SEMINARIO “STRESS E FATICHE PSICOLOGICHE NEI SERVIZI

SEMINARIO
“STRESS E FATICHE PSICOLOGICHE NEI SERVIZI PER ANZIANI”
27 novembre 2008
Bianco Speranza
Assessore Politiche Sociali Provincia di Bergamo
Lavorare nei servizi per gli anziani significa per voi essere in grado di comprendere e interagire con
situazioni personali e familiari, non solo complesse e diversificate, ma spesso anche soggette a
continui e a volte imprevedibili cambiamenti.
La vicinanza dell’altro, la sintonia con il suo malessere, pur necessari per stabilire una relazione di
aiuto efficace e positiva, se vissute troppo intensamente possono portare l’operatore a smarrire quel
senso critico, che gli consente di attribuire all’esperienza lavorativa una giusta dimensione, e di
tenere sottocontrollo le implicazioni emotive originate dal proprio lavoro.
Un operatore che non è in grado di fronteggiare il proprio disagio non può essere di aiuto, poiché
non dispone più delle risorse necessarie per sostenere la fragilità dell’altro, e la capacità di
distinguere la propria vita da quella di chi dovrebbe aiutare.
L’esaurimento emozionale non solo riduce la qualità dell’intervento professionale fino ad
annullarla, ma diventa anche fonte di insoddisfazione, sofferenza, e suscita desiderio di fuga e
aggressività.
La capacità e la volontà di prendersi cura non è acquisita una volta per sempre, può essere smarrita,
va cercata e ricercata nell’impegno e nel continuo confronto.
La nostra società affida agli operatori della cura la sua parte più fragile, e in un certo senso più
preziosa, perché è nella difesa dei più deboli, nella loro tutela il banco di prova della tenuta dei
valori morali, su cui ha deciso di fondarsi.
Nel processo di aiuto, nel lavoro di cura si mette in gioco se stessi, anche quando non ne siamo
consapevoli.
Ogni operatore sa, per esperienza, che solo se sta bene può attivare uno scambio comunicativo che
diventa aiuto anche nelle situazioni più difficili, e attribuire piena dignità professionale a
competenze quali saper consolare accudire, contenere, accogliere,ascoltare.
Ognuno di voi ha, quindi, la responsabilità di tutelare e proteggere il proprio benessere avendo cura
di se stesso.
L’incontro di oggi è organizzato dal Settore Politiche Sociali della Provincia di Bergamo, in
collaborazione con l’Ambito Territorio della Valle Seriana, di cui abbiamo il piacere di avere qui la
Presidente dell’Assemblea dei Sindaci Signora Paola Magni, a cui lascerò la parola per un breve
saluto, poiché – come me – non può trattenersi fino al termine dei lavori.
Con l’Ambito Territoriale della Valle Seriana, e con quello della Valle Seriana Superiore e Val di
Scalve, abbiamo infatti organizzato il percorso formativo “Lavorare con cura”, destinato agli
operatori dei servizi domiciliari, di cui questo incontro è parte integrante.
Come Provincia abbiamo iniziato nel 2005 ad aggiornare il personale del S.A.D. in collaborazione
con due ambiti, ogni anno diversi, lavorando sui temi più critici e innovativi che stanno investendo
recentemente il servizio di assistenza domiciliare.
La gestione degli utenti con disturbi psichiatrici o comportamentali, l’approccio al tema delle
demenze, il tutoring agli assistenti familiari offrono un’occasione di apprendimento importante per
la giornata di oggi, aperta anche a tutti gli operatori dell’area anziani, che hanno partecipato alle
altre due giornate di studio che abbiamo organizzato recentemente, “Cure benevoli per sostenere
l’anziano fragile” sul tema del modello assistenziale “gentle care”, che si è tenuto nel novembre
dello scorso anno e
“Imparare a dirsi addio”, sul tema del lutto e dell’accompagnamento al morente, che si è tenuta nel
maggio di quest’anno.
Intendiamo quindi proseguire il nostro percorso di riflessione sugli aspetti critici del lavoro di cura.
E oggi sul tema dello stress e delle fatiche psicologiche ci aiuterà a indagare il Professor Roberto
Anchisi, psicologo e psicoterapeuta, docente universitario e studioso della materia.
Proveremo con lui a capire come il burnout, condizione di stress estremo che impedisce di far
fronte ad un impegno con rinnovate energie, dipenda non solo da fattori organizzativi quanto dalla
scarsa capacità soggettiva di adattamento alle variabili gioco.
Lo scopo finale che ci proponiamo è quello di capire e quindi interrompere il circolo vizioso, che
lega il burnout ai disturbi comportamentali del paziente e viceversa.
Ci auguriamo che l’incontro di oggi possa esservi utile a considerare il vostro benessere come un
valore, un elemento indispensabile di qualità.
Buon lavoro a tutti.
Paola Magni
Presidente Assemblea dei Sindaci Ambito Valle Seriana:
Porgo il saluto dei Sindaci dell’Ambito della Valle Seriana, un saluto e un grazie sincero
all’Assessore Bianco Speranza, per la sensibilità che ha sempre dimostrato, e sempre dimostra,
nell’organizzazione di questi incontri.
Un grazie particolare a tutti i presenti, perché se siete presenti vuol dire che avete un bisogno di
amarvi soprattutto, perché secondo me, lavorare sine cura io dico, lo dico alla latina, cioè senza
ansia, significa poter costruire relazioni di aiuto, ma anche relazioni di senso con il paziente, in
questo caso anziano, ma io dico non solo anziano.
L’attenzione, e soprattutto la cura che c’è oggi per l’assistenza domiciliare, chiede veramente che lo
sguardo sia anche rivolto verso l’operatore, il volontario, il familiare, proprio perché abbiamo
bisogno, troppo volte, di essere riorientati, cioè di riprendere la direzione giusta.
Io sono convinta che lo scopo dell’incontro di oggi, questo incontro di studio sia proprio quello di
ridarci forza, di ridarci energia, per riprendere con il passo giusto un percorso veramente
estremamente importante, un percorso che ha una ricaduta sulla comunità come valore aggiunto.
Il mio grazie è anche la mia gioia nel vedere tante presenze, e poter dire che la comunità in cui
viviamo è veramente ancora molto e molto ricca di sensibilità e valori.
Un grazie a tutti gli operatori che hanno collaborato alla realizzazione di questo incontro, un grazie
e un’attesa curiosa per lo spazio che mi permetto di concedere a me stessa, al Professor Anchisi.
Abbiamo tutti bisogno di lavorare sine cura, e quindi abbiamo bisogno tutti di riorientarci per poter
essere anche più sereni con noi stessi.
Grazie, vi auguro un incontro e un momento veramente ricco di significato.
Roberto Anchisi
Psicologo e Psicoterapeuta
Sono onorato di essere qua, di essere stato invitato dalla Provincia di Bergamo, e di avere un
pubblico così numeroso, la cosa mi mette anche un po’ in imbarazzo e sotto stress.
Questo ci porta subito all’interno del tema, in effetti uno dei problemi più grossi è che spesso gli
operatori non si rendono conto di essere stressati.
Questa vignetta me l’ha fatta il medico di pronto soccorso di Sassari, stavamo tenendo un Seminario
come questo per i medici dell’emergenza, e lui mentre facevamo l’incontro ha schizzato questa
scenetta, e poi alla fine me l’ha data, e io ormai la uso sempre, per dare l’idea di che cosa sia lo
stress.
C’è stress quando una persona è altamente irritabile, non se ne accorge, se ne accorgono tutti gli
altri però.
“Burnout” è un termine inglese che vuol dire “sentirsi bruciati”, cioè senza più
motivazioni.
Anche l’Assessore prima sottolineava come ci siano da un lato problemi organizzativi, turnover
elevato per cui ci sono cambiamenti all’interno dei servizi, oppure carichi di lavoro eccessivi, e poi
sottolineava, dall’altro lato, che il problema però è soggettivo, cioè dipende da come noi
affrontiamo le cose, se queste ci stressano oppure no.
Ora forse conviene dare uno sguardo veloce ai concetti di base, e poi focalizzarci su alcuni aspetti
che riguardano lo stress e il burnout, ovviamente da un punto di vista soprattutto pratico, cioè cosa
si può fare per prevenire stress e burnout, e per intervenire se stress e burnout sono già in atto e
creano disagio.
Il burnout non è altro che l’evoluzione di uno stress persistente che dura, si cronicizza e aumenta
sempre più di livello.
Lo stress di per sé è una risposta adattiva, cioè quando uno si stressa è perché si trova di fronte a
una situazione di disagio, che crea difficoltà, che presenta delle minacce, in questo senso lo stress è
una risposta di adattamento, che coinvolge tutto l’organismo.
