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Edizioni Simone - Vol. 11 Istituzioni di diritto pubblico
Capitolo 3
Le forme di Stato
Sommario
1. Introduzione. - 2. L’evoluzione storica delle forme dello Stato.
3. L’ordinamento giuridico medievale (476-1492). - 4. Lo Stato dell’eta moderna (1492-1789).
5. Lo Stato liberale (o di diritto). - 6. Lo Stato totalitario.
7. Lo Stato democratico-pluralistico e lo Stato sociale. - 8. Lo «Stato» socialista.
9. Lo Stato in via di sviluppo. - 10. Stato unitario, Stato regionale, Stato federale.
1.Introduzione
L’espressione «forma di Stato» indica il rapporto che intercorre tra chi detiene il potere e
coloro che ne sono assoggettati, e quindi il rapporto che si realizza fra autorità e libertà
(MORTATI), tra poteri supremi (governanti) e società civile (governati).
È evidente che la forma di stato di ciascun Paese viene profondamente condizionata dal
contesto storico, da fattori economici, culturali, politici, variamente intrecciati fra loro, che
incidono sulle strutture e sull’organizzazione del singolo Paese.
Come soggetto politico che rivendica, per sé, l’esercizio esclusivo di determinate funzioni
– che oggi definiamo «pubbliche» – lo «Stato» è una creazione dell’epoca moderna. Esso
si afferma cioè, progressivamente tra il XV e il XVII secolo, concentrando su di sé una
serie di poteri fino a quel momento esercitati da altri soggetti politici (la nobiltà, l’alto clero e, a partire dal XIII secolo, città e corporazioni).
2.L’evoluzione storica delle forme dello Stato
Lo Stato è dunque una realtà sconosciuta ai secoli medievali.
Nell’arco di tempo che intercorre tra la caduta dell’impero romano (476 d.C.) e la seconda
metà del Quattrocento, infatti, il mondo occidentale costituiva un assetto generale dei rapporti giuridici, definito ordinamento giuridico medievale (1).
La fisionomia dello Stato che noi conosciamo inizia a delinearsi tra la fine del XIV secolo
e il XVII, cioè nel corso dell’età moderna. Per questo motivo la prima vera e propria forma
di Stato viene indicata in genere come Stato moderno.
Essa conosce tre fasi evolutive successive:
—lo Stato assoluto, tra la fine del Quattrocento e la fine del Settecento;
—lo Stato di polizia, che si afferma soprattutto nei domini asburgici e in Prussia sul finire del Settecento;
(1) Si parla anche, talvolta, di ordinamento feudale. Tale espressione tuttavia è appropriata solo per il periodo che gli storici chiamano «Basso Medioevo», ovvero i secoli dal IX al XIV.
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Parte I: Teoria generale
—lo Stato di diritto (o anche Stato liberale), che si afferma a partire dalla metà dell’Ottocento e trova la sua massima espressione tra la fine del XIX secolo e la prima guerra
mondiale, cioè a cavallo tra l’età moderna e il mondo contemporaneo.
Dopo la prima guerra mondiale (1914-1919) lo Stato liberale conosce una profonda crisi
che porta, in molti Stati dell’Europa continentale, all’affermazione di varie forme di totalitarismi (in Italia, in Germania, in Russia, in Spagna). Lo Stato totalitario è in effetti la
prima forma di Stato tipica del Novecento, cioè dell’età contemporanea.
Su questo punto occorre precisare che l’espressione «Stato totalitario» è utilizzata per lo più dagli storici, anche
sulla scorta di quanto teorizzato da Hannah Arendt nel 1951. Nelle trattazioni politico-giuridiche sulle forme di
Stato si tende a preferire l’espressione Stato autoritario, di cui il totalitarismo sarebbe una manifestazione più
radicale.
In ogni caso, per tutta la prima metà del XX secolo lo Stato autoritario e/o totalitario convive con assetti liberaldemocratici come quelli vigenti in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Proprio il crescente conflitto tra
democrazie e totalitarismo sta alla base della seconda guerra mondiale.
Dopo le terribili esperienze della seconda guerra mondiale (1939-1945) (l’Olocausto degli
ebrei, le bombe atomiche sul Giappone, la devastazione dei bombardamenti in molte città
europee, i milioni di morti su tutti i fronti), si assiste in tutti i Paesi occidentali ad un ripensamento della forma dello Stato liberale, le cui strutture non avevano saputo impedire
l’ascesa di regimi autoritari in Italia, Germania, Spagna e Portogallo.
Nasce così una nuova forma di stato democratico, nella sua doppia valenza di Stato democratico e di Stato sociale.
Tale forma di Stato si definisce «democratica» in quanto è il frutto dell’affermazione dei
principi della sovranità popolare e dell’uguaglianza formale di tutti i cittadini (entrambi
esplicitamente sanciti nelle costituzioni democratiche del secondo dopoguerra). Al fine di
rendere effettivi tali principi, e in particolare per garantire una parziale uguaglianza anche
sostanziale tra i cittadini, lo Stato democratico assume la veste di Stato sociale, uno Stato
cioè che interviene con servizi pubblici e provvidenze a sostegno delle fasce socialmente
ed economicamente più svantaggiate (2).
Analizziamo di seguito le caratteristiche delle diverse forme di Stato.
3.L’ordinamento giuridico medievale (476-1492)
Uno degli aspetti che caratterizzano l’età medievale è il particolarismo giuridico, cioè la
dispersione del potere sul territorio, intendendo con ciò la presenza simultanea di differenti centri di potere, tutti regolati dal diritto consuetudinario e parimenti legittimi (giurisdizione nobiliare, ecclesiastica, comunale ecc.) su un medesimo territorio.
Questa situazione si accentua in particolar modo in età feudale (IX – XII sec.), in seguito
alla morte di Carlo Magno, e dipende direttamente dalla dissoluzione del sistema di governo che abbracciava buona parte dell’Europa occidentale che Carlo aveva ideato per realiz(2) Lo Stato sociale viene anche definito con l’espressione inglese Welfare State, cioè «Stato del benessere», dove l’espressione «benessere» non si riferisce alla semplice agiatezza economica ma a una condizione generale dell’individuo. Tale
principio è felicemente espresso nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione italiana, laddove si afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
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zare la ricostituzione politico-territoriale dell’Impero romano d’Occidente (il sogno della
cosiddetta renovatio imperii, brevemente concretizzatosi proprio nel Sacro Romano Impero di Carlo tra l’800 e l’814).
L’impero di Carlo Magno era stato costruito su rapporti di tipo personale e sul giuramento di fedeltà reciproca
tra un signore e il suo vassallo: sono i cosiddetti rapporti vassallatico-beneficiari da cui trae origine il sistema
feudale.
Il re, per garantirsi un esercito fedele e le risorse economiche necessarie alla conduzione delle guerre di conquista, concede a un proprio uomo di fiducia, di norma un nobile, la giurisdizione e il godimento di una porzione
di territorio tratta dal patrimonio personale della corona (il cosiddetto beneficium). In cambio, il nobile giura
fedeltà al sovrano e si impegna a prestargli aiuto militare e mezzi ogni qualvolta il sovrano lo richieda. Tale
giuramento prende forma nella cerimonia dell’omaggio, con la quale il re assume la veste di dominus (signore)
e il nobile quella di vassus (vassallo, cioè servitore). Il rapporto così costituitosi è inizialmente vitalizio. La
morte del re scioglie il vassallo dall’obbligo di fedeltà, ma soprattutto la morte del vassallo reintegra il beneficio
nel patrimonio del sovrano.
