crisi di Parmalat s.p.a., ined. ma citato in M. BENINCASA, sub art. 58, in Commentario alla legge fallimentare diretto da C. Cavallini, I, Milano, 2010, p. 1162, in nota 13. 142 143 40 fallimentare144: infatti, la legittimazione del rappresentante comune ivi sancita, che sembra poter prescindere anche da un’apposita deliberazione dell’assemblea degli obbligazionisti, pare assegnare a tale figura il potere-dovere di insinuare al passivo del fallimento il complessivo valore delle obbligazioni determinato ai sensi dell’art. 58 l.f. Sono necessarie, però, alcune precisazioni. In primo luogo, il tenore letterale dell’art. 93, comma 9, l.f., prescrivendo che il rappresentante comune può – e non deve – proporre la domanda di insinuazione al passivo, potrebbe indurre a ritenere che l’insinuazione non rappresenti un dovere ma, più semplicemente, una peculiare legittimazione processuale straordinaria rimessa alla discrezionalità del rappresentante comune ovvero sollecitata dalla richiesta di uno o più obbligazionisti, come confermerebbe l’inciso “anche per singoli gruppi di creditori”. Tuttavia, i dubbi d’ordine testuale indotti dalla norma richiamata, alla luce delle considerazioni precedenti, possono essere sgombrati rilevando che la peculiarità dell’art. 93, comma 9, l.f. riposi non tanto nel prevedere la legittimazione del rappresentante comune, in vero desumibile già a mente dell’art. 2418, comma 2, c.c., bensì, all’opposto, nell’introdurre una deroga a tale ultima disposizione, nel senso che il ricorso che il rappresentante degli obbligazionisti deve promuovere a tutela dell’interesse comune di costoro può essere circoscritto ad alcuni soltanto fra i titolari delle obbligazioni e, segnatamente, a beneficio di quanti non vi abbiano ancora provveduto autonomamente (come deve ritenersi senz’altro consentito ex art. 2419 c.c.), ovvero non vi abbiano rinunciato145. Sul piano operativo, deve rilevarsi che la circostanza che l’insinuazione al passivo sia proposta del rappresentante comune – tendenzialmente per l’intero valore delle obbligazioni ancora in circolazione – impone di ritenere che l’indicazione nominativa dei titolari del credito (ossia, degli attuali possessori delle obbligazioni in circolazione) richiesta nel contesto dell’atto di ricorso dall’art. 93, comma 2, n. 1, l.f., possa essere validamente adempiuta con l’indicazione della serie e del numero di ciascun titolo, senza distinguere le obbligazioni al portatore da quelle nominative (si noti, del resto, che nella disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi si prevede espressamente, in materia di concordato, che “nel caso di ammissione di strumenti finanziari che non consentano l’individuazione nominativa dei soggetti legittimati, saranno ammessi nell’elenco i crediti relativi all’importo complessivo di ogni singola categoria di strumenti finanziari”: art. 4-bis, comma 6, primo periodo, d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, conv. con modificazioni dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39). 22. Come si è anticipato, il perdurante significato organizzativo concernente l’emissione di obbligazioni è confermato anche dalla disciplina dell’approvazione dei concordati Deve, peraltro, ritenersi confermato l’indirizzo della dottrina (cfr. R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 63, e G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 516) secondo il quale non v’è necessità che l’iniziativa del rappresentante comune sia preceduta da una deliberazione dell’assemblea degli obbligazionisti, trattandosi di un potere direttamente riconosciuto dalla legge al primo, strumentale alla tutela degli interessi comuni della categoria: cfr. A. NARDONE, sub art. 93, in A. NIGRO, M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La legge fallimentare cit., II, p. 1194 ss., spec. p. 1200 s. 145 Contra F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1137 ss., secondo il quale la novellata formula dell’art. 93, comma 8, l.f., nel senso che “al rappresentante comune degli obbligazionisti compete il diritto-dovere di agire non solo nell’interesse di tutti i creditori, ma anche di singoli (o per singoli) gruppi di essi e, va aggiunto, persino nell’interesse di singoli obbligazionisti. In conclusione, il singolo obbligazionista non può proporre autonomamente domanda di ammissione al passivo, ma conserva il diritto di impedire al rappresentate comune di agire anche nel suo interesse”. 144 41 preventivo e, soprattutto, fallimentare; in termini generali, infatti, l’art. 2415, comma 1, numero 3, c.c., relativo alle competenze dell’assemblea degli obbligazionisti, dispone che essa deliberi “sulla proposta di amministrazione controllata e di concordato”, inducendo i più a concludere che gli obbligazionisti debbano esprimersi unitariamente sulla proposta di soluzione concordataria della crisi e conseguendone, quale corollario, l’integrale applicazione dei principi della collegialità, il primo e più significativo dei quali è costituito dalla regola maggioritaria146; con l’esito che, ai fini delle maggioranze necessarie per l’approvazione del concordato, il voto degli obbligazionisti concorrerà per l’intero ammontare delle obbligazioni emesse e non estinte147. La dottrina e la giurisprudenza di merito, al riguardo, hanno avuto modo di precisare che la deliberazione dell’assemblea ha carattere propedeutico all’esercizio del voto da parte del rappresentante comune148: si tratta di una interpretazione che, specie all’indomani della riforma, riceve significativa conferma nell’art. 125, ultimo comma, l.f. con cui il legislatore dispone che per il caso in cui la società abbia emesso “obbligazioni o strumenti finanziari oggetto della proposta di concordato” fallimentare, la comunicazione ai creditori della proposta ai fini del procedimento di approvazione della stessa sia inoltrata “agli organi che hanno il potere di convocare le rispettive assemblee, affinché possano esprimere il loro eventuale dissenso”, all’uopo prolungando il termine previsto nel secondo comma della norma in commento – in vero, per un difetto di coordinamento originato dall’art. 9, d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, l’art. 125, ultimo comma, rimanda al precedente comma terzo – per l’invio al tribunale da parte dei creditori delle eventuali dichiarazioni di dissenso, con l’esplicito fine di “consentire l’espletamento delle predette assemblee”. Ora, lasciando da parte i dubbi sul significato dell’espressione “obbligazioni o strumenti finanziari oggetto della proposta di concordato”, da taluno ritenuta priva di senso149 e che invece i più, al fine di conservare al disposto un qualche significato normativo, reputano relativa alle ipotesi – verosimilmente prevalenti – in cui la proposta Cfr. F. FERRARA, La posizione degli obbligazionisti nel concordato della società emittente, in Dir. fall., 1960, p. 19 ss., spec. p. 32; R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 23 ss. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 499 s. 147 Cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 500; R. CAVALLO BORGIA, Delle obbligazioni cit., p. 156 ss. Così anche A. LA MALFA, sub art. 125, in Commentario alla legge fallimentare, diretto da C. Cavallini, III, Milano, 2010, p. 59 ss., spec. p. 80; B. ARMELI, sub art. 171, ivi, p. 617 ss., spec. p. 627 s.; G. DI CECCO, sub 125, in A. NIGRO, M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La legge fallimentare cit., II, p. 1703 ss., spec. p. 1723 s.; F. GUERRERA, Le soluzioni negoziali cit., p. 164 e p. 172; A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 297, i quali, per l’ipotesi in cui gli obbligazionisti siano stati raggruppati in una classe, s’interrogano se, ai fini della determinazione della volontà della classe, valgano le regole civilistiche sulla delibera dell’assemblea degli obbligazionisti, oppure quelle proprie della maggioranza all’interno della classe ex art. 128, comma 1, l.f. In vero, non sembra che a conclusioni diverse si possa pervenire per gli accordi di ristrutturazione dei debiti previsti nell’art. 182-bis l.f.: sebbene, infatti, né la disciplina codicistica né quella fallimentare si occupino espressamente del problema, la competenza organizzativa dell’assemblea degli obbligazionisti, seguendo gli esiti della migliore dottrina sul tema (cfr., ancora, G. FERRI, Le società, cit., p. 509, e R. CAVALLO BORGIA, op. ult. cit., p. 151), può verosimilmente rintracciarsi nella previsione dell’art. 2415, comma 2, n. 2, c.c., concernente le deliberazioni “sulle modificazioni delle condizioni del prestito”: contra, v. L. AUTUORI, sub artt. 2415 ss. cit., p. 216 s. 148 In dottrina, in tal senso, cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 499. Su questa fase cfr. Trib. Milano, 9 dicembre 1987, in Giur. comm., 1988, II, 609 ss., che, contrariamente a parte della dottrina (e si veda, oltre a Campobasso, loc. ult. cit., R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 87 s., ove ultt. riff.) secondo il quale le esclusioni dal voto nell’adunanza dei creditori previste dall’art. 177 l.f. non si estendono alla fase propedeutica costituita dalla deliberazione sulla proposta di concordato preventivo della società da parte dell’assemblea degli obbligazionisti. 