Tesi di Laurea Economia della Conoscenza

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
Facoltà di Economia
Tesi di Laurea
Economia della Conoscenza:
il ruolo della ricerca e sviluppo nella crescita
economica
“analisi comparativa”
Relatore: Chiar.mo Prof. Piero Pisoni
Co-relatore: Chiar.ma Prof.sa Anna Maria Bruno
Anno Accademico 2002-2003
Candidato: Giorgio Vergano
INDICE – SOMMARIO
PREFAZIONE_____________________________________________ 4
INTRODUZIONE __________________________________________ 5
CAPITOLO I L’ECONOMIA DELLA CONOSCENZA _______10
PREFAZIONE _______________________________________________________________ 10
INTRODUZIONE _____________________________________________________________ 11
LA TEORIA NEOCLASSICA E LA FUNZIONE DI PRODUZIONE AGGREGATA __________ 11
IL MERCATO DEL LAVORO NEOCLASSICO ____________________________________ 13
LA TEORIA NEOCLASSICA E LA FUNZIONE DI OFFERTA AGGREGATA ______________ 16
L’APPROCCIO TRADIZIONALE ALLA CRESCITA ECONOMICA ______________________ 20
L’ACCUMULAZIONE DI CAPITALE ____________________________________________ 22
LA CRESCITA DELLA FORZA-LAVORO ________________________________________ 23
IL PROGRESSO TECNICO __________________________________________________ 24
L’APPROCCIO KEYNESIANO ALLA CRESCITA ECONOMICA _______________________ 28
LA NUOVA TEORIA CRESCITA ECONOMICA: THE NEW GROWTH THEORY _________ 30
LA COMPOSIZIONE DELL’OUTPUT ___________________________________________ 35
GLI EFFETTI DELL’INTEGRAZIONE DEI MERCATI_______________________________ 37
INTERAZIONE FRA RICERCA E APPRENDIMENTO _______________________________ 39
INVESTIMENTO NELLA CONOSCENZA: BASE DELLA CRESCITA A LUNGO TERMINE? _ 44
LA GESTIONE DELLA CONOSCENZA _________________________________________ 46
L’IMPORTANZA DEL CAPITALE INTELLETTUALE _________________________________ 55
BENI INTANGIBILI ________________________________________________________ 56
“KNOWLEDGE OBJECTS” E “LEARNING OBJECTS”_____________________________ 62
L’IMPORTANZA DELL’ICT ____________________________________________________ 64
IL SETTORE DELL’ICT_____________________________________________________ 64
L’IMPORTANZA CRESCENTE DELL’ICT NELL’ECONOMIA MONDIALE ______________ 80
L’IMPORTANZA DELLA GLOBALIZZAZIONE ______________________________________ 84
INTERNAZIONALIZZAZIONE, MONDIALIZZAZIONE E GLOBALIZZAZIONE ___________ 85
LA SOCIETÀ GLOBALE ____________________________________________________ 90
L’IMPORTANZA DELL’INNOVAZIONE ___________________________________________ 93
CAPITOLO II IL RUOLO DELLA RICERCA E SVILUPPO
NELLA CRESCITA ECONOMICA _______________________ 102
PREFAZIONE ______________________________________________________________ 102
INTRODUZIONE ____________________________________________________________ 104
LA CRESCITA ECONOMICA ________________________________________________ 106
2
I FATTORI DELLA CRESCITA ECONOMICA ____________________________________ 108
LE CONSEGUENZE DELL’INNOVAZIONE E DEL PROGRESSO TECNICO ____________ 114
R&S E CRESCITA ECONOMICA _______________________________________________ 117
R&S ED AUMENTO NELLA PRODUTTIVITÀ ___________________________________ 118
R&S ED IL CUORE DELLO SVILUPPO _______________________________________ 121
CAPITOLO III ANALISI COMPARATIVA _______________ 127
PREFAZIONE ______________________________________________________________ 127
INTRODUZIONE ____________________________________________________________ 128
ALCUNI ESEMPI DI ECONOMIE DELLA CONOSCENZA ____________________________ 130
AUSTRALIA _____________________________________________________________ 131
FINLANDIA _____________________________________________________________ 133
IRLANDA _______________________________________________________________ 134
CANADA _______________________________________________________________ 135
SINGAPORE ____________________________________________________________ 137
STATI UNITI ____________________________________________________________ 138
IL DEFICIT EUROPEO NELL’INVESTIMENTO IN R&S ____________________________ 148
UN DIVARIO IN AUMENTO CON RITARDI NELL’ALTA TECNOLOGIA _______________ 153
L’OBIETTIVO DEL 3% ______________________________________________________ 156
AVANZARE CONGIUNTAMENTE ____________________________________________ 160
RIORIENTARE LA SPESA PUBBLICA VERSO LA RICERCA E L’INNOVAZIONE E
MIGLIORARE LE CONDIZIONI PER GLI INVESTIMENTI PRIVATI ___________________ 162
CAPITOLO IV IL PIEMONTE: CASO DI ECCELLENZA? 164
PREFAZIONE ______________________________________________________________ 164
INTRODUZIONE ____________________________________________________________ 165
LA POSIZIONE DELL’ITALIA _______________________________________________ 167
IL MODELLO ITALIANO DELL’INNOVAZIONE __________________________________ 170
RACCOMANDAZIONI SPECIFICHE DELL’UE PER L’ITALIA ______________________ 172
LE TENDENZE DELLO SVILUPPO REGIONALE: IL PIEMONTE _____________________ 173
LE FORZE DI LAVORO E LE DINAMICHE PRODUTTIVE DELLA REGIONE ___________ 180
IL PIEMONTE: UNA CRESCITA “INTENSIVA” __________________________________ 183
IL PIEMONTE TRA OLD E NEW ECONOMY____________________________________ 188
PROSPETTIVE PER IL FUTURO _______________________________________________ 192
CONCLUSIONE ________________________________________ 198
BIBLIOGRAFIA ________________________________________ 201
INDICE DELLE FIGURE E TABELLE ___________________ 203
3
PREFAZIONE
Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno coadiuvato nella stesura
di questo lavoro di ricerca.
In particolare il Professor Piero Pisoni della Facoltà di Economia di
Torino per la Sua cortesia e disponibilità e per l’aiuto nell’organizzazione
della struttura della tesi.
La Professoressa Anna Maria Bruno della
Facoltà di Economia di Torino per la gentilezza e disponibilità alla
correlazione della tesi.
Inoltre
gradirei
ringraziare
il
Dott.
Fabio
Fabbi,
portavoce
del
Commissario europeo per la Ricerca, per avermi concesso l’opportunità
di intervistarlo e per avermi fornito importanti dati ed informazioni
riguardo i nuovi obbiettivi della Commissione in materia di ricerca e
sviluppo. In fine un particolare riconoscimento anche alla Dottoressa
Giuliana Zanoletti dell’ITP di Torino (Investimenti per Torino e Piemonte)
per avermi cortesemente fornito informazioni e dati utili per meglio
valutare la situazione economica del Piemonte.
4
INTRODUZIONE
“The next revolution is well under way… It
is
not
a
revolution
in
technology,
machinery, techniques, software, or speed.
It is a revolution in concepts…”1
La ricerca e sviluppo (R&S) consiste in quell’insieme di attività
intraprese in modo sistematico con lo scopo sia di accrescere le
conoscenze
sia
di
realizzare
utilizzabili commercialmente.
invenzioni
ed
individuare
scoperte
La R&S è una fase fondamentale del
processo di crescita economica in quanto ha la capacità di tradurre gli
investimenti per l’innovazione in risultati economici.
Tale risultato è
comunque incerto e l’incertezza riguarda sia l’interesse per l’impresa
delle conoscenze acquisite, sia, e soprattutto, la capacità di utilizzare
quelle conoscenze per migliorare la posizione dell’azienda stessa (in
termini di realizzazione tecnica, successo commerciale o cessione di
know how).
Lo svolgimento di attività di R&S è quindi uno strumento chiave su cui
basare la strategia competitiva di un’impresa o di un’intera nazione.
Negli
ultimi
duecento
anni,
la
letteratura
ha
posto
l’accento
sull’importanza dell’accumulazione di capitale fisico come fattore di
crescita economica di lungo periodo. Più recentemente, tuttavia, “The
New Growth Theory”, la “Nuova Teoria della Crescita”, ha chiarito che il
1
Peter F. Drucker, “The Next Information Revolution”, 1998. (La prossima rivoluzione è già avviata…
Non sarà una rivoluzione in tecnologie, macchinari, tecniche, software o velocità. Sarà una rivoluzione in
concetti…)
5
processo di sviluppo di una nazione è endogeno al sistema economico
ed è determinato da una consapevole attività di accumulazione di
capitale
soprattutto
immateriale
(ad
esempio,
capitale umano e
tecnologico) da parte di agenti (individui e/o imprese) motivati dalla
ricerca di un rendimento economico più elevato.
Per decenni gli economisti, per spiegare la crescita economica, hanno
seguito gli insegnamenti di Malthus e utilizzato un modello basato sui
due fattori "lavoro" e "capitale". Più si aumenta il lavoro, più aumenta il
capitale, più si creano nuovi beni. Il problema, con questo modello, è
che nel tempo la crescita si ferma quando il valore marginale dei beni
prodotti è pari al costo del lavoro e del capitale utilizzato per produrli.
Questo modello economico neoclassico fu messo a punto negli anni '50
dal premio Nobel per l'economia Robert Solow.
A partire dagli anni '80, gli economisti, seguendo la pista tracciata da
Paul Romer, fanno un vero e proprio salto in avanti, trovando un modo
diverso per meglio descrivere il meccanismo della crescita economica
attuale e futura.
I teorici della “Nuova Teoria della Crescita” dividono il mondo in due
fattori di produzione fondamentalmente diversi, che possono essere
chiamati "idee" e "cose". Le "idee" rappresentano i beni non competitivi
le "cose" invece sono i beni competitivi materiali. La crescita economica
deriva quindi dalla scoperta di nuove “idee” e dalla trasformazione delle
“cose” per ottenere una maggior competitività o un incremento di
ricchezza.
L’obiettivo di questo lavoro è dunque quello di analizzare i fattori
economici che stanno alla base della Ricerca e Sviluppo ed il suo ruolo
predominante nella crescita economica odierna.
6
Attraverso il primo Capitolo si cercherà di chiarire il concetto di
Economia della Conoscenza, per meglio comprendere non solo le
tendenze dello sviluppo delle attuali economie mondiali, quanto la reale
importanza dei fattori che hanno permesso il passaggio da un’economia
“tradizionale” alla nuova economia della conoscenza.
Si analizzerà quindi l’importanza di fattori quali il capitale umano, la
globalizzazione,
l’ICT
(Information
Communication
Technology)
e
l’innovazione.
L’obiettivo di questo paragrafo è quindi di mostrare il ruolo chiave dei
fattori che compongono le così dette “economie della conoscenza” in
modo da poter meglio comprendere le relazioni tra investimenti in
ricerca e sviluppo e crescita economica.
In particolare questo è il punto centrale che si intende sviluppare nel
corso del secondo Capitolo del presente lavoro. Come meglio vedremo
nel corso dello sviluppo di questo capitolo, la ricerca e sviluppo nasce
dall’intenzione di innovare, sovente con una finalità ben precisa.