Alla morte di Carlo, tuttavia, il complesso sistema da lui costruito si disgrega sotto la spinta delle lotte fratricide
tra i suoi eredi. I feudi da vitalizi si trasformano in ereditari, spianando in questo modo la strada al particolarismo politico. Coloro che esercitano il potere a livello locale perdono infatti ogni obbligo giuridico nei confronti del sovrano, che d’ora in avanti sarà costretto a «negoziare» di volta in volta le modalità e i termini della
collaborazione militare e fiscale dei suoi sudditi. Si apre una stagione di aspri conflitti tra la corona e i diversi
poteri socialmente ed economicamente rilevanti, ovvero la grande aristocrazia terriera, il clero e, a partire dal
XII secolo, le città e i nuovi ceti urbani legati ai traffici e alle professioni (la futura borghesia mercantile).
Nel corso del XI secolo una generale rinascita della civiltà europea fa sì che si moltiplichino le spinte – sociali, economiche, culturali – verso un superamento della frammentazione medievale e la costruzione di organismi politici più stabili ed efficacemente organizzati.
Inizia, così, il lento cammino che porterà all’affermazione dello Stato moderno.
4.Lo Stato dell’età moderna (1492-1789)
Per «Stato» si intende quel soggetto politico che rivendica per sé l’esercizio esclusivo di
determinate funzioni (fino a quel momento esercitate da soggetti diversi) e che si afferma
nel corso dell’età moderna, favorito da una serie di eventi che spingono verso una maggiore centralizzazione del potere.
Nell’età moderna si affermano diverse forme di Stato: lo Stato assoluto, lo Stato di polizia,
lo Stato di diritto (liberale).
A) Lo Stato assoluto
La prima forma di Stato moderno è lo Stato assoluto, inteso come regime politico in cui il
potere è esercitato dal sovrano senza restrizioni e limitazioni. Lo stesso termine «assoluto» deriva dall’espressione latina che definisce il «sovrano» a legibus solutus, che significa «sciolto dal vincolo di obbedienza alle leggi».
Per tutto il Medioevo, in effetti, la sovranità del re è puramente nominale: il suo diretto potere di comando non
si estende oltre i confini del proprio territorio e la sua «giurisdizione» non è di fatto superiore rispetto a quella
che nobili, ecclesiastici e Comuni esercitano all’interno dei propri territori.
Inoltre, la concezione prevalentemente consuetudinaria del diritto medievale fa sì che la stessa figura del re,
in qualità di supremo dispensatore della giustizia, debba mantenersi fedele alle antichissime tradizioni del pro-
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Parte I: Teoria generale
prio regno. Da questo punto di vista, quindi, la liberazione del sovrano dal vincolo di obbedienza alle antiche
consuetudini, contenuta nella formula a legibus solutus, rappresenta uno degli elementi di maggiore rottura
tra lo Stato assoluto e l’organizzazione politica del passato.
A spingere verso questa trasformazione è una generale rinascita della civiltà europea che si
verifica a partire dall’XI secolo. Importanti mutamenti sociali, economici e culturali avviano un processo di lento superamento della frammentazione politico-sociale precedente.
Quella europea diventa una società più complessa e dinamica, che richiede strumenti di
governo più forti e meglio organizzati di quelli che avevano caratterizzato l’età feudale.
È questo il ruolo che lentamente assumono le grandi monarchie europee, in particolar modo
in Francia, in Inghilterra e in Spagna, dove prima che altrove i sovrani avviano un processo di ricomposizione territoriale e la conseguente concentrazione dei poteri in capo alla
corona.
Sebbene esso si realizzi con tempi e modalità diversi nelle diverse monarchie, le caratteristiche dello Stato assoluto sono:
—la concentrazione del potere nella mani del re, che è tale per diritto divino. In virtù
di tale concezione l’autorità regia è considerata originaria ed esclusiva, così che tutte le
funzioni - legislativa, esecutiva e giudiziaria - fanno capo direttamente al sovrano o sono
esercitate nel suo nome;
—la definizione di un territorio su cui si esercita l’autorità del re, che si estende fino ad
assumere dimensioni nazionali (con significative differenze, in questo caso, da Stato a
Stato);
—la creazione di un vasto apparato burocratico composto da funzionari fedeli alla corona, che esercitano le funzioni pubbliche per conto del sovrano (si delinea in questo modo
lo Stato-apparato);
—la creazione di eserciti permanenti per il mantenimento dell’ordine interno e per la
difesa dei nuovi confini da nemici esterni;
—lo sviluppo di un sistema fiscale accentrato che consenta alla corona di reperire, attraverso l’esazione dei tributi, i mezzi necessari al mantenimento della burocrazia e
dell’esercito;
—la tendenziale sostituzione, come classe dirigente, della vecchia nobiltà feudale con la
nuova borghesia legata ai traffici e alle professioni, protagonista dello sviluppo economico di questi secoli.
Naturalmente, l’allargamento dei poteri dei sovrani non è avvenuto senza conflitti. L’intera
età moderna è percorsa dallo scontro tra processi di centralizzazione e resistenze localistiche
o «corporative». L’esito di queste tensioni, diverso da Paese a Paese, ha di fatto determinato le forme di Stato e di governo delle diverse monarchie europee.
L’influenza del diritto romano nella formazione dello Stato moderno
Tra i fattori che hanno determinato la nascita dello Stato moderno, e in particolare della sua prima
manifestazione, lo Stato assoluto, va certamente annoverata la riscoperta del diritto romano, avvenuta nelle università europee tra XII e XIII secolo.
La caduta dell’impero romano e la conseguente affermazione delle leggi e dei costumi delle popolazioni germaniche aveva fatto sì che il diritto dell’Europa medievale fosse essenzialmente quello dei
vincitori, ovvero un diritto a carattere prevalentemente consuetudinario e giurisprudenziale. Presso i
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Germani, infatti, la fonte principale del diritto era la consuetudine, il diritto della terra, tanto più degna
di rispetto quanto più essa era antica. L’attività legislativa dei sovrani medievali, dunque, non consisteva tanto nel «fare» le leggi, come avviene negli Stati contemporanei, quanto piuttosto nell’individuare e raccogliere le autentiche consuetudini del proprio popolo e farle rispettare.
Il Corpus Iuris Civilis – la grande raccolta del diritto romano, opera dell’imperatore Giustiniano alla
metà del VI secolo – rimase praticamente sconosciuta in Occidente fino al 1100 ca., quando essa
divenne il testo principale degli studi nelle università di giurisprudenza.
A differenza del diritto germanico, il diritto romano giustinianeo era un diritto a base prevalentemente legale, fondato cioè sulle norme emanate dal princeps, considerato la vera chiave di volta dell’architettura giuridico-istituzionale. In questo senso, il diritto romano offriva un formidabile strumento
giuridico di riferimento per tutti i sovrani impegnati nel rafforzamento del proprio potere.
La stessa formula secondo la quale il sovrano è legibus solutus è tratta dal corpus giustinianeo, così
come la seconda massima su cui i sovrani fondarono le loro pretese assolutistiche: quod principi
placuit legem habet vigorem («ciò che è stabilito dal principe ha vigore di legge»). È proprio su questo
principio che è stata ripristinata nell’Europa moderna la nozione di legge come frutto della volontà
del sovrano.
