Le istituzioni nemiche

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Interpretare/4
Le istituzioni nemiche.
Riflessioni sul razzismo istituzionale1
Patrizia Marzo
Premessa: assedio alla “fortezza Europa”?
La “fortezza Europa” non si è mai contraddistinta nella moderna storia
delle migrazioni come sistema particolarmente accogliente ed aperto alle
diversità: la concezione eurocentrica degli europei e la rigidità delle
frontiere hanno costantemente rappresentato un pesante ostacolo all‟incontro e al confronto con le altre civiltà. È noto che, al contrario, tali elementi
culturali e politici hanno tragicamente contribuito alle invasioni, ai
colonialismi ed alle diverse forme di sfruttamento economico-ambientale
perpetrati da parte degli europei soprattutto a carico delle popolazioni
africane ed asiatiche.
Le più recenti vicende concernenti i movimenti migratori intercontinentali
e gli eventi epocali che caratterizzano questi ultimi anni – come i fatti
dell‟11 settembre del 2001, i conflitti in Afghanistan ed in Medio Oriente,
l‟occupazione irachena e la strage dell‟11 marzo del 2004 in Spagna –
stanno oggi progressivamente condizionando le politiche immigratorie dei
Paesi occidentali (ed europei in particolare) privilegiando strategie di
ulteriore chiusura ed irrigidimento che potrebbero produrre effetti non del
tutto razionali e dagli esiti incerti (se non controproducenti rispetto agli
obiettivi che si prefiggono).
In Europa, dinanzi alle minacce, ai ricatti ed ai crimini del terrorismo
internazionale, valori come l‟inter-culturalismo, il pluralismo, la tolleranza, anche il semplice dialogo fra culture diverse, sembrano perdere
senso e ragionevolezza; come pure sembrano svanire i risultati ottenuti
dopo i faticosi tentativi di impostare strategie di prevenzione, educazione e
cooperazione.
Tuttavia, la sfida alla quale sono chiamate le democrazie occidentali,
oggi più che mai, consiste proprio nel non consentire alla violenza del
terrore, dell‟esclusione e dell‟intolleranza di vanificare i percorsi fin qui
compiuti nella complessa – e, peraltro, incompleta  costruzione dell‟inter1. Il presente saggio è estratto da un più ampio lavoro di ricerca e di approfondimento
in corso di elaborazione.
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culturalismo delle comunità occidentali. Siamo, dunque, ad una svolta
cruciale della storia delle migrazioni moderne, nella quale, più che in altri
momenti storici, è necessario il ricorso ai valori della temperanza, della
fiducia e della democrazia per contrastare la diffidenza ed il panico nei
confronti degli stranieri.
Come arginare, dunque, i rischi sociali, gli eccessi e gli isterismi di
coloro che predicano impossibili invasioni e quotidiani attacchi terroristici,
senza considerare e rispettare la gran parte dell‟umanità immigrata,
sofferente ed onesta, prima vittima degli integralismi? E come conciliare
tutto questo con i tremendi effetti dei fondamentalismi militanti, che
spingono l‟occidente verso una sempre maggiore chiusura e diffidenza?
Innanzi tutto è necessario rivalutare il ruolo degli organi politicoistituzionali nella gestione dell‟accoglienza e dell‟integrazione: la storia
insegna che l‟intolleranza mal governata ha spesso preceduto la potenza
distruttiva del razzismo, esplosa nelle società, fra differenti etnie, culture e
religioni con tale repentina violenza da non lasciare alle vittime alcuna
possibilità di difesa – come accaduto negli ultimi anni anche nei Balcani,
ossia proprio nel cuore della “fortezza Europa”! .
In secondo luogo, appare più che mai indispensabile (anche al fine di
sensibilizzare adeguatamente le istituzioni) mantenere viva l‟attenzione
delle comunità civili sulle conseguenze dell‟intolleranza e dei razzismi,
cercando di informare/informarsi correttamente sulle loro origini e
manifestazioni, continuando ad investire nella prevenzione, nella mediazione
interculturale e nell‟educazione alla convivenza civile e pacifica, con uno
sguardo lungimirante sulla costruzione di comunità multi/inter-etniche.
Un ulteriore e non trascurabile motivo per cui le istituzioni hanno
l‟obbligo di attivarsi correttamente nella prevenzione dei razzismi è
costituito dal pericolo del razzismo istituzionale: un fenomeno ancora
“misterioso” e pieno di insidie, che può insorgere nel quotidiano lavoro
della pubblica amministrazione, dei servizi sociali, scolastici, educativi,
sanitari, nei sistemi della giustizia e dell‟ordine e della sicurezza pubblica e
contribuire non poco alle degenerazioni delle intolleranze e delle discriminazioni. La presente riflessione si prefigge l‟intento di contribuire al
dibattito culturale sui razzismi, focalizzando in particolare il fenomeno del
razzismo istituzionale e cercando di evitare i condizionamenti che scaturiscono dalle peculiarità dell‟attuale momento storico.
1. Origini, definizioni e manifestazioni del “razzismo istituzionale”
L‟espressione “razzismo istituzionale” fu coniata alla fine degli anni
sessanta da due giovani intellettuali ed attivisti afro-americani, Stokely
Carmichael e Charles Hamilton, protagonisti di un momento cruciale della
storia degli Stati Uniti, caratterizzato dai profondi traumi sociali causati
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dalla battaglia per i diritti civili dei neri e dalla grave crisi di immagine che
tali conflitti produssero a carico del paese, fino ad allora considerato la
quintessenza dello Stato democratico.
Carmichael e Hamilton proposero una lettura “politica” del fenomeno,
scavando nei mali del funzionamento della democrazia americana e del
rapporto di quest‟ultima con i singoli e le comunità; l‟obiettivo fu quello di
“smascherare” la violenza di quelle istituzioni che rinunciano al loro più
importante mandato di garanti dei diritti dei cittadini, trasformandosi da
strumenti di democrazia e di rappresentatività in veicoli di intolleranza e
discriminazione.
Nel loro saggio Stokely Carmichael e Charles Hamilton2 descrissero i
meccanismi sociali con cui si manifestava il razzismo negli Stati Uniti ai
danni dei neri: fu ipotizzata, per la prima volta, una netta distinzione fra il
sentimento razzista esplicito e diretto, rivolto da singoli verso singoli, ed
una forma di discriminazione molto più subdola, indiretta e distruttiva, che
minacciava le fondamenta della società, ossia il razzismo istituzionale.
