UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Facoltà di Economia Tesi di Laurea Economia della Conoscenza: il ruolo della ricerca e sviluppo nella crescita economica “analisi comparativa” Relatore: Chiar.mo Prof. Piero Pisoni Co-relatore: Chiar.ma Prof.sa Anna Maria Bruno Anno Accademico 2002-2003 Candidato: Giorgio Vergano INDICE – SOMMARIO PREFAZIONE_____________________________________________ 4 INTRODUZIONE __________________________________________ 5 CAPITOLO I L’ECONOMIA DELLA CONOSCENZA _______10 PREFAZIONE _______________________________________________________________ 10 INTRODUZIONE _____________________________________________________________ 11 LA TEORIA NEOCLASSICA E LA FUNZIONE DI PRODUZIONE AGGREGATA __________ 11 IL MERCATO DEL LAVORO NEOCLASSICO ____________________________________ 13 LA TEORIA NEOCLASSICA E LA FUNZIONE DI OFFERTA AGGREGATA ______________ 16 L’APPROCCIO TRADIZIONALE ALLA CRESCITA ECONOMICA ______________________ 20 L’ACCUMULAZIONE DI CAPITALE ____________________________________________ 22 LA CRESCITA DELLA FORZA-LAVORO ________________________________________ 23 IL PROGRESSO TECNICO __________________________________________________ 24 L’APPROCCIO KEYNESIANO ALLA CRESCITA ECONOMICA _______________________ 28 LA NUOVA TEORIA CRESCITA ECONOMICA: THE NEW GROWTH THEORY _________ 30 LA COMPOSIZIONE DELL’OUTPUT ___________________________________________ 35 GLI EFFETTI DELL’INTEGRAZIONE DEI MERCATI_______________________________ 37 INTERAZIONE FRA RICERCA E APPRENDIMENTO _______________________________ 39 INVESTIMENTO NELLA CONOSCENZA: BASE DELLA CRESCITA A LUNGO TERMINE? _ 44 LA GESTIONE DELLA CONOSCENZA _________________________________________ 46 L’IMPORTANZA DEL CAPITALE INTELLETTUALE _________________________________ 55 BENI INTANGIBILI ________________________________________________________ 56 “KNOWLEDGE OBJECTS” E “LEARNING OBJECTS”_____________________________ 62 L’IMPORTANZA DELL’ICT ____________________________________________________ 64 IL SETTORE DELL’ICT_____________________________________________________ 64 L’IMPORTANZA CRESCENTE DELL’ICT NELL’ECONOMIA MONDIALE ______________ 80 L’IMPORTANZA DELLA GLOBALIZZAZIONE ______________________________________ 84 INTERNAZIONALIZZAZIONE, MONDIALIZZAZIONE E GLOBALIZZAZIONE ___________ 85 LA SOCIETÀ GLOBALE ____________________________________________________ 90 L’IMPORTANZA DELL’INNOVAZIONE ___________________________________________ 93 CAPITOLO II IL RUOLO DELLA RICERCA E SVILUPPO NELLA CRESCITA ECONOMICA _______________________ 102 PREFAZIONE ______________________________________________________________ 102 INTRODUZIONE ____________________________________________________________ 104 LA CRESCITA ECONOMICA ________________________________________________ 106 2 I FATTORI DELLA CRESCITA ECONOMICA ____________________________________ 108 LE CONSEGUENZE DELL’INNOVAZIONE E DEL PROGRESSO TECNICO ____________ 114 R&S E CRESCITA ECONOMICA _______________________________________________ 117 R&S ED AUMENTO NELLA PRODUTTIVITÀ ___________________________________ 118 R&S ED IL CUORE DELLO SVILUPPO _______________________________________ 121 CAPITOLO III ANALISI COMPARATIVA _______________ 127 PREFAZIONE ______________________________________________________________ 127 INTRODUZIONE ____________________________________________________________ 128 ALCUNI ESEMPI DI ECONOMIE DELLA CONOSCENZA ____________________________ 130 AUSTRALIA _____________________________________________________________ 131 FINLANDIA _____________________________________________________________ 133 IRLANDA _______________________________________________________________ 134 CANADA _______________________________________________________________ 135 SINGAPORE ____________________________________________________________ 137 STATI UNITI ____________________________________________________________ 138 IL DEFICIT EUROPEO NELL’INVESTIMENTO IN R&S ____________________________ 148 UN DIVARIO IN AUMENTO CON RITARDI NELL’ALTA TECNOLOGIA _______________ 153 L’OBIETTIVO DEL 3% ______________________________________________________ 156 AVANZARE CONGIUNTAMENTE ____________________________________________ 160 RIORIENTARE LA SPESA PUBBLICA VERSO LA RICERCA E L’INNOVAZIONE E MIGLIORARE LE CONDIZIONI PER GLI INVESTIMENTI PRIVATI ___________________ 162 CAPITOLO IV IL PIEMONTE: CASO DI ECCELLENZA? 164 PREFAZIONE ______________________________________________________________ 164 INTRODUZIONE ____________________________________________________________ 165 LA POSIZIONE DELL’ITALIA _______________________________________________ 167 IL MODELLO ITALIANO DELL’INNOVAZIONE __________________________________ 170 RACCOMANDAZIONI SPECIFICHE DELL’UE PER L’ITALIA ______________________ 172 LE TENDENZE DELLO SVILUPPO REGIONALE: IL PIEMONTE _____________________ 173 LE FORZE DI LAVORO E LE DINAMICHE PRODUTTIVE DELLA REGIONE ___________ 180 IL PIEMONTE: UNA CRESCITA “INTENSIVA” __________________________________ 183 IL PIEMONTE TRA OLD E NEW ECONOMY____________________________________ 188 PROSPETTIVE PER IL FUTURO _______________________________________________ 192 CONCLUSIONE ________________________________________ 198 BIBLIOGRAFIA ________________________________________ 201 INDICE DELLE FIGURE E TABELLE ___________________ 203 3 PREFAZIONE Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno coadiuvato nella stesura di questo lavoro di ricerca. In particolare il Professor Piero Pisoni della Facoltà di Economia di Torino per la Sua cortesia e disponibilità e per l’aiuto nell’organizzazione della struttura della tesi. La Professoressa Anna Maria Bruno della Facoltà di Economia di Torino per la gentilezza e disponibilità alla correlazione della tesi. Inoltre gradirei ringraziare il Dott. Fabio Fabbi, portavoce del Commissario europeo per la Ricerca, per avermi concesso l’opportunità di intervistarlo e per avermi fornito importanti dati ed informazioni riguardo i nuovi obbiettivi della Commissione in materia di ricerca e sviluppo. In fine un particolare riconoscimento anche alla Dottoressa Giuliana Zanoletti dell’ITP di Torino (Investimenti per Torino e Piemonte) per avermi cortesemente fornito informazioni e dati utili per meglio valutare la situazione economica del Piemonte. 4 INTRODUZIONE “The next revolution is well under way… It is not a revolution in technology, machinery, techniques, software, or speed. It is a revolution in concepts…”1 La ricerca e sviluppo (R&S) consiste in quell’insieme di attività intraprese in modo sistematico con lo scopo sia di accrescere le conoscenze sia di realizzare utilizzabili commercialmente. invenzioni ed individuare scoperte La R&S è una fase fondamentale del processo di crescita economica in quanto ha la capacità di tradurre gli investimenti per l’innovazione in risultati economici. Tale risultato è comunque incerto e l’incertezza riguarda sia l’interesse per l’impresa delle conoscenze acquisite, sia, e soprattutto, la capacità di utilizzare quelle conoscenze per migliorare la posizione dell’azienda stessa (in termini di realizzazione tecnica, successo commerciale o cessione di know how). Lo svolgimento di attività di R&S è quindi uno strumento chiave su cui basare la strategia competitiva di un’impresa o di un’intera nazione. Negli ultimi duecento anni, la letteratura ha posto l’accento sull’importanza dell’accumulazione di capitale fisico come fattore di crescita economica di lungo periodo. Più recentemente, tuttavia, “The New Growth Theory”, la “Nuova Teoria della Crescita”, ha chiarito che il 1 Peter F. Drucker, “The Next Information Revolution”, 1998. (La prossima rivoluzione è già avviata… Non sarà una rivoluzione in tecnologie, macchinari, tecniche, software o velocità. Sarà una rivoluzione in concetti…) 5 processo di sviluppo di una nazione è endogeno al sistema economico ed è determinato da una consapevole attività di accumulazione di capitale soprattutto immateriale (ad esempio, capitale umano e tecnologico) da parte di agenti (individui e/o imprese) motivati dalla ricerca di un rendimento economico più elevato. Per decenni gli economisti, per spiegare la crescita economica, hanno seguito gli insegnamenti di Malthus e utilizzato un modello basato sui due fattori "lavoro" e "capitale". Più si aumenta il lavoro, più aumenta il capitale, più si creano nuovi beni. Il problema, con questo modello, è che nel tempo la crescita si ferma quando il valore marginale dei beni prodotti è pari al costo del lavoro e del capitale utilizzato per produrli. Questo modello economico neoclassico fu messo a punto negli anni '50 dal premio Nobel per l'economia Robert Solow. A partire dagli anni '80, gli economisti, seguendo la pista tracciata da Paul Romer, fanno un vero e proprio salto in avanti, trovando un modo diverso per meglio descrivere il meccanismo della crescita economica attuale e futura. I teorici della “Nuova Teoria della Crescita” dividono il mondo in due fattori di produzione fondamentalmente diversi, che possono essere chiamati "idee" e "cose". Le "idee" rappresentano i beni non competitivi le "cose" invece sono i beni competitivi materiali. La crescita economica deriva quindi dalla scoperta di nuove “idee” e dalla trasformazione delle “cose” per ottenere una maggior competitività o un incremento di ricchezza. L’obiettivo di questo lavoro è dunque quello di analizzare i fattori economici che stanno alla base della Ricerca e Sviluppo ed il suo ruolo predominante nella crescita economica odierna. 6 Attraverso il primo Capitolo si cercherà di chiarire il concetto di Economia della Conoscenza, per meglio comprendere non solo le tendenze dello sviluppo delle attuali economie mondiali, quanto la reale importanza dei fattori che hanno permesso il passaggio da un’economia “tradizionale” alla nuova economia della conoscenza. Si analizzerà quindi l’importanza di fattori quali il capitale umano, la globalizzazione, l’ICT (Information Communication Technology) e l’innovazione. L’obiettivo di questo paragrafo è quindi di mostrare il ruolo chiave dei fattori che compongono le così dette “economie della conoscenza” in modo da poter meglio comprendere le relazioni tra investimenti in ricerca e sviluppo e crescita economica. In particolare questo è il punto centrale che si intende sviluppare nel corso del secondo Capitolo del presente lavoro. Come meglio vedremo nel corso dello sviluppo di questo capitolo, la ricerca e sviluppo nasce dall’intenzione di innovare, sovente con una finalità ben precisa. Le imprese, le Istituzioni e più in generali ogni organismo economico che investe in innovazione, in ricerca e sviluppo può voler conseguire l’aumento di competitività, la crescita di produttività o di impiego, la diffusione della tecnologia, con il fine ultimo di accrescere l’output e di creare maggior ricchezza e quindi di sviluppare la crescita economica. Lo strumento di ricerca e sviluppo appare quindi un percorso chiave su cui si deve basare la strategia competitiva e di crescita economica di un’impresa ma anche di una nazione intera. Attraverso il terzo Capitolo si è voluto offrire una panoramica della situazione attuale delle economie di alcuni paesi che possono essere 7 considerati come rappresentativi di diversi processi di sviluppo economico un che hanno portato ad significativo incremento nell’investimento in ricerca e sviluppo e ad una conseguente formazione di un’economia basata sulla conoscenza. Nell’ultima parte di questo capitolo ci si e’ voluti soffermare sulla particolare situazione europea, ponendo dei confronti, ove possibile, con le precedenti realtà analizzate. L'Europa produce un terzo delle conoscenze scientifiche sviluppate a livello mondiale ed occupa una posizione di primo piano in ambiti quali la ricerca medica e la chimica. In campo tecnologico vanta importanti successi in settori quali l'aeronautica e le telecomunicazioni. Tuttavia si parla di "Paradosso Europeo" perché l'Europa pur essendo prima nella produzione di pubblicazioni scientifiche rispetto agli USA e al Giappone, è all'ultimo posto per numero di brevetti depositati. La vera debolezza europea risiede, quindi, nell'insufficiente capacità di trasformare la conoscenza tecnologica e scientifica in effettive opportunità imprenditoriali, ossia, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, la capacità di trasformare le idee, il capitale umano in crescita economica. Attualmente in Europa gli investimenti in attività di ricerca rappresentano mediamente l'1,8% del PIL rispetto al 2,8% degli USA ed al 2,9% del Giappone. Nel 1998 gli USA hanno speso complessivamente per la ricerca (pubblica e privata) 60 miliardi di euro in più rispetto all'Europa. In termini di posti di lavoro, i ricercatori rappresentano in Europa il 2,5% della forza lavoro occupata nelle imprese, contro il 6,7% negli Stati Uniti ed il 6% in Giappone ed il numero di studenti europei che compiono studi di livello universitario negli Stati Uniti è oltre il doppio di quello degli studenti americani che svolgono tali studi in Europa. Il 50% degli europei che effettuano un dottorato negli Stati Uniti, 8 risiedono in tale paese per un lungo periodo trasferendovisi talvolta definitivamente, creando così una fuga di capitale umano ed un indebolimento della capacità di innovazione dei paesi europei a discapito di una crescita economica. Al termine di questo capitolo si vuole quindi sottolineare l’importanza del nuovo obiettivo europeo di investimento del 3% del PIL in ricerca e sviluppo in modo da poter creare per il 2010 300 mila nuovi posti di lavoro. Per concludere, l’ultimo quarto Capitolo vuole analizzare più in particolare la regione italiana che maggiormente investe in ricerca e sviluppo. Il Piemonte, con una tradizione secolare di innovazione, di formazione, di sviluppo di infrastrutture e di supporto del capitale umano, può essere definito come un “caso di eccellenza” in un panorama desolante del territorio italiano rispetto ai propri “colleghi” europei e mondiali. Si cerca quindi di dare inizialmente una descrizione della realtà piemontese per tutto ciò che riguarda l’organizzazione degli investimenti in ricerca e sviluppo e della sostanziale differenza tra investimenti pubblici e privati. In conclusione si cerca di porre alcune basi per una prospettiva futura di crescita e di continuo miglioramento anche in considerazione del nuovo obiettivo europeo del 3%. 9 CAPITOLO I L’Economia della Conoscenza Prefazione Attraverso questa prima parte del lavoro s’intende cercare di dare una visione quanto più globale e dettagliata possibile sulle caratteristiche di quelle che vengono definite “Economie basate sulla Conoscenza”. In particolare si ritiene opportuno suddividere il capitolo in una parte introduttiva che si focalizza sulle teorie economiche che portano a comprendere il passaggio da un’economia tradizionale all’economia della conoscenza. Si analizzeranno quindi gli aspetti principali della teoria neoclassica per passare successivamente alla visione più contemporanea della “New Growth Theory” per cercare di capire meglio l’influenza della conoscenza, dello sviluppo economico ed intellettuale sul processo di crescita economica da un punto di vista teorico. Sempre in questa prima parte introduttiva si analizzerà l’aspetto fondamentale delle economie della conoscenza e più in generale della società moderna, dell’investimento e della gestione della conoscenza come fattore di apprendimento e di sviluppo. Facendo seguito a queste basi introduttive si analizzeranno in specifico quelli che ritengo essere i quattro punti cardine di un’economia della conoscenza attraverso i quali è possibile fondare le basi per una solida struttura economica che mira allo sviluppo ed alla capacità di competizione nel quadro di un mercato sempre più globale: - l’importanza del Capitale Intellettuale 10 - l’importanza dell’ICT - l’importanza della Globalizzazione - l’importanza dell’Innovazione Si ritiene che attraverso queste basi si possa quindi passare all’analisi più approfondita del ruolo della Ricerca e Sviluppo nella crescita economica, come vedremo nel capitolo successivo. Introduzione La teoria neoclassica e la funzione di produzione aggregata La teoria macroeconomica neoclassica si basa sulla funzione della produzione aggregata e sulla possibilità di raggiungere l’equilibrio attraverso la flessibilità dei prezzi e dei salari. La funzione della produzione aggregata generalizza il concetto riferendosi ad una “intera economia” definendo così le variabili: -K lo stock di capitale -L lo stock di forza-lavoro -Y il prodotto assumendo la seguente relazione: Y = F (K, L) Questa viene definita come funzione della produzione aggregata, ed indica la massima produzione ottenibile dai 11 fattori produttivi lavoro e capitale utilizzati nell’economia. In generale si assume inoltre che la funzione soddisfi due proprietà: - abbia rendimenti decrescenti per K ed L - abbia rendimenti di scala costanti La prima proprietà indica che se viene aumentato un fattore, (ad es. di lavoro), ma non l’altro, il (ad es. il capitale che rimane costante), si ottengono aumenti via via più piccoli del prodotto. In tal caso il rapporto K/L diminuisce. La seconda proprietà invece indica che se vengono aumentati entrambi i fattori in percentuali uguali (ad es. 1% in più di lavoro e di capitale) si ottiene lo stesso incremento percentuale del prodotto. In tal caso il rapporto K/L rimane costante. Quando la quantità di capitale e di lavoro disponibili nel modello economico vengono completamente utilizzati, allora la funzione ci da’ il massimo prodotto Y ottenibile. Questo viene definito come prodotto naturale. Figura 1 La funzione della produzione. 12 Come si vede nella Fig.1 la rappresentazione della funzione della produzione aggregata nel breve e nel lungo periodo Y = F (K, L) mette in relazione solo le variabili K ed L. Il prodotto Y, in generale, può essere diverso di quello naturale che si otterrebbe con i valori costanti di K ed L (completamente utilizzati) per tre motivi: - la forza-lavoro non è completamente utilizzata - il capitale non è completamente utilizzato - le tecniche utilizzate non sono le migliori disponibili Il mercato del lavoro neoclassico Sempre secondo la teoria neoclassica l’occupazione ed il prodotto tendono sempre verso il raggiungimento del livello massimo e costante ottenendo cosi’ il prodotto Y con la pena occupazione L. La spiegazione di questo viene trovata nel mercato del lavoro, dove opera il gioco tradizionale della domanda e dell’offerta. E’ necessario quindi vedere come è costruita la curva domanda di lavoro, che, incrociandosi con la curva dell’offerta di lavoro, determina l’equilibrio in questo mercato. “In base alla proprietà dei rendimenti decrescenti, la funzione della produzione implica che il prodotto marginale del lavoro (PML) è decrescente: se viene mantenuto costante il capitale l’aumento del prodotto ottenuto da una dose in più del lavoro impiegato è via via più piccolo, come in Fig.2. 13 Figura 2 La quantità di lavoro domandata in un sistema di concorrenza perfetta. La curva decrescente in Fig.2 misura i rendimenti decrescenti del lavoro che l’impresa confronta con il costo del lavoro. Sull’asse verticale può dunque essere rappresentato anche il salario reale (W/P). La scelta dell’impresa, è ispirata alla massimizzazione del profitto, vale a dire quanta parte dei ricavi rimane una volta coperti i costi del lavoro e della rendita del capitale (PY-WL-RK), dove RK indica i costi sostenuti per usare il capitale (se fosse preso in affitto R è il canone per una unità affittata e K è la quantità affittata). Quindi, per un certo qualsivoglia salario reale fissato dal mercato, le imprese determinano l’occupazione eguagliando: PML=W/P. In Fig.2 per W/P4 viene impiegato L4. La conclusione è che: la curva del PML rappresenta anche la curva di domanda di lavoro. Per spiegare qual è il salario reale che si viene a determinare sul mercato del lavoro, occorre vedere il punto di incrocio della domanda e dell’offerta di lavoro. La domanda è rappresentata dalla PML, mentre l’offerta si assume sia pari alla forza-lavoro esistente nell’economia. 14 Figura 3 L’equilibrio del mercato del lavoro. Dalla Fig.3 si evince il punto di equilibrio, in cui viene determinato non solo il salario reale, ma anche l’occupazione, che è pari alla forza-lavoro. Quindi in equilibrio non è presente disoccupazione. Poiché nel mercato del lavoro l’equilibrio è quando L = L , allora, osservando la funzione della produzione (Fig.1), il prodotto dell’economia viene a trovarsi proprio al livello naturale: L = L ⇒ Y = Yn Partendo da un livello del salario reale superiore a quello di equilibrio si può vedere cosa succede. Sia W/P5>W/Pe, come in Fig.3. L’occupazione sarà L5<L , vale a dire che è presente disoccupazione essendo l’offerta superiore alla domanda di lavoro. La funzione della produzione ci dirà che il prodotto ottenibile con quella occupazione sarà inferiore al prodotto naturale. Come nei mercati tradizionali, anche in questo, in cui si scambia un bene particolare come il lavoro (o più precisamente i servizi lavorativi, le ore di lavoro), il particolare prezzo 15 del bene, cioè il salario reale W/P, tenderà a scendere portandosi al livello di equilibrio: W/P=W/Pe. Dunque, con un salario che si riduce le imprese sono indotte ad occupare di più ed a produrre di più, fino alla “piena” occupazione e quindi fino a quando il prodotto è quello naturale”2. In conclusione, seguendo il ragionamento del Prof. Pugno, si può evincere che nella teoria neoclassica il livello della produzione di lungo periodo viene determinato nel mercato del lavoro. La teoria neoclassica e la funzione di offerta aggregata Nel precedente paragrafo si è visto che la teoria neoclassica determina Y attraverso il raggiungimento dell’equilibrio nel mercato del lavoro, con il risultato che Y è pari a Yn . Lo schema IS-LM invece spiega come viene determinato Y senza che il mercato del lavoro sia necessariamente in equilibrio. Lo schema IS-LM è costruito solitamente sulla base dell’ipotesi che i prezzi sono fissi. “Com’è noto, infatti, quest’ipotesi consente di determinare l’offerta reale di moneta, che, in equilibrio con la domanda reale di moneta, fissa la LM, la quale, intersecandosi con la IS, determina il tasso reale d’interesse di equilibrio e il prodotto di equilibrio”3. Dunque l’equilibrio IS-LM si riferisce ai mercati dei beni e della moneta e non a quello del lavoro. L’integrazione dello schema IS-LM con la teoria neoclassica del mercato del lavoro consente quindi di ottenere l’equilibrio in tutti tre i mercati, purché i prezzi ed il salario nominale siano flessibili. 2 3 M. Pugno: “Appunti di Economia I, Crescita Economica”, Facoltà di Economia di Trento, 2003. M. Pugno: “Appunti di Economia I, Crescita Economica”, Facoltà di Economia di Trento, 2003. 16 “Poiché si presume che salari e prezzi vengano cambiati più lentamente di quanto cambi Y, allora si può ipotizzare la seguente distinzione: - nel breve periodo i prezzi, i salari (e il capitale) sono fissi, e dunque può esserci disoccupazione; - nel lungo periodo i prezzi ed i salari sono flessibili (ma il capitale rimane fisso), e dunque la disoccupazione tende a scomparire. Nel breve periodo l’incrocio delle curve IS-LM può determinare un livello qualsiasi del prodotto. Figura 4a L’equilibrio IS-LM di breve periodo. Supponiamo sia Y6 < Yn come in Fig.4a. Il prezzo che era stato ipotizzato fisso per costruire la LM può essere letto sulla curva AD in corrispondenza del livello Y6 (Fig.5b). 17 Figura 5b L’equilibrio IS-LM di breve periodo. Si osservi che assumere che i prezzi siano fissi è come se si assumesse che la curva di offerta aggregata di brevissimo periodo (ASBSP) sia orizzontale. La funzione della produzione ci dice che un certo livello del prodotto ( Y6 < Yn ) può essere ottenuto dell’occupazione (L6< L ). 18 con un certo livello Figura 6c L’equilibrio IS-LM di lungo periodo. Questa è pagata ad un certo salario reale (W/P) (Fig.6c). Ma se i salari nominali sono flessibili verso il basso, allora nel lungo periodo essi tenderanno a disoccupazione. scendere (vedi Fig.6c) in modo da eliminare la Nella “piena” occupazione la produzione è a livello naturale, e, in questo caso, maggiore di quello iniziale. Essendo la AD decrescente, allora anche i prezzi tenderanno a flettere (P’), in modo da far spostare a destra la LM (LM’) e farla incrociare con la IS a livello di Yn (vedi Fig.4a)”4. In conclusione: secondo la teoria neoclassica la flessibilità dei prezzi e dei salari consente di portare in equilibrio il mercato del lavoro, mantenendo l’equilibrio nei mercati dei beni e della moneta. Inoltre è possibile concludere che: 4 M. Pugno: “Appunti di Economia I, Crescita Economica”, Facoltà di Economia di Trento, 2003. 19 - poiché la flessibilità dei prezzi e dei salari conduce Y ad essere pari a Yn , - poiché Yn è ottenuta sulla base della funzione di produzione impiegando K e L , - poiché la flessibilità dei prezzi e dei salari è tipica del lungo periodo, allora si può dire che Yn costituisce l’offerta aggregata di lungo periodo, che, contrariamente alla domanda aggregata, non dipende dai prezzi (ASLP in Fig.5b). L’approccio tradizionale alla crescita economica Per spiegare la crescita economica l’approccio tradizionale ignora il breve periodo. Pertanto, i prezzi e i salari sono perfettamente flessibili, ed il prodotto tende a coincidere con quello naturale, in cui tutta la forza-lavoro e il capitale esistenti sono utilizzati. In un punto del tempo gli stock esistenti della forza-lavoro e del capitale determinano Yn attraverso la funzione della produzione aggregata. La crescita di Yn sarà quindi dovuta alla crescita della forza-lavoro, del capitale, ed ai cambiamenti della funzione della funzione della produzione. L’orizzonte temporale di questi cambiamenti è detto lunghissimo periodo. Per mettere in evidenza le tre fonti per la crescita di Yn , assumiamo che la funzione della produzione (F) sia di tipo esponenziale o CobbDouglas: Yn = AK α L1−α con α < 1 Se questa equazione viene espressa in tassi di crescita si ottiene: 20 Yˆn = Aˆ + αKˆ + (1 − α ) Lˆ dove l’accento circonflesso indica il tasso percentuale di crescita della ∆K . variabile, ad esempio Kˆ ≡ K E’ stata omessa la barra sopra la variabile per non appesantire la notazione, ma va ricordato che d’ora in poi, l’utilizzo della forza-lavoro e del capitale rimane sempre completa, e dunque non c’è disoccupazione. Le tre fonti della crescita di Yn sono dunque: - la crescita del capitale ( K ) - la crescita della forza-lavoro ( L ) - il progresso tecnico ( A ) Figura 7 Come agiscono le tre fonti della crescita sulla funzione della produzione. 21 mai Nella Fig.7 si mostra come ciascuna delle tre componenti agisca sul prodotto naturale. Vediamo dunque ciascuna delle tre componenti ignorando la crescita delle altre due. L’accumulazione di capitale “La crescita del capitale K̂ è endogena rispetto all’economia. Per mostrare questo, si ricorda che: ∆K ≡ I dove I sono gli investimenti che, appunto, vanno ad aumentare lo stock di capitale dell’economia. Come si vede, qui si considera finalmente l’effetto di aumentare la capacità produttiva degli investimenti, mentre nello schema IS-ML/AD-AS, che era limitato al breve o al lungo periodo, veniva considerato solo il loro effetto di aumentare la domanda di beni, senza essere ancora operativi”5. Se consideriamo che gli investimenti dipendono dal risparmio, possiamo considerare l’equazione ∆K = sYn in cui la crescita del capitale è dovuta al comportamento dei risparmiatori dei settori privato e pubblico. Dunque, una volta che il prodotto inizia a crescere per via della crescita del capitale, cresce anche il risparmio. Un aumento del risparmio e degli investimenti appare dunque favorevole alla crescita economica. 5 Secondo la teoria neoclassica, M. Pugno: “Appunti di Economia I, Crescita Economica”, Facoltà di Economia di Trento, 2003. 22 l’espansione della capacità produttiva trova sempre, nell’aggregato dell’intera economia e nel lunghissimo periodo, una sufficiente domanda perché sia appieno utilizzata. Questa conclusione appare essere convincente solo in modo parziale. Il rallentamento nella crescita del prodotto sembra accompagnarsi ad un aumento della disoccupazione e ad un calo nell’attività delle imprese. L’economista neoclassico risponderebbe che questi sono fenomeni ciclici, di breve periodo. Nel lunghissimo periodo la disoccupazione e l’inutilizzo degli impianti delle imprese non cresce indefinitamente. Invece, è vero che le economie a più alto tasso di crescita hanno anche un’elevata quota di risparmi e di investimenti. Tuttavia, la quota di risparmi ed investimenti sul prodotto non raggiunge mai valori elevatissimi (non oltre il 20-25%). Il motivo di questo, secondo la teoria neoclassica, risiede nel principio della produttività marginale decrescente che riguarderebbe non solo il lavoro, ma anche il capitale, che nel lunghissimo periodo, appunto, non è più fisso. Questo peraltro è espresso nella funzione della produzione CobbDouglas dalla ipotesi che α<1. Secondo questo principio, l’aumento del capitale, senza che aumenti il lavoro impiegato, genera incrementi di prodotto via via più piccoli. Quindi i risparmi che l’economia è in grado di generare, vanno a finanziare investimenti che hanno effetti positivi sulla crescita del prodotto, ma in misura sempre più ridotta, se il lavoro non dovesse crescere e non ci fosse progresso tecnico. La crescita della forza-lavoro “L’aumento della forza-lavoro, secondo la teoria neoclassica, è essenzialmente dovuto a determinanti extra-economiche. Si pensi alla 23 caduta, un po’ misteriosa, dei tassi di natalità in Italia. Questi si collocavano fra i primi in Europa negli anni ’60, mentre sono fra gli ultimi negli anni ’90. Oppure si pensi alla longevità dei giapponesi. In prima approssimazione, dunque, la crescita della forza-lavoro può essere ritenuta esogena. Occorre osservare però che anche le determinanti demografiche ed istituzionali sono influenzate da variabili economiche. La natalità e la mortalità, che regolano l’andamento della popolazione, sono influenzate dalle spese per la sanità e dal livello di vita della popolazione. E’ stato osservato in particolare che la natalità dipende molto dal grado di istruzione femminile. Anche i flussi migratori sono grandemente dovuti a motivi economici. La parte della popolazione che costituisce la forzalavoro dipende dall’estensione dell’obbligo scolastico e dall’estensione della copertura pensionistica, e dunque dalle spese per l’istruzione e la previdenza. Si potrebbe osservare che le economie che hanno una elevatissima crescita della popolazione, come l’India e molti paesi africani, sono anche economie poverissime. Il progresso tecnico La fonte più importante per la crescita economica è il progresso tecnico. Non è soggetto a rendimenti decrescenti (  non è moltiplicato, come le altre due fonti, per un coefficiente minore di 1), e fa aumentare anche il prodotto pro-capite. Il miglioramento delle tecniche è rappresentato da una rotazione verso l’alto della funzione di produzione (Fig.7). Le determinanti del progresso tecnico risiedono nella capacità di innovare a livello tecnologico ed organizzativo. 24 Questa capacità è in buona parte dovuta a fattori extra-economici. Basta pensare alle innovazioni che si sono diffuse nel dopoguerra come l’automobile, gli elettrodomestici, le plastiche, e più recentemente l’information technology. All’origine di questo si può trovare la genialità dei ricercatori e a volte la casualità. In prima approssimazione, dunque, il progresso tecnico è da considerarsi come esogeno. Gli effetti del progresso tecnico possono essere rappresentati anche per mezzo dello schema ISLM/AD-AS e del mercato del lavoro. Il progresso tecnico fa aumentare Yn , e dunque la ASLP si sposta a destra (Fig.8c). Figura 8c Il progresso tecnico nello schema IS-LM/AD-AS. Anche la LM di lungo periodo, che è verticale, si sposta a destra. Una politica monetaria non espansiva né restrittiva, richiede che la quantità di moneta venga aumentata in proporzione a Yn , lasciando quindi costanti i prezzi. Se si assume che la proporzione dei risparmi, e dunque degli 25 investimenti rispetto al prodotto rimanga costante, allora la IS si sposta a destra come la LMLP (Fig.9a), Figura 9a Il progresso tecnico nello schema IS-LM/AD-AS. e la AD si sposta a destra come la ASLP(Fig.10c). Figura 10c Ciclo e trend: la loro scomposizione e rappresentazione nello schema IS-LM/DA-OA 26 Il cambiamento importante avviene nel mercato del lavoro, in cui aumenta la domanda di lavoro, ma l’offerta no, con l’effetto di aumentare il salario (Fig.11d). Figura 11d Il progresso tecnico nello schema IS-LM/AD-AS. Quindi il progresso tecnico fa aumentare il prodotto ed i salari. Recenti studi hanno preso in considerazione le determinanti economiche del progresso tecnico, in modo da renderlo endogeno. Le principali sono due: - la spesa in Ricerca e Sviluppo (R&S), - la spesa nella formazione di capitale umano. Questo ha reso evidente che le due fonti della crescita K̂ e L̂ vanno scomposte, perché possono incorporare spese che influenzano Dunque le tre fonti non sarebbero più indipendenti. 27  . Il modello è diventato più realistico, per questi aspetti, ma ha posto problemi di realismo per altri aspetti. Infatti, la spesa in R&S e, in larga parte, quella in capitale umano non hanno, generalmente, effetti certi su  . Il modello invece, per poter essere operativo e poter essere utilizzato per le previsioni, ha bisogno di assumere che ci sia una perfetta previsione degli effetti di quel tipo di spese. L’approccio keynesiano alla crescita economica La distinzione fra breve, lungo e lunghissimo periodo al fine di studiare separatamente ciclo economico e trend di crescita non appare in grado di spiegare alcuni problemi rilevanti. I principali di questi sono due: - Uno riguarda le conseguenze della politica economica nel lunghissimo periodo. La teoria neoclassica sostiene l’inefficacia delle politiche economiche nel lungo periodo. Ma se così fosse, non avrebbero responsabilità nell’aver sostenuto gli elevati trend di crescita degli Stati Uniti e dell’Europa negli anni ’50 e ’60. E viceversa, non avrebbero responsabilità nelle crisi finanziarie che hanno colpito diversi paesi in via di sviluppo, e che hanno modificato il loro trend di crescita. - Il secondo problema riguarda il mercato del lavoro. E’ senso comune che anche una crescita molto prolungata faccia bene all’occupazione. E viceversa, la storia insegna che la disoccupazione può persistere per lungo tempo anche se il mercato del lavoro diventa flessibile. 28 Un approccio alternativo a quello tradizionale, sostenuto da diversi keynesiani, non separa lo studio del ciclo economico da quello del trend di crescita. Questo approccio si basa sui seguenti punti: 1. Il trend di crescita del prodotto pro-capite è influenzato dagli investimenti per diversi motivi. Perché gli investimenti incorporano progresso tecnico, perché aumentano la specializzazione produttiva e delle mansioni lavorative, perché permettono l’addestramento del lavoro in una stessa mansione. 2. Il rendimento degli investimenti è molto incerto. Non solo perché il progresso tecnico ha esiti incerti, ad esempio perché il lancio di un prodotto può rivelarsi un insuccesso. Ma anche perché i benefici degli investimenti sono appropriabili in misura incerta. Ad esempio l’addestramento del lavoro potrebbe risolversi completamente in un maggior reddito dei lavoratori. Non è quindi definibile un tasso di interesse reale di lungo periodo, per il semplice motivo che non esiste un tasso di interesse che misuri adeguatamente il rendimento degli investimenti. Quindi, gli investimenti non sono determinati dal risparmio, qualsiasi sia l’orizzonte temporale considerato. Se per esempio il rendimento dell’investimento non tiene in considerazione il maggior reddito prodotto dall’addestramento del lavoro, il tasso d’interesse non segnala il maggior risparmio dei lavoratori così addestrati. Va ricordato che l’investimento potrebbe avere un rendimento maggiore del risparmio generato, ad esempio perché non considera i costi sopportati dal resto dell’economia, come quelli ambientali. 3. Poiché gli investimenti sono il motore dei risparmi che andranno poi a finanziarli, e della crescita, e poiché sono volatili per l’incertezza del 29 loro rendimento, è cruciale una politica economica rivolta a minimizzare quest’incertezza, ed a incoraggiare gli investimenti. - Il primo obiettivo sottolineato dai keynesiani riguarda le prospettive di domanda futura. Da qui la propensione per politiche monetarie orientate a mantenere ridotti tassi di interesse. La politica fiscale andrebbe usata per contrastare l’aggravarsi ed il persistere della disoccupazione, nonché per non lasciar cadere i redditi e la domanda. - Quel primo obiettivo va però temperato con l’obiettivo di contenere l’inflazione, perché questa aumenta l’incertezza dei finanziatori, e quindi l’incertezza del rendimento dell’investimento. - Un terzo obiettivo è limitare il rischio di insolvenza dei debitori, anch’esso fonte di incertezza nel rendimento dell’investimento. Questo comporta un controllo del deficit e del debito pubblico, e quindi un limite alle politiche di espansione fiscale”6. La nuova teoria crescita economica: The New Growth Theory Come abbiamo visto, le principali conclusioni del modello neoclassico sono infatti che la crescita dipende solo in ultima analisi da fattori come il tasso di progresso tecnico che rimangono comunque considerati come esogeni. Se le conoscenze sono perfettamente accessibili a tutti, il mercato genera spontaneamente una tendenza alla convergenza delle economie. In equilibrio comunque i tassi di crescita saranno tutti uguali al tasso di progresso tecnico comune alle varie economie. Le ipotesi di perfetta diffusione delle conoscenze e di rendimenti costanti di scala precludono la possibilità di spiegare differenziali di 6 M. Pugno: “Appunti di Economia I, Crescita Economica”, Facoltà di Economia di Trento, 2003. 