Le
imprese, le Istituzioni e più in generali ogni organismo economico che
investe in innovazione, in ricerca e sviluppo può voler conseguire
l’aumento di competitività, la crescita di produttività o di impiego, la
diffusione della tecnologia, con il fine ultimo di accrescere l’output e di
creare maggior ricchezza e quindi di sviluppare la crescita economica.
Lo strumento di ricerca e sviluppo appare quindi un percorso chiave su
cui si deve basare la strategia competitiva e di crescita economica di
un’impresa ma anche di una nazione intera.
Attraverso il terzo Capitolo si è voluto offrire una panoramica della
situazione attuale delle economie di alcuni paesi che possono essere
7
considerati come rappresentativi di
diversi processi di sviluppo
economico
un
che
hanno
portato
ad
significativo
incremento
nell’investimento in ricerca e sviluppo e ad una conseguente formazione
di un’economia basata sulla conoscenza.
Nell’ultima parte di questo capitolo ci si e’ voluti soffermare sulla
particolare situazione europea, ponendo dei confronti, ove possibile, con
le precedenti realtà analizzate.
L'Europa produce un terzo delle conoscenze scientifiche sviluppate a
livello mondiale ed occupa una posizione di primo piano in ambiti quali
la ricerca medica e la chimica. In campo tecnologico vanta importanti
successi in settori quali l'aeronautica e le telecomunicazioni. Tuttavia si
parla di "Paradosso Europeo" perché l'Europa pur essendo prima nella
produzione di pubblicazioni scientifiche rispetto agli USA e al Giappone,
è all'ultimo posto per numero di brevetti depositati. La vera debolezza
europea risiede, quindi, nell'insufficiente capacità di trasformare la
conoscenza
tecnologica
e
scientifica
in
effettive
opportunità
imprenditoriali, ossia, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, la
capacità di trasformare le idee, il capitale umano in crescita economica.
Attualmente
in
Europa
gli
investimenti
in
attività
di
ricerca
rappresentano mediamente l'1,8% del PIL rispetto al 2,8% degli USA ed
al 2,9% del Giappone. Nel 1998 gli USA hanno speso complessivamente
per la ricerca (pubblica e privata) 60 miliardi di euro in più rispetto
all'Europa.
In termini di posti di lavoro, i ricercatori rappresentano in Europa il
2,5% della forza lavoro occupata nelle imprese, contro il 6,7% negli Stati
Uniti ed il 6% in Giappone ed il numero di studenti europei che
compiono studi di livello universitario negli Stati Uniti è oltre il doppio
di quello degli studenti americani che svolgono tali studi in Europa. Il
50% degli europei che effettuano un dottorato negli Stati Uniti,
8
risiedono in tale paese per un lungo periodo trasferendovisi talvolta
definitivamente, creando così una fuga di capitale umano ed un
indebolimento della capacità di innovazione dei paesi europei a
discapito di una crescita economica.
Al termine di questo capitolo si vuole quindi sottolineare l’importanza
del nuovo obiettivo europeo di investimento del 3% del PIL in ricerca e
sviluppo in modo da poter creare per il 2010 300 mila nuovi posti di
lavoro.
Per concludere, l’ultimo quarto Capitolo vuole analizzare più in
particolare la regione italiana che maggiormente investe in ricerca e
sviluppo.
Il Piemonte, con una tradizione secolare di innovazione, di
formazione, di sviluppo di infrastrutture e di supporto del capitale
umano, può essere definito come un “caso di eccellenza” in un
panorama desolante del territorio italiano rispetto ai propri “colleghi”
europei e mondiali.
Si cerca quindi di dare inizialmente una descrizione della realtà
piemontese per tutto ciò che riguarda l’organizzazione degli investimenti
in ricerca e sviluppo e della sostanziale differenza tra investimenti
pubblici e privati. In conclusione si cerca di porre alcune basi per una
prospettiva futura di crescita e di continuo miglioramento anche in
considerazione del nuovo obiettivo europeo del 3%.
9
CAPITOLO I
L’Economia della Conoscenza
Prefazione
Attraverso questa prima parte del lavoro s’intende cercare di dare una
visione quanto più globale e dettagliata possibile sulle caratteristiche di
quelle che vengono definite “Economie basate sulla Conoscenza”.
In particolare si ritiene opportuno suddividere il capitolo in una parte
introduttiva che si focalizza sulle teorie economiche che portano a
comprendere il passaggio da un’economia tradizionale all’economia
della conoscenza.
Si analizzeranno quindi gli aspetti principali della
teoria neoclassica per passare successivamente alla visione più
contemporanea della “New Growth Theory” per cercare di capire meglio
l’influenza della conoscenza, dello sviluppo economico ed intellettuale
sul processo di crescita economica da un punto di vista teorico.
Sempre in questa prima parte introduttiva si analizzerà l’aspetto
fondamentale delle economie della conoscenza e più in generale della
società moderna, dell’investimento e della gestione della conoscenza
come fattore di apprendimento e di sviluppo.
Facendo seguito a queste basi introduttive si analizzeranno in specifico
quelli che ritengo essere i quattro punti cardine di un’economia della
conoscenza attraverso i quali è possibile fondare le basi per una solida
struttura economica che mira allo sviluppo ed alla capacità di
competizione nel quadro di un mercato sempre più globale:
-
l’importanza del Capitale Intellettuale
10
-
l’importanza dell’ICT
-
l’importanza della Globalizzazione
-
l’importanza dell’Innovazione
Si ritiene che attraverso queste basi si possa quindi passare all’analisi
più approfondita del ruolo della Ricerca e Sviluppo nella crescita
economica, come vedremo nel capitolo successivo.
Introduzione
La teoria neoclassica e la funzione di produzione aggregata
La teoria macroeconomica neoclassica si basa sulla funzione della
produzione aggregata e sulla possibilità di raggiungere l’equilibrio
attraverso la flessibilità dei prezzi e dei salari.
La
funzione
della
produzione
aggregata
generalizza
il
concetto
riferendosi ad una “intera economia” definendo così le variabili:
-K
lo stock di capitale
-L
lo stock di forza-lavoro
-Y
il prodotto
assumendo la seguente relazione:
Y = F (K, L)
Questa viene definita come funzione della produzione aggregata, ed
indica la massima produzione ottenibile dai
11
fattori produttivi lavoro e capitale utilizzati nell’economia. In generale si
assume inoltre che la funzione soddisfi due proprietà:
- abbia rendimenti decrescenti per K ed L
- abbia rendimenti di scala costanti
La prima proprietà indica che se viene aumentato un fattore, (ad es. di
lavoro), ma non l’altro, il (ad es. il capitale che rimane costante), si
ottengono aumenti via via più piccoli del prodotto.
In tal caso il
rapporto K/L diminuisce.
La seconda proprietà invece indica che se vengono aumentati entrambi i
fattori in percentuali uguali (ad es. 1% in più di lavoro e di capitale) si
ottiene lo stesso incremento percentuale del prodotto. In tal caso il
rapporto K/L rimane costante.
Quando la quantità di capitale e di lavoro disponibili nel modello
economico vengono completamente utilizzati, allora la funzione ci da’ il
massimo prodotto Y ottenibile.
Questo viene definito come prodotto
naturale.
Figura 1
La funzione della produzione.
12
Come si vede nella Fig.1 la rappresentazione della funzione della
produzione aggregata nel breve e nel lungo periodo Y = F (K, L) mette in
relazione solo le variabili K ed L.
Il prodotto Y, in generale, può essere diverso di quello naturale che si
otterrebbe con i valori costanti di K ed L (completamente utilizzati) per
tre motivi:
- la forza-lavoro non è completamente utilizzata
- il capitale non è completamente utilizzato
- le tecniche utilizzate non sono le migliori disponibili
Il mercato del lavoro neoclassico
Sempre secondo la teoria neoclassica l’occupazione ed il prodotto
tendono sempre verso il raggiungimento del livello massimo e costante
ottenendo cosi’ il prodotto Y con la pena occupazione L. La spiegazione
di questo viene trovata nel mercato del lavoro, dove opera il gioco
tradizionale della domanda e dell’offerta.
E’ necessario quindi vedere come è costruita la curva domanda di
lavoro, che, incrociandosi con la curva dell’offerta di lavoro, determina
l’equilibrio in questo mercato.
“In base alla proprietà dei rendimenti decrescenti, la funzione della
produzione implica che il prodotto marginale del lavoro (PML) è
decrescente: se viene mantenuto costante il capitale l’aumento del
prodotto ottenuto da una dose in più del lavoro impiegato è via via più
piccolo, come in Fig.2.
13
Figura 2
La quantità di lavoro domandata in un sistema di concorrenza perfetta.
La curva decrescente in Fig.2 misura i rendimenti decrescenti del lavoro
che l’impresa confronta con il costo del lavoro.
Sull’asse verticale può
dunque essere rappresentato anche il salario reale (W/P).
La scelta
dell’impresa, è ispirata alla massimizzazione del profitto, vale a dire
quanta parte dei ricavi rimane una volta coperti i costi del lavoro e della
rendita del capitale (PY-WL-RK), dove RK indica i costi sostenuti per
usare il capitale (se fosse preso in affitto R è il canone per una unità
affittata e K è la quantità affittata). Quindi, per un certo qualsivoglia
salario reale fissato dal mercato, le imprese determinano l’occupazione
eguagliando: PML=W/P. In Fig.2 per W/P4 viene impiegato L4. La
conclusione è che: la curva del PML rappresenta anche la curva di
domanda di lavoro.
Per spiegare qual è il salario reale che si viene a determinare sul
mercato del lavoro, occorre vedere il punto di incrocio della domanda e
dell’offerta di lavoro. La domanda è rappresentata dalla PML, mentre
l’offerta si assume sia pari alla forza-lavoro esistente nell’economia.
14
Figura 3
L’equilibrio del mercato del lavoro.
Dalla Fig.3 si evince il punto di equilibrio, in cui viene determinato non
solo il salario reale, ma anche l’occupazione, che è pari alla forza-lavoro.
Quindi in equilibrio non è presente disoccupazione.
Poiché nel mercato del lavoro l’equilibrio è quando L = L , allora,
osservando la funzione della produzione (Fig.1), il prodotto dell’economia
viene a trovarsi proprio al livello naturale:
L = L ⇒ Y = Yn
Partendo da un livello del salario reale superiore a quello di equilibrio si
può
vedere
cosa
succede.
Sia
W/P5>W/Pe,
come
in
Fig.3.
L’occupazione sarà L5<L , vale a dire che è presente disoccupazione
essendo l’offerta superiore alla domanda di lavoro. La funzione della
produzione ci dirà che il prodotto ottenibile con quella occupazione sarà
inferiore al prodotto naturale. Come nei mercati tradizionali, anche in
questo, in cui si scambia un bene particolare come il lavoro (o più
precisamente i servizi lavorativi, le ore di lavoro), il particolare prezzo
15
del bene, cioè il salario reale W/P, tenderà a scendere portandosi al
livello di equilibrio: W/P=W/Pe. Dunque, con un salario che si riduce le
imprese sono indotte ad occupare di più ed a produrre di più, fino alla
“piena” occupazione e quindi fino a quando il prodotto è quello
naturale”2.
In conclusione, seguendo il ragionamento del Prof. Pugno, si può
evincere che nella teoria neoclassica il livello della produzione di lungo
periodo viene determinato nel mercato del lavoro.