All‟opera dei due intellettuali, pur non priva di lacune ed imprecisioni,
vanno riconosciuti alcuni indiscutibili meriti, primo fra tutti quello di aver
percepito la discriminazione razziale attraverso un‟ottica completamente
nuova, delineando ed introducendo il concetto di responsabilità istituzionale
nei comportamenti discriminatori e nei crimini razzisti. Secondo gli autori,
infatti, ogni violenza sistematica ed organizzata perpetrata dai gruppi
predominanti verso le minoranze (etniche, religiose, razziali...), con mezzi
ed intensità differenti, avrebbe un‟unica matrice che non risiede nei singoli
soggetti, bensì nelle istituzioni sociali: spesso queste ultime si trasformerebbe ro in veri e propri veicoli di propagazione ed incentivazione del razzismo.
Dopo quasi quarant‟anni dalla pubblicazione del saggio di Carmichael e
Hamilton, a differenza delle altre forme e tipologie di razzismo, non vi è
stata una significativa produzione letteraria ed una specifica attività di
ricerca sugli aspetti istituzionali dei razzismi e sulle loro implicazioni nelle
società democratiche: anche per questo, l‟opera dei due autori assume una
rilevanza ancora attuale e va considerata un importante punto di riferimento
per coloro che vogliano approfondire le relazioni esistenti fra istituzioni,
società e comportamenti discriminanti.
2. Quando e come il razzismo diviene istituzionale
Quando Carmichael e Hamilton proposero la loro interpretazione del
razzismo istituzionale, in realtà effettuarono un tentativo di decodificazione e
di definizione di un fenomeno presente da molto tempo nella storia delle
società umane. Comportamenti di discriminazione/inferiorizzazione di
2. S. Carmichael, C. Hamilton, Strategia del Potere Negro, Laterza, Bari, 1968.
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persone, gruppi e comunità sono individuabili sin nella Storia più antica,
come pure le tracce del coinvolgimento istituzionale in tali dinamiche
sociali. Gli autori furono, tuttavia, fermamente convinti anche dell‟estrema
attualità di tale tipologia di razzismo, del quale, peraltro, subivano
personalmente le pesanti conseguenze. Ma qual è oggi il senso del razzismo
istituzionale? Le democrazie (non solo quelle occidentali) manifestano
segnali di razzismo? Quanto i comportamenti discriminanti delle istituzioni
sono e sono stati nella storia l‟espressione di vere e proprie politiche
razziste? Possono le istituzioni essere completamente, assolutamente razziste o
è più corretto definirle, in alcuni casi, discriminanti e, comunque, nemiche
dei cittadini? Qual‟è la situazione nel nostro Paese?
Diversi autori, non solo sono convinti dell‟esistenza di forme di
razzismo relative ai comportamenti e alle organizzazioni istituzionali, ma,
addirittura, dichiarano una vera e propria ineluttabilità del razzismo
istituzionale. Michel Wieviorka, ad esempio, afferma: “La forza del
concetto di razzismo istituzionale sta nel fatto d‟indicare che il declino
delle dottrine scientifiche sulla razza non comporta un analogo declino del
razzismo in quanto tale. È facile verificare che, anche laddove il razzismo è
dichiarato inammissibile a livello politico, è vietato dalla legge e ha perso
ogni credito agli occhi degli scienziati, anche laddove i pregiudizi non
hanno modo di esprimersi, se niente è fatto per contrastare consapevolmente
le tendenze spontanee delle istituzioni, i gruppi soggetti a razzismo
rimangono confinati in posizioni subalterne nella vita economica e
politica, oppure subiscono discriminazioni riguardo all‟occupazione,
all‟abitazione e all‟istruzione”3.
Pur escludendo che il razzismo istituzionale sia una “tendenza spontanea
delle istituzioni”, esso rappresenta, comunque, un fenomeno ben definito
ed, in determinati contesti spazio-temporali, anche di una certa gravità. Non
appare realistico porre in relazione i comportamenti razzisti con le istituzioni tout court, tuttavia, si deve prendere atto delle correlazioni esistenti fra le
categorie del razzismo ed alcuni precisi segmenti/settori/funzioni/comportamenti delle istituzioni formali.
Indubbiamente è “virtuale” ed “astratto” (Wieviorka, 1998) pensare alle
istituzioni in senso lato, lo è molto meno constatare, ad esempio, quanto
possano essere discriminanti alcune leggi o la tardiva/mancata applicazione
delle norme, come riesca ad essere escludente una prassi farraginosa o non
trasparente o poco accessibile, quanto negativamente possano incidere
sull‟inclusione dei soggetti svantaggiati i programmi di alcuni politici, i
comportamenti di certe associazioni o dei gestori della pubblica informazione
e della comunicazione. Possiamo talvolta riconoscere perfino in alcuni
rappresentanti delle istituzioni comportamenti improntati al pregiudizio,
che contribuiscono, in tal modo, a rendere razzizzante tutta l‟istituzione
3. M. Wieviorka, Il razzismo, Laterza, Roma-Bari, 1998, p.18.
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nella quale operano e ad arrecare anche gravi danni alle categorie
professionali cui appartengono.
Il fenomeno inteso come l‟insieme di comportamenti escludenti,
discriminanti, razzisti, formali o informali, interni alle istituzioni o rivolti
all‟esterno, o anche convogliati all‟interno delle istituzioni da particolari
istanze prodotte dalla collettività, non è, dunque, da intendersi come un
modus operandi o come una predisposizione culturale innata, ma come un
disturbo, una disarmonia delle istituzioni, una forma di degenerazione del
loro mandato, che le allontana – talvolta in modo irreversibile – dai soggetti
che rappresentano e che sono preposte a servire: in ultima analisi, vi è il
rischio di determinare un fallimento della democrazia.
Il razzismo istituzionale ed istituzionalizzato è storicamente riscontrabile
tanto in eventi più recenti, come, ad esempio, i colonialismi, l‟apartheid e
(ovviamente) l‟Olocausto, quanto in fenomeni più antichi, come le migrazioni,
i dispotismi/totalitarismi e le schiavitù in uso anche presso civiltà culturalmente molto avanzate, come quella greca e romana.