B) Lo Stato di polizia
Lo Stato assoluto esaurisce la sua parabola storica alla fine del Settecento, quando la rivoluzione francese getterà le basi per l’affermazione dello Stato liberale. Tuttavia, prima di
questi eventi, alcuni sovrani avevano già tentato di conciliare i principi dello Stato assoluto con le idee della filosofia illuministica, dando vita a regimi definiti di «assolutismo
illuminato».
I protagonisti di questa breve ma importante stagione sono i sovrani d’Austria e quelli di
Prussia nella seconda metà del Settecento.
L’espressione Stato di polizia non è usata per indicare un atteggiamento repressivo dello
Stato ma, al contrario, va ricondotta all’originaria matrice greca del termine «polizia» (polis,
«città»). L’espressione è dunque da intendere come «soddisfazione dei bisogni della città».
Lo «Stato di polizia» è, dunque, impegnato in una vasta opera di rafforzamento dell’amministrazione interna, in vista di un migliore funzionamento dello Stato e del benessere dei sudditi. In effetti, l’amministrazione
raggiunse una tale complessità da configurarsi come un’organizzazione «propria e distinta da quella costituzionale, frapponendosi tra la collettività generale e gli organi deliberativi» (GIANNINI).
È nello Stato di polizia che nasce un nuovo modello di divisione di funzioni tra il governo, cioè la direzione
politica del Paese, e la burocrazia, cioè un «corpo scelto di funzionari specializzati, inquadrati in un’organizzazione gerarchica, servitori dello Stato e privi di potere autonomo» (MUSI).
I tratti tipici dello «Stato di polizia» sono:
—la concessione di moderate libertà civili, come ad esempio quella di stampa;
—l’adozione di provvedimenti volti a migliorare l’istruzione e le condizioni sanitarie dei
sudditi;
—l’elaborazione di sistemi fiscali parzialmente più equi di quelli precedenti, con una
redistribuzione del carico fiscale anche tra gli ordini tradizionalmente privilegiati;
—una più razionale amministrazione della giustizia, caratterizzata anche dall’abolizione
della pena di morte.
Non bisogna dimenticare che tali riforme, pur segnando un’evoluzione decisiva nella concezione del governo
e dello Stato, furono fatte comunque nell’ottica di un rafforzamento del potere sovrano. L’obiettivo delle riforme non era l’affermazione di nuove forme di democrazia, quanto piuttosto quello di rendere «tollerabile»
l’assolutismo ad una società in rapido mutamento, privandolo dei suoi aspetti più repressivi. Non a caso, le basi
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sociali del potere, pur negli Stati interessati dalle riforme illuminate, restarono quelle tradizionali, cioè l’aristocrazia e il clero.
Per una più concreta affermazione dei diritti degli individui occorrerà aspettare la grande
frattura con il passato rappresentata dalla rivoluzione francese (1789), che metterà l’uomo
e il cittadino al centro della vita dello Stato.
5.Lo Stato liberale (o di diritto)
A) Aspetti storico-politici
Il grande merito storico dello Stato liberale è dunque quello di aver affermato, al termine
dei grandi processi rivoluzionari, la necessità di una limitazione del potere del re attraverso
il riconoscimento dei diritti fondamentali degli individui e l’istituzione degli organi preposti a tutelarli, cioè i parlamenti. Coerentemente con questa impostazione lo Stato liberale
afferma due altri importanti principi che ne giustificano la definizione di Stato di diritto:
—la soggezione dei pubblici poteri alla supremazia della legge (in inglese rule of law);
—il principio di legalità, in base al quale l’agire di tutti i poteri pubblici deve sempre
conformarsi a una norma di legge esplicitamente prevista.
L’azione politica del re è dunque controllata, quando non addirittura «orientata» (come nel
caso dell’Inghilterra a partire dal Bill of Rights del 1689, con il quale si chiude la cd. Gloriosa Rivoluzione) dal Parlamento, organo rappresentativo della Nazione che, dopo la rivoluzione francese del 1789, diventa la vera titolare della sovranità, ponendo fine alla monarchia legata al diritto divino o al principio dinastico.
Il processo di ricomposizione territoriale operato dagli Stati assoluti a partire dalla fine del Quattrocento favorisce la creazione di grandi mercati interni. A ciò va aggiunto che le scoperte geografiche e le esplorazioni del
primo Cinquecento offrono alle economie europee la possibilità di aprirsi anche alle materie prime e agli
sbocchi commerciali di nuove aree del pianeta, in particolare modo nelle Americhe, in India e nell’estremo
Oriente.
L’insieme di questi fattori fa sì che, nonostante alcuni momenti di crisi, i secoli dell’età moderna si caratterizzano per la crescita economica in tutto il continente.
Protagonista di questa crescita è la nuova classe borghese, con la quale i sovrani trattengono un rapporto ambiguo: da un lato ne favoriscono la crescita economica, spesso sfruttandone i risultati e riscuotendo i tributi
sulle loro proprietà e redditi, dall’altro, sul piano politico, cercano di imbrigliarne le rivendicazioni più avanzate in termini di libertà e diritti. Tuttavia, proprio negli Stati la crescita economica è più forte, cioè in Inghilterra e in Olanda, inizia ben presto a svilupparsi un pensiero politico nuovo, fondato sulla centralità dell’individuo e sulla necessità, al fine di tutelare l’individuo stesso, di porre limiti al potere politico. Si sviluppa, cioè, il
liberalismo, dottrina i cui punti fondamentali possono essere così sintetizzati:
— riconoscimento di alcuni diritti e libertà fondamentali dell’individuo, in particolar modo il diritto di
proprietà e la libertà di espressione;
— marcata separazione tra la sfera pubblica e la sfera privata: la prima, di competenza dello Stato, riguarda essenzialmente il mantenimento dell’ordine pubblico interno e la difesa dei confini, la seconda, che investe tutta la sfera economica, deve essere rigorosamente lasciata ai privati;
— richiesta soprattutto da parte della borghesia di Carte costituzionali, o Statuti, ovvero di documenti giuridici che regolino l’assetto istituzionale e garantiscano, sottraendole all’arbitrio dei sovrani, le conquiste
borghesi.
Sul piano economico, al liberalismo corrisponde il liberismo, dottrina che affonda le radici nel sistema di
produzione capitalistico e che si fonda sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sulla libera concorren-
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za e sul non intervento dello Stato, se non in veste di arbitro, nella sfera economica (la teoria del cd. del laissezfaire, elaborata da Adam Smith nel suo La ricchezza delle nazioni del 1776).
Sarà proprio l’opposizione dei sovrani e dei ceti tradizionali alle nuove idee, culturali ed economiche, a scatenare le tensioni che porteranno alle grandi rivoluzioni inglese, americana e francese, da cui nasce la nuova
forma di Stato.