30 crescita persistenti nel tempo che costituiscono invece un dato dell’esperienza. La nuova teoria della crescita sviluppatasi a partire dalla seconda metà degli anni ‘80 si presenta più ricca di implicazioni. Ciò si deve soprattutto al fatto che ipotesi di partenza come la presenza di rendimenti crescenti e un’analisi più precisa dal punto di vista microeconomico dei meccanismi di diffusione delle conoscenze consentono di rendersi conto di differenze persistenti nelle modalità di sviluppo di economie ed aree economiche differenti. L’aspetto più importante è che si tende a convergere verso l’approfondimento di due aspetti essenziali: i rendimenti crescenti e i meccanismi di produzione e diffusione delle conoscenze. I rendimenti crescenti sono alla base della crescita endogena. D’altro canto l’analisi delle modalità di produzione e diffusione delle conoscenze tecnologiche costituisce un elemento cruciale per la comprensione dei fondamenti della crescita economica, ma anche dell’evoluzione delle strutture industriali e della concentrazione delle attività economiche in specifiche aree geografiche. E’ possibile individuare alcune indicazioni provenienti dalla nuova teoria della crescita che possono rivelarsi utili nella comprensione dei meccanismi sottostanti allo sviluppo locale, soprattutto per quanto concerne le relazioni fra sistema locale e fattori esterni. Tali indicazioni appaiono particolarmente rilevanti per quanto riguarda due aspetti: - Politiche volte ad orientare la composizione dell’output e la specializzazione produttiva in un contesto di apertura al commercio internazionale e di integrazione con altre aree, sia per quanto riguarda l’adozione di strategie high-tec e low-tec (come vedremo meglio in 31 seguito), o con riferimento all’opzione tra specializzazione in un solo settore e diversificazione produttiva. - Mix ottimale fra sostegno alla ricerca e sviluppo per stimolare l’introduzione di nuove tecnologie e all’apprendimento su tecnologie locali preesistenti. Gli aspetti citati sono fortemente connessi fra loro. Come vedremo nei paragrafi successivi, appare chiaro che gli elementi chiave di un’economia di questo genere sono la lo sviluppo della Conoscenza, l’utilizzo delle nuove Tecnologie, l’Internazionalizzazione e l’investimento in Innovazione. La differenza cruciale fra il modello neoclassico e la nuova teoria della crescita è che in quest’ultima il progresso tecnico non è più una scatola nera bensì il risultato di meccanismi microeconomici che vengono attentamente indagati. L’apertura della scatola nera si rivela densa di implicazioni alcune delle quali interessanti dal punto di vista delle politiche di sviluppo sia generale che locale. Pur offrendo, soluzioni diverse a seconda delle ipotesi di partenza la nuova teoria della crescita solleva nuovi problemi. Analizziamo quindi più in dettaglio alcune ipotesi e le loro conseguenze. Nei modelli di crescita endogena il motore della crescita è l’accumulazione di conoscenze e di abilità incorporate nella forza lavoro che consentono l’utilizzo produttivo e il perfezionamento di tali conoscenze. Le prime si accumulano nel tempo grazie a specifiche attività di ricerca e sviluppo condotte dalle imprese e a processi di apprendimento sul lavoro. 32 L’accumulazione di abilità e di capitale umano è il risultato di investimenti in educazione e degli stessi processi di apprendimento: - La ricerca genera innovazioni fondamentali e da luogo all’introduzione di nuovi prodotti e processi che aprono opportunità di sviluppo e di ulteriore crescita delle conoscenze. Le innovazioni generate dalla ricerca non realizzano immediatamente il loro potenziale di efficienza ma ciò avviene nel tempo attraverso l’accumulazione di esperienza nella produzione. L’apprendimento consente di ridurre i costi di produzione e di introdurre modifiche incrementali in famiglie di prodotti nonché di rendere operative le conoscenze prodotte dalla ricerca risolvendo problemi che possono emergere solo grazie all’esperienza. - La crescita della produttività dovuta all’apprendimento è comunque limitata. Le curve di apprendimento sono decrescenti (nel senso che i costi medi si riducono) ma tendono ad appiattirsi oltre un certo punto quando il potenziale di apprendimento proprio di una certa famiglia di prodotti si esaurisce. - L’apprendimento genera conoscenze che possono essere rilevanti anche nella ricerca e nell’introduzione di nuovi prodotti. In altri termini esiste un rapporto di “fertilizzazione” reciproca fra ricerca e apprendimento. - La diffusione delle conoscenze non è perfetta. Alcune forme di conoscenza presentano maggiori difficoltà di trasferimento o sono meno facilmente codificabili rispetto ad altre. Questo può essere vero in particolare per le nuove conoscenze scientifiche o alla frontiera 33 tecnologica e per alcune conoscenze tecnologiche specifiche altamente tacite. Fermo restando la comune convinzione fra gli studiosi che l’innovazione rappresenti un elemento cruciale dello sviluppo, alcuni hanno attirato l’attenzione sull’importanza dell’evoluzione endogena dei saperi locali come motore della crescita, altri sugli effetti di fertilizzazione di tali saperi generati dall’integrazione con tecnologie più avanzate di provenienza esterna. La prima ipotesi punta sulla continuità e sul patrimonio di esperienze e capacità locali e si propone la loro valorizzazione, costruendo su di esse una competitività su mercati più ampi. E’ sostanzialmente una strategia di nicchia che fa leva sulla creazione di uno specifico know how locale, sviluppato percorrendo le curve di apprendimento proprie delle produzioni esistenti. L’altra, che può essere definita di rottura, punta invece sull’innovazione e l’introduzione di nuovi settori a tecnologia più avanzata attraverso un sostegno alla ricerca, la creazione di centri di diffusione delle conoscenze, parchi tecnologici, incentivi alla localizzazione di imprese high-tec etc. Entrambe queste strategie traggono alimento da alcune esperienze di successo, ma entrambe mettono in risalto l’importanza della conoscenza, dell’investimento e la differenza sostanziale con le teorie neoclassiche di crescita economica. Per esempio, i casi di alcuni distretti industriali in Italia suggeriscono l’importanza dei saperi locali inseriti in un network di relazioni sociali a carattere eminentemente locale nel dar luogo a forme di sviluppo endogeno imperniate su piccole e medie imprese di origine locale. L’esempio più citato, invece a sostegno della seconda strategia è quello 34 della Silicon Valley in cui la presenza di conoscenze universalistiche di alto livello scientifico e tecnologico ha innescato fenomeni di spin-off. Queste due strategie comunque non sono necessariamente alternative e possono essere perseguite simultaneamente, ma emerge comunque un problema di trade off nella allocazione delle risorse dal momento che gli strumenti di attuazione sono affatto diversi e, soprattutto, la seconda strategia richiede una forte concentrazione di risorse. Esiste quindi un problema di mix ottimale sul quale la nuova teoria della crescita offre alcune indicazioni. La composizione dell’output Consideriamo in primo luogo l’ipotesi che le potenzialità di apprendimento siano limitate per una determinata famiglia di prodotti. La crescita non può quindi essere sostenuta dal solo apprendimento a causa della presenza di rendimenti decrescenti sui prodotti esistenti, ma richiede la continua introduzione di nuovi prodotti con più elevate potenzialità di apprendimento. Ciò determina una continua traslazione delle curve di apprendimento che compensa i rendimenti decrescenti. L’implicazione che ne discende è che, a differenza del modello neoclassico in cui ciò che è rilevante non è cosa produrre ma, piuttosto, come produrre (ciò che conta è il grado di efficienza genericamente considerato in tutti i settori dell’economia), la composizione dell’output assume rilevanza nella determinazione del tasso di crescita. Un particolare filone di analisi che fa capo a Lucas (1988,1993), Stokey (1988,1991) e Young (1991,1992) analizza questo problema. Nel modello di Lucas, per esempio, la crescita dipende dall’accumulazione di capitale umano grazie all’apprendimento sul lavoro. Se nell’economia 35 si producono diversi beni quest’ipotesi può essere formulata nel modo seguente: H i = δ iUi H i Dove H è un indicatore di capitale umano, u la frazione di tempo dedicata alla sua accumulazione δ un parametro che misura il tasso di apprendimento. Lucas ipotizza che alcuni tipi di prodotti incorporino un maggiore potenziale di apprendimento rispetto ad altri. termini il valore di δ In altri è diverso per ciascuno dei beni prodotti. L’accumulazione di skills viene quindi a dipendere dal mix produttivo di una determinata area che, a sua volta, è influenzato dal vantaggio comparato in una economia aperta al commercio internazionale. La scelta del mix di beni da produrre si configura quindi come un’implicita scelta di un tasso di accumulazione del capitale umano o di una certa dinamica dell’apprendimento e ciò determina, a sua volta, il tasso di crescita. L’argomentazione di Lucas può essere sintetizzata nei termini seguenti. Ipotizziamo che esistano due paesi A e B e due beni h (o high-tec, che si caratterizza per un maggiore potenziale di learning) e l (low-tec). Dato il prezzo relativo p dei due beni, Lucas mostra che se nel paese A H h / H l > p quest’ultimo si specializzerà nella produzione del bene hightec e il paese B in quella del bene lowtec. Il paese A percorre quindi curve di apprendimento più dinamiche, di conseguenza cresce a un tasso più elevato rispetto a B. La specializzazione iniziale è rafforzata nel lungo periodo dalla dinamica dell’accumulazione perché il paese A sta accumulando più esperienza nella produzione del bene high-tec rispetto al paese B. Il paese A tende pertanto a incrementare il proprio vantaggio competitivo. Si crea quindi un feedback positivo tra 36 specializzazione e crescita che può dar luogo, a seconda dei casi, a tassi di crescita divergenti. Il modello di Lucas non specifica gli aspetti microeconomici della accumulazione di conoscenze ma si limita a assumere la presenza di esternalità prodotte dall’apprendimento. Altri modelli come quello di Stokey contengono invece una analisi micro. Stokey, per esempio, ipotizza che la crescita della produzione di ciascun bene produca spillovers a vantaggio di tutti i beni prodotti nell’economia. Tali spillovers sono però tanto più forti tanto maggiore è il livello di sofisticazione tecnologica di ciascun prodotto. Nel tempo i costi di questi prodotti si riducono maggiormente e i prodotti a basso contenuto tecnologico tendono ad essere sostituiti e a uscire dal mercato. Uno degli scenari ipotizzati da Stokey introduce un settore tradizionale caratterizzato dall’assenza di apprendimento (per esempio il settore agricolo). In questo caso l’economia può percorrere sentieri di crescita differenti e instabili nel senso che può rimanere intrappolata in un equilibrio di stagnazione in cui viene prodotto solo il bene tradizionale, oppure avviarsi lungo un sentiero di crescita sostenuta in presenza di uno shock esterno di sufficiente entità. Gli effetti dell’integrazione dei mercati Il modello della nuova teoria della crescita suggerisce che il tipo di specializzazione conta nel determinare il tasso di crescita: alcuni beni hanno importanza strategica e la scelta di produzioni high-tec o tradizionali può portare l’economia a percorrere sentieri di crescita differenti. In questo contesto l’apertura al commercio internazionale e l’integrazione in aree economiche più ampie (per esempio quella 37 europea) tendono ad accentuare questi meccanismi cumulativi poiché influiscono sulla specializzazione delle singole aree. Se il tasso di crescita è determinato fondamentalmente dal tasso di accumulazione delle conoscenze e si ipotizza non rivalità nell’uso della conoscenza stessa e alcuni fattori produttivi sono caratterizzati da una limitata mobilità, l’integrazione e il commercio dovrebbero stimolare la crescita. L’integrazione infatti equivale all’unione dei settori di ricerca e sviluppo delle due economie, ciò potrebbe generare un effetto di scala. Il meccanismo è che un ampliamento del numero dei ricercatori riduce il costo pro capite della produzione di conoscenze (per esempio attenuando i problemi di ridondanza o perché amplia il pool di conoscenze dalle quali i ricercatori possono attingere) accrescendo quindi il tasso di crescita di entrambe le economie. L’ipotesi sottostante è che la conoscenza fondamentale sia un bene pubblico nell’economia integrata. L’integrazione dei mercati genera un ulteriore effetto di scala che, a sua volta, può ripercuotersi sul tasso di crescita. Nel caso esaminato da Rivera-Batiz e Romer7 l’allargamento del mercato dei consumatori è esattamente compensato da un aumento del numero di produttori e quindi da una maggiore concorrenza. Questi due effetti si compensano esattamente se ad integrarsi sono due economie identiche, l’allargamento del mercato crea maggiori opportunità di profitto ma l’aumento della competizione tende a ridurle. Il discorso cambia considerevolmente se le due economie si differenziano per capacità innovativa e gli spillovers sono locali. Questo è il caso analizzato da Feenstra8 il quale mostra come la situazione competitiva dell’economia 7 Rivera-Batiz, Paul Romer: “International Trade with endogenous technical change”, European Economic Review, 1990 8 Robert C. Feenstra: “Integration of trade and disintegration of production in the global economy”, Journal of Monetary Economics, 1998 38 con minore capacità innovativa peggiori nel tempo perché la competizione cresce nel mercato dei beni ma i costi dell’attività innovativa decrescono meno rapidamente. La conseguente riduzione dei profitti per le imprese causa, a sua volta, una riduzione dell’attività innovativa e del tasso di crescita dell’economia. Interazione fra ricerca e apprendimento Una strategia di sviluppo della conoscenza comporta, d’altro canto, l’attribuzione di un ruolo privilegiato alla ricerca e all’adozione di misure tese a stimolare la localizzazione di industrie di questo tipo, relegando in un ruolo secondario l’apprendimento nelle produzioni locali. Come si è detto in precedenza un’ipotesi ricorrente nei modelli di crescita endogena è che la crescita è il risultato dell’interazione di entrambi. Da un lato la ricerca introduce nell’economia nuovi prodotti e crea nuove opportunità di apprendimento ma beneficia anche dalle soluzioni tecniche generate da quest’ultimo. Si pone pertanto il problema del corretto mix di questi due elementi. L’ipotesi di fertilizzazione reciproca da luogo ad una relazione concava prima crescente e poi decrescente fra ricerca e tasso di crescita nel senso che, fino ad una certa soglia, un aumento delle risorse destinate alla ricerca produce un incremento del tasso di crescita ma al di là di essa la relazione si inverte. Ciò dipende dal fatto che un eccesso di ricerca ed una troppo rapida introduzione di nuovi prodotti a spese dell’apprendimento su quelli esistenti finisce per isterilire la ricerca stessa privandola degli inputs provenienti dall’esperienza nella produzione. 39 Un caso di questo tipo è stato studiato da Alwyn Young9 in un’analisi comparativa della crescita di Hong Kong e Singapore da cui emerge una conclusione particolarmente utile per meglio comprendere questo argomento: entrambi i paesi hanno registrato tassi di crescita molto elevati ma con caratteristiche assai diverse. Nel caso di Hong Kong la crescita è spiegata soprattutto dall’aumento della produttività, favorito da una buona dotazione di capitale umano e da un’elevata dinamica dell’apprendimento, mentre a Singapore il fattore determinante è stato l’accumulazione di capitale con una sostanziale stagnazione della total factor productivity. Young spiega questa differenza con il fatto che il governo di Singapore ha attuato una politica di sostegno degli investimenti esteri incoraggiando la rapida introduzione di nuovi settori e trascurando l’apprendimento nelle imprese locali. Gli effetti di lungo periodo possono essere molto diversi da quelli attesi. Una sostenuta accumulazione di capitale senza un parallelo aumento della produttività comporta nel lungo periodo una progressiva riduzione della produttività del capitale e, in definitiva, una riduzione dell’incentivo ad investire con conseguente riduzione del tasso di crescita. In termini d’interazione fra ricerca e apprendimento questo effetto opera nel modo seguente: la ricerca porta all’introduzione di nuovi prodotti ma il costo di produzione di un nuovo prodotto dipende dall’esperienza maturata in precedenza. Young assume che il costo sia tanto più elevato quanto maggiore è la distanza tecnologica tra il nuovo prodotto e l’esperienza accumulata nell’economia. 9 Alwyn Young: “The tyranny of numbers: confronting the statistical realities of the East Asian growth experience”, marzo 1994, http://www.nber.org/papers/w4680 40 Figura 12 Interazione fra ricerca ed apprendimento. Quest’ipotesi è rappresentata graficamente nella Fig12. Nell’economia si producono diversi beni ordinati da destra verso sinistra in base al livello tecnologico S. La curva discendente rappresenta il costo di produzione in termini di lavoro (nell’economia non c’è capitale) di ciascuno di essi. L’ipotesi che l’apprendimento sia bounded fa sì che per ogni tecnologia l’esperienza accumulata riduca i costi, ma fino ad un limite inferiore oltre il quale essi smettono di ridursi. Ipotizziamo che in un determinato momento l’economia abbia accumulato un’esperienza misurata dal parametro T. Tutti i beni di livello tecnologico S<T hanno esaurito le possibilità di apprendimento mentre il contrario accade per S>T. Via via che si accumula esperienza produttiva nell’economia un numero crescente di beni raggiunge il limite inferiore. La curva crescente rappresenta il costo di produzione di un nuovo bene. Quando l’economia ha accumulato l’esperienza T, introdurre un’innovazione comporta un costo di poco superiore a TA se l’innovazione presenta un livello di sofisticazione S molto vicino all’esperienza accumulata, ma molto maggiore se, se ne allontana. 41 Consideriamo ora due economie che hanno raggiunto differenti livelli di esperienza T e T’. Si potrebbe ipotizzare, come fa Young per i casi di Hong Kong e Singapore, che una di esse abbia perseguito una strategia di ricerca puntando ad attrarre industrie innovative mentre la seconda abbia attribuito maggiore rilevanza all’accumulazione di esperienza nelle industrie esistenti. L’introduzione della stessa innovazione N comporta costi differenti per le due economie ovvero maggiori per quella che ha accumulato minore esperienza. L’innovazione ed il progresso economico dipendono quindi crucialmente dall’apprendimento perché, in assenza di una crescita parallela di entrambi, i nuovi prodotti hanno costi troppo alti e risultano non profittevoli. Facendo seguito alle teorie economiche sia di tipo tradizionalista (neoclassico) sia legate alla “New Growth Theory” (Nuova Teoria della Crescita), possiamo affermare che a tutt'oggi l’economica basata sullo sviluppo della conoscenza (Knowledge driver Economy) è considerata come uno dei più importanti fattori di crescita economica della società e del suo sapere. La cultura della conoscenza è un fattore essenziale per l'innovazione e la crescita tecnologica. In contrasto la mancanza di capacità tecnologiche allontana ancora di più dalla cultura della conoscenza. Come abbiamo visto in precedenza, in ogni caso una forza lavoro colta non traduce automaticamente il sapere in innovazione tecnologica e sviluppo economico. Il processo che porta alla cultura della conoscenza non è semplice, ma è un insieme di conoscenza, apprendimento ed esperienza. Questo vuole ricordare che per arrivare ad un'organizzazione della cultura della conoscenza non serve solo un sistema istruttivo organizzato, bensì una rete d'organizzazioni che apportano il loro contributo di conoscenza ed esperienza. Come vedremo in seguito, la 42 conoscenza e l'esperienza possono essere così tradotte nel Capitale Umano ovvero la somma di tutti coloro che tramite lo scambio reciproco d'informazioni riescono ad apprendere e risolvere in minor tempo ogni tipo di situazione. L'apprendimento è un'attività umana innata. La crescita della conoscenza è un risultato dell'apprendimento in funzione dello sviluppo e l'esperienza gioca un ruolo molto importante nell'acquisizione della conoscenza. L'organizzazione della cultura della conoscenza dipende molto dal contributo del capitale intellettuale che crea e sviluppa un vantaggio competitivo notevole nell'economia. L'introduzione della tecnologia dell'informazione ha portato ad un allargamento della cultura della conoscenza ed ad un rapido mutamento dei modelli d'apprendimento. Promuovere la cultura della conoscenza con la costruzione di un sistema (network) basato sullo scambio ragionato e strutturato delle informazioni (conoscenze) è l'inizio di una rivoluzione del sistema dell'apprendimento tradizionale che non viene più supportato da schemi rigidi di istruzione. cultura della conoscenza come modello La diffusione della d'apprendimento ed insegnamento pone le basi per un allargamento dei concetti di capitale intellettuale. che è la risorsa principale e che non viene in nessun modo consumata, bensì rinnovata ed aumentata. Rinnovata dal continuo scambio d'informazioni che raffinano il sistema della cultura della conoscenza, aumentata in relazione al ricambio ed implementazione delle informazioni che sono scambiate tramite la trasformazione delle esperienze. Tutto ciò porta il sistema economico ad un'auto apprendimento e più l'anello delle relazioni si allarga coinvolgendo un sempre maggiore numero d'organizzazioni, più il sistema si supporta da sé, mantenendo 43 alto ed accrescendo il livello di cultura, così ponendo le basi per la crescita economica, tecnologica e intellettuale. Nell'ottica delle organizzazioni, come vedremo nella sezione successiva, ciò che più conta in definitiva è il capitale umano che si traduce in capitale intellettuale. La valorizzazione del capitale umano avviene attraverso il meccanismo della distribuzione della cultura della conoscenza ed il libero scambio d'informazioni e la trasformazione dell'esperienza in cultura della conoscenza portano verso la creazione di un’economia della conoscenza. Investimento nella conoscenza: la base della crescita a lungo termine? Sebbene la spesa per investimenti in beni materiali sia importante, l'investimento immateriale nella ricerca e sviluppo, nell'istruzione e nella tecnologia dell'informazione sta diventando perfino più rilevante per lo sviluppo economico. La crescita a lungo termine, quindi, è attribuibile non solo ad un incremento nello stock di capitale fisso, ma anche ed in maniera sempre più significativa ai progressi tecnici dell'impiego del capitale e del lavoro. informatica, l'investimento nel che aumentano l'efficienza Inoltre, con la rivoluzione progresso tecnologico diventerà probabilmente ancora più importante nell'economia del futuro basata sulla conoscenza. Pertanto, è indispensabile riesaminare l'entità dell'investimento nella conoscenza e nel capitale. 44 Una dotazione infrastrutturale adeguata è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per lo sviluppo economico e la competitività di un sistema ed è un fattore importante nel determinare sia la localizzazione territoriale dell'attività economica sia i tipi di attività o settori che si svilupperanno. La competitività di un'economia dipende, come notato in precedenza, non solo dal suo capitale fisico, ma anche dalla conoscenza che possiedono i suoi imprenditori e lavoratori. Efficaci sistemi d'istruzione e formazione sono perciò importanti per aumentare la produttività e favorire la crescita economica. In Europa, per esempio, esistono tuttavia differenze assai marcate nell'istruzione e nella formazione. L'istruzione e la formazione continua sono essenziali sia per le prospettive occupazionali degli individui sia per mantenere la competitività di un'economia moderna. Al giorno d'oggi, è ampiamente accettato che l'abilità delle economie di sostenere la competizione e adattarsi al cambiamento tecnico è collegata alla loro capacità di innovazione. Questo, ovviamente, non è un fatto nuovo, ma la crescente importanza della conoscenza, in confronto alle risorse naturali, al capitale fisico e all'offerta di manodopera, nel determinare i risultati economici colloca la tecnologia e l'innovazione tra le priorità dello sviluppo. La comprensione del processo attraverso cui la tecnologia e l'innovazione incidono sullo sviluppo si è evoluta nel tempo. Anziché considerare l'innovazione come un processo lineare dalla ricerca di base al successo commerciale, è emerso un modello più interattivo, che riconosce l'importanza dell'ambiente in cui le aziende, e in particolare le PMI, operano. In effetti, essendo prive della struttura funzionale articolata delle grandi aziende, le PMI devono affidarsi maggiormente a 45 capacità esterne alla società. In questo ambito, l’innovazione non dipende più unicamente dal modo in cui operano le imprese, le università, i centri di ricerca e i legislatori, ma, in misura crescente, da come i vari soggetti lavorano insieme. In particolare, pare indispensabile l’aumento della capacità delle aziende di assorbire nuove tecnologie e know how sviluppati altrove; la capacità delle forze di lavoro di utilizzare questa tecnologia e di adattarsi alle nuove prassi; lo spirito imprenditoriale per ricercare nuove opportunità di mercato; la disponibilità di capitale di rischio per l'innovazione. La Gestione della Conoscenza Gestire la conoscenza significa saper gestire, la propria conoscenza interna e saperla distribuire/condividere con l'esterno allo scopo di stimolare la creatività per crearne di nuova che a catena porta all'innovazione e, quindi, alla crescita. Per evitare che si attui un radicale cambiamento (sconsigliato perché solitamente non risulta mai veramente efficace, come abbiamo visto nel precedente paragrafo) è raccomandabile considerare da subito il Knowledge Management come una funzione di sviluppo e gestione delle risorse relative, inizialmente, alle conoscenze tangibili (attività di ricerca e sviluppo, brevetti, database dei clienti, dei fornitori e dei concorrenti) e, successivamente, alle conoscenze intangibili (skills, esperienze, competenze delle persone inserite nell'organizzazione). Per rendere la conoscenza una risorsa chiave all'interno della catena del valore è necessario che questa sia formalizzata, distribuita e applicata. È stato ormai appurato che la rete globale computerizzata è un forte 46 catalizzatore per la distribuzione della conoscenza. Con il supporto di tale rete (Internet) le organizzazioni di nuova e vecchia generazione dovrebbero costruire dei "magazzini" della conoscenza strutturati in modo tale da poter organizzare e gestire: - Dati relazionali. - Modelli: creando una struttura onnicomprensiva di tutti gli affari, avvenimenti aziendali. - Avvenimenti: ricavando conoscenza dall'esperienza dei singoli, da eventi e dalla risoluzione di singoli problemi. - Routine: cercando di immagazzinare attraverso conoscenza compilata quell'insieme di abitudini e consuetudini che persone esperte spesso usano per risolvere problemi complessi. Un compito che appare non facile, è determinare la tecnologia corretta per immagazzinare e gestire la conoscenza, persuadere il personale a contribuire allo sviluppo del recipiente e creare una struttura adeguata per trattenere la conoscenza: Quella che si può definire come la regola primaria del Knowledge Management, specifica che un'organizzazione deve saper organizzare, distribuire e creare conoscenza. La funzione del Knowledge Management è quella di far collaborare su base paritaria la tecnologia con la cultura e i processi aziendali, utilizzando la prima come veicolo per gestire e per far giungere le informazioni e le conoscenze dell'intera azienda ai singoli lavoratori. Questo patrimonio include i database, i documenti, le procedure (conoscenza esplicita) ma anche le competenze e l'esperienza (conoscenza tacita) presente nella testa di ciascun lavoratore. 47 Le organizzazioni più sensibili alle sfide poste dalla competizione globale hanno da tempo riconosciuto la valenza strategica della conoscenza e quotidianamente si stanno impegnando per individuare, incapsulare, mappare, distribuire e sfruttare questa risorsa, tipicamente umana, trasferendola dalle persone alle strutture organizzative per utilizzarla come leva d'azione che permetta a queste di acquisire dei vantaggi competitivi. Il fenomeno Globalizzazione sta delineando un mondo di informazione concentrata, dove la conoscenza vale come se non di più delle macchine e dei mezzi di investimento, in cui la cultura e la comunicazione, la fiducia e le relazioni risultano essere voci importanti delle politiche e delle strategie d'impresa. In quest'ottica, non solo cresce la quantità di informazione/conoscenza prodotta ma anche la domanda di sistemi in grado di gestirla adeguatamente. Un'organizzazione può facilmente far circolare la conoscenza al suo interno attraverso il semplice utilizzo di una piattaforma di ICT (Information-Communication-Technology) orientata alla gestione per processi. Per rendere la condivisione della conoscenza un'azione volontaria è necessario creare i presupposti giusti, infondendo ai singoli una cultura organizzativa che renda spontanea la diffusione del proprio know-how. Il Knowledge Management richiede acquisizione, creazione, circolazione, memorizzazione e diffusione della conoscenza. Un programma di Knowledge Management necessita quindi di: - Un piano graduale che sia insieme specifico e generale. 48 - Un’infrastruttura tecnologica. - Un forte coinvolgimento delle persone. - Una sponsorship decisa e visibile del top management. Come abbiamo potuto vedere, la conoscenza è stata al centro degli interessi analitici sin dall’inizio della civiltà10 ed è tuttora un concetto difficile da definire in maniera sintetica. Aristotele la distinse in: - Epistèmè: conoscenza universale e teorica; - Technè: conoscenza strumentale, relativa a contesti specifici e pratici; - Phronesis: conoscenza normativa, basata sull’esperienza, relativa a contesti specifici, diffusa e condivisa. Il metodo utilizzato da Aristotele, di classificare la conoscenza in base ai suoi diversi elementi, è tuttora valido e di grande aiuto, per comprendere le interdipendenze che esistono realmente tra conoscenza, ricerca scientifica e sistemi tecnologici, metodi formativi ed esperienza operativa professionalizzante. Nel 1994 B. Å. Lundvall e B. Johnson ripresero la classificazione classica della conoscenza attualizzandola. Suddivisero la conoscenza in quattro categorie: - Know what Questo elemento della conoscenza riguarda il possesso delle informazioni ovvero la conoscenza dei “fatti”; è informazione. Può essere trasmessa con i dati e disseminata con l’ausilio delle banche dei dati. 10 Centre for Educational Research and Innovation, 2000, p. 15 49 - Know why Questo elemento della conoscenza riguarda i principi e le leggi che governano la natura, la mente umana e la società. È la conoscenza teorica che è fattore molto importante per lo sviluppo tecnologico in certe aree del sapere scientifico. L’accesso a questa tipologia della conoscenza permette di procedere con minori difficoltà nei percorsi di innovazione produttiva e di ridurre la frequenza degli errori di procedura. - Know how Questo elemento della conoscenza riguarda le capacità professionali ovvero la capacità di fare qualcosa. Si riferisce alle competenze11 dei lavoratori ed è una conoscenza essenziale nei processi produttivi. Le imprese valutano la forza lavoro in base alle competenze, tenendo conto delle difficoltà che possono sorgere nella loro sostituzione e stimando il valore aggiunto che portano al processo produttivo. “La forza lavoro è, pertanto, distinta nel modo seguente: - facile da sostituire e a basso valore aggiunto. È la manodopera non specializzata e semi-specializzata. Le imprese possono avere bisogno di queste persone, magari anche in gran numero, ma la loro competitività non dipende da queste competenze. Un individuo vale quanto un altro. Il tempo della formazione è generalmente breve. Hanno capacità professionali facilmente reperibili nei mercati del lavoro locali. - difficile da sostituire e a basso valore aggiunto. Sono le persone che hanno appreso mansioni complicate ma non decisive ed essenziali per 11 Il concetto di competenza si è sviluppato per meglio rappresentare le capacità produttive accumulate dagli individui. La competenza è data dalla formazione esplicita acquisita (formazione iniziale e continua) e dalla formazione ottenuta sul posto di lavoro (informale o parzialmente formalizzata, certificata o non certificata) e dall’apprendimento sociale. La nozione di competenza vuole migliorare la definizione di capitale umano degli individui, tenendo conto del suo impiego nei posti di lavoro o in posizioni particolari e della sua efficacia nell’attività produttiva (J. Planas, J. F. Giret, G. Sala, J. Vincens, 2000, p. 16). 50 caratterizzare un’impresa. È manodopera difficile da sostituire che svolge mansioni importanti, ma non decisive, nella catena del valore; - facile da sostituire e ad alto valore aggiunto. È manodopera che svolge mansioni rilevanti per determinare la customer satisfaction, tuttavia sono facilmente sostituibili come persone. Le loro abilità professionali producono un “effetto leva” per la competitività dell’impresa; - difficili da sostituire e ad alto valore aggiunto. Sono il “capitale umano” di un’impresa perché il loro talento e la loro esperienza portano l’impresa a produrre beni e servizi particolari e unici. I clienti si rivolgono a tale impresa per questo motivo. Questi lavoratori hanno “competenze strategiche” che rientrano nel patrimonio dell’impresa. La “ricchezza”dell’impresa è data da questi lavoratori, mentre gli altri rientrano tra i costi, necessari da sostenere, per realizzare la produzione dei beni e dei servizi. Le persone difficili da sostituire e ad alto valore aggiunto sono i cosiddetti lavoratori della conoscenza (knowledge workers)”12. - Know who. Questo elemento della conoscenza sta diventando sempre più rilevante, perché richiede la capacità di reperire informazioni su chi ha le informazioni e su chi sa cosa fare per trovare la soluzione a nuovi problemi e ciò implica un’abilità relazionale di cooperazione e di comunicazione con soggetti diversi e con esperti di aree differenti. Le quattro categorie citate della conoscenza dimostrano che l’informazione è uno degli elementi, ma non si identifica con essa. La conoscenza è qualche cosa di più dell’informazione. La conoscenza differisce dall’informazione perché è in grado di produrre nuova conoscenza e nuova informazione. 12 M. Porter :“La catena del valore” 1985. 51 È capacità di apprendere ed è “capacità cognitiva” mentre l’informazione è invece un insieme di dati strutturati e resi formali che non possono creare nuova informazione. Se la conoscenza è una capacità intellettuale e interattiva, ne deriva che la riproduzione della conoscenza e quella dell’informazione seguono processi completamente diversi13. Nel primo caso, la riproduzione avviene con la pratica, con l’apprendimento e con il coinvolgimento intellettuale ed emotivo mentre nel secondo caso avviene con una semplice duplicazione. La conoscenza e l’apprendimento sono quindi in grado di produrre nuova conoscenza mentre ciò non avviene con l’informazione. L’innovazione è “nuova creazione” che ha valore economico perché è utilizzata da un’organizzazione produttiva; è l’output della conoscenza e dell’apprendimento. Un processo innovativo incorpora quindi forme differenti di conoscenza e di apprendimento. Gli economisti, secondo la nuova teoria della crescita – come abbiamo visto nei precedenti paragrafi – considerano la conoscenza una variabile di stock. variabile di flusso14. L’apprendimento è invece una Il processo di accumulazione della conoscenza avviene pertanto con l’apprendimento. L’apprendimento è quindi il risultato della disseminazione della conoscenza accumulata nel tempo e la produzione di “nuova conoscenza”. L’apprendimento è un processo d’interiorizzazione e di sviluppo di capacità di utilizzo dei saperi codificati; è il riconoscimento e l’acquisizione dei saperi taciti; è il superamento della distinzione tra la conoscenza e l’esperienza. L’output dell’apprendimento sono le competenze professionali sia dei singoli individui sia delle organizzazioni in generale. 