149 Cfr. P.F. CENSONI, Il concordato fallimentare, in S. BONFATTI e P.F. CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, IV ed., Padova, 2011, p. 461 s. 146 42 rechi forme di decurtazione o, più genericamente, di novazione di tali crediti150, si deve osservare che la norma citata esprime un valore particolarmente rilevante ai fini di quanto si viene dicendo. Infatti, la necessità di agevolare la convocazione delle assemblee degli obbligazionisti e, più in generale, dei titolari di altri strumenti finanziari, cui è ispirato l’art. 125, ultimo comma, l.f., si spiega soltanto con l’esigenza di consentire a tali organi di adottare una deliberazione sulla proposta di concordato fallimentare, della quale, se del caso, il rappresentante comune dovrà rendersi successivamente portavoce151. La diversa e isolata opinione, tesa a dimostrare che ciascun obbligazionista sia legittimato a dissentire autonomamente e individualmente dalla proposta di concordato, degradando così la convocazione dell’assemblea degli obbligazionisti a finalità meramente informative o, al più, ricognitive, non sembra potersi giustificare a fronte sia del chiaro tenore letterale dell’art. 2415, comma 1, n. 3, c.c., sia del predetto art. 125, ultimo comma, l.f. In questo senso, è interessante notare come la riformulazione della norma da ultimo richiamata dissolva ogni residua ambiguità insita nel previgente testo normativo che, invece, con minore chiarezza espositiva recitava: “se vi sono obbligazionisti la proposta di concordato deve essere comunicata al rappresentante degli obbligazionisti e il termine concesso ai creditori per far pervenire nella cancelleria del tribunale la loro dichiarazione di dissenso, deve essere raddoppiato”. Ambiguità che, al contrario, potrebbe ritenersi tuttora sussistente nell’art. 171, commi 4 e 5, l.f., concernente il concordato preventivo, ove si prevede che “se vi sono obbligazionisti, il termine previsto dall’art. 163, primo comma, n. 2 [relativo alla convocazione dell’adunanza dei creditori; anche in questo caso a motivo di un difetto di coordinamento con il nuovo art. 163, il rinvio deve intendersi al secondo comma, n. 2], deve essere raddoppiato”, stabilendosi, altresì, che “in ogni caso l’avviso di convocazione per gli obbligazionisti è comunicato al loro rappresentante comune”. A prima vista, infatti, la diversa formulazione della norma – il cui testo, si noti, è rimasto inalterato152 – potrebbe indurre a ritenere che, a differenza che per il concordato fallimentare, in quello preventivo ciascun obbligazionista sia legittimato a partecipare al voto sulla proposta; ma si tratta di una soluzione che è contraddetta sul piano testuale dal chiaro disposto dell’art. 2415, comma 1, numero 3), c.c., e che sul piano sistematico non appare convincente, istituendo un trattamento non soltanto diverso ma, addirittura, opposto fra le due specie di concordati difficilmente Cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 297, i quali segnalano come potrebbero esservi, per converso, ipotesi in cui esistono obbligazionisti “e questi non debbono essere messi al corrente della presentazione di una proposta di concordato, perché privi della legittimazione al voto: e questa ipotesi può aversi qualora le obbligazioni siano assistite da una garanzia reale sui beni della società e la proposta preveda il pagamento integrale dei privilegiati; oppure, sia previsto un pagamento integrale degli obbligazionisti, pur se chirografari”. 151 A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 297, osservano che “la nuova formulazione della norma sembra dar ragione a chi, anche in passato, riteneva che in realtà il voto dell’obbligazionista «si fonde» nella deliberazione dell’assemblea degli obbligazionisti, così che all’esterno (e ai fini dell’accettazione della proposta) gli obbligazionisti appaiono come un unico creditore, titolare di un credito pari all’ammontare del prestito obbligazionario ancora non estinto”. 152 Il mancato richiamo, nella norma citata, degli strumenti finanziari (presente invece nell’art. 125, ultimo comma, l.f.) ha suggerito ad alcuni di estendere in via analogica l’ambito di applicazione del disposto al fine di comprendervi anche tali figure di nuova introduzione (cfr., in tal senso, P.F. CENSONI, Il concordato preventivo, in S. BONFATTI e P.F. CENSONI, Manuale cit., p. 598; B. ARMELI, sub art. 171 cit., p. 628); si tratta, tuttavia, di uno sforzo interpretativo forse non necessario, giacché, come si preciserà più avanti nel testo, gli strumenti finanziari che il codice consente alle società azionarie di emettere devono ritenersi come una species del più ampio genus delle obbligazioni. 150 43 giustificabile. Si consideri, del resto, che l’argomento talora evocato per negare la legittimazione dell’organizzazione degli obbligazionisti circa le condizioni del prestito – vale a dire, la maturazione medio tempore del diritto di credito – se potrebbe, in tesi, spiegare la legittimazione al voto del singolo titolare di obbligazioni per il caso di concordato fallimentare, in particolare deducendola dalla scadenza del credito discendente dall’art. 55, comma 2, l.f., con difficoltà potrebbe, invece, giustificare un sistema addirittura rovesciato: nel cui contesto, cioè, la legittimazione individuale è espressamente esclusa per il concordato che chiude il fallimento, mentre è riconosciuta – così, di fatto, dissolvendo l’organizzazione degli obbligazionisti – in un momento in cui non soltanto non è scontato che l’impresa sia insolvente ma, soprattutto, il debito non è ancora necessariamente scaduto. Nonostante la recente riforma dell’art. 178 l.f. abbia esteso al concordato preventivo il meccanismo del “silenzio assenso”, già in vigore per quello fallimentare nell’art. 128 l.f., l’oggetto della deliberazione dell’assemblea degli obbligazionisti potrebbe assumere un contenuto diverso a seconda che essa sia chiamata a esprimersi su un concordato fallimentare o preventivo: infatti, mentre per il primo la proposta di deliberazione assumerà in ogni caso contenuto negativo (vale a dire, di non adesione)153, per il secondo potrebbe avere l’uno o l’altro valore, giacché l’assemblea potrebbe sia deliberare di aderire alla proposta, rendendo di fatto superflua la partecipazione all’adunanza dei creditori, sia di non aderirvi, imponendo in tal modo al rappresentante comune di prendere parte all’adunanza o, quantomeno, di comunicare nei termini di legge il voto contrario degli obbligazionisti154. Di là, però, da questo profilo, ciò che vale la pena indagare sono gli eventuali poteri del singolo dinanzi alla deliberazione o, meglio, alla sua mancata adozione, da parte dell’assemblea. Al riguardo, il problema sembra dover essere risolto distinguendo l’ipotesi in cui l’assemblea abbia rigettato la proposta di deliberazione (di adesione o, se del caso, di non adesione), adottando, cioè, una deliberazione negativa, da quella in cui l’inerzia degli organi preposti alla convocazione dell’assemblea o l’impossibilità di funzionamento di quest’ultima abbia impedito l’adozione di qualsiasi deliberazione. Infatti, è solo nel primo caso, e non anche nel secondo, che sussiste una deliberazione idonea a paralizzare l’iniziativa individuale del singolo ai sensi dell’art. 2419 c.c.155. Cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 297. Cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 499, che rileva come l’oggetto della deliberazione dell’assemblea degli obbligazionisti in ordine al concordato non attiene direttamente l’approvazione della proposta, «ma la definizione dell’atteggiamento da tenersi in merito alla stessa». 155 Cfr., sia pure nel vigore del sistema previgente, A. BONSIGNORI, Del concordato, in Legge fallimentare, a cura di F. Bricola, F. Galgano, G. Santini, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1977, p. 127 ss., spec. p. 242 s., nonché ID., Del concordato preventivo cit., p. 371 s.; G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 501, A. NIGRO, Le società per azioni cit., p. 275; in termini non del tutto coincidenti cfr. R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 71 ss. Nel nuovo sistema, si v. R. CAVALLO BORGIA, Delle obbligazioni cit., p. 159, e B. ARMELI, sub art. 171 cit., p. 628, che si sofferma sull’ipotesi di mancanza del rappresentante comune, segnalando, in particolare, in quel caso si dovrebbe assistere alla sospensione dei termini concessi dalla legge per lo svolgimento delle adunanze degli obbligazionisti, così da consentire la nomina di tale soggetto (così anche M. PADELLARO, sub art. 171, in A. NIGRO, M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La legge fallimentare cit., III, p. 2154 ss., spec. p. 2158): in difetto, “si ritiene che la qualifica di obbligazionisti, ai fini e agli effetti dell’art. 171 l.f., sia destinata a perdere rilevanza, con la conseguenza che i soggetti interessati saranno convocati e si presenteranno all’adunanza come singoli, disponendo ciascuno del proprio diritto di voto nel modo che riterrà più opportuno” (per il problema, nel vigore del sistema previgente, cfr. A. BONSIGNORI, Del concordato preventivo cit., p. 280). Sul tema cfr. anche G. RACUGNO, Concordato cit., I, p. 521, a nota 213, secondo il quale “in caso di mancata nomina da parte dell’assemblea degli obbligazionisti [del rappresentante comune], provvederà all’uopo il tribunale (art. 2417, secondo comma, c.c.), e, fino a tale nomina, la domanda di concordato deve ritenersi improcedibile”. 153 154 44 Assecondando questa prospettiva, si rileva sovente che, in caso di deliberazione, agli obbligazionisti assenti o dissenzienti sia consentito soltanto di promuovere impugnazione avverso la deliberazione della loro assemblea156, senza potere anche proporre opposizione in sede di omologazione del concordato ai sensi degli artt. 129 e 180 l.f. Si tratta, però, in quest’ultimo caso, di una conclusione che potrebbe infrangersi dinanzi al fatto che l’istituto dell’opposizione cui si è appena fatto cenno è consentito a qualsiasi interessato, espressione che nella sua genericità potrebbe comprendere anche i singoli obbligazionisti. Piuttosto, il rilievo unitario del gruppo e la conseguente soggezione della minoranza alla valutazione (soprattutto sulla convenienza economica del piano concordatario) compiuta dalla maggioranza, sembrano impedire di sollevare dinanzi al tribunale fallimentare questioni sia sulla convenienza della proposta (e, in questo senso, un precedente normativo potrebbe rintracciarsi nell’art. 2503-bis, comma 1, c.c., dettato in tema di fusione – ma applicabile anche alla scissione in virtù del richiamo operato dall’art. 2506-ter, comma 5, c.c. – a mente del quale “i possessori di obbligazioni delle società partecipanti alla fusione possono fare opposizione a norma dell’art. 2503, salvo che la fusione sia stata approvata dall’assemblea degli obbligazionisti”), sia su profili lato sensu di legittimità della procedura che siano stati oggetto di valutazione in sede di adozione della deliberazione. È appena il caso di notare, infine, che con la riforma riceve soluzione anche il dubbio – assai rilevante nel sistema previgente – sulla considerazione unitaria o, all’opposto, atomistica degli obbligazionisti nel computo delle maggioranze richieste per l’approvazione del concordato: si ricorderà, infatti, che prima del recente intervento riformatore, la legge fallimentare richiedeva a tal fine il consenso della maggioranza numerica dei creditori aventi diritto al voto, la quale rappresentasse almeno i due terzi della somma dei loro crediti. A tale riguardo, mentre era (e rimane) indubbio che il valore dei crediti relativi all’emissione obbligazionaria corrispondesse a quello di tutte le obbligazioni emesse e ancora non estinte, si discuteva, invece, se il voto espresso dal rappresentante comune dovesse essere computato, ai fini del distinto quorum capitario, in numero pari a quello degli obbligazionisti, soluzione verso la quale la dottrina sembrava propendere157. Il problema è adesso superato dalla nuova disciplina che ai fini dell’approvazione del concordato non esige più la maggioranza assoluta dei creditori, ma soltanto quella (capitalistica) del valore dei crediti che si appuntano sull’impresa in crisi o fallita. 