Una volta, quando si viveva in modo più semplice, ad esempio all’età là pietra, lo stress
predisponeva all’attacco alla fuga, queste risposte dell’organismo erano richieste quando c’era un
pericolo, un pericolo fisico, e l’organismo produceva tutta una serie di modificazioni interne, che
portavano ad avere quell’energia sufficiente che gli serviva per la sopravvivenza, o attaccando
l’avversario, o fuggendo.
Oggi le cose sono più sfumate, sia perché i pericoli non sono più solo fisici, sono spesso pericoli
immaginati, sono legati a situazioni frustranti, che magari perdurano nel tempo e si aggravano, per
cui spesso invece di una risposta globale massiccia, come quella dello stress, la risposta emotiva è
più diffusa, ed è una risposta di ansia.
Ansia e stress sono parenti, la risposta degli stress è più intensa, si avverte di più, a volte si sentono
proprio le ghiandole surrenali che si strizzano per mettere in circolo gli ormoni che servono per far
fronte alle minacce, mentre la risposta di ansia è più pervasiva, meno definita, ci rende inquieti,
insoddisfatti, con una paura poco definita.
Ci sono reazioni fisiologiche di stress, sono reazioni normali, cioè che servono per affrontare
meglio le situazioni difficili.
E poi ci sono le reazioni psicologiche eccessive, che indicano che lo stress sta diventando fonte di
disturbi, queste reazioni patologiche sono reazioni emotive esplosive.
Oppure possono essere implosive, cioè noi teniamo dentro, non esplodiamo, e questo non è meglio,
perché quell’energia che avremmo dovuto utilizzare per affrontare le situazioni, si rivolge contro di
noi, e da origine quindi a disturbi anche fisici, e poi anche comportamentali, cioè anche il nostro
comportamento viene interessato e si modifica.
Per far vedere che c’è un legame, l’Assessore diceva una cosa molto importante, diceva che se noi
stiamo bene con noi stessi, comunichiamo anche meglio con gli altri, e questo rimane valido.
Però nasce una domanda, è nato prima l’uovo o la gallina? Cioè io sto bene con me stesso e allora
comunico bene con gli altri, oppure io comunico bene con gli altri, e allora sto bene anche con me
stesso?
Noi oggi sottolineeremo questa seconda affermazione, cioè chi comunica bene con gli altri sta
anche meglio con se stesso, rovesciando un po’ il discorso.
Per entrare nel vivo, in modo che tutti siate direttamente toccati da quello che stiamo facendo, nella
cartellina avete una scheda intitolata “Test relazionale”, è il momento di guardarla, e di segnare con
una crocetta le frasi in cui voi vi riconoscete.
Le indicazioni bibliografiche, quelle servono poi per chi vuole approfondire, ma le prime otto frasi
possono caratterizzarvi in qualche maniera, segnate quelle che vi caratterizzano di più, cioè che voi
ritenete giuste per voi, tutte quelle che vi riguardano, quindi anche più di una, anche tutte.
Tenete lì il foglio con le vostre risposte, poi vedremo di analizzare queste risposte e di capire cosa
significano.
Per adesso riprendiamo il discorso. Per stare bene con noi stessi noi dobbiamo comunicare meglio
con gli altri, se la cosa è reciproca, se sto bene con me stesso comunico meglio, se comunico meglio
sto meglio con me stesso, questa situazione chiama assertività.
Gli studi fatti da Keygen e Watson mettono in luce che ci sono tre fattori di prevenzione dello stress
e del burnout, uno è l’assertività, l’altro è l’empatia e l’altro viene chiamato risposta automatica di
rilassamento.
Adesso ci occupiamo dell’assertività, che ha direttamente a che fare con il test che avete appena
compilato. L’assertività che cosa è? Ve lo dico in tanti modi perché è un concetto complesso, non è
semplice.
È fare rispettare i propri diritti rispettando i diritti degli altri ad esempio, è esprimere i propri
sentimenti senza offendere e senza urtare gli altri, è accettare l’espressione dei sentimenti degli altri,
senza offendersi e senza urtarsi.
Esempio, una persona vi tratta male, vi dice: non capisci niente, sei un imbecille, ci sono diverse
reazioni possibili a questa frase, c’è chi reagisce dicendo: come si permette lei di darmi
dell’imbecille, oppure c’è chi dice: forse lei sbaglia persona, io non sono un imbecille, quindi
evidentemente lei si sta sbagliando.
Un altro tipo di reazione può essere: perché dice così? Mi faccia capire mi interessa, capire se ho
dato prova di essere o di comportarmi da imbecille, mi interessa capire, per evitare dei danni a me e
agli altri.
Reazioni diverse, una sola di queste è assertiva, quale è quella assertiva? L’ultima, cioè mi faccia
capire. Se a lei sembro imbecille, vuol dire che c’è qualcosa che non va, parliamone, discutiamone.
La prima reazione invece: lei come si permette, è una reazione di tipo aggressivo, quindi torniamo
alla collera, che quando uno si arrabbia, se la prende.
Un'altra reazione invece può essere: lo so, mi dispiace, oppure no sta zitto, che figura che ho fatto,
la prossima volta cerco di stare nell’ombra, non mi metto così in mostra, così nessuno mi critica, e
questa è una reazione di tipo passivo.
Stiamo cominciando a delineare che cosa è l’assertività, cioè è sentirsi a proprio agio con se stessi e
con gli altri, anche con quelli aggressivi. Sono aggressivi ma a noi non interessa, a noi interessa il
messaggio: “sei un imbecille”, non ci interessa che sia una forma di aggressione nei nostri
confronti. Ci interessa capire perché ci viene detta questa cosa. Perché se capisco magari scopro che
c’è la possibilità di trovare anche un accordo.
L’assertività sta da questa parte, proviamo adesso a vedere insieme il vostro test, voi avete segnato
le frasi che vi caratterizzano, adesso a fianco di ciascuna mettete una sigla, se la frase è aggressiva
mettete AG, se è passiva mettete P, se è assertiva mettete A, e poi vediamo.
Proviamo a vedere la prima frase! “preferisco mostrarmi d’accordo con gli altri, piuttosto che far
valere il mio punto di vista” Che tipo di comportamento è questo? Chi pensa che sia passivo alzi la
mano. In effetti è un comportamento passivo. Perché? Perchè sopravvaluta gli altri e sottovaluta se
stesso.
Vediamo la frase due: “condizioni o situazioni sono la causa principale dei miei problemi.”
Cerchiamo un criterio interpretativo che ci serva quando siamo di fronte ad una persona che ci crea
problemi. Usiamo questo criterio per capire se la persona è aggressiva, passiva, se noi siamo
aggressivi o passivi nei suoi confronti.
Attenzione, il passivo, lo abbiamo detto prima, sottovaluta se stesso, sottostima se stesso e
sopravvaluta l’altro, quindi si sbilancia a favore dell’altro, giusto? Preferisco essere d’accordo con
gli altri, dargli ragione etc. etc. etc.
L’aggressivo invece sopravvaluta sé e dà sempre la colpa agli altri.
Proviamo ad applicare il criterio a questa seconda frase, “certe persone sono la causa principale dei
miei problemi” è una risposta aggressiva perché dà la colpa agli altri, perché scarica la
responsabilità sugli altri, come se il soggetto non esistesse.
“Quello lì mi insulta sempre” ma abbiamo visto, nell’esempio di prima, che l’assertivo trasforma la
critica in qualcosa di costruttivo, cioè dice perché mi insulti? C’è motivo? Fammi capire, perché se
hai ragione tu è bene che io lo sappia per cambiare, giusto?
Vediamo la terza frase, “ho spesso dei pensieri che mi spaventano e mi rendono infelice” Qui
bisogna introdurre un altro concetto.
Abbiamo visto il passivo sottovaluta sé e sopravvaluta l’altro, l’aggressivo sopravvaluta sé e dà
sempre la colpa agli altri, l’assertivo lavora alla pari, cioè lui stima sé e stima anche gli altri, anche
se sono aggressivi, perché lui pensa che qualcosa di vero ci sia.
Questa terza frase non va d’accordo né con un criterio né con l’altro, allora attenzione, questa frase
riguarda non il rapporto con gli altri, ma il rapporto con se stessi.
Introduciamo adesso un altro concetto che non abbiamo visto prima, il concetto di “anassertività”
che è il contrario dell’assertività, ma non nel senso dell’aggressività o della passività, perché lì
c’entrano gli altri, qui gli altri non c’entrano. In questa frase si esprime rapporto che noi abbiamo
con noi stessi.
Ho spesso dei pensieri che mi spaventano e mi rendono infelice, vuol dire io non sono capace di
gestire i miei pensieri. Quindi è nel rapporto con me che ho dei problemi, questa frase è quindi
anassertiva.