13 14 D. Foray, 2000, p. 9 OECD, 2001, p. 13 52 L’apprendimento individuale si trasforma quindi in competenza solo se vi è la capacità e la possibilità di utilizzarlo, solo se il suo fine è sinergico, solo se la conoscenza delle reciproche utilità consente un miglioramento del processo produttivo, solo se genera un vantaggio effettivo all’impresa15. Nella teoria economica vi sono contributi che spiegano il legame esistente tra l’apprendimento individuale e il processo di formazione delle competenze professionali. Un apporto rilevante è quello del “learning by doing” di Arrow.16 La formazione è un modo di lavorare in cui la produzione di valore non avviene tramite l’applicazione di sapere appreso in precedenza, che ci si limita a replicare e a usare, ma richiede una rielaborazione attiva, una trasformazione generativa di quanto un individuo sa. M. Costa sostiene che “la formazione continua è, insomma, un modo di lavorare in cui il valore viene prodotto più dall’esplorazione che dalla routine, più dalla generazione di nuove conoscenze metodologiche che dall’ottimizzazione di quelle già note e collaudate”17. In altri termini, si tratta di gestire un processo d’apprendimento organizzativo ovvero una learning organization che genera conoscenza, intesa come action knowledge. Le competenze professionali dei lavoratori, inserite in un’organizzazione intelligente che permette di agire per creare nuova conoscenza, valorizzano i diversi elementi del capitale intellettuale di un’impresa. La Fig.13 evidenza la composizione del capitale intellettuale delle imprese (prima colonna), la conoscenza accumulata nel tempo (seconda colonna) ed i possibili processi d’apprendimento e di conoscenza (terza colonna). 15 U. Cappucci, 2000, http://www.dise.unisa.it/AIEL/Messina/livraghi.pdf K.J. Arrow, 1962 17 M. Costa, 2002, p. 56 16 53 creazione di nuova In sintesi, la creazione di nuova conoscenza dipende dalla capacità di valorizzare la conoscenza esplicita e tacita degli individui e di generare una struttura organizzativa che favorisce la capacità relazionale e la cooperazione, all’interno e all’esterno, dell’impresa. Figura 13 Capitale intellettuale, apprendimento e creazione di nuova conoscenza. 54 L’importanza del capitale intellettuale Negli ultimi anni l’attenzione per le tematiche legate al ruolo delle risorse intangibili con riferimento all’economia sia aziendale che macroeconomica appare in vertiginosa crescita. Una numerosa serie di fattori ha contribuito alla progressiva focalizzazione dell’attenzione collettiva sugli “Intangibles”, quali: - L’emergere e l’affermarsi della cosiddetta Economia della conoscenza. - L’attenzione crescente per driver della creazione di valore d’impresa. - La sempre maggiore rilevanza del capitale umano, specie se di elevata specializzazione. - La diffusa accettazione a questo punto di innovative tecniche di “Knowledge Management”. È innegabile ormai che l’economia mondiale sta attraversando un processo di trasformazione per effetto del quale le nuove tipologie di azienda presentano dei rapporti di contabilità finanziaria che non concordano più coi reali valori di mercato. Queste nuove organizzazioni, costruite sulla conoscenza, sono costituite nella loro essenza da beni intangibili, che rappresentano il punto di partenza della grande sfida per stabilire teorie in grado di sostenere modelli di misurazione ed evidenziazione dei valori di mercato di un’impresa. Le attività immateriali divengono sempre più fattori decisivi per la differenziazione di società dell’economia moderna. Nel 1982, secondo uno studio condotto dal Bookings Institute, “i valori contabili delle attività materiali rappresentavano il 62% del valore di mercato. 55 Nel 1995 tale rapporto era sceso al 38%. Una ricerca condotta nel gennaio 2000 dal Prof. Baruch Levy della New York University, ipotizzava una contrazione di tale percentuale al 10 – 15%. Alla fine del 1999, il valore contabile di AOL rappresentava solo il 3% della capitalizzazione di mercato, mentre quello di Coca Cola si attestava al 7,9%”.18 Beni Intangibili Anche nel mondo aziendale si considera ormai come necessario il valore delle imprese che è composto da capitale umano come fonte di conoscenza, esperienza ed innovazione. Si tratta del valore della qualità intrinseca con cui una persona o un gruppo di persone generano un bene e/o servizio, o meglio la valorizzazione della capacità umana di trasformare il sapere in “merce di scambio”. In questo modo il vantaggio competitivo, basato storicamente su fattori materiali (scorte, costo di produzione, ecc.), passa ad essere definito anche sulla base della valutazione ed identificazione dei beni immateriali (marchi e brevetti – innovazione, soddisfazione del cliente, risorse umane, ecc.). Sono sempre più numerosi i ricercatori che riconoscono il valore dei beni immateriali come il punto di forza di ogni organizzazione che voglia mantenersi competitiva sul mercato. Il bene intangibile di maggior interesse sia da un punto di vista manageriale sia dal lato dei metodi di misurazione e valorizzazione è senza alcun dubbio il Capitale Intellettuale. Nella letteratura il Capitale Intellettuale viene definito come “la somma della conoscenza di tutte le risorse di un’organizzazione, la quale può 18 William Spinetti, “Capitale Umano e formazione” Roma, 2001, http://www.spinetti.it/formazione 56 disporre di un vantaggio competitivo rappresentato dalla materia intellettuale che si compone di informazioni, competenze ed esperienze utilizzate per generare ricchezza”.19 Il Capitale Intellettuale ha una forte influenza sull’origine degli altri beni intangibili come il Goodwill (fondo di commercio di un’azienda) e i Marchi (la capacità innovativa di un’impresa), che creano valore per il cliente e di dell’organizzazione. conseguenza elevano il valore patrimoniale Generalmente si è soliti classificare il Capitale Intellettuale in tre raggruppamenti secondo il modello di Hubert SanOnge: - Capitale Umano: non si può bene definire cosa sia realmente il Capitale Umano senza sviluppare un esteso discorso socio-economico e psicologico, ma senz’altro si può dire che esso rappresenta lo strumento creativo del Bene/Servizio Organizzativo. Spesso il Capitale Umano viene definito come la fonte dell’innovazione, ossia la fonte che alimenta ogni funzione organizzativa. Il capitale umano è riconosciuto come uno di più grandi beni immateriali in un'organizzazione. È il capitale che in una realtà organizzativa fornisce i beni o i servizi che i clienti richiedono o che riesce a portare le soluzioni ai loro problemi. Il capitale umano include la conoscenza, la competenza, l'esperienza, le abilità ed i talenti collettivi della gente all'interno di un'organizzazione, ma anche la creatività a la capacità d’innovazione. - Capitale Strutturale: si tratta delle tecnologie, delle invenzioni, delle pubblicazioni e dei processi, che possono essere brevettati, avere i loro 19 L.J. Cavalli: “La convergenza del Knowledge Management e dell’e-Learning”, Roma 2000. 57 diritti d’autore registrati o essere protetti da leggi commerciali. Si tratta, dunque, di un gruppo di conoscenze appartenenti all’impresa nella sua totalità, riproducibile e condivisibile attraverso diritti legali di proprietà. Il capitale strutturale è l'infrastruttura di appoggio per il capitale umano. Si riferisce spesso al capitale strutturale come il capitale che rimane in un'organizzazione quando gli impiegati vanno a casa alla sera. Esso consiste nelle risorse e nell'infrastruttura di sostegno di un sistema economico, come per esempio i processi, le invenzioni, le pubblicazioni e i copyrights. Diverso dal capitale umano, il capitale strutturale è proprietà dell'azienda e può essere commerciato, riprodotto e ripartito. - Capitale del Cliente: gli indicatori del capitale del cliente sono rappresentati dagli indici di ritenuta, redditività e soddisfazione del cliente, ecc. Il capitale relazionale contiene non soltanto i rapporti con i clienti ma anche i rapporti dell'organizzazione con la relativa rete dei fornitori, così come la relativa rete dei soci e degli stakeholders. Il valore di tali beni soprattutto è influenzato dall'immagine o dalla reputazione dell’organizzazione. Ciò che appare come una difficile sfida è la valutazione e la misurazione del Capitale Intellettuale di un’organizzazione che potendo offrire un forte peso sul valore complessivo dell’impresa necessita sempre di più un accurata quantificazione. Attualmente esistono almeno 6 metodologie d’analisi del Capitale Intellettuale che vengono utilizzate: - Differenza tra il Valore di Mercato e il Valore Contabile; 58 - “Q” di Tobin; - Navigatore del Capitale Intellettuale; - Modello di Edvinsson & Malone (Modello Skandia); - Modello di Sveiby; - Modello delle BSC (Balanced ScoreCards). Non potendo entrare in questa sede in dettaglio per ogni tipo di metodologia di valutazione, ci limitiamo riconoscere che il sistema più frequentemente utilizzato è quello delle BSC (Balanced ScoreCards), in quanto “forniscono una cornice e una metodologia per fare emergere fattori di incremento del valore che consentono di prevedere, con una certa precisione, quali provvedimenti adottare per migliorare le attività intangibili che contribuiranno effettivamente ad un aumento del valore societario e, in ultima analisi, del prezzo delle azione”20. Tenendo presenti le teorie espresse nei precedenti paragrafi, possiamo dire che nell’economia della conoscenza la creazione di valore avviene per il tramite del capitale intellettuale. Quest’ultimo è composto da: - Competenze (skills) - Conoscenze - Processi Per meglio comprendere l’integrazione tra conoscenza (Knowledge) e processo di apprendimento che porta al processo virtuoso di creazione di conoscenza dalla conoscenza stessa, risulta molto utile ricorrere ad 20 J. Marini: “Balanced ScoreCards” Tesi di Laurea Facoltà di Economia di Torino, 2001. 59 alcune definizioni che consentono di evidenziare gli ambiti comuni di intervento del knowledge management e dell’apprendimento.21 La conoscenza o knowledge è: - L’utilizzo efficiente dei dati e delle informazioni insieme alle potenziali capacità e competenze, idee, intuizioni, esperienze, commenti e motivazioni delle persone - Il processo di comprensione dei dati e delle informazioni ed il processo di trasformazione della conoscenza tacita in conoscenza esplicita riutilizzabile - La consapevolezza, la coscienza acquisita nel tempo e nello spazio che deriva da un processo continuo di apprendimento basato sull’acquisizione di nozioni sul piano logico e dell’esperienza L’apprendimento o learning è: - L’acquisizione di conoscenza e di comprensione attraverso l’esperienza e lo studio - L’atto, il processo o l’esperienza di acquisizione di conoscenza e competenze - L’acquisizione di conoscenze e/o esperienze pregresse attraverso (le learning experiences): Formazione (training) Educazione Sviluppo Il processo di creazione e di utilizzo della conoscenza (Fig.14) può essere rappresentato, quindi, come un processo dinamico di apprendimento 21 D. Foray: “L’économie de la Connaissance”, Pari, La Découverte, 2000. 60 della conoscenza esplicita e di cattura e formalizzazione della conoscenza tacita in conoscenza esplicita. Un efficiente gestione della conoscenza ovvero un efficiente sistema di knowledge management, infatti, si realizza apprendimento. anche attraverso un efficiente processo di Si potrebbe affermare, in altre parole, che non si conosce se non si apprende e non si apprende se non si conosce. Figura 14 Il Processo di creazione ed utilizzo della conoscenza. Si evidenzia molto bene come esistono importanti elementi in comune nel processo di gestione della conoscenza e nel processo di apprendimento. In particolare i contenuti gestiti attraverso i sistemi di knowledge management e i contenuti appresi attraverso l’utilizzo dei sistemi di apprendimento possono essere gli stessi. 61 “Knowledge objects” e “learning objects” I Knowledge Objects sono elementi di informazione, digitale e non, che vengono utilizzati come elementi costitutivi per un sistema di knowledge management. Alcuni esempi sono rappresentati da: azioni, dati di fatto, concetti, regole, procedure, processi ecc. I Learning Objects sono entità, digitale e non, che possono essere reutilizzati o consultati durante un supportato dalla tecnologia (e-learning). processo di apprendimento In altre parole un learning object è una entità minima di apprendimento con la caratteristica di essere autonoma e quindi riutilizzabile in diversi percorsi formativi. Un knowledge object può rapprestare un elemento di un learning object; un knowledge object può diventare un learning object attraverso la sperimentazione ossia l’interazione e l’utilizzo nel workflow quotidiano. L’apprendimento, infatti, è il risultato dell’unione di elementi informativi (knowledge objects) con l’interazione degli individui nell’ambito del processo organizzativo. Figura 15 Processo di Learning 62 L’obiettivo comune del knowledge management e dell’e-learning dunque è quello di rendere disponibile il capitale intellettuale per i processi produttivi e di accrescerlo alimentandolo con la crescita medesima del sistema economico. Posto che il knowledge management e l’e-learning sono volti alla realizzazione di questi obiettivi, ciò significa interveniere su: - Competenze (skills) - Conoscenze (contenuti) - Processi (interazione) ovvero il capitale intellettuale dell’azienda. Il terreno comune dell’e- learning e del knowledge management non è, quindi, rappresentato solamente dai contenuti conoscitivi che possono divenire contenuti formativi ma anche da tutta una serie di altri elementi, quali le competenze, le capacità e le esperienze delle persone, le modalità di interazione nell’ambito del processo produttivo, ossia da tutti quegli elementi che concorrono a formare il capitale intellettuale di una organizzazione. La convergenza del knowledge management e dell’e-learning consente effettivamente la gestione e lo sviluppo del capitale intellettuale di un’organizzazione 63 Figura 16 Gestione del capitale intellettuale. L’importanza dell’ICT Il settore dell’Informazione e Comunicazione, cioè il mercato complessivo dei servizi e delle produzioni delle ICT - Tecnologie dell'Informazione e della Comunicazione -, viene considerato come il driver dello sviluppo dei primi anni del terzo millennio. Si può stimare che il suo fatturato globale abbia già superato i 1500 miliardi di dollari. Il fatturato delle prime 100 società che operano in questo settore ha superato i 200 miliardi di dollari. rappresenta il 7% del PIL, in Italia il 3.9%. Negli USA Il tasso medio annuo di crescita in Europa delle ICT è pari alI' 8.1%, dimostrando l’elevata flessibilità ed importanza di questo settore nell’economia globale. Il settore dell’ICT Il ruolo del settore della Comunicazione s'intreccia con lo sviluppo dell'economia digitale, e presenta diversi aspetti: quello più "materiale" dei fornitori d'apparecchiature, delle reti e dei servizi di telecomunicazione e informatici, ma anche quello dei fornitori dei “contenuti”. Proprio quest’ultimo aspetto del settore dell’ICT ha determinato negli ultimi anni il forte sviluppo economico e l’integrazione 64 con i concetti di Economia della conoscenza e di Knowledge. Su quest'ultimo aspetto si decidono non solo gli equilibri ed i protagonisti de1l’ICT, ma anche i contenuti che passeranno in quella parte più strumentale che è rappresentata dalle reti, e cioè i film, gli audiovisivi, la musica, l'informazione, i dati e le immagini. Il settore dell’ICT, così come definito dall’OECD nel 1998, “include un insieme d’industrie manifatturiere e di servizi, la cui attività consiste nella raccolta, trasmissione e visualizzazione di dati e informazioni per via elettronica”22. “Il termine new economy viene frequentemente utilizzato per indicare un modello di crescita non inflattivo basato su investimenti ingenti in nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) e sulla riconfigurazione dell’economia conseguente all’emergere di queste tecnologie”23. Spesso il concetto di new economy viene associato all’avvento di Internet e del commercio elettronico, tuttavia gli effetti in termini di commercio e di investimenti riguardano non solo i settori appartenenti al comparto ICT, ma anche i settori manifatturieri e di servizi che utilizzano tali tecnologie. In questo senso, il ruolo dell’ICT può essere valutato in modo completo, analizzando le ricadute di tale fenomeno sull’economia nel suo complesso. La new economy rappresenta un processo di cambiamento strutturale, in quanto la diffusione delle ICT è destinata ad avere un effetto di lungo periodo sul comportamento economico di produttori e consumatori in tutti i settori dell’economia, in termini di produzione, commercio, investimenti e occupazione. 22 23 OECD 2002. OECD, Annual Report 2001b. 65 Con l’avvento della new economy si è assistito ad una progressiva perdita d’importanza dei concetti di geografia, distanza e tempo. I costi di transazione per i consumatori e per le imprese si sono rapidamente ridotti, a causa dell’eliminazione di alcune fasi dell’interazione fra acquirenti e venditori. In questo contesto, l’impatto più significativo si è avuto con lo sviluppo del commercio elettronico, che ha consentito una parziale riduzione delle barriere all’entrata nei diversi mercati. Questo fenomeno ha importanti implicazioni sia a livello d’impresa, poiché le piccole imprese e le multinazionali possono competere nel mercato globale, sia a livello di paese, in quanto i paesi più arretrati hanno l’opportunità di superare alcuni ostacoli, in termini di infrastrutture di trasporto e comunicazione e di risorse, che hanno da sempre limitato il loro potenziale di crescita nel passato. In secondo luogo, all’interno della nuova configurazione dell’economia, le industrie di servizi, soprattutto il settore della finanza e le telecomunicazioni, ma anche la logistica, l’educazione, l’energia e i trasporti hanno sviluppato un ruolo sempre più rilevante, in quanto contribuiscono a creare all’economia mondiale. un’infrastruttura globale di supporto Quest’infrastruttura agevola il progresso e la ristrutturazione delle industrie esistenti e lo sviluppo di nuovi settori. Come abbiamo potuto vedere nei precedenti paragrafi, questa nuova economia è knowledge-based, nel senso che le informazioni e la conoscenza costituiscono le risorse fondamentali per acquisire competitività: rispetto ai tradizionali fattori di produzione - lavoro e capitale - l’informazione e la conoscenza sono meno vincolate al contesto per quanto riguarda le loro capacità di crescita. L’economia moderna basata sulla conoscenza non sostituisce le attività economiche già esistenti, ma cambia progressivamente le modalità e la 66 dimensione spazio-temporali attraverso cui i beni e i servizi sono prodotti e commercializzati all’interno di uno stesso paese e fra paesi diversi. Le applicazioni ICT influenzano in modo significativo la struttura dei costi e la competitività relativa di singole imprese e di interi settori. Inoltre il mercato elettronico consente un accesso più semplice e più diffuso a tecnologie, informazioni e know-how. Questa trasformazione si riflette nella possibilità di recuperare risorse e competenze da ogni parte del mondo, nelle modalità d’integrazione della produzione in orizzonti spazio-temporali differenti, nel modo in cui l’informazione sulla qualità di beni e servizi, sui costi (e sui prezzi) e sui mercati può essere condivisa istantaneamente a livello globale. Il settore ICT appare fra i settori a più elevata crescita in termini di commercio negli ultimi dieci anni, con un tasso di crescita del 98.5%, rispetto al 57.8% di tutta l’industria manifatturiera in generale. Un’analisi dettagliata sulle tipologie di prodotti rivela che le tre categorie che compongono il settore ICT – radio, television and communication equipment; electrical machinery and apparatus; office accounting and computing machinery - sono cresciute in modo sostanziale.24 Categoria industriale ISIC code 90-98 90-98 2423 145,5% 11,9% AND 32 131,2% 11,0% AND 31 100,9% 9,1% PHARMACEUTICALS RADIO, TELEVISION Crescita CAGR COMMUNICATION EQUIPMENT ELECTRICAL MACHINERY APPARATUS, NEC 24 OECD: Stan database: http://www.oecd.org/dataoecd/53/21/1831002.pdf 67 OFFICE, ACCOUNTING AND 30 85,2% 8,0% RUBBER AND PLASTICS PRODUCTS 25 68,9% 6,8% OTHER TRANSPORT EQUIPMENT 35 68,1% 6,7% MEDICAL, PRECISION AND OPTICAL 33 66,2% 6,6% AND 34 62,2% 6,2% CHEMICAL 24 62,1% 6,2% 36 60,8% 6,1% 15-37 57,8% 5,9% 22 56,9% 5,8% 20 52,9% 5,5% 28 52,0% 5,4% CHEMICALS, excluding pharmaceuticals 24ex2423 46,6% 4,9% MACHINERY AND EQUIPMENT, N.E.C. 29 46,0% 4,8% OTHER 26 41,5% 4,4% FOOD PRODUCTS AND BEVERAGES 15 39,8% 4,3% TEXTILES 17 37,0% 4,0% LEATHER, LEATHER PRODUCTS AND 19 29,8% 3,3% COMPUTING MACHINERY INSTRUMENTS, WATCHES AND CLOCKS MOTOR VEHICLES, TRAILERS SEMI-TRAILERS CHEMICALS AND PRODUCTS FURNITURE; MANUFACTURING, N.E.C. TOTAL MANUFACTURING PUBLISHING, REPRODUCTION PRINTING OF AND RECORDED MEDIA WOOD AND PRODUCTS OF WOOD AND CORK FABRICATED METAL PRODUCTS, except machinery and equipment NON-METALLIC MINERAL PRODUCTS 68 FOOTWEAR PAPER AND PAPER PRODUCTS 21 26,3% 3,0% BASIC METALS 27 26,3% 3,0% TOBACCO PRODUCTS 16 24,6% 2,8% 23 -10,5% -1,4% 18 -64,1% -12,0% COKE, REFINED PETROLEUM PRODUCTS AND NUCLEAR FUEL WEARING APPAREL, DRESSING AND DYEING OF FUR Tabella 1 Crescita nelle esportazioni per settore industriale. Il commercio relativo ai servizi legati al settore ICT è cresciuto ancora più rapidamente: fra il 1992 e il 1998, si è passati da 11.6 miliardi di dollari a 28.8 miliardi di dollari per i paesi dell’OECD, con un tasso di crescita del 148%, rispetto a una crescita media del 32% negli altri settori di servizi. La quota del commercio ICT sul commercio totale varia considerevolmente fra paesi: in alcuni - ad esempio Irlanda e Corea del Sud - tale quota supera il 30%, mentre in altri essa rimane inferiore al 10%. La quota media si attesta su un valore di 17%: ciò suggerisce la presenza di differenze significative nelle quote del commercio ICT sul commercio complessivo dei singoli paesi. La percentuale delle esportazioni di servizi legati all’ICT sul totale delle esportazioni di servizi è invece ancora limitata, anche se crescente (dal 2.7% del 1992 al 4% del 1998). Nonostante esista una forte relazione fra l’attività del settore ICT e la velocità del progresso tecnologico, è opportuno sottolineare che l’esistenza di un settore ICT avanzato non necessariamente rappresenta 69 una condizione sufficiente per l’avvio e la sostenibilità di un processo di crescita (anche commerciale) basato sulle nuove tecnologie. Innanzitutto, la presenza in un paese di imprese produttrici di hardware non è così importante per gli utenti quanto la presenza di produttori di software o di fornitori di servizi, i quali rappresentano una risorsa fondamentale sia per le imprese, che necessitano di competenze e consulenza per implementare cambiamenti organizzativi e tecnologici legati all’ICT, sia per i consumatori, che richiedono formazione per migliorare il loro livello di alfabetizzazione informatica. Secondariamente, la produzione di queste tecnologie è fortemente concentrata, a causa delle elevate barriere all’entrata e delle economie di scala che caratterizzano i comparti hardware dell’ICT (soprattutto la produzione di sistemi di telecomunicazioni e hardware informatico): ciò significa che pochi paesi possono beneficiare di un vantaggio competitivo in quest’area. “A riprova del fatto che un settore ICT avanzato non necessariamente è legato ad un’elevata diffusione delle nuove tecnologie, è interessante notare che alcuni paesi, che sono caratterizzati da un alto tasso di investimenti in ICT e da un diffuso utilizzo di tali tecnologie, hanno una produzione di ICT non molto sviluppata. Al contrario, paesi con una produzione di ICT sviluppata non sono fra quelli che hanno registrato la crescita più alta negli anni ‘90. La produzione di ICT rappresenta il 3% del valore aggiunto del settore manifatturiero in Irlanda e il 2% in Finlandia, paesi in cui la produttività è cresciuta notevolmente (fra il 4% e il 5%), ma Australia, Canada e Danimarca hanno registrato una crescita rilevante nella produttività, pur avendo un settore ICT nazionale di dimensioni relativamente ridotte, mentre il Giappone, che 70 può beneficiare di un elevato tasso di produzione nel settore ICT, ha evidenziato una bassa crescita della produttività”25. Da questi dati si può evincere che l’aspetto rilevante non è tanto il commercio in prodotti ICT, ma piuttosto il commercio in beni e servizi resi disponibili dalla diffusione di ICT all’interno dell’economia. Le esportazioni di ICT non rappresentano una condizione sufficiente per il successo commerciale o per la crescita, mentre le importazioni di prodotti ICT appaiono più importanti per le prospettive commerciali di un paese. Gli effetti della diffusione di ICT sul commercio includono sia guadagni di produttività - con le conseguenti ricadute sui prezzi e sui volumi scambiati – sia facilitazioni nel commercio (ad esempio l’utilizzo di mezzi di comunicazione e la semplificazione delle transazioni commerciali). “La Tabella 2 mostra che i paesi in cui la spesa in ICT è aumentata fortemente, sono anche quelli che registrano una forte crescita nel commercio. Tuttavia, l’esempio della Grecia mostra che una spesa elevata in ICT non garantisce un parallelo incremento nel commercio e nelle esportazioni. Inoltre, paesi come il Messico, il Canada e la Spagna, in cui gli investimenti in ICT sono stati nel tempo relativamente bassi, hanno registrato risultati commerciali eccellenti. In generale quindi è possibile affermare che non esiste una relazione precisa fra la posizione dei paesi in termini di spesa ICT e la performance commerciale”26. 25 26 OECD: OECD 2001a, http://www.oecd.org/dataoecd/31/16/2732509.pdf OECD: Fonte OECD 2001 sui dati ICT. 71 Paese Crescita nella Crescita nelle Crescita nel spesa ICT esportazioni commercio di 1992-1999 1993-1999 beni 1993-1999 Turchia Alta Alta Media Grecia Alta Bassa Bassa Portogallo Alta Media Media Polonia Alta Alta Alta Irlanda Alta Alta Alta Finlandia Alta Alta Alta Repubblica Alta Alta Alta Ungheria Alta Alta Alta Norvegia Media Media Bassa Danimarca Media Bassa Bassa Regno Unito Media Media Media Stati Uniti Media Media Alta Giappone Media Bassa Bassa Olanda Media Bassa Bassa Australia Media Bassa Media Nuova Media Bassa Bassa Messico Bassa Alta Alta Spagna Bassa Alta Alta Italia Bassa Bassa Bassa Austria Bassa Media Media Germania Bassa Media Bassa Francia Bassa Media Bassa Ceca Zelanda 72 Belgio Bassa Media Media Canada Bassa Alta Alta Svizzera Bassa Bassa Bassa Svezia Bassa Media Media Tabella 2 Crescita della spesa e del commercio in ICT. La relazione fra crescita nella spesa in ICT e la crescita nel commercio può essere analizzata secondo due diverse prospettive: da un lato, elevati investimenti in prodotti e servizi legati all’ICT potrebbero condurre a migliori risultati commerciali; dall’altro, la crescita commerciale potrebbe aumentare la necessità di investimenti in ICT. I vantaggi competitivi derivanti dagli investimenti in ICT non necessariamente si rendono visibili nel breve periodo, poichè “esiste un ritardo fra lo sviluppo di tecnologie, la loro diffusione e la manifestazione del loro impatto su altre attività produttive, causato da fattori quali la mancanza di flessibilità del mercato del lavoro, la necessità di investire in formazione ed educazione, l’esistenza di barriere tariffarie e non tariffarie (ad esempio standard tecnologici) al commercio”27. Uno dei fattori principali che hanno contribuito a promuovere l’innovazione tecnologica e l’incremento di produttività che ne deriva è stata l’apertura dei mercati. La riduzione delle barriere tariffarie e la liberalizzazione dei mercati dei capitali hanno aperto importanti opportunità di commercio e di investimenti. L’apertura dei mercati 27 Hubb Meijers: “Sources of Growth in the Knowledge Based Economy: The Role of R&D and ICT in Europe and US” Maastricht, 2002 73 aumenta la dimensione dei mercati disponibili alle imprese che innovano e ai consumatori, e allo stesso tempo facilita la diffusione della conoscenza, delle tecnologie e delle nuove attività produttive. “L’apertura dei mercati può inoltre contribuire a ridurre i costi, attraverso un’ ulteriore liberalizzazione delle tariffe del commercio in prodotti ICT: tale politica incoraggia l’adozione di standard internazionali che proteggono sia i consumatori, che beneficiano della presenza di tecnologie compatibili, sia le imprese, che sviluppano nuovi prodotti basati su piattaforme tecnologiche standardizzate e quindi facilmente commerciabili”28. Come possiamo vedere nella Tabella 3, il valore della spesa in ICT e del commercio totale rispetto al PIL mostrano l’esistenza di una relazione fra l’apertura dei mercati e l’investimento in nuove tecnologie29. Paese 28 29 Spesa ICT su PIL – Commercio su PIL – 1999 1999 Turchia 4,5% 36% Grecia 4,5% 29% Portogallo 5,3% 56% Polonia 5,4% 47% Irlanda 5,8% 125% Finlandia 6,8% 57% Ungheria 8,2% 110% Norvegia 6,8% 52% Danimarca 7,5% 53% Regno Unito 7,9% 41% OECD: OECD, 2001a http://www.oecd.org/dataoecd/31/16/2732509.pdf OECD: Fonte OECD 2001 sui dati ICT 74 Stati Uniti 8% 19% Giappone 8,1% 17% Olanda 8,2% 86% Australia 8,8% 30% 10,7% 48% Messico 3,5% 58% Spagna 4,3% 43% Italia 4,8% 39% Austria 5,7% 62% Germania 6,4% 48% Francia 6,8% 42% Canada 8,7% 72% Svizzera 8,8% 62% Svezia 9,3% 63% Nuova Zelanda Tabella 3 Tabella 3 Spesa in ICT e commercio sul PIL. Valutando le precedenti tabelle, se ne può dunque dedurre che la relazione fra le esportazioni a livello sia di impresa che di paese e l’investimento e crescita in ICT evidenzi come quest’ultima contribuisca a rimuovere le barriere spaziali e temporali al commercio. “Con l’avvento di Internet i confini rilevanti non sono più fra diversi paesi, ma piuttosto fra gli individui che sono connessi alla rete e quelli che non lo sono”30. 30 Meeting of the Committee for Scientific and Technological Policy (CSTP), 1999 75 “L’effetto sul commercio della diffusione di tecnologie che esibiscono costi progressivamente più bassi è duplice. Da una lato, le imprese di alcuni settori che in precedenza non partecipavano alla competizione internazionale sono ora costrette a confrontarsi con i produttori stranieri: di conseguenza il commercio internazionale di beni e servizi, che prima dell’avvento della new economy era troppo costoso scambiare, sta diventando diversificazione più relativamente economico, pronunciata del comportando commercio. D’altro una lato, la riduzione dei costi delle tecnologie sta creando una domanda che prima non esisteva, sia perché era tecnicamente impossibile acquistare e vendere alcuni beni e servizi (ad esempio i libri elettronici), sia perché la diffusione di nuove tecnologie ha determinato l’insorgere di nuove esigenze (ad esempio programmi di formazione in tecnologie informatiche)”31. In questo contesto, si deve ricordare che le ICT hanno un ciclo di vita molto breve, in quanto il progresso tecnico procede a ritmi incessanti, generando continuamente nuove applicazioni e nuove piattaforme tecnologiche. Questa caratteristica incoraggia le imprese a sfruttare il loro prodotto più velocemente possibile e a competere in mercati di ampie dimensioni, cercando di incrementare le loro esportazioni. La crescente importanza dell’ICT nell’economia influenza la dimensione e la natura del commercio, facilitando l’attività commerciale delle piccole e medie imprese e dei paesi. In linea di principio, l’economia della conoscenza e l’utilizzo sempre maggiore di nuove tecnologie dovrebbero rafforzare l’integrazione economica facilitando il commercio e creando nuove opportunità per 31 Hubb Meijers: “Sources of Growth in the Knowledge Based Economy: The Role of R&D and ICT in Europe and US” Maastricht, 2002 76 paesi che erano precedentemente esclusi dal commercio internazionale. D’altro canto però esiste il rischio di un “digital divide”32 fra diversi paesi: senza le tecnologie e le infrastrutture necessarie, i paesi più svantaggiati sono minacciati dalla possibile esclusione dai flussi di commercio e di investimenti. A tal proposito si può notare che, per i paesi emergenti, il commercio di beni e servizi legati all’ICT appare essere più vantaggioso rispetto al commercio di altri beni. Come possiamo vedere nella Tabella 4, un’economia basata maggiormente sullo sviluppo della conoscenza e sull’utilizzo e scambio di informazioni e di tecnologia può costituire un’opportunità per lo sviluppo economico dei paesi guidato dal commercio33. 32 Il digital divide può essere definito come il gap fra individui, famiglie, imprese e aree geografiche a diversi livelli socio-economici, con riferimento sia alle opportunità di accedere alle ICT, sia all’utilizzo di Internet nell’ambito di diverse attività (OECD, 2001d). Questa definizione di digital divide riguarda l’accessibilità e la disponibilità delle infrastrutture di comunicazione, delle tecnologie, delle applicazioni e dei servizi. Più in generale, il digital divide può essere definito come il divario fra imprese e consumatori che beneficiano dei vantaggi della società dell’informazione, e quelli che sono ancora in attesa del manifestarsi di tali benefici. Molti piani governativi dei paesi sviluppati, così come molte conferenze e piani di azione di diversi organismi internazionali, hanno dedicato molto tempo e stanziato ingenti risorse al tema del digital divide, anche se, sorprendentemente, gli sforzi fatti per migliorare gli strumenti e gli approcci per la misurazione di questo divario non sono stati così numerosi. La maggior parte delle iniziative è stata, infatti, rivolta alla definizione degli obiettivi politici e degli aspetti programmatici del digital gap, piuttosto che all’implementazione di progetti di ricerca per misurare e stimare realmente quanto ampio sia il divario e quali strumenti siano più idonei alla sua valutazione. In aggiunta, il tema del digital divide è sempre stato impostato in una contrapposizione fra paesi “sviluppati” e paesi “in via di sviluppo”, spesso giungendo a rilevare divergenze rilevanti, senza però riuscire a motivarle in chiave di diversa “velocità” di digitalizzazione (si veda per tutti Kenny, 2001). Viceversa, tale tema assume maggiore rilevanza, sia da un punto di vista informativo, sia da un punto di vista di implicazioni di policy, quando analizzato fra realtà economiche “simili”. Nell’affrontare un esame retrospettivo degli studi sulla digitalizzazione, è possibile individuare almeno due linee di ricerca. Un primo filone, ormai abbastanza corposo, si è focalizzato sui percorsi di diffusione delle diverse tecnologie digitali a livello macro (sistemi-paese) e a livello micro (settori produttivi, consumatori, sistema pubblico). Un secondo filone ha invece affrontato più specificatamente il tema dei “divari” di digitalizzazione, cercando di quantificare e motivare le differenze nei pattern di sviluppo delle tecnologie digitali. Per una rassegna di queste tematiche, si rimanda a Corrocher e Ordanini (2002) 33 OECD: Fonte OECD 2001 sui dati ICT. 77 Paesi Stati Quota delle Ranking Quota delle esportazioni esportazioni mondiali mondiali di ICT Ranking 12.4 1 16.3 1 Giappone 7.5 3 11.9 2 Singapore 2.0 16 7.9 3 Taiwan 2.2 15 5.9 4 Malesia 1.5 20 5.8 5 Corea 2.6 14 5.6 6 Hong 3.1 11 -- 7 Germania 9.6 2 4.8 8 Paesi 3.6 8 4.1 9 Cina 3.5 9 3.9 10 Francia 5.3 4 3.7 11 Messico 2.4 15 3.3 12 Filippine 0.7 31 3.0 13 Irlanda 1.3 21 2.9 14 Uniti Kong Bassi Tabella 4 Classifica dei paesi in termini di esportazioni. Da questa analisi è possibile evincere che esiste effettivamente un “digital divide” fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, causato da un divario in termini di infrastrutture tecnologiche e risorse umane, ma anche che la presenza di questo divario non aggravi di per sé le disuguaglianze già esistenti in termini di commercio. “Al contrario, vi 78 sono opportunità maggiori per i paesi in via di sviluppo nei settori legati all’ICT piuttosto che in altre aree del commercio internazionale. Nonostante alcuni paesi siano ancora esclusi dal commercio e la loro esclusione sia resa ancora più visibile dal “digital divide”, il numero di nazioni escluse è sceso costantemente grazie all’avvento delle nuove tecnologie e all’emergere di nuove applicazioni commerciali”34. Alla luce di tali considerazioni e, come spiegato in precedenza, considerando la correlazione ormai più evidente tra intensità degli investimenti ICT e livello di crescita e di competitività di un Sistema Paese, possiamo schematizzare non tanto gli indicatori di uno sviluppo del settore dell’ICT, quanto il suo impatto sulle possibilità di crescita e sviluppo in un’economia che ne faccia uso (Fig.17). Impatto sulla crescita Diffusione ¾ Quota spesa IT sul PIL ¾ PIL ¾ PC pro capite ¾ Valore aggiunto ¾ PC per occupato ¾ Investimenti ¾ % PC nelle famiglie ¾ Occupazione ¾ Utenti Internet ¾ Produttività ¾ Acquirenti on-line ¾ Natalità delle imprese Grado di competitività Tassi di penetrazione Figura 17 Evoluzione degli indicatori di “Digital Divide” tra Paesi. 