23. Un aspetto di centrale rilievo è quello concernente il valore del credito obbligazionario da insinuare al passivo. Si deve rammentare, al riguardo, che, tendenzialmente, l’emissione di obbligazioni e, più in generale, di titoli di debito realizza un’operazione nella quale all’iniziale apporto, da parte del sottoscrittore, di un determinato valore (che, come più avanti si dirà, può essere somministrato strumentalmente anche attraverso la prestazione di opere e servizi: cfr. art. 2346, ultimo comma, c.c.), si conviene il rimborso della quota capitale inizialmente versata e la V. in tal senso A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 297, ma già A. NIGRO, Le società per azioni cit., p. 276. Per il dibattito precedente alla riforma del diritto fallimentare cfr. R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 23 ss., e G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 499 s. 157 E si vedano, sul problema, F. FERRARA, La posizione cit., p. 33 ss.; D. PETTITI, I titoli cit., p. 232 ss.; A. BONSIGNORI, Del concordato preventivo cit., p. 371 s., tendenzialmente tutti orientati per il rilievo unitario del gruppo, e R. SACCHI, Gli obbligazionisti cit., p. 35 ss., e G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 500 s., di opposto parere. 156 45 relativa remunerazione, in forma d’interessi periodici talora indicizzati all’andamento della società o a indici di mercato a essa estranei, come pure, ai sensi del novellato art. 2411, ultimo comma, c.c., anche l’originaria esclusione del rimborso della quota capitale. L’art. 58 l.f. fissa i criteri per la determinazione del valore dei crediti derivanti da obbligazioni e altri titoli di debito da insinuare al passivo, sostanzialmente replicando quanto già disposto dall’art. 851 del codice di commercio del 1882. Nel vigore del previgente codice, tuttavia, era previsto che s’insinuasse al passivo il valore di emissione delle obbligazioni, eventualmente detratto quanto fosse stato medio tempore rimborsato in base a eventuali ammortamenti scaglionati; il tenore della disposizione, però, era oggetto di critica da parte della dottrina158 in ragione del rilievo che le società, frequentemente, non si obbligano a restituire quanto originariamente versato (ossia, il prezzo di emissione), bensì il valore nominale del titolo159: vale a dire che ai fini del concorso fallimentare il credito avrebbe dovuto ammontare al valore che il creditore avrebbe potuto esigere, non al corrispettivo pagato all’atto della sottoscrizione. E ciò conformemente alla prassi che, talora, vuole il valore nominale superiore al prezzo di emissione, in ragione del rilievo che il rimborso può comprendere anche la quota parte di remunerazione del finanziamento (nella forma del c.d. premio di emissione, dove la differenza è fra il prezzo di emissione e il valore nominale del rimborso, ovvero del c.d. premio di rimborso, ove la differenza è fra il valore nominale dell’obbligazione e l’importo, in tesi maggiore, che sarà corrisposto alla scadenza). L’art. 58 l.f., sin dalla sua versione originaria, in effetti ha emendato il “vizio” della previgente disciplina, rinviando espressamente al prezzo nominale (e adesso, ancora più chiaramente, al valore nominale) delle obbligazioni160; nondimeno, esso non sembra risolvere tutti i profili dubbi concernenti il valore del credito da insinuare al passivo. Se da un lato, infatti, la dottrina conviene che la scadenza di tutti i debiti del fallito, genericamente disposta dall’art. 55, comma 2, l.f., trovi applicazione anche alle obbligazioni e agli altri titoli di debito161, si discute, invece, se alle fattispecie richiamate debba trovare altresì applicazione la disciplina dettata dall’art. 57 l.f. in tema di crediti infruttiferi, in forza della quale quelli non ancora scaduti alla data del fallimento “sono ammessi al passivo per l’intera somma. Tuttavia, a ogni singola ripartizione saranno detratti gli interessi composti, in ragione del cinque per cento all’anno, per il tempo che resta a decorrere dalla data del mandato di pagamento sino al giorno della scadenza del credito”. La ratio della norma richiamata, come noto, riposa sul rilievo che l’originaria mancata previsione della corresponsione periodica degli interessi si spieghi in virtù del fatto che il valore del credito infruttifero comprende anche tale remunerazione; pertanto, l’art. 57 l.f. vale a conservare parità di trattamento fra i crediti infruttiferi e i crediti fruttiferi, per i quali invece la legge fallimentare dispone la sospensione del corso degli interessi (in vero tendenziale: si veda infatti l’art. 55, comma 1, l.f. che, nonostante il contrario avviso talora espresso in dottrina, sembra dover trovare applicazione anche alle obbligazioni garantite da pegno, ipoteca o privilegio). In particolare, ci s’interroga se l’art. 57 l.f. trovi applicazione anche per le Cfr. G. BONELLI, Del fallimento cit., p. 272. Cfr. L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 92 s. 160 Cfr. B. INZITARI, sub art. 58 cit., p. 827; F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1114. 161 E v., per tutti, A. NIGRO, Le società per azioni cit., p. 361. 158 159 46 obbligazioni e gli altri titoli di debito per i quali non sia prevista alcuna remunerazione oltre al rimborso del valore nominale dei titoli. La dottrina coeva al codice di commercio del 1882, in ossequio al principio adesso consacrato nell’art. 57 l.f., si mostrava incline a ritenere che il creditore avrebbe potuto esigere il valore nominale delle obbligazioni (e non dunque il solo prezzo di sottoscrizione di cui all’art. 851 cod. comm.) solo nel caso in cui le obbligazioni predette fossero scadute162: in tale circostanza, infatti, il premio, corrispondente alla differenza fra il prezzo pagato e il valore nominale del titolo, avrebbe rappresentato il cumulo di una parte degli interessi periodici ritenuti e capitalizzati dalla società, in ragione del decorso del numero degli anni calcolati dal piano di emissione. Nel sistema vigente, può rilevarsi che nell’ipotesi in cui nell’ambito di un’emissione obbligazionaria non sia prevista la corresponsione di alcun interesse ma soltanto il pagamento, alla scadenza, del valore nominale (in tesi, maggiore del prezzo di emissione, o comunque di un importo maggiore del valore nominale: c.d. premio di rimborso), non sembrano sussistere ostacoli all’applicazione della disciplina dei crediti infruttiferi recata nell’art. 57 l.f.163. Negli altri casi, quantitativamente prevalenti, in cui le obbligazioni riconoscano ai loro possessori sia il diritto al pagamento del relativo valore nominale (in tesi, maggiore del prezzo di emissione), sia la remunerazione periodica in forma d’interessi, ancorché indicizzati (dunque, modalità di remunerazione combinate), per la quota capitale sembra invece preferibile dare integrale applicazione all’art. 58 l.f., anche in ragione del rilievo che le specificità sia temporali (un’emissione obbligazionaria ha tendenzialmente un orizzonte di medio-lungo periodo) sia organizzative potrebbero indurre a ritenere maggiormente adeguata una considerazione autonoma di questa tipologia di finanziamento, come tale insuscettibile di essere attratta, ancorché ne presenti per alcuni aspetti i caratteri, entro lo schema dei crediti infruttiferi. D’altra parte, sembra pacifico ritenere che per il caso di obbligazioni che contemplino forme di remunerazione determinate sia mediante il pagamento di un interesse periodico, sia attraverso altre tecniche d’indicizzazione, si dovrà dar luogo all’insinuazione dell’ammontare del relativo credito che sia scaduto o venga a scadenza alla data della dichiarazione di fallimento (arg. ex art. 55 e 59 l.f.)164. 24. Distinto problema è quello regolato nella seconda parte dell’art. 58 l.f., ove si legge che “se è previsto un premio da estrarre a sorte, il suo valore attualizzato viene distribuito tra tutti i titoli che hanno diritto al sorteggio”. Il tenore letterale della norma risulta non soltanto semplificato165 ma, in realtà, almeno in parte modificato166 rispetto al testo originario, nel vigore del quale si stabiliva che, per le obbligazioni rimborsabili per estrazione a sorte, con somma superiore al prezzo nominale (premio a sorte)167, si sarebbe dovuto insinuare al passivo della società un credito corrispondente al valore attuale unitario dei titoli (in ogni caso non inferiore al prezzo nominale, detratto ciò che Cfr. ancora G. BONELLI, Del fallimento cit., p. 272 s. Cfr., in tal senso, L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 93, che osserva, peraltro, come la dottrina prevalente suggerisca di coordinare la misura dell’interesse al cinque per cento, contemplato nell’art. 57 l.f., con la variabilità del saggio legale di interessi disposta dall’art. 1284 c.c. 164 Cfr. F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1132 s., e L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 93 s. 165 Così F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1116. 