Oggi, alcuni tratti del razzismo istituzionale sono senza dubbio
riconoscibili, in primo luogo, nell‟immagine della persona migrante, alla
quale spesso è attribuito lo stigma dell‟individuo criminogeno, dell‟usurpatore
di ricchezze ed, in ultimo, anche di potenziale terrorista. Talvolta questi
pregiudizi sono estesi perfino alle persone provenienti dai Paesi violatori
dei diritti umani fondamentali, per cui anche i rifugiati, dopo il momento
emozionale della prima accoglienza (in genere abbondantemente accompagnato da patetici commenti dei media), diventano ospiti ingombranti e
destinati ai margini delle società occidentali.
A differenza dei due autori, che pensarono al razzismo istituzionale
come alla più grave delle espressioni discriminatorie possibili, oggi si deve
considerare questo fenomeno alla stregua di una delle numerose forme di
neo-razzismo presenti nel mondo4: una degenerazione che ha trovato
humus fertile nelle istituzioni anche a causa del profondo e più generale
disagio che le ha coinvolte, come dimostrano gli episodi di crisi istituzionale verificatisi negli ultimi decenni in Italia ed in numerosi altri Paesi. Nelle
società contemporanee si sono avute, infatti, diffuse manifestazioni di
progressiva e rapida perdita di ruolo (e, apparentemente, di senso) delle
istituzioni, causate dai mutamenti eccessivamente rapidi della società
4. Diversi autori hanno approfondito le forme di razzismo, sopravvissute a quello
biologico-deterministico (e quindi affermatesi a partire dal secondo dopoguerra), che
prendono il nome di neo-razzismi. Michel Wiewiorka, oltre al razzismo istituzionale,
individua le seguenti tipologie: culturale, universalista, classista (cfr. Il razzismo, op. cit.);
Daniele Petrosino ricorda che anche il razzismo di genere sopravvive a quello biologico.
Potrebbero, inoltre, essere comprese nei neo-razzismi anche alcune forme di integralismo
religioso ed alcuni totalitarismi fautori di episodi di “pulizie etniche” (si veda D. Petrosino,
Razzismi, Mondadori, Milano, 1999).
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globale, dalle prevaricazioni dei parametri economici a discapito di quelli
politici e sociali, dalle forme di illegalità diffusa e di commistione di
interessi ed obiettivi, da una progressiva perdita del senso etico di tali
ambiti vitali.
Pur in presenza di un contesto tanto differente, il percorso intrapreso da
Carmichael e Hamilton, tuttavia, conserva la sua validità metodologica:
esso muove dall‟osservazione di tre dimensioni istituzionali, quella
politica, economica e sociale, finalizzata alla valutazione dei comportamenti
razzisti.
La tabella 1 sintetizza gli indicatori utilizzati dagli autori in Strategia del
Potere Negro per la valutazione del razzismo istituzionale, con un‟unica
variante: vi è la sostituzione del concetto di “nero” con quello di “persona
appartenente ad una minoranza” (non solo etnica).
Quest‟ultima personale interpretazione è esclusivamente finalizzata ad
attirare l‟attenzione su alcune preoccupanti analogie fra la (prevalente)
condizione delle minoranze nelle società occidentali di oggi e la situazione
“razzizzata” degli afro-americani che ispirò gli Autori nella formulazione
della loro tesi. Inoltre, il concetto di minoranza espresso più volte nella
tabella è da considerare nella sua accezione più vicina al nostro contesto
storico e sociale, ossia non esclusivamente riferito alle identità etniche
minoritarie presenti in uno Stato, ma, più in generale, a tutti i gruppi
portatori di una qualsivoglia diversità, difformità rispetto alla cosiddetta
“normalità
Tab. 1 - Le principali espressioni del razzismo istituzionale
Ambiti
istituzionali
Sistema
politico
Indicatori del razzismo istituzionale
- La rappresentatività elettorale è parziale; il pluralismo è
assente; il potere politico strutturale è concentrato nella
rappresentanza di maggioranza;
- si verificano episodi di “colonialismo politico”,
consistenti nel manipolare il sistema elettorale ad
esclusivo vantaggio del potere strutturale di maggiomaggioranza;
- vi è una coesione ed una chiusura del potere politico di
maggioranza progressivamente maggiore con
l’aumentare delle istanze delle minoranze;
- vi è l’emanazione di leggi contrastanti con i principi delle
carte costituzionali;
- il potere strutturale è rinforzato e conservato grazie ad
una leadership di minoranza complice della maggioranza, che ottiene – al più  vantaggi personali e non
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certo in favore del gruppo di appartenenza;
- vi è un progressivo allontanamento della leadership di
minoranza dalla base elettorale;
- la leadership di minoranza si adatta ai meccanismi di
potere della maggioranza e rinuncia a contrastare il
razzismo istituzionale.
Economia
- Il razzismo istituzionale consente un sistema economico che replica l’economia coloniale, ossia lo sfruttamento delle classi della minoranza a vantaggio della
maggioranza;
- l’atteggiamento degli sfruttatori (verso i neri) è prevaprevalentemente paternalistico ed ambiguo e tende a
non provocare conflitti socio-economici;
- altro grave problema economico della minoranza è
quello della dis/sottoccupazione, a prescindere dall’età
e dalla scolarità del soggetto;
- i prezzi di mercato spesso sono più alti per la minoranza, con minori agevolazioni di pagamento, anche per
gli affitti: lo sfruttamento alloggiativi consente alla
maggioranza guadagni esagerati imponendo spesso
alla minoranza condizioni abitative disumane;
- lo stato di inferiorizzazione della minoranza perpetua la
miseria economica di quest’ultima, mediante
l’esclusione dei membri della minoranza dai buoni
impieghi, la tendenza ad un basso reddito e ad una
insufficiente istruzione e formazione, che impedisce di
cogliere opportunità di auto-imprenditorialità e di autodeterminazione;
- il minimo reddito di cui dispone, spinge la minoranza a
consumare poco e male.