34 Mansell e Wehn, 1998, http://www.apc.org/books/ictpolsa/index.html 79 L’importanza crescente dell’ICT nell’economia mondiale Come abbiamo visto, “l’Information Technology” ha assunto nel tempo un peso sempre più significativo sul contesto economico generale. Lo sviluppo di tale fenomeno negli ultimi anni è stato veicolato da alcune condizioni35: - I progetti di adeguamento all’Euro e all’Anno 2000 hanno spinto le aziende non solo a rinnovare tecnologie e architetture, ma anche ad effettuare una generale revisione e riorganizzazione delle applicazioni e dei processi. - La crescita della domanda di applicazioni gestionali legate a modelli di organizzativi ha portato l’Information Technology ad assumere sempre più il ruolo di strumento a supporto della competitività e dell’efficienza aziendale. - Internet sta diventando sempre più pervasivo; il mercato veicolato da Internet cresce a ritmi sostenuti. - L’abbassamento della barriera d’entrata dei prezzi dei Personal Computer ha contribuito a rendere le tecnologie delle commodities alla portata di tutti, e non solo di un’utenza avanzata. - Le tecnologie informatiche stanno diventando un canale privilegiato di comunicazione nelle aziende. Come possiamo vedere nella Figura 18, “la crescita del settore ICT non solo è superiore, ma addirittura sembra non essere più vincolata a quella dell’economia: gli investimenti in Information and 35 NetConsulting: “L'impatto dell'Information Technology sulla competitività e la crescita di un Sistema Paese” Microsoft White Paper, 2001 80 Communication Technology non sono più legati a fattori congiunturali, ma si sono con il tempo “scollati” da questi”36. Dinamica del mercato IT e del PIL Variazioni % su anno precedente Incidenza % mercato IT sul totale PIL 2,75% 3% 15% 3% 10,4% 2,04% 10,3% 10,5% 10,8% 10% 2% 1,87% 7,7% 6,3% 5% 4,3% 3,9% 2% 7,5% 4,2% 3,8% 1% 3,0% 4,3% 4,0% 3,5% 2,5% 2,7% 2,5% 1% 0% 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 0% Mercato IT PIL 1991 1995 2000 Figura 18 Dinamica del mercato mondiale dell’ICT e del PIL (1991-2000). La crescita del mercato IT non è più quindi subordinata agli andamenti congiunturali delle economie ma viene anzi ad assumere un ruolo importante e crescente, che influenza le performance delle imprese utilizzatrici attraverso una sempre più stretta penetrazione nelle loro strategie di business. L’analisi dell’andamento del mercato IT a livello internazionale nell’arco di oltre un decennio (Fig.19) mostra da un lato quale sia stata la 36 Elaborazioni NetConsulting su dati Assinform ed International Monetary Found, “L'impatto dell'Information Technology sulla competitività e la crescita di un Sistema Paese” Microsoft White Paper, 2001 81 dinamica della crescita per i diversi Paesi o aree geografiche; dall’altro, anche, quali siano stati i motori di tale performance. 18,0% Diffusione Efficienza E-business 16,0% 14,0% Stati Uniti 12,0% 10,0% Europa 8,0% Italia 6,0% 4,0% 2,0% 0,0% -2,0% 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 Stati Uniti Europa Italia Figura 19 Tassi annui di crescita del mercato dell’informatica negli Stati Uniti, in Europa ed in Italia (1987-2000) - Variazioni % su anno precedente. Si possono, infatti, definire tra il periodo 1987 e 2000 tre sottoperiodi corrispondenti ad altrettanti paradigmi di crescita:37 - Fase della diffusione delle tecnologie: fino al 1992 crescono quei mercati a minore penetrazione, come l’Italia, che si trovavano a dover colmare il gap che li dividevano dagli altri Paesi più avanzati. Sul mercato incide in maniera significativa il processo di penetrazione dei Personal Computer; non a caso, il mercato cresce a ritmi più lenti negli 37 NetConsulting: “L'impatto dell'Information Technology sulla competitività e la crescita di un Sistema Paese” Microsoft White Paper, 2001 82 Stati Uniti, più evoluti in termini di penetrazione e diffusione delle tecnologie, rispetto al mercato di Europa ed Italia che devono invece accelerare per colmare il divario esistente. - Fase dell’efficienza delle aziende: crescono i mercati a maggiore presenza di imprese strategiche e che operano su mercati competitivi ed aperti e che fanno un uso più strategico dell’Information Technology. E’ il periodo della razionalizzazione dei processi e delle tecnologie presenti in azienda, dell’implementazione di soluzioni che impattano sul business aziendale (quali ad esempio le soluzioni gestionali ERP); in questa fase sono gli Stati Uniti a crescere più velocemente rispetto all’Europa. - Fase dell’e-business: questa fase presenta due motori di crescita, la diffusione delle tecnologie e la loro strategicità. Si riducono i differenziali di crescita tra i Paesi. Nel 1999, il mercato italiano registra una crescita a due cifre, pari al 10.6% rispetto all’anno precedente, per la prima volta dal 1990; non solo, nel 2000 per la prima volta la dinamica del mercato italiano è superiore a quella europea e statunitense. Basandoci sull’analisi effettuata riguardante il mercato dell’ICT e l’importanza strategica nello sviluppo dell’economia, possiamo evincere che i fattori chiave che nei prossimi cinque anni guideranno e indirizzeranno l’adozione e o sviluppo di tecnologie informatiche e di telecomunicazioni possono così sintetizzarsi:38 - la globalizzazione dell’economia; 38 Francesco Aiello: “Mercato Information & Communications Technology (ICT)”, 2001, http://www.bve.com 83 - la ridefinizione dello scenario competitivo; - i fenomeni legati alla deregulation e alla privatizzazione; - i cambiamenti nelle strategie e nelle strutture aziendali indotti dal nuovo contesto di mercato; - la diffusione del modello di impresa virtuale; - la diffusione di Internet. L’importanza della Globalizzazione La globalizzazione dei mercati e le tecnologie dell'informazione sono state le due grandi forze che hanno interagito, alimentandosi a vicenda, in questi due decenni. Lo sviluppo della società dell'informazione svolge un ruolo trainante nei processi di globalizzazione, grazie alla costituzione di reti digitali globali che collegano fra loro una moltitudine di soggetti e sospingono la creazione di una nuova economia globale basata sulle reti e su fattori immateriali. Cambiano, come abbiamo visto nel primo capitolo, i fattori che rendono competitive e dominanti le economie. Il contenuto tecnologico, la qualità e il marchio del prodotto, la proprietà intellettuale, la tempestività del servizio stanno prendendo il sopravvento sui tradizionali fattori di costo. Con l'era della globalizzazione l'economia delle materie prime è stata soppiantata dall'economia della conoscenza. La ricchezza non è più creata solo dalle risorse naturali o dalla produzione, ma da come i prodotti e i servizi sono progettati e immessi sul mercato. I settori industriali e dei servizi basati sulla conoscenza – l’economia della conoscenza – sono caratterizzati da un alto input di ricerca e sviluppo, da un impiego di manodopera con un livello di qualificazione superiore 84 alla media ed hanno superato i settori più tradizionali in termini di crescita di valore e di occupazione, capitalizzazione e capacità di esportazione. Internazionalizzazione, Mondializzazione e Globalizzazione Prima di approfondire il concetto di globalizzazione e le sue caratteristiche in un’economia basata sulla conoscenza, si ritiene opportuno differenziare il concetto di internazionalizzazione, mondializzazione e globalizzazione. - L'internazionalizzazione indica il carattere dei rapporti economici, politici, giuridici e culturali che una comunità o uno Stato stabiliscono con altri Paesi: si può allora parlare di internazionalizzazione mercantile (di merci), produttiva (investimenti all'estero), finanziaria (movimenti di capitali), tecnologica (trasferimento di tecnologie), culturale (rapporti culturali), oppure legata a movimenti di persone (migrazioni). - La mondializzazione indica il complesso di problemi i cui effetti si manifestano a livello mondiale e le cui soluzioni sono possibili solo attraverso la creazione di organismi internazionali e la cooperazione tra Stati nazionali. Tra questi, ad esempio, i problemi ambientali, dell'acqua, del clima, dell'energia, quelli delle migrazioni, quelli delle malattie etc… - Per globalizzazione si intende l'estensione e la diffusione di una quantità sempre crescente di dispositivi simbolici, materiali, tecniche, procedure, discorsi, logiche e prodotti potenzialmente fruibili su scala mondiale. La globalizzazione sta ad indicare le nuove forme assunte nel 85 mondo dal processo di accumulazione di capitale, soprattutto in questa fine secolo dalla triade Usa, Giappone, Unione Europea per creare un unico mercato e per ottenere profitti su scala mondiale. Il fenomeno della globalizzazione implica l'interazione di dinamiche complesse ed è caratterizzato dal comune confluire di processi non solo economici ma anche politici, sociali e culturali; la ricerca di spazi globali si è verificata nella storia per rispondere ad esigenze conoscitive, esplorative, militari oppure è legata alla tendenza a trasmettere idee, valori e fedi religiose ma il tema della globalizzazione e l'analisi delle sue conseguenze occupano un ruolo di primo piano nella storia dell'800 e del '900 perché è soprattutto in questo periodo che le spinte globalizzatrici hanno trovato la loro massima diffusione grazie all'apporto delle nuove tecnologie. Se prendiamo in analisi il rapporto tra gli Stati e la globalizzazione, si può notare come fattori quali l’economia, politica, cultura e società siano strettamente interdipendenti e l'evoluzione di uno di questi comporti la trasformazione degli altri. I processi di globalizzazione si muovono dunque tra “locale” e “globale”, in uno spazio che Mc Luhan ha definito con il termine di "villaggio globale"39 per descrivere la contrapposizione tra il termine “villaggio” che 39 In uno scritto del 1964 Marshall Mc Luhan, studioso delle comunicazioni di massa, parlava di un'epoca elettrica che si sostituiva alla passata epoca meccanica e tracciava un accurato ritratto di un uomo nuovo, un abitante del villaggio globale, ancora sospeso tra le due tecnologie, due modi diversi di agire e pensare. Definisce quest'uomo alla ricerca dei suoi valori, della sua integrità con un ritorno al passato per poi congiungerlo al futuro; un uomo che pretende di comprendere fino in fondo la propria indole, consapevole dell'agire, ma bisognoso di chiarezza nel caos delle informazioni. Quest'uomo vive in un'unica realtà, il "mondo intero" ed è attore e spettatore e deve lavorare per costruire le proprie responsabilità perché davanti a lui si presenta una realtà "ricca di scambi, influenze, confronti tra tutte le sue parti improvvisamente collegate l'una con l'altra da un afflusso continuo di dati". Un'interconnessione che lo costringe ad essere vigile per prevenire la "distruzione di una qualsiasi parte dell'organismo che può risultare fatale per il tutto". 86 esprime qualche cosa di piccolo, di circoscritto ed il termine “globale” che esprime l’idea di totalità, di pianeta. Come abbiamo visto, si può utilizzare il termine globalizzazione per definire la combinazione di processi economici, politici, sociali e culturali. Questi hanno come effetti:40 - La formazione di un mercato finanziario globale;. - L'aumento dell'incidenza delle nuove tecnologie per lo scambio di beni e servizi;. - L'iperconcorrenza, ovvero un'accentuata competitività agevolata da processi di liberalizzazione, di privatizzazione e di deregulation. - Lo sviluppo di un'informazione che insieme al contemporaneo progresso dei mezzi di trasporto unifica il mondo per ridurlo alla dimensione di "villaggio". Il "villaggio globale" è un ossimoro, è il fortunato ossimoro inventato da Marshall Mc Luhan per descrivere la situazione contraddittoria in cui viviamo. I due termini dell'enunciato si contraddicono a vicenda, il "villaggio" esprime qualcosa di piccolo, mentre "globale" sta a significare l'intero pianeta. Mc Luhan ha forzato il linguaggio per meglio esprimere una situazione inedita e difficilmente rappresentabile. Per capire cosa intende Marshall Mc Luhan possiamo immaginare il mondo popolato da giganteschi dinosauri, o da gatti con gli stivali, che con pochi balzi lo percorrono da un capo all'altro. Quello che prima era gigantesco, grazie alle nostre potenti invenzioni tecnologiche - i magici stivali - è diventato piccolissimo, percorribile in lungo e in largo. La metafora degli stivali prende in considerazione solo l'ambito degli spostamenti, ma quello che rende il mondo un villaggio globale non è solo la possibilità di muoversi rapidamente da un punto all'altro. La globalizzazione agisce a molti livelli che interagiscono e si "rinforzano" reciprocamente. La globalizzazione investe ogni campo ed il risultato, l'effetto di questo fenomeno è quello che accade in un punto qualsiasi del pianeta è come se avvenisse sotto casa, accanto a noi come se vivessimo in un immenso villaggio. Mc Luhan afferma che per creare un mondo globale c'è bisogno di una fusione organica tra tutte le funzioni frammentarie e lo spazio totale. In conclusione il processo di formazione dell'uomo moderno risulta apparire più complesso di quello del villaggio globale dal momento che entriamo nel nuovo millennio ancora carichi del passato e bisognosi di autodefinirci sia come singoli che come abitanti di un solo unico mondo. Fonte: http://www.globalizzazione2000.it/Villaggioglobale.htm 40 Commissione Europea: “Incentivi a favore della competitività delle imprese europee a fronte della globalizzazione” COM (1998) 718, Bruxelles, 1999 87 - La formazione di una cultura globale, cultura in cui il peso dei singoli apporti riflette la capacità di influenza delle varie nazioni componenti. - La perdita di rilevanza dello Stato o del sistema nazionale come punto di riferimento fondamentale nello scenario economico e politico nel nuovo assetto globale. Da queste caratteristiche di un’economia globale, si evince che la globalizzazione pone i mercati in contatto sempre più stretto – accorciando le distanze fisiche e culturali – e quindi esaspera la concorrenza internazionale mettendo “a rischio” i mercati locali. Tuttavia essa offre, parallelamente, crescenti opportunità di sbocco su nuovi mercati ai prodotti e servizi di ogni attore economico, purché questi riescano a distinguersi nel panorama della vasta offerta internazionale. Si può quindi notare come la dicotomia “villaggio” e “globale” di Mc Luhan sia attuale e rappresentativa del nuovo tipo di mercato che si sviluppa attraverso l’implementazione di un’economia basata sulla conoscenza. Un altro aspetto che caratterizza la globalizzazione, costituendone al tempo stesso un presupposto ed una conseguenza, è rappresentato dalla forte riduzione delle distanze tecnologiche e cognitive, che permette alle imprese un più facile ed immediato accesso alle informazioni e alle conoscenze indispensabili ad accrescere la propria competitività, così da riuscire a profittare delle nuove opportunità di espansione. L’informazione, la conoscenza, e l’innovazione sono dunque gli elementi strategici sui quali le imprese – comprese quelle di più ridotte 88 dimensioni – possono far leva per rimanere competitive ed accrescere la loro produttività. Questi stessi elementi – informazione, conoscenza, ricerca, innovazione – rivestono un’importanza strategica nel determinare il grado di competitività di un sistema economico nell’attrarre investimenti esteri tecnologicamente all’avanguardia. Si tratta di investimenti che possono innescare un processo a catena di diffusione e radicamento delle innovazioni, poiché da un lato provocano l’innalzamento degli standard tecnologici con i quali le imprese italiane si dovranno confrontare, e dall’altro determinano effetti di ricaduta positivi favorendo processi di trasferimento di tecnologia. “Ma per favorire l’afflusso di tali investimenti occorre disporre di un ambiente – economico, sociale e strutturale – favorevole. Bisogna cioè essere in grado di offrire una adeguata “infrastruttura immateriale”: ovvero di una rete di elementi che forniscano supporto alle idee, spazio alla creatività applicata, e seguito alle innovazioni sperimentali. Questo particolare sistema infrastrutturale dovrà coinvolgere e collegare tra loro una moltitudine di soggetti, dalle Università e i vari istituti di ricerca scientifica e industriale, al sistema della formazione scolastica e professionale, al sistema delle imprese”41. Mentre da un lato, per globalizzazione s’intende una forma particolare dell’economia di mercato che, a ruota, coinvolge inevitabilmente tutte le altre, dall’altro lato è un fenomeno caratteristico, con eventi che vanno oltre gli aspetti puramente economici. Si ritiene che gli aspetti che esulano dal contesto puramente economicofinanziario siano altrettanto importanti per meglio comprendere l’influenza di tale fenomeno sui mercati internazionali, in particolare 41 Globalizzazione: http://www.globalizzazione2000.it/la%20globalizzazione%20economica.htm 89 quelli che sempre più si basano sullo sviluppo di economie della conoscenza dove, come abbiamo visto, gli aspetti socio-culturali si intrecciano profondamente con lo sviluppo economico. La Società Globale La Società attuale viene definita “complessa”42. Al suo interno l’economia si sviluppa dall’economia di mercato, in maniera per certi versi molto semplice e strettamente correlati alla società: ricordiamo a tal proposito le teorie micro e macroeconomiche che si basano sul concetto primario di “irrazionalità” dei consumatori. Possiamo dunque definire come “società complessa”:43 - la società che tende quasi sempre alla frammentazione dei settori della vita: ciascuno di noi porta dentro tanti ambiti di vita tra loro giustapposti. Svolgiamo attività molto diverse, che toccano i vari ambiti della vita e la fatica che facciamo è quella di trovare un punto di unità tra tutte queste cose. Economia, politica, religione, tempo libero, medicina, arte: ognuno ha le sue regole e caratteristiche, ed è molto difficile passare da un ambito a un altro per la profonda diversità delle logiche che regolano questi ambiti. Fino a qualche decennio fa erano molte le attività svolte da una sola persona, ma erano anche molto profondamente correlate tra loro ad esempio scuola, famiglia, chiesa, ecc. Il lavoro è stato il primo ambito che ha iniziato a sganciarsi da questa logica. Oggi ci troviamo all’estremo di questa frammentazione. 42 43 Local Futures, “Global change, local strategies” http://www.localfutures.com, 2002 “Globalizzazione, cooperazione e volontariato: scenari e prospettive” Bergamo, 2001 90 - Aumentano le possibilità di scelta: è un fatto che, rispetto al passato, le nostre società stanno aumentando le possibilità di scelta, non solo economica, un prodotto invece che un altro, non solo nella differenziazione dei prodotti, personalizzazione dei prodotti o nella comunicazione virtuale ad esempio la possibilità di orientarsi individualmente, ancora poco usato internet, ma anche nella possibilità di fare esperienza, di incontrare persone, di conoscere. - Complessità vuol dire anche, che aumentano sempre più le diversità di pensiero, di cultura e le impostazioni di vita tra le persone. Le diversità a livello di individui e a livello di gruppi, un pluralismo sempre più accentuato: per esempio la multicultura, l’immigrazione o la comunicazione pubblica che portano a contatto culture e modi di pensare molto diversi tra loro. Tutti questi fenomeni ci aiutano a capire il processo di globalizzazione delle economie: processo che si radica ben al di là delle pure forme di commercio o di produzione, ma più profondamente a livello socioculturale. Si possono dunque definire alcune caratteristiche particolari di un’economia globalizzata: - Scambio: sempre più accentuato, a livello mondiale, strettamente legato all’economia di mercato. Gli scambi, che prima avvenivano solo a livello locale e solo per certi settori, ora vedono come scenario l’intero globo e tutti i settori. Non si tratta solo di beni economici, ma anche informazioni esperienze, conoscenze, cultura. 91 Tutto diventa scambio. Le persone si muovono di più, si conoscono di più: entra in gioco la dimensione della comunicazione pubblica, internet, che sono l’effetto e la causa, insieme di questi processi. - Legame: si accentuano i legami. In un periodo, in cui ognuno cerca maggiormente la propria autonomia e la propria indipendenza, la ricerca di se stessi, delle proprie emozioni, della propria idea, in una parola di una maggiore e individualizzata definizione di se stesso si trova a fare i conti con il maggiore e più stretto legame con gli altri, che ha la forma dell’interdipendenza. Siamo sempre più condizionati reciprocamente. Per esempio: possiedo un’auto e questo mezzo mi permette di raggiungere certi posti, molto più velocemente di una volta, di quando andavo in giro col carretto. Sono più autonomo. Ma allo stesso tempo io sono sempre più condizionato da coloro che vendono la macchina, la benzina, riparano la macchina, producono la macchina. - Realtà: il processo di scambio, di mobilità e di interdipendenza, comporta un fenomeno: la realtà tende a diventare sempre più virtuale, aumentando, ma tuttavia diventando sempre più inconsistente. - Lo spazio e il tempo: la globalizzazione modifica profondamente la concezione del tempo e dello spazio. In tempo reale si può vedere cosa capita a distanza di migliaia di chilometri. Tramite l’utilizzo di nuove tecnologie, di internet, posso entrare anche in uno spazio lontanissimo da me. Posso trovarmi là non in maniera reale, ma con la mia conoscenza, con la mia sensazione. Si modificano i modi di vivere, il tempo e lo spazio. 92 La forte accelerazione dei cambiamenti nella società e nei prodotti e nei servizi, dovuta alla concorrenza globale, impone dunque un consistente sforzo di aggiornamento e la continua introduzione di innovazioni. Innovazione e competitività sono da considerarsi due elementi essenziali, nella formulazione di una strategia di sviluppo, per le imprese che intendono affermarsi nell’economia globale. Un nuovo fenomeno che le imprese si trovano ad affrontare in questo contesto è infatti rappresentato dalla forte accelerazione dei cambiamenti che i prodotti e i servizi subiscono nei mercati, a fronte dell’intensificazione delle occasioni di scambio tra sistemi diversi. Questa è dovuta non soltanto di alla rapida contrazione del ciclo vita dei prodotti (particolarmente evidente per quelli ad elevato contenuto tecnologico), ma anche alla maggiore spinta competitiva che le imprese subiscono nei rispettivi settori di attività. La concorrenza internazionale, dunque, impone loro un consistente sforzo di aggiornamento e miglioramento della propria offerta, attraverso l’introduzione costante di elementi innovativi. L’importanza dell’Innovazione Il termine “innovazione” viene spesso utilizzato per indicare il processo di sviluppo tecnologico a base di una società, organizzazione o di un’economia. In questa sede, facendo riferimento ai precedenti paragrafi, s’intende precisare il ruolo dell’innovazione nell’economia basata sulla conoscenza e l’importanza nella crescita economica. 93 Nel panorama delle diverse teorie sulla crescita economica, possiamo trovare alcune definizioni sul concetto di innovazione:44 M. Porter “Companies achieve competitive advantage through acts of innovation. They approach innovation in its broadest sense, including both new technologies and new ways of doing things.” P. Drucker “Innovation is the specific tool of entrepreneurs, the means by which they exploit change as an opportunity for a different business or service.” T. Peters “We must learn - individually and as organisations - to welcome change & innovation …the corporate capacity for continuos change must be dramatically increased.” Seguendo queste definizioni, si può notare come ciascuna abbia come concetto ricorrente l’abbinamento tra innovazione e cambiamento. Possiamo dunque sostenere che l’innovazione è il cambiamento che un’organizzazione riesce ad apportare (Fig.20) 44 Claudio Petti: “L’innovazione”, E-business, management School, 2002 http://digilander.libero.it/claudiopetti/courses/innovationmngmt.htm 94 Figura 20 Innovazione = Cambiamento Come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, lo sviluppo tecnologico ha un’importante ruolo nell’economia della conoscenza. Il Capitale Umano veicolato da un’infrastruttura di tecnologie permette lo scambio di informazioni, idee e “sapere” in tutto il mondo. Quello che si genera è dunque una forte capacità di innovazione. Si può quindi distinguere tra invenzione che risulta essere una nuova idea, un nuovo sviluppo scientifico oppure una novità tecnologica. L’invenzione è spesso causale e non indotta da motivazioni economiche o competitive, mentre l’innovazione è la realizzazione delle invenzioni in un nuovo processo o prodotto. L’innovazione è dunque la capacità di rendere produttiva un’invenzione, ed è proprio ciò che determina lo sviluppo economico e la crescita di un’organizzazione. 95 Diverse sono le elaborazioni teoriche che si sono misurate fino ad ora con il concetto di innovazione e con i reciproci modelli. Si possono individuare in linea generale 5 filoni:45 Figura 21 I filoni della teoria dell’innovazione. - Filone neoclassico: sia l’approccio dell’equilibrio generale, sia quello degli equilibri parziali considerano l’innovazione un fatto esogeno in una visione statica che non può tenere conto del carattere dinamico e discontinuo, tipico invece dell’innovazione. - Filone Paleo-Schumpeteriano: l’innovazione produce un extraprofitto agli imprenditori più capaci per i quali si ipotizza un comportamento differenziato. In questo schema, Schumpeter distingue invenzione, innovazione e diffusione dell’innovazione. Malgrado Schumpeter definisca l’innovazione come costituita da 5 45 modalità diverse (nuovo mercato, nuova fonte prodotto, di Eciclopedia economica Garzanti, ed. 1999. 96 materie nuovo prima, processo, nuovo ristrutturazione dell’offerta) non ha tenuto conto dei comportamenti delle singole aziende in fatto di innovazione. - Filone Neo-Schumpeteriano: si tratta degli sviluppi empirici volti a comprendere l’evoluzione del capitalismo verso la fase manageriale contraddistinta dal successo della grande impresa operante in situazione di controllo del mercato, capace di realizzare al proprio interno attività di ricerca e sviluppo tali da controllare l’innovazione ai fini della propria crescita. - Filone Neo-tecnologico: Vi è il riconoscimento dell’autodeterminazione della tecnologia che si traduce in una non subordinazione all’economia. Anzi, la tecnologia provoca modificazioni importanti all’interno delle strutture economiche (macro e micro) in funzione delle nuove opportunità che essa offre. Questo approccio nega l’ipotesi neoclassica di indifferenza delle aziende nei confronti del cambiamento tecnologico, sottolineando le diverse modalità con le quali esse accedono e si appropriano delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie. Il progresso tecnico va considerato una variabile autonoma, dotata di proprie leggi di sviluppo; possibilità di offerta tecnologica e di domanda di innovazione possono non combaciare o prodursi in modo difforme rispetto alle precedenti situazioni di equilibrio concorrenziale. Economia e tecnologia non sono quindi indipendenti ma nemmeno in automatica sintonia. Fra di esse si manifesta una dialettica derivante dal fatto che la trazione esercitata dalla domanda di innovazione (demand pull) può risultare sfasata rispetto alle potenzialità, ai tempi e alle direzioni 97 emergenti dalle attività a carattere scientifico-tecnico (technological push). - Filone Organizzativo-manageriale: si é sviluppato a partire dalla fine degli anni ’60, in parallelo con quello neo-tecnologico, a opera di studiosi interessati all’analisi del fenomeno innovativo all’interno della singola azienda piuttosto che nel complesso del sistema economico. Questo filone sottolinea la natura complessa dell’innovazione non solo in senso verticale (ricerca di base, ricerca applicata, ricerca orientata, sviluppo, diffusione) e con l’attenzione rivolta agli effetti sulle strutture e al comportamento di categorie strutturali (per es. grande impresa, piccola impresa, impresa multinazionale), come prevale negli schemi neotecnologici, ma anche in senso orizzontale, cioè rispetto alle aree funzionali delle aziende portatrici di diversità significative delle loro strutture organizzative. In ogni azienda lo sfruttamento efficace di un’idea innovativa é, da una lato condizionato da tutta una serie di variabili organizzative e ambientali che non sono individuabili per categorie strutturali, dall’altro, richiede un particolare orientamento di tutte le funzioni dell’impresa (globalità dell’innovazione). Con questo approccio la focalizzazione della problematica dell’innovazione tende a spostarsi dagli aspetti tecnici a quelli organizzativi. Se consideriamo le precedenti teorie economiche, possiamo affermare che l’innovazione “è il risultato che porta alla configurazione di una nuova funzione di produzione, 98 che provoca un cambiamento nell’insieme delle possibilità (opportunità) generatrici di prodotti e di modalità di produzione”46. Figura 22 Il sistema innovativo. Dunque si può dire che l’innovazione non è solo tecnologia, ma include un cambiamento organizzativo e del mercato e trasformazioni strutturali. Non coinvolge solo la Ricerca & Sviluppo, ma la produzione, clienti, fornitori, utenti, mercato, e tutto il contesto socio-economico. Si possono quindi definire diversi tipi di innovazione: - Oggetto del cambiamento: Innovazione di Prodotto: cambiamenti in “cosa” viene offerto Innovazione di Processo: cambiamenti in “come” viene offerto 46 Claudio Petti: “L’innovazione”, E-business, management School, 2002 http://digilander.libero.it/claudiopetti/courses/innovationmngmt.htm 99 - Grado di novità: Innovazione processo, incrementale: prodotto o comporta servizio miglioramento rispetto ad un di design dominante, architettura di prodotto, processo produttivo e domanda esistenti. Innovazione radicale: una rottura con prodotti o processi esistenti (transistor contro valvole termoioniche). L’innovazione consiste nel far qualcosa di nuovo nel sistema economico e non deriva necessariamente da una invenzione. - Scopo: Innovazione di componente: cambiamento in componenti isolati Innovazione di sistema: cambiamento nell’intera architettura del prodotto/servizio, può generarsi anche da cambiamenti di un solo componente quando questo richiede cambiamenti in tutta la struttura del prodotto Il processo innovativo diviene quindi imperativo per tutte le organizzazioni: il non fare nulla in un ambiente competitivo non è un’alternativa, in quanto la sopravvivenza delle organizzazioni non in grado di attivare continuamente processi innovativi è seriamente minacciata dai “concorrenti”. Le conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona47 hanno richiamato l’attenzione su due esigenze: 47 Il Consiglio europeo ha tenuto una sessione straordinaria il 23 e 24 marzo 2000 a Lisbona per concordare un nuovo obiettivo strategico per l'Unione al fine di sostenere l'occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un'economia basata sulla conoscenza. 100 – ricavare il massimo beneficio in termini di innovazione dagli sforzi di ricerca compiuti a livello nazionale e comunitario, – creare un ambiente favorevole per la costituzione e lo sviluppo di imprese innovative. Queste priorità riflettono, innanzi tutto, l’importanza dell’innovazione come generatrice di nuovi prodotti, servizi e processi, nonché gli ostacoli incontrati da questo tipo di innovazione e, secondariamente, la necessità che l’innovazione (basata o meno sulla tecnologia) si diffonda dai “motori primi” andando a rinvigorire l’intero tessuto economico e sociale. Per sopravvivere nel nuovo ambiente concorrenziale, le organizzazioni non possono permettersi di rimanere inattive. Devono essere aperte a nuove idee, a nuovi modi di operare, all’adozione di nuovi strumenti e attrezzature, ed essere in grado di assimilarli e di trarne vantaggio. La promozione dell’innovazione deve rappresentare una delle componenti principali di una moderna politica economica. 101 CAPITOLO II Il ruolo della Ricerca e Sviluppo nella crescita economica Prefazione Nel Capitolo precedente abbiamo potuto analizzare gli elementi chiave che caratterizzano le economie della conoscenza. In particolare dopo un approfondimento sulle diverse teorie che hanno quantizzato l’apporto dell’innovazione alla crescita economica, abbiamo potuto focalizzare il discorso sui quattro pilastri di un’economia della conoscenza. Questi rappresentano gli elementi necessari che grazie alla loro complementarità definiscono gli aspetti primari di queste economie. In particolare abbiamo visto l’importanza del Capitale intellettuale, dell’ICT, della globalizzazione e dell’innovazione. In questo Capitolo si vuole proseguire il discorso sull’economia della conoscenza cercando di portare in luce i fattori che più direttamente legano gli investimenti in Ricerca e Sviluppo (R&S) alla crescita economica. Facendo riferimento alle teorie della New Growth Theory (Capitolo I) così come ai diversi approcci degli economisti in materia, si cercherà di analizzare la crescita economica ed i fattori legati all’economia della conoscenza che la influenzano. In particolare si vuole porre l’accento sul legame tra Ricerca e Sviluppo ed aumento della produttività con le derivanti conseguenze di aumento dell’occupazione e della competitività. 102 In conclusione si cercherà di mostrare l’importanza della Ricerca e Sviluppo come “cuore” della crescita economica, valutando alcuni esempi pratici di economie della conoscenza. Questo servirà anche come punto di transizione al prossimo Capitolo dove si svilupperà per l’appunto un’analisi comparativa di alcune Nazioni peculiari per il loro approccio ad uno sviluppo economico della conoscenza. 103 Introduzione Nel quadro generale economico l’investimento in ricerca e sviluppo (R&S) resta un elemento considerato essenziale per l’innovazione, la crescita economica e il benessere sociale. Cambiamenti importanti intervenuti nel settore riguardano i soggetti, i meccanismi e le politiche che sostengono l’attività di ricerca e sviluppo nella generalità dei paesi industrializzati, dalla crescita del ruolo dei soggetti privati nel finanziamento delle attività di ricerca, alle innovazioni istituzionali e organizzative che hanno interessato il settore pubblico di ricerca. L’intensità della spesa totale in ricerca e sviluppo è aumentata tra il 1994 e il 2001 in Germania, Svezia, Finlandia, Spagna, Grecia e Portogallo e si è ridotta in Francia e Inghilterra. Nel nostro paese il rapporto tra spesa totale in ricerca e prodotto nazionale lordo è rimasto sostanzialmente stabile, e comunque basso (Fig.23). Se si guarda alla spesa industriale per ricerca e sviluppo (BERD), si nota nel corso dell’ultimo decennio un aumento del finanziamento proprio della ricerca da parte delle industrie stesse. Si osserva, infatti, nei paesi della UE un incremento dal 77,8% del 1990 all’82,5% del 2000. Nei paesi dell’OECD si passa dall’80,6% del 1990 al 87,7% del 2000. Si è verificata inoltre una contemporanea diminuzione del finanziamento pubblico alla spesa industriale, che, nell’arco dei 10 anni considerati, diminuisce di quasi la metà sia nei paesi UE (dal 14,5% del 1990 al 8,5% del 1999) sia in quelli OCDE (dal 16,7% del 1990 all’8,3% del 2000). Anche in Italia si è registrata nel corso degli ultimi 10 anni la stessa tendenza all’aumento del finanziamento da parte dell’industria alla 104 ricerca industriale, che passa dal 73,4% del 1990 al 78,7% del 1999. L’industria, pertanto, ha dovuto supplire alla riduzione dei trasferimenti finanziari pubblici a sostegno della ricerca industriale. Figura 23 Spesa totale per ricerca e sviluppo in percentuale sul PIL (1994-2001) L’effetto di questi due fenomeni (aumento del contributo privato e riduzione di quello pubblico verso la ricerca industriale) ha fatto sì che la spesa di ricerca direttamente sostenuta dall’industria sia rimasta stabile nella media OCDE. Altri cambiamenti che si possono notare nel quadro globale dello sviluppo della ricerca e sviluppo si sono realizzati attraverso la ristrutturazione di parti dei sistemi pubblici di ricerca per accrescerne l’efficienza o il legame con i bisogni sociali. Ad esempio sono stati promossi “centri di eccellenza”, caratterizzati dalla alta qualità e flessibilità delle risorse umane, da meccanismi di retribuzione legati a 105 valutazione e da rappresentanza dell’industria negli organismi di governance. Questi provvedimenti, strategie e sviluppi dimostrano l’importanza della ricerca e sviluppo per il progresso non solo tecnologico e sociale, ma anche economico delle organizzazioni. Si cerca di sviluppare l’innovazione (cfr. paragrafo sull’Innovazione pag. 81), ma soprattutto si cerca di sviluppare dei centri di ricerca atti a stimolare e mantenere il Capitale Umano (ricercatori, scienziati, professori….) La crescita economica La crescita è un aumento durevole in termini reali di un indicatore della performance economica: è dunque un fenomeno di lungo termine. La crescita economica per una nazione corrisponde ad un cambiamento di dimensione nel tempo, misurata in termini di Prodotto globale reale o in termini di Reddito nazionale a prezzi costanti. È al tempo stesso fattore e conseguenza del cambiamento sociale. Associati alla crescita e al progresso tecnico vanno considerati infatti anche i costi sociali di questi fenomeni: inquinamento, sfruttamento intensivo delle risorse naturali, distruzione di impieghi, emergenza dei fenomeni di emarginazione, ecc. Un altro aspetto importante della crescita che si deve tener conto, è che i frutti della crescita sono di norma ridistribuiti in modo ineguale tra gli individui. Ciò significa che, un aumento costante del PIL non determina necessariamente aumento del benessere generale. Per valutare dunque il fenomeno della crescita, si devono considerare diversi aspetti che interagiscono: quello economico, sociale e culturale, oltre a quello politico e istituzionale. Tutte queste multidimensionali rendono difficile la formalizzazione teorica. 