Vediamo la numero quattro: “quando non raggiungo i miei obiettivi posso facilmente scegliere un
altro percorso”. È assertiva, perché qui c’è un buon rapporto con se stessi, ed evidentemente anche
con gli altri.
La cinque: “sono incapace di esprimere i miei sentimenti e i miei bisogni apertamente”. Questa
frase descrive un comportamento passivo.
Perché? Esprimere i sentimenti apertamente implica il rapporto con gli altri, mentre l’anassertivo
riguarda solo il rapporto con se stessi.
Qui invece il soggetto è passivo, ha dei sentimenti, ma non osa manifestarli agli altri, lui li
riconosce, il problema è che se ne vergogna, ha vergogna di dirlo apertamente, quindi è passivo.
Bisogna sempre fare attenzione al criterio, il criterio è rapporto con gli altri o rapporto con se stessi.
Vediamo la sei: “sarei meno stressato se ci fosse più educazione da parte degli utenti”. È
un’affermazione aggressiva, tutti d’accordo?
“Posso generalmente modificare il mio comportamento adottarmi ad una situazione”. È assertiva.
Allora capite che l’assertivo, quello che è vaccinato contro lo stress, non se la prende anche di
fronte a situazioni molto complicate, difficili.
Pensate, io ho un amico medico di pronto soccorso, che in pronto soccorso è stressatissimo per tanti
motivi. Allora lui per distendersi ogni tanto va a farsi sei mesi in Afghanistan come medico senza
frontiere, dove lì veramente la vita è terribile, non hanno medicine, non hanno risorse, rischiano la
vita, eppure lui lì si rilassa, mentre si stressa molto nel pronto soccorso della sua città.
Come mai? Proprio per questo, perché non è tanto questione di situazioni ambientali, di
organizzazione, ma è proprio come una persona, un operatore affronta le cose.
Allora capite che se io mi adatto mi salvo dallo stress. Il mio amico quando va in Afghanistan si
adatta, come mai non si adatta anche nel suo pronto soccorso? Perché lì scatta l’aggressività, lui lì
dà la colpa agli altri.
Dice, se il Direttore Generale fosse più attento, se, se, se. Va avanti con un’idea che gli blocca
l’adattamento, mentre in Afghanistan lui dà per scontato che lì la situazione sia terribile, e quindi si
adatta senza problemi.
Finiamo il test guardando la numero otto: “solo raramente riesco a rilassarmi, la maggior parte del
tempo sono molto teso”. È un’affermazione anassertiva. Il rapporto è con se stessi anche qui, non
riesco a rilassarmi, io non riesco, gli altri non c’entrano.
Ora fatevi un piccolo profilo, guardando le frasi che avevate segnato, contate quelle passive, quelle
aggressive, quelle anassertive, e vedete dove c’è una prevalenza.
Mi sembra di capire che tutti avete avuto dei punteggi sia di aggressività, magari di passività, di
anassertività.
Siamo qui per vedere se si può fare qualcosa, perché se abbiamo un atteggiamento aggressivo o
anassertivo o passivo, siamo a rischio. Sopratutto la passività ci crea problemi, ma anche
l’aggressività, perché l’aggressività corrode come un acido, e poi crea problemi anche con gli altri.
Allora dobbiamo capire come si diventa assertivi, come si impara quest’altra dote che può prevenire
per lo stress e il burnout, che è l’empatia, cosa vuol dire. Infine come si acquisisce una risposta
automatica di rilassamento.
Bisogna dimostrare chiaramente che lo stress è un punto di vista soggettivo, cosa vuol dire? Vuol
dire che lo stress è una reazione di adattamento di fronte a situazioni che a noi sembrano
minacciose, la realtà può apparire in modo molto diverso da come è, dipende dal punto di vista, da
dove noi la guardiamo.
Cosa si intende quando si parla di punto di vista? Che a seconda di dove ti metti o di come ti metti,
più lontano, più vicino, la realtà può cambiare.
Il discorso è questo, ormai neuroscienziati, ritengono che la percezione della realtà non sia mai
identica alla realtà. Ognuno di noi ha una sua percezione della realtà, e non c’è niente da fare.
Perché? Perché ognuno di noi è diverso, ha un sistema nervoso diverso, ha delle esperienze diverse,
e quindi la stessa cosa ad uno sembra in un modo e ad un altro sembra in un altro.
Quando noi facciamo i corsi di formazione per gli operatori di pronto soccorso, i medici e gli
infermieri ci dicono: “dovreste formare gli utenti perché loro sono maleducati”. Quando li facciamo
ai vigili urbani questi dicono: “dovreste farli ai cittadini, perché ci sono dei mascalzoni che te li
raccomando”.
Pensare così è da aggressivi, fa male alla salute, e adesso ve lo dimostro. In un esperimento fatto un
po’ di anni fa dall’Università di Londra e di Heidelberg in Germania, è stato dimostrato che il tipo
assertivo è meno soggetto degli altri ad ammalarsi di cancro o disturbi cronici. I risultati ci sono
state confermate da altre indagini fatte successivamente.
In un altro esperimento, sempre fatto dagli studiosi di prima, è stato preso un gruppo del tipo uno: i
passivi, e un gruppo del tipo due: gli assertivi, e li hanno divisi a metà.
Metà gruppo del tipo uno era il gruppo di controllo, cioè lo hanno lasciato così come era, all’altro
gruppo hanno fatto delle conferenze tipo questa, che andavano da 4 ore a 40, a seconda delle
persone che partecipavano.
Dopo anche una conferenza solo di quattro ore, i gruppi vengono osservati, nell’arco di otto anni, si
è visto che il gruppo sperimentale, quello della Conferenza, ha ridotto drasticamente il numero dei
morti sia per cancro che per malattie coronariche.
Se noi abbiamo le idee ben chiare, e lo dice questa ricerca, ce la caviamo anche in termini di salute.
In generale si parla di maturità professionale, quando siamo in grado di gestire stress e burnout, e
che cosa è la maturità professionale? Competenza o tecnica, quindi saper fare il lavoro che si deve
fare, ma è anche saper organizzare il proprio lavoro, non aspettare l’organizzazione dall’alto, ma nel
piccolo fare in modo che le cose funzionino in modo sciolto e veloce. Soprattutto saper mettere in
campo competenza relazionale e capacità di controllo dello stress.
Torniamo ai tre elementi, che ci risparmiano dallo stress e dal burnout. L’assertività abbiamo visto
che cosa è, ma in pratica come la mettiamo in opera?
Vi ho dato un esempio prima, uno mi insulta e io devo sapere cosa rispondere, se rispondo: “lei non
sa chi sono io”, oppure: “come si permette”, sono aggressivo, non funziona. Se sto zitto e dico ma sì
forse ha ragione lei”, anche questo non funziona perché sono passivo.
La regola più facile da ricordare è che possiamo chiedere, fare domande, è la cosa più semplice. C’è
un detto che dice: “chi domanda comanda”.
Allora fare domande, come: “Perché dici così? Mi spieghi perché?” mi consente di sottrarmi al
gioco dell’azione – reazione.
Perché noi ci arrabbiamo quando ci arriva uno stimolo. Noi siamo portati a reagire come gli uomini
della pietra, gli uomini primitivi, e per uscire da questa reazione a catena dobbiamo porci davanti al
problema, quindi la domanda diventa la traduzione di questo atteggiamento intenzionale.
Cosa vuol dire? Perché mi dici così? Se io assumo questo atteggiamento non mi arrabbio, e scopro
tante cose che magari mi possono anche aiutare e servire.
Allora c’è una regola che ci aiuta a trovare sempre il modo giusto per dare le domande giuste, e non
reagire alle provocazioni? Attenzione, la cosa non riguarda solo il lavoro, riguarda anche la
famiglia, anzi spesso riguarda di più la famiglia, perché sul lavoro si è meno esposti. Una persona
ha la sua competenza, ha delle buone abitudini, se la cava, sa come gestire qualsiasi situazione
difficile.
È a casa che è più coinvolto, ci sono i figli, come ti permetti non si dicono parolacce alla tua
mamma, oppure ricordati che tuo padre ha sempre ragione, e dopo due minuti: la ragione si dà ai
matti, e cose di questo genere.
Come si fa a fronteggiare le provocazioni aggressive e la rabbia che ne deriva? Ci vuole una buona
regola, la regola delle tre A. Una regola nata negli Stati Uniti e che poi si è diffusa anche in altri
paesi e che noi conosciamo poco.
Che cosa è la regola delle tre A? La regola delle tre A dice che di fronte ad una situazione difficile
interpersonale, cioè quando c’è qualcuno che ci irrita, noi dobbiamo fare tre cose, che in inglese
iniziano tutte con la A, e quindi si chiama regola delle tre A.