166 Cfr. L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 97 s. 167 Sulle obbligazioni “a premio” (ipotesi, in vero, ormai desueta nella pratica societaria: cfr. L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 97), cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 426 ss. 162 163 47 sia stato pagato a titolo di rimborso di capitale168), ottenuto deducendo l’interesse composto del cinque per cento dall’ammontare complessivo delle obbligazioni non rimborsate, e dividendo il valore così calcolato per il numero delle obbligazioni non estinte. La versione previgente, in allora recata nel secondo comma dell’art. 58 l.f., era dai più ritenuta applicabile ai c.d. premi generali, cioè a quei premi o sconti che la società si obbligava a corrispondere a tutti gli obbligazionisti169, sia pure in momenti cronologicamente distinti170, e che si distinguono dai c.d. premi speciali (o premi in senso proprio), i quali, invece, sono utilità aleatorie aggiuntive alla rimunerazione dell’investimento, attribuite ad alcuni soltanto degli obbligazionisti, individuati secondo il sistema dell’estrazione a sorte171: mentre per i primi, l’estrazione è una delle modalità astrattamente compendiabili, funzionali a scandire il tempo del rimborso – comunque dovuto a tutti i titolari delle obbligazioni –, nei secondi è lo strumento necessario per individuare quali, fra questi ultimi, siano anche destinatari delle predette utilità aggiuntive. La nuova formulazione, invece, sembra far riferimento, almeno in forma espressa, ai soli premi speciali, come pare suggerire l’ultima parte della norma che dispone la distribuzione del relativo valore “tra tutti i titoli che hanno diritto al sorteggio”; nondimeno, secondo quanto si dirà più avanti, questo meccanismo può trovare applicazione a qualsiasi premio a sorte172, dato che anche per quelli di tipo generale l’aleatorietà temporale della sua attribuzione incide inevitabilmente sul valore delle obbligazioni173. Del resto, l’eventualità che alcune fra le obbligazioni vengano rimborsate prima della scadenza o, comunque, prima delle altre, consente di evidenziare un lucro consistente nel differenziale fra il valore nominale del titolo (che viene rimborsato) e il suo valore attualizzato (ottenuto applicando il tasso di sconto alla quota parte del valore nominale relativa alla retribuzione del finanziamento). Alla data della dichiarazione di fallimento, pertanto, le obbligazioni ancora in circolazione appartenenti alla categoria in discorso dovrebbero risultare soggette alla disciplina dell’art. 57 l.f.; Nella versione vigente della norma è venuto meno il divieto di attribuire alle obbligazioni un valore inferiore al prezzo nominale, detratto quel che era stato pagato a titolo di rimborso: pertanto, non sembra fino in fondo convincente l’opinione che l’attuale formulazione del primo comma non consentirebbe tuttora di andare al di sotto della pari, ovviamente detratti eventuali rimborsi già operati (e vedi in tal senso F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1117 s., che muove dal rilievo secondo il quale “il rimborso del capitale rappresenta un aspetto indefettibile di obbligazione e titolo di debito”): in vero, l’abrogazione del divieto sembra funzionale a comprendere nell’ambito di applicazione della norma il caso in cui le obbligazioni o, più in generale, gli strumenti finanziari emessi dalla società, “condizionano i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economica della società”, fattispecie che anche l’A. da ultimo indicato mostra di ritenere tipologicamente inclusa nella (ampliata) figura delle obbligazioni (ivi, p. 1122 ss.; sul tema si rinvia sin d’ora al § 26). 169 Nondimeno, secondo G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 439, ne suggeriva l’applicazione, in via analogica, anche ai premi speciali. 170 Cfr. B. INZITARI, sub art. 58 cit., p. 828; A. COPPOLA, sub art. 58 cit., p. 855; L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 97 s. 171 Cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 425; B. INZITARI, sub art. 58 cit., p. 828; L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 97 s. 172 L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 98. 173 Non sembra possibile, invece, estendere la sfera di applicazione della norma all’ipotesi, già considerata, di obbligazioni aventi un valore nominale superiore al prezzo di emissione, rintracciando in questo caso il premio nel differenziale fra prezzo di emissione e valore nominale: infatti, come già si è segnato, la fattispecie può essere agevolmente ascritta all’art. 57 l.f., sottraendosi così alle difficoltà testuali imposte dalle esigenze di attualizzazione dei valori nonché dal riferimento al metodo della sorte, che presuppone un trattamento differenziato fra i titolari delle prestazioni. 168 48 tuttavia, la circostanza che alla predetta data ciascuna obbligazione incorpori anche un’aspettativa all’estrazione e, dunque, a beneficiare di un premio (consistente nel rimborso anticipato senza sconto) impone di ripartire il relativo valore attualizzato fra tutte le obbligazioni, attingendo al disposto dell’art. 58 l.f. Si dovrà, insomma, dare contestuale applicazione a entrambi gli artt. 57 e 58 l.f. Ne discende che l’avvio della procedura fallimentare, se impedisce l’attribuzione aleatoria di utilità addizionali ad alcuni soltanto tra gli aventi diritto, tuttavia non fa venire meno il debito della società, avente a oggetto l’erogazione agli obbligazionisti di una somma aggiuntiva al valore nominale delle obbligazioni ancora non rimborsate, rappresentata dall’ammontare complessivo dei premi che avrebbero dovuto essere estratti alle varie scadenze: vale a dire che il fallimento non estingue – né, in forza dei principi generali, potrebbe farlo – il debito contratto dalla società174, concernente i premi connessi al rimborso delle obbligazioni. Piuttosto, nell’ambito della procedura fallimentare, il legislatore prende atto che il meccanismo dell’estrazione a sorte dei titoli beneficiari del premio, andando a vantaggio di alcuni soltanto dei creditori, non è coerente con il principio di cristallizzazione della situazione debitoria alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, orientandosi così all’attribuzione pro-quota del valore del premio debitamente attualizzato175. E si tratta, a ben vedere, di una soluzione imposta176 dal rilievo che, alla data della sentenza dichiarativa di fallimento il credito relativo a ciascuna obbligazione non ancora rimborsata si compone non soltanto del valore nominale del titolo, ma anche dell’ulteriore valore, connesso ab origine a ciascuna obbligazione, commisurato alle probabilità di risultare aggiudicatari del premio. È evidente, allora, che, sebbene la norma non precisi più, come nel passato, tale eventualità, non si dovrà tener conto dell’ammontare complessivo dei premi astrattamente previsti nella deliberazione di emissione delle obbligazioni e, più in generale, dei titoli di debito, ma esclusivamente di quelli non ancora corrisposti. La norma tace in ordine alle modalità di attualizzazione del valore dei premi: al riguardo, taluni suggeriscono l’applicazione del tasso legale semplice; altri, invece, propendono per l’applicazione del tasso legale composto, attingendo in via analogica al sistema fissato nell’art. 57 l.f.177. Cfr. B. INZITARI, sub art. 58, in Il nuovo diritto fallimentare. Commentario diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, I, Bologna, 2006, p. 826 ss., spec. p. 829, e A. C OPPOLA, sub art. 58, in A. NIGRO, M. SANDULLI, V. SANTORO (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, I, Torino, 2010, p. 853 ss., spec. p. 855. 175 F. DI GIOROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1116, spiega invece la previsione come coerente alla “regola generale del diritto concorsuale della par condicio creditorum, in grado di livellare sul piano fallimentare situazioni sostanziali, che, fuori dal concorso, sarebbero potute restare diseguali”. 176 Contra G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 439, secondo il quale la previsione è il frutto di una specifica scelta legislativa, ispirata dal “principio della ripartizione egualitaria fra tutti gli obbligazionisti delle utilità aleatorie che maturano successivamente al fallimento”, senza la quale, tuttavia, il meccanismo della sorte non avrebbe incontrato alcun ostacolo in altre disposizioni della legge fallimentare, “trattandosi pur sempre di dare esecuzione a un’obbligazione precedentemente assunta dalla società”. 177 Nel primo senso cfr. L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 98 s.; nel secondo v. B. INZITARI, sub art. 58 cit., p. 829, e M. BENINCASA, sub art. 58 cit., p. 1161, il quale tuttavia rileva che, in assenza di una espressa previsione, il tasso di sconto dovrebbe essere “quello legale vigente al momento dell’apertura della procedura concorsuale”. Si vedano, però, anche A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 140, secondo i quali il tasso di attualizzazione dovrebbe coincidere con quello di rendimento previsto per le obbligazioni, oppure con quello medio riconosciuto in operazioni finanziarie dello stesso tipo, a seconda se il tasso di rendimento sia, rispettivamente, fisso o variabile. 