106 variabili Come analizzato nel Capitolo precedente, esistono varie teorie economiche che cercano di sviluppare e razionalizzare questo concetto di crescita economica. Su un punto economisti “mainstream” ed eterodossi sono consenzienti: l’innovazione e il progresso tecnico sono fra le determinanti più importanti della crescita. Robert Solow, negli anni ‘50 con Abramowitz, sottolinea come la variabile che che normalmente nella funzione di produzione aggregata veniva classificata come residuo, spiegava la metà (fino a ¾) della crescita economica USA di quegli anni. Non è quindi sufficiente riconoscere quanto sia importante l’innovazione e lo sviluppo tecnologico per le imprese, ma è altrettanto essenziale comprendere gli effetti del progresso tecnico e dell’innovazione a un livello più aggregato (economia nel suo insieme, ma anche sviluppo, benessere generale e occupazione). Interrogarsi sugli effetti macroeconomici del progresso tecnico significa quindi comprendere gli effetti della diffusione dell’innovazione sullo sviluppo e la crescita economica. Anche tralasciando gli aspetti qualitativi (che essendo più aleatori rendono difficile la stima) e considerando solo gli aspetti quantitativi, la crescita rimane un fenomeno difficile da misurare. I meccanismi di calcolo sono molto complessi e non sempre molto precisi. Fra i problemi concreti di misura possiamo rilevare in particolare:48 - Scelta dell’aggregato e continuità statistica: di norma si sceglie il PIL (PIL per abitante in particolare invece che PIL globale). Il PIL presenta però dei limiti: dire per esempio che in Svizzera tra il 1870 e il 48 Alberto Bucci: “Potere di Mercato ed Innovazione Tecnologica nei recenti Modelli di Crescita Endogena con Concorrenza Imperfetta” Milano, 2002 107 1985 il PIL reale è cresciuto di 15 volte cosa significa? Nel 1870 le condizioni di produzione e di consumo erano completamente diverse rispetto al 1985. Vi sono quindi problemi di continuità statistica. - Il PIL è una misura “povera” del tenore di vita o del benessere di una popolazione: si limita a conferire un miglioramento ad un aumento del valore, ma non analizza altre variabili. - La contabilità nazionale, strumento pur potente, non riesce a tenere conto di tutto: per esempio non considera l’economia domestica e la sua importanza, come neppure il lavoro in nero, molto diffuso in certi Paesi. Se si potessero dimensionare e contabilizzare anche questi due fenomeni taluni Paesi rivelerebbero tassi di crescita maggiori rispetto alle cifre consegnate nel calcolo del PIL. I fattori della crescita economica Come sopraccitato, la crescita, almeno nel linguaggio economico più diffuso, è un fenomeno essenzialmente quantitativo. Nei modelli neoclassici il punto di partenza è rappresentato dalla funzione di produzione aggregata. La crescita dell’output globale di una nazione proviene dall’aumento della quantità dei fattori di produzione (capitale, lavoro) o da una maggiore efficacia nel combinarli (progresso tecnico). I fattori quantitativi più rilevanti sono: - le risorse naturali (suolo, fonti di energia, materie prime), - la popolazione e la sua evoluzione (pensiamo al fenomeno dell’invecchiamento e alle conseguenze di questo fenomeno sulla crescita), - il capitale, inteso come insieme di impianti e attrezzature (macchinari, edifici industriali, scorte di beni prodotti e utilizzati nella produzione,…) 108 - il lavoro, inteso come valore di ore lavorate, ma anche come numero di occupati e, sempre di più come capitale umano. (che concerne l’abilità, le conoscenze, le competenze racchiuse nelle mani e nelle menti di una popolazione) Ma a favorire la crescita vi sono anche fattori qualitativi. combinazione efficace dei fattori di produzione, che La dipende sostanzialmente dal progresso tecnico e dal suo elemento di base che è la ricerca e lo sviluppo, gioca un ruolo cruciale tanto quanto il poter disporre in quantità e prezzo di questi medesimi fattori. Altri fattori interagiscono con quelli quantitativi e qualitativi appena citati concorrendo a loro volta alla crescita economica. Si tratta dei fattori socio-culturali ed istituzionali. Si può pensare all’importanza del contesto politico, delle misure di sostegno all’economia in generale o delle tecnologie più in particolare ma anche ai rapporti sociali che si instaurano ogni qualvolta avvengono dei cambiamenti tecnologici (nuove relazioni di lavoro, nuove forme di contratto,...) e dal punto di vista socio-culturale, ai problemi di adattamento delle persone ai cambiamenti economici, politici e istituzionali. Figura 24 La crescita: il risultato dell’interazione tra fattori quantitativi, qualitativi e fattori socio-culturali ed istituzionali. 109 L’appropriazione di questi cambiamenti e delle relative conseguenze dipendono da processi interattivi di apprendimento che hanno tempi diversi dall’evoluzione economica e tecnologica. Per questo, appare fondamentale investire sul capitale umano. È importante che i fattori socio-culturali, politici e istituzionali siano un’ulteriore leva rispetto ai fattori quantitativi per la crescita e non si rivelino come ostacoli alla medesima. Parallelamente e sovente in opposizione alla visione neoclassica della crescita si è sviluppata una visione più storica e più “tecnologica” dell’evoluzione economica di lungo termine. Gli autori che hanno sviluppato questa visione si sono interrogati e s’interrogano a tutt’oggi sulla natura, la forma, la dimensione e gli effetti delle fluttuazioni cicliche dell’economia. In queste fluttuazioni, l’innovazione e il progresso tecnico giocano un ruolo essenziale. Come punto di partenza troviamo i cicli economici definiti da Kondratiev49. lunghi, della durata media di 40-60 anni. Si tratta di cicli Ad ogni fine-inizio ciclo corrisponde una rivoluzione tecnologica, contraddistinta da innovazioni di tipo radicale. La teoria dei cicli prende spunto dallo schema microeconomico del ciclo di vita del prodotto (Fig.25), per estendersi alle fluttuazioni macroeconomiche di lungo periodo (Fig.26). 49 N.D. Knodratiev: http://www.gold-eagle.com/editorials_01/alexander051401.html 110 Figura 25 Dinamica del ciclo di vita del prodotto. Fase esplorativa: fase di grande incertezza tecnologica. In questa fase l’innovazione è radicale. Emergono nuovi paradigmi tecnologici (es. automobile, elettricità e elettrodomestici, informatica e telematica). Si riscontra un’ondata di innovazioni di prodotto. Sul mercato appaiono versioni migliorate di prodotti, adattate a usi sempre più diversificati. I processi produttivi sono ancora poco efficaci e i prezzi restano elevati. Il numero di imprese produttive tende ad aumentare. Fase di Sviluppo: il mercato cresce molto: le applicazioni si moltiplicano; i clienti acquistano – adottano – i nuovi prodotti e i prezzi scendono. In questa fase aumenta la produttività e la concorrenza. I prezzi continuano a scendere. Il numero di imprese sul mercato si stabilizza. Fase di Maturità: le innovazioni diventano vieppiù di tipo incrementaleadattativo e centrate sui processi e l’organizzazione, piuttosto che sui prodotti. La concorrenza attraverso i prezzi continua. Il numero di imprese comincia a diminuire. Non ci sono più new entry nel settore e tra le imprese attive le economie di scala generano fallimenti e fusioni. Fase di Declino: nel caso non si riesca ad introdurre nel mercato nuovi prodotti, si va verso il declino. Il prodotto è a fine ciclo, le sue vendite regrediscono o smettono. Altri prodotti lo sostituiscono 111 Figura 26 Fluttuazioni cicliche dell’economia. Fase di Ripresa: momento a partire dal quale il movimento di contrazione cambia direzione. Fase di Espansione: boom degli affari: l’indicatore dell’attività conosce una forte crescita. Aumenta anche l’occupazione e i prezzi. Fase di Crisi: punto di cambiamento del ciclo. La produzione stagna, gli stock si accumulano, le imprese sono in difficoltà, alcune spariscono e con loro i posti di lavoro. Fase di Depressione o di recessione: la riduzione del numero delle imprese genera la regressione dell’indicatore di attività economica. Aumenta la disoccupazione. Si assiste a un ribasso generalizzato dei prezzi. “La visione è storica perché insiste sulle rotture della crescita (periodizzazione della storia economica). È tecnologica nel senso che il ritmo e l’orientamento dell’innovazione sono considerati le determinanti del movimento d’assieme delle economie. La pertinenza empirica dell’ipotesi del ciclo di vita del prodotto non è sempre provata e comunque è difficoltosa. Infatti, ogni prodotto è costituito da più tecnologie che possono evolvere secondo traiettorie diverse. 112 Inoltre, ogni industria offre molteplici prodotti che possono conoscere storie diverse.”50 Per esempio può essere il caso dell’informatica, dove il ciclo di vita dei computer in generale può essere ben distinto dalle single parti che lo costituiscono (microprocessori, memoria, hard disk, software etc…) o dai sistemi di cui sono essi stessi parte (reti aziendali, grossi sistemi etc…). Anche in questo caso, per riprendere la terminologia sopraccitata di Patrizio Bianchi, “ognuno ha la sua propria storia”. A livello microeconomico l’ipotesi funziona: le imprese la utilizzano sistematicamente nelle loro strategie. A livello macroeconomico la generalizzazione resta problematica. Per difficoltoso e problematico che sia, rimane comunque il miglior strumento per spiegare le fluttuazioni economiche di lungo periodo. Come introdotto precedentemente, a partire dai lavori di Schumpeter si è sviluppata una ricca tradizione di lavori economici e storici che si propone di spiegare le successioni dei sistemi tecnici e delle relazioni tra queste successioni e la crescita economica. Con Schumpeter nasce anche la nozione di sistema tecnico e di paradigma tecnologico. Ad ogni nuovo ciclo di crescita corrisponderebbe un nuovo paradigma tecnologico–economico (tecniche di produzione + modi e mezzi di produzione + nuovi prodotti + nuovi metodi organizzativi + nuovi metodi di consumo + nuova divisione del lavoro). Alcune famiglie di tecnologie dominanti nascono e ne influenzano altre, come lo è stato nel caso del sistema legato alla tecnologia del vapore, del sistema legato alla tecnologia dell’elettricità e come lo è e lo sarà il sistema nato e che si svilupperà anche in futuro a partire dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione o dalle biotecnologie. Il modello Schumpeteriano prevede 4 fasi: 50 Patrizio Bianchi: “L’innovazione come fattore di produzione” Cacucci Editore, Bari, 1999. 113 - La fase di espansione: emergenza di un nuovo paradigma tecnologico. Momento in cui le innovazioni sono soprattutto radicali. Si creano veri e propri grappoli di innovazione, contraddistinti da molti prodotti e da molte applicazioni nuove. I profitti sono elevati. È una fase d’intensa distruzione creatrice e di forte crescita economica. - Fase di maturazione: il filone tecnologico si inaridisce. Le innovazioni sono perlopiù incrementali. Si fanno meno numerose e meno radicali. Le imprese tendono a concentrarsi. La crescita rallenta. Il profitto diminuisce a causa dell'erosione delle rendite associate alle posizioni di monopolio e alla riduzione dei prezzi dovuta a una più accresciuta concorrenza. - Fase di crisi: è contraddistinta da fallimenti, dalla recessione, dalla “pulizia del mercato”. In questa fase rinasce lo stimolo (o la necessità) di innovare. È una fase in cui si prepara l’emergenza di nuovi paradigmi tecnologici (la necessità aguzza l’ingegno). - Fase di risanamento e di ripresa dell’accumulazione. Le conseguenze dell’innovazione e del progresso tecnico I risultati positivi registrati in termini economici e quantitativi relativi ai processi di crescita legati alla ricerca e sviluppo non significano necessariamente un pari aumento del benessere generale di una società. Tra gli effetti più importanti del progresso tecnico possiamo citare gli effetti sull’impiego. L’innovazione e la ricerca e sviluppo ad essa collegata sono spesso considerate come forze distruttrici di impieghi. In questi ultimi anni, l’apparizione e i progressi rapidi della microelettronica hanno portato mutazioni radicali nel campo dell’automazione dei processi produttivi nell’industria (robotica). 114 Nel campo informatico la miniaturizzazione permette la diffusione di potenti capacità di calcolo in tutti i settori dell’economia. Per la prima volta questo progresso tecnico concerne tanto l’industria quanto il terziario. Le conseguenze sull’impiego e il lavoro sono notevoli. delle nuove tecnologie è accompagnata L’introduzione dall’apparizione e dalla sparizione di diversi mestieri e modifica il contenuto degli impieghi esistenti. Le conseguenze che si possono quindi analizzare sono sia a livello di struttura delle qualifiche, sia a livello di organizzazione del lavoro. Mentre negli anni ‘80 e ‘90, le soppressioni di posti di lavoro sono aumentate sia nell’industria (quella labour intensive soprattutto) che nei servizi (banche e assicurazioni in testa), in un contesto di disoccupazione che è aumentato in modo notevole fino a un paio di anni fa, non si può generalizzare che l’aumento tecnologico provochi un aumento della disoccupazione. Personalità quali J. Rifkin51 hanno parlato addirittura della “fine del lavoro”, che sarebbe progressivamente reso inutile a causa di un’efficienza sempre maggiore della tecnologia. L’introduzione generalizzata delle innovazioni e del progresso tecnico (nella fase di massima diffusione) genera delle trasformazioni strutturali importanti e si deve quindi anche considerare che l’innovazione di prodotto ha un effetto inverso: l’apparizione di nuovi prodotti, genera 51 Jeremy Rifkin è il fondatore e il presidente della Foundation on Economic Trends di Washington. È autore di tredici libri sull’impatto dei cambiamenti tecnologici sull’economia, sulla forza lavoro e sull’ambiente, che sono stati tradotti in quindici lingue e vengono usati in centinaia di università in tutto il mondo. Negli ultimi 25 anni ha tenuto corsi ed è stato "resident scholar" in oltre 300 università di dieci paesi diversi. Il suo ultimo libro, La fine del lavoro è il risultato di tre anni di ricerca sui mutamenti delle condizioni e della natura del lavoro nell’era dell’informazione. Jeremy Rifkin si è laureato in economia del Wharton School of Finance and Commerce dell’Università della Pennsylvania, e in affari internazionali alla Fletcher School of Law and Diplomacy della Tufts University. È “visiting lecturer” al Wharton School of Finance and Commerce Senior Executive Training Program (The Aresty Institute of Executive Education). 115 nuova domanda e quindi le imprese devono aumentare la produzione, per cui assumono. Quindi, periodi come quelli attuali, in cui dominano le innovazioni di processo (informatica e la robotica) tendono a creare, almeno in un primo tempo, disoccupazione, mentre i periodi dominati dalle innovazioni di prodotto generano un incremento di occupazione. La realtà non macroeconomico nega non questi si può fatti. Tuttavia, parlare di dal punto distruzione di vista sistematica d’impieghi o di creazione sistematica e generalizzata di impieghi. Infatti, dalla rivoluzione industriale in poi la produttività del lavoro è stata moltiplicata per 20 volte, senza che l’impiego sia diminuito in modo sensibile. Con questo possiamo dire che, globalmente, la tecnologia distrugge attività e impieghi in certi settori in particolari congiunture economiche, per crearne di nuovi in altri settori. compensazione52. È il cosiddetto effetto di Quindi pare più corretto ragionare in termini di “saldo globale” derivato dall’innovazione considerando maggiormente il quadro macroeconomico rispetto a quello microeconomico. 52 Gli economisti classici sostenevano la validità della teoria della compensazione , vale a dire del carattere temporaneo dei sacrifici che devono essere sopportati dai lavoratori a causa degli effetti diretti che il progresso tecnico porta sulla forza lavoro occupata. Essi ritenevano che l'introduzione delle macchine nel breve periodo riducesse l'occupazione, ma che nel lungo la perdita dei posti di lavoro non rimanesse permanente, perché i lavoratori espulsi dalle macchine sarebbero rientrati nel processo produttivo per produrle e per rispondere all'aumento della domanda, determinato dalla diminuzione dei prezzi causata dalle nuove tecnologie. In questa ottica, la compensazione degli effetti era un meccanismo endogeno e non richiedeva comportamenti particolari delle varie classi. Sostanzialmente, la disoccupazione tecnologica per i classici potrebbe quindi aversi quando non si verifica un aumento della produzione capace di riassorbirla (giacché vi è un insufficiente incremento della domanda globale), oppure perché vi è un'offerta di capitale insufficiente a tal fine. http://www.unitec.it/ita/tesi/pozzi/cap1.1.htm 116 R&S e crescita economica La ricerca e sviluppo (R&S) industriale consiste quindi in quell’insieme di attività intraprese in modo sistematico con lo scopo sia di accrescere le conoscenze dell’impresa sia di realizzare invenzioni ed individuare scoperte utilizzabili commercialmente che di aumentare la produttività, l’impiego e la diffusione della tecnologia. La R&S è la prima fase del processo di innovazione che include anche la sperimentazione dei prototipi di nuovi prodotti/processi, la messa a punto delle caratteristiche in relazione alle esigenze specifiche della clientela, la produzione su scala industriale e l’introduzione sul mercato. processo di innovazione tecnico-scientifica non è altro che Il un particolare processo produttivo nel quale l’impresa impegna degli input (personale, risorse finanziarie e infrastrutture) nella speranza di realizzare output (nuova tecnologia o miglioramento di quella esistente). “Tale ciclo ha quindi inizio con l’opportunità di ricerca (la decisione di effettuare studi e sperimentazioni su un determinato argomento) e si conclude con la disponibilità di un “plus tecnologico” che si traduce in valore addizionale per l’impresa”53. Tale risultato è comunque incerto e l’incertezza riguarda sia l’interesse per l’impresa delle conoscenze acquisite, sia, e soprattutto, la capacità di utilizzare quelle conoscenze per migliorare la posizione dell’azienda stessa (in termini di realizzazione tecnica, successo commerciale o cessione di know how). Lo svolgimento di attività di R&S è quindi uno strumento chiave su cui basare la strategia competitiva di un’impresa o di un’intera nazione. 53 G. Petroni: “Tecnologia e impresa. Scelte tecnologiche e sviluppo dell’innovazione nell’impresa industriale” Padova, 1984 117 R&S ed aumento nella produttività Come abbiamo visto in precedenza, la crescita economica dipende tanto dall’accumulazione di capitale fisico quanto umano, dall’incremento della forza lavoro attiva e dall’efficienza con cui entrambe queste risorse vengono impiegate. La capacità di ottenere produzioni più elevate senza alterare la combinazione dei fattori produttivi corrisponde ad un aumento della produttività. caratteristiche qualitative del Quest’ultima dipende a sua volta da capitale fisico, miglioramenti nelle competenze della forza lavoro, progressi tecnologici e nuovi modi d’organizzare questi fattori produttivi. Storicamente gli incrementi di produttività hanno costituito la principale fonte di crescita economica; essi hanno reso possibile espandere la produzione senza aumentare contemporaneamente l’impiego di fattori produttivi (consentendo anzi riduzioni dell’orario lavorativo) ed ottenere un aumento sostenuto dei redditi reali. Il recente rallentamento nella crescita della produttività nell’Unione è sinonimo di una competitività in calo (dove per competitività s’intende uno sviluppo durevole nei redditi reali e nel tenore di vita associato alla disponibilità di posti di lavoro per chiunque desideri un’occupazione). La crescita della produttività può quindi favorire il finanziamento di programmi d’espansione dell’impresa, ed offrire all’impresa anche la possibilità di sostenere aumenti di redditività in termini reali. Analogamente il tenore di vita in uno Stato migliora quando si registra una crescita sostenuta della produttività. Consolidando la posizione competitiva delle imprese innovative gli incrementi di produttività possono non solo ridurre il costo unitario dei prodotti, ma anche ampliarne i potenziali mercati. I cittadini dal canto loro beneficiano di prodotti migliori a prezzi unitari inferiore nonché, 118 come visto nel paragrafo precedente della possibilità a medio termine, di una crescita dell’occupazione. Anche quando gli aumenti di produttività si limitano inizialmente a settori specifici dell’economia, essi finiscono per estendersi ad altri in seguito a cambiamenti nei prezzi relativi cui sono associati aumenti dei redditi reali. In generale il paese che riesca ad ottenere una crescita vigorosa e sostenuta della produttività registra altresì rapidi aumenti del tenore di vita. Ciò si può per esempio vedere dimostrato se analizziamo l’epoca d’oro europea della crescita e della convergenza, che va dal periodo successivo alla seconda guerra mondiale fino al primo shock petrolifero almeno. Nonostante i buoni risultati macroeconomici degli ultimi anni nella seconda metà degli anni ’90 la crescita di produttività della manodopera nell’UE non è riuscita ad eguagliare i risultati precedenti, il che non può esser considerato altro che un’evoluzione particolarmente negativa della situazione. Poiché la crescita dell’occupazione è tradizionalmente debole l’aumento dei redditi nell’UE dipende in maniera decisiva dall’aumento di produttività della manodopera. Il fatto che negli anni scorsi quest’ultima non sia riuscita a mantenere nemmeno il suo andamento storico comporta l’impossibilità di sostenere la crescita dei redditi nazionali e del tenore di vita. La crescita della produttività fa capo ad una serie di fattori. Per esempio se analizziamo i risultati ottenuti dall’Europa in questo campo negli ultimi anni si nota la scarsa attività innovativa, che si estrinseca nel livello insufficiente degli investimenti in tecnologie per l’informazione e la comunicazione (ITC) ed alla scarsa diffusione di tali tecnologie. Queste carenze hanno avuto pesanti ripercussioni sul confronto per sempio tra Stati Uniti ed UE in termini di risultati ottenuti. 119 Questo risultato riflette l’impatto dei profitti provenienti da investimenti nei settori tecnologici e delle innovazioni nazionali. Negli USA la rivoluzione delle ICT ha incoraggiato la riorganizzazione aziendale e modificato i termini della concorrenza. manodopera verso Ha altresì indirizzato la domanda di competenze idonee alle nuove tecnologie. Nell’Unione Europea i settori ad elevata intensità di conoscenze hanno trainato la creazione di posti di lavoro, ma l’evoluzione della produttività è risultata assai meno favorevole che negli USA. Ciò pone in risalto una serie di caratteristiche associate a paesi o regioni che registrano una crescita vigorosa e sostenibile della produttività, tra cui l’evoluzione tecnologica, un capitale umano ben curato od in all’innovazione. aumento Tale ed un ambiente ambiente offre altamente numerose favorevole occasioni per l’apparizione di nuove imprese e per la revisione dei modelli gestionali e la modernizzazione operativa d’imprese già esistenti. Il contesto concorrenziale a sua volta svolge un ruolo cruciale nel preservare tale ambiente perché un’intensa concorrenza incoraggia l’innovazione, promuove la crescita della produttività e contribuisce alla competitività. Come spiegato nel Capitolo I, nel paragrafo dedicato alla Globalizzazione, l’internazionalizzazione dei mercati determina una sempre più forte competitività che stimola a sua volta l’innovazione e la spesa in R&S per un aumento di produttività. La crescita della produttività svolge inoltre una funzione importante ai fini della più ampia questione della sostenibilità ambientale, sociale ed economica: la crescita della produttività determina infatti l’ecoefficienza, vale a dire il rapporto tra produzione industriale ed impiego delle risorse oppure emissione di sostanze inquinanti. La crescita della produttività rientra dunque nel contesto della sostenibilità tanto economica quanto ambientale. 120 Tutte queste caratteristiche possono essere influenzate dalle politiche perseguite, che possono dunque avere ripercussioni di rilievo sui risultati ottenuti in fatto di produttività. R&S ed il cuore dello sviluppo Globalizzazione dei mercati e tecnologie dell'informazione (ICT) sono state le due grandi forze che hanno interagito, alimentandosi a vicenda, in questi due decenni. Lo sviluppo della società dell'informazione svolge un ruolo trainante nei processi di globalizzazione, grazie alla costituzione di reti digitali globali che collegano fra loro una moltitudine di soggetti e sospingono la creazione di una nuova economia globale basata sulle reti e su fattori immateriali. Cambiano i fattori che rendono competitive e dominanti le economie. Il contenuto tecnologico, la qualità e il marchio del prodotto, la proprietà intellettuale, la tempestività del servizio stanno prendendo il sopravvento sui tradizionali fattori di costo. Come abbiamo approfondito nel primo capitolo, attraverso l’età della globalizzazione l’economia delle materie prime è stata soppiantata dall'economia della conoscenza. La ricchezza non è più creata solo dalle risorse naturali o dalla produzione, ma da come i prodotti e i servizi sono progettati e immessi sul mercato. I settori industriali e dei servizi basati sulla conoscenza, la cosiddetta knowledge based economy, caratterizzati da un alto input di ricerca e sviluppo e che impiegano manodopera con un livello di qualificazione superiore alla media e in particolare quelli imperniati sulla titolarità di diritti d'autore o sul possesso di know-how, hanno superato i settori più tradizionali in termini di crescita di valore e di occupazione, capitalizzazione e capacità di esportazione. Nel periodo 1985-1998 il tasso medio annuo di crescita 121 delle esportazioni di prodotti industriali ad alto contenuto tecnologico è stato dell’11,3% nei paesi sviluppati e del 21,4% nei paesi in via di sviluppo. Nello stesso periodo il tasso di crescita per i prodotti industriali a media e bassa tecnologia era rispettivamente del 8,5% e del 13% e quello delle materie prime del 4,4% e del 1,3%. In Europa, nel periodo 1995-1999, l’occupazione in questi settori è cresciuto ad un tasso triplo rispetto alla media dell'industria e nei servizi l’area orientata alla comunicazione e all’informazione ha avuto un tasso annuo di crescita più che doppio rispetto alla media. Gli investimenti in “conoscenza” sono diventati pari al 4,7% del Prodotto Lordo come media dei paesi sviluppati (area OCDE). Nel corso degli anni ‘90 questi investimenti sono cresciuti ad un tasso del 3,4% annuo, mentre gli investimenti in capitale fisso (macchinari, edifici etc) sono cresciuti ad un tasso del 2,2%. In questo contesto, la ricerca e lo sviluppo tecnologico e la qualità del capitale umano (la qualità della loro formazione) diventano fattori cruciali in quanto si accorcia il ciclo della ricerca e sviluppo. Il modello classico della ricerca (“ricerca di base precompetitiva - ricerca industriale - attività di sviluppo”) corrisponde sempre meno alla realtà. Nei nuovi campi, dall'informatica alle biotecnologie, le attività di ricerca di base possono portare direttamente alla creazione di prodotti e il tempo di ritorno degli investimenti nella ricerca è molto più rapido come testimoniano gli utili delle società hi-tech nella farmaceutica o nel software. Una buona correlazione è evidente tra il tasso di crescita economica e il tasso di crescita della spesa per la ricerca e sviluppo. In Europa, nel periodo 1995-1999, i paesi con tassi di crescita della spesa inferiori alla media hanno avuto anche tassi di sviluppo inferiori alla media, mentre tutti i paesi con tassi di crescita della spesa superiori alla media hanno avuto anche una prestazione economica superiore. In 122 secondo luogo perché l’impiego efficace delle nuove tecnologie richiede che l’insieme della forza lavoro sia dotato di un’elevata qualificazione. Da qui la rilevanza economica degli investimenti nel capitale umano, nella formazione scolare e professionale e nell'aggiornamento. La spesa pubblica e privata, per le attività di ricerca e sviluppo è cresciuta nell'area OCDE nel corso degli anni ‘90 al ritmo di circa il 4% annuo. Dopo un generalizzato declino della spesa (in % sul Pil) nel corso dei primi anni ‘90, a partire dal 1994, negli Stati Uniti e in Giappone la spesa - in primo luogo per gli investimenti del settore privato, che coprono circa il 75% della spesa - è tornata a crescere più del PIL, mentre in Europa l’incidenza sul reddito è rimasta declinante. La spesa per la ricerca e sviluppo è cresciuta soprattutto nel settore privato e soprattutto negli Stati Uniti. Nella gran parte dei paesi sviluppati, invece, è declinata la quota di spesa pubblica (sia in rapporto al PIL che al totale della spesa) e se ne è modificata sia la composizione che la destinazione. Il tratto essenziale è costituito dalla contrazione, molto accentuata negli Stati Uniti, della ricerca pubblica legata alle attività militari. Ciò nonostante, ancora nel 1999 alla difesa era destinata il 53% della spesa pubblica in ricerca e sviluppo degli Stati Uniti (ma era il 70% nel 1987) e il 15% nei paesi europei (ma il 35% in Gran Bretagna). Nello stesso periodo è invece aumentata la spesa pubblica nel settore della ricerca medica e farmaceutica (+10% in Giappone, +8% negli Stati Uniti, +5% in Europa), trainata in particolare dagli investimenti nella ricerca biotecnologica. Lo sviluppo della ricerca si è tradotto in una crescita accelerata del numero di brevetti e della proprietà intellettuale. Tra il 1990 e il 1997 le domande di brevetto sono cresciute di oltre il 5% annuo, con una forte concentrazione nei settori delle biotecnologie (+10%) e dell’ICT (+8%). I brevetti sono estremamente 123 concentrati nei paesi sviluppati: il 35% è registrato dagli Stati Uniti, il 32% da paesi dell’Unione Europea e il 27% dal Giappone. Le tecnologie dell'informazione e della comunicazione sono state finora il cuore della nuova economia della conoscenza. Come mostra la rapida crescita della produttività del lavoro avvenuta nella seconda metà degli anni ‘90 negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei a più alta densità di ICT, raggiunta una certa soglia critica, lo sviluppo delle tecnologie della comunicazioni e dell'informazione ha permeato l’insieme del sistema economico consentendo un cambiamento delle tecnologie di produzione, di organizzazione delle imprese e dei mercati, di gestione del consumo. E’ cambiato il modo di operare delle economie e della vita individuale e sociale. La connessione informatica trasforma radicalmente il concetto di distanza e di mercato locale e tendenzialmente determina una concorrenza mondiale istantanea, consentendo di superare molti vincoli fisici e informativi per il commercio, le transazioni finanziarie, la ricerca. L’accesso alle tecnologie dell’informazione e comunicazione è cresciuto rapidamente in questi anni. Il ritmo di diffusione delle nuove tecnologie - in primo luogo Internet e la telefonia cellulare - è senza precedenti. Dai 20 milioni di utilizzatori di Internet e dalle poche migliaia di siti web del 1995 si è giunti a oltre 400 milioni di utilizzatori e 20 milioni di siti web a fine 2000. Negli ultimi due anni gli utilizzatori Internet sono raddoppiati negli Stati Uniti e quadruplicati negli altri paesi sviluppati. Nell'area dei paesi OCDE gli abbonati ad Internet sono tra il 10% e il 35% della popolazione e nei paesi scandinavi gli utilizzatori abituali sono superiori al 50% della popolazione adulta. Anche la disponibilità di personal computer è cresciuta in maniera significativa. Nei paesi sviluppati tra il 20 e il 70% della popolazione dispone di un personal 124 computer ed in quasi tutti i paesi almeno la metà delle famiglie ne possiede uno. L’ingresso nell'economia della conoscenza e l’accesso alle tecnologie dell’informazione non è però stato uniforme. Vi è uno scarto immenso il digital divide- tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Ma vi è anche un ampio fossato che divide, all'interno dei paesi sviluppati il gruppo di quelli ad alta tecnologia (in primo luogo Stati Uniti e paesi nordici dell'Europa) dagli altri paesi sviluppati (in primo luogo i paesi dell'area mediterranea). Gli investimenti nelle infrastrutture possono però significare un sacrificio della soddisfazione di bisogni fondamentali, acuendo le ineguaglianze tra classi sociali e tra popolazione urbane e popolazione rurale. La Malesia ha investito 3,6 miliardi di dollari per il suo Multimedia Super Corridor, ma la gran parte delle strutture scolastiche è priva di computer e il 10% della popolazione è ancora privo di energia elettrica. Ma per questi paesi le tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni possono consentire un salto di sviluppo, una rottura di continuità. Gli esempi sono già visibili: l’espansione dell'economia globale e delle tecnologie ICT hanno creato nuove opportunità per attività di nicchia. Pur in un contesto di deprivazione culturale, alcuni paesi in via di sviluppo possiedono centri di eccellenza e risorse intellettuali e tecnologiche. Bangalore, in India, per sempio, è uno degli “hub” tecnologici più importanti del mondo. Ma anche in altre aree, in Brasile, in Sud Africa, in Tunisia, in Malesia, oltre che in Corea e a Taiwan, vi sono aree di ricerca e sviluppo delle tecnologie informatiche e di telecomunicazione di eccellenza. Da queste aree oggi si esportano non solo tecnologie, ma, soprattutto, capitale umano, ricercatori, tecnici, che soddisfano i fabbisogni dell'industria e dei servizi degli Stati 125 Uniti e dei paesi europei, determinando una diaspora che impoverisce le risorse di questi paesi e ne mina le possibilità di sviluppo. 126 CAPITOLO III Analisi comparativa Prefazione Dopo aver analizzato tutti gli aspetti fondamentali dal punto di vista teorico delle economie basate sulla conoscenza, si vuole cercare, nei prossimi paragrafi, di portare alcuni esempi pratici che mostrino a tutt’oggi quali paesi abbiano scelto la strada dello sviluppo tecnologico come punto cardine della crescita economica. Abbiamo visto attraverso i precedenti capitoli i principali temi legati alle componenti delle economie basate sulla conoscenza (Knowledge Economy) così come si è cercato di rendere chiaro la relazione che esiste tra sviluppo economico e ricerca e sviluppo. Dopo un breve paragrafo introduttivo attraverso il quale si potrà vedere il diverso approccio di alcuni paesi alle strategie di incentivo sugli investimenti in R&S, vedremo in particolare gli aspetti di evoluzione di alcune economie da industriali a basate sulla conoscenza. Questo servirà come base analitica per comparare l’attuale situazione dell’Europa che nel panorama mondiale presenta quote di investimenti in R&S decisamente inferiori rispetto a paesi quali gli Stati Uniti, Nuova Zelanda, Canada, Giappone etc… A tal proposito sarà sviluppato in particolare il nuovo obbiettivo proposto dalla Commissione Europea ed approvato dal Parlamento Europeo per raggiungere entro il 2010 la quota del 3% di investimento 127 del PIL nazionale in ricerca e sviluppo per poter far fronte alla crescente competitività degli altri paesi e per poter donare nuovi impulsi ad un’economia europea stagnante ed ancora fortemente legata all’industrializzazione. Introduzione Secondo il Professor Lester Thurow54 l’economia della è proprio l’abbinamento di formazione ed innovazione tecnologica. Senza uno sforzo continuo e mirato nei settori della formazione e dell’innovazione tecnologica sarà difficile per un Paese rimanere competitivo a livello internazionale. E ciò vale ancor più in tempi di globalizzazione, come abbiamo spiegato nel corso del primo capitolo di questo lavoro. Gli Stati Uniti hanno sempre spinto in questa direzione e non a caso, sottolinea il professor Thurow, investono costantemente in ricerca e sviluppo circa il tre per cento del loro enorme prodotto interno lordo. La loro supremazia su moltissimi settori viene da un’acuta e tempestiva capacità di previsione. Per esempio, nelle biotecnologie l’attuale monopolio degli USA si basa anche sulla tempestività degli investimenti in formazione. “All’M.I.T. – spiega Thurow – aprimmo quarant’anni fa il primo corso di microbiologia. In Giappone ci arrivarono 20 anni più tardi”55. Negli Stati Uniti, la propensione alla ricerca viene alimentata costantemente anche se non si intravede un ritorno immediato: per esempio sono stati fatti enormi investimenti nelle fibre ottiche che, per il momento, non trovano spazio sul mercato, anche se per molti industriali ed economisti è solo una questione di tempo. 54 55 Professore di Management e di Economia all’M.I.T di Boston L. Thurow, M.I.T. Boston, 2002. 