B) Caratteri
I caratteri generali dello Stato liberale:
—una nuova concezione della sovranità, che si sposta dal sovrano alla nazione, cioè al
popolo, il quale la esercita attraverso i propri rappresentanti;
—la presenza di un testo costituzionale (definito Statuto o Costituzione a seconda se emanato dalla Corona o votato in assemblea dal popolo), ovvero di un atto fondamentale a
garanzia del nuovo assetto istituzionale e dei nuovi diritti dei cittadini;
—l’affermazione del moderno concetto di rappresentanza politica, in virtù del quale le
elezioni – a suffragio comunque molto ristretto – diventano lo strumento principale per
la scelta di coloro che dovranno esprimere la volontà generale del popolo;
—l’affermazione del rule of law (primato della legge) e del principio di legalità;
—l’affermazione del principio della separazione dei poteri, formulato per la prima volta con chiarezza dal filosofo illuminista Charles Louis de Montesquieu ne Lo spirito
delle leggi (1748), e in virtù del quale i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario devono essere esercitati da organi diversi. Nel concreto, al Parlamento spetta il potere di fare
le leggi, al re e ai suoi ministri il potere di farle eseguire, ai giudici il potere di verificare la loro applicazione e di irrogare le pene per i trasgressori;
—la presenza di una base sociale omogenea, quella della borghese liberale. Lo Stato liberale viene per questo anche definito Stato «monoclasse»;
—il riconoscimento «costituzionale» dei diritti di libertà, intesi sia nella loro accezione
positiva, come diritti civili inalienabili del cittadino, sia come libertà negative, cioè come
riconoscimento di una sfera privata individuale libera da ogni ingerenza esterna, compresa quella dello Stato.
Rientra in questa categoria il diritto di proprietà, inteso come «diritto inviolabile ed
esclusivo al godimento di un bene», che costituisce il parametro sul quale vengono strutturati gli altri diritti della persona (VOLPI).
Va detto, per finire, che nello Stato liberale tali diritti e libertà non sono appannaggio di
tutto il popolo. Una volta consolidato, infatti, esso ostacola il riconoscimento dei diritti
civili e politici alla classi subalterne. Il suffragio universale maschile e femminile, l’ampliamento dei requisiti per l’elettorato passivo, il riconoscimento del ruolo dei partiti politici e delle associazioni sindacali saranno infatti conquiste dello Stato democratico del
Novecento.
6.Lo Stato totalitario
Lo Stato liberale entra in crisi nei primi anni del Novecento e in quelli immediatamente
successivi alla prima guerra mondiale (1914 – 1918).
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Parte I: Teoria generale
Fattori di ordine economico (le contraddizioni interne al capitalismo), e di ordine sociale (lo sviluppo, tra XIX
e XX secolo, del movimento operaio come forza organizzata e il conseguente emergere sulla scena politica dei
grandi partiti di massa) sono tra le ragioni principali del crollo dell’assetto liberale.
L’esito di questa crisi è tuttavia duplice: in Inghilterra e in Francia, si assiste a un lento passaggio allo Stato
democratico-pluralistico, attraverso una fase «intermedia» che potremmo definire liberal-democratica, mentre
in Italia e in Germania (e poi in Spagna e Portogallo) avviene in modo rapido e totale, dove dà luogo ai regimi
autoritari in cui prendono piede i totalitarismi che caratterizzano la vita di questi Paesi per tutta la prima metà
del XX secolo.
Questa forma di Stato rappresenta una degenerazione dello Stato liberale:
—restringendo la base sociale, identificata ora soprattutto con la piccola borghesia;
—stravolgendo gli ideali, attraverso la negazione dei diritti politici e delle libertà;
—modificando le istituzioni e cancellando la dialettica tra i poteri e il principio di «separazione di poteri» a favore di una direzione fortemente accentrata nella mani del partito dominante e del suo leader carismatico (Mussolini, Hitler, Franco).
A) Definizione e origini
Con l’espressione Stato totalitario si fa riferimento alle esperienze maturate in parte
dell’Europa continentale negli anni a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale, e
in particolare al fascismo italiano, al nazismo tedesco e al franchismo spagnolo. Sebbene
tale forma di Stato si sia affermata anche in altri Paesi (in Portogallo) e in altre parti del
mondo (in Russia, ad esempio, e in alcuni Paesi dell’America latina), tali esperienze – a
eccezione di quella russa – possono essere considerate come derivate da quella italiana e da
quella tedesca.
A questo proposito va detto che la dottrina politologico-giuridica tende a separare lo Stato totalitario dallo
Stato autoritario, sulla base di differenze prevalentemente quantitative: lo Stato totalitario rappresenterebbe
una radicalizzazione delle tendenze dello Stato autoritario.
Nel linguaggio degli storici, invece, tale differenza non è presente e viene preferita la definizione sic et simpliciter di Stato totalitario, dal momento che essa sembra rendere al meglio le intenzioni egemoni di controllo
politico, economico, sociale e culturale che sono il tratto caratterizzante di questi regimi.
Ad ogni modo, come detto, questa forma di Stato nasce dalla crisi dello Stato liberale, e ne
rappresenta in qualche modo una degenerazione. Essa infatti ne restringe ancora di più la
base sociale, identificata ora soprattutto con la piccola borghesia; ne stravolge gli ideali
attraverso la negazione dei diritti politici e delle libertà che i liberali avevano faticosamente conquistato; infine, ne modifica le istituzioni, cancellando la dialettica dei poteri e il
principio di separazione di poteri in nome di una direzione fortemente accentrata nella mani
del partito dominante e del suo leader.
L’organizzazione politico-sociale del movimento operaio, con la conseguente nascita dei partiti socialisti in
tutta Europa tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, aveva posto sotto pressione le strutture dello Stato liberale, nato e «costruito» per la tutela delle classi borghesi.
Tale pressione si accentuò subito dopo la prima guerra mondiale, quando i partiti della sinistra – cavalcando il
malcontento dovuto alle sconfitte militari – conobbero in Italia e in Germania una brevissima stagione di largo
consenso che spaventò le classi dirigenti liberali. Il timore che potesse verificarsi anche in Occidente una rivoluzione sociale radicale simile a quella scoppiata in Russia durante la guerra (la rivoluzione bolscevica si era
compiuta nell’ottobre del 1917) favorì l’ascesa di movimenti reazionari, come quello fascista in Italia, che, pur
operando palesemente al di fuori della legalità, si presentavano come i difensori dei valori tradizionali e dell’ordine costituito contro la minaccia «comunista».
Capitolo 3: Le forme di Stato
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Una volta preso il potere (il fascismo entrò in Parlamento dopo la marcia su Roma, nell’ottobre del 1922, e si
trasformò in regime nel 1925; l’ascesa di Hitler e la contestuale affermazione del nazismo in Germania sono del
1933 mentre il franchismo in Spagna risale al 1936) tali movimenti svuotarono progressivamente e con diversi metodi le libere istituzioni dello Stato dando vita a regimi autoritari e fortemente repressivi.