Attend, ascolta, osserva. Asses, che vuol dire valutare le cause del perché l’altro ti sta aggredendo,
perché l’altro ti irrita, valutare le cause e manifestargli comprensione.
Asses segue attend, dovete capire, magari fare domande. Questo è asses, cioè manifestare
comprensione.
Un esempio preso dalla famiglia: due fratellini, uno più piccolo e uno più grande, arrivano da voi:
mamma “mi ha picchiato”, il piccolo è terrorizzato perché l’altro lo sta inseguendo. Le mamme di
solito difendono il piccolo e sgridano bruscamente e brutalmente l’altro, “non si picchia il fratellino,
è più piccolo di te, vergogna”.
Il più grande pensa, “ma tu mi picchi anche se io sono più piccolo di te, quindi è giusto che anche io
picchi il fratellino che è più piccolo di me”.
Vediamo di applicare la regola delle tre A, guardiamo nella stanza dei bambini e vediamo che dietro
al fratellino più grande che sta inseguendo quello piccolo, c’è una costruzione di Lego rovesciata, in
parte distrutta.
Attend: sta a vedere che il grande era lì che stava costruendo il suo castello con il Lego, il piccolo è
andato là e glielo ha rovinato.
Asses, verso il grande: “fermo un attimo, te la sei presa così con il fratellino perché lui ti ha rovinato
il gioco, vero? Asses, valutare le cause del suo stato emotivo e mostrargli comprensione, che non
vuol dire giustificarlo, ma vuol dire far vedere che abbiamo capito.
Allora lui cosa fa? lui dice sì, e si mette a piangere, mentre prima era arrabbiato, con il fratellino e
con voi che ve la prendevate con lui.
Adress, orientare verso una soluzione costruttiva, e cioè dire al più grande: ma allora se capita
spesso, tu che sei più grande insegnagli a giocare con te, oppure gli fai vedere un gioco che è adatto
a lui, e poi giocate vicini e ognuno si occupa del suo gioco. Vedrete che funziona, e funziona con
tutti.
Il cuore della regola delle tre A è il secondo punto l’asses, mostrare comprensione, allora si smonta
qualsiasi aggressività da parte degli altri.
Se gli altri non sono aggressivi con noi, abbiamo già ridotto di metà lo stress, perché a noi dà
fastidio, soprattutto a noi che lavoriamo in professioni di aiuto, se ci trattano male. Ci stiamo ancora
più male di altri perché noi diamo il meglio di noi nel lavoro.
Il vostro lavoro, è un lavoro duro, difficile perché aiutare le persone anziane è faticoso anche
psicologicamente.
Allora capite che se non c’è riconoscimento dall’altra parte, ma c’è aggressività, voi ci state ancora
più male, ma dipende da voi smontare l’aggressività che c’è dall’altra parte, e la regola delle tre A è
fatta proprio per questo.
Bisognerebbe ricordare sempre la regola delle tre A, e usarla ogni volta che c’è una situazione
interpersonale difficile, per risolverla.
Vi faccio vedere un cartone animato, questo cartone animato è italiano, però l’autore è argentino, e
vedete che anche lì c’è la regola delle tre A.
Proiezione del filmato
Come nel film la gabbianella e il gatto avete visto che la gabbianella è stata portata sul campanile
perché deve imparare a volare. Hanno tentato di insegnarglielo giù in mille modi, ma non sono
riusciti. È chiaro che lei è spaventata, perché non sa volare anche se è un uccello l’altezza del
campanile la spaventa.
Allora il bambino cosa fa? Vede che è preoccupata, attend, e la giustifica, dice: “hai paura perché
da quassù fa paura guardare giù, anche io ho paura”. Vedete il bambino la giustifica, mostra
comprensione.
Molti mi dicono: “allora bisogna giustificare tutto”, no! ma si giustifica per orientare. Hai paura?
Adesso ti oriento. Perché ti posso orientare? Perché tu sai che ti ho capito. Sarebbe troppo facile
dire “non avere paura tu hai le ali”, la gabbianella potrebbe rispondere “sono io che mi devo
buttare”.
Invece il nostro amico cosa fa? Si immedesima, e dice: “capisco, anche io ho paura a guardare giù,
poi però la orienta, e lei adesso è disposta ad ascoltare, perché è stata capita.
Se prima non facciamo vedere che siamo dentro la situazione, non funziona, non funziona
l’orientamento.
Proiezione del filmato
Empatia, l’asses, la seconda delle tre A, richiede empatia, solo chi ha sviluppato questa dote riesce a
trasmettere all’altro che ha capito il suo problema, e quindi ottiene poi di poterlo orientare.
Che cosa è l’empatia?
Immaginate un vaso di cristallo, trasparente o quasi.
Immaginate che là dentro ci sia l’altro, una persona che non ha stima di sé, che non ha fiducia in se
stessa. È là dentro, e da là guarda fuori. Voi siete fuori e vedete lei dentro, ma non chiaramente
perché il vaso non è perfettamente trasparente.
Quindi vedete dentro il vaso una persona, un po’ confusa, un’immagine poco chiara, poco nitida. Di
solito quando si pensa all’empatia si pensa a questo: capire cosa pensa l’altro, capire cosa vuole
l’altro.
Ci sono due modi per farlo, uno dall’esterno, io guardo l’altro, lo vedo là dentro, vedo una persona
anziana non autosufficiente, oppure molto vecchia, che ha ancora poco da vivere, e vedo certe
espressioni sul suo viso e dico poverino.
Questa può essere una prima forma dell’empatia, ma l’empatia vera, quella che ci serve per
applicare la regola delle tre A, e che funziona sempre, è quella che io ottengo quando vado dentro
nel vaso.
Cosa vuol dire? Vuol dire che non penso più poverino è anziano, ha paura di morire, perché ormai
sente che è giunta la sua ora, ma io vado dentro il vaso e immagino come lui vede quello che gli sta
intorno.
Provate ad immaginare la cosa, se io guardo da fuori vedo la persona con delle ombre sulla sua
immagine, perché è il vaso che proietta quelle ombre. Se vado dentro non vedo più le ombre, ma
vedo il mondo alterato dalle ombre che ci sono sul vaso, come le vede lui.
La percezione della realtà esterna che io ho stando dentro nel vaso, è molto simile a quella della
persona all’interno del vaso. Solo così la persona mi capisce e quindi mi ascolta, perché io sono
insieme a lei, sulla stessa barca.
Se ci mettiamo dentro il vaso siamo anche noi come l’altro.
Questo rimane un dato di fatto. Però se noi vogliamo invece prepararci e preparare gli altri, non è
che dobbiamo dire adesso muori, preparati, ma come dicevo dobbiamo far vedere che capiamo lo
stato d’animo, perché riguarda anche noi, non solo lei.
Siamo lì a dire per esempio che, la morte spaventa tutti, se io mi metto nei panni di una persona, di
un essere umano che è mortale, anche io ho paura, e quindi posso capire te che sei malato, che sei
anziano, e che quindi te la senti ancora più vicina.
Non si può consolare uno che sta morendo, però si può stargli vicino facendo vedere che capiamo
quello che sta accadendo, e che poi toccherà anche a noi.
L’organizzazione del lavoro può essere causa di stress.
Noi anni fa abbiamo fatto un’indagine sullo stress dei lavoratori delle poste, allora le poste erano il
luogo in cui gli operatori erano in assoluto i più stressati, molto più dei medici di pronto soccorso,
molto più dei vigili del fuoco, molto più dei vigili urbani.
Siamo ritornati dopo che sono stati rinnovati gli uffici. Li hanno fatti tutti uguali, tutti molto più
belli, colorati, più funzionali, con i numeri per evitare le code. Siamo ritornati a misurare lo stress
ed abbiamo rilevato che era diminuito enormemente.
Quindi se uno lavora in un ambiente adatto, il risultato è molto migliore.
Ma qui oggi siamo a vedere come il nostro comportamento in qualsiasi condizione, buona o cattiva,
influenzi i rapporti, e se i rapporti sono negativi ne risentiamo anche noi.
L’obiettivo di oggi è questo: capire il nostro comportamento. Il fatto che la Provincia abbia
organizzato questo incontro mi sembra che sia un passo verso di voi, per aiutarvi a migliorare i
rapporti con gli altri, e quindi con voi stessi.
Ancora due parole per chiudere.
Ripeto, capiamo le difficoltà che ci sono nel vostro lavoro, però quello che noi possiamo fare qui
ora, è riflettere sul fatto che il nostro comportamento provoca il comportamento degli altri, e
viceversa.
Abbiamo la possibilità di scegliere se stare bene o stare male.