Società
- La condizione di subordinazione sociale della minoranza assume connotazioni di grave disagio psicologico-comportamentale-relazionale;
- i diversi colori della pelle (le differenze in genere)
facilitano un maggiore controllo sociale ed il mantenimento del diverso in una condizione di inferiorità;
- le violenze subite (dai tempi della tratta), dure e
prolungate, hanno prodotto (sui neri) conseguenze
sociali e psicologiche drammatiche;
- le esperienze di assimilazione hanno prodotto (nel nero)
una perdita di autostima, di fiducia in se stesso, di
dignità e di coscienza del proprio valore;
- le persone che appartengono alla minoranza non si
accettano, vogliono cambiare e diventare come quelle
della maggioranza, rafforzando, in tal modo il razzismo.
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Come si può facilmente evincere dallo schema proposto, il razzismo
istituzionale pone problemi esistenziali per intere comunità e singoli soggetti: esso interseca in pari misura l‟autonomia/autodeterminazione socioeconomica (e la stessa felicità) delle persone e la costruzione democratica
di uno Stato. Ed è proprio l‟idea di Stato ad essere messa per prima in crisi
dal razzismo istituzionale, poiché la realizzazione di uno Stato che ignora,
calpesta, opprime i soggetti più deboli contrasta con l‟essenza dello Stato,
che, invece, governa i rapporti di potere fra gli individui, accompagna il
passaggio storico e culturale delle società primitive in società moderne, stabilisce un rapporto innovativo fra i diritti e i doveri ed una solidale regolazione delle relazioni fra individuo e comunità. Lo Stato, in quanto tale,
considera in ugual misura tutti i cittadini, ponendosi il fine di tutelare i soggetti socialmente più fragili. L‟organizzazione democratica di uno Stato,
attenta ai temi fondamentali dell‟uguaglianza fra cittadini, garantisce pari
opportunità ai gruppi portatori di svantaggio sociale (minoranze reali e/o
solo percepite dalla nostra società) ed i principali diritti di cittadinanza. Ed
è davvero il “minimo” che gli Stati moderni possono/devono fare, a distanza di quasi duemila e cinquecento anni dall‟idea della comunità civile affermata da Platone nella “Repubblica”:
“..la legge non si prefigge l‟obiettivo di procurare un particolare benessere a
una sola classe della città, ma si adopera perché ciò si verifichi nella città
intera, armonizzando i cittadini con la persuasione e la costrizione e
obbligandoli a mettere in comune tra loro l‟utile che ciascuno è in grado di
fornire alla collettività; la legge stessa forgia cittadini simili non per lasciarli
liberi di volgersi dove ciascuno vuole, ma per creare tramite loro il vincolo
che tenga la città unita”5.
È possibile creare vincoli fra i cittadini solo in presenza di opportunità e
diritti minimi garantiti a tutti e, soprattutto, alle minoranze. La tabella 2
sintetizza i principali diritti riconosciuti dalla gran parte delle democrazie
moderne come indispensabili per lo sviluppo del senso di cittadinanza e,
quindi, per l‟inclusione delle minoranze.
Tab. 2 - Gruppi sociali svantaggiati (minoranze) e principali diritti di
cittadinanza
Diritti di
cittadinanza
-
Pari opportunità,
libertà di comunicazione,
garanzie normative,
diritto ad essere ascoltati dalle istituzioni,
diritto ad una giustizia rapida e obiettiva,
rispetto per i diritti umani fondamentali,
5. Platone, La Repubblica, in Tutte le Opere, Newton & Compton, Roma, 1997, p. 357.
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- libertà di espressione linguistica, religiosa e sessuale,
- rappresentatività politica attiva e passiva, abitazione
occupazione,
- istruzione-formazione professionale,
- accesso ai servizi socio-sanitari.
Gruppi
sociali
svantaggiati
-
Disabili,
indigenti,
persone con bassa scolarità,
dissidenti politico-religiosi,
detenuti,
vittime della prostituzione,
omosessuali,
minoranze religiose,
persone affette da patologie psichiatriche o da Hiv,
immigrati,
tossicodipendenti.
Il mancato riconoscimento dei diritti di cittadinanza e/o la mancata
rimozione degli ostacoli che impediscono l‟accesso a tali diritti, da parte di
persone colpite da particolari stigma e/o pregiudizi, può sottendere forme di
razzismo istituzionale.
Utilizzando, quindi, le indicazioni fornite da Carmichael e Hamilton e
gli elementi definibili caratterizzanti delle forme di esclusione/discriminazione ai danni delle minoranze socio-economiche nelle società occidentali
contemporanee, è possibile individuare una serie di macro-categorie che
contribuiscono a definire i contorni del razzismo istituzionale contemporaneo:
a. il razzismo istituzionale è una forma di esclusione e di discriminazione
interna all‟organizzazione di una società, posta in essere in particolari
condizioni istituzionali;
b. esso non fa (necessariamente) riferimento a dottrine o ideologie su basi
scientifiche o religiose, ma si riproduce implicitamente attraverso
norme/prassi discriminanti;
c. il fenomeno può manifestarsi mediante particolari comportamenti agiti
individualmente da funzionari istituzionali che si “adeguano” in maniera
a-critica al sistema che rappresentano, per cui è possibile che il singolo
eserciti forme discriminanti – anche gravi – senza avvertirne il senso,
senza sentirsi in colpa, anzi dichiarando in tutta coscienza di non essere
razzista;
d. esiste una correlazione diretta fra i processi di inferiorizzazione posti in
essere dalle istituzioni ed i comportamenti escludenti/razzizzanti della
società;
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e. tale connessione consente un processo di continua osmosi fra istituzioni
e società e di reciproca alimentazione della discriminazione;
f. al fine di giustificare/legittimare scelte politiche ed amministrative
razzizzanti, si verifica un comportamento (ed un uso) dei media e del
linguaggio comune a forte connotazione escludente/discriminante.
Tali macro-categorie, benché non esaustive ed esclusive del razzismo
istituzionale, costituiscono possibili ipotesi da cui muovere nel percorso di
ricerca di comportamenti e politiche “a rischio” di generare/incrementare
tale fenomeno. Proponendo una lettura del caso italiano, alla luce delle
citate macro-categorie, è possibile aggregare le stesse in quattro gruppi
omogenei.
a,b. - Possibili modalità di espressione del razzismo istituzionale
Per quanto riguarda i primi due punti, si deve innanzi tutto evidenziare
che il nostro Paese non è stato sempre estraneo alla presenza di forme di
razzismo (anche esasperato) nell‟impianto normativo generale.