La teoria neoclassica e la funzione di offerta aggregata
Nel precedente paragrafo si è visto che la teoria neoclassica determina Y
attraverso il raggiungimento dell’equilibrio nel mercato del lavoro, con il
risultato che Y è pari a Yn .
Lo schema IS-LM invece spiega come viene determinato Y senza che il
mercato del lavoro sia necessariamente in equilibrio.
Lo schema IS-LM è costruito solitamente sulla base dell’ipotesi che i
prezzi sono fissi. “Com’è noto, infatti, quest’ipotesi consente di
determinare l’offerta reale di moneta, che, in equilibrio con la domanda
reale di moneta, fissa la LM, la quale, intersecandosi con la IS,
determina il tasso reale d’interesse di equilibrio e il prodotto di
equilibrio”3. Dunque l’equilibrio IS-LM si riferisce ai mercati dei beni e
della moneta e non a quello del lavoro.
L’integrazione dello schema IS-LM con la teoria neoclassica del mercato
del lavoro consente quindi di ottenere l’equilibrio in tutti tre i mercati,
purché i prezzi ed il salario nominale siano flessibili.
2
3
M. Pugno: “Appunti di Economia I, Crescita Economica”, Facoltà di Economia di Trento, 2003.
M. Pugno: “Appunti di Economia I, Crescita Economica”, Facoltà di Economia di Trento, 2003.
16
“Poiché si presume che salari e prezzi vengano cambiati più lentamente
di quanto cambi Y, allora si può ipotizzare la seguente distinzione:
- nel breve periodo i prezzi, i salari (e il capitale) sono fissi, e dunque
può esserci disoccupazione;
- nel lungo periodo i prezzi ed i salari sono flessibili (ma il capitale
rimane fisso), e dunque la disoccupazione tende a scomparire.
Nel breve periodo l’incrocio delle curve IS-LM può determinare un livello
qualsiasi del prodotto.
Figura 4a
L’equilibrio IS-LM di breve periodo.
Supponiamo sia Y6 < Yn come in Fig.4a. Il prezzo che era stato ipotizzato
fisso per costruire la LM può essere letto sulla curva AD in
corrispondenza del livello Y6 (Fig.5b).
17
Figura 5b
L’equilibrio IS-LM di breve periodo.
Si osservi che assumere che i prezzi siano fissi è come se si assumesse
che la curva di offerta aggregata di brevissimo periodo (ASBSP) sia
orizzontale. La funzione della produzione ci dice che un certo livello del
prodotto
( Y6 < Yn )
può
essere
ottenuto
dell’occupazione (L6< L ).
18
con
un
certo
livello
Figura 6c
L’equilibrio IS-LM di lungo periodo.
Questa è pagata ad un certo salario reale (W/P) (Fig.6c). Ma se i salari
nominali sono flessibili verso il basso, allora nel lungo periodo essi
tenderanno
a
disoccupazione.
scendere
(vedi
Fig.6c)
in
modo
da
eliminare
la
Nella “piena” occupazione la produzione è a livello
naturale, e, in questo caso, maggiore di quello iniziale. Essendo la AD
decrescente, allora anche i prezzi tenderanno a flettere (P’), in modo da
far spostare a destra la LM (LM’) e farla incrociare con la IS a livello di
Yn (vedi Fig.4a)”4.
In conclusione: secondo la teoria neoclassica la flessibilità dei prezzi e
dei salari consente di portare in equilibrio il mercato del lavoro,
mantenendo l’equilibrio nei mercati dei beni e della moneta.
Inoltre è possibile concludere che:
4
M. Pugno: “Appunti di Economia I, Crescita Economica”, Facoltà di Economia di Trento, 2003.
19
- poiché la flessibilità dei prezzi e dei salari conduce Y ad essere pari a
Yn ,
- poiché
Yn è ottenuta sulla base della funzione di produzione
impiegando K e L ,
- poiché la flessibilità dei prezzi e dei salari è tipica del lungo periodo,
allora si può dire che Yn costituisce l’offerta aggregata di lungo periodo,
che, contrariamente alla domanda aggregata, non dipende dai prezzi
(ASLP in Fig.5b).
L’approccio tradizionale alla crescita economica
Per spiegare la crescita economica l’approccio tradizionale ignora il
breve periodo. Pertanto, i prezzi e i salari sono perfettamente flessibili,
ed il prodotto tende a coincidere con quello naturale, in cui tutta la
forza-lavoro e il capitale esistenti sono utilizzati. In un punto del tempo
gli stock esistenti della forza-lavoro e del capitale determinano Yn
attraverso la funzione della produzione aggregata. La crescita di Yn sarà
quindi dovuta alla crescita della forza-lavoro, del capitale, ed ai
cambiamenti della funzione della funzione della produzione. L’orizzonte
temporale di questi cambiamenti è detto lunghissimo periodo.
Per mettere in evidenza le tre fonti per la crescita di Yn , assumiamo che
la funzione della produzione (F) sia di tipo esponenziale o CobbDouglas:
Yn = AK α L1−α con α < 1
Se questa equazione viene espressa in tassi di crescita si ottiene:
20
Yˆn = Aˆ + αKˆ + (1 − α ) Lˆ
dove l’accento circonflesso indica il tasso percentuale di crescita della
∆K
.
variabile, ad esempio Kˆ ≡
K
E’ stata omessa la barra sopra la variabile per non appesantire la
notazione, ma va ricordato che d’ora in poi, l’utilizzo della forza-lavoro e
del
capitale
rimane
sempre
completa,
e
dunque
non
c’è
disoccupazione. Le tre fonti della crescita di Yn sono dunque:
- la crescita del capitale ( K )
- la crescita della forza-lavoro ( L )
- il progresso tecnico ( A )
Figura 7
Come agiscono le tre fonti della crescita sulla funzione della produzione.
21
mai
Nella Fig.7 si mostra come ciascuna delle tre componenti agisca sul
prodotto naturale. Vediamo dunque ciascuna delle tre componenti
ignorando la crescita delle altre due.
L’accumulazione di capitale
“La crescita del capitale K̂
è endogena rispetto all’economia. Per
mostrare questo, si ricorda che:
∆K ≡ I
dove I sono gli investimenti che, appunto, vanno ad aumentare lo stock
di capitale dell’economia. Come si vede, qui si considera finalmente
l’effetto di aumentare la capacità produttiva degli investimenti, mentre
nello schema IS-ML/AD-AS, che era limitato al breve o al lungo periodo,
veniva considerato solo il loro effetto di aumentare la domanda di beni,
senza essere ancora operativi”5.
Se consideriamo che gli investimenti dipendono dal risparmio, possiamo
considerare l’equazione
∆K = sYn
in cui la crescita del capitale è dovuta al comportamento dei
risparmiatori dei settori privato e pubblico. Dunque, una volta che il
prodotto inizia a crescere per via della crescita del capitale, cresce
anche il risparmio.
Un aumento del risparmio e degli investimenti appare dunque
favorevole alla crescita economica.
5
Secondo la teoria neoclassica,
M. Pugno: “Appunti di Economia I, Crescita Economica”, Facoltà di Economia di Trento, 2003.
22
l’espansione della capacità produttiva trova sempre, nell’aggregato
dell’intera economia e nel lunghissimo periodo, una sufficiente domanda
perché sia appieno utilizzata. Questa conclusione appare essere
convincente solo in modo parziale. Il rallentamento nella crescita del
prodotto sembra accompagnarsi ad un aumento della disoccupazione e
ad un calo nell’attività delle imprese.
L’economista neoclassico
risponderebbe che questi sono fenomeni ciclici, di breve periodo. Nel
lunghissimo periodo la disoccupazione e l’inutilizzo degli impianti delle
imprese non cresce indefinitamente. Invece, è vero che le economie a
più alto tasso di crescita hanno anche un’elevata quota di risparmi e di
investimenti.
Tuttavia, la quota di risparmi ed investimenti sul prodotto non
raggiunge mai valori elevatissimi (non oltre il 20-25%). Il motivo di
questo, secondo la teoria neoclassica, risiede nel principio della
produttività marginale decrescente che riguarderebbe non solo il lavoro,
ma anche il capitale, che nel lunghissimo periodo, appunto, non è più
fisso. Questo peraltro è espresso nella funzione della produzione CobbDouglas dalla ipotesi che α<1. Secondo questo principio, l’aumento del
capitale, senza che aumenti il lavoro impiegato, genera incrementi di
prodotto via via più piccoli. Quindi i risparmi che l’economia è in grado
di generare, vanno a finanziare investimenti che hanno effetti positivi
sulla crescita del prodotto, ma in misura sempre più ridotta, se il lavoro
non dovesse crescere e non ci fosse progresso tecnico.
La crescita della forza-lavoro
“L’aumento
della
forza-lavoro,
secondo
la
teoria
neoclassica,
è
essenzialmente dovuto a determinanti extra-economiche. Si pensi alla
23
caduta, un po’ misteriosa, dei tassi di natalità in Italia.
Questi si
collocavano fra i primi in Europa negli anni ’60, mentre sono fra gli
ultimi negli anni ’90. Oppure si pensi alla longevità dei giapponesi. In
prima approssimazione, dunque, la crescita della forza-lavoro può
essere ritenuta esogena.
Occorre osservare però che anche le determinanti demografiche ed
istituzionali sono influenzate da variabili economiche. La natalità e la
mortalità, che regolano l’andamento della popolazione, sono influenzate
dalle spese per la sanità e dal livello di vita della popolazione. E’ stato
osservato in particolare che la natalità dipende molto dal grado di
istruzione femminile. Anche i flussi migratori sono grandemente dovuti
a motivi economici. La parte della popolazione che costituisce la forzalavoro dipende dall’estensione dell’obbligo scolastico e dall’estensione
della copertura pensionistica, e dunque dalle spese per l’istruzione e la
previdenza.
Si potrebbe osservare che le economie che hanno una elevatissima
crescita della popolazione, come l’India e molti paesi africani, sono
anche economie poverissime.
Il progresso tecnico
La fonte più importante per la crescita economica è il progresso tecnico.
Non è soggetto a rendimenti decrescenti ( Â non è moltiplicato, come le
altre due fonti, per un coefficiente minore di 1), e fa aumentare anche il
prodotto pro-capite. Il miglioramento delle tecniche è rappresentato da
una rotazione verso l’alto della funzione di produzione (Fig.7).
Le
determinanti del progresso tecnico risiedono nella capacità di innovare
a livello tecnologico ed organizzativo.
24
Questa capacità è in buona parte dovuta a fattori extra-economici.
Basta pensare alle innovazioni che si sono diffuse nel dopoguerra come
l’automobile, gli elettrodomestici, le plastiche, e più recentemente
l’information technology. All’origine di questo si può trovare la genialità
dei ricercatori e a volte la casualità. In prima approssimazione, dunque,
il progresso tecnico è da considerarsi come esogeno.
Gli effetti del progresso tecnico possono essere rappresentati anche per
mezzo dello schema ISLM/AD-AS e del mercato del lavoro. Il progresso
tecnico fa aumentare Yn , e dunque la ASLP si sposta a destra (Fig.8c).
Figura 8c
Il progresso tecnico nello schema IS-LM/AD-AS.
Anche la LM di lungo periodo, che è verticale, si sposta a destra. Una
politica monetaria non espansiva né restrittiva, richiede che la quantità di
moneta venga aumentata in proporzione a Yn , lasciando quindi costanti
i prezzi. Se si assume che la proporzione dei risparmi, e dunque degli
25
investimenti rispetto al prodotto rimanga costante, allora la IS si sposta
a destra come la LMLP (Fig.9a),
Figura 9a
Il progresso tecnico nello schema IS-LM/AD-AS.
e la AD si sposta a destra come la ASLP(Fig.10c).