B) Caratteristiche dello Stato totalitario
Benché tra fascismo e nazismo vi siano alcune differenze nell’organizzazione dello Stato e
della società, è, comunque, possibile rinvenire molti elementi comuni che consentono di
tracciare un profilo comune dello Stato autoritario. Essi sono:
—l’esistenza di un partito unico che incarna i valori dello Stato e assurge a protagonista
assoluto della vita politica e sociale del Paese;
—un forte apparato repressivo, volto all’eliminazione degli avversari politici e al controllo di tutte le forme di dissenso ideologico e culturale;
—il ruolo di indiscussa supremazia attribuito al Capo del Governo, che assurge a leader
carismatico del partito e della nazione (il Duce in Italia, il Führer in Germania, il Caudillo in Spagna), e al quale fanno capo l’intera direzione politica del Paese e il comando
delle Forze armate;
—la sovrapposizione delle strutture del partito a quelle dello Stato (in Italia, ad esempio, il Gran Consiglio del fascismo esautorò di fatto il Parlamento e la Camera dei Fasci
e delle Corporazioni sostituì la Camera dei deputati);
—l’identificazione dello Stato e della società civile attraverso le strutture del partito, che
si occupa non solo dell’inquadramento dei lavoratori (attraverso il giuramento di fedeltà al regime imposto ai dipendenti pubblici e l’imposizione della tessera di appartenenza per svolgere le libere professioni) ma anche di disciplinarne il tempo libero, nonché
dell’educazione dei giovani attraverso attività collettive e organismi associativi paramilitari (l’Opera nazionale balilla in Italia, la Gioventù hitleriana in Germania).
Si parla, per quest’ultimo punto, anche di concezione corporativista dello Stato, volendo con ciò intendere la tendenza a inquadrare le masse in organizzazioni – politiche, economiche, culturali, ricreative – funzionali alla trasmissione e alla difesa dei valori del regime.
Da un punto di vista economico, invece, lo Stato, pur dando spazio all’iniziativa privata e
favorendo l’arricchimento della grande borghesia, è caratterizzato da un forte dirigismo
statale con una crescente presenza del pubblico nei settori chiave dell’economia e al controllo dei rapporti economico-sociali, riducendone ogni potenziale conflittualità tra le classi attraverso la creazione di un sindacato unico.
Infine, sul piano della politica estera, tale forma di governo mostra una forte tendenza
espansionistica e all’assoggettamento di altre nazioni, di cui il ricorso alla guerra «costituisce non un accidente, ma un logico portato» (VOLPI).
Alla base di tale tendenza espansionistica possono essere posti fattori di diverso ordine.
Sul piano economico, l’espansione territoriale rappresenta il desiderio di conquistare mercati favorevoli e luoghi ricchi di materie prime a vantaggio dei grandi gruppi economico-finanziari che sostengono il regime.
Su un piano ideologico-culturale, invece, l’assoggettamento degli altri popoli è da leggersi come la naturale
conseguenza dell’esaltazione della superiorità della nazione e della purezza della razza che, più forti nel nazismo tedesco, sono presenti anche nel fascismo italiano.
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Parte I: Teoria generale
Propaganda ed organizzazione della società
Una delle caratteristiche dello Stato totalitario è l’uso sapiente e capillare della propaganda al fine di indottrinare
le masse, plagiandone il pensiero e indirizzando i comportamenti ai valori stabiliti dal regime.
La differenza tra Stato autoritario e Stato totalitario è stata in parte fondata proprio sul diverso «peso» che la
propaganda avrebbe nell’una e nell’altra forma di Stato. Nello Stato totalitario essa risulterebbe così più «invadente», mirando al controllo completo della coscienza degli individui.
Se tuttavia si guarda alle concrete manifestazioni storiche, risulta evidente che gli obiettivi perseguiti dal fascismo
e nazismo sono identici.
L’uso dei simboli (la svastica, i fasci), l’imposizione di determinati comportamenti pubblici (il passo dell’oca, il saluto romano, la partecipazione alla adunate) e privati (in Italia, ad esempio, l’uso del «Voi» nelle conversazioni formali invece del troppo effeminato e poco virile «Lei») e, soprattutto, il controllo completo di tutti i mezzi di comunicazione di massa, mostrano nell’uno come nell’altro il medesimo desiderio di controllo ideologico e sociale.
Se tale controllo, alla prova dei fatti, fu più efficace in Germania che non in Italia, ciò non va ascritto a una diversa
intenzione del regime quanto alla presenza, nel nostro Paese, di fattori di disturbo – la Chiesa cattolica, la persistenza della monarchia, per quanto debole – che rendevano parzialmente inefficaci gli sforzi totalitaristici del regime.
C) Differenze tra autoritarismo e totalitarismo
Secondo la definizione dello studioso spagnolo LINZ, il «regime autoritario» è un sistema
a pluralismo politico limitato in cui la classe politica non rende conto del proprio operato
agli elettori ma, a differenza del totalitarismo, non si avvale di un’ideologia ufficiale e
della intrusione capillare nella vita dei singoli.
La presenza del «pluralismo politico limitato» costituisce una delle chiavi per differenziare autoritarismo e totalitarismo, nel quale, invece, pluralismo politico e qualsiasi forma
o aspirazione alla democrazia sono del tutto assenti e illegali.
I regimi autoritari, dunque, si distinguono da quelli totalitari proprio perché ideologicamente ed organizzativamente si dimostrano incapaci di coinvolgere, mobilitare e
gestire in maniera permanente le masse.
Il leader di un regime autoritario deve, comunque, fare i conti con la situazione politica contingente e, quindi, anche della presenza di un eventuale pluralismo politico, pur se limitato.
Al contrario, il leader totalitario non incontra limiti alla sua azione, libero di agire in maniera incontrollabile e del tutto arbitraria.
In base a queste considerazioni si può ritenere che il fascismo italiano non possa considerarsi del tutto un regime totalitario, ma piuttosto una forma avanzata di autoritarismo in quanto tollerava, comunque, una limitata
presenza di oppositori anche se il regime rendeva loro la vita «difficile» fino alla progressiva scomparsa o
ghettizzazione degli stessi (ciò è provato dall’istituto del «confino» sanzione riservata agli oppositori politici che
tendeva ad isolari, ma non a sopprimerli fisicamente).
7.Lo Stato democratico-pluralistico e lo Stato sociale
A) Definizione
Come lo Stato totalitario anche lo Stato democratico-pluralistico nasce dalla crisi dello
Stato liberale, alla quale, però, dà una risposta completamente diversa.
Se il primo costituisce infatti una «degenerazione», lo Stato democratico si presenta invece
come la «naturale evoluzione» dello Stato liberale, di cui conserva i principi fondamentali
del governo della legge, della separazione dei poteri, e della tutela dei diritti e delle libertà
fondamentali.
Capitolo 3: Le forme di Stato
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Proprio in questo ultimo campo, tuttavia, lo Stato democratico-pluralistico si differenzia da
quello liberale in quanto allarga la sfera dei soggetti destinatari dei diritti e delle libertà garantiti, riconoscendo anche le classi sociali prima escluse (da qui la sua dimensione
«pluralistica») e nuove forme di «libertà nello Stato» (nel campo dei diritti politici: suffragio universale maschile e femminile, diritto di associarsi in partiti) e, soprattutto, «attraverso lo Stato» (affermando i diritti sociali e in particolare alla salute, all’istruzione,
all’assistenza sanitaria).
Proprio la nuova volontà di garantire i diritti sociali, affermatasi dopo le drammatiche esperienze del totalitarismo, porta, all’indomani del secondo conflitto mondiale, all’abbandono del principio liberale del non-intervento dello Stato nell’economia. Come dimostrato dai sistemi economici reali nati dalla rivoluzione industriale tra Otto e Novecento, il libero gioco della forze di mercato, lasciato a se stesso, anziché trovare spontaneamente il proprio equilibrio — come sostenuto dai teorici del liberismo puro — genera invece forti disuguaglianze e aspre tensioni sociali tra le diverse classi.