Come diceva l’Assessore, se voi state bene con voi stessi potete comunicare meglio, noi rovesciamo
la cosa, se voi comunicate meglio con chiunque, in casa, fuori, su un treno, per strada, al lavoro,
state meglio con voi stessi, e a noi interessava questo.
Roberto Anchisi e Mia Gambotto Dessy
Tratto da: Caleidoscopio italiano N. 214, rivista online reperibile su Internet nel sito:
www.medicalsystem.it
Appunti sullo stress, su come affrontarlo e sulle ricadute in termini di benessere
Stress
Il termine stress deriva dall’antico francese “estrece”, che significa “strettezza” “oppressione” (dal
latino “stringere”), ed è entrato nel vocabolario inglese durante l’invasione normanna nell’XI
secolo, inizialmente con un significato puramente fisico per indicare una pressione meccanica,
come quella esercitata da un carico su una volta architettonica ad arco.
Il termine rende bene l’idea della tensione a cui è sottoposto l’organismo di chi deve reagire a un
evento pressante o minaccioso. Il verbo To stress in inglese enfatizza la pressione ambientale su un
individuo, perché produca una risposta immediata e massiccia, con la mobilitazione globale delle
risorse dell’organismo.
Tale mobilitazione non è senza conseguenze, perché opera una sorta di drenaggio delle risorse
biologiche che lascia, dopo l’evento, l’organismo spossato. Perciò Hans Selye, lo studioso canadese
di origine ungherese che a partire dagli anni ’30 si è occupato compiutamente del fenomeno, ha
assimilato lo stress a una malattia, definendolo “sindrome generale di adattamento”.
Quando, invece, la pressione ambientale è meno eclatante e non arriva a produrre una reazione
globale, ma soltanto la prepara allertando l’individuo, si parla di “sindrome di attivazione”, la cui
manifestazione soggettiva è l’ansia.
Le variabili in gioco sono:
a. gli eventi stressanti, o stressor
b. la tensione prodotta nell’organismo, o stress vero e proprio.
In relazione a come gli stressor vengono percepiti, lo stress può essere di due tipi:
1. mobilitazione globale delle risorse energetiche dell’organismo, in presenza di eventi che
minacciano la sopravvivenza stessa dell’individuo e richiedono una risposta immediata e potente;
2. ansia, quando la minaccia non è immediata e oggettiva, ma è piuttosto una aspettativa di
minaccia.
Lo stress del primo tipo di per sé non è dannoso, anzi: di fronte a un reale pericolo immediato può
salvare la vita, innescando risposte altrettanto immediate ed energiche: di attacco o di fuga (in
inglese: fight or flight). Ma nel caso in cui la minaccia sia di tale entità da provocare uno schoc
emotivo, come quando l’individuo si trova coinvolto in una situazione disastrosa o catastrofica, il
risultato può essere quello del Disturbo Post-Traumatico da Stress (in inglese Post-Traumatic Stress
Disorder: PTSD).
Lo stress disadattivo più frequente e diffuso è, però, quello del secondo tipo, quando diventa
abitudine, tendenza alla preoccupazione, stato d’ansia perdurante. Viene definito sindrome di
attivazione perché una costante attivazione delle risorse dell’organismo è logorante e, alla lunga,
produce danni: i cosiddetti disturbi da stress.
Reazioni patologiche di stress
Le conseguenze dello stress variano da persona a persona. E possono presentarsi in vario modo: da
semplici segni di insofferenza e di irritazione a veri e propri sintomi fisici di malattia. Le
manifestazioni patologiche dello stress sono di tre tipi: psicologiche, fisiologiche e
comportamentali.
a. Reazioni psicologiche
Le reazioni psicologiche riguardano l’incidenza che le cause esterne dello stress hanno sull’umore
del soggetto che le subisce: si tratta di reazioni emotive eccessive, o perché di intensità eccedente le
normali reazioni provocate dal confronto con le difficoltà quotidiane, o perché di durata superiore
alla media. Il soggetto, anziché sfruttare la particolare attivazione provocata dallo stress per
affrontare gli eventi, reagisce in modo esplosivo o, al contrario, rimane inibito e “implode” su se
stesso, risultando in ogni caso sconvolto.
L’irritazione si trasforma in un atteggiamento di abituale ostilità e rancore; mentre l’inibizione dà
luogo a frustrazione, ad ansia cronica e anche a forme gravi di depressione.
I segni iniziali dello stress patologico sono irritabilità e affaticabilità, senso di inefficacia, perdita di
motivazione, difficoltà a concentrarsi, diminuizione della memoria e della creatività, aumento del
numero degli errori commessi.
b. Reazioni fisiologiche
Le reazioni fisiologiche allo stress avrebbero dovuto essere esposte per prime, perché la reazione di
stress, così come è stata definita da Selye, è anzitutto biologica, con una serie di complesse reazioni
ormonali. Nella nostra trattazione, tuttavia, si è preferito farle precedere da quelle psicologiche,
perché ciò che innesca la reazione di stress è la percezione di una minaccia, ossia un fattore
prettamente psicologico. In ogni caso si tratta sempre di reazioni a spirale, in un processo in cui
ciascun fattore si connette strettamente agli altri, che influenza e da cui è influenzato.
Gli ormoni dello stress sono, in prima battuta, due, adrenalina e noradrenalina, la cui azione è di
rendere più pronta ed energica la reazione difensiva nei confronti degli stressor esterni. In seconda
battuta entrano in circolo gli ormoni cortico-surrenali, che aumentano la resistenza nel tempo e
rendono più duratura la risposta alle sollecitazioni ambientali.
Per definire i disturbi fisici provocati da tali reazioni, in medicina si ricorre ad aggettivi che ne
indicano la transitorietà e reversibilità o la natura non organica: funzionali, essenziali, idiopatici,
psicosomatici. Si va dalla facile affaticabilità, alla tensione muscolare; dai disturbi del sonno, alle
palpitazioni, alla dispnea, alla colite (colon irritabile). Ma anche vere e proprie malattie a base
organica possono essere innescate o aggravate dallo stress, come molte allergie e malattie della
pelle, l’ipertensione essenziale, la retto-colite emorragica. E vi è ormai anche un certo grado di
evidenza che vi sia una partecipazione dei fattori psicologici nell’insorgere o nell’aggravarsi delle
malattie coronariche e tumorali.
c. Reazioni comportamentali
Le reazioni comportamentali sono facilmente individuabili e rappresentano il primo fattore
diagnostico per i identificare i soggetti sotto stress: sono persone sempre di fretta, precipitose,
impazienti, irritabili. Su questa base Rosenman e Friedman (1974) hanno definito il Tipo A per
indicare quel tipo di persone che, essendo abitualmente sotto stress, sono a rischio di sviluppare i
disturbi e le malattie sopra elencate con maggiore probabilità rispetto alle altre persone.
Alcuni esempi di modi di fare propri del Tipo A:
1. Pensate che in una giornata non ci siano sufficienti ore per fare tutto quello che dovete fare?
2. Avete l’abitudine di muovervi, di camminare e di mangiare in fretta?
3. Provate impazienza per il ritmo con cui si svolge la maggior parte degli eventi?
4. Dite “Ah-ah, Ah-ah”, “Sì-sì, Sì-sì” a chi vi sta parlando, spingendolo così a sbrigarsi o a parlare
più in fretta? Avete la tendenza a finire le frasi al posto degli altri?
5. Vi irritate o vi adirate oltre misura quando l’auto che vi precede va a un’andatura che considerate
troppo lenta?
6. Trovate angoscioso aspettare in coda o attendere il vostro turno per sedervi al ristorante?
Stress e differenze individuali
La distinzione tra sindrome generale di adattamento e sindrome di attivazione è di natura
funzionale. Nell’uso comune prevale invece un’altra distinzione, quella tra eustress e distress, che
non ne differenzia la natura in base alla funzione (adattamento a uno stimolo reale e definito o
preparazione confusa a uno stimolo atteso e indefinito), ma in base agli effetti per l’individuo:
positivi, se il soggetto mobilita le sue energie per realizzare i propri obiettivi;
negativi, se la mobilitazione dell’energia è accompagnata da sentimenti negativi, come l’ira,
l’ostilità o la paura.
Ma si tratta di una distinzione che va chiarita: perché è come se si mescolasse acqua e vino e poi si
dicesse che ciò che rende ubriachi è l’acqua, invece che il vino abbondante. Nel caso del distress,
ciò che è negativo non è la risposta allo stimolo, ma i sentimenti negativi che l’accompagnano.
Sono i sentimenti negativi che di per sé procurano danno, come il vino quando è assunto in eccesso.
Gli studi sugli effetti negativi dello stress vanno, perciò, adeguatamente vagliati: parte sono studi
sugli effetti negativi di alcuni sentimenti e parte sono studi sulle conseguenze degli stati perduranti
di attivazione propri della sindrome ansiosa o del PTSD.