Figura 10c
Ciclo e trend: la loro scomposizione e rappresentazione nello schema
IS-LM/DA-OA
26
Il cambiamento importante avviene nel mercato del lavoro, in cui
aumenta la domanda di lavoro, ma l’offerta no, con l’effetto di
aumentare il salario (Fig.11d).
Figura 11d
Il progresso tecnico nello schema IS-LM/AD-AS.
Quindi il progresso tecnico fa aumentare il prodotto ed i salari.
Recenti
studi
hanno
preso
in
considerazione
le
determinanti
economiche del progresso tecnico, in modo da renderlo endogeno. Le
principali sono due:
- la spesa in Ricerca e Sviluppo (R&S),
- la spesa nella formazione di capitale umano.
Questo ha reso evidente che le due fonti della crescita K̂ e L̂ vanno
scomposte, perché possono incorporare spese che influenzano
Dunque le tre fonti non sarebbero più indipendenti.
27
 .
Il modello è diventato più realistico, per questi aspetti, ma ha posto
problemi di realismo per altri aspetti. Infatti, la spesa in R&S e, in larga
parte, quella in capitale umano non hanno, generalmente, effetti certi su
 . Il modello invece, per poter essere operativo e poter essere utilizzato
per le previsioni, ha bisogno di assumere che ci sia una perfetta
previsione degli effetti di quel tipo di spese.
L’approccio keynesiano alla crescita economica
La distinzione fra breve, lungo e lunghissimo periodo al fine di studiare
separatamente ciclo economico e trend di crescita non appare in grado
di spiegare alcuni problemi rilevanti. I principali di questi sono due:
- Uno riguarda le conseguenze della politica economica nel lunghissimo
periodo.
La teoria neoclassica sostiene l’inefficacia delle politiche
economiche nel lungo periodo.
Ma se così fosse, non avrebbero
responsabilità nell’aver sostenuto gli elevati trend di crescita degli Stati
Uniti e dell’Europa negli anni ’50 e ’60.
E viceversa, non avrebbero
responsabilità nelle crisi finanziarie che hanno colpito diversi paesi in
via di sviluppo, e che hanno modificato il loro trend di crescita.
- Il secondo problema riguarda il mercato del lavoro. E’ senso comune
che anche una crescita molto prolungata faccia bene all’occupazione. E
viceversa, la storia insegna che la disoccupazione può persistere per
lungo tempo anche se il mercato del lavoro diventa flessibile.
28
Un approccio alternativo a quello tradizionale, sostenuto da diversi
keynesiani, non separa lo studio del ciclo economico da quello del trend
di crescita. Questo approccio si basa sui seguenti punti:
1. Il trend di crescita del prodotto pro-capite è influenzato dagli
investimenti per diversi motivi.
Perché gli investimenti incorporano
progresso tecnico, perché aumentano la specializzazione produttiva e
delle mansioni lavorative, perché permettono l’addestramento del lavoro
in una stessa mansione.
2. Il rendimento degli investimenti è molto incerto. Non solo perché il
progresso tecnico ha esiti incerti, ad esempio perché il lancio di un
prodotto può rivelarsi un insuccesso. Ma anche perché i benefici degli
investimenti sono appropriabili in misura incerta.
Ad esempio
l’addestramento del lavoro potrebbe risolversi completamente in un
maggior reddito dei lavoratori.
Non è quindi definibile un tasso di
interesse reale di lungo periodo, per il semplice motivo che non esiste un
tasso di interesse che misuri adeguatamente il rendimento degli
investimenti. Quindi, gli investimenti non sono determinati dal risparmio,
qualsiasi sia l’orizzonte temporale considerato.
Se per esempio il
rendimento dell’investimento non tiene in considerazione il maggior
reddito prodotto dall’addestramento del lavoro, il tasso d’interesse non
segnala il maggior risparmio dei lavoratori così addestrati. Va ricordato
che l’investimento potrebbe avere un rendimento maggiore del risparmio
generato, ad esempio perché non considera i costi sopportati dal resto
dell’economia, come quelli ambientali.
3. Poiché gli investimenti sono il motore dei risparmi che andranno poi
a finanziarli, e della crescita, e poiché sono volatili per l’incertezza del
29
loro rendimento, è cruciale una politica economica rivolta a minimizzare
quest’incertezza, ed a incoraggiare gli investimenti.
- Il primo obiettivo sottolineato dai keynesiani riguarda le prospettive di
domanda futura.
Da qui la propensione per politiche monetarie
orientate a mantenere ridotti tassi di interesse.
La politica fiscale
andrebbe usata per contrastare l’aggravarsi ed il persistere della
disoccupazione, nonché per non lasciar cadere i redditi e la domanda.
- Quel primo obiettivo va però temperato con l’obiettivo di contenere
l’inflazione, perché questa aumenta l’incertezza dei finanziatori, e quindi
l’incertezza del rendimento dell’investimento.
- Un terzo obiettivo è limitare il rischio di insolvenza dei debitori,
anch’esso fonte di incertezza nel rendimento dell’investimento. Questo
comporta un controllo del deficit e del debito pubblico, e quindi un
limite alle politiche di espansione fiscale”6.
La nuova teoria crescita economica: The New Growth Theory
Come abbiamo visto, le principali conclusioni del modello neoclassico
sono infatti che la crescita dipende solo in ultima analisi da fattori come
il tasso di progresso tecnico che rimangono comunque considerati come
esogeni.
Se le conoscenze sono perfettamente accessibili a tutti, il
mercato genera spontaneamente una tendenza alla convergenza delle
economie.
In equilibrio comunque i tassi di crescita saranno tutti
uguali al tasso di progresso tecnico comune alle varie economie.
Le ipotesi di perfetta diffusione delle conoscenze e di rendimenti
costanti di scala precludono la possibilità di spiegare differenziali di
6
M. Pugno: “Appunti di Economia I, Crescita Economica”, Facoltà di Economia di Trento, 2003.
30
crescita persistenti nel tempo che costituiscono invece un dato
dell’esperienza.
La nuova teoria della crescita sviluppatasi a partire dalla seconda metà
degli anni ‘80 si presenta più ricca di implicazioni.
Ciò si deve
soprattutto al fatto che ipotesi di partenza come la presenza di
rendimenti crescenti e un’analisi più precisa dal punto di vista
microeconomico
dei
meccanismi
di
diffusione
delle
conoscenze
consentono di rendersi conto di differenze persistenti nelle modalità di
sviluppo di economie ed aree economiche differenti.
L’aspetto più
importante è che si tende a convergere verso l’approfondimento di due
aspetti essenziali: i rendimenti crescenti e i meccanismi di produzione e
diffusione delle conoscenze. I rendimenti crescenti sono alla base della
crescita endogena. D’altro canto l’analisi delle modalità di produzione e
diffusione delle conoscenze tecnologiche costituisce un elemento
cruciale per la comprensione dei fondamenti della crescita economica,
ma
anche
dell’evoluzione
delle
strutture
industriali
e
della
concentrazione delle attività economiche in specifiche aree geografiche.
E’ possibile individuare alcune indicazioni provenienti dalla nuova
teoria della crescita che possono rivelarsi utili nella comprensione dei
meccanismi sottostanti allo sviluppo locale, soprattutto per quanto
concerne le relazioni fra sistema locale e fattori esterni. Tali indicazioni
appaiono particolarmente rilevanti per quanto riguarda due aspetti:
- Politiche volte ad orientare la composizione dell’output e la
specializzazione produttiva in un contesto di apertura al commercio
internazionale e di integrazione con altre aree, sia per quanto riguarda
l’adozione di strategie high-tec e low-tec (come vedremo meglio in
31
seguito), o con riferimento all’opzione tra specializzazione in un solo
settore e diversificazione produttiva.
- Mix ottimale fra sostegno alla ricerca e sviluppo per stimolare
l’introduzione di nuove tecnologie e all’apprendimento su tecnologie
locali preesistenti.
Gli aspetti citati sono fortemente connessi fra loro. Come vedremo nei
paragrafi
successivi,
appare
chiaro
che
gli
elementi
chiave
di
un’economia di questo genere sono la lo sviluppo della Conoscenza,
l’utilizzo delle nuove Tecnologie, l’Internazionalizzazione e l’investimento
in Innovazione.
La differenza cruciale fra il modello neoclassico e la nuova teoria della
crescita è che in quest’ultima il progresso tecnico non è più una scatola
nera bensì il risultato di meccanismi microeconomici che vengono
attentamente indagati. L’apertura della scatola nera si rivela densa di
implicazioni alcune delle quali interessanti dal punto di vista delle
politiche di sviluppo sia generale che locale.
Pur offrendo, soluzioni
diverse a seconda delle ipotesi di partenza la nuova teoria della crescita
solleva nuovi problemi.
Analizziamo quindi più in dettaglio alcune
ipotesi e le loro conseguenze.
Nei
modelli
di
crescita
endogena
il
motore
della
crescita
è
l’accumulazione di conoscenze e di abilità incorporate nella forza lavoro
che consentono l’utilizzo produttivo e il perfezionamento di tali
conoscenze.
Le prime si accumulano nel tempo grazie a specifiche
attività di ricerca e sviluppo condotte dalle imprese e a processi di
apprendimento sul lavoro.
32
L’accumulazione di abilità e di capitale umano è il risultato di
investimenti in educazione e degli stessi processi di apprendimento:
- La ricerca genera innovazioni fondamentali e da luogo all’introduzione
di nuovi prodotti e processi che aprono opportunità di sviluppo e di
ulteriore crescita delle conoscenze.
Le innovazioni generate dalla
ricerca non realizzano immediatamente il loro potenziale di efficienza
ma ciò avviene nel tempo attraverso l’accumulazione di esperienza nella
produzione. L’apprendimento consente di ridurre i costi di produzione e
di introdurre modifiche incrementali in famiglie di prodotti nonché di
rendere operative le conoscenze prodotte dalla ricerca risolvendo
problemi che possono emergere solo grazie all’esperienza.
- La crescita della produttività dovuta all’apprendimento è comunque
limitata. Le curve di apprendimento sono decrescenti (nel senso che i
costi medi si riducono) ma tendono ad appiattirsi oltre un certo punto
quando il potenziale di apprendimento proprio di una certa famiglia di
prodotti si esaurisce.
- L’apprendimento genera conoscenze che possono essere rilevanti
anche nella ricerca e nell’introduzione di nuovi prodotti. In altri termini
esiste
un
rapporto
di
“fertilizzazione”
reciproca
fra
ricerca
e
apprendimento.
- La diffusione delle conoscenze non è perfetta.
Alcune forme di
conoscenza presentano maggiori difficoltà di trasferimento o sono meno
facilmente codificabili rispetto ad altre.
Questo può essere vero in
particolare per le nuove conoscenze scientifiche o alla frontiera
33
tecnologica e per alcune conoscenze tecnologiche specifiche altamente
tacite.
Fermo restando la comune convinzione fra gli studiosi che l’innovazione
rappresenti un elemento cruciale dello sviluppo, alcuni hanno attirato
l’attenzione sull’importanza dell’evoluzione endogena dei saperi locali
come motore della crescita, altri sugli effetti di fertilizzazione di tali
saperi
generati
dall’integrazione
con
tecnologie
più
avanzate
di
provenienza esterna.