Fanno ancora molto discutere, soprattutto sul piano politico, il ruolo
assunto dall‟Italia fascista nei confronti del colonialismo delle popolazioni
nord-africane e dell‟antisemitismo, mediante la promulgazione delle “leggi
razziali”. Il dibattito su una così scottante questione non è solo opportuno
dal punto di vista storico e sociale, ma risulta anche attuale in relazione a
quello tecnico-giuridico: un‟impalcatura legislativa di tale portata, infatti,
non poteva non lasciare segni profondi nel merito e nel metodo di “fare le
leggi” in Italia (N. Magrone, 2003).
Anche dopo il „44 la società italiana ha continuato a misurarsi con
l‟esistenza della discriminazione, e non solo nell‟ambito della giurisprudenza nazionale. Nel periodo compreso fra la metà degli anni „50 e la metà dei
„70, infatti, attraverso le esperienze delle migrazioni verso il nord Europa,
l‟Italia ha rivissuto i drammi dell‟emarginazione e del razzismo, già provati
fra la fine del 1800 ed i primi del „900.
Il popolo italiano, che solo pochi anni prima aveva costituito uno Stato
promotore di razzismo per obbedire alle logiche dispotiche di una dittatura,
era costretto ancora una volta, pur di sopravvivere alle gravi crisi dell‟economia nazionale, a subire l‟emigrazione e la potente discriminazione altrui. Le
nostre esperienze emigratorie (soprattutto quelle in Germania, Svizzera,
Stati Uniti, Australia, ma anche in altri Paesi del nord Europa) sono state,
infatti, generalmente penalizzate da fortissime chiusure culturali e sociali,
determinate da una rigida struttura di stereotipi contro gli “italiani”,
sedimentata nel corso di secoli e, forse, non ancora superata. Anche se le
sofferenze causate dalla emarginazione/discriminazione/razzismo hanno
costituito elementi importanti nella formazione di una (ancora minima)
coscienza nazionale italiana, tuttavia, esse non sono state oggetto, in patria,
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di una riflessione culturale attenta ed approfondita da parte della società
civile: di conseguenza, anche i livelli politico-normativi hanno trascurato i
temi della discriminazione e dei razzismi, che, invece, già dai primi anni
„70 richiedevano un approccio ben più chiaro e deciso.
Il Forum delle Ong (Organizzazioni non governative) italiane, tenutosi
in Roma nel 2000 e composto da oltre 150 organismi associativi, ha
denunciato l‟esistenza di gravi forme di discriminazione ancora oggi attuate
nel nostro Paese ai danni di persone portatrici di diversità, tanto da
suggerire la:
“Revisione delle norme esistenti e istituzione di procedure permanenti di
controllo della correttezza – dal punto di vista della non discriminazione – dei
provvedimenti legislativi, regolamentari ed amministrativi e degli atti della
pubblica amministrazione ad ogni livello. Particolare attenzione deve essere
accordata alla legislazione civile e penale e alle norme che prevedono
limitazioni della libertà personale [..]”6.
Benché il problema della discriminazione determinata e veicolata dal
sistema politico/normativo/istituzionale non sia esclusivo del nostro Paese,
pur limitando la riflessione al solo caso italiano, si potrebbero fare decine
di esempi di leggi e di procedure istituzionali che (malgrado le ottime
finalità che talvolta perseguono) non sono riuscite/non riescono a
contribuire alla realizzazione della cittadinanza attiva e partecipata. Ciò è
avvenuto, ed avviene ancora, a causa delle prolungata assenza di leggi in
una determinata materia o per l‟inadeguata/carente applicazione delle
norme, specie quelle relative alla protezione sociale. Basterebbe, ad
esempio, ricordare tutte le leggi finanziarie che non hanno investito
sufficienti risorse economiche per tradurre in azioni concrete quei principi
che, pur espressamente sanciti dalla Carta Costituzionale, come quelli delle
pari opportunità, del diritto alla salute, al lavoro, all‟istruzione, stentano
ancora oggi a divenire garanzie per la nostra comunità civile.
Altri esempi, soprattutto riferiti al welfare, possono aiutarci a cogliere
queste gravi contraddizioni.
Nel caso delle tossicodipendenze, con il Dpr. 309/90, l‟Italia ha
elaborato una normativa di notevole ispirazione preventiva e riabilitativa,
uno strumento di reale recupero e reinserimento sociale della persona
dipendente da sostanze stupefacenti. Il Dpr., peraltro, è stato affinato da
una serie di successivi e puntuali decreti attuativi, emanati dal Ministero
della Sanità, concernenti gli standard organizzativi dei Servizi pubblici per
le tossicodipendenze, i livelli essenziali delle prestazioni da offrire, le linee
guida per la realizzazione di modalità di lavoro in rete fra operatori sociali,
Servizi ed Agenzie territoriali ed istituzioni. Tuttavia, il recepimento della
6. Contributo del Forum nazionale delle Ong italiane “Il razzismo è un crimine, non
un‟opinione”, Roma, 22-23 ottobre 2000.
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predetta legge è avvenuto in modo disomogeneo fra le diverse regioni
d‟Italia, creando una prima discriminazione di carattere “geo-politico”,
prevalentemente fra nord e sud del Paese; inoltre, la realizzazione delle
azioni di prevenzione previste dalla normativa non è stata supportata da
adeguati investimenti di risorse umane e finanziarie nei confronti dei
Servizi pubblici.
Anche per quanto riguarda la disabilità si sono verificate drammatiche
fratture fra gli impianti normativi e le risposte realmente offerte ai cittadini:
il lungo e sofferto processo di sensibilizzazione su questi problemi non si è
ancora concluso. Nonostante vi siano stati eccellenti progressi legislativi,
come la legge n. 68/99, e siano in atto diffuse sperimentazioni di recupero e
di reinserimento sociale, persistono pesanti forme di esclusione nei
confronti dei disabili. Spesso sono proprio le istituzioni pubbliche a
sottrarsi agli obblighi di assunzione delle quote di disabili previste dalla
legge e ad avere la responsabilità della forte presenza di barriere architettoniche nelle nostre città: si tratta solo di due esempi della distanza che
permane a tutt‟oggi fra normative, pur particolarmente civili ed innovative,
e società.