La distinzione ha un’importanza pratica rilevante, perché consente di intervenire in modo mirato sui
fattori di stress. In effetti, mentre taluni eventi esterni risultano statisticamente stressogeni, come ad
esempio un lutto o la perdita del lavoro, altri causano stress solo a coloro che li affrontano con un
punto di vista inadeguato e con idee pregiudiziali.
Nel primo caso si tratta di riconoscere il potere stressogeno di tali eventi, per essere preparati ad
affrontarli più efficacemente. Nel secondo caso si tratta di modificare idee e punti di vista
disfunzionali, che, a parità di condizioni ambientali esterne, determinano ansia e stress solo in
alcuni soggetti, mentre altri ne sono esenti.
Eventi stressogeni
Gli stressor sono molto numerosi: praticamente qualsiasi evento che richieda adattamento può
costituire una fonte di stress. Non deve perciò stupire che tra questi vi siano anche avvenimenti
piacevoli, come il matrimonio o il conseguimento di un diploma, che tuttavia implicano consistenti
cambiamenti nelle abitudini di vita. Holmes e Rahe (1967) hanno identificato una lista di “eventi
vitali” in grado di procurare stress, associando a ciascuno di essi un punteggio di probabilità, per cui
risulta che alcuni eventi, come la morte di un congiunto ha il 100% di probabilità di procurare
stress, mentre altri possono procurare reazioni di stress della medesima entità soltanto sommandosi.
Anche eventi che si presentano isolati, ma quotidianamente, possono accrescere il loro potere
stressogeno, per un effetto di sommazione nel tempo, dovuto alla frequenza con cui si presentano,
come il ritardo dei treni per i pendolari che si recano al lavoro; oppure dovuto alla durata, come un
lungo periodo di brutto tempo durante le ferie.
Eventi vitali e % di stress
Morte di un congiunto 100
Divorzio 73
Prigione 63
Infortunio o malattia 53
Matrimonio 50
Licenziamento 47
Pensionamento 45
Arrivo di un nuovo membro in famiglia 39
Conflitti coniugali ripetuti 35
Debiti o prestiti rilevanti 31
Successo personale notevole 28
Trasloco 20
Vacanze 13
È importante prendere in esame tutti i tipi di stress quotidiani, per capire come molte persone
sviluppino disturbi anche in assenza di eventi rilevanti. Phillip J. Brantley, Craig D. Waggoner,
Glenn N. Jones e Neil B. Rappaport del Medical Center della Louisiana State University hanno
messo a punto uno strumento per la valutazione degli stressor giornalieri, il Daily Stress Inventory.
Si tratta di un elenco di 58 situazioni che possono causare stress durante le normali attività
quotidiane: a chi soffre di disturbi da stress, quali cefalea, gastrite, o altro, viene richiesto di
compilare al termine della giornata il questionario, indicando a fianco di ciascuna situazione quanto
disturbo ha provocato, con una scala da 1 (“L’evento si è verificato, ma non ha causato stress”) a 7
(“Mi ha causato panico”). Ecco alcuni esempi di tali situazioni:
Ho svolto un compito in modo poco soddisfacente
Ho agito in modo poco efficace per colpa di altri
Ho pensato a un lavoro non completato
Mi sono affrettato per terminare un compito
Sono stato interrotto durante un compito/un’attività
Qualcuno ha rovinato qualcosa da me realizzato
Non sono riuscito a terminare un compito
Non sono riuscito a organizzarmi
Sono stato criticato o attaccato verbalmente
Sono stato ignorato dagli altri
Ho dovuto parlare o agire davanti a un pubblico
Il Daily Stress Inventory è utile per capire il contesto entro cui si trova ad agire chi soffre di disturbi
da stress: ma è soprattutto utile per cogliere le idiosincrasie che rendono tale contesto stressogeno.
Non tutte le persone, infatti, che vivono nelle medesime condizioni di vita e che affrontano le
medesime difficoltà risultano stressate. In tal senso si può dire che lo stress è frutto di punti di vista
idiosincrasici e disfunzionali.
A parità di situazioni stressanti vi sono individui che sviluppano lstress e individui che ne
rimangono esenti.
Pertanto lo stres non è il semplice prodotto degli stressor, ma di questi uniti a fattori presenti nei
diversi individui quali lo stile di comportamento (ad esempio quello definito di Tipo A,
caratterizzato da frettolosità e aggressività) e lo stile di pensiero (ad esempio quello definito di
External control, vittimistico e moralistico, che si accompagna a convinzioni del tipo: “Se gli altri si
comportassero meglio...”).
Per la verità, stile di comportamento e stile di pensiero hanno un’importanza tale da essere
sufficienti a produrre stress anche in assenza di cause esterne, come accade in chi si preoccupa di
questioni oggettivamente irrilevanti o che non dipendono da lui.
Problemi oggettivi e problemi soggettivi
Per uscire dalla spirale dello stress/burnout, è necessario riconoscere che lo stress è un punto di
vista, ossia un fattore soggettivo.
Una distinzione pratica importante è quella tra problema oggettivo e problema soggettivo: nel primo
caso, le difficoltà non dipendono da noi e non serve preoccuparsi, nel secondo caso dobbiamo
modificare il nostro punto di vista chiedendoci quali sono gli obiettivi da perseguire. Ad esempio,
quando vengo aggredito da un paziente maleducato, mi viene spontaneo reagire in base al principio:
“A chi mi aggredisce, rispondo aggredendo”. Ma qual è il mio obiettivo? è quello di svolgere con
competenza il mio lavoro, o stare sempre sulle difensive pronto ad attaccare chiunque se lo meriti?
La definizione degli obiettivi può avvenire per motivi emozionali o razionali. Nel primo caso si
tratta di reazioni istintive e l’obiettivo è immediato ed elementare: evitare, rifiutare, difendersi e
fuggire, o pretendere, aggredire, combattere. Nel secondo caso si chiama in causa la ragione, in
qualità di sistema motivazionale di ordine superiore, che filtra e orienta le esigenze emotive,
secondo obiettivi che trascendono la reattività istintiva dell’individuo.
Il superamento della reattività istintiva richiede maturità da parte della persona, per agire secondo
un piano di vita consapevole. Analogamente, in campo lavorativo si ha maturità professionale
quando la persona agisce secondo obiettivi organizzativi e non secondo esigenze e reazioni
soggettive. Si tratta, allora, di cogliere i rapporti tra ragione ed emozione nel definire gli obiettivi e
nello scegliere i mezzi più adatti per realizzarli.
Per un uso efficace di questi concetti è importante analizzare le singole componenti della maturità
professionale: a) competenza tecnica, b) organizzazione del lavoro, c) competenza relazionale, d)
capacità di controllo dello stress. Per ciascuna di esse viene qui di seguito presentata una breve
analisi del motivo per cui ciascuna componente della maturità professionale risulta importante ed
efficace, e delle difficoltà oggettive e soggettive che possono limitarne l’applicazione.
Che uso fare di queste indicazioni?
Poiché le difficoltà oggettive richiedono una pianificazione degli interventi che va al di là delle
possibilità del singolo, vanno prese come condizioni entro cui adattare il proprio operare e non
come motivo di sterile recriminazione. Le difficoltà soggettive, invece, si risolvono cambiando
atteggiamento:
Quando la vita diventa difficile da sopportare, si pensa a un mutamento
della situazione. Ma il mutamento più importante ed efficace, quello del proprio
comportamento, non ci viene neppure in mente, e con difficoltà possiamo deciderci
ad affrontarlo (Wittgenstein).
Stress come punto di vista: il modello mediazionale
A stressor uguali corrispondono reazioni diverse da parte di soggetti diversi. Anzi, per meglio dire,
mentre alcuni soggetti reagiscono malamente, altri continuano ad agire autonomamente (anziché
reagire), secondo propri obiettivi, in linea con i propri ideali e valori. Comprendere come possano
alcuni sottrarsi all’influenza negativa di quegli eventi esterni, che invece sono disturbanti per altri,
significa trovare la chiave per prevenire lo stress e vivere in modo più sereno e costruttivo.
Da diversi anni, perciò, le ricerche si sono incentrate non più sulla misura dello stress in sé, quanto
piuttosto sullo studio dello “stress percepito”. Ciò che rende un evento più o meno stressante è il
grado di controllo che un soggetto crede di avere su un dato avvenimento. Un semplice esperimento
ha chiarito bene questo punto. A un gruppo di pazienti sottoposti a cure dentarie è stata data la
possibilità di interrompere in qualsiasi momento l’azione del trapano mediante un interruttore
manuale. Al gruppo di controllo, no.
Richiesti di esprimere su una scala di stress il disagio provato, i soggetti del gruppo sperimentale
hanno indicato valori decisamente più bassi di quelli del gruppo di controllo.