La prima ipotesi punta sulla continuità e sul patrimonio di esperienze e
capacità locali e si propone la loro valorizzazione, costruendo su di esse
una competitività su mercati più ampi. E’ sostanzialmente una strategia
di nicchia che fa leva sulla creazione di uno specifico know how locale,
sviluppato percorrendo le curve di apprendimento proprie delle
produzioni esistenti. L’altra, che può essere definita di rottura, punta
invece sull’innovazione e l’introduzione di nuovi settori a tecnologia più
avanzata attraverso un sostegno alla ricerca, la creazione di centri di
diffusione
delle
conoscenze,
parchi
tecnologici,
incentivi
alla
localizzazione di imprese high-tec etc.
Entrambe queste strategie traggono alimento da alcune esperienze di
successo,
ma
entrambe
mettono
in
risalto
l’importanza
della
conoscenza, dell’investimento e la differenza sostanziale con le teorie
neoclassiche di crescita economica.
Per esempio, i casi di alcuni distretti industriali in Italia suggeriscono
l’importanza dei saperi locali inseriti in un network di relazioni sociali a
carattere eminentemente locale nel dar luogo a forme di sviluppo
endogeno imperniate su piccole e medie imprese di origine locale.
L’esempio più citato, invece a sostegno della seconda strategia è quello
34
della Silicon Valley in cui la presenza di conoscenze universalistiche di
alto livello scientifico e tecnologico ha innescato fenomeni di spin-off.
Queste due strategie comunque non sono necessariamente alternative e
possono essere perseguite simultaneamente, ma emerge comunque un
problema di trade off nella allocazione delle risorse dal momento che gli
strumenti di attuazione sono affatto diversi e, soprattutto, la seconda
strategia richiede una forte concentrazione di risorse. Esiste quindi un
problema di mix ottimale sul quale la nuova teoria della crescita offre
alcune indicazioni.
La composizione dell’output
Consideriamo
in
primo
luogo
l’ipotesi
che
le
potenzialità
di
apprendimento siano limitate per una determinata famiglia di prodotti.
La crescita non può quindi essere sostenuta dal solo apprendimento a
causa della presenza di rendimenti decrescenti sui prodotti esistenti,
ma richiede la continua introduzione di nuovi prodotti con più elevate
potenzialità di apprendimento. Ciò determina una continua traslazione
delle curve di apprendimento che compensa i rendimenti decrescenti.
L’implicazione che ne discende è che, a differenza del modello
neoclassico in cui ciò che è rilevante non è cosa produrre ma, piuttosto,
come produrre (ciò che conta è il grado di efficienza genericamente
considerato in tutti i settori dell’economia), la composizione dell’output
assume rilevanza nella determinazione del tasso di crescita.
Un
particolare filone di analisi che fa capo a Lucas (1988,1993), Stokey
(1988,1991) e Young (1991,1992) analizza questo problema.
Nel
modello di Lucas, per esempio, la crescita dipende dall’accumulazione
di capitale umano grazie all’apprendimento sul lavoro. Se nell’economia
35
si producono diversi beni quest’ipotesi può essere formulata nel modo
seguente:
H i = δ iUi H i
Dove H è un indicatore di capitale umano, u la frazione di tempo
dedicata alla sua accumulazione δ
un parametro che misura il tasso
di apprendimento. Lucas ipotizza che alcuni tipi di prodotti incorporino
un maggiore potenziale di apprendimento rispetto ad altri.
termini il valore di δ
In altri
è diverso per ciascuno dei beni prodotti.
L’accumulazione di skills viene quindi a dipendere dal mix produttivo di
una determinata area che, a sua volta, è influenzato dal vantaggio
comparato in una economia aperta al commercio internazionale.
La
scelta del mix di beni da produrre si configura quindi come un’implicita
scelta di un tasso di accumulazione del capitale umano o di una certa
dinamica dell’apprendimento e ciò determina, a sua volta, il tasso di
crescita.
L’argomentazione di Lucas può essere sintetizzata nei termini seguenti.
Ipotizziamo che esistano due paesi A e B e due beni h (o high-tec, che si
caratterizza per un maggiore potenziale di learning) e l (low-tec). Dato il
prezzo relativo p dei due beni, Lucas mostra che se nel paese A
H h / H l > p quest’ultimo si specializzerà nella produzione del bene hightec e il paese B in quella del bene lowtec. Il paese A percorre quindi
curve di apprendimento più dinamiche, di conseguenza cresce a un
tasso più elevato rispetto a B. La specializzazione iniziale è rafforzata
nel lungo periodo dalla dinamica dell’accumulazione perché il paese A
sta accumulando più esperienza nella produzione del bene high-tec
rispetto al paese B. Il paese A tende pertanto a incrementare il proprio
vantaggio competitivo.
Si crea quindi un feedback positivo tra
36
specializzazione e crescita che può dar luogo, a seconda dei casi, a tassi
di crescita divergenti.
Il modello di Lucas non specifica gli aspetti microeconomici della
accumulazione di conoscenze ma si limita a assumere la presenza di
esternalità prodotte dall’apprendimento. Altri modelli come quello di
Stokey contengono invece una analisi micro.
Stokey, per esempio,
ipotizza che la crescita della produzione di ciascun bene produca
spillovers a vantaggio di tutti i beni prodotti nell’economia. Tali
spillovers sono però tanto più forti tanto maggiore è il livello di
sofisticazione tecnologica di ciascun prodotto.
Nel tempo i costi di
questi prodotti si riducono maggiormente e i prodotti a basso contenuto
tecnologico tendono ad essere sostituiti e a uscire dal mercato.
Uno degli scenari ipotizzati da Stokey introduce un settore tradizionale
caratterizzato dall’assenza di apprendimento (per esempio il settore
agricolo). In questo caso l’economia può percorrere sentieri di crescita
differenti e instabili nel senso che può rimanere intrappolata in un
equilibrio di stagnazione in cui viene prodotto solo il bene tradizionale,
oppure avviarsi lungo un sentiero di crescita sostenuta in presenza di
uno shock esterno di sufficiente entità.
Gli effetti dell’integrazione dei mercati
Il modello della nuova teoria della crescita suggerisce che il tipo di
specializzazione conta nel determinare il tasso di crescita: alcuni beni
hanno importanza strategica e la scelta di produzioni high-tec o
tradizionali può portare l’economia a percorrere sentieri di crescita
differenti. In questo contesto l’apertura al commercio internazionale e
l’integrazione in aree economiche più ampie (per esempio quella
37
europea) tendono ad accentuare questi meccanismi cumulativi poiché
influiscono sulla specializzazione delle singole aree.
Se il tasso di crescita è determinato fondamentalmente dal tasso di
accumulazione delle conoscenze e si ipotizza non rivalità nell’uso della
conoscenza stessa e alcuni fattori produttivi sono caratterizzati da una
limitata mobilità, l’integrazione e il commercio dovrebbero stimolare la
crescita. L’integrazione infatti equivale all’unione dei settori di ricerca e
sviluppo delle due economie, ciò potrebbe generare un effetto di scala.
Il meccanismo è che un ampliamento del numero dei ricercatori riduce
il costo pro capite della produzione di conoscenze (per esempio
attenuando i problemi di ridondanza o perché amplia il pool di
conoscenze dalle quali i ricercatori possono attingere) accrescendo
quindi il tasso di crescita di entrambe le economie. L’ipotesi sottostante
è che la conoscenza fondamentale sia un bene pubblico nell’economia
integrata.
L’integrazione dei mercati genera un ulteriore effetto di scala che, a sua
volta, può ripercuotersi sul tasso di crescita.
Nel caso esaminato da
Rivera-Batiz e Romer7 l’allargamento del mercato dei consumatori è
esattamente compensato da un aumento del numero di produttori e
quindi da una maggiore concorrenza. Questi due effetti si compensano
esattamente
se
ad
integrarsi
sono
due
economie
identiche,
l’allargamento del mercato crea maggiori opportunità di profitto ma
l’aumento della competizione tende a ridurle.
Il discorso cambia
considerevolmente se le due economie si differenziano per capacità
innovativa e gli spillovers sono locali.
Questo è il caso analizzato da
Feenstra8 il quale mostra come la situazione competitiva dell’economia
7
Rivera-Batiz, Paul Romer: “International Trade with endogenous technical change”, European
Economic Review, 1990
8
Robert C. Feenstra: “Integration of trade and disintegration of production in the global economy”,
Journal of Monetary Economics, 1998
38
con
minore
capacità
innovativa
peggiori
nel
tempo
perché
la
competizione cresce nel mercato dei beni ma i costi dell’attività
innovativa decrescono meno rapidamente.
La conseguente riduzione
dei profitti per le imprese causa, a sua volta, una riduzione dell’attività
innovativa e del tasso di crescita dell’economia.
Interazione fra ricerca e apprendimento
Una strategia di sviluppo della conoscenza comporta, d’altro canto,
l’attribuzione di un ruolo privilegiato alla ricerca e all’adozione di misure
tese a stimolare la localizzazione di industrie di questo tipo, relegando
in un ruolo secondario l’apprendimento nelle produzioni locali. Come si
è detto in precedenza un’ipotesi ricorrente nei modelli di crescita
endogena è che la crescita è il risultato dell’interazione di entrambi. Da
un lato la ricerca introduce nell’economia nuovi prodotti e crea nuove
opportunità di apprendimento ma beneficia anche dalle soluzioni
tecniche generate da quest’ultimo. Si pone pertanto il problema del
corretto mix di questi due elementi. L’ipotesi di fertilizzazione reciproca
da luogo ad una relazione concava prima crescente e poi decrescente fra
ricerca e tasso di crescita nel senso che, fino ad una certa soglia, un
aumento delle risorse destinate alla ricerca produce un incremento del
tasso di crescita ma al di là di essa la relazione si inverte.
Ciò dipende dal fatto che un eccesso di ricerca ed una troppo rapida
introduzione di nuovi prodotti a spese dell’apprendimento su quelli
esistenti finisce per isterilire la ricerca stessa privandola degli inputs
provenienti dall’esperienza nella produzione.
39
Un caso di questo tipo è stato studiato da Alwyn Young9 in un’analisi
comparativa della crescita di Hong Kong e Singapore da cui emerge una
conclusione particolarmente utile per meglio comprendere questo
argomento: entrambi i paesi hanno registrato tassi di crescita molto
elevati ma con caratteristiche assai diverse. Nel caso di Hong Kong la
crescita è spiegata soprattutto dall’aumento della produttività, favorito
da una buona dotazione di capitale umano e da un’elevata dinamica
dell’apprendimento, mentre a Singapore il fattore determinante è stato
l’accumulazione di capitale con una sostanziale stagnazione della total
factor productivity.
Young spiega questa differenza con il fatto che il
governo di Singapore ha attuato una politica di sostegno degli
investimenti esteri incoraggiando la rapida introduzione di nuovi settori
e trascurando l’apprendimento nelle imprese locali. Gli effetti di lungo
periodo possono essere molto diversi da quelli attesi.
Una sostenuta
accumulazione di capitale senza un parallelo aumento della produttività
comporta nel lungo periodo una progressiva riduzione della produttività
del capitale e, in definitiva, una riduzione dell’incentivo ad investire con
conseguente riduzione del tasso di crescita.