128 Moltissimi studi si stanno inoltre concentrando sui cibi geneticamente modificati, che l’Europa “scruta” con grande sospetto. “E’ un altro campo nel quale gli Stati Uniti stanno accumulando enormi vantaggi anche per la maggior capacità del sistema di accettare il valore del rischio. Un rischio calcolato, perché tiene conto dei responsi rassicuranti delle nostre istituzioni di sanità, di cui gli americani si fidano”56. Lo sforzo tecnologico è fondamentale, ma da solo non basta. La tecnologia – sempre secondo Thurow – da sola non fa il business. Per questo occorrono gli imprenditori, capaci di mixare un’innovazione tecnologica con tutti gli altri aspetti che determinano l’aderenza al mercato di un determinato prodotto. Ma gli imprenditori possono e devono poter sbagliare, fare mille tentativi prima di riuscire. E possono far ciò se la società in cui operano tollera il fallimento. Altrimenti si preferirà non rischiare57. Questo tipo di strategia è poco riconosciuta nei mercati dell’Unione Europea ed in particolar ein Italia con la conseguenza della perdita di posizioni nel panorama internazionale. Tutto ciò vale ancora di più in tempi di globalizzazione, una globalizzazione che, in mancanza di un governo globale, si presenta allo stato attuale “senza regole” dove la 56 L. Thurow, M.I.T. Boston, 2002. Negli Stati Uniti, secondo quanto riportato dal professor Lester Thurow, se un imprenditore non ha alle spalle almeno un fallimento non viene preso sul serio dai possibili finanziatori. Si accetta il fallimento e lo si considera un momento normale quando si è alla ricerca di nuove vie. Anzi, si è notato che i progetti di nuove società ad alto contenuto tecnologico presentati dopo due tentativi falliti sono quelli che hanno le maggiori probabilità di successo. Altrove non si ha la stessa tolleranza per il fallimento. In Paesi come il Giappone, ad esempio, la tolleranza è inesistente ed un imprenditore che incappa nel fallimento, per il disonore, può giungere al suicidio. Al contrario, l’accettazione della possibilità di fallimento è – secondo Thurow - uno dei motivi del successo degli Stati Uniti e della stasi di Paesi come il Giappone, insieme alla presenza di altri elementi di dinamicità come la “distruzione creativa di posti di lavoro”. L’elevata possibilità di licenziare, sempre secondo il pensiero del professore del M.I.T. di Boston, pur comportando problemi rilevanti soprattutto per gli over 55, ha come aspetto positivo la messa sul mercato di nuove energie, che potranno essere reimpiegate in filoni emergenti. 57 129 concorrenza diventa il paramentro principale di confronto tra imprese e tra nazioni. Naturalmente, anche in tempi di globalizzazione, recessioni e crolli finanziari sono “fisiologici” ed è in queste fasi che diventa fondamentale l’appoggio e le azioni a carattere politico. Per esempio la leva fiscale, i negoziati, le partnership, le fuzioni etc… Anche per Richard Locke58, “un progetto di cooperazione e di scambio scientifico, la qualità del capitale umano, per accrescere in particolare le competenze tecniche e manageriali, sono elementi fondamentali per il successo di un Paese”59. E gli esempi di economie da anni in difficoltà ed ora entrate a pieno titolo nell’economia della conoscenza (come nel caso della Svezia) dimostrano che i cambiamenti possono avvenire anche nel giro di pochi anni. Caso ancor più eclatante quello dell’Irlanda dove, a parte la leva fiscale, secondo è stato fondamentale il forte investimento fatto dal governo nell’ “education”, in particolare quella universitaria. Alcuni esempi di Economie della Conoscenza Come abbiamo detto precedentemente l’attenzione dei governi nel promuovere e stimolare lo sviluppo di economie basate sulla conoscenza è fondamentale. Molti paesi hanno investito nella formazione, ma anche nella crescita della società verso le nuove tecnologie, verso nuovi valori e verso l’accettazione dell’introduzione di nuove tecnologie e nuovi prodotti. Ma non tutti i paesi hanno scelto la medesima strada e gli approcci, dovuti anche al diverso substrato storico sociale, hanno 58 59 Professore di politica comparativa ed economia politica e direttore del M.I.T.-Italia http://www.netmanager.it/Site/Tool/Article/view_html?ida=6924&idc=318 130 condotto a risultati diversi, ma con un unico obbiettivo: la crescita economica ed il rafforzamento economico in un’economia globale i rapido mutamento. Stati Uniti e Canada hanno sviluppato concetti e teorie generali. L’Unione Europea si può dire che abbia sostenuto alcuni progetti pilota per supportare l’industria e promuovere una coesione sociale. Inghilterra e Nuova Zelanda si sono focalizzate sulla competitività delle infrastrutture. Gli Stati Uniti hanno utilizzato questa nuova economia per stimolare la produzione di ricchezza, mentre l’UE ha enfatizzato lo sviluppo regionale. Il Giappone ha fatto una fortissima leva sull’economia della conoscenza per cercare di sbloccare la difficile congiuntura economica utilizzando in particolare le ICTs. Vediamo ora attraverso un breve escursus le principali caratteristiche di alcune delle più incisive economie mondiali che hanno impegnato il loro futuro sullo sviluppo della conoscenza e della ricerca. Australia Nel 1998 l’Australia era una delle economie mondiali con il tasso di crescita superiore (4.9% di crescita del PIL). Parte di questo successo risiede nelle iniziative pubbliche e private che hanno posizionato l’Australia tra i paesi più avanzati tecnologicamente, con un alto contenuto di innovazione e di utilizzo delle ICT. Questi sforzi sono coordinati da un organismo nazionale statale (National Office for the Information Economy) con l’obiettivo di aumentare i profitti della nuova economia e la sua espansione nella comunità industriale e sociale. 131 Per esempio il numero di aziende che sfruttano i servizi di commercio on-line è cresciuto di circa il 100% in meno di 12 mesi nel 1998. All’inizio del 1999 oltre 48 mila società avevano registrato il loro dominio on-line ed utilizzavano servizio di ISP. I profitti generati dall’industria dell’informazione australiana in quell’anno ammontavano a circa A$60 miliardi. L’Australia rappresenta solamente l’1.2% del PIL mondiale, ma genera circa un 2.3% di attività globale nell’industria dell’ICT. Sotto il punto di vista dell’aumento dell’occupazione, lo sviluppo dell’economia basata sulla conoscenza ha portato un notevole incremento dei nuovi posti di lavoro i quali sono aumentati solo per il settore dell’ICT del 46% negli ultimi 10 anni, rispetto ad un aumento del 16% medio per gli altri settori. Nel 1998 il tasso di disoccupazione del settore dell’ICT non raggiungeva il 2%. Come vedremo successivamente per quanto riguarda il panorama Europeo, l’importanza dello sviluppo regionale determina dei forti impulsi di crescita all’interno di una stessa nazione. In Australia questo fenomeno è chiaramente riscontrabile con lo “State of Victoria”. Già nel 1996 il governo dello stato di Vittoria aveva adottato una strategia di sviluppo volta verso la tecnologia e la multimedialità, con il famoso “Victoria 21”, con lo scopo di indirizzare lo stato verso un rapido e sicuro sviluppo economico e per attirare gli investimenti sia interni che esogeni. Il progetto “Victoria 21” ha favorito l’aumento di investimenti in R&S generando la crescita dell’occupazione e creando una nuova e forte immagine di “marca” per Vittoria nell’ambito dello sviluppo delle ICTs, come “centro di eccellenza” nell’economia globale. I risultati di questi investimenti sono stati dal 1996 la creazione di 10 ila nuovi posti di lavoro e un flusso di investimenti annuo di A$ 2 132 miliardi (solo per la regione di Vittoria). Tutto ciò ha permesso di attirare numerosi attori nel mercato dei servizi, comunicazioni etc… di paesi esteri che hanno trovato in Vittoria un fertile terreno di sviluppo e di investimento. Anche se il caso “Victoria 21” si può considerare come esemplare, il governo australiano in generale ha comunque investito notevolmente per accelerare lo sviluppo del paese verso un’economia basata sulla conoscenza, offrendo sovvenzioni e defiscalizzazioni per gli investimenti in R&S ed agevolando gli investimenti stranieri nel paese. Finlandia Il caso della Finlandia comporta caratteristiche ben diverse rispetto all’Australia, non solo per le forti differenze socio-culturali, ma per la stessa organizzazione dell’economia dei due paesi. La Finlandia presenta un territorio molto vasto, disseminato di laghi e foreste, con una densità di popolazione bassa. Per lunghi anni l’industria del legname ha rappresentato la forza primaria del paese. Oggi questo settore rappresenta solo il 3% del PIL nazionale. Negli ultimi 50 anni l’occupazione nel settore del legname è sceso dal 70% al 6%. Questo per un cambio radicale di obiettivi del paese che hanno investito pesantemente sullo sviluppo dell’industria dell’ Hightech, aiutando a far crescere il PIL di oltre 5 volte. Tanto le industrie quanto la società ha accettato cambi strutturali nell’organizzazione del lavoro e nell’impiego. Molte industrie si sono riconvertite all’economia basata sulla conoscenza. Esempio chiave dell’economia finlandese e’ Nokia: in origine una delle più importanti industrie di trattamento delle polpe di cellulosa, ha saputo cambiare radicalmente il suo obiettivo primario (missione), diventando oggi il leader mondiale delle ICTs. 133 Anche in questo caso possiamo notare come il Governo abbia svolto un ruolo primario nello sviluppo strategico della nuova economia del paese. La Finlandia ha saputo diversificarsi per accogliere l’avvento delle nuove tecnologie in maniera attiva nell’innovazione tecnologica. diventando uno dei paesi leader Si può notare come l’avvio dato dal governo sul cambiamento dell’economia sia stato accolto positivamente dalle imprese, tanto che oggi le imprese finlandesi investono il 10.4% in ricerca e sviluppo contro una media del 4.6% mondiale. Questo sistema dinamico e rivolto verso l’investimento in R&S è stato abbinato ad un forte approccio culturale definito “learning economy” che ha portato alla creazione di figure professionali capaci e competitive nel quadro internazionale. Irlanda L’Irlanda ha saputo trasformare la propria economia da una situazione di disastro finanziario e di stagnazione economica, ad una delle più dinamiche economie del mondo. Tutto questo nel lasso di un solo decennio. L’economia irlandese è stata per lunghi anni un modello di ristrettezze fiscali, di riforme, di tagli e dubbie scelte organizzative. Ma quando nel periodo 1990 – 1997 l’economia ha incominciato a crescere di poco sotto il 7% (in comparazione al 2% medio dell’UE), si può che ha saputo dare un forte impulso attraverso: - il forte investimento nell’educazione (specialmente tecnica) - la correzione dei problemi fiscali del paese attraverso adeguate riforme monetarie - il controllo delle spese pubbliche e dei costi 134 - la rapida privatizzazione di imprese e settori produttivi - una scelta strategica di posizionamento del paese nel centro delle transazioni finanziarie europee - la creazione di incentivi per stimolare l’economia con forti sgravi fiscali I fondi messi a disposizione dall’Unione Europea hanno giocato un ruolo predominante nello sviluppo dell’economia irlandese, ma le forze locali hanno saputo adattarsi velocemente alla necessità di cambio e di sviluppo verso un’economia basata sulla conoscenza. Il tasso di emigrazione dei giovani oggi è diminuito drasticamente e si può addirittura notare un riflusso dei precedenti emigrati grazie ad un notevole incremento dell’occupazione ed alla creazione di nuovi posti di lavoro. Canada Sovente oscurato dall’economia degli Stati Uniti, il Canada resta un valido modello di sviluppo basato sulla nuova economia. Se guardiamo agli ultimi dati statistici, il Canada presenta una solida base di infrastrutture, così come una seria politica statale di supporto ed investimento. Già nel settembre 1995 l’IHAC (Information Highway Advisory Council) aveva presentato le strategia da adottare nel paese per sviluppare l’utilizzo delle ICTs. Attraverso un documento (Preparino Canada for a Digital World) l’IHAC promuoveva l’implementazione di 5 principi base per una rapida e corretta trasformazione dell’economia canadese: - creare e rendere operativa una rete nazionale - agevolare lo sviluppo pubblico e privato 135 - assicurare la privacy e la sicurezza delle reti - stimolare la competitività nei servizi - sostenere il “lifelong learning” (apprendimento continuo) La strategie canadese riconosce l’importanza centrale dell’educazione e la necessità per i giovani di essere introdotti all’utilizzo delle tecnologie per creare il cuore di un’economia basata sulla conoscenza. Nel 1999 il governo canadese annunciava un investimento di US$ 1.2 miliardi in progetti legati all’ICT, compreso un investimento di US$ 134 milioni per lo sviluppo del sistema educativo canadese attraverso il progetto “School Net”. Il Canada ha dunque saputo raggiungere in un breve periodo un elevato sviluppo delle tecnologie ed una sostanziale mutazione da economia industriale ad economia basata sulla conoscenza, posizionandosi tra le più attive economie di questo genere, grazie a: - una forte spesa sulle ICTs - la competitività del suo settore di informazione e comunicazione - il grado di liberalizzazione nel settore delle telecomunicazioni - la forte modernizzazione del sistema delle ICTs - i bassi costi per l’utilizzo delle ICTs - la forte penetrazione dell’uso di nuove tecnologie in tutto il paese - la crescita nella formazione60 A differenza di altri paesi, come abbiamo analizzato in precedenza, possiamo notare che il Canada ha puntato molto sullo sviluppo delle nuove tecnologie e delle infrastrutture informatiche e di 60 Melnyk Max: “Annex B: Key Indicators for Benchmarking the Development of Canada’s Information Highway” Industry Canada: http://strategis.ic.gc.ca/SSG/ih01637e.html 136 telecomunicazioni. Ciò ha portato negli ultimi anni un divario rispetto a queste economie per quanto riguarda gli investimenti in ricerca e sviluppo a discapito di una minore crescita del PIL. Per questo motivo che a tutt’oggi il Canada malgrado gli sforzi e le strategie messe in atto, si piazza solo a metà del gruppo delle economie che si possono definire stabilmente basate sulla conoscenza. Ciò può anche essere una delle ragioni per cui l’out-flow di risorse umane rimane in Canada un problema grave, tanto che nel 1999 si poteva ancora contare un’emigrazione di circa 300 mila persone verso la Silicon Valley ed un altro 600 mila in altre zone. Singapore Singapore rappresenta sicuramente un valido esempio di sviluppo di un’economia verso l’eccellenza dello sfruttamento della conoscenza. Isola di solo 600Km² senza risorse naturali, ha accresciuto la sua economia riuscendo ad aggiungere valore aggiunto ai prodotti di altri paesi, ed ha sfruttato la sua posizione offrendo servizi bancari, finanziari, logistici e di trasporto. Singapore è stato uno dei primi paesi a scegliere la strada dello sviluppo della conoscenza. Nel 1981 il governo dell’isola lancia un programma di sviluppo con lo scopo di informatizzare i servizi dello stato. Nel 1986 viene creato il “National IT Plan” che con il progetto “IT200” detta i passi per trasformare l’economia del paese in una “Intelligent Island”61. Si possono oggi analizzare i risultati delle decisioni strategiche effettuati agli anizi degli anni ’90 e si può notare come lo sviluppo della conoscenza e la scelta di investire in R&S abbiano portato frutti positivi 61 Hardy Sarah, “Intelligent Island” Far Eastern Economic Review 1998 137 per l’isola. Il settore delle ICT di Singapore genera un rendimento di US$ 7.3 miliardi (tra vendite di hardware, software e servizi IT). Oltre il 99% della popolazione è collegata all’unica rete a banda larga statale del mondo: Singapore ONE che include ad oggi oltre all’accesso a tutti i servizi statali anche a più del 50% dei servizi di e-commerce privati. I forti investimenti in ICT avvicinano Singapore all’economia Finlandese tanto da contendersi il posto di seconda economia leader nelle ICTs. Stati Uniti Gli Stati Uniti sono certamente il caso più utile per la comprensione di uno sviluppo da un’economia industriale ad un’economia basata sulla conoscenza. All’inizio degli anni ’80, attraverso gli Stati Uniti molte industrie chiudevano. Un’economia ormai satura creava centinaia di migliaia di disoccupati in ogni settore. Già nella metà degli anni ’90 questa situazione era capovolta tanto che il tasso di disoccupazione si avvicinava al 5% ed era addirittura inferiore nel settore dell’high-tech. Le ICTs e lo sviluppo dei servizi hanno creato un nuovo motore di spinta dell’economia Americana e di riflesso hanno portato ad uno sviluppo rapido di tutta l’economia mondiale. Se analizziamo gli indici vediamo che PIL, occupazione, esportazioni, investimenti, stock-market sono positivi mentre disoccupazione, inflazione e tassi di interesse sono giustamente negativi, segno di un’economia forte ed in crescita. Ad oggi la situazione è cambiata sicuramente a causa di una congiuntura internazionale sfavorevole ed anche a causa di una crescente economia europea che pian piano riesce a imporsi sul piano internazionale in maniera sempre più importante. Se riprendiamo il concetto Schumpeteriano di “creative destruction” (distruzione creativa) analizzato nei capitoli precedenti, possiamo notare 138 come la perdita di quasi 44 milioni di posti di lavoro si sia trasformata attraverso il processo di aggiustamento dell’economia del paese nella creazione di 73 milioni di nuovi posto di lavoro, con un guadagno di circa 29 milioni di posti di lavoro dal 1980. Ad oggi si può considerare che il 55% dei posti di lavoro sono in settori nuovi rispetto alla precedente economia industriale62. Quello che appare come una miracolosa inversione di trend, altro non è che il risultato di una lungimirante ed innovativa politica di investimento che gli Stati Uniti hanno saputo applicare correttamente: - le imprese statunitensi sono state le prime a cogliere l’importanza dei computer e delle tecnologie dell’informazione ed hanno investito capitali importanti tanto da raggiungere il 40% dell’investimento totale mondiale nel settore dell’informatica e ICT. Negli Stati uniti sono presenti 5 volte il numero di computer per lavoratore rispetto all’Europa ed al Giappone. Le industrie americane investono pesantemente nelle nuove tecnologie, ma anche nella necessaria formazione per un giusto “training” del personale. - le industrie americane hanno saputo cambiare il loro core business passando efficacemente da una produzione prettamente industriale ad un’economia delle infrastrutture informatiche e dell’ICT. Hanno rimpiazzato i beni di massa con beni sofisticati che contengono una grande porzione di capitale intellettuale. L’esportazione di beni dagli Stati uniti consiste per la maggior parte di beni con notevole valore aggiunto che non devono semplicemente competere nel mercato dei prezzi. - in generale gli Stati Uniti spendono in ricerca e sviluppo più di ogni altro paese ed il gap è in continua crescita. 62 Zuckerman Mortimer: “A Second American Century. Foreign Affairs” 1999 139 La particolarità della trasformazione degli Stati Uniti risiede nel mix di elementi che hanno favorito la rapida introduzione di un nuovo tipo di economia basata su concetti e forze nuove. L’elemento socio-culturale rappresenta una parte essenziale di questa crescita e trasformazione essendo un paese che promuove l’individualismo imprenditoriale, il talento, l’innovazione ed il rischio. Ed è proprio questa base socio- culturale che differenzia gli Stati Uniti dagli altri paesi, nei quali è generalmente il governo a farsi carico degli investimenti e delle trasformazioni, mentre negli USA, il settore privato rappresenta una componente primaria negli investimenti in ricerca e sviluppo. Gli operatori impegnati nell’attività di R&S negli Stati Uniti sono raggruppabili in tre categorie: - l’industria privata - la pubblica amministrazione - le università A queste si deve aggiungere un quarto gruppo che sta assumendo un ruolo sempre più importante, i centri di ricerca senza scopo di lucro. Secondo recenti informazioni fornite dall’OECD ed elaborate dall’Airi, (Associazione Italiana per la Ricerca Industriale), che sistematicamente raccoglie dati riguardo la R&S nei principali paesi industrializzati, l’attività di ricerca negli Stati Uniti viene svolta per più del 70% dalle imprese private attraverso laboratori interni o tramite collaborazioni interorganizzative, circa il 15% dalle università, poco più del 10% è attuata da enti pubblici e circa il 3% da associazioni non profit, il cui contributo ha registrato negli ultimi anni un trend crescente (Tab. 5). 140 Tabella 5 Spesa per R&S globale in USA per settore esecutore (composizione per settore). Confrontando questi dati, che si riferiscono all’ultimo decennio, con rilevazioni precedenti, emerge che il ruolo dell’industria privata è aumentato, passando dal 67% del 1970, al 69% del 1980 e al 71% del 1990. Tradizionalmente l’attività di R&S svolta dal settore privato è legata alle imprese di grandi dimensioni per la necessità di disporre di ingenti capitali da investire nel processo innovativo. Molti studi negli anni ‘60 e ‘70 sono stati indirizzati alla ricerca di una relazione tra la dimensione dell’impresa e l’impegno diretto nella creazione di nuove tecnologie. Vi sono una serie di argomentazioni convincenti che giustificano il pesante ruolo delle grandi imprese nel processo di creazione di innovazione: - la struttura finanziaria delle imprese di grandi dimensioni consentirebbe di accedere all’autofinanziamento, fonte indispensabile per lo sviluppo dell’attività di ricerca, dato l’elevato grado di incertezza connesso63; 63 M. Sombrero: “Innovazione tecnologica e relazioni tra imprese” La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996 141 - esiste una dimensione minima al di sotto della quale non è realizzabile un dipartimento di R&S in termini di abilità specialistiche, tecniche e scientifiche e di attrezzature necessarie per lo sviluppo e l’esecuzione delle prove; - per le piccole imprese risulta gravoso il sostenimento delle spese necessarie per mettere a punto un’invenzione, per trasformarla in innovazione e renderla utilizzabile commercialmente. Tali costi possono essere anche dieci volte superiori al costo dell’innovazione di base; - l’impresa considerata deve necessariamente l’elevata rischiosità avviare dell’attività tanti di progetti, ricerca, poiché molti si riveleranno un fallimento; - è necessario realizzare alti volumi di vendita per coprire gli ingenti costi fissi sostenuti; - un’impresa di grandi dimensioni ha la possibilità di sfruttare l’innovazione in più aree e mercati attraverso la realizzazione di economie di scopo. Le analisi empiriche non hanno evidenziato una precisa relazione tra dimensione aziendale e percentuale del fatturato destinata all’attività di R&S. Poiché però, per misurare il contributo al processo innovativo ciò che è rilevante è il valore assoluto delle spese per la ricerca è indubbio il ruolo della grande impresa. Tuttavia oggi le fonti del processo innovativo stanno cambiando ed emerge l’importanza di modelli di collaborazione interorganizzativa. L’innovazione è sempre più il risultato di un’interazione di più soggetti economici: imprese di piccola e media dimensione, centri di ricerca e università. Le relazioni tra le imprese consentono agli attori coinvolti di allargare e valorizzare il proprio patrimonio di conoscenze e competenze, attraverso lo scambio di know-how e lo sfruttamento di sinergie esterne. 142 Sebbene i dati sulle risorse finanziarie investite nelle attività collaborative inter-impresa siano abbastanza limitati, sono comunque sufficienti per concludere che dall’inizio degli anni ’80 le alleanze e le collaborazioni tra imprese per lo sviluppo di innovazione sono in crescente aumento. Dati recenti64 dimostrano come nel 1995 le imprese statunitensi hanno speso più di cinque miliardi di dollari per le attività di R&S condotte all’esterno, tramite contratti con altre imprese, università e organizzazioni non profit. Questo ammontare corrisponde al 4,7% dei fondi spesi in quell’anno per la ricerca intra-muros e rappresenta un sostanziale incremento rispetto a quanto speso precedentemente nelle ricerche extra-muros. Infatti all’inizio degli anni ’90 tale quota era del 3,6% mentre nei primi anni ’80 del 2%. Il boom degli accordi di cooperazione negli USA si è avuto dopo la promulgazione del “National Cooperative Research Act” (NCRA) del 1984 e del “Federal Technology Transfer Act” del 1986 che hanno permesso le collaborazioni formali e facilitato la nascita di joint venture per la ricerca. Il principio di fondo che ha guidato i legislatori statunitensi è stata la constatazione che la cooperazione nella R&S non solo non avrebbe ostacolato la competizione fra le imprese (e quindi non sarebbe andata contro la restrittiva normativa anti-trust) ma l’avrebbe sicuramente promossa, grazie al miglioramento delle opportunità in campo tecnologico che sarebbero scaturite da lavori congiunti. 64 J. E. Jankowski: “R&D: foundation for innovation” Research Technology Management, March/April 1998 143 Figura 27 Crescita delle collaborazioni per R&S negli USA. Il grafico della Figura 27 mostra la crescita graduale del numero di accordi di questo genere: tra il primo gennaio 1985 (entrata in vigore del NCRA) e il 31 dicembre 1995 furono registrate 575 research joint venture (RJV); alla fine del 1996 il numero saliva a 665 (Vonortas, 1997). La cooperazione nella ricerca ha avuto luogo soprattutto nelle industrie high-tech: più di un quinto degli accordi ha interessato le telecomunicazioni e numerosi sono stati siglati nei settori dell’energia, della protezione ambientale, della chimica, del software e dei trasporti. In alcuni campi, come quello dei materiali innovativi, delle attrezzature industriali, degli apparecchi ottici e degli strumenti di precisione sono stati registrati alti tassi di incremento tra il 1994 e il 1995. Poco propense alla collaborazione si sono invece dimostrate le industrie farmaceutiche, i settori della biotecnologia e delle apparecchiature mediche. Naturalmente fanno parte di queste RJV anche operatori stranieri; circa un terzo delle imprese coinvolte (1.092 su 3.429) non sono statunitensi. Il Canada, il Giappone, il Regno Unito e la Germania contano ognuno più di 100 partecipanti; presenze consistenti provengono anche da Francia, Italia, Australia e Svezia. 144 Dei 2.337 operatori statunitensi l’86% è costituito da imprese (di cui più della metà di piccola-media dimensione), il 4% da enti pubblici e il restante 10% da organizzazioni non profit. Lo sviluppo di relazioni interorganizzative risponde alla necessità di superare l’isolamento dei centri di ricerca e promuovere il trasferimento delle conoscenze. Un ruolo importante in questa rete di collaborazioni è assunto dalle università. L’alta qualità del lavoro di ricerca condotto all’interno degli istituti accademici statunitensi ha incentivato la nascita di esperienze come quelle dei parchi scientifici e dei poli tecnologici. Gli science-parks sono aree attrezzate dove si svolgono in modo continuo ed istituzionalizzato funzioni di sviluppo, progettazione e costruzione di prototipi, solitamente ubicati nei pressi di uno o più istituti di formazione tecnologica avanzata. I parchi scientifici costituiscono un interessante ed efficiente mezzo per conseguire buoni risultati nella R&S evitando la duplicazione di sforzi innovativi isolati e il conseguente spreco di risorse Le imprese e l’amministrazione pubblica costituiscono le principali fonti di finanziamento della R&S statunitense. Come si può notare dalla Tabella 6 la percentuale di ricerca finanziata dall’industria privata è passata dal 50,2% del 1988 al 59,9% del 1995, mentre il ruolo dello Stato è risultato, nell’arco dello stesso periodo, decrescente. Tabella 6 145 Spesa per R&S globale in USA per settore finanziatore (composizione percentuale). “Infatti, nel 1988 il 47,8% delle spese totali per R&S del paese erano state sostenute dalla pubblica amministrazione contro una quota del 36,1% nel 1995. Per poter spiegare le motivazioni di questo calo, iniziato sul finire degli anni ottanta, si deve ricorrere ad un’analisi delle ripartizioni degli stanziamenti pubblici per obiettivi socioeconomici. I dati forniti dalla NSF rivelano che nel 1987 il 69% dei fondi statali per la ricerca era destinato a scopi militari e solo lo 0,2% allo sviluppo industriale, cioè al miglioramento della produttività e allo sviluppo di tecnologie nelle imprese. Con la fine della guerra fredda sono diminuiti i finanziamenti dello Stato alla ricerca militare (la cui percentuale è rimasta comunque ancora superiore al 50%) ma non c’è stato un contemporaneo aumento dell’impegno nelle altre categorie socioeconomiche. Emerge quindi un trend decrescente del contributo governativo all’attività di ricerca e un ruolo sempre più preponderante delle imprese private come finanziatrici del processo innovativo. Lo stesso quadro è confermato dai dati sull’evoluzione della spesa pubblica per R&S in percentuale del PIL che mostrano un andamento crescente fino al 1987 (da 1,22 del 1980 a 1,28 del 1987) poi un’inversione di tendenza (1,27 nel 1988 e 1,22 nel 1989). Anche le recenti rilevazioni della NSF convalidano questa situazione e forniscono dati in linea con l’andamento che emerge dalla Tabella 6. Nel 1997 il 65% dell’attività di ricerca statunitense è stata finanziata 146 dalle imprese, il 30% dalla pubblica amministrazione, il 3% dalle università e il restante 2% da altre organizzazioni nazionali”65. Solo una modesta percentuale dei fondi statali viene erogata come supporto alle imprese: la NSF ha stimato che tra il 1981 e il 1994 circa 24 miliardi di dollari sono stati forniti all’industria tramite crediti d’imposta per attività di ricerca sperimentale ed incrementale, pari ad una percentuale di circa il 3% di tutti i fondi statali disponibili per R&S in questo periodo (NSF, 1996). Tabella 7 Spesa per R&S in USA, imprese, per settore finanziatore (composizione percentuale). Osservando i dati della Tab. 7, che si riferiscono alla R&S svolta dalle sole imprese, si nota che la maggioranza dei finanziamenti proviene da risorse interne e un contributo sempre minore viene fornito dalla pubblica amministrazione (da più di un quinto nel 1991 a circa un sesto nel 1995). Le imprese sono sempre meno dipendenti dai fondi federali: nel 1997 questi ultimi hanno finanziato il 15% della ricerca industriale, mentre nel 1987 ben il 33%; più della metà dei fondi disponibili in quell’anno erano stati erogati a favore di imprese costruttrici di aerei e missili. 65 J. E. Jankowski: “R&D: foundation for innovation” Research Technology Management, Marzo-Aprile 1998 147 Lo Stato continua ad essere il maggiore finanziatore delle università per lo svolgimento dell’attività di ricerca, anche se il suo impegno è in continua diminuzione dall’inizio degli anni ottanta. Circa l’80% dei fondi destinati agli istituti accademici è erogato tramite tre agenzie federali: gli Istituti Nazionali di Sanità (53%), la NSF (15%) e il Dipartimento della Difesa (12%) che provvedono a distribuire gli stanziamenti nei rispettivi campi di competenza. Una caratteristica peculiare loro delle università statunitensi è la capacità di autofinanziarsi: dal 1980 al 1995 la percentuale di ricerca universitaria finanziata da risorse interne è aumentata dal 14% al 18%. Gli istituti accademici ricevono fondi anche dalle imprese private con le quali collaborano per la realizzazione di progetto di ricerca. Il rapporto stretto, tipico del sistema statunitense, tra ambiente industriale ed educativo è molto diverso da quello che caratterizza la realtà italiana in cui l’impresa finanzia e l’università esegue. In USA entrambi gli operatori contribuiscono alle spese e l’università riesce a coprire buona parte della sua quota grazie all’alta percentuale di autofinanziamento che è in grado di produrre. Il deficit europeo nell’investimento in R&S Gli sforzi per la ricerca sono molto minori in Europa di quanto non siano negli Stati Uniti o in Giappone, e la situazione si è significativamente deteriorata a partire dalla metà degli anni ‘90. L'Unione Europea è una potenza scientifica di livello mondiale, con un enorme potenziale di ricerca di alta qualità e di risorse umane estremamente competenti. Tuttavia, si sta acuendo il divario con i principali concorrenti per quanto riguarda gli investimenti. Nel 2000, 148 gli Stati Uniti hanno speso in totale 287 miliardi di euro per la ricerca e lo sviluppo (R&S), 121 miliardi di euro in più rispetto all'UE. La differenza tra l'UE e USA è quasi raddoppiata dal 1994, anno in cui il divario era di 43 miliardi di euro, raggiungendo gli 83 miliardi di euro nel 2000. L'Europa destina alla ricerca una proporzione molto minore della sua ricchezza (1,9% del PIL nel 2000) rispetto ai suoi principali concorrenti, Stati Uniti (2,8%) e Giappone (3%). Causa principale di questo divario negli investimenti è il minor apporto del settore privato in Europa al finanziamento della R&S, in confronto ad altre regioni del mondo. Secondo il Commissario europeo per la ricerca, Philippe Busquin, “questa tendenza conferma quanto sia importante e urgente conseguire l'obiettivo convenuto in occasione del Consiglio Europeo di Barcellona, nel 2002, vale a dire l'aumento della spesa per la R&S in Europa, per avvicinarsi al 3% del PIL entro il 2010, e pone l’accento sull'esigenza di una discussione generale sul modo in cui il bilancio pubblico per la ricerca possa stimolare al meglio l'investimento privato”. 149 Figura 28 Indicatori scientifici e tecnologici 2003. L’Europa investe meno delle proprie ricchezze in R&D rispetto a Stati Uniti e Giappone. Il Giappone ha già raggiunto l'obiettivo di investire il 3% del PIL in R&S, e gli Stati Uniti seguono a ruota (2,8% nel 2000). Nell'Unione, invece, gli investimenti in R&S si attestavano all'1,94% nel 2000, e sono scesi al disotto del 2% per tutta la durata dell'ultimo decennio. Inoltre, l’Europa non sta recuperando terreno con Giappone e Stati Uniti in termini di investimenti in R&S. La percentuale di PIL destinata alla R&S è cresciuta, nella seconda metà degli anni ‘90, ad un ritmo molto più lento nella UE (+0,6% all'anno) rispetto agli USA (+1,7% annuo) o al Giappone (+1,8%). L'aumento del divario negli investimenti nella seconda metà degli anni ''90 è dovuto essenzialmente alla scarsa crescita della spesa di R&S da parte dei grandi paesi membri come la Francia, il Regno Unito e l'Italia. Tuttavia, questo fenomeno viene in 150 parte compensato dal buon andamento di altri paesi membri, come la Finlandia, la Grecia ed il Portogallo. Figura 29 Percentuale di spese per R&S in rapporto al PIL. Se la tendenza in atto prosegue, l'Unione Europea conseguirà al massimo un tasso di circa il 2,2% - 2,3% entro il 2010. È evidente quindi che, se l'Unione deve aumentare il livello globale di spesa per la ricerca, al fine di avvicinarsi al 3% del PIL entro il 2010, è necessario compiere ora sforzi sostanziali, per creare le condizioni propizie ad un cambiamento positivo. Buona parte della carenza complessiva di investimenti nella R&S in Europa può attribuirsi al basso livello di investimenti da parte del 151 settore privato europeo. La differenza nell’apporto del settore privato tra le compagnie statunitensi ed europee rappresenta circa l’80% del divario negli investimenti totale (Fig.30). Figura 30 Percentuale del valore complessivo di spese per R&S, finanziate dall’industria (in %). L'aumento degli investimenti privati deve essere accompagnato da un aumento degli investimenti pubblici. Nella seconda metà degli anni '90, il finanziamento totale pubblico per la ricerca è cresciuto solo dello 0,5% nell'Unione - nonostante una crescita rapida in alcuni paesi membri come il Portogallo (16,1%), la Grecia (9,2%), la Finlandia (7,2%) e il Belgio (6%) - in confronto all'1,9% negli Stati Uniti e al 4% in Giappone. 