174 49 25. In passato, un’isolata dottrina, muovendo dal rilievo che i titolari di obbligazioni convertibili in azioni sopportino, quale costo del potere di conversione, una rimunerazione sovente inferiore rispetto a quella normalmente riconosciuta per le obbligazioni ordinarie o un prezzo di emissione maggiore rispetto a esse, si è interrogata se ciò debba incidere sul meccanismo di determinazione del valore del credito da insinuare al passivo a norma dell’art. 58 l.f. – ovviamente sul presupposto che la conversione non sia avvenuta – segnatamente, nel senso di riconoscere un credito maggiorato: in tal modo, il possessore di obbligazioni convertibili sarebbe rimborsato (anche) del costo della clausola di conversione, definitivamente esaurita per il fallimento della società, applicando in via analogica l’art. 76 l.f., dettato in materia di contratti di borsa a termine ancora pendenti alla data della dichiarazione di fallimento178. In particolare, in virtù del richiamo di tale disciplina, l’opzione di conversione dovrebbe ritenersi risolta per effetto della sentenza dichiarativa di fallimento, dovendosi così procedere alla restituzione al titolare delle obbligazioni del valore di tale clausola, ricavabile dalla differenza fra il saggio di interessi di mercato dei prestiti obbligazionari e quello, in tesi più basso, al quale vengono remunerate le obbligazioni convertibili, ovvero in considerazione della differenza fra i prezzi di emissione. L’orientamento, tuttavia, è rimasto isolato: si osserva, infatti, per un verso, che già sul piano pratico è estremamente difficile il calcolo di tale valore, e, per altro verso, che il potere di conversione assegnato agli obbligazionisti, al pari degli altri diritti di opzione di cui all’art. 1331 c.c., sarebbe insuscettibile di autonoma valutazione patrimoniale ai fini dell’insinuazione al passivo179; né d’altronde l’intervenuto fallimento potrebbe fondare una domanda di risarcimento del danno a carico della società180. 26. Come si accennava, la riforma ha inteso estendere l’applicazione dell’art. 58 l.f., originariamente dettato per le sole obbligazioni, agli “altri titoli di debito”, espressione che, nella sua genericità, è senz’altro evocativa non soltanto della figura tipica dei titoli di debito introdotta per le società a responsabilità limitata nell’art. 2483 c.c., ma anche degli altri strumenti finanziari di cui trattano gli artt. 2346, ultimo comma, 2349, comma 3, 2411, ultimo comma e 2447-ter, lett. e), c.c.181, ovviamente nei limiti delle obbligazioni pecuniarie che incorporino; pertanto, quando l’apporto consista nella concessione del godimento di beni, l’obbligazione restitutoria gravante sulla società relativamente a questi ultimi risulterà soggetta al regime ordinario delle domande di rivendicazione e restituzione. E al medesimo intento sembra ispirato il novellato art. 125, ultimo comma, l.f., il cui ambito di applicazione, come altrove si è notato, oltre che alle obbligazioni, è adesso espressamente esteso anche agli strumenti finanziari. Cfr. G. POLI, Obbligazioni convertibili e fallimento, in Riv. soc., 1976, p. 1120 ss. Cfr. P. CASELLA, Le obbligazioni convertibili in denaro, Milano, 1983, p. 243 s.; G.F. CAMPOBASSO, Le obbligazioni cit., p. 440, seguito da L. PISANI, Prestito obbligazionario cit., p. 99 s., che estende la soluzione anche alle obbligazioni con warrant su azioni della società emittente; F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1119 ss.; A. COPPOLA, sub art. 58 cit., p. 856; più in generale, cfr. L. GUGLIELMUCCI, sub artt. 72-83, Effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, in Commentario Scialoja-Branca, Legge fallimentare a cura di F. Bricola, F. Galgano, G. Santini, Bologna-Roma, 1979, p. 1 ss., spec. p. 141 s. 180 Cfr. B. INZITARI, sub art. 58 cit., p. 830 s., seguito da F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1119 ss. 181 Cfr. F. Di GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1112 ss.; A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 134. 178 179 50 Le nuove norme sono coerenti al diffuso convincimento che gli strumenti finanziari regolati dalle disposizioni appena richiamate, sebbene possano assumere, come noto, tratti tipologicamente più estesi di quelli tradizionalmente ascrivibili al modello socio-economico delle obbligazioni – che storicamente, infatti, escludeva forme di partecipazione al rischio (almeno per ciò che riguarda la quota capitale del finanziamento) e all’organizzazione –, tuttavia appartengano alla (ampliata) categoria concettuale delle obbligazioni, alla cui disciplina generale devono, allora, ritenersi soggetti182. Ciò perché si tratta, in ogni caso – e, dunque, a prescindere: (i) dalle forme strumentali mediante le quali approvvigionano valore alla società (denaro, beni in natura, crediti, prestazioni d’opera e servizi); (ii) dall’eventuale riconoscimento di diritti amministrativi; (iii) dalla disciplina che regola la sorte del capitale erogato e la remunerazione del finanziamento –, di vicende che si compendiano in operazioni di massa (come si evince dall’impiego della formula strumenti, che allude al carattere frazionario di ciascun titolo183) di finanziamento dell’impresa, diverse dal conferimento184 e perciò ascrivibili, come anche la legge fallimentare mostra di fare, nel novero dei titoli di debito. Né sembra adeguato obiettare, in contrario, che l’art. 2411, ultimo comma, c.c., espressamente estendendo la disciplina dettata per le obbligazioni “agli strumenti finanziari, comunque denominati, che condizionano i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società”, secondo un argomento a contrario escluda l’applicazione di quelle norme agli strumenti finanziari che, invece, conservino in ogni caso il diritto di credito del titolare per la quota capitale del finanziamento. Si è condivisibilmente osservato, a riguardo, che la norma recata nel terzo comma dell’art. 2411 c.c. risponda all’esigenza di precisare che i primi – quelli cioè che partecipano al rischio economico – appartengono al tipo generale delle obbligazioni: circostanza della quale, invece, sarebbe stato forse legittimo dubitare in considerazione dei caratteri storicamente tipologici delle obbligazioni. Precisazione della quale, al contrario, non vi sarebbe alcun bisogno a motivo della sostanziale omogeneità fra gli altri strumenti finanziari e le obbligazioni in senso tradizionale185. Piuttosto, proprio in considerazione della fattispecie contemplata nell’art. 2411, comma 3, c.c., sembra necessario segnalare che, qualora l’operazione di finanziamento subordini “i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società”, l’ammontare del credito per il quale potrà promuoversi insinuazione al passivo dovrà essere valutata alla luce dei criteri previsti nell’ambito della deliberazione di emissione delle obbligazioni, potendosi giungere, nei casi marginali, anche all’esito che il fallimento della società comporti l’estinzione del credito obbligazionario. Si tratta, del resto, di una soluzione non soltanto indotta dal tenore letterale della disposizione, ma Cfr., in tal senso, G. FERRI jr, Fattispecie societaria e strumenti finanziari, in C. MONTAGNANI (a cura di), Profili patrimoniali e finanziari della riforma. Atti del convegno di Cassino, 9 ottobre 2003, p. 67 ss., spec. p. 75 ss., e B. LIBONATI, I “nuovi” strumenti finanziari partecipativi, in Riv. dir. comm., 2007, I, p. 1 ss., spec. p. 6 ss. 183 Cfr. G. FERRI jr, Fattispecie cit., p. 84 ss., seguito da F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1132. 184 Proprio per tale ragione, non mi sembra condivisibile il tentativo di includere entro la categoria degli strumenti “ibridi” le azioni di risparmio di cui all’art. 145, comma 2, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (c.d. TUF): esse, infatti, di là dai profili peculiari che presentano, appartengono senz’altro al novero delle azioni in senso tecnico, e il relativo conferimento contribuisce alla formazione del capitale sociale; pertanto, a prescindere dalla sorte concorsuale di eventuali privilegi patrimoniali di cui, a norma dell’art. 145 TUF, siano dotate, non v’è dubbio che riguardo al valore della partecipazione, i relativi titolari non possono vantare alcuna pretesa nei riguardi della procedura fallimentare. Per un’impostazione diversa cfr. F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1133 ss. 185 Cfr. ancora G. FERRI jr, Fattispecie cit., p. 77 s., e B. LIBONATI, I “nuovi” cit., p. 9. 182 51 anche coerente allo schema generale di ogni operazione di sovvenzione, caratterizzato, al fondo, dalla rinuncia all’immediata esigibilità di una prestazione, che le parti, nel quadro dell’autonomia negoziale loro riconosciuta, possono prevedere – sia originariamente, sia (più probabilmente) al verificarsi di peculiari condizioni (quali, ad esempio, la dichiarazione di fallimento della società) – come definitiva186. Quanto ai titoli di debito della s.r.l. va, infine, notato che essi trovano menzione solo nell’art. 58 l.f., non anche fra le norme dei concordati fallimentare e preventivo, che invece si rivolgono, rispettivamente, alle “obbligazioni e strumenti finanziari” (art. 125, comma 4, l.f.) o addirittura, più semplicemente, agli “obbligazionisti” (art. 171, commi 4 e 5 l.f.): il che è coerente con il rilievo che soltanto all’emissione da parte di società azionarie di obbligazioni e di strumenti finanziari corrisponde necessariamente una struttura organizzata dei finanziatori, la cui operatività è estesa, come si è segnalato, anche nel contesto delle discipline della crisi. Per i titoli di debito di s.r.l., del resto, il codice non prevede, almeno in linea di principio, la formazione di un gruppo organizzato dei relativi titolari187, limitandosi a consentire che la decisione di emissione dei titoli contempli la possibilità per la società di modificare le condizioni del prestito e le modalità del rimborso “previo consenso della maggioranza dei possessori” (art. 2483, comma 3, c.c.): e per quanto ciò non implichi, di per sé, la costituzione di un’organizzazione di categoria, né consenta l’applicazione tout court in via analogica della disciplina delle obbligazioni (la quale, però, potrebbe essere richiamata, senza dubbio legittimamente, nella decisione di emissione dei titoli) 188, sembra ragionevole ritenere che, riguardo ai profili concernenti i concordati e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, trovino applicazione i principi vigenti per le obbligazioni, a cominciare dalla regola maggioritaria. Al contrario, in assenza di una previsione siffatta e, più in generale, in difetto di qualsiasi forma organizzativa, ancorché elementare, dei titolari dei titoli di debito, è preferibile ritenere che costoro partecipino alle diverse fasi delle procedure concorsuali in forma individuale189, alla stregua di qualsiasi altro creditore della società. 