Un ulteriore caso, che si potrebbe citare come esempio di comportamento istituzionale tendente all‟esclusione ed all‟inferiorizzazione, è stato (e per
altri versi lo è ancora), il trattamento della malattia mentale. Già nel 1968,
Franco Basaglia denunciava i gravi segnali di razzismo nell‟ambito della
gestione (non solo italiana) della psichiatria:
“Il razzismo in tutte le sue facce non è che l‟espressione del bisogno di queste
aree di compenso; quanto l‟esistenza dei manicomi, quale simbolo di quelle che
si potrebbero definire „le riserve psichiatriche‟ (paragonandole all‟apartheid del
negro o ai ghetti) è l‟espressione di una volontà di escludere ciò che si teme
perché ignoto ed inaccessibile”7.
Sebbene le istituzioni totali siano state notevolmente ridotte nel nostro
Paese e siano stati avviati importanti processi di modernizzazione e di deistituzionalizzazione in molteplici ambiti della protezione sociale, i fenomeni di inferiorizzazione e di discriminazione dei gruppi svantaggiati attuati
dai sistemi istituzionali resistono nel tempo e pongono sempre più al centro
della vita sociale i temi dei ruoli e delle funzioni che le istituzioni
hanno/devono avere per il reale benessere dei cittadini.
Sono stati riportati solo alcuni esempi, ma è sufficiente seguire la
cronaca per rendersi conto di quanto le nostre istituzioni siano ancora molto
lontane dall‟essere quei beni pubblici e comuni nati per rispondere alle
legittime esigenze di ogni cittadino. Sopravvivono pesanti resistenze in
relazione alla velocizzazione delle procedure, all‟informatizzazione degli
7. F. Basaglia (a cura di), L’Istituzione negata, Einaudi, Torino, 1968, p.136.
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uffici, alla informazione/formazione del personale in servizio nella pubblica
amministrazione, alla de-istituzionalizzazione; permangono le difficoltà
di promuovere policies improntate alla ricerca, al monitoraggio, alla
prevenzione, alla progettazione, alle pari opportunità ed alla cittadinanza
attiva.
c. - Comportamenti discriminanti e rappresentanti istituzionali
Mentre le precedenti macro-categorie riguardano le responsabilità degli
impianti normativi nella produzione dei comportamenti discriminanti (e
talvolta razzisti) in ambito istituzionale, questo punto considera i
comportamenti agiti dai singoli rappresentanti delle istituzioni/servizi.
Accade, infatti, che, pur in presenza di normative adeguate, trasparenti ed
innovative, si verifichino atteggiamenti personali escludenti o discriminanti
da parte di rappresentanti delle istituzioni formali. Le ragioni di tali
comportamenti dipendono da diversi fattori. Una prima causa può essere
individuata nel livello di coinvolgimento psico-emotivo del funzionario
istituzionale (non solo delle pubbliche amministrazioni) nel processo di
stigmatizzazione che colpisce il gruppo sociale costituente il target dell‟istituzione, (ad esempio, i “tossicodipendenti”, i “pazzi”, gli “immigrati”...).
Com‟è noto, lo stigma si riferisce a quel determinato marchio che
distingue una persona dalle altre e che viene interpretato in senso negativo,
ossia insolito e criticabile, fino a ridurre l‟identità di quella persona al suo
mero requisito; i gruppi sociali più stigmatizzati sono quelli composti dalle
persone affette da deformazioni fisiche, dai soggetti portatori di patologie
psico-sociali e dagli appartenenti a gruppi diversi per razza, nazione e
religione (Goffman, 1963)8. Nelle relazioni sociali, il rapporto “sano” e
corretto fra persona normale e stigmatizzato richiede una serie di
accorgimenti da parte di entrambi, fondati sulla reciproca conoscenza ed
accettazione: requisiti pesantemente limitati nell‟ambito dei Servizi sociosanitari ed impediti nella gran parte dei contesti istituzionali (si pensi alle
caratteristiche estemporanee del rapporto sportello-cittadino).
Tali limiti, oggettivamente determinati, si riflettono nell‟interazione fra
funzionario (ossia persona non solo normale, ma anche “potente”, in
quanto esercente l‟offerta del servizio/prestazione) e utente/personastigmatizzata, impedendo il riconoscimento dell‟identità personale da parte
del primo nei confronti del secondo.
Ulteriori possibili disturbi del comportamento dei rappresentanti
istituzionali, che determinano una scadente qualità del rapporto fra
istituzioni e cittadini-utenti, discendono dalla carenza di un‟adeguata
informazione/formazione, dalla assente o carente consapevolezza degli
aspetti meta-comunicazionali dei processi di interazione, da forme
8. E. Goffman, Stigma, l’identità negata, Giuffrè, Milano, 1963.
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soggettive di burn-out, dalla mancanza di rispetto per i codici etici e
deontologici e, talvolta, anche per le stesse normative.
La presenza di tali fattori nel comportamento dei funzionari istituzionali
produce, nel rapporto con l‟utenza, dinamiche psicologiche di pregiudizio,
categorizzazione del target, valutazione soggettiva, classificazione e
discriminazione. In questi casi l‟istituzione ha l‟obbligo di intervenire,
mediante forme di accertamento dell‟idoneità del personale preposto al
contatto e alle relazioni con il pubblico e attraverso azioni di valutazione e
di miglioramento dell‟omogeneità dei servizi e delle prestazioni offerte sia
nei confronti dell‟utente “normale” (ossia non portatore di significative
diversità), sia verso gli appartenenti ai gruppi sociali svantaggiati.
In Italia, negli ultimi anni, sono stati compiuti notevoli progressi nello
studio delle organizzazioni del lavoro, orientati prioritariamente a
comprendere la natura di alcuni particolari fenomeni di esclusione e di
discriminazione (come, ad esempio, il mobbing, le disuguaglianze fra i
generi o verso i disabili) e sono state prodotte normative tendenti a
rimuovere le cause di discriminazione nel mondo del lavoro ed in diversi
altri ambiti della società.