Per comprendere appieno la natura delle reazioni di stress è stata formulata la teoria della “doppia
valutazione”. Perché abbia una reazione di stress, il soggetto deve anzitutto percepire la presenza di
uno stressor: condizione non sempre necessaria, e quasi mai sufficiente. Secondariamente, deve
percepire tale evento esterno come negativo: e questa è condizione sempre necessaria e spesso
sufficiente.
A che cosa è dovuta la percezione negativa di un evento? Alla convinzione di non avere alcun grado
di controllo sulla classe di quegli eventi.
La doppia valutazione, dunque, si esplica nel seguente modo:
1. esiste una situazione difficile
2. su di essa il soggetto non può avere alcuna influenza.
Il modello concettuale dello stress che ne segue è un modello di tipo mediazionale, in cui acquista
un ruolo cruciale il punto di vista soggettivo. Di qui l’affermazione, gravida di implicazioni pratiche
per la prevenzione dello stress, che “lo stress è un punto di vista”.
Controllo delle tre dimensioni dello stress
Rendere positivo il punto di vista su un evento percepito come stressante richiede la capacità di
assumere il controllo sui tre aspetti con cui lo stress si manifesta: psicologico, fisiologico e
comportamentale.
I tre aspetti sono strettamente interconnessi ed è un po’ come per l’uovo e la gallina: è difficile dire
che cosa sia nato prima. L’aspetto psicologico è quello più direttamente legato al filtro percettivo,
che il soggetto utilizza per valutare gli eventi e assegna alle modificazioni emotive da essi prodotte
la caratteristica di minaccia; d’altra parte, reazioni emotive intense risultano fortemente disturbanti
e rendono minacciosa la percezione degli eventi a cui sono associate; infine, le reazioni
comportamentali che portano il soggetto a rifuggire tali situazioni concludono il ciclo, impedendo
una corretta valutazione dell’evento oggettivo, e danno il via ad abitudini disadattive che
mantengono la percezione di minaccia.
In ogni caso, è opportuno esaminare ciascun tipo di reazione, a cominciare dalla base biologica, su
cui poggiano le altre reazioni: se l’organismo si mantiene calmo e tranquillo, anche in presenza di
quelle situazioni che abitualmente provocano reazioni di stress, è quasi automatico anche il
cambiamento del punto di vista che contribuisce alla percezione minacciosa di tali situazioni.
Agire sulle reazioni biologiche ed emozionali
Le reazioni biologiche ed emozionali sono reazioni innate ed ancestrali: hanno da sempre consentito
agli individui sottoposti a un’improvvisa minaccia di reagire con immediatezza e con tutta l’energia
necessaria a fronteggiare situazioni di pericolo per la sopravvivenza. Questo spiegherebbe perché lo
stress è così diffuso, nonostante i pericoli fisici siano molto più ridotti di un tempo: i meccanismi
selettivi della specie hanno privilegiato gli individui più reattivi allo stress, perché più dotati per
sopravvivere. Solo che l’effetto ai giorni nostri è diventato paradossale: ora sembrano più dotati per
una vita più longeva coloro che sanno gestire meglio lo stress. In realtà le situazioni di pericolo
sono molto cambiate rispetto al passato, quando erano legate ad attacchi di nemici, animali o umani
che fossero. Le attuali condizioni di stress sono più di tipo socio-economico-culturale: la
competizione con gli altri, per primeggiare nello studio, nello sport, nella professione; il timore del
giudizio degli altri; la dipendenza da capi autoritari; la precarietà del lavoro; l’iniqua distribuzione
delle risorse (un calciatore o un cantante guadagna enormemente di più di un medico o di un
infermiere) a fronte di condizioni di lavoro inadeguate e usuranti (scarsità del personale, turni
eccessivamente prolungati e gravosi). Le reazioni fisiologiche e chimiche a tali stress risultano
perciò più dannose che benefiche, mentre assumono sempre più rilevanza le doti di intelligenza e di
stabilità emotiva.
I primi studi per ridurre la reattività allo stress hanno perciò privilegiato le metodiche di
rilassamento, con lo scopo di mettere in qualche modo la sordina all’attivazione e favorire una
comprensione delle difficoltà non più di tipo ansioso, ma orientata al problem solving.
Alcune di tali metodiche, come il training autogeno e il rilassamento muscolare progressivo di
Jacobson (1936), hanno privilegiato l’aspetto fisico del rilassamento. Altre, come la Relaxation
Response di Benson l’aspetto della comprensione e dell’autonomia emotiva. Herbert Benson, della
Harvard Medical School, ha ripreso, semplificandole, le tecniche meditative orientali.
Altri Autori ne hanno tratto varianti più elaborate, note come meditazione trascendentale o
mindfulness, che hanno contribuito a perfezionare i trattamenti di psicoterapia, rendendone i risultati
più completi e duraturi.
Agire sugli aspetti psicologici e comportamentali dello stress
La sindrome dello stress si attiva sulla base di meccanismi ancestrali anche se ora le fonti di stress
sono prevalentemente sociali: famigliari indisponenti, figli capricciosi, impiegati maleducati,
superiori esigenti e ipercritici, pazienti aggressivi e pretenziosi, colleghi indolenti e non disponibili.
Per questo è importante riconoscere che le reazioni di stress che noi dobbiamo gestire sono quelle
che abbiamo nei confronti degli altri. Il comportamento degli altri va considerato come causa di
stress e non come rimedio: nel senso che, se vogliamo una qualità di vita migliore, dobbiamo
imparare a gestire i nostri comportamenti, anziché pretendere che siano gli altri a cambiare per
rispondere alle nostre attese.
Dal punto di vista relazionale le reazioni di stress di attacco o di fuga si configurano come reazioni
aggressive o passive. Entrambe sono inadeguate e, anzi, foriere di ulteriore stress: le risposte
aggressive ingigantiscono i conflitti, secondo il principio che “aggressività provoca aggressività”;
mentre le risposte passive inducono frustrazione, ansia e depressione in chi subisce.
È perciò indispensabile sviluppare un terzo tipo di comportamento, quello assertivo, per esprimere
le nostre esigenze e per agire positivamente sui comportamenti stressanti degli altri.
Assertività come fattore psicologico e comportamentale anti-stress
Lo stile assertivo si sviluppa attraverso un percorso che comprende il riconoscimento delle proprie
reazioni emotive e la competenza di esprimerle senza urtare la sensibilità altrui. Il punto è questo: le
reazioni emotive di stress si risolvono alla radice se sappiamo gestire le situazioni sociali che le
causano, per cui acquisire competenza relazionale significa anche essere molto meno esposti alle
emozioni stressogene.
Teoria dei diritti della persona
L’assertività è fatta non solo di competenza, ma anche di conoscenza. Un punto importante è
rappresentato dalla teoria dei diritti: conoscere i diritti della persona significa conoscere i principi
che devono guidare il comportamento di ciascuno, perché si realizzi il massimo di libertà per tutti.
Un esempio: io ho il diritto di dire di no a chi mi chiede qualcosa che non mi sento di concedere,
perché riconosco a lui il diritto di chiedere. E viceversa. È il riconoscimento della reciprocità dei
diritti che illumina con evidenza l’esempio proposto: io chiedo ciò che mi serve, senza proiettare
sull’altro il mio timore di metterlo in imbarazzo, qualora non voglia o non possa accondiscendere
alla mia richiesta, se ho chiara l’idea che lui ha pieno diritto di rifiutare.
L’assertività consente di essere disponibili verso gli altri, senza alcuna remora del tipo “se gli do la
mano, quello mi prende tutto il braccio!”. La competenza nell’esprimere i propri sentimenti e le
proprie esigenze, unita alla conoscenza dei diritti e al riconoscimento del principio di reciprocità,
rende benevolenti e magnanimi. Benevolenza e magnanimità si esplicano nell’attenzione verso gli
altri, attenzione che si traduce in forme genuine di apprezzamento. A sua volta, manifestare
apprezzamento per gli altri produce un ritorno positivo anche per se stessi: oltre al fatto che chi si
sente apprezzato è portato ad apprezzare, colui che apprezza dimostra disponibilità e magnanimità.
Il risultato finale è analogo a quello ottenibile con la meditazione di Benson: un sentimento di
autonomia e di autostima radicati nella consapevolezza del valore dell’individuo come Persona.
Stili relazionali e schemi cognitivi
Da un punto di vista pratico, i fattori psicologici su cui agire per evitare la risposta di stress sono
essenzialmente due: 1) gli stili relazionali e 2) gli schemi cognitivi che, con le loro regole implicite,
condizionano i comportamenti.