27. Senza voler toccare il tema degli effetti sull’organizzazione dell’apertura della procedura fallimentare, qui mette conto segnalare che il compimento, da parte della società, di operazioni straordinarie – espressione che dapprima la dottrina e, da ultimo, anche il legislatore riservano a forme di riorganizzazione dell’esercizio entificato dell’impresa, fra le quali si annoverano, innanzitutto, la trasformazione, la fusione e la scissione ma nel cui ambito, a mente degli artt. 124 e 160 l.f., devono essere ricomprese anche operazioni di ristrutturazione del finanziamento dell’impresa – evoca l’applicazione di discipline nell’ambito delle quali la legge talora contempla istituti G. FERRI jr, Investimento e conferimento, Milano, 2001, p. 465 ss. A. LAUDONIO, Un’organizzazione collettiva per i possessori di titoli di debito ex art. 2483 c.c.?, in Dir. banca e mercato finanziario, 2005, I, p. 429 ss. 188 Cfr. M. CAMPOBASSO, I titoli di debito delle s.r.l. fra autonomia privata e tutela del risparmio, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, 3, Torino, 2006, p. 743 ss., spec. p. 770, che rileva come ciò permetta, a ben vedere, di scegliere «modalità di raccolta del consenso più semplici e meno costose»; A. LAUDONIO, Un’organizzazione cit., p. 429 ss.; A. MORELLO, Titoli di debito, obbligazioni e operazioni di trasformazione, in Riv. dir. comm., 2009, I, p. 119 ss. 189 Nel medesimo senso cfr. F. DI GIROLAMO, Le obbligazioni cit., p. 1137 s.; diversamente, cfr. G. RACUGNO, Concordato cit., I, p. 521 s., secondo il quale le norme sul concordato preventivo che si riferiscono alle obbligazioni e agli altri strumenti finanziari dovrebbero trovare applicazione, in ogni caso, anche ai titoli di debito emessi dalla società a responsabilità limitata. 186 187 52 destinati a tutela delle pretese dei creditori e, segnatamente, della garanzia patrimoniale rappresentata dal patrimonio della società e dalla sua peculiare organizzazione. Lasciando da parte la riduzione reale del capitale sociale, nonché la costituzione di patrimoni destinati (artt. 2445 e 2447-quater c.c.) – i cui presupposti non sembrano sussistenti nel contesto delle procedure concorsuali – ci si riferisce, nel dettaglio, alle opposizioni dei creditori che trovano regolamento per la trasformazione eterogenea (art. 2500-novies c.c.), per la fusione e la scissione (artt. 2503, 2503-bis, 2506-ter, comma 5, c.c.), e per la revoca dello stato di liquidazione (art. 2487-ter, comma 2, c.c.), attraverso le quali ciascun creditore, alle condizioni previste dalle disposizioni richiamate, ha il potere di sollevare dinanzi all’autorità giudiziaria competente un giudizio sulla compatibilità (degli effetti) dell’operazione deliberata con la persistente esigenza di solvibilità della società. In particolare, là dove il tribunale ritenga infondato il pericolo di pregiudizio per le ragioni dei creditori oppure la società presti idonea garanzia, è disposto che l’operazione deliberata abbia luogo nonostante l’opposizione: diversamente, il perfezionamento dell’operazione è precluso. Inoltre, per le ipotesi di fusione e scissione, nonché per quella di revoca dello stato di liquidazione (ma non è escluso che la medesima disciplina trovi applicazione in via analogica anche per le altre figure di opposizione dei creditori contemplate dalla legge), è consentito ovviare all’eventuale opposizione dei creditori raccogliendo il consenso del ceto creditorio all’operazione, oppure soddisfacendo coloro i quali lo abbiano invece negato. Infine, per le sole operazioni di fusione e scissione, l’opposizione dei creditori è altresì esclusa là dove la relazione degli esperti dovuta a norma dell’art. 2501-sexies c.c. sia redatta da un’unica società di revisione che asseveri che la situazione patrimoniale e finanziaria delle società partecipanti alla fusione o alla scissione “rende non necessarie garanzie” a tutela dei creditori. All’esito della riforma del diritto delle società di capitali 190 e di quella delle procedure concorsuali, la possibilità che durante lo svolgimento della procedura la società intraprenda operazioni straordinarie deve ritenersi non solo espressamente consentita, per effetto dell’elisione degli originari divieti (cfr. artt. 2501, comma 2, vecchio stile, e 2504-septies, comma 2, c.c.), ma anche suggerita dalla prospettiva che non considera più il fallimento alla stregua di una causa di scioglimento della società (almeno per quelle a forma capitalistica) e di cessazione dell’impresa. In questo contesto, è ragionevole ritenere che proprio alle operazioni straordinarie sopra ricordate si ricorra nel quadro della riorganizzazione dell’impresa e del suo finanziamento, soprattutto191, ancorché non esclusivamente, quando si sperimenti la via concordataria. È legittimo interrogarsi, perciò, se il potere di opporsi permanga in capo ai creditori anche nell’ambito della procedura fallimentare, specie ove si assecondi l’orientamento teso a circoscrivere la legittimità di tali operazioni a quelle il cui contenuto non contrasti con le esigenze della procedura e con la situazione in cui versi la società; si potrebbe segnalare, al riguardo, che proprio la circostanza che le predette operazioni in tanto sarebbero consentite, in quanto risultino in concreto 192 neutre, se non anche funzionali, alla disciplina della responsabilità patrimoniale della società fallita, Per il dibattito precedente alla riforma, con riguardo evidentemente soltanto alla trasformazione, stante l’espresso divieto in allora previsto per le fusioni e le scissioni, cfr. G. CABRAS, Le trasformazioni, in Tratt. soc. per az. diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 7***, Torino, 1997, p. 3 ss., spec. p. 106 ss. e p. 110 s. 191 Cfr. F. GUERRERA e M. MALTONI, Concordati giudiziali e operazioni societarie di «riorganizzazione», in Riv. soc., 2008, p. 17 ss., spec. p. 73 ss. 192 Cfr. B. LIBONATI, Corso di diritto commerciale, Milano, 2009, p. 564. 190 53 privi l’istituto dell’opposizione di qualsiasi concreto interesse. Tuttavia, a un esito siffatto si oppone, innanzitutto, il rilievo che lo strumento dell’opposizione sembra risultare a prima vista il più adeguato proprio al fine di asseverare – beninteso: dal punto di vista dei creditori – la legittimità dell’operazione di riorganizzazione eventualmente adottata dalla società con l’esigenza – immanente alle procedure concorsuali – alla massimizzazione della soddisfazione delle pretese creditorie193. Si tratta di domandarsi, allora, se la disciplina speciale delle procedure concorsuali, per le ipotesi in discorso, rechi strumenti di tutela dei creditori idonei (e, perciò, destinati) ad assorbire quelli previsti, in linea generale, dal legislatore. Questione che – è bene precisare – neppure si pone per i creditori sociali di altre società, formalmente estranee a quella sottoposta alla procedura concorsuale, eventualmente coinvolte nella vicenda, rispetto alle quali non è dubbia l’integrale applicazione della disciplina che regola le operazioni di riorganizzazione dell’impresa in discorso e, quindi, segnatamente, di quella prevista per l’opposizione dei creditori194. Il problema sembra presentare risvolti diversi a seconda che lo si affronti nel contesto dei concordati preventivo e fallimentare ovvero in quello della procedura fallimentare. 28. Per ciò che riguarda i concordati fallimentare e preventivo, i novellati artt. 124 e 160 l.f., recependo, ad opera della legge n. 80/2005 (concordato preventivo) e d.lgs. n. 5/2006 (concordato fallimentare) quanto originariamente previsto nel contesto della disciplina dell’amministrazione straordinaria “speciale” delle grandi imprese in crisi (d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito con modificazioni dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39), consentono che la proposta di concordato contempli forme di riorganizzazione del finanziamento dell’impresa ascrivibili al novero delle operazioni straordinarie, fra le quali non è dubbio che si collochino trasformazioni, fusioni, scissioni e aumenti di capitale. In queste vicende, pertanto, oltre ai numerosi profili problematici concernenti la definizione del procedimento di deliberazione di tali operazioni, appare pienamente legittimo sollevare l’ulteriore interrogativo sulla applicabilità delle diverse figure di opposizione dei creditori, la cui soluzione è resa particolarmente incerta dal rilievo che il procedimento di approvazione e omologazione dei concordati contempla già, di per sé, numerosi istituti funzionali alla protezione dell’interesse (comune a ogni creditore) alla migliore soddisfazione della proprie pretese. Sebbene il problema non sia stato oggetto di particolari approfondimenti, né constino pronunce giurisprudenziali, si registra una tendenza favorevole a ritenere l’istituto civilistico in discorso assorbito dagli altri rimedi a tutela dei crediti specificamente accordati dalla legge fallimentare nell’ambito della disciplina dei concordati; e a corroborare tale conclusione si richiama talora il disposto dell’art. 2503bis, comma 1, c.c., che preclude l’opposizione dei creditori alla fusione (e, in virtù del rinvio operato dall’art. 2506-ter c.c., alla scissione) ai possessori di obbligazioni qualora essa sia stata approvata dall’assemblea degli obbligazionisti: si rileva, infatti, che similmente alla vicenda da ultimo richiamata, ove la tutela degli interessi comuni della categoria è assegnata a un’organizzazione interna tale da fondare e giustificare la scelta di sacrificare la volontà individuale, così pure la soggezione dell’impresa alla procedura E cfr., per tutti, C. MONTAGNANI, sub art. 146, Commentario alla legge fallimentare, diretto da C. Cavallini, III, Milano, 2010, p. 225, spec. p. 240. 194 Cfr. F. GUERRERA e M. MALTONI, Concordati cit., p. 88. 