152 Un divario in aumento con ritardi nell’alta tecnologia Come abbiamo visto pocanzi, la spesa per la R&S nell'UE e negli Stati Uniti mostra un divario consistente e in rapida crescita, sia in termini assoluti che come percentuale del PIL. Tale divario ha raggiunto i 124 miliardi di euro correnti nel 2000 ed è raddoppiato a prezzi costanti a partire dal 1994. Massima parte di tale divario (pari a oltre l'80%), e gran parte dell'aumento registrato negli ultimi anni, è dovuta agli investimenti ridotti del settore delle imprese dell'UE. Oltre a ciò, va ricordato che il governo statunitense stanzia almeno un terzo dei finanziamenti destinati alla R&S a sostegno delle attività di Ricerca e Sviluppo delle imprese; nell'UE i finanziamenti pubblici rappresentano soltanto la metà di queste cifre (16%). Il divario in termini di intensità di R&S è ancora più rilevante tra UE e Giappone: quest'ultimo infatti stanzia il 3% del PIL l per le attività di R&S. Il settore delle imprese, inoltre, contribuisce al 72% delle spese di R&S del Giappone, rispetto al 56% dell'Europa e al 67% degli USA. Il raffronto con il Giappone presenta, tuttavia, numerose limitazioni, visti i diversi ruoli svolti dal settore pubblico e dal settore privato e visti i problemi del sistema finanziario giapponese, che hanno indebolito le prestazioni economiche del Giappone non evidenziando i benefici derivanti dall'alta intensità di R&S. L'aumento della produttività della manodopera, attribuibile in parte all'innovazione tecnologica, è rallentato nell'UE nella seconda metà degli anni '90, mentre nello stesso periodo negli Stati Uniti ha subito un rialzo. Inoltre, l'andamento degli scambi internazionali di prodotti di alta tecnologia mette in evidenza le debolezze dell'Europa a livello di 153 competitività in alcuni segmenti tecnologici dell'economia: la quota del mercato mondiale che l'Europa detiene a livello di prodotti di alta tecnologia è ancora molto inferiore a quella degli Stati Uniti, con un 18% (esclusi gli scambi intra-europei) rispetto al 22% degli USA. L'industria statunitense è molto più specializzata nell'alta tecnologia e nei settori ad alta intensità di ricerca rispetto all'Europa, e ciò spiega in parte il divario. Buona parte delle diversità tra USA e UE è conseguenza di diversi investimenti nel settore della difesa e da diversi investimenti nel settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ICT). Gli effetti di investimenti strutturali diversi non possono, tuttavia, spiegare interamente il divario tra USA e UE a livello di investimenti di R&S. In gran parte dei settori, compresi l'industria di prodotti a bassa e media intensità tecnologica ed il settore dei servizi, le imprese europee investono di meno, in proporzione alle vendite, rispetto alle imprese omologhe americane. Ciò significa che le imprese dell'UE tendono a specializzarsi in prodotti e servizi a minor intensità tecnologica e rischiano così di perdere competitività rispetto alle rivali più innovative, anche nei settori non altamente tecnologici che rappresentano il nucleo dell'economia dell'Unione europea. L’Europa dovrebbe pertanto incentivare il passaggio a settori ad alta intensità di R&S che hanno grosse potenzialità di crescita e, fattore forse ancora più importante, deve incentivare un maggiore impegno di R&S in tutti i settori. Le multinazionali rappresentano la maggiore percentuale di spesa in R&S delle imprese e tendono sempre più ad investire sulla base di un'analisi globale delle possibili sedi. Una tendenza preoccupante in questo senso è la sempre maggiore concentrazione negli USA delle spese transnazionali di R&S, che denota un calo dell'interesse che l'Unione 154 Europea riveste a livello mondiale come sede per svolgere attività di R&S rispetto agli Stati Uniti. Al contempo, un numero sempre maggiore di PMI e di grandi imprese nazionali si trova a dover affrontare la concorrenza internazionale sui propri mercati interni ed è costretto ad aumentare le proprie capacità di innovazione conducendo attività di R&S al proprio interno o commissionandole all'esterno. Dai dati disponibili si evince che in Europa le imprese più piccole investono relativamente meno in R&S rispetto a quanto avviene negli Stati Uniti. Ciò si spiega con l'esistenza di una serie di ostacoli connessi, ad esempio, con le risorse umane, l’accesso a fonti esterne di finanziamento e ad infrastrutture locali adeguate, la divulgazione delle conoscenze all'interno dell'UE e la creazione ed espansione di imprese a base tecnologica. L'intensità di R&S dei vari paesi e regioni dell'Europa è molto diversa: si passa infatti dall'1% circa del PIL o meno degli Stati Membri meridionali, al 3,4% della Finlandia e al 3,8% della Svezia. Le divergenze sono ancora più rilevanti tra le regioni all'interno dei vari paesi. Anche le tendenze sull'intensità di R&S sono diverse: si registra così una rapida crescita nei paesi del Nord, in Irlanda e in Austria, mentre la percentuale di investimenti in R&S rispetto al PIL è scesa in Francia e nel Regno Unito. Un'attenzione particolare merita infine l'evoluzione a livello interregionale, in quanto negli ultimi anni l'andamento su scala regionale sembra aver fatto emergere divergenze. A questo propositò analizzeremo più in dettaglio nel Capitolo successivo la situazione attuale e le possibilità di sviluppo del Piemonte. Anche il peso relativo degli investimenti pubblici e delle imprese varia notevolmente tra i vari paesi dell'UE, con investimenti privati in R&S superiori o prossimi ai due terzi degli investimenti complessivi per la 155 Ricerca in Finlandia, Svezia, Germania, Belgio e Irlanda e investimenti inferiori al 30% in Grecia e Portogallo. Nel complesso i paesi candidati all'adesione stanno facendo progressi nel settore dell'R&S: hanno infatti un'intensità media di R&S pari allo 0,7% del PIL, simile a quella della Grecia e del Portogallo, con punte dell'1,25% per la Repubblica Ceca e del'1,5% del PIL per la Slovenia. Il tasso di finanziamento operato dalle imprese rimane però molto basso in gran parte dei Paesi Candidati e per aumentarlo sarà necessario un sostegno specifico. Le diverse situazioni esistenti in Europa richiedono politiche differenziate ma coordinate tra loro per raggiungere quello slancio comune necessario per conseguire l'obiettivo del 3%. L’obiettivo del 3% Nel marzo 2002 il Consiglio europeo di Barcellona ha formulato un invito ad adottare iniziative per aumentare gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo tecnologico e colmare il divario che separa l'Europa dai suoi principali concorrenti. Gli investimenti nella ricerca, questa la decisione del Consiglio europeo, dovranno passare dall'1,9% al 3% del PIL dell'Unione europea entro il 2010, e la parte finanziata dalle imprese dovrà essere aumentata fino ai due terzi del totale. Come abbiamo visto, il divario negli investimenti per la ricerca tra l'Unione europea e gli Stati Uniti già supera 120 miliardi di € e sta rapidamente aumentando, con conseguenze allarmanti per possibili futuri sviluppi in materia di innovazione, crescita e creazione di posti di lavoro in Europa. Come illustrato tale divario si spiega con le condizioni meno attraenti per gli investimenti privati nella ricerca in Europa, 156 dovute sia al fatto che il sostegno pubblico è inferiore e, forse, anche meno efficace, sia alla presenza di diversi ostacoli nelle condizioni che regolano la ricerca e l'innovazione in Europa. Molti Stati membri hanno fissato i propri obiettivi nazionali in modo tale da allinearli con quello europeo del 3% proposto dalla Commissione Europea. Ad esempio, sia la Francia che la Germania hanno fatto proprio l'obiettivo del 3%, come pure la Slovenia, futuro Stato membro. Molte associazioni, inoltre, come l'Unione delle Confederazioni dell'industria e degli imprenditori d'Europa (UNICE) e la Tavola Rotonda degli Industriali Europei (ERT), hanno sottolineato che conseguire l'obiettivo del 3% riveste un importanza fondamentale per la competitività europea, ma che saranno necessari notevoli cambiamenti politici affinché l'Europa possa attrarre maggiori investimenti nella ricerca. L'ERT ha posto l'obiettivo del 3% al centro delle raccomandazioni indirizzate al Consiglio europeo del marzo 2003, e l'UNICE ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia. Le associazioni che rappresentano le piccole e medie imprese (PMI) hanno riconosciuto l'importanza di aumentare gli investimenti nella ricerca per i loro aderenti. Le grandi società europee progettano di mantenere un livello significativo di investimenti nella ricerca, nonostante il rallentamento della crescita economica in corso e, in particolare, nonostante la crisi acuta che ha colpito alcuni settori dell'alta tecnologia. Tuttavia, poiché il deterioramento della situazione economica impone a tali società di razionalizzare il loro sviluppo globale, esse non progettano di effettuare nuovi investimenti nella ricerca nell'Unione Europea bensì in altre regioni ritenute più attraenti, quali Stati Uniti od alcuni paesi asiatici. Le PMI europee ritengono invece che le loro capacità di investimento in 157 ricerca e innovazione siano spesso frenate da un'insufficiente capacità di autofinanziamento e da un accesso più difficile a fondi esterni. L'attuale situazione economica ha ulteriormente ridotto per le PMI le possibilità di accesso ai finanziamenti mirati alla ricerca e l’ innovazione tecnologica. La crisi economica rende quindi ancora più importante e urgente concentrare l'azione pubblica sul sostegno alla ricerca e all'innovazione. Seguendo uno studio econometrico realizzato per conto dei servizi della Commissione, “l'obiettivo di destinare il 3% del PIL agli investimenti nella ricerca è destinato ad avere un impatto significativo, e di lungo termine, sulla crescita e sull'occupazione in Europa, quantificabile con uno 0,5% di crescita supplementare e nella creazione di ulteriori 400.000 posti di lavoro all'anno dopo il 201066. L'impatto globale sulla crescita e l'occupazione potrebbe rivelarsi superiore alle aspettative grazie all'impulso che un ulteriore potenziamento di una ricerca di livello mondiale potrebbe dare alla competitività dell'industria e dei servizi europei e, in generale, all'attrattiva economica esercitata dall'Europa. Infine, un maggiore impegno nella ricerca in settori di interesse sociale o ambientale aiuterebbe l'Europa a svolgere un ruolo guida verso un futuro più sostenibile” 67. Tutti gli studi, hanno dimostrato che questo approccio costituisce l'unico modo credibile per realizzare i progressi necessari nel campo degli investimenti pubblici e privati per la ricerca. 66 E ciò in particolare grazie ai principali mutamenti strutturali dell'economia europea, come il passaggio a un tipo di industria ad elevata crescita e intensità di ricerca e a un aumento considerevole della capacità di innovazione dell'economia europea. 67 Studio realizzato dal gruppo di ricerca ERASME (Parigi) con una versione adattata del modello NEMESIS. 158 Per realizzare questo importante obiettivo, il piano d'azione messo a punto dalla Commissione Europea illustra innanzitutto la necessità di sviluppare una comprensione comune condivisa a tutti i livelli politici e da tutte le parti interessate per garantire un progresso continuo e coerente in tutta Europa. Questi obiettivi, secondo gli esponenti della Commissione, appropriato, possono un essere processo di conseguiti coordinamento adottando, aperto, laddove piattaforme tecnologiche europee ed un processo d’apprendimento comune per le regioni europee, nonché attraverso la formulazione e l’applicazione di politiche che utilizzino coerentemente un'ampia gamma di strumenti. Pare inoltre fondamentale il sostegno pubblico alla ricerca e le entità delle risorse pubbliche disponibili e al miglioramento delle condizioni dell’economia europea: - migliorare l'efficacia del sostegno pubblico alla ricerca e all'innovazione, sia in campo finanziario che nel campo delle risorse umane e della ricerca pubblica di base. - riorientare le risorse pubbliche verso la ricerca e l'innovazione, mediante una maggiore attenzione alla qualità della spesa pubblica, un adeguamento delle norme sugli aiuti di Stato ed un uso migliore degli appalti pubblici. - migliorare le condizioni per la ricerca e l'innovazione, quali i diritti di proprietà intellettuale, la regolamentazione dei mercati dei prodotti, le norme sulla concorrenza, i mercati finanziari, le condizioni fiscali, la gestione societaria e le informazioni finanziarie delle imprese in materia di ricerca. Il proseguimento delle riforme strutturali dei mercati dei prodotti, dei servizi, del capitale e del lavoro è inoltre importante per la creazione di 159 un ambito imprenditoriale più dinamico e competitivo che, a sua volta, può favorire un aumento degli investimenti nella ricerca e nell'innovazione. Avanzare congiuntamente In alcuni ambiti la ricerca svolge un ruolo fondamentale per affrontare le principali sfide a livello tecnologico, economico o sociale. In quest’ambito le piattaforme tecnologiche europee possono fornire gli strumenti per favorire un efficace applicazione dell’obiettivo comune del 3% con la partecipazione, laddove opportuno, della ricerca pubblica, dell'industria, delle istituzioni finanziarie, degli utenti, delle autorità di regolamentazione e politiche, dando lo slancio iniziale necessario per la mobilitazione di ricerca e d’innovazione in Europa. In pratica, le piattaforme tecnologiche saranno strumenti per riunire tutte le parti interessate allo scopo di sviluppare una visione a lungo termine e creare una strategia coerente e dinamica per tradurre in pratica tale visione ed indirizzarne l'applicazione. Un’agenda strategica della ricerca costituirà un aspetto fondamentale della strategia volta ad ottimizzare il contributo della ricerca al processo in questione. Le piattaforme tecnologiche dovranno inoltre permettere di definire i requisiti per lo sviluppo, l'applicazione e l'uso ottimale delle tecnologie, quali regolamenti, norme, aspetti finanziari, accettazione sociale, abilità e necessità di formazione, ecc., tenendo conto al contempo delle pertinenti politiche comunitarie. Se consideriamo il panorama delle varie regioni europee possiamo notare che una serie d’iniziative hanno già incoraggiato le regioni a sviluppare le proprie strategie di innovazione, compresi gli aspetti della ricerca. Tuttavia, l'obiettivo del 3% segna un nuovo punto di partenza 160 all'origine di molti nuovi sviluppi nelle politiche a livello nazionale ed europeo, per cui si deve tenere conto nelle strategie regionali, che vanno aggiornate e potenziate. Per raggiungere entro il 2010 il previsto aumento degli investimenti nella ricerca e sviluppo, l'Europa deve far fronte anche al tema della formazione per poter contare su un numero maggiore di ricercatori dotati di adeguate conoscenze e capacità. L'aumento degli investimenti nella ricerca può determinare quindi un aumento della domanda di ricercatori. L'adeguamento delle risorse umane alle previste necessità in materia di ricerca ed innovazione richiede un notevole impegno da parte di tutte le faorze operanti nell’attività di cambiamento del quadro economico europeo. Questo significa anche cercar di attirare in Europa un numero sufficiente di ricercatori di valore mondiale, rendere la ricerca più attraente per varie fasce di popolazione come abbiamo visto nei paragrafi precedenti per quanto riguarda le realtà di altri paesi. Potenziare le risorse umane nella ricerca significa quindi adottare una serie di iniziative a livello regionale, nazionale e comunitario tese a68: - attirare un numero maggiore di studenti verso la ricerca, in particolare aumentando gli incentivi finanziari, le iniziative "Scienza e società" e facilitando ulteriormente la mobilità degli studenti; - attirare in Europa i ricercatori internazionali e favorire la mobilità tra il mondo accademico e l'industria; - fare sì che i ricercatori rimangano nella professione e nello Spazio europeo della ricerca, garantendo favorevoli prospettive di carriera e un'immagine positiva della professione di ricercatore. 68 Comunicazione della Commissione: “Investire nella ricerca: un piano d'azione per l'Europa” Bruxelles, giugno 2003. 161 Riorientare la spesa pubblica verso la ricerca e l’innovazione e migliorare le condizioni per gli investimenti privati Migliorando la qualità del sostegno pubblico alla ricerca si contribuisce automaticamente ad aumentare il livello degli investimenti privati. Considerando però il forte gap tra l’Europa ed altri paesi come gli USA e Giappone, ciò non appare tuttavia sufficiente. Sono necessari infatti anche maggiori investimenti pubblici a sostegno della ricerca. La recente comunicazione della Commissione sul rafforzamento del coordinamento delle politiche di bilancio ha confermato che “la qualità delle finanze pubbliche costituisce, dal punto di vista del loro contributo alla crescita, parte integrante della sorveglianza di bilancio nel contesto dei programmi di stabilità e convergenza” 69. In questo senso la Commissione ha ripetutamente sottolineato la necessità di riorientare la spesa pubblica verso investimenti maggiormente produttivi, in particolare a sostegno della ricerca e dell'innovazione, poiché saranno essi a generare in futuro una maggiore crescita. Al fine di garantire la stabilità macroeconomica e la sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche, tutto ciò deve essere realizzato nel quadro del dell’obiettivo del 3% da raggiungere per il 2010. Un aumento del sostegno pubblico alla ricerca e all'innovazione rientra tra le categorie di spesa atte a supportare gli obiettivi di Lisbona. L'attuale rallentamento della crescita economica rende ancora più importante garantire che le politiche di bilancio sostengano gli investimenti che determineranno in futuro una crescita superiore e sostenibile. 69 COM(2002) 668 del 27 novembre 2002. 162 In accordo con tale metodologia, la proposta della Commissione relativa agli indirizzi di massima per le politiche economiche 2003-2006 raccomanda di riorientare la spesa pubblica verso investimenti più produttivi, in particolare verso la ricerca e l'innovazione, e traduce questa priorità in una serie di raccomandazioni specifiche agli Stati membri. Se è vero che un maggiore e migliore sostegno pubblico è necessario per dare impulso alla ricerca e all'innovazione in Europa, è altrettanto vero che a tale sostegno devono accompagnarsi notevoli miglioramenti nelle condizioni generali, per far sì che l'Unione europea diventi veramente attraente per gli investimenti privati nella ricerca e nell'innovazione. Nuove azioni sono necessarie in settori quali la proprietà intellettuale, l'organizzazione dei mercati, le norme sulla concorrenza, i mercati finanziari, la fiscalità e la comunicazione finanziaria delle imprese in materia di ricerca. La protezione della proprietà intellettuale riveste grande importanza per la competitività della maggior parte degli organismi pubblici e privati e per l'attrattiva che essi esercitano sugli investitori. Ciò che è necessario, in particolare, è un sistema della proprietà intellettuale opportunamente equilibrato, che offra incentivi adeguati per gli investimenti nella ricerca e nell'innovazione, garantendo al contempo che la diffusione e l'ulteriore sviluppo dei risultati della ricerca procedano nel modo migliore. 163 CAPITOLO IV Il Piemonte: caso di eccellenza? Prefazione Attraverso questo capitolo conclusivo, si vuole presentare il caso particolare della regione del Piemonte. Dopo aver valutato gli aspetti teorici che caratterizzano le economie basate sulla conoscenza, abbiamo potuto analizzare alcuni esempi di paesi che hanno saputo trasformare la loro economia in maniera rapida e profonda per dare ampio spazio allo sviluppo delle nuove tecnologie e per valorizzare i settori basati sul capitale intellettuale. Nel corso di questo Capitolo faremo riferimento alla situazione attuale dell’Unione Europea, ed in particolare al nuovo obiettivo del 3% d’investimento del PIL in R&S. Analizzeremo innanzitutto la situazione economica italiana per poter meglio situare la realtà del Piemonte nel contesto nazionale. In seguito si cercherà di mettere in risalto le caratteristiche principali della situazione attuale dell’economia piemontese che ha saputo contrastare la forte crisi economica degli anni ’90 preparando un substrato socio-culturale ed organizzativo tale che oggi la porta ad essere la regione italiana con la maggior percentuale d’investimento in R&S pari a molte delle regioni nord-europee. Concluderemo con alcune prospettive per il futuro della regione in relazione alle direttive comunitarie in materia di investimento in ricerca e sviluppo. 164 Introduzione Come abbiamo analizzato nel precedente Capitolo, l’Europa ha perso terreno negli anni ‘90 in termini di competitività nei confronti degli Stati Uniti. Minore è stata sia la crescita del PIL (circa un punto percentuale in meno), sia quella della produttività del lavoro, così che è aumentato il differenziale di produttività già favorevole agli Stati Uniti. Nel 2001 la produttività totale dei fattori ha registrato un aumento molto marcato per gli Stati Uniti, una sostanziale tenuta nel 2000 per l’Europa e, invece, una tendenza negativa per l’Italia (Fig. 31) Va sottolineato come gli Stati Uniti abbiano raggiunto un livello anche inferiore all’UE e all’Italia nel 2000 ma abbiano poi saputo risalire in modo più veloce e consistente nell’anno successivo. Figura 31 Produttività totale dei fattori. Secondo i dati OCDE (Fig. 32) il divario che separa l’Europa dagli Stati Uniti e dal Giappone continua ad allargarsi. In Europa il livello di spesa 165 per ricerca è fermo intorno all’ 1,9% del PIL da 10 anni, mentre negli Stati Uniti esso è cresciuto continuamente (dal 2,4% nel 1994 al 2,7 % del PIL nel 2000). Gli investimenti europei in ricerca sono inferiori anche rispetto al Giappone ed alla Corea del Sud. Figura 32 Investimenti in R&S nel 2001. Ovviamente la situazione non è omogenea tra i paesi membri dell’Unione Europea. Alcuni paesi sono prossimi al livello del 3% (ad esempio Svezia, Finlandia e Danimarca) mentre altri (tra cui Italia e Spagna) restano ancora assai distanti da quell’obiettivo. Indicativa è poi l’articolazione degli investimenti tra pubblico e privato. (Tab. 8) 166 Tabella 8 Spesa per R&S nel 2000. Alcuni paesi mostrano tendenze superiori alla media europea. Tra questi vi è la Spagna, che grazie ad un tasso di crescita annuo degli investimenti del 5% negli ultimi anni ha sorpassato l’Italia. La posizione dell’Italia Il quadro della ricerca in Italia che emerge dal confronto internazionale rivela una situazione di forte ritardo sia rispetto ai principali paesi industriali che ad alcune economie europee di minori dimensioni come quelle svedese e finlandese. 167 Per quanto riguarda l’intensità di R&S, in termini di investimenti in percentuale del PIL, l’Italia mostra un ritardo rispetto ai paesi europei e rispetto al Giappone e Stati Uniti. Valori inferiori a quelli italiani si riscontrano solo per Spagna, Portogallo e Grecia. Nel corso degli ultimi anni, nel nostro paese si è assistito ad una riduzione degli investimenti pubblici realmente destinati alla ricerca. L’Italia mostra (Fig. 33) una spesa pubblica in R&S intorno allo 0,5% del PIL, dato di gran lunga inferiore sia rispetto alla media dell’UE che degli Stati Uniti (circa lo 0,7%), sia a quelli di Francia e Germania (circa lo 0,8%). Figura 33 Spesa pubblica in R&S nel 2000. Riguardo alla ricerca svolta dalle imprese, l’Italia registra un notevole ritardo rispetto ai principali paesi terzi (Fig. 34). Questo dato va però considerato alla luce delle caratteristiche specifiche sia del sistema 168 produttivo italiano che dei meccanismi di rilevazione delle spese in ricerca delle imprese. Figura 34 Spesa privata in R&S nel 2000. Se i livelli sono ancora bassi, è però vero che le imprese italiane, soprattutto a partire dalla seconda metà del decennio scorso, hanno mostrato una accelerazione dell’impegno nell’attività di ricerca, tanto che a partire dal 1995 si riscontra un trend di crescita della spesa per R&S delle imprese, così come viene calcolata dall’OCDE, superiore a quello dei principali paesi industriali. L’aumento delle attività di R&S viene confermato anche dal maggiore numero di progetti di ricerca presentati dalla imprese italiane sia a livello europeo che nazionale. Fenomeno che riguarda in misura sempre maggiore anche le PMI. L’Italia ha ottenuto infatti il numero maggiore di progetti finanziati dal Programma Europeo dedicato ai progetti delle PMI. 169 Il modello italiano dell’innovazione I parametri di ricerca e sviluppo utilizzati nelle statistiche ufficiali non sembrano cogliere pienamente l’attività di innovazione svolta dalle imprese italiane. Attività di innovazione che sta alla base sia della presenza delle imprese italiane in molti settori a media ed alta tecnologia, sia della qualità dei nostri prodotti in molti settori tradizionali. L’innovazione può assumere forme diverse dalla ricerca svolta nei laboratori, in molti casi si tratta di tecnologie incorporate in nuovi materiali, nell’integrazione tra design e nuovi materiali, nell’applicazione di tecnologie avanzate, in prodotti personalizzati sulla base delle esigenze del cliente, anche attraverso un processo di imitazione dei propri concorrenti. L’Italia presenta un valore aggiunto nelle imprese a medio-alta tecnologia in linea con la media europea e superiore a Stati Uniti, Francia, Finlandia e Spagna. Ciò si spiega con la grande specializzazione delle nostre imprese, ad esempio, nel settore dei macchinari. Di molto inferiore a Stati Uniti, Giappone, Finlandia, Svezia e Francia il valore nei settori ad alta tecnologia. In linea con la media dei paesi è poi il dato relativo alle imprese basate sulla conoscenza, ovvero sulle capacità innovative ed applicative ad alto valore aggiunto anche se non formalizzate e formalizzabili come R&S. Sono molteplici i fattori che hanno determinato la specializzazione produttiva e tecnologica del nostro Paese, ma tanti sono ancora i vincoli che devono essere superati per comunitario del 3%. 170 l’implementazione dell’obiettivo - La dimensione delle imprese: per il 90% è molto contenuta. La grossa presenza di PMI se da un lato ha permesso al nostro paese di essere flessibile e competitivo su molti settori, con punte di dominio, ora che la competitività si basa sempre di più sulla ricerca e innovazione rischia di rappresentare un vincolo. Ciò perché si riscontra una minore attività di R&S nelle imprese di dimensioni ridotte. - La rigidità del mercato del lavoro: l’Italia ha avuto negli ultimi decenni un mercato del lavoro molto rigido. Le imprese hanno cercato di superare gli ostacoli posti da questa rigidità e soprattutto dall’elevato costo del lavoro aumentando gli investimenti in innovazioni di processo e in macchinari. Ciò si è riflesso in un rapporto capitale/lavoro molto più alto dei nostri principali competitori. - La mancanza di una politica della ricerca chiara e di lungo periodo: sempre nella distribuzione dei fondi, è mancato un disegno complessivo, che permettesse, sulla base dell’analisi dei punti di forza e di debolezza del sistema produttivo, di orientare gli investimenti (sia in termini di incentivi alle imprese che di fondi per ricerca effettuati da soggetti pubblici) verso determinati settori. - La scarsità di competenza scientifiche di livello internazionale: un forte ostacolo alla diffusione della R&S nelle imprese, soprattutto PMI, è stata l’assenza di un sistema della ricerca pubblica flessibile e capace di dialogare con il sistema produttivo. Le università e gli Enti pubblici di ricerca sono stati caratterizzati da logiche di autorefenzialità e di ridottissima apertura al mercato e soprattutto alle PMI. 171 Raccomandazioni specifiche dell’UE per l’Italia La crescita economica in Italia è stata in genere inferiore a quella dell’insieme dell’UE dai primi anni Novanta. Se il differenziale di crescita si è ridotto durante l’ultimo rallentamento ciclico, tra l’altro grazie ad un dosaggio meno restrittivo delle politiche, si stima che il tasso di crescita potenziale del PIL sia ancora più basso delle media dell’area dell’euro. Il debito pubblico assai elevato, attraverso i suoi effetti sul risparmio nazionale e l’accumulazione del capitale, ha ostacolato la crescita. La persistente moderazione salariale e alcuni importanti provvedimenti di riforma a partire dal 1998 hanno migliorato sensibilmente il funzionamento del mercato del lavoro, abbassando il tasso di disoccupazione al di sotto del 9% alla fine del 2002. Tuttavia, il crescente contributo dell’ occupazione alla crescita economica è andato di pari passo con un netto rallentamento dell’aumento della produttività totale dei fattori, parzialmente da attribuire alla maggiore partecipazione di lavoratori scarsamente qualificati, specie nel settore dei servizi. Malgrado significativi miglioramenti negli ultimi anni, i tassi di partecipazione rimangono tra i più bassi dell’UE. Globalmente, la Commissione Europea vede come principale problema per l’Italia il basso potenziale di crescita. Tra i principali fattori che frenano la crescita potenziale si annoverano il problema ancora non risolto delle finanze pubbliche, i persistenti divari regionali, specie in termini di entità della quota di popolazione in età lavorativa inattiva o disoccupata nel Mezzogiorno, come pure i fattori che penalizzano la produttività totale dei fattori quali il basso livello d’istruzione e di investimenti nella R&S. Al fine di poter raggiungere l’obiettivo del 3% 172 preposto, la Commissione Europea suggerisce al nostro paese l’intervento radicale e repentino per risolvere alcuni problemi70: - Risanare rapidamente le finanze pubbliche - Assicurare la sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche nella prospettiva dell’invecchiamento demografico - Alzare il basso tasso di occupazione, specie tra le donne ed i lavoratori più anziani, e ridurre le ampie disparità economiche tra Nord e Sud - Rafforzare l’economia fondata sulla conoscenza in termini di livello di istruzione e di qualificazione, investimenti in tecnologie dell’informazione, R&S e innovazione - Continuare a migliorare il contesto in cui operano le imprese e accrescere la concorrenza nei settori dell’energia e dei servizi Le tendenze dello sviluppo Regionale: il Piemonte Gli anni Novanta sono stati caratterizzati da una certa ripresa dei divari di crescita all’interno delle diverse aree del Paese. Dapprima il rafforzamento del mercato unico e successivamente l’adozione della moneta unica europea hanno sottoposto il sistema economico italiano a tensioni e mutamenti di carattere permanente che si sono riflessi in misura differenziata sulle diverse aree territoriali e regionali. Si devono tenere anche presenti i cambiamenti esterni all’Europa, come il passaggio all’economia di mercato dei Paesi dell’Europa centro-orientale (e la loro crescente apertura) e l’espandersi di una vigorosa crescita nei Paesi emergenti dell’Asia e dell’America latina. 70 Commission Staff Working Paper: “Investing in Research: an action plan for Europe” Bruxelles 2003. 173 Come si è visto, il quadro della crescita economica in Europa in questo periodo è risultato piuttosto debole anche a causa delle politiche restrittive che hanno accompagnato la nascita della moneta unica ed ancor meno favorevole è risultato quello della crescita dell’economia italiana. Si è rafforzata la posizione delle regioni (Nord-orientali), mentre il Nord-Ovest ha manifestato una dinamica meno soddisfacente ed il Mezzogiorno nel suo complesso si è caratterizzato per una insufficiente reattività, anche se in alcune regioni sembra essersi innescato negli anni più recenti un certo recupero di competitività di taluni sistemi produttivi locali. Il problema delle differenze nella crescita a livello regionale ha assunto un rilievo crescente, anche a causa delle politiche d’integrazione in ambito europeo che hanno dato oggettivamente risalto, in seguito al ridimensionamento del dominio delle politiche nazionali, alla dimensione regionale. Nel contempo la progressiva eliminazione delle barriere economiche e la crescente omogeneizzazione nei comportamenti e nei gusti, ha comportato processi di aggiustamento all’interno delle singole economie regionali con effetti sulle prospettive di crescita delle singole aree; essi saranno ulteriormente alimentati negli anni a venire 174 dall’allargamento dell’Unione Europea – e dalla crescente globalizzazione. Due visioni delle conseguenze dei processi di crescita a livello locale si contrappongono nell’analisi economica: - la teoria della convergenza, che ammette e vuole spiegare una progressiva tendenza nel tempo all’avvicinamento dei livelli di benessere economico in aree connotate inizialmente da diverso livello di sviluppo - le teorie che si basano sulla polarizzazione, per le quali invece il processo di sviluppo tende ad accentuare le differenziazioni esistenti a livello territoriale. Secondo la teoria economica nella prima versione, ad esempio, il processo di unificazione regionale europeo sarebbe accompagnato (o favorirebbe) una convergenza fra le economie dei diversi Paesi e regioni d’Europa. Si sostiene che siccome i Paesi che più sono lontani dal loro tasso di crescita naturale (quello cioè che date le caratteristiche dell’economia si realizza nel lungo periodo) hanno la tendenza a crescere più velocemente di quelli che ne sono più vicini. Questo concorre al raggiungimento (catching up) da parte delle regioni più deboli dei livelli di benessere di quelle più forti. In realtà non è così facile ammettere l’esistenza di una sostanziale omogeneità fra le diverse regioni tale da consentire un potenziale di sviluppo uguale per tutte; alle caratteristiche strutturali ancora molto differenziate fra i Paesi e le regioni dell’Unione, infatti, si aggiungono i fattori di ‘perturbazione’ del sentiero di crescita dei singoli sistemi produttivi, che condizionano considerevolmente il processo descritto. A questa teoria, si contrappone quella invece basata sulla polarizzazione ed enfatizza le condizioni di inamovibilità di taluni fattori. Le teorie della crescita endogena danno infatti rilievo alle specificità e ai vincoli di 175 localizzazione dei fattori di produzione come elemento del vantaggio competitivo che si realizza attraverso rendimenti crescenti localizzati, che danno così origine a una distribuzione polarizzata dello sviluppo. Per esse assumono rilevanza ai fini dello sviluppo fattori quali la dotazione e le caratteristiche del capitale umano specifico di un territorio, l’innovazione tecnologica nei processi produttivi che matura all’interno del sistema produttivo locale e che è difficilmente trasmissibile al di fuor di un determinato contesto territoriale, il tessuto relazionale contenuto nel concetto, spesso un po’ sfuggente, di capitale sociale, ma che assume sempre maggior attenzione nei modelli di crescita, le relazioni istituzionali prevalenti. Alcune ricerche sottolineano come gli effetti di ricaduta (spillover) che avvengono sul territorio siano estremamente rilevanti nell’alimentare l’attività innovativa. Essi tuttavia si esplicano soprattutto in ambiti territoriali connotati da forti omogeneità produttive, e grandi a sufficienza da attivare un livello di domanda adeguato per stimolare lo sviluppo e l’innovazione in “cluster” produttivi specializzati. Se si guarda allo sviluppo regionale in questa luce, a maggior ragione in una situazione di economia aperta ed integrata, il bacino di domanda rilevante all’interno del quale collocare il potenziale innovativo di una regione tende sicuramente a superare i suoi confini. Occorre pertanto tenere in conto le caratteristiche del contorno interregionale nel quale una regione è inserita ed il grado di omogeneità produttiva in esso presente, che attiva e determina le relazioni, sapendo che è probabilmente a questo livello che si determina la domanda rilevante più che non al solo livello regionale. 176 L’osservazione dell’andamento delle economie regionali nel corso degli anni Novanta mette in evidenza percorsi piuttosto differenziati, indicando una diversa capacità di reazione al contesto economico globale e nazionale da parte dei singoli territori. In questo quadro l’evoluzione dell’economia piemontese riflette un andamento ciclico più marcato di quello nazionale, accentuando rispetto a quest’ultimo le fasi di crisi e di ripresa. Nonostante in questo periodo siano emerse per intensità di crescita economica le aree del Nord-Est, tuttavia per il Piemonte il bilancio non appare negativo o critico, come si poteva pensare alcuni anni or sono. In effetti fra il 1990 ed il 1998 il PIL del Piemonte è aumentato in termini reali dell’8%, ad un tasso inferiore a quello nazionale, che si è commisurato nel 9,6%: la dinamica della regione è risultata inoltre differente nei due distinti sottoperiodi che segnano l’andamento del ciclo economico in questi anni. Nel triennio ‘90-‘93 la crisi colpisce più pesantemente il Piemonte, che fa registrare una contrazione del 3% del prodotto lordo. La situazione tuttavia sembra subire un cambiamento considerevole nel periodo successivo. Fra il 1993 ed il 1998 l’economia piemontese cresce complessivamente in termini reali ad un tasso del 10,7%, con una dinamica superiore a quella nazionale (+9,9%). Nel corso degli anni Novanta il dato che ha caratterizzato maggiormente l’andamento dell’economia regionale è senza dubbio la consistente ripresa della domanda estera (e, verosimilmente, anche quella verso le altre regioni) che ha fatto conseguire alla regione saldi ampiamente positivi delle esportazioni nette, in una fase nella quale il contributo alla crescita del PIL, soprattutto nella prima parte di questo periodo, fornito dalle componenti della domanda interna regionale è stato negativo o scarsamente dinamico. 177 La risultante delle dinamiche citate ha fatto sì che la crescita del prodotto regionale fra il 1990 ed il 1998 sia stato nel complesso solo di poco al di sotto di quella nazionale: Se si analizzano congiuntamente la dinamica della produttività e del tasso di occupazione si comprende la specificità del sistema piemontese in questi anni, che ha associato una debole dinamica del prodotto complessivo in presenza di un discreto incremento del reddito pro capite. L’andamento del PIL pro capite può essere scomposto in diverse componenti in modo da evidenziare il contributo che su di esso hanno avuto le componenti economiche, quelle del mercato del lavoro e quelle demografiche. 178 Tabella 9 Caratteristiche dello sviluppo nelle regioni italiane (Variazioni % su valori a prezzi costanti 1993-'98) La Tabella 9 scompone la crescita fra il 1993 ed il 1998 del PIL pro capite mettendone a confronto le principali differenze. Se il PIL pro capite (per unità di popolazione) aumenta più di quanto aumenta la produttività (misurata dal valore aggiunto per occupato) si da luogo ad uno sviluppo che potremmo definire di tipo “intensivo”, cioè ottenuto attraverso un minor utilizzo delle risorse lavorative, e infatti la proporzione di occupati sulla popolazione totale si riduce, mentre al 179 contrario se l’aumento del PIL pro capite avviene in presenza di una dinamica della produttività inferiore, si ha uno sviluppo di tipo “estensivo” cioè maggiormente utilizzatore di risorse umane: in questo caso, infatti, il tasso di occupazione, calcolato sulla popolazione totale, subisce un aumento. Le forze di lavoro e le dinamiche produttive della regione Tra i fattori fondamentali che condizionano lo sviluppo economico e sociale di tutte le economie, vi è, come analizzato nei precedenti capitoli, la disponibilità e la composizione delle forze di lavoro. Queste costituiscono un elemento di importanza cruciale per la realtà piemontese. Senza disporre di risorse umane sufficienti ed adeguate, nessun sistema economico locale può alimentare le proprie ambizioni di crescita e qualificazione. Senza un’adeguata capacità di attivare e valorizzare appieno il potenziale contributo professionale insito nella propria popolazione, nessun sistema, anche locale può evitare di perdere attrattiva verso gli abitanti stessi e verso gli investitori, diminuendo la loro disponibilità ad investire nella qualificazione e nella partecipazione attiva al mercato del lavoro. Il Piemonte è la prima regione italiana per spese in R&S effettuate dalle imprese. Nel 2000 sono stati spesi 1.640 milioni di euro, ossia l’1,7% del PIL regionale, più del triplo della media italiana (0,5%). 