Gli stili relazionali sono quelli già esaminati: passivo, aggressivo e assertivo. Abbiamo visto come
sviluppare uno stile di comportamento assertivo e con quali risultati sul piano dell’autostima e
dell’autonomia. Ma per giungere a tali risultati si devono affrontare mille ostacoli insidiosi,
costituiti dalle regole di comportamento acquisite, nel corso della crescita, dalle diverse fonti di
educazione, rappresentate dalla famiglia, dalla scuola,
dai coetanei, e più in generale dal cosiddetto senso comune. Si tratta di regole insidiose, perché
acquisite quasi per osmosi, senza il filtro della critica razionale, e che agiscono sui comportamenti
in modo pregiudiziale: regole implicite che controllano il comportamento. Qualche esempio:
“Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”, “Dagli la mano e ti prenderà il braccio”, “Nessuno deve
permettersi di trattarti così”.
Il lavoro sugli schemi è un lavoro sulla consapevolezza: si tratta di rendere esplicite le idee
irrazionali su cui poggiano le regole implicite che governano il comportamento.
Il comportamento, proprio e altrui, è “governato da regole”: alcune di queste risultano
particolarmente adattive, ponendosi come fattori di sviluppo degli individui, in termini di abilità e di
competenze, utili per superare più efficacemente le situazioni critiche; altre, invece, danno origine e
mantengono schemi di comportamento costantemente inefficaci e disfunzionali nei confronti delle
difficoltà pur presenti in aree critiche abituali.
Le regole che determinano il comportamento tendono a raggrupparsi attorno a nuclei aggreganti,
differenziati a seconda del punto di vista di base che l’individuo si trova ad adottare nei confronti
degli altri: tali nuclei aggreganti esprimono diversi tipi di atteggiamento che le persone possono
assumere nei confronti delle proprie azioni e delle loro conseguenze, potendone attribuire la
responsabilità a se stessi oppure agli altri. Solo nel primo caso le regole che ne derivano sono
adattive, mentre nel secondo risultano costantemente inefficaci.
Chi tende a riconoscere la propria responsabilità nel modo di affrontare il corso degli eventi e, in
particolare, le reazioni delle altre persone, è portato naturalmente a sviluppare regole di
comportamento in grado di gestire anche le proprie emozioni e, per empatia, quelle altrui. Si dice
allora che egli utilizza uno stile di comportamento di Tipo 4.
Chi, invece, non ha proprio idea di come le conseguenze, fattuali e soprattutto emozionali, delle
proprie azioni dipendano dalla sua personale responsabilità, ma tende ad attribuirne la causa (o
meglio la colpa) sempre agli altri, può appartenere al tipo di personalità n. 1 o n. 2, a seconda che
subisca tale stato di cose passivamente (Tipo 1) o che reagisca aggressivamente (Tipo 2).
Chi tende a evitare le conseguenze emozionali delle proprie azioni, con una forma di razionalità
astratta e banalizzante (“Chi sceglie di svolgere questo lavoro – nell’area dell’emergenza – è ovvio
che non deve lasciarsi coinvolgere emotivamente!”) rientra nel punto di vista che caratterizza il
Tipo 5 (molto comune tra gli operatori del soccorso: Medici, Infermieri, Vigili del Fuoco, Polizia
stradale, ecc.).
Comunicazione e motivazione
Quando si comunica con qualcuno, si crede che sia sufficiente dire le cose perché l’altro capisca e
condivida.
La difficoltà nasce dal fatto che mentre le componenti del messaggio sono due, una che veicola
informazioni e l’altra che motiva ad utilizzarle, chi comunica in genere tiene conto solo della prima.
L’informazione di per sé non è motivante. L’esempio più noto è quello del fumatore: egli sa
benissimo che il fumo fa male, ma non per questo smette di fumare.
Si può dire a una persona qualsiasi cosa, ma se ciò non rientra nel suo sistema motivazionale, la
comunicazione non ha nessuna efficacia.
Quand’è che il fumatore si decide a smettere di fumare? Quando il medico gli mostra, dati clinici
alla mano, che per lui il rischio da generico si è trasformato in fatto reale, interno al suo organismo.
I fattori motivazionali provenienti dall’esterno, mediati dalla comunicazione, diventano efficaci solo
quando attivano fattori interni al soggetto, con un coinvolgimento personale.
Il protocollo delle Tre A
La ricerca psicologica ha affrontato il problema della comunicazione motivante, basata sui bisogni,
definendo il protocollo delle “Tre A”.
Il protocollo delle Tre A consente di realizzare una forma di negoziato abbreviato, utilizzabile nelle
situazioni di crisi. Comprende tre fasi:
1. Attend: Ascoltare
2. Assess: Valutare, giustificare
3. Address: Orientare, proporre
Il momento dell’Attend è preliminare e richiede che la comunicazione sia preceduta
dall’osservazione del contesto e delle variabili in gioco: senza l’osservazione del soggetto e del
contesto in cui si trova, non è possibile inferire nulla del suo sistema motivazionale.
Il secondo momento dell’Assess, richiede infatti la valutazione delle motivazioni intrinseche e la
capacità empatica di porsi nelle medesime condizioni dell’interlocutore
Il terzo momento dell’Address, infine, partendo dalle informazioni raccolte, consente di orientare il
soggetto agendo sulle sue motivazioni intrinseche.
Nel terzo momento la comunicazione rappresenta il punto focale del protocollo.
Ma anche i primi due momenti si realizzano a livello di comunicazione, poiché anche l’osservare e
il valutare richiedono una parte attiva nei confronti del soggetto.
Nella seconda fase prevale il momento di controllo delle ipotesi sviluppate nella prima fase. Il perno
del controllo è il feedback che noi diamo al soggetto per ricevere una conferma delle nostre ipotesi
sugli eventi che hanno attivato il suo comportamento. In pratica, si tratta di mostrare la nostra
comprensione del suo stato emotivo, esprimendo quello che il suo stesso comportamento esprime,
dicendo ad esempio: “Te la sei presa perché il tuo capo ti ha rimproverato pubblicamente”.
Questa fase comunicativa costituisce un “ponte” che ci porta direttamente dentro al sistema
motivazionale del soggetto.
Motivazione e bisogni
Il sistema motivazionale è strutturato su una serie di emozioni di base che rispondono a bisogni
immediati di sopravvivenza dell’individuo: bisogni di natura fisica (salute, alimentazione, e simili),
di natura sociale (riconoscimento e protezione da parte dei propri simili), psicologici (attenzione,
rispetto, stima) e morali (riconoscimento e rispetto dei valori e degli ideali). In pratica, perciò, nella
fase dell’Assess, la comunicazione deve mostrare in modo immediato che tali bisogni sono
riconosciuti.
L’ultima fase, quella dell’Address, ovviamente, deve costituire la prova che si sta rispondendo
effettivamente ai bisogni del soggetto. Ciò significa che l’empatia, che si è manifestata nella
seconda fase, non può essere un puro palliativo per tranquillizzare l'altro, ma deve essere la
premessa che orienta anche le nostre azioni seguenti, non solo le sue.
Il protocollo delle tre A non è solo una tecnica che ci consente di ridurre le difficoltà e le
interferenze create dagli altri con una comunicazione esperta, ma rappresenta in ogni sua fase una
precisa forma di impegno e di assunzione di responsabilità.
ROBERTO ANCHISI E MIA GAMBOTTO DESSY
VIA XX SETTEMBRE, 3 – 10121 TORINO
TEL. 011 531994 – CELLULARE 335 1204883
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TEST RELAZIONALE
Scegliete le frasi che vi caratterizzano:
1. Preferisco mostrarmi d'accordo con gli altri, piuttosto che far valere il mio punto di vista.
2. Certe persone, condizioni o situazioni sono la causa principale dei miei problemi.
3. Ho spesso dei pensieri che mi spaventano e mi rendono infelice.
4. Quando non raggiungo i miei obiettivi, posso facilmente scegliere un altro percorso.
5. Sono incapace di esprimere i miei sentimenti e i miei bisogni apertamente.
6. Sarei meno stressato, se ci fosse più “educazione” da parte degli utenti.
7. Posso generalmente modificare il mio comportamento per adattarmi a una situazione.
8. Solo raramente riesco a rilassarmi: la maggior parte del tempo sono molto teso.
Indicazioni bibliografiche
Roberto Anchisi e Mia Gambotto Dessy (2008). Il burnout del personale sanitario. Caleidoscopio
italiano, 214.
(rivista online scaricabile dal sito: www.medicalsystems.it)
Roberto Anchisi e Mia Gambotto Dessy (1996). Non solo comunicare. Teoria e pratica del
comportamento assertivo. Torino: Edizioni Libreria Cortina
(si può richiedere anche via internet al sito: www.cortinalibri.it)
Daniel Goleman: La forza della meditazione. Biblioteca Universale Rizzoli (BUR).