Lo Stato democratico-pluralista assume dunque un atteggiamento interventista in economia, anzi l’economia
diventa uno dei settori principali sui quali lo Stato è chiamato ad esplicare la propria azione: nasce così una
economia mista in cui l’iniziativa pubblica si affianca a quella privata, assumendo talvolta una preponderanza
di gestione e di indirizzo.
Rispetto all’interventismo dello Stato totalitario, quello dello Stato democratico risponde a una finalità completamente diversa: nel primo, esso rientra in una strategia globale di controllo di tutti gli aspetti della vita dello
Stato, nel secondo, esso risponde a un’esigenza di tutela delle fasce economicamente più deboli attraverso una
gestione in mano pubblica delle industrie di base.
Lo Stato democratico si configura quindi come Stato sociale (in inglese, Welfare State)
(3). Pur rispettando i principi della proprietà privata dei mezzi di produzione e della libera
iniziativa economica, esso crea una rete di servizi e prestazioni (tutela della salute, diritto all’istruzione, diritto alla casa, assistenza sociale e previdenziale ecc.) finalizzata a garantire il soddisfacimento dei bisogni minimi vitali e un miglioramento della qualità della
vita di tutti i cittadini.
Come nota ACOCELLA si possono individuare tre modelli di Welfare State
— il modello corporativo, diffusosi soprattutto in Germania, Austria, Italia dopo la seconda guerra mondiale (1945);
— il modello liberale, affermatosi nei paesi anglo-sassoni;
— il modello social-democratico, diffusosi nei paesi scandinavi e del nord Europa.
B) Costituzione rigida e Stato costituzionale
Un’altra profonda differenza dello Stato democratico rispetto allo Stato liberale è la presenza di Costituzioni rigide, a garanzia dei diritti fondamentali e dell’assetto istituzionale
democratico-pluralistico.
Il carattere rigido – che richiede un procedimento aggravato per la modifica del testo – si
giustifica con il fallimento, in termini proprio di garanzie e tutele, degli Statuti e delle Costituzioni liberali che erano a carattere «flessibile» e, pertanto, modificabili dalla sola maggioranza di governo con semplici leggi ordinarie (4).
(3) Termine introdotto nel 1914 per differenziare lo Stato britannico da quello tedesco (detto «warfare State») perché la sua
evoluzione era ideologicamente legata ad una economia di guerra.
(4) Il carattere rigido delle Costituzioni impone, per una loro eventuale modifica, il consenso di una maggioranza più
ampia (qualificata) di quella sufficiente per governare (assoluta) e, quindi, la volontà anche di una parte consistente dell’opposizione. Essendo la Costituzione la legge fondamentale di tutta la collettività e che ne esprime e garantisce i valori più
46
Parte I: Teoria generale
Le vicende dello Statuto Albertino e della Costituzione tedesca, rimasti entrambi solo formalmente in vigore durante il fascismo e il nazismo, ma svuotati dei loro contenuti democratici dalle leggi del regime, dimostrano il loro superamento come «modello» di Stato.
Così, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, fu chiaro che lo Stato di diritto, nelle
sua versione liberale, restava esposto a derive autoritarie e necessitava di strumenti giuridici più forti per la realizzazione e il mantenimento dei propri fini politico-sociali. Esso si
trasformò, dunque, in Stato costituzionale, che poneva la Costituzione al di sopra delle
leggi.
Il «potere costituente» della guerra
Esistono dei conflitti che a causa delle loro trasformazioni e sconvolgimenti hanno innovato l’ordine
nazionale o mondiale e che, come tali, vengono definite «guerre costituenti».
Così il Trattato di Westfalia (1648), che pose fine alla guerra dei 30 anni portò alla formazione dello
Stato moderno, la prima guerra mondiale (1914-1918) che portò alla nascita delle Società delle Nazioni e la seconda guerra mondiale (1939-1945), per quanto riguarda l’Italia, che portò alla nascita
della Costituzione Repubblicana.
C) Gli organi di garanzia e il controllo di costituzionalità
Se le Carte costituzionali (sotto forma di «Statuti») erano presenti anche negli Stati liberali,
sebbene in forma «flessibile», una novità assoluta dello Stato democratico e costituzionale è la previsione di organi giuridici di controllo sulla costituzionalità delle leggi: le Corti
costituzionali.
Create sull’esempio della Corte suprema degli Stati Uniti, prevista dalla Costituzione
americana del 1787, tali Corti testimoniano il passaggio dallo Stato di diritto allo Stato
costituzionale.
Se il primo, infatti, era fondato sulla supremazia assoluta della Legge, il secondo impone
alle leggi di rispettare i principi fondamentali contenuti nella Costituzione. In questo modo
il legislatore non è più completamente libero, ma è costretto a muoversi entro i limiti ideologici, giuridici e politici definiti nella Carta fondamentale.
Il citato controllo di costituzionalità, affidato ad un organo terzo rispetto al parlamento e al governo, dunque imparziale, sebbene presenti aspetti e modalità operative diverse nei singoli ordinamenti, è previsto da tutte le Costituzioni democratiche del secondo
dopoguerra e rappresenta una conquista fondamentale della cultura giuridica contemporanea.
D)La crisi dello Stato sociale
Malgrado l’impegno per il superamento delle diseguaglianze e delle ingiustizie derivanti
dall’economia di mercato e l’istituzione di servizi sociali accessibili a tutti (scuola, sanità,
previdenza, assistenza), lo Stato sociale oggi è in crisi in molte democrazie occidentali e
attraversa una fase di profonde trasformazioni legate ai processi di globalizzazione, di integrazione sovranazionale e di frammentazione sociale (v. ante).
profondi, non può essere cambiata solo da una parte consistente della volontà popolare. È questo il senso del procedimento
aggravato: la ricerca di un consenso più ampio, che coinvolga anche le opposizioni, mira a ricreare il clima «costituente»,
ovvero di ampio consenso e di coesione nazionale in cui tali Costituzioni vedono la luce.
Capitolo 3: Le forme di Stato
47
Tali cambiamenti, che portano alla riaffermazione di non esaltanti ed equalitarie tendenze neo-liberiste, possono essere così sintetizzati:
—la società si frantuma in un intricato arcipelago di gruppi sociali solo provvisoriamente
e temporaneamente associati per la realizzazione di interessi comuni. Vengono, così,
meno i movimenti e i partiti di massa, portatori di chiare ideologie, sostituiti nell’agone
elettorale dalla «prevalenza» di singoli candidati e singole fazioni prive (o quasi) di
connotanti posizioni ideologiche.
I flussi migratori dai Paesi del terzo mondo tendono, inoltre, ad immettere in collettività
originariamente coese dal punto di vista etnico, religioso e linguistico significativi elementi di tensione e di conflittualità, tipici delle società multirazziali;
—l’affermazione generalizzata dei principi liberisti nell’economia internazionale impone
allo Stato di contenere i salari e ridurre la pressione fiscale, al fine di evitare che capitali e imprese sfuggiti al controllo dello Stato, emigrino per ricercare altrove condizioni
di investimento più remunerative.