193 54 concorsuale avrebbe come effetto, fra l’altro, l’imposizione ai creditori di una comunanza di interessi e la creazione di un’organizzazione per la soluzione dei conflitti d’interesse, tali per cui una volta approvata la proposta di concordato sarebbe esclusa la possibilità di autonoma opposizione all’operazione straordinaria eventualmente prevista195. Il parallelo con la disciplina degli obbligazionisti, però, rischia di essere fuorviante, sia perché la vicenda organizzativa che origina dall’emissione delle obbligazioni ha antecedenti non coincidenti con quelli che fondano la “comunità accidentale”196 dei creditori nelle procedure di concordato, sia perché sembra indurre a ritenere che in tali circostanze la tutela collettiva sia in ogni caso preferita a quella individuale: laddove, in realtà, nel concordato convivono rimedi individuali e collettivi. E a tacere del fatto, poi, che nel caso della fusione e della scissione, la stessa tutela individuale viene meno tout court197 (a prescindere, cioè, dalla sua sostituzione con strumenti collettivi) nel caso in cui la relazione degli esperti sul relativo progetto, disciplinata nell’art. 2501-sexies c.c., sia redatta da un’unica società di revisione la quale asseveri, sotto la propria responsabilità, che “la situazione patrimoniale e finanziaria delle società partecipanti alla fusione rende non necessarie garanzie a tutela dei suddetti creditori” (art. 2503 c.c.). La condivisibile prospettiva di ritenere non applicabili ai casi in discorso le discipline concernenti l’opposizione dei creditori deve essere spiegata, allora, muovendo dal disvelamento del loro significato funzionale: si deve osservare, in questo senso, che di là da alcune differenze che si riscontrano nelle discipline dettate dal codice civile, le opposizioni dei creditori risultano tutte espressione di un medesimo istituto giuridico, destinato a presidiare, per il tramite di forme di tutela “reali”, la garanzia patrimoniale dei creditori198, a fronte dell’adozione, da parte della società, di talune decisioni organizzative che siano anche soltanto “artificialmente” idonee a pregiudicarla. Il che, vale la pena di segnalare, si spiega in ragione della peculiarità di siffatte operazioni, tipiche di figure metaindividuali d’imputazione di situazioni giuridiche, e per la considerazione necessariamente unitaria della garanzia patrimoniale quando abbia a oggetto un complesso patrimoniale destinato all’esercizio dell’impresa. Si tratta, infatti, in ogni caso, di verificare, con giudizio necessariamente prognostico, se il nuovo quadro organizzativo consenta o meno alla società di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni. Ciò detto, non si può far a meno di rilevare che nell’ambito delle vicende concordatarie il tema della verifica al pregiudizio alla garanzia patrimoniale sia superato non solo sostanzialmente, ma anche dal punto di vista giuridico, da un duplice tipo di problemi: innanzitutto, quello concernente la c.d. ristrutturazione dei debiti, vale a dire la ridefinizione del passivo gravante sull’impresa societaria; in secondo luogo, quello riguardante l’effettiva soddisfazione dei crediti, come eventualmente rideterminati per effetto del piano concordatario. A questi due piani, almeno teoricamente distinti, la Cfr. F. GUERRERA e M. MALTONI, Concordati cit., p. 87 s., seguiti da G. PALMIERI, Operazioni cit., p. 1098. Cfr. F. GUERRERA e M. MALTONI, Concordati cit., p. 88. 197 Di “disconoscimento della spettanza del relativo potere” di opposizione discutono G. FERRI jr e G. GUIZZI, Il progetto di fusione e i documenti preparatori. Decisione di fusione e tutela dei creditori, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, 4, Torino, 2006, p. 229 ss., spec. p. 261 s. 198 Cfr., C. SANTAGATA, Le fusioni, in Tratt. soc. per az., diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 7**, tomo 1, 2004, p. 518 ss., e G. FERRI jr e G. GUIZZI, Il progetto di fusione e i documenti preparatori. Decisione di fusione e tutela dei creditori, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, 4, Torino, 2006, p. 229 ss., spec. p. 259 ss. 195 196 55 dottrina e la giurisprudenza si rivolgono con il rinvio alla valutazione della convenienza e della fattibilità del piano. È chiaro, infatti, che nella crisi dell’impresa si manifesta una disfunzione della garanzia patrimoniale: ragion per cui non è più questione di verificarne l’efficienza (che, del resto, la domanda di ammissione alla procedura e, vieppiù, la procedura fallimentare avviata denunziano perduta) quanto di definire un nuovo assetto del passivo e di indicare le risorse, se del caso rivenienti dal flusso di ricchezza generato da una nuova organizzazione dell’impresa, idonee a consentirne la soddisfazione. In secondo luogo, le valutazioni di convenienza e, per quanto qui più specificatamente interessa, di fattibilità, a differenza delle opposizioni dei creditori, implicano una valutazione unitaria sul piano concordatario, nel senso che il giudizio sull’uno e sull’altro dei profili riguardano la proposta nella sua interezza e non i singoli interventi riorganizzativi in essa previsti: il che renderebbe l’eventuale concorrente opposizione dei creditori non solo ridondante, ma anche problematica, in particolare nel caso in cui il tribunale fallimentare omologhi il concordato e il giudice dell’opposizione, invece, accolga l’opposizione e per l’effetto impedisca il compimento del programmato atto di riorganizzazione dell’impresa, aprendo verosimilmente la strada alla risoluzione dell’accordo, in un momento in cui, però, potrebbero già essersi creati affidamenti in capo ai terzi199. Pertanto, di là dal problema, tuttora vivacemente dibattuto, in ordine ai confini fra il sindacato sulla convenienza e sulla fattibilità del concordato, e, prima ancora, sulla relativa competenza, che neppure il recente intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sembra aver risolto in termini convincenti200, e che appare, in definitiva, riconducibile alla precisazione degli ambiti individuali e collettivi rimessi ai creditori201, si deve ritenere che il rimedio dell’opposizione dei creditori sia destinato a essere assorbito dagli altri strumenti procedimentali che presidiano gli interessi dei creditori nell’ambito del concordato, in ossequio al principio di specialità202 della disciplina concorsuale. Questa conclusione vale sia per l’ipotesi in cui l’operazione straordinaria si perfezioni con l’omologazione del concordato, sia nel caso in cui sia prevista nel tempo successivo alla conclusione della procedura: a condizione, in vero, che costituisca parte integrante del piano di concordato e che, quindi, riguardo a essa si siano potute compiere le predette valutazioni di convenienza e di fattibilità. Del resto, in questo senso induce il rilievo che le opposizioni di cui finora si è discorso non competono, di regola, ai creditori tout court, ma soltanto a coloro che vantino pretese verso la società anteriori all’iscrizione o alla pubblicazione del progetto di fusione o scissione (art. 2503 c.c.) e, deve ritenersi203, della pubblicazione dell’atto di trasformazione: similmente, per Sul problema della stabilità delle operazioni straordinarie e, in particolare, della fusione e della scissione, all’esito degli adempimenti pubblicitari cfr., fra gli altri, G. PALMIERI, Operazioni cit., p. 1098, che opta per la relativa intangibilità, nonostante l’annullamento o la risoluzione del concordato; F. GUERRERA, Le soluzioni cit., p. 187. 200 Ci si riferisce alla recente Cass. Ss.Uu., 23 gennaio 2013, n. 1521, annotata da G. TERRANOVA, La fattibilità del concordato, in Riv. dir. comm., 2013, II, p. 188 ss., ove anche ultt. riff. bibll. 201 Per l’assegnazione anche a singoli interessati del potere di opporsi all’omologazione del concordato denunciandone la non fattibilità cfr. A. NIGRO e D. VATTERMOLI, Diritto della crisi cit., p. 303 e p. 380; nel medesimo senso F. GUERRERA, Le soluzioni negoziali, in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, II ed., Milano, 2013, p. 133 ss., spec. p. 178 ss. 202 Sul quale si veda A. PACIELLO, L’art. 2499 cit., p. 44. 203 Cfr., per tutti, M. MALTONI, sub art. 2500-novies, in N. ABRIANI e M. STELLA RICHTER jr, Codice commentato delle società, t. II, Torino, 2010, p. 2286 ss., spec. p. 2288. 199 56 il caso dei concordati, i rimedi procedimentali ivi disciplinati si rivolgono a chi ha finanziato in precedenza l’impresa in crisi, non anche a chi lo abbia fatto in un momento successivo, quando già il processo riorganizzativo era stato programmato, ancorché non compiutamente realizzato. La prospettiva “globale” che si è appena suggerita consente di sciogliere anche il nodo concernente la possibilità per i soci dissenzienti dall’operazione di recedere dalla società: infatti, la sicura funzionalizzazione delle operazioni straordinarie alla ristrutturazione del debito e alla soddisfazione dei crediti sembra escludere la possibilità per i dissenzienti non soltanto di ricevere la liquidazione della relativa quota (per le ragioni che si segnaleranno più avanti) ma, più radicalmente, di recedere dalla società, degradando in tal modo la tutela individuale altrimenti consentita al singolo a vantaggio dell’interesse collettivo alla sistemazione della crisi dell’impresa204; del resto, in questo caso, il fatto che in astratto potrebbe dar luogo al recesso non è deliberato in via autonoma dalla società (come è per le ipotesi di recesso ex art. 2437 c.c.), ma è il risultato di un’operazione diversa e più ampia. E, d’altra parte, questa conclusione sembra coerente al rilievo, d’ordine sostanziale, che, di là da ipotesi marginali, all’esito del concordato le partecipazioni della società saranno verosimilmente assegnate ai creditori o a nuovi investitori, entrambe categorie rispetto alle quali la possibilità di disinvestimento – cui il recesso è funzionalmente orientato – appare discutibile: infatti, a prescindere dal rilievo che normalmente sono destinati a divenire soci dopo il compimento (o, comunque, la programmazione) del fatto che astrattamente legittima il recesso, rispetto al quale, allora, non possono dirsi formalmente dissenzienti, per i creditori il recesso si risolverebbe nell’opportunità di monetizzare quanto ricevuto in soddisfazione dei crediti, di fatto sottraendosi, almeno parzialmente (cioè sul quomodo, ancorché non sul quantum) al vincolo imposto a tutti i creditori dall’approvazione a maggioranza della proposta concordataria; per i nuovi investitori, invece, esso risulterebbe contraddittorio rispetto alla scelta di finanziare la proposta (globalmente intesa) di concordato. 