Si tratta, tuttavia, di un processo tutt‟altro che definito: appare sempre
più inderogabile l‟esigenza di aiutare i molteplici attori delle organizzazioni
e delle pubbliche amministrazioni a percepirsi come coadiutori nella produzione di benessere individuale/sociale e non più come meri “esecutori” di
funzioni, cui non è richiesto senso critico e partecipazione attiva.
d, e. - Continuità fra istituzioni e società nelle forme di discriminazione
Le forme di discriminazione e di razzismo istituzionale non sono
esclusivamente causate dai problemi che investono le istituzioni non
credibili, attendibili e responsabili (Donolo, 1997) sul piano relazionale o
normativo: talvolta esse sono determinate anche dalle disfunzioni dei
“processi osmotici” intercorrenti fra istituzioni formali e società civile. Se,
da un lato, le istituzioni non sono abbastanza attente o solerti nel recepire le
legittime istanze dei cittadini, per valutarle ed offrire loro risposte adeguate,
d‟altro canto, accade che esse si facciano (più o meno inconsapevolmente)
portavoce/veicolo di sentimenti ed “umori” sociali decisamente perniciosi
per la collettività.
Gli aspetti che qui analizziamo si riferiscono, appunto, all‟entità e alla
qualità delle relazioni fra società civili e mondi istituzionali che
influenzano ed alimentano comportamenti di discriminazione/razzismo
istituzionale.
“In questo paese, la classe media è la spina dorsale del razzismo
istituzionalizzato”9, sostenevano Carmichael e Hamilton, introducendo
9. S. Carmichael e C. Hamilton, Strategia del Potere Negro, op. cit. p. 80.
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un‟importante intuizione che, purtroppo, non tematizzarono sufficientemente sul piano scientifico e sociologico, ossia il concetto di razzismo
istituzionalizzato. È plausibile che con questa definizione essi intendessero
(ma si tratta di un‟interpretazione del tutto personale) l‟insieme delle forme
di discriminazione e di inferiorizzazione che si attivano all‟interno della
società civile e che “dal basso” influenzano alcune scelte e comportamenti
istituzionali, modificandone di fatto le risposte. In altre parole, mentre le
discriminazioni istituzionali si propagherebbero “in uscita”.
ISTITUZIONI
SOCIETÀ
IL RAZZISMO ISTITUZIONALIZZATO È VEICOLATO “IN ENTRATA”
SOCIETÀ
ISTITUZIONI
Le istituzioni che hanno il compito/dovere di orientare e regolare i
sentimenti del popolo, di recepire i suoi bisogni, i pregiudizi e le paure, con
i tempi e i modi necessari per tutelare e rafforzare la democrazia, e di
prevenire espressioni antidemocratiche, sono principalmente quella politica
e quella economica.
La politica, infatti, anche solo per le responsabilità che discendono dalla
rappresentatività, non deve/non può recepire pedissequamente il “senso
comune” dei cittadini, per il timore di contraddirli, per ragioni di
populismo/demagogia/clientelismo o (molto peggio) per l‟affermazione di
forme accentratrici/autarchiche della gestione del bene comune. Karl
Popper faceva notare che il senso comune è un punto di partenza per la
conoscenza umana, ma esso deve sempre essere filtrato dalla critica. Se in
un determinato contesto storico-sociale si verifica un imbarbarimento del
senso comune, come la tensione alla discriminazione, all‟intolleranza e al
razzismo, è lecito richiedere al livello politico di uno Stato democratico che
si faccia reale garante dell‟universalismo, della tolleranza e dei diritti
umani.
Per quanto concerne la dimensione economica, si impone all‟attenzione
(non solo nazionale) una prospettiva nuova e completamente “rivoluzionaria”:
quella del valore etico dei principi e dei meccanismi economici contemporanei. Tale esigenza, già sancita per la prima volta nella Dichiarazione
Universale dei Diritti dell‟Uomo, afferma i diritti della sicurezza sociale,
del lavoro, della retribuzione, del riposo, dell‟organizzazione sindacale e
dell‟assistenza. La valenza etica, dunque, non è solo il rispetto per le regole
della produzione e del mercato, ma rappresenta la qualità del rapporto fra
l‟economia e le comunità, che la movimentano e che devono fruire dei suoi
benefici.
Negli ultimi decenni, tuttavia, l‟economia degli Stati più avanzati ha
progressivamente perso la propria vocazione etica, allontanandosi dai
bisogni delle popolazioni, cedendo agli interessi dei gruppi multinazionali
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più forti ed intraprendendo un percorso di chiusura alle ragioni della
politica e della democrazia. I risultati di tale comportamento, escludente nei
confronti delle grandi masse popolari e finalizzato all‟accoglimento delle
istanze ed al soddisfacimento delle imposizioni di pochi, sono estremamente evidenti: sono state accentuate le disuguaglianze sociali nell‟ambito delle
società occidentali, si è allargato il divario economico fra nord e sud del
mondo, si è generalmente amplificata la tendenza dell‟economia ad
identificarsi (se non a sostituirsi) alla politica.
f. - Discriminazione e comunicazione
L‟ultima macro-categoria si riferisce al ruolo delle istituzioni dell‟informazione e della comunicazione pubblica nei fenomeni di xenofobia verso
le minoranze etniche, politiche, culturali, economiche. Diversi esperti
hanno analizzato le responsabilità dei mezzi di comunicazione sia nella
produzione, conservazione e rafforzamento di cliché e stereotipi a carico di
particolari gruppi di persone, sia anche nei percorsi opposti di promozione
umana e sociale. Tanti studi ed approfondimenti hanno dimostrato almeno
due aspetti fondamentali del problema: innanzi tutto, le innegabili e potenti
connessioni esistenti fra i sistemi di comunicazione e le tematiche sociali
dell‟esclusione, della discriminazione e dei razzismi. In secondo luogo, a
causa delle responsabilità che derivano da tali connessioni, la necessità del
massimo rispetto per l‟etica e la deontologia, da parte di coloro che si
occupano di comunicazione pubblica.
La codificazione del rapporto fra comunicazione e razzismo istituzionale
avviene prevalentemente mediante le seguenti modalità.