La crisi finanziaria dello Stato sociale pone, però, limiti ingenti alla spesa pubblica e
alle politiche di ridistribuzione delle risorse, facendo così venir meno la politiche redistributive dei redditi che sono l’elemento riequilibrante in un sistema in cui i ricchi
conservano e aumentano le loro ricchezze e i ceti meno abbienti la loro indigenza;
—l’esercizio effettivo dei diritti sociali, che prevedono onerose e crescenti prestazioni a
carico dell’apparato pubblico nei confronti della collettività, viene così condizionato
dalle ridotte capacità economiche dei singoli Stati, accentuate in molti casi dalle «privatizzazioni» delle «imprese pubbliche» che li privano, così, di importanti flussi di
ricchezza che in precedenza entravano direttamente nelle casse dello Stato in quanto
costituiva i profitti delle industrie a conduzione pubblica;
—con il venir meno, per motivi di bilancio pubblico, dell’erogazione di alcuni servizi sociali (in materia di Welfare) per tutti e con l’estensione delle regole dell’economia di
mercato anche in settori precedentemente ad essa sottratti per motivi di equità sociale
(scuola, previdenza, sanità), si riafferma il pericolo di far ricadere sul singolo i rischi
della sopravvivenza come la tutela dalla vecchiaia, dalle malattie e dagli infortuni etc.
in assenza di un minimo standard delle condizioni di sopravvivenza dei sudditi garantito da parte dello Stato;
—emerge, infine, la tendenza ad affidare alcuni compiti propri dello Stato agli enti territoriali (come nel caso, ad esempio, del federalismo fiscale). In tal modo, se da una
parte si garantisce una gestione più efficiente e diretta della «cosa pubblica», dall’altra
si rischia di accentuare le disparità tra i cittadini delle regioni ricche e quelli delle regioni più povere.
8.Lo «Stato» socialista
L’avvento in Russia, nel 1917, di un colpo di Stato che eliminato le figure dello Zar, ha proclamato la dittatura del proletariato e del successivo Stato socialista degli operai e dei
contadini (1936) favorì la diffusione della dottrina marxista-leninista su scala mondiale.
Tale forma di Stato si affermò oltre che in Europa orientale, anche in Cina e a Cuba, e alcuni paesi dell’Africa, entrando, però, in crisi agli inizi degli anni novanta del secolo scor-
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Parte I: Teoria generale
so soprattutto a causa della rigidità del loro sistema economico e del «tradimento» del
«progetto comunista» disatteso dall’ascesa di forme autocratiche delle dittature del proletariato che hanno preso il posto dello stesso e che sono estranee ai veri principi fondanti
dello stato marxista.
Tale degenerazione —tra l’altro — ha impedito nella seconda parte del XX secolo ai paesi
«socialisti» di reggere il confronto e la concorrenza politica, economica e militare dei paesi capitalisti.
In estrema sintesi la dittatura del proletariato che si è «imposta» inizialmente nell’Unione Sovietica e dell’area circostante autodefinendosi comunque «Stato socialista» ha raggiunto i seguenti obbiettivi parziali:
—abolizione della proprietà privata e collettivizzazione forzata dei mezzi di produzione,
con sopravvivenza della sola proprietà personale di beni non produttivi e limitazione
dell’iniziativa privata limitatamente ai soli settori economici secondari e di minor rilievo;
—pianificazione generale economica burocratica centralizzata;
—ruolo centrale del Partito comunista, riconosciuto il solo nucleo dirigente e l’unico organismo politico con funzioni d’indirizzo in grado di condizionare l’operato di tutti gli
organi statali, ai vertici dei quali, del resto, furono collocati solo «uomini» fedeli al
partito;
—subordinazione dei diritti e delle libertà fondamentali al fine dell’edificazione del socialismo, per cui le norme di diritto potevano sempre essere derogate dai supremi organismi
dello Stato e del partito se le necessità del momento lo richiedevano (cd. legalità socialista);
—funzionalizzazione delle libertà fondamentali agli interessi del costituendo socialismo,
per cui, pur se formalmente riconosciute, esse venivano nella sostanza significativamente compresse, laddove ritenute minacciose per gli interessi primari del regime.
9.Lo Stato in via di sviluppo
A) Generalità aspetti comuni
Tale «infelice» espressione è stata usata, a partire dalla seconda metà del XX secolo, per
accomunare e definire una serie di ordinamenti molto diversi tra loro, creatisi all’indomani
della decolonizzazione, soprattutto nei Paesi del «terzo mondo».
I Paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina hanno cercato di rispondere alle sfide
poste dall’indipendenza coloniale e dalla modernizzazione, adottando, dopo la decolonializzazione, strutture di governo in parte differenti da quelle tradizionali.
Gli Stati in via di sviluppo — pur nella loro eterogenea diversità — condividono alcuni
seguenti aspetti comuni:
—un passato coloniale, in quanto sono quasi tutte le ex colonie dei paesi capitalisti (Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo e, limitatamente, Olanda, Italia e Germania). In
particolare hanno acquisito l’indipendenza nel XIX secolo i Paesi dell’America latina,
mentre nel XX secolo (e in particolare dopo la seconda guerra mondiale) stessa sorte è
toccata a molti Paesi africani e asiatici;
Capitolo 3: Le forme di Stato
49
—condizioni di sottosviluppo, sebbene esistano importanti differenze tra Paesi poveri di
materie prime e gli altri che ne sono dotati e che riescono a trarre profitto diretto dalle
stesse.
Si noti, comunque, che i proventi dello sfruttamento di tali risorse (soprattutto petrolio)
non fanno capo allo Stato che le possiede per offrire consistenti vantaggi alle popolazioni locali, ma costituiscono beneficio di pochi gruppi di interesse multinazionale, élites,
famiglie al potere (5);
—mancanza di una precisa identità nazionale. Molti Paesi in via di sviluppo si ritrovano in confini che non tengono conto della distribuzione geografica delle diverse etnie.
Molti di tali neo-Stati sono stati «riconosciuti» con accordi e conferenze internazionali
della fine dell’800, epoca nella quale tali confini vennero determinati unilateralmente
dalle potenze coloniali europee e spesso tracciati a tavolino.
Infine, la presenza in tali Paesi di molteplici componenti etniche, linguistiche, culturali ha
comportato numerosi, insanabili e sanguinosi contrasti interni per il controllo delle risorse
e dei processi di modernizzazione.
B) Evoluzione storica degli Stati in via di sviluppo
L’evoluzione dei Paesi in via di sviluppo storicamente annovera diverse casistiche (DE
VERGOTTINI) a seconda se:
—subiscono l’influenza del costituzionalismo liberale: in tal caso i testi delle Costituzioni da essi adottate sono ispirati in gran parte a quelli delle Costituzioni delle potenze
colonizzatrici, oppure vengono elaborati con la collaborazione di tali potenze;
—rifiutano il costituzionalismo liberale: le cui Costituzioni non si sono dimostrate adeguate alle esigenze sociali dello Stato-comunità e, pur conservando alcuni istituti precoloniali, hanno successivamente subìto profondi cambiamenti, anche per meglio adattarsi all’evoluzione sociale, economica e politica delle singole realtà nazionali.
Spesso in tali paesi, si è assistito a una pericolosa virata verso regimi autoritari, quasi
sempre gestiti da vertici militari che hanno preso in mano il Paese.