In termini d’interazione fra ricerca e apprendimento questo effetto opera
nel modo seguente: la ricerca porta all’introduzione di nuovi prodotti ma
il costo di produzione di un nuovo prodotto dipende dall’esperienza
maturata in precedenza.
Young assume che il costo sia tanto più
elevato quanto maggiore è la distanza tecnologica tra il nuovo prodotto e
l’esperienza accumulata nell’economia.
9
Alwyn Young: “The tyranny of numbers: confronting the statistical realities of the East Asian growth
experience”, marzo 1994, http://www.nber.org/papers/w4680
40
Figura 12
Interazione fra ricerca ed apprendimento.
Quest’ipotesi è rappresentata graficamente nella Fig12. Nell’economia si
producono diversi beni ordinati da destra verso sinistra in base al livello
tecnologico S. La curva discendente rappresenta il costo di produzione
in termini di lavoro (nell’economia non c’è capitale) di ciascuno di essi.
L’ipotesi che l’apprendimento sia bounded fa sì che per ogni tecnologia
l’esperienza accumulata riduca i costi, ma fino ad un limite inferiore
oltre il quale essi smettono di ridursi.
Ipotizziamo
che
in
un
determinato
momento
l’economia
abbia
accumulato un’esperienza misurata dal parametro T. Tutti i beni di
livello tecnologico S<T hanno esaurito le possibilità di apprendimento
mentre il contrario accade per S>T. Via via che si accumula esperienza
produttiva nell’economia un numero crescente di beni raggiunge il
limite inferiore. La curva crescente rappresenta il costo di produzione
di un nuovo bene. Quando l’economia ha accumulato l’esperienza T,
introdurre un’innovazione comporta un costo di poco superiore a TA se
l’innovazione presenta un livello di sofisticazione S molto vicino
all’esperienza accumulata, ma molto maggiore se, se ne allontana.
41
Consideriamo ora due economie che hanno raggiunto differenti livelli di
esperienza T e T’. Si potrebbe ipotizzare, come fa Young per i casi di
Hong Kong e Singapore, che una di esse abbia perseguito una strategia
di ricerca puntando ad attrarre industrie innovative mentre la seconda
abbia attribuito maggiore rilevanza all’accumulazione di esperienza
nelle industrie esistenti.
L’introduzione della stessa innovazione N
comporta costi differenti per le due economie ovvero maggiori per quella
che ha accumulato minore esperienza.
L’innovazione ed il progresso
economico dipendono quindi crucialmente dall’apprendimento perché,
in assenza di una crescita parallela di entrambi, i nuovi prodotti hanno
costi troppo alti e risultano non profittevoli.
Facendo seguito alle teorie economiche sia di tipo tradizionalista
(neoclassico) sia legate alla “New Growth Theory” (Nuova Teoria della
Crescita), possiamo affermare che a tutt'oggi l’economica basata sullo
sviluppo della conoscenza (Knowledge driver Economy) è considerata
come uno dei più importanti fattori di crescita economica della società e
del suo sapere.
La cultura della conoscenza è un fattore essenziale per
l'innovazione e la crescita tecnologica.
In contrasto la mancanza di
capacità tecnologiche allontana ancora di più dalla cultura della
conoscenza.
Come abbiamo visto in precedenza, in ogni caso una forza
lavoro colta non traduce automaticamente il sapere in innovazione
tecnologica e sviluppo economico.
Il processo che porta alla cultura
della conoscenza non è semplice, ma è un insieme di conoscenza,
apprendimento ed esperienza.
Questo vuole ricordare che per arrivare ad un'organizzazione della
cultura
della
conoscenza
non
serve
solo
un
sistema
istruttivo
organizzato, bensì una rete d'organizzazioni che apportano il loro
contributo di conoscenza ed esperienza. Come vedremo in seguito, la
42
conoscenza e l'esperienza possono essere così tradotte nel Capitale
Umano ovvero la somma di tutti coloro che tramite lo scambio reciproco
d'informazioni riescono ad apprendere e risolvere in minor tempo ogni
tipo di situazione.
L'apprendimento è un'attività umana innata.
La crescita della
conoscenza è un risultato dell'apprendimento in funzione dello sviluppo
e l'esperienza gioca un ruolo molto importante nell'acquisizione della
conoscenza.
L'organizzazione della cultura della conoscenza dipende
molto dal contributo del capitale intellettuale che crea e sviluppa un
vantaggio competitivo notevole nell'economia.
L'introduzione della tecnologia dell'informazione ha portato ad un
allargamento
della
cultura
della
conoscenza
ed
ad
un
rapido
mutamento dei modelli d'apprendimento. Promuovere la cultura della
conoscenza con la costruzione di un sistema (network) basato sullo
scambio ragionato e strutturato delle informazioni (conoscenze) è l'inizio
di una rivoluzione del sistema dell'apprendimento tradizionale che non
viene più supportato da schemi rigidi di istruzione.
cultura
della
conoscenza
come
modello
La diffusione della
d'apprendimento
ed
insegnamento pone le basi per un allargamento dei concetti di capitale
intellettuale.
che è la risorsa principale e che non viene in nessun
modo consumata, bensì rinnovata ed aumentata.
Rinnovata dal continuo scambio d'informazioni che raffinano il sistema
della cultura della conoscenza, aumentata in relazione al ricambio ed
implementazione delle informazioni che sono scambiate tramite la
trasformazione delle esperienze.
Tutto ciò porta il sistema economico ad un'auto apprendimento e più
l'anello delle relazioni si allarga coinvolgendo un sempre maggiore
numero d'organizzazioni, più il sistema si supporta da sé, mantenendo
43
alto ed accrescendo il livello di cultura, così ponendo le basi per la
crescita economica, tecnologica e intellettuale.
Nell'ottica delle organizzazioni, come vedremo nella sezione successiva,
ciò che più conta in definitiva è il capitale umano che si traduce in
capitale intellettuale.
La valorizzazione del capitale umano avviene
attraverso il meccanismo della distribuzione della cultura della
conoscenza ed il libero scambio d'informazioni e la trasformazione
dell'esperienza in cultura della conoscenza portano verso la creazione di
un’economia della conoscenza.
Investimento nella conoscenza: la base della crescita a lungo
termine?
Sebbene la spesa per investimenti in beni materiali sia importante,
l'investimento immateriale nella ricerca e sviluppo, nell'istruzione e
nella tecnologia dell'informazione sta diventando perfino più rilevante
per lo sviluppo economico.
La crescita a lungo termine, quindi, è attribuibile non solo ad un
incremento nello stock di capitale fisso, ma anche ed in maniera sempre
più
significativa
ai
progressi
tecnici
dell'impiego del capitale e del lavoro.
informatica,
l'investimento
nel
che
aumentano
l'efficienza
Inoltre, con la rivoluzione
progresso
tecnologico
diventerà
probabilmente ancora più importante nell'economia del futuro basata
sulla conoscenza.
Pertanto, è indispensabile riesaminare l'entità dell'investimento nella
conoscenza e nel capitale.
44
Una dotazione infrastrutturale adeguata è una condizione necessaria,
ma non sufficiente, per lo sviluppo economico e la competitività di un
sistema ed è un fattore importante nel determinare sia la localizzazione
territoriale dell'attività economica sia i tipi di attività o settori che si
svilupperanno.
La competitività di un'economia dipende, come notato in precedenza,
non solo dal suo capitale fisico, ma anche dalla conoscenza che
possiedono i suoi imprenditori e lavoratori. Efficaci sistemi d'istruzione
e formazione sono perciò importanti per aumentare la produttività e
favorire la crescita economica.
In Europa, per esempio, esistono
tuttavia differenze assai marcate nell'istruzione e nella formazione.
L'istruzione e la formazione continua sono essenziali sia per le
prospettive
occupazionali
degli
individui
sia
per
mantenere
la
competitività di un'economia moderna.
Al giorno d'oggi, è ampiamente accettato che l'abilità delle economie di
sostenere la competizione e adattarsi al cambiamento tecnico è collegata
alla loro capacità di innovazione. Questo, ovviamente, non è un fatto
nuovo, ma la crescente importanza della conoscenza, in confronto alle
risorse naturali, al capitale fisico e all'offerta di manodopera, nel
determinare i risultati economici colloca la tecnologia e l'innovazione tra
le priorità dello sviluppo.
La
comprensione
del
processo
attraverso
cui
la
tecnologia
e
l'innovazione incidono sullo sviluppo si è evoluta nel tempo. Anziché
considerare l'innovazione come un processo lineare dalla ricerca di base
al successo commerciale, è emerso un modello più interattivo, che
riconosce l'importanza dell'ambiente in cui le aziende, e in particolare le
PMI, operano.
In effetti, essendo prive della struttura funzionale
articolata delle grandi aziende, le PMI devono affidarsi maggiormente a
45
capacità esterne alla società.
In questo ambito, l’innovazione non
dipende più unicamente dal modo in cui operano le imprese, le
università, i centri di ricerca e i legislatori, ma, in misura crescente, da
come i vari soggetti lavorano insieme.
In particolare, pare indispensabile l’aumento della capacità delle
aziende di assorbire nuove tecnologie e know how sviluppati altrove; la
capacità delle forze di lavoro di utilizzare questa tecnologia e di
adattarsi alle nuove prassi; lo spirito imprenditoriale per ricercare
nuove opportunità di mercato; la disponibilità di capitale di rischio per
l'innovazione.
La Gestione della Conoscenza
Gestire la conoscenza significa saper gestire, la propria conoscenza
interna e saperla distribuire/condividere con l'esterno allo scopo di
stimolare la creatività per crearne di nuova che a catena porta
all'innovazione e, quindi, alla crescita.
Per evitare che si attui un
radicale cambiamento (sconsigliato perché solitamente non risulta mai
veramente efficace, come abbiamo visto nel precedente paragrafo) è
raccomandabile considerare da subito il Knowledge Management come
una funzione di sviluppo e gestione delle risorse relative, inizialmente,
alle conoscenze tangibili (attività di ricerca e sviluppo, brevetti, database
dei clienti, dei fornitori e dei concorrenti) e, successivamente, alle
conoscenze intangibili (skills, esperienze, competenze delle persone
inserite nell'organizzazione).
Per rendere la conoscenza una risorsa chiave all'interno della catena del
valore è necessario che questa sia formalizzata, distribuita e applicata.
È stato ormai appurato che la rete globale computerizzata è un forte
46
catalizzatore per la distribuzione della conoscenza. Con il supporto di
tale rete (Internet) le organizzazioni di nuova e vecchia generazione
dovrebbero costruire dei "magazzini" della conoscenza strutturati in
modo tale da poter organizzare e gestire:
-
Dati relazionali.
- Modelli: creando una struttura onnicomprensiva di tutti gli affari,
avvenimenti aziendali.
- Avvenimenti: ricavando conoscenza dall'esperienza dei singoli, da
eventi e dalla risoluzione di singoli problemi.
- Routine: cercando di immagazzinare attraverso conoscenza compilata
quell'insieme di abitudini e consuetudini che persone esperte spesso
usano per risolvere problemi complessi.
Un compito che appare non facile, è determinare la tecnologia corretta
per immagazzinare e gestire la conoscenza, persuadere il personale a
contribuire allo sviluppo del recipiente e creare una struttura adeguata
per trattenere la conoscenza:
Quella che si può definire come la regola primaria del Knowledge
Management, specifica che un'organizzazione deve saper organizzare,
distribuire e creare conoscenza.