1. Alimentazione dei processi di esclusione/discriminazione preesistenti,
ossia l‟adozione di tecniche di comunicazione – soprattutto da parte del
mezzo televisivo e della carta stampata – orientate a trascurare i
contenuti delle cronache o degli avvenimenti privilegiando (enfatizzando
tizzando) la xenofobia, gli stereotipi del senso comune, le leggende
metropolitane, la demagogia di alcuni politici, il bisogno del capro
espiatorio, i facili e falsi biologismi. È il caso del discorso tautologico
dello “straniero = criminale” (Dal Lago, 1999), nel quale il messaggio
reiterato dei mezzi di comunicazione tende a potenziare meccanismi di
identificazione fra le due categorie; in proposito Dal Lago afferma:
“... l‟estensione delle categorie criminali è selettiva, perché non si applica
generalmente a tutti i membri della società, ma solo agli stranieri. Essa
confonde criminalità e devianza, diritto penale e pratiche sociali informali,
delitti con o senza vittime, infrazioni leggere e comportamenti tutt‟al più
discutibili quando tali attività riguardano gli immigrati. E poiché l‟estensione è
fatta scattare automaticamente solo per gli immigrati, non è difficile dedurre
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che l‟uniformità della loro categorizzazione negativa ha un solo significato:
sono gli immigrati in quanto categoria a essere criminali”10.
La Storia (come quella, ad esempio, degli ebrei, degli zingari, delle
donne…) dimostra come l‟immaginazione collettiva sia particolarmente
sensibile alle esasperazioni dei toni della comunicazione pubblica,
producendo meccanismi di generalizzazione/colpivolizzazione a carico
del “diverso”. Eppure, si continua, nelle pratiche mediatiche (anche se
con minore frequenza rispetto al passato), ad evidenziare il colore della
pelle, l‟appartenenza religiosa o etnica, l‟aspetto fisico, lo status
giuridico dell‟immigrato/diverso, rispetto al “fatto”, al singolo episodio
di cronaca (esattamente come si continua a preferire la modella semisvestita negli spot commerciali, emblema dell‟oggettivazione sessista
del genere femminile).
2. La vera e propria costruzione di stereotipi, come la formazione di una
cultura fondata sull‟iniziale pregiudizio che diviene dapprima categorizzazione, poi discriminazione ed, infine, razzismo. Fenomeni di rifiuto
che hanno accompagnato quasi sistematicamente le migrazioni di ogni
tempo e luogo, sfruttando canali di comunicazione meno definiti di
quelli offerti oggi dai media e dai grandi flussi di informazioni, ma, non
per questo meno efficaci nei loro devastanti obiettivi. Si pensi, in
proposito, a quanto accaduto agli emigranti italiani nella maggior parte
dei Paesi nei quali si sono insediati, continui oggetto dei più biechi
stereotipi, al punto che, citando Gian Antonio Stella:
“.. furono infami molti ritratti dipinti su di noi. E se andiamo a ricostruire
l‟altra metà della nostra storia, si vedrà che l‟unica vera e sostanziale
differenza tra „noi‟ allora e gli immigrati in Italia oggi è quasi sempre lo
stacco temporale. Noi abbiamo vissuto l‟esperienza prima, loro dopo. Punto”11.
Probabilmente, l‟unica differenza che intercorre fra i meccanismi di
stereotipizzazione attivati ai danni degli emigranti italiani e quelli verso
gli immigrati nell‟Italia (e nell‟Europa) di oggi, è insita in una sorta di
interiorizzazione collettiva della tragedia dell‟Olocausto. Dopo aver
doppiato un tale punto scellerato, l‟umanità appare psicologicamente
meno disponibile a costruire stereotipi razzizzanti mediante una
comunicazione diretta: essa sembra attenta ad utilizzare le forme e i
canali codificati, che garantiscono una neutralità tecnologica ed impersonale ed evitano i faticosi investimenti emotivi ed il contraddittorio della
“difesa della razza”. Motivo in più per ricordare e mantenere viva la
consapevolezza di quanto accaduto anche nelle generazioni più giovani.
10. A. Dal Lago, Non - persone, Feltrinelli, Milano, 1999, p.82.
11. G.A. Stella, L’Orda, Rizzoli, Milano, 2002, p.13
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Conclusioni
A questo proposito, Franco Ferrarotti afferma:
“In questo momento storico, è forse la tentazione dell‟ oblio il pericolo più
grave delle democrazie, vale a dire la tentazione di prendere la scorciatoia
di un‟assoluzione plenaria, e sommaria, del proprio passato per evitare a se
stesse l‟imbarazzo e la pena di un confronto aperto con i propri errori. È
appena il caso di osservare che la scorciatoia sarà ancora una volta un
tragico auto-inganno, una strada che non porta da nessuna parte, se non
forse a ripetere gli stessi crimini di ieri”12.
La scorciatoia cui si riferisce l‟autore riguarda il fatto che, solitamente,
si commette l‟errore di analizzare e valutare i fenomeni sociali non in
relazione alle cause storiche che li hanno generati, bensì secondo gli effetti
che essi determinano. Si tratta, indubbiamente, di un vezzo scorretto nel
metodo quanto dannoso nei risultati, poiché impedisce la lucida comprensione degli eventi, la possibilità di imparare dagli errori del passato e di
sperimentare le strategie per prevenire ulteriori danni.
Negli ultimi anni, le immigrazioni, prima, ed i fondamentalismi ed i
terrorismi, poi, hanno spinto l‟Europa ad una politica quanto mai
schizofrenica e paradossale: a fronte di un sempre crescente bisogno di
manodopera immigrata, si applicano diffusamente strategie di chiusura
delle frontiere; gli intenti di cooperazione internazionale, miranti alla
diminuzione del gap socio-economico tra nord e sud del mondo, procedono
al pari dello sfruttamento e dei conflitti internazionali; la necessità di
costruire società inter-culturali si scontra con il bisogno di affermazioni
etno-centriche e discriminanti.
L‟Europa sta cercando di rimuovere dalla coscienza le proprie responsabilità nella determinazione dell‟attuale corso della Storia, con il nefasto
risultato di perdere di vista la scientificità dei fenomeni, di farsi prendere
dall‟isterismo, di lasciare che il senso comune prenda il posto della politica
e delle strategie istituzionali.
Tuttavia, questo momento tanto cruciale per la storia delle migrazioni e
delle minoranze deve essere gestito dalle istituzioni con la massima
competenza e cautela: esse hanno più che mai il dovere di predisporre
azioni – anche nei confronti di fenomeni disumani, quali il terrorismo
internazionale – preoccupandosi non solo dell‟efficacia delle stesse, ma
anche della loro sostenibilità per le comunità civili.
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12. F. Ferrarotti, “Le palizzate e la lezione del passato”, in Sole 24 Ore del 5.10.1997.
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