29. Nel corso della procedura fallimentare, il compimento di operazioni straordinarie resta assegnato alla competenza funzionale degli organi della società 205; tuttavia, trattandosi di decisioni che, per il loro naturale rilievo sull’organizzazione della società, possono incidere anche sulla disciplina della responsabilità patrimoniale, si suole ritenerle consentite nella misura in cui non siano incompatibili con le finalità o lo stato della procedura, assegnando in tal modo valore generale206 all’espressione adoperata dal legislatore per la trasformazione nell’art. 2499 c.c., e salvo rilevare che la fusione e la scissione, a norma rispettivamente degli artt. 2501 e 2506 c.c., non sono consentite a società in liquidazione che abbiano iniziato la distribuzione dell’attivo. Assecondando, per tal via, un’impostazione da altri autorevolmente suggerita per il caso del recesso da s.p.a. in ipotesi di fusione, che importi incidentalmente anche alcune variazioni rilevanti ai sensi della disciplina del recesso (cfr. G. FERRI, Le società cit., p. 986 s.), peraltro recentemente rivalutata (cfr. G. FERRI jr e G. GUIZZI, Il progetto cit., p. 238). 205 Cfr. D.U. SANTOSUOSSO, sub art. 2499, in Società di capitali. Commentario a cura di G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, III, Napoli, 2004, p. 1905 ss., spec. p. 1906; C. MONTAGNANI, sub art. 146 cit., p. 241; G. PALMIERI, Operazioni straordinarie «corporative» e procedure concorsuali: note sistematiche e applicative, in Fall., 2009, p. 1092 ss., spec. p. 1097. 206 Cfr., in tal senso, A. NIGRO, Diritto societario e procedure concorsuali, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, 1, Torino, 2006, p. 175 ss., spec. p. 192; D.U. SANTOSUOSSO, sub art. 2499 cit., p. 1907; G. PALMIERI, Operazioni cit., p. 1095. 204 57 In vero, nella maggior parte delle ipotesi l’adozione di una tale deliberazione sembra destinata ad assecondare gli indirizzi provenienti dal curatore fallimentare 207 e, più in generale, dai c.d. organi della procedura, per lo più in una prospettiva di agevolazione delle fasi concorsuali e di alleggerimento dei pesi finanziari gravanti sulla società fallita (si pensi, esemplificando, alla c.d. trasformazione liquidativa208): in questi casi la coerenza dell’operazione è in certo qual modo preventivamente “certificata” dagli organi della procedura. Tuttavia, sia nelle fattispecie da ultimo ricordate sia nelle ipotesi in cui la deliberazione discenda invece dall’autonoma iniziativa degli organi sociali, l’opposizione dei creditori, apparentemente, potrebbe rappresentare un efficace presidio a tutela dell’interesse di questi ultimi alla massimizzazione del dividendo fallimentare. Si deve però ricordare che, come per il caso dei concordati, anche (e, anzi, vieppiù) nel fallimento, l’opposizione dei creditori, nella misura in cui è rivolta a verificare la non incidenza negativa dell’operazione deliberata sulla garanzia patrimoniale, appare scarsamente significativa in un momento nel quale la dichiarazione d’insolvenza ne ha accertato la disfunzione. In altre parole, neppure in questo caso è più il momento di porsi un problema di conservazione della garanzia patrimoniale ma, piuttosto, di interrogarsi sulla coerenza dell’operazione straordinaria con le finalità e lo stato della procedura. Al riguardo, per quanto sia diffuso in dottrina il convincimento che la compatibilità delle operazioni straordinarie, come pure di ogni modifica organizzativa della società, con le finalità e lo stato della procedura sia rimessa agli organi della procedura, non si rintraccia nella disciplina positiva alcuno strumento attraverso il quale esercitare un siffatto sindacato se non ricorrendo alle regole di validità delle deliberazioni; e non è dubbio, in questo senso, che le predette condizioni generali poste dall’art. 2499 c.c. altro non rappresentino che un limite alle competenze funzionali rimesse ai soci, destinato ad incidere, verosimilmente, più che sulla legittimità del procedimento di adozione della deliberazione, sul relativo contenuto, determinandone, se del caso, la nullità per illiceità dell’oggetto209. Il rilievo che la legge fallimentare non impedisca il compimento di operazioni straordinarie e, più ampiamente, di interventi di modificazione dell’organizzazione della società – pendente il fallimento – ma neppure si preoccupi di dettare, al riguardo, alcuna disciplina peculiare210, suggerisce allora di dare applicazione alla corrispondenti norme dettate dal codice civile211, le quali, è appena il caso di notare, legittimando all’azione Cfr., per un cenno, C. MOSCA, sub art. 2499, in L.A. BIANCHI (a cura di), Trasformazione – Fusione – Scissione, nel Commentario alla riforma delle società diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi e M. Notario, Milano, 2008, p. 29 ss., spec. p. 50. 208 Cfr. G. CABRAS, Le trasformazioni cit., p. 109 s.; in giurisprudenza v. Trib. Cagliari 20.7.1988, in Impresa, 1989, 1252, secondo il quale “l’assemblea straordinaria di una società per azioni sottoposta alla procedura dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi può deliberare il trasferimento della sede sociale e la trasformazione in società a responsabilità limitata”, nonché App. Trieste 8.11.1986, in Foro it., 1987, I, 229, che ha statuito che “è omologabile la deliberazione con la quale l’assemblea di società per azioni in liquidazione abbia deciso la trasformazione in società a responsabilità limitata”. Si leggano, però, i dubbi in ordine a tali operazioni di C. MONTAGNANI, sub art. 2499, in M. SANDULLI e V. SANTORO (a cura di), La riforma delle società cit., III, p. 357 s., e di A. PACIELLO, L’art. 2499 c.c. cit., p. 44 s. 209 Cfr., in tal senso, C. MONTAGNANI, sub art. 146 cit., p. 243 ss. 210 Ma si veda il tentativo di C. MOSCA, sub art. 2499 cit., p. 50 ss., di rintracciare fra i poteri degli organi della procedura una disciplina della valutazione della compatibilità della trasformazione con lo stato e le finalità della procedura, nonché il cenno di D.U. SANTOSUOSSO, sub art. 2499 cit., 1906 s. 211 Per l’osservazione che “fallimento e società rappresentano discipline oggettive dell’impresa e costituiscono, quindi, segmenti (potenzialmente) concorrenti” cfr. A. PACIELLO, L’art. 2499 cit., p. 44. 207 58 “chiunque vi abbia interesse” (artt. 2379 e 2479-ter c.c.), rappresentano un valido rimedio anche per ciascuno dei creditori. Maggiormente problematico, piuttosto, è l’interrogativo se il socio che non ha concorso all’adozione di tali deliberazioni conservi anche in ambito concorsuale il diritto, ove previsto, a recedere dalla società, che è alimentato dal rilievo che la liquidazione della quota di partecipazione del recedente sembra doversi ritenere esclusa dalla contestuale procedura fallimentare. Al riguardo, poiché la dottrina non sembra rintracciare indicazioni normative avverse al riconoscimento del recesso a favore del socio dissenziente, si discute se l’eventuale esercizio di tale diritto impedisca il perfezionamento della deliberazione che vi ha dato luogo ovvero, più semplicemente, sospenda la fase della liquidazione della quota212. Ancora una volta, l’opinabilità della materia impedisce di offrire una soluzione sicura; fra le due opzioni, tuttavia, la seconda appare preferibile213: infatti, mentre il riconoscimento di una sorta di “diritto di veto” a favore del socio dissenziente sembra scontrarsi sia con il crescente rilievo che il principio maggioritario assume nella disciplina dell’organizzazione societaria sia con gli interessi specifici sottesi alla procedura fallimentare, la sospensione della liquidazione della quota del recedente (beninteso: nei limiti in cui essa debba gravare sul patrimonio sociale) – che può rintracciare negli artt. 2282 e 2491, comma 2, c.c. un valido referente normativo214 – vale a bilanciare adeguatamente l’interesse del socio a recedere con quello dei creditori a essere preferiti nella soddisfazione delle loro pretese. Cfr., per le due opzioni, C. MOSCA, sub art. 2499 cit., p. 52 s. In termini simili, sia pure con riguardo alla liquidazione della società, si veda C. MONTAGNANI, Deliberazioni assembleari e procedure liquidatorie, Milano, 1999, pp. 64 ss., secondo la quale il diritto di recesso, pur potendo “essere neutralizzato o solo condizionato nei tempi e nei modi del rimborso” dallo scioglimento della società, non può comunque considerarsi incompatibile con lo stato di liquidazione; nel medesimo senso, con riguardo sia alla trasformazione nella fase di liquidazione, sia a quella in caso di società sottoposta a procedura concorsuale, G. CABRAS, Le trasformazioni cit., p. 211 s., che ritiene il recesso immediatamente efficace (“l’esercizio del recesso, però, non è vano, poiché esonera il socio receduto – ovviamente solo nei confronti degli altri soci e non dei creditori – dai rischi derivanti dall’attività sociale svolta, sia pure nei limiti ammessi dalla legge, nella fase liquidativa”) ma “il credito del socio receduto per la liquidazione della sua quota è postergato rispetto ai crediti vantati da terzi verso la società” (ivi, p. 212); D. GALLETTI, Gestioni straordinarie e poteri modificativi dell’organizzazione societaria: il problema del recesso, in Giur. comm., 1998, II, p. 114 ss., 147 ss., ove ultt. riff., nonché, più di recente e, soprattutto, nel vigore del sistema novellato, M. MALTONI, La disciplina generale della trasformazione, in M. MALTONI e F. TASSINARI, La trasformazione delle società, II ed., Milano, 2011, p. 17 s., e C. MOSCA, sub art. 2499 cit., p. 52; si leggano però le perplessità di A. PACIELLO, L’art. 2499 cit., p. 46, nel testo e a nota 49, che propende per la disapplicazione delle norme relative al recesso, anche sulla base del rilievo che il rinvio dell’efficacia del recesso alla conclusione della procedura concorsuale, di fatto affermando implicitamente la persistenza della qualità di socio, “disconosce l’essenza stessa del rimedio che consiste nello sterilizzare, per chi lo esercita, le conseguenze della decisione assembleare”. 214 Per un medesimo ordine di argomentazioni cfr. G. CABRAS, Le trasformazioni cit., p. 212. 212 213