Il rifiuto del costituzionalismo liberale e l’adozione di un impianto di potere autoritario, tra gli anni ’60 e
’70 del XX secolo, hanno provocato numerosi colpi di stato in Asia (ad esempio Iraq, Turchia), in Africa
(ad esempio Algeria, Congo, Zaire, Etiopia, Libia, Ruanda, Somalia, Uganda), America latina (ad esempio
Argentina, Brasile, Cile, Paraguay, Guatemala, Panama);
—hanno subito l’influenza del modello socialista sovietico: in questo caso, si è assistito
all’adozione immediata e spesso scriteriata del modello socialista in Stati che hanno acquisito l’indipendenza sotto la guida di movimenti marxisti o che comunque hanno avuto stretti legami con la ex Unione Sovietica; ciò si è verificato, a partire dagli anni ’60, tra gli altri,
in Algeria, Iraq, Congo, Birmania, Egitto, Etiopia, Libia, Angola, Mozambico, Nicaragua;
—subiscono una seconda influenza del costituzionalismo liberale: quest’ultima ondata
ha riguardato gli Stati che hanno rifiutato il modello autoritario o quello socialista, recu(5) Così le compagnie multinazionali, a partire dalla famosa Compagnia delle Indie, grazie a favorevoli accordi politici
estorti a élites locali compiacenti, sono state messe in condizione di sfruttare risorse e giacimenti venendo, così, in possesso
delle materie prime derivanti dallo sfruttamento di tali territori a costi molti bassi, senza permettere che i profitti derivanti da
tali risorse potessero offrire una benefica ricaduta sull’economia di questi Paesi.
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Parte I: Teoria generale
perando successivamente e in parte i modelli delle Costituzioni liberali, sotto la pressione di forze economiche multinazionali (che, in tal modo, hanno potuto mettere le mani
sulle loro risorse).
Quest’ultimo ciclo è iniziato alla fine degli anni ’80 ed ha interessato molti Paesi in
tutto il mondo (Brasile, Colombia, Nicaragua, Corea del Sud, Filippine, Turchia, Algeria,
Congo, Mauritania, Namibia, Sudafrica), anche se non tutti hanno saputo preservare
questa «riconquista» democratica (ad esempio, si sono successivamente verificati ulteriori «colpi di stato» in Algeria e in Nigeria).
10. Stato unitario, Stato regionale, Stato federale
Le forme di Stato tengono conto del rapporto fra governati e governanti (popolo); un altro
approccio è lo studio della dislocazione del potere sul territorio dello Stato.
Si definisce tradizionalmente «Stato unitario» quello Stato in cui sussiste un unico governo sovrano, operante sia a livello centrale che periferico.
Stato federale, invece, è lo Stato in cui al governo centrale si contrappongono diversi governi locali, dotati al loro interno di poteri sovrani autonomi ed esclusivi.
Storicamente, lo Stato federale può rappresentare l’esito di due distinti processi: alcuni di essi (gli Stati Uniti
e la Germania dell’800, ad esempio), infatti, sono sorti a seguito della progressiva unificazione integrazione
di Stati precedentemente sovrani, passando per esperienze di tipo confederale (la Confederazione è un’unione
di Stati regolata dal diritto internazionale e dagli accordi di cooperazione intervenuti fra gli stessi, senza creazione di nuovo Stato).
Altri Stati federali (ad es.: Canada, Austria, Brasile), invece, sono il risultato d’un processo di robusto decentramento intervenuto in Stati unitari accentrati nei quali le Comunità locali hanno reclamato e ottenuto più o
meno ampie forme di autonomia politica.
Una parte della dottrina italiana (CUOCOLO) ritiene che negli Stati federali la sovranità
sia ripartita fra l’autorità centrale e gli Stati membri: la sovranità esterna sarebbe riservata agli organi federali, quella interna si estrinsecherebbe nell’esercizio di funzioni legislative, amministrative e giurisdizionali da parte dei singoli Stati federali.
Chi, invece, riconosce la sovranità come unico attributo dello Stato centrale (La Pergola), ricostruisce la posizione degli Stati federati in termini di autonomia costituzionalmente riconosciuta, in quanto gli stessi sono dotati del potere di darsi Costituzioni proprie e le
loro attribuzioni sono comunque garantite da norme di rango costituzionale.
Lo Stato federale, inoltre, ha conosciuto un’evoluzione da forme di federalismo duale,
tipiche dell’età liberale, in cui all’esigenza primaria di assicurare una rigida separazione di
competenze fra Stato federale e Stati membri, sono state affiancate alcune forme di federalismo cooperativo in cui prevalgono modalità di intervento congiunto e coordinato fra
Stato federale e sue articolazioni interne.
Queste evoluzioni rendono difficile distinguere lo Stato federale da un altro tipo di Stato, lo
Stato regionale, in cui a determinate comunità territoriali, le Regioni, vengono riconosciute
sfere di autonomia variamente articolate nel campo dell’amministrazione, della legislazione,
delle finanze, pur sempre nei limiti imposti dal carattere derivato dei loro ordinamenti.
Negli Stati federali vale sempre il principio secondo cui il diritto federale prevale su quello
degli Stati membri, per cui alle autorità centrali vengono riconosciuti poteri sempre più
Capitolo 3: Le forme di Stato
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penetranti, come il potere di uniformare le Costituzioni degli Stati membri ai principi della
Costituzione federale, ai supremi poteri di direzione politica, alla potestà d’intervenire coattivamente per ottenere il rispetto delle deliberazioni assunte dall’autorità centrale che
richiedano il concorso degli Stati membri.
Analogo fenomeno si verifica anche negli Stati regionali, in cui la cooperazione può attuarsi con la presenza delle Regioni in organi deliberativi (il Senato spagnolo) o consultivi e
decisionali (la Conferenza Stato-Regioni italiana), oppure attraverso intese, pareri o accordi di programma stipulati tra diversi livelli di governo.
La Confederazione di Stati
La Confederazione (o Unione) di Stati è un’aggregazione tra Stati indipendenti e sovrani, i quali
fino ad oggi sono stati spinti a collaborare per affrontare comuni problemi di natura prevalentemente
economica o militare.
Tale unione non dà vita ad un nuovo Stato, ma ad un soggetto di diritto internazionale fondato su
un accordo concluso fra gli Stati partecipanti.
È tuttavia innegabile che la Confederazione abbia spesso rappresentato, in una prospettiva storica,
il preludio alla formazione di uno Stato federale. Così è avvenuto, ad esempio, per la Confederazione
americana (1781), quella svizzera (1815) e quella tedesca (1815), che hanno preceduto la nascita
dei corrispondenti Stati federali (rispettivamente nel 1787, nel 1848 e nel 1871).
In ogni caso, all’interno della Confederazione i singoli Stati mantengono la propria sovranità ed
indipendenza.
I loro rapporti sono regolati, oltre che dal diritto internazionale, dal diritto derivato emanato dagli organi.
La Confederazione si limita unicamente a regolare i rapporti tra gli Stati membri, da un lato, e con gli
Stati terzi, dall’altro.
In effetti non è semplice individuare la natura reale dell’unione fra più Stati. Ad esempio, la Svizzera,
il cui nome ufficiale è «Confederazione elvetica», deve considerarsi a tutti gli effetti uno Stato federale, e non una semplice Confederazione (v. anche Parte II, Cap. 7).
Discusso è attualmente lo status dell’Unione europea, in bilico tra l’unione di Stati e uno Stato federale in fieri. Gli stessi trattati, infatti, si riferiscono «ai popoli europei», facendo, così, propendere per
la confederazione di Stati (BARBERA-FUSARO).
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