La funzione del Knowledge Management è quella di far collaborare su
base paritaria la tecnologia con la cultura e i processi aziendali,
utilizzando la prima come veicolo per gestire e per far giungere le
informazioni e le conoscenze dell'intera azienda ai singoli lavoratori.
Questo patrimonio include i database, i documenti, le procedure
(conoscenza
esplicita)
ma
anche
le
competenze
e
l'esperienza
(conoscenza tacita) presente nella testa di ciascun lavoratore.
47
Le organizzazioni più sensibili alle sfide poste dalla competizione globale
hanno da tempo riconosciuto la valenza strategica della conoscenza e
quotidianamente si stanno impegnando per individuare, incapsulare,
mappare, distribuire e sfruttare questa risorsa, tipicamente umana,
trasferendola dalle persone alle strutture organizzative per utilizzarla
come leva d'azione che permetta a queste di acquisire dei vantaggi
competitivi.
Il fenomeno Globalizzazione sta delineando un mondo di informazione
concentrata, dove la conoscenza vale come se non di più delle macchine
e dei mezzi di investimento, in cui la cultura e la comunicazione, la
fiducia e le relazioni risultano essere voci importanti delle politiche e
delle strategie d'impresa.
In quest'ottica, non solo cresce la quantità di informazione/conoscenza
prodotta ma anche la domanda di sistemi in grado di gestirla
adeguatamente.
Un'organizzazione può facilmente far circolare la conoscenza al suo
interno attraverso il semplice utilizzo di una piattaforma di ICT
(Information-Communication-Technology) orientata alla gestione per
processi.
Per rendere la condivisione della conoscenza un'azione
volontaria è necessario creare i presupposti giusti, infondendo ai singoli
una cultura organizzativa che renda spontanea la diffusione del proprio
know-how.
Il Knowledge Management richiede acquisizione, creazione, circolazione,
memorizzazione e diffusione della conoscenza.
Un programma di
Knowledge Management necessita quindi di:
- Un piano graduale che sia insieme specifico e generale.
48
- Un’infrastruttura tecnologica.
- Un forte coinvolgimento delle persone.
- Una sponsorship decisa e visibile del top management.
Come abbiamo potuto vedere, la conoscenza è stata al centro degli
interessi analitici sin dall’inizio della civiltà10 ed è tuttora un concetto
difficile da definire in maniera sintetica. Aristotele la distinse in:
- Epistèmè: conoscenza universale e teorica;
- Technè: conoscenza strumentale, relativa a contesti specifici e pratici;
- Phronesis: conoscenza normativa, basata sull’esperienza, relativa a
contesti specifici, diffusa e condivisa.
Il metodo utilizzato da Aristotele, di classificare la conoscenza in base ai
suoi diversi elementi, è tuttora valido e di grande aiuto, per
comprendere le interdipendenze che esistono realmente tra conoscenza,
ricerca scientifica e sistemi tecnologici, metodi formativi ed esperienza
operativa professionalizzante.
Nel 1994 B. Å. Lundvall e B. Johnson ripresero la classificazione
classica della conoscenza attualizzandola. Suddivisero la conoscenza in
quattro categorie:
- Know what Questo elemento della conoscenza riguarda il possesso
delle informazioni ovvero la conoscenza dei “fatti”; è informazione. Può
essere trasmessa con i dati e disseminata con l’ausilio delle banche dei
dati.
10
Centre for Educational Research and Innovation, 2000, p. 15
49
- Know why Questo elemento della conoscenza riguarda i principi e le
leggi che governano la natura, la mente umana e la società. È la
conoscenza teorica che è fattore molto importante per lo sviluppo
tecnologico in certe aree del sapere scientifico. L’accesso a questa
tipologia della conoscenza permette di procedere con minori difficoltà
nei percorsi di innovazione produttiva e di ridurre la frequenza degli
errori di procedura.
- Know how Questo elemento della conoscenza riguarda le capacità
professionali ovvero la capacità di fare qualcosa.
Si riferisce alle
competenze11 dei lavoratori ed è una conoscenza essenziale nei processi
produttivi. Le imprese valutano la forza lavoro in base alle competenze,
tenendo conto delle difficoltà che possono sorgere nella loro sostituzione
e stimando il valore aggiunto che portano al processo produttivo. “La
forza lavoro è, pertanto, distinta nel modo seguente:
- facile da sostituire e a basso valore aggiunto. È la manodopera non
specializzata e semi-specializzata. Le imprese possono avere bisogno di
queste persone, magari anche in gran numero, ma la loro competitività
non dipende da queste competenze. Un individuo vale quanto un altro.
Il tempo della formazione è generalmente breve.
Hanno capacità
professionali facilmente reperibili nei mercati del lavoro locali.
- difficile da sostituire e a basso valore aggiunto. Sono le persone che
hanno appreso mansioni complicate ma non decisive ed essenziali per
11
Il concetto di competenza si è sviluppato per meglio rappresentare le capacità produttive accumulate
dagli individui. La competenza è data dalla formazione esplicita acquisita (formazione iniziale e
continua) e dalla formazione ottenuta sul posto di lavoro (informale o parzialmente formalizzata,
certificata o non certificata) e dall’apprendimento sociale. La nozione di competenza vuole migliorare la
definizione di capitale umano degli individui, tenendo conto del suo impiego nei posti di lavoro o in
posizioni particolari e della sua efficacia nell’attività produttiva (J. Planas, J. F. Giret, G. Sala, J. Vincens,
2000, p. 16).
50
caratterizzare un’impresa. È manodopera difficile da sostituire che
svolge mansioni importanti, ma non decisive, nella catena del valore;
- facile da sostituire e ad alto valore aggiunto. È manodopera che svolge
mansioni rilevanti per determinare la customer satisfaction, tuttavia
sono facilmente sostituibili come persone. Le loro abilità professionali
producono un “effetto leva” per la competitività dell’impresa;
- difficili da sostituire e ad alto valore aggiunto. Sono il “capitale umano”
di un’impresa perché il loro talento e la loro esperienza portano
l’impresa a produrre beni e servizi particolari e unici. I clienti si
rivolgono a tale impresa per questo motivo. Questi lavoratori hanno
“competenze strategiche” che rientrano nel patrimonio dell’impresa. La
“ricchezza”dell’impresa è data da questi lavoratori, mentre gli altri
rientrano tra i costi, necessari da sostenere, per realizzare la produzione
dei beni e dei servizi. Le persone difficili da sostituire e ad alto valore
aggiunto sono i cosiddetti lavoratori della conoscenza (knowledge
workers)”12.
- Know who. Questo elemento della conoscenza sta diventando sempre
più rilevante, perché richiede la capacità di reperire informazioni su chi
ha le informazioni e su chi sa cosa fare per trovare la soluzione a nuovi
problemi e ciò implica un’abilità relazionale di cooperazione e di
comunicazione con soggetti diversi e con esperti di aree differenti.
Le
quattro
categorie
citate
della
conoscenza
dimostrano
che
l’informazione è uno degli elementi, ma non si identifica con essa. La
conoscenza è qualche cosa di più dell’informazione.
La conoscenza
differisce dall’informazione perché è in grado di produrre nuova
conoscenza e nuova informazione.
12
M. Porter :“La catena del valore” 1985.
51
È capacità di apprendere ed è
“capacità cognitiva” mentre l’informazione è invece un insieme di dati
strutturati e resi formali che non possono creare nuova informazione.
Se la conoscenza è una capacità intellettuale e interattiva, ne deriva che
la riproduzione della conoscenza e quella dell’informazione seguono
processi completamente diversi13.
Nel primo caso, la riproduzione
avviene con la pratica, con l’apprendimento e con il coinvolgimento
intellettuale ed emotivo mentre nel secondo caso avviene con una
semplice duplicazione.
La conoscenza e l’apprendimento sono quindi in grado di produrre
nuova
conoscenza
mentre
ciò
non
avviene
con
l’informazione.
L’innovazione è “nuova creazione” che ha valore economico perché è
utilizzata da un’organizzazione produttiva; è l’output della conoscenza e
dell’apprendimento.
Un processo innovativo incorpora quindi forme differenti di conoscenza
e di apprendimento.
Gli economisti, secondo la nuova teoria della
crescita – come abbiamo visto nei precedenti paragrafi – considerano la
conoscenza una variabile di stock.
variabile di flusso14.
L’apprendimento è invece una
Il processo di accumulazione della conoscenza
avviene pertanto con l’apprendimento.
L’apprendimento è quindi il
risultato della disseminazione della conoscenza accumulata nel tempo e
la produzione di “nuova conoscenza”. L’apprendimento è un processo
d’interiorizzazione e di sviluppo di capacità di utilizzo dei saperi
codificati; è il riconoscimento e l’acquisizione dei saperi taciti; è il
superamento della distinzione tra la conoscenza e l’esperienza.
L’output dell’apprendimento sono le competenze professionali sia dei
singoli individui sia delle organizzazioni in generale.
13
14
D. Foray, 2000, p. 9
OECD, 2001, p. 13
52
L’apprendimento individuale si trasforma quindi in competenza solo se
vi è la capacità e la possibilità di utilizzarlo, solo se il suo fine è
sinergico, solo se la conoscenza delle reciproche utilità consente un
miglioramento del processo produttivo, solo se genera un vantaggio
effettivo all’impresa15.
Nella teoria economica vi sono contributi che spiegano il legame
esistente tra l’apprendimento individuale e il processo di formazione
delle competenze professionali. Un apporto rilevante è quello del
“learning by doing” di Arrow.16
La formazione è un modo di lavorare in cui la produzione di valore non
avviene tramite l’applicazione di sapere appreso in precedenza, che ci si
limita a replicare e a usare, ma richiede una rielaborazione attiva, una
trasformazione generativa di quanto un individuo sa. M. Costa sostiene
che “la formazione continua è, insomma, un modo di lavorare in cui il
valore viene prodotto più dall’esplorazione che dalla routine, più dalla
generazione di nuove conoscenze metodologiche che dall’ottimizzazione
di quelle già note e collaudate”17. In altri termini, si tratta di gestire un
processo
d’apprendimento
organizzativo
ovvero
una
learning
organization che genera conoscenza, intesa come action knowledge.
Le competenze professionali dei lavoratori, inserite in un’organizzazione
intelligente che permette di agire per creare nuova conoscenza,
valorizzano i diversi elementi del capitale intellettuale di un’impresa. La
Fig.13 evidenza la composizione del capitale intellettuale delle imprese
(prima colonna), la conoscenza accumulata nel tempo (seconda colonna)
ed i possibili processi d’apprendimento e di
conoscenza (terza colonna).
15
U. Cappucci, 2000, http://www.dise.unisa.it/AIEL/Messina/livraghi.pdf
K.J. Arrow, 1962
17
M. Costa, 2002, p. 56
16
53
creazione di nuova
In sintesi, la creazione di nuova conoscenza dipende dalla capacità di
valorizzare la conoscenza esplicita e tacita degli individui e di generare
una struttura organizzativa che favorisce la capacità relazionale e la
cooperazione, all’interno e all’esterno, dell’impresa.
Figura 13
Capitale intellettuale, apprendimento e creazione di nuova conoscenza.
54
L’importanza del capitale intellettuale
Negli ultimi anni l’attenzione per le tematiche legate al ruolo delle
risorse intangibili con riferimento all’economia sia aziendale che
macroeconomica appare in vertiginosa crescita.