180 Figura 35 Spesa in R&S di alcune regioni europee (valori in %). La ricerca effettuata dalle imprese – 1250 milioni – rappresenta circa l’85% del totale degli investimenti innovativi e regionali e rappresenta l’81% del totale regionale; a fronte del 73% della Lombardia, del 52% dell’Emilia Romagna e del 49% della media nazionale. La preminenza della ricerca e sviluppo di fonte industriale accomuna il Piemonte alle regione europee più avanzate dal punto di vista tecnologico ed economico: infatti come il Piemonte, anche Baden-Wurttemberg (81%), Rône-Alpes (73%) o l’intera Svezia (72%) segnalano che lo sforzo innovativo effettuato nelle aree avanzate è soprattutto di origine impreditoriale e non pubblica. Per quanto riguarda la dimensione degli investimenti in ricerca e sviluppo, il Piemonte è confrontabile con Rhône-Alpes, South-West, West-Midland. A Torino opera il Centro Ricerche Fiat (CRF), il principale nel settore auto veicolistico in Italia e tra i più importanti del 181 mondo. Oltre il 40% dei centri di ricerca in Piemonte operano nel settore automotive. Per il 2003 le stime dell’EITO, European Information Technology Observatory, indicano l’Italia come quarto mercato europeo dell’ICT con una quota dell’11%, pari ad un valore di circa 71 miliardi di euro. In particolare l’Italia vanta una previsione di crescita del 6.2% nel settore delle telecomunicazioni (inferiore solo a quella della Germania) e del 10,2% nel settore dell’IT, aumento praticamente pari a quello della Gran Bretagna e superiore a quello di tutti gli altri paesi europei. In particolare il settore dell’ICT in Italia sta conoscendo una forte crescita nei segmenti wireless ed e-security. Nello scenario italiano - che rappresenta il 15% del totale delle imprese biotech europee, con oltre 200 imprese direttamente coinvolte in innovazioni a carattere biotecnologico ed un mercato farmaceutico che è il sesto a livello mondiale- il Piemonte si colloca all’avanguardia anche nel settore delle scienze della vita e biotecnologie. La regione Piemonte si rivela partner strategico per lo sviluppo comune di progetti di ricerca oltre che come luogo in cui identificare partner scientifici ed industriali e realizzare insediamenti grazie alla presenza di una rete di centri di ricerca, pubblici e privati, (3 poli universitari, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’Istituto per la Ricerca sul Cancro di Candiolo, il Bioindustry Park), grazie ad un ambiente favorevole e una base industriale fatta di piccole e medie imprese e gruppi multinazionali (Serono, RBM, Bracco, Antibioticos, Sorin, ecc), di centri di supporto all’innovazione, alla formazione ed al trasferimento tecnologico e di oltre 800 laureati l’anno in discipline legate alle Scienze della Vita. 182 Oltre alle attività di ricerca realizzate da Fiat Avio e Alenia Spazio sono numerosi i centri di R&S attivi in Piemonte in settori di interesse per l’industria aerospaziale. Il Piemonte: una crescita “intensiva” Tra il 1993 ed il 1998 in Piemonte l’occupazione sulla popolazione totale è diminuita sostanzialmente a causa di una contrazione del tasso di occupazione in presenza di un tasso di offerta (rispetto alla popolazione totale) sostanzialmente stabile. Questa stabilità è nel caso del Piemonte attribuibile ad un consistente incremento del tasso di offerta della popolazione attiva avvenuto, tuttavia, contemporaneamente ad un restringimento di analoga entità della popolazione attiva rispetto a quella totale. Se si confronta la situazione del Piemonte con quella delle regioni del Nord-Est, si nota come in queste ultime lo sviluppo che abbiamo definito di tipo “estensivo” abbia comportato, a differenza del Piemonte, un aumento del tasso di occupazione in presenza di una tendenza all’aumento anche dell’offerta di lavoro in rapporto alla popolazione complessiva, dovuta soprattutto ad una componente negativa demografica inferiore a quella manifestatasi in Piemonte, ma con tassi di offerta non molto dissimili. In sostanza lo sviluppo “intensivo” del Piemonte in questo periodo è avvenuto in presenza di un potenziale di risorse umane in calo per effetto della demografia, ma con un tasso di partecipazione al mercato del lavoro crescente. Siccome gli effetti demografici hanno ristretto considerevolmente la popolazione in età lavorativa, la accresciuta propensione alla ricerca di un lavoro non ha potuto impedire che il numero delle persone che sono offerte sul mercato del lavoro regionale 183 sia diminuito: ciononostante la domanda di lavoro da parte del sistema produttivo regionale è risultata relativamente debole, con persistenti elevati tassi di disoccupazione. Se si tiene conto, inoltre, che nella congiuntura recente anche i tassi di disoccupazione sono sensibilmente scesi mentre anche l’offerta di lavoro segna una ripresa, vi è da domandarsi se uno sviluppo di questo tipo possa essere assicurato in prospettiva, quando paiono emergere, come negli anni più recenti, chiari sintomi di squilibri fra domanda ed offerta di lavoro. Oggi si intravedono i primi successi della conversione alla new economy in varie zone del Piemonte. In particolare possiamo analizzare la situazione del Canavese71: - creazione di nuove imprese nel settore Ict (spesso da ex dipendenti Olivetti); -localizzazione di nuove attività di call centers e di altre imprese innovative in settori diversi dall’Ict: nel Bioindustry Park, nella meccanica (con Pininfarina), nell’entertainment (con il previsto Millenium Park), ma anche nello sviluppo delle produzioni Ict (Fulchir e Lexicon); - costituzione di poli formativi specializzati: tre corsi di diploma del Politecnico di Torino, oltre a quello di telecomunicazioni ad Aosta, due corsi di laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi, un centro di eccellenza di formazione professionale (Forum scrl – ex Centro Ghiglieno), che ha ottenuto recentemente la certificazione Iso di Qualità per la formazione e il master di design multimediale – Interaction Design Institute –, che dovrebbe diventare un laboratorio di progettazione nei servizi di comunicazione digitale con un’impronta 71 V. Ferrero: “Contesto economico” IREscenari, Torino, 2003 184 fortemente internazionale, dato il suo collegamento con il London Royal Institute of Arts; - presenza di finanza innovativa (Banca Sella e venture capital); creazione di infrastrutture specializzate (Infoville ed e-Canavese, il portale che riunisce privati come Olivetti e Banca Sella) e sviluppo delle produzioni cinematografiche a San Giorgio Canavese. I call centers di Infostrada e Omnitel, e quello più piccolo di Tin.it, sono collocati nell’area e generano un importante assorbimento di occupazione giovanile (circa 2000 unità). Essi si stanno affermando non solo nell’ambito delle telecomunicazioni, ma anche nel settore finanziario, assicurativo e dei servizi pubblici, come soluzioni essenziali per migliorare la qualità del servizio, ampliare il mercato e ridurre i costi distributivi e di erogazione. Spesso sono gestiti in outsourcing e manca tuttora un adeguato riconoscimento sociale della nuova professione di chi ci lavora. In generale, l’apparato di iniziative imprenditoriali attive nell’area canavesana risulta descritto in modo esauriente da una serie di caratteristiche come per esempio: - Le imprese del Canavese sono di tipo familiare: è opinione comune che le imprese canavesane si dividano in due categorie: - le “vecchie”, soprattutto appartenenti al settore meccanico, a conduzione famigliare, non evolute dal punto di vista della struttura societaria e più numerose; - le “nuove”, appartenenti al settore elettronico e informatico, società di capitali che sono il risultato, spesso, dell’uscita di un tecnico particolarmente brillante dalla grande impresa: per questo 185 motivo l’impronta dell’imprenditore giovane e aggressivo è pesante e permea tutta la struttura aziendale. - Il settore predominante è quello manifatturiero, anche se è in atto un progressivo processo di diversificazione produttiva. - Le imprese del Canavese non collaborano tra di loro: esiste una presa di coscienza della necessità di essere rappresentate, ma sussiste ancora una mancanza nella presa di coscienza di essere parte di un sistema di imprese che potrebbe essere di tipo cooperativo e non esclusivamente competitivo. Questo approccio chiaramente offrirebbe nuove opportunità di interesse per tutto il tessuto imprenditoriale locale, basti pensare alla possibilità di realizzare centri di ricerca comuni e condivisi, networks di distribuzione/acquisto, attività di marketing comuni, identificazione e sfruttamento della presenza di clusters di imprese, ecc.). - Le imprese del Canavese sono poco internazionalizzate. - Le imprese del Canavese sono subfornitrici: siamo in presenza di un tessuto imprenditoriale che vede l’attività di produzione/assemblaggio di componenti come risorsa fondamentale e preziosa e si sta assistendo al passaggio dal conto-terzismo alla realizzazione di un componente proprio, all’assemblaggio di gruppi di componenti, a un rapporto di collaborazione con il committente basato sui principi del co-engineering e della co-makership. - Le imprese del Canavese sono prevalentemente “monoprodotto”. - I concorrenti delle imprese canavesane sono locali e la forza della concorrenza viene individuata prevalentemente nel “fattore prezzo”, nella presenza di una rete commerciale efficiente e nel “fattore qualità”: il tessuto imprenditoriale canavesano è, infatti, storicamente orientato al prodotto più che al mercato. 186 - Le imprese del Canavese “sanno fare” ma non “sanno vendere”: la tradizione di subfornitura ha impedito che sorgesse spontaneamente nelle imprese un approccio market o customer oriented verso il mercato. - Le imprese del Canavese sono “ad alta tecnologia” e innovative: la storia economica del tessuto imprenditoriale canavesano ha visto come imprese di riferimento sempre imprese ad alta tecnologia. La rete di subfornitori quindi, volente o nolente, ha dovuto adeguarsi a questa situazione sia dal punto di vista qualitativo, sia dal punto di vista della situazione tecnologica. - Le piccole imprese del Canavese sono in crescita: il tessuto imprenditoriale minore ha già dimostrato di possedere una vitalità autonoma, creando posti di lavoro in numero quasi pari a quelli persi nella grande impresa. Gli ostacoli all’innovazione e allo sviluppo/crescita che ancora permangono vanno ricercati soprattutto nella difficoltà di finanziamento degli investimenti/crescita e nella mancanza di manodopera qualificata. - Le imprese del Canavese non fanno formazione continua72. L’economia del Piemonte è caratterizzata indubbiamente dalla realtà imprenditoriale, sia a causa dell’elevato numero di aziende, sia per la presenza a Ivrea della sede centrale di Olivetti. Mentre parte del territorio vanta un’antica industrializzazione nei settori tessile, della forgiatura dell’acciaio e dello stampaggio a caldo, la zona orientale, che grosso modo corrisponde all’Eporediese, non ha conosciuto un vero sviluppo industriale sino all’inizio del XX secolo, quando si sviluppò l’indrustria di tipo elettro-meccanico, ed in particolare l’Olivetti. Da allora l’economia del Canavese è sempre cresciuta in rapporto più o meno conflittuale con questa realtà. 72 V. Ferrero: “Contesto economico” IREscenari, Torino, 2003 187 Il Canavese è attualmente un’area caratterizzata da imprenditorialità diffusa, è inoltre ricca di risorse tecnologiche, culturali, finanziarie e paesaggistiche, elementi che spesso caratterizzano i sistemi territoriali più innovativi e di successo. Accanto a Olivetti non si può dimenticare di citare Vodafone, il cui fiore all’occhiello, Omnitel, è nato nelle valli del Canavese e non nella campagna inglese, e la Getronics, nata in Italia nel 1999, quando il gruppo ha acquisto Wang Global, multinazionale americana attiva nel settore Ict, che a sua volta nel marzo 1998 aveva rilevato da Olivetti la società di soluzioni e servizi informatici Olsy. La consociata italiana si avvale delle risorse e delle competenze nell’ambito della ricerca informatica e dello sviluppo di progetti di Olivetti Ricerca, recentemente acquisita. Il Piemonte tra old e new economy Attualmente si sta assistendo a una rincorsa tra ammodernamento del sistema socioeconomico regionale e rapida ridefinizione delle sfide espresse dal contesto evolutivo nel quale il Piemonte si colloca; si parla infatti di una Regione “tra old e new economy”. Volendo analizzare la situazione economica piemontese nell’attuale decennio, si può notare come, scongiurata la prospettiva di un netto declino e della marginalizzazione del sistema piemontese rispetto al contesto competitivo globale – e non ancora realizzatasi l’ipotesi del salto tecnologico con cui il Piemonte avrebbe potuto conquistare livelli di eccellenza assoluta nell’alta tecnologia –, l’economia e la società regionale si sono mosse, in prevalenza, lungo un sentiero definibile come “ristrutturazione su basi tradizionali”, che in misura solo parziale 188 (anche se tutt’altro che trascurabile) ha potuto affiancare ai vecchi motori dello sviluppo regionale nuove spinte di crescita, nuove vocazioni e competenze produttive, nuovi localismi a forte dinamicità. Questi segnali, che fanno ritenere percorribile un’evoluzione lungo le direttrici di una diversificazione qualificata, si innestano su alcuni punti di forza della Regione, quali un elevato livello di reddito, il suo inserimento in un contesto macroregionale a elevato benessere, la diffusione di consumi evoluti, la crescente apertura verso l’esterno, il riposizionamento di alcune filiere produttive verso le funzioni di pregio, la crescente attenzione alla qualità dei prodotti, la razionalizzazione delle strutture aziendali orientate dall’acquisita consapevolezza della strategicità della componente ambientale nelle scelte; tali condizioni favorevoli sembrano caratterizzare soprattutto il capoluogo piemontese, che dovrà fungere da promotore di uno sviluppo che si ripercuote gradualmente sull’intero territorio. Alcuni elementi di fragilità possono comunque essere rinvenuti: il tasso di crescita dell’economia piemontese è stato negli anni Novanta leggermente inferiore alla media nazionale e fortemente distanziato dalle vivacissime Regioni del Nord-est; la stasi del reddito disponibile e la preoccupazione sulle prospettive economiche di vita, più marcata che in altre realtà regionali, potrebbe incidere negativamente sull’imprenditorialità dei piemontesi e sulla dinamica di consumi e investimenti; i livelli di disoccupazione dell’area torinese risultano fra i più elevati del Nord Italia; la qualificazione scolastica e professionale va adeguatamente stimolata e indirizzata, per colmare il gap esistente con le altre Regioni del Nord, dove il grado di istruzione della forza lavoro è mediamente più elevato, e per rispondere con più efficacia alle esigenze di professionalità espresse dalle imprese; il divario fra uomini e donne, 189 in termini di partecipazione al lavoro, livelli retributivi e percorsi di mobilità verticale si dimostra persistente. Oggi il Piemonte si trova dunque esposto ad evoluzioni molto differenziate, che contengono al loro interno tanto elementi di forza e opportunità di crescita, quanto fattori di debolezza, che richiedono un’attenta gestione strategica. Il quadro che ne emerge è quello di una situazione di tensione tra il lascito di un passato ipermanifatturiero che ancora condiziona negativamente la creatività del sistema economico piemontese (ad esempio attraverso una forza lavoro non sempre dotata dei necessari requisiti di qualificazione e adattabilità rispetto alle possibilità di business create dall’ICT) e un complesso di spinte innovative che ancora non sono riuscite compiutamente a “fare sistema”, a volte per debolezza, a volte perché non del tutto compatibili entro linee evolutive convergenti; il sistema che qui si propone, il virtual accelerator, è volto a sostenere proprio questo processo attualmente ancora incompleto. Il territorio piemontese, grazie al suo alto livello di industrializzazione e di dotazione tecnologica, rappresenta in Europa una delle sette aree di maggior interesse per lo sviluppo della Società dell’Informazione: da un lato perché la presenza significativa di imprese e di una rilevante culture del lavoro offrono il miglior substrato per la transizione a un sistema economico più improntato alla net economy e dall’altro perché il sistema socioeconomico del Nord-ovest sta ormai chiedendo a gran voce di non essere relegato al ruolo di gregario nel panorama evolutivo europeo. Le imprese piemontesi operanti nell’Ict sono circa 5000, di cui il 64% (3200) localizzate in provincia di Torino: un dato che si riflette anche sulla forte vocazione all’export high tech del capoluogo piemontese. Dal 190 punto di vista territoriale, si segnala un evidente squilibrio tra la situazione torinese/canavesana da un lato, aree in cui si concentrano le funzioni strategiche dell’offerta di servizi e tecnologie, nonché la più elevata densità di imprese ICT, e il resto della Regione dall’altro, territorio che a sua volta appare diviso tra la vivacità di alcune aree distrettuali (Albese e Valenza Po in primis) e il ritardo di altre. Figura 36 Imprese piemontesi impegnate nella “new economy”. In Piemonte, secondo l’indagine sulle città digitali promossa da Assinform-Rur, nel 1999 vi erano solo 66 enti dotati di collegamenti in rete (fra cui la Regione, 4 Province e non più di 60 Comuni), ma anche le amministrazioni si stanno ora adeguando, sotto la spinta unificatrice dell’Aipa (Agenzia per l’Informatizzazione della Pubblica Amministrazione). In totale, ad oggi, oltre il 50% dei Comuni ha aderito o pre-aderito all’iniziativa e il 25% di essi è già collegato in rete. 191 Prospettive per il futuro Tenteremo ora, in conclusione, di evidenziare gli elementi fondamentali per la promozione di un contesto economico orientato alle nuove tecnologie dell’informazione, valutando, in particolare, la loro presenza/assenza nel territorio piemontese. Per analogia con le analisi fatte nei capitoli precedenti riguardanti alcune realtà mondiali, scegliamo come fattori fondamentali l’infrastrutturazione del territorio, la disponibilità di risorse umane e le risorse finanziarie disponibili, intese sia come investimenti che come mercato potenziale di partenza. Infrastrutture: La presenza di infrastrutture sufficientemente diffuse, unita allo sfruttamento delle più moderne tecnologie è sicuramente una condizione di base per lo sviluppo di azioni legate all’economia basata sulla conoscenza. In particolare è necessario valutare la presenza di spazi fisici attrezzati e di reti diffuse sul territorio. Localizzazione: Gli spazi fisici necessari alla collocazione, allo sviluppo e alla consulenza tecnica di imprese operanti nel settore ICT e della Società dell’Informazione sono ritenuti necessari per poter ospitare le infrastrutture e godere di condizioni vantaggiose per accedere alla Rete e ai relativi servizi (hosting, housing, ecc.). Reti: Torino metropoli vanta attualmente la presenza di numerosi operatori di telecomunicazione, che sembrano competere soprattutto attraverso interventi di cablaggio in fibra ottica della città, che vanta dunque una rete a banda larga diffusa. Ben diversa è la situazione nella restante parte del territorio piemontese, dove una crescita delle infrastrutture ICT permetterebbe di 192 riflesso un maggiore sviluppo economico offrendo servizi, agevolazioni e connettività a banda larga. Occorre quindi cercare di contrastare una situazione evolutiva di digital divide, soprattutto tramite l’intervento sia della pubblica amministrazione, che delle imprese private. Risorse umane: La presenza di capitale umano qualificato è un altro fattore fondamentale per lo sviluppo di un sistema imprenditoriale competitivo inserito in un’economia basata sulla conoscenza. I nuovi centri per l’impiego devono costituire, sotto questo profilo, un riferimento territoriale forte, dove far convergere le varie competenze riconoscibili sul mercato (orientamento, formazione, incontro domandaofferta), creando le opportune sinergie per alimentare il processo, ancora fragile di job-creation. Sistema universitario e formazione superiore: Un forte sostegno alla creazione di capitale umano qualificato è garantito dalla presenza nell’area torinese di ottime strutture pubbliche di formazione e di ricerca e sviluppo scientifico-tecnologico di valore europeo e mondiale quali il Politecnico, con il relativo incubator, l’Università degli Studi, Csi e Csp, senza contare i centri di ricerca privati, tra i quali TiLab. Un’azione sinergica di queste strutture è uno dei presupposti per il corretto funzionamento del virtual accelerator. Presenza di talenti (imprenditoriali e non): Le ricerche che monitorano la domanda occupazionale di ICT e la relativa offerta rilevano la presenza in Italia di un significativo “skill shortage”; tale situazione riflette anche quella piemontese dovrebbe essere cambiata puntando su politiche di formazione unite a una capacità di attrarre giovani talenti stranieri. 193 Risorse finanziarie: L’offerta di capitale per gli investimenti tradizionali appare ben strutturata, mentre è poco presente l’offerta di “venture capital” per le attività innovative e orientate all’economia della conoscenza. Questo è uno dei fattori, come abbiamo prima analizzato, che caratterizza la grande diversità tra gli investimenti Italiani (ed in molti casi europei) e quelli extra comunitari nei quali l’apporto dei capitali privati raggiunge in certi casi anche l’80%. Possiamo dire che le caratteristiche fondamentali di un venture capital sono quelle di un investimento: a) di lungo termine; b) a elevato rischio e ad alto potenziale di crescita; c) con un ritorno atteso dalle 5 alle 10 volte quanto inizialmente stanziato; d) con un minor costo del finanziamento rispetto al capitale di debito; e) con un forte investimento nelle persone e nelle idee. Internet e le tecnologie di rete in generale (ICT) rappresentano oggi lo strumento fondamentale per permettere ai sistemi territoriali di raggiungere quei livelli di qualità e di competitività in grado di posizionarli favorevolmente nel nuovo contesto competitivo. Si tratta di una sfida di modernizzazione di straordinarie dimensioni, che coinvolge tutti gli attori del sistema territoriale. Le ICT costituiscono la “tecnologia abilitante” all’accesso a un sistema di interscambio sociale ed economico più legato al capitale della conoscenza e alla valorizzazione del capitale sociale, e come tali diventano uno strumento essenziale per il sistema territoriale. 194 In questa prospettiva la pubblica amministrazione è chiamata a guidare l’adeguamento del territorio alla diffusione delle nuove tecnologie, nell’obiettivo di non rimanere intrappolati dal meccanismo del digital divide. La Provincia di Torino con la sua storia sociale e industriale ha necessità di introdurre al proprio interno tutte queste nuove possibilità, secondo un procedimento “governato” che permetta di utilizzare al meglio le opportunità di sviluppo economico e occupazionale, unito al miglioramento della qualità della vita. Al fine di veicolare questi cambiamenti per il territorio piemontese, si ritiene necessaria l’adozione di una strategia di sviluppo che possa agevolare la crescita economica sotto il profilo della nuova economia basata sulla conoscenza. A tal proposito si crede che i passi da sostenere riguardino in particolare : a) disponibilità di risorse umane qualificate; b) facilità di accesso a risorse finanziarie; c) rapporto virtuoso tra territorio e Università locali; d) efficienza delle infrastrutture; e) incentivi e venture capital per lo start-up; f) incubators di impresa nel settore dell’ICT; g) buon livello di qualità della vita. Ricercando la presenza di tali fattori di sviluppo nello scenario piemontese, l’area di Torino si evidenzia come un territorio dotato di buone basi di partenza per lo sviluppo della Società dell’Informazione. 195 Tra le condizioni di base si rilevano infatti:73 a) ottime strutture pubbliche di formazione e di ricerca e sviluppo scientifico-tecnologico di valore europeo e mondiale (Politecnico, Università degli Studi, Csi, ecc.); b) presenza di aziende leader in ricerca e sviluppo in settori high e medium-tech quali: – telecomunicazioni, elettronica, It (Motorola, Lucent, Agilent, TiLab), – automobile e design (Fiat/Crf, Pininfarina, Italdesign), – aerospaziale (Alenia, Sia); c) ampia base di Pmi attive nel settore Ict (oltre 3000); d) presenza di infrastrutture e network (parchi tecnologici e incubators, Rupar, iniziative integrate tra istituzioni pubbliche e private quali Torino Internazionale e l’Istituto Superiore per le Telecomunicazioni Mario Boella). Anche altre condizioni sembrerebbero favorire l’area torinese: a) il Miur appoggia Torino come esperienza pilota di cluster hi-tech in Italia e sceglie la città come polo di eccellenza nel wireless (cfr. Torino Internazionale, Accelerare la realizzazione del cluster hi-tech di Torino, agosto 2000); b) le Olimpiadi Invernali del 2006 offriranno una buona visibilità e un certo appeal internazionale nel medio termine. Per il Piemonte, si ritiene quindi importante la necessità di potenziare alcuni fattori chiave per lo sviluppo dell’economia basata sulla conoscenza ed in particolare: 73 V. Ferrero: “Contesto economico” IREscenari, Torino, 2003 196 a) diventare un centro di eccellenza capace di attrarre talenti e potenziali imprenditori o tecnici per il settore dell’information society a livello internazionale; b) diffondere una cultura imprenditoriale; c) attrarre capitali di investimento quali privati sia sottoforma di venture capital, sia di investimenti esteri. 197 CONCLUSIONE L’economia della conoscenza, come abbiamo potuto analizzare attraverso i precedenti capitoli, si è integrata nella società di numerose realtà economiche. Ci sono paesi come gli Stati Uniti, Australia, Canada etc… che hanno scommesso il loro sviluppo economico sull’implementazione delle caratteristiche tipiche di un’economia basata sulla conoscenza. Abbiamo visto gli elementi fondamentali che costituiscono questi tipi di economie, attraverso i quali è possibile comprendere l’importanza degli investimenti in ricerca e sviluppo. Il Capitale Umano costituisce la base di ogni economia basata sulla conoscenza, ma ugualmente importanti sono lo sviluppo delle infrastrutture in ICT che permettono la comunicazione e l’informazione, la globalizzazione che rende il capitale umano, le idee e le merci accessibili ovunque e libere di spostarsi, ed in fine l’innovazione, come base per gli investimenti in ricerca e sviluppo. L’attività innovativa è diventata la “religione industriale” del XXI secolo, nel senso che le imprese la vedono come lo strumento chiave con cui aumentare profitti e quote di mercato ed i governi si affidano ad essa quando cercano di sviluppare l’economia. Negli ultimi anni, caratterizzati da rivolgimenti tecnologici profondi indotti dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, è emerso con evidenza il nesso causale esistente fra capacità innovativa e crescita economica. Si è visto, cioè, che le imprese che innovano sono 198 quelle più capaci di utilizzare al meglio le risorse nel processo produttivo e sono, quindi, destinate ad espandersi a scapito delle concorrenti non innovatrici. Attraverso l’analisi delle importanti regole che stanno alla base della crescita economica, abbiamo potuto comprendere la differenza tra la visione neoclassica e quella della “New Growth Theory”. In quest’ultima si cerca di spiegare la crescita economica utilizzando la tecnologia e l’input del capitale umano non come fattori esogeni, ma come caratteristiche fondamentali di un’economia. A seguito di questi principi si è insistito sull’importanza della R&S come fattore di crescita economica sia in ambito macroeconomico che microeconomico. A titolo di esempio abbiamo potuto analizzare alcune economie mondiali che hanno basato la loro crescita economica sull’implementazione della conoscenza, del capitale umano e della ricerca e sviluppo. Paesi quali gli Stati Uniti, Australia, Giappone, Canada, Finlandia hanno già strutturato le loro economie in questo senso passando da economie industriali (sovente in crisi) a delle realtà basate sullo sviluppo delle ICT e dove il Capitale Umano riveste un ruolo primario. In conseguenza di ciò possiamo dire che l’istruzione e l’educazione sono due elementi chiave sui quali ogni organizzazione dovrebbe investire per garantire una continua capacità innovativa ed una crescita economica stabile. A tal proposito abbiamo potuto valutare, attraverso l’ultimo capitolo, la situazione attuale ed alcune prospettive future del nostro paese ed in particolare della regione del Piemonte. 199 L’Italia, globalmente, investe nella ricerca e sviluppo circa lo 0.5% del suo GDP, una cifra decisamente inferiore rispetto alla media Europea dell’ 1.2% che resta decisamente lontana dai valori di paesi quali gli Stati Uniti, Giappone che raggiungono il 3%. Il Piemonte, nel quadro europeo, si distingue per il suo costante impegno nella ricerca e sviluppo realizzando un investimento medio di circa l’1.7% del GDP regionale. Questo fa del Piemonte un caso singolare e di esempio per le altre regioni europee. Il nuovo obiettivo imposto dalla Commissione europea per il 2010 porta l’investimento in R&S al 3% del GDP per tutte le nazioni europee in modo da poter rilanciare l’economia europea a fronte delle crescenti economie extra-comunitarie. Questo permetterà sicuramente al Piemonte da far da guida all’economia nazionale e di trovare nuove aree di sviluppo per raggiungere gli obiettivi prefissati. Resta in Italia, particolarmente ampio il divario tra investimenti pubblici e privati nella ricerca e sviluppo. Mentre paesi come Stati Uniti, Australia, Finlandia presentano una quota di investimenti privati in R&S decisamente maggiore di quella pubblica, in Italia, ed anche in Piemonte, i privati non contribuiscono efficacemente, determinando una minor crescita economica. Crediamo dunque che sia importante, tanto per le realtà regionali quali il Piemonte, quanto per l’Europa in generale, lo sviluppo e l’incentivazione degli investimenti in Ricerca e Sviluppo da parte dei privati per determinare un mercato concorrenziale capace di autoregolarsi e di portare una crescita economica adeguata al panorama mondiale attuale. 200 BIBLIOGRAFIA Libri - Andrei Shotter, “Microeconomia”, Giappichelli, Torino 1997. - Cameron, G. “Innovation and Economic Growth” Department of Trade and Industry, London 1998. - Foray B. and Lundvall D., “The knowledge-based economy: from the economics of knowledge to the learning economy” Employement and Growth in the Knowledge-based Economy, Paris 1996. - Kevin Kelly, “New Rules for the New Economy”, Wired, 1998. - M. Burda, C. Wyplosz, “Macroeconomia, un testo europeo”, Il Mulino, Bologna 1994 - Michael Porter, “The Competitive Advantage of Nations” Free Press, New York 1990. - OECD, “The Knowledge Economy”, Science, Technology and Industry Outlook, Paris 1996. - OECD Documents, “Employment and Growth in the Knowledgebased Economy”, Paris 1999 - Derrick L. Cogburn, “Knowledge, Education and Training in the Information Age” South Africa, 2001 Articoli - Chris Trimble, “Quand croissance rime L’Expansion Management Review, Decembre 2001 201 avec connaissance” - Jean-Claude Ruano-Borbalan, “Sous les Techniques… la société” Science Humaines, hors-série marzo-mai 2001. - Jean Paul Mingasson, “L’innovazione tira la volata alla ricerca europea” Impresa Europa, Bruxelles, ottobre-dicembre 2002. - Paul Romer, “Increasing returns and long-run growth” Journal of Political Economy, 1986. - Pierre Jacquet, “Le poids économique des nouvelles technologies” Science Humaines, hors-serie mars - mai 2001. - The Economist, “Special edition on Innovation”, 1999b. - Directorate General for Research: “The 3% Policy Mix”, Brussels 2003 Studi e relazioni - ACIIC, “Knowledge – Information cycle” Paradoxes of Knowledge”, available online. - Ammon Salter, “The economic benefits of publicly funded basic research: a critical review” Research Policy, 1999 - Carl Dahlman, “Knowledge Development” Conference at the World Bank Institute, 2002. - Communication from the Commission: “More research for Europe towards 3% of GDP” Brussels, 2002 - David Skyrme Associates, “Global knowledge economy and its implications for markets”, available online. - Diane Northfield, “Conference of proceedings” Information Policy Maze, Honolulu, 1999. - Joseph E. 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INDICE DELLE FIGURE E TABELLE Figura 1 La funzione della produzione. ............................................. 12 Figura 2 La quantità di lavoro domandata in un sistema di concorrenza perfetta. ...................................................................................... 14 Figura 3 L’equilibrio del mercato del lavoro. ...................................... 15 Figura 4a L’equilibrio IS-LM di breve periodo. ................................... 17 Figura 5b L’equilibrio IS-LM di breve periodo. ................................... 18 Figura 6c L’equilibrio IS-LM di lungo periodo. ................................... 19 Figura 7 Come agiscono le tre fonti della crescita sulla funzione della produzione. ................................................................................. 21 Figura 8c Il progresso tecnico nello schema IS-LM/AD-AS. ............... 25 Figura 9a Il progresso tecnico nello schema IS-LM/AD-AS. ............... 26 Figura 10c Ciclo e trend: la loro scomposizione e rappresentazione nello schema ....................................................................................... 26 Figura 11d Il progresso tecnico nello schema IS-LM/AD-AS. ............. 27 Figura 12 Interazione fra ricerca ed apprendimento. ......................... 41 Figura 13 Capitale intellettuale, apprendimento e creazione di nuova conoscenza.................................................................................. 54 Figura 14 Il Processo di creazione ed utilizzo della conoscenza. ......... 61 Figura 15 Processo di Learning ......................................................... 62 Figura 16 Gestione del capitale intellettuale...................................... 64 Figura 17 Evoluzione degli indicatori di “Digital Divide” tra Paesi. ..... 79 Figura 18 Dinamica del mercato mondiale dell’ICT e del PIL (19912000). ......................................................................................... 81 Figura 19 Tassi annui di crescita del mercato dell’informatica negli Stati Uniti, in Europa ed in Italia (1987-2000) - Variazioni % su anno precedente.......................................................................... 82 Figura 20 Innovazione = Cambiamento ............................................. 95 Figura 21 I filoni della teoria dell’innovazione.................................... 96 Figura 22 Il sistema innovativo. ........................................................ 99 203 Figura 23 Spesa totale per ricerca e sviluppo in percentuale sul PIL (1994-2001) .............................................................................. 105 Figura 24 La crescita: il risultato dell’interazione tra fattori quantitativi, qualitativi e fattori socio-culturali ed istituzionali. ..................... 109 Figura 25 Dinamica del ciclo di vita del prodotto............................. 111 Figura 26 Fluttuazioni cicliche dell’economia. ................................. 112 Figura 27 Crescita delle collaborazioni per R&S negli USA. ............. 144 Figura 28 Indicatori scientifici e tecnologici 2003. ........................... 150 Figura 29 Percentuale di spese per R&S in rapporto al PIL.............. 151 Figura 30 Percentuale del valore complessivo di spese per R&S, finanziate dall’industria (in %). .................................................. 152 Figura 31 Produttività totale dei fattori. .......................................... 165 Figura 32 Investimenti in R&S nel 2001. ........................................ 166 Figura 33 Spesa pubblica in R&S nel 2000. .................................... 168 Figura 34 Spesa privata in R&S nel 2000........................................ 169 Figura 35 Spesa in R&S di alcune regioni europee (valori in %). ...... 181 Figura 36 Imprese piemontesi impegnate nella “new economy”. ...... 191 Tabella 1 Crescita nelle esportazioni per settore industriale. .................. 69 Tabella 2 Crescita della spesa e del commercio in ICT............................... 73 Tabella 3 Tabella 3 Spesa in ICT e commercio sul PIL. .............................. 75 Tabella 4 Classifica dei paesi in termini di esportazioni. ........................... 78 Tabella 5 Spesa per R&S globale in USA per settore esecutore (composizione per settore). .......................................................................... 141 Tabella 6 Spesa per R&S globale in USA per settore finanziatore (composizione percentuale). ........................................................................ 145 Tabella 7 Spesa per R&S in USA, imprese, per settore finanziatore (composizione percentuale). ........................................................................ 147 Tabella 8 Spesa per R&S nel 2000. ................................................................. 167 Tabella 9 Caratteristiche dello sviluppo nelle regioni italiane (Variazioni % su valori a prezzi costanti 1993-'98) ................................................... 179 204