Una
numerosa
serie
di
fattori
ha
contribuito
alla
progressiva
focalizzazione dell’attenzione collettiva sugli “Intangibles”, quali:
- L’emergere e l’affermarsi della cosiddetta Economia della conoscenza.
- L’attenzione crescente per driver della creazione di valore d’impresa.
- La sempre maggiore rilevanza del capitale umano, specie se di elevata
specializzazione.
- La diffusa accettazione a questo punto di innovative tecniche di
“Knowledge Management”.
È innegabile ormai che l’economia mondiale sta attraversando un
processo di trasformazione per effetto del quale le nuove tipologie di
azienda presentano dei rapporti di contabilità finanziaria che non
concordano più coi reali valori di mercato.
Queste nuove organizzazioni, costruite sulla conoscenza, sono costituite
nella loro essenza da beni intangibili, che rappresentano il punto di
partenza della grande sfida per stabilire teorie in grado di sostenere
modelli di misurazione ed evidenziazione dei valori di mercato di
un’impresa.
Le attività immateriali divengono sempre più fattori decisivi per la
differenziazione di società dell’economia moderna. Nel 1982, secondo
uno studio condotto dal Bookings Institute, “i valori contabili delle
attività materiali rappresentavano il 62% del valore di mercato.
55
Nel
1995 tale rapporto era sceso al 38%. Una ricerca condotta nel gennaio
2000 dal Prof. Baruch Levy della New York University, ipotizzava una
contrazione di tale percentuale al 10 – 15%. Alla fine del 1999, il valore
contabile di AOL rappresentava solo il 3% della capitalizzazione di
mercato, mentre quello di Coca Cola si attestava al 7,9%”.18
Beni Intangibili
Anche nel mondo aziendale si considera ormai come necessario il valore
delle imprese che è composto da capitale umano come fonte di
conoscenza, esperienza ed innovazione. Si tratta del valore della qualità
intrinseca con cui una persona o un gruppo di persone generano un
bene e/o servizio, o meglio la valorizzazione della capacità umana di
trasformare il sapere in “merce di scambio”.
In questo modo il vantaggio competitivo, basato storicamente su fattori
materiali (scorte, costo di produzione, ecc.), passa ad essere definito
anche
sulla
base
della
valutazione
ed
identificazione
dei
beni
immateriali (marchi e brevetti – innovazione, soddisfazione del cliente,
risorse umane, ecc.).
Sono sempre più numerosi i ricercatori che riconoscono il valore dei
beni immateriali come il punto di forza di ogni organizzazione che voglia
mantenersi competitiva sul mercato.
Il bene intangibile di maggior interesse sia da un punto di vista
manageriale sia dal lato dei metodi di misurazione e valorizzazione è
senza alcun dubbio il Capitale Intellettuale.
Nella letteratura il Capitale Intellettuale viene definito come “la somma
della conoscenza di tutte le risorse di un’organizzazione, la quale può
18
William Spinetti, “Capitale Umano e formazione” Roma, 2001, http://www.spinetti.it/formazione
56
disporre di un vantaggio competitivo rappresentato dalla materia
intellettuale che si compone di informazioni, competenze ed esperienze
utilizzate per generare ricchezza”.19
Il Capitale Intellettuale ha una forte influenza sull’origine degli altri beni
intangibili come il Goodwill (fondo di commercio di un’azienda) e i
Marchi (la capacità innovativa di un’impresa), che creano valore per il
cliente
e
di
dell’organizzazione.
conseguenza
elevano
il
valore
patrimoniale
Generalmente si è soliti classificare il Capitale
Intellettuale in tre raggruppamenti secondo il modello di Hubert SanOnge:
- Capitale Umano: non si può bene definire cosa sia realmente il
Capitale Umano senza sviluppare un esteso discorso socio-economico e
psicologico, ma senz’altro si può dire che esso rappresenta lo strumento
creativo del Bene/Servizio Organizzativo.
Spesso il Capitale Umano
viene definito come la fonte dell’innovazione, ossia la fonte che alimenta
ogni funzione organizzativa.
Il capitale umano è riconosciuto come uno di più grandi beni
immateriali in un'organizzazione.
È il capitale che in una realtà
organizzativa fornisce i beni o i servizi che i clienti richiedono o che
riesce a portare le soluzioni ai loro problemi.
Il capitale umano include la conoscenza, la competenza, l'esperienza, le
abilità ed i talenti collettivi della gente all'interno di un'organizzazione,
ma anche la creatività a la capacità d’innovazione.
- Capitale Strutturale: si tratta delle tecnologie, delle invenzioni, delle
pubblicazioni e dei processi, che possono essere brevettati, avere i loro
19
L.J. Cavalli: “La convergenza del Knowledge Management e dell’e-Learning”, Roma 2000.
57
diritti d’autore registrati o essere protetti da leggi commerciali.
Si
tratta, dunque, di un gruppo di conoscenze appartenenti all’impresa
nella sua totalità, riproducibile e condivisibile attraverso diritti legali di
proprietà.
Il capitale strutturale è l'infrastruttura di appoggio per il capitale
umano. Si riferisce spesso al capitale strutturale come il capitale che
rimane in un'organizzazione quando gli impiegati vanno a casa alla
sera. Esso consiste nelle risorse e nell'infrastruttura di sostegno di un
sistema economico, come per esempio i processi, le invenzioni, le
pubblicazioni e i copyrights.
Diverso dal capitale umano, il capitale
strutturale è proprietà dell'azienda e può essere commerciato, riprodotto
e ripartito.
- Capitale del Cliente: gli indicatori del capitale del cliente sono
rappresentati dagli indici di ritenuta, redditività e soddisfazione del
cliente, ecc.
Il capitale relazionale contiene non soltanto i rapporti con i clienti ma
anche i rapporti dell'organizzazione con la relativa rete dei fornitori, così
come la relativa rete dei soci e degli stakeholders. Il valore di tali beni
soprattutto
è
influenzato
dall'immagine
o
dalla
reputazione
dell’organizzazione.
Ciò che appare come una difficile sfida è la valutazione e la misurazione
del Capitale Intellettuale di un’organizzazione che potendo offrire un
forte peso sul valore complessivo dell’impresa necessita sempre di più
un accurata quantificazione.
Attualmente esistono almeno 6
metodologie d’analisi del Capitale Intellettuale che vengono utilizzate:
- Differenza tra il Valore di Mercato e il Valore Contabile;
58
- “Q” di Tobin;
- Navigatore del Capitale Intellettuale;
- Modello di Edvinsson & Malone (Modello Skandia);
- Modello di Sveiby;
- Modello delle BSC (Balanced ScoreCards).
Non potendo entrare in questa sede in dettaglio per ogni tipo di
metodologia di valutazione, ci limitiamo riconoscere che il sistema più
frequentemente utilizzato è quello delle BSC (Balanced ScoreCards), in
quanto “forniscono una cornice e una metodologia per fare emergere
fattori di incremento del valore che consentono di prevedere, con una
certa precisione, quali provvedimenti adottare per migliorare le attività
intangibili che contribuiranno effettivamente ad un aumento del valore
societario e, in ultima analisi, del prezzo delle azione”20.
Tenendo presenti le teorie espresse nei precedenti paragrafi, possiamo
dire che nell’economia della conoscenza la creazione di valore avviene
per il tramite del capitale intellettuale. Quest’ultimo è composto da:
- Competenze (skills)
- Conoscenze
- Processi
Per meglio comprendere l’integrazione tra conoscenza (Knowledge) e
processo di apprendimento che porta al processo virtuoso di creazione
di conoscenza dalla conoscenza stessa, risulta molto utile ricorrere ad
20
J. Marini: “Balanced ScoreCards” Tesi di Laurea Facoltà di Economia di Torino, 2001.
59
alcune definizioni che consentono di evidenziare gli ambiti comuni di
intervento del knowledge management e dell’apprendimento.21
La conoscenza o knowledge è:
- L’utilizzo efficiente dei dati e delle informazioni insieme alle potenziali
capacità e competenze, idee, intuizioni, esperienze, commenti e
motivazioni delle persone
- Il processo di comprensione dei dati e delle informazioni ed il processo
di trasformazione della
conoscenza tacita in conoscenza esplicita
riutilizzabile
- La consapevolezza, la coscienza acquisita nel tempo e nello spazio che
deriva
da
un
processo
continuo
di
apprendimento
basato
sull’acquisizione di nozioni sul piano logico e dell’esperienza
L’apprendimento o learning è:
- L’acquisizione di conoscenza e di comprensione attraverso l’esperienza
e lo studio
- L’atto, il processo o l’esperienza di acquisizione di conoscenza e
competenze
- L’acquisizione di conoscenze e/o esperienze pregresse attraverso (le
learning experiences):
Formazione (training)
Educazione
Sviluppo
Il processo di creazione e di utilizzo della conoscenza (Fig.14) può essere
rappresentato, quindi, come un processo dinamico di apprendimento
21
D. Foray: “L’économie de la Connaissance”, Pari, La Découverte, 2000.
60
della
conoscenza
esplicita
e
di
cattura
e
formalizzazione
della
conoscenza tacita in conoscenza esplicita. Un efficiente gestione della
conoscenza ovvero un efficiente sistema di knowledge management,
infatti,
si
realizza
apprendimento.
anche
attraverso
un
efficiente
processo
di
Si potrebbe affermare, in altre parole, che non si
conosce se non si apprende e non si apprende se non si conosce.
Figura 14
Il Processo di creazione ed utilizzo della conoscenza.
Si evidenzia molto bene come esistono importanti elementi in comune
nel
processo
di
gestione
della
conoscenza
e
nel
processo
di
apprendimento. In particolare i contenuti gestiti attraverso i sistemi di
knowledge management e i contenuti appresi attraverso l’utilizzo dei
sistemi di apprendimento possono essere gli stessi.
61
“Knowledge objects” e “learning objects”
I Knowledge Objects sono elementi di informazione, digitale e non, che
vengono utilizzati come elementi costitutivi per un sistema di knowledge
management. Alcuni esempi sono rappresentati da: azioni, dati di fatto,
concetti, regole, procedure, processi ecc.
I Learning Objects sono entità, digitale e non, che possono essere
reutilizzati
o
consultati
durante
un
supportato dalla tecnologia (e-learning).
processo
di
apprendimento
In altre parole un learning
object è una entità minima di apprendimento con la caratteristica di
essere autonoma e quindi riutilizzabile in diversi percorsi formativi.
Un knowledge object può rapprestare un elemento di un learning object;
un knowledge object può diventare un learning object attraverso la
sperimentazione ossia l’interazione e l’utilizzo nel workflow quotidiano.
L’apprendimento, infatti, è il risultato dell’unione di elementi informativi
(knowledge objects) con l’interazione degli individui nell’ambito del
processo organizzativo.
Figura 15
Processo di Learning
62
L’obiettivo comune del knowledge management e dell’e-learning dunque
è quello di rendere disponibile il capitale intellettuale per i processi
produttivi e di accrescerlo alimentandolo con la crescita medesima del
sistema economico.
Posto che il knowledge management e l’e-learning sono volti alla
realizzazione di questi obiettivi, ciò significa interveniere su:
- Competenze (skills)
- Conoscenze (contenuti)
- Processi (interazione)
ovvero il capitale intellettuale dell’azienda.
Il terreno comune dell’e-
learning e del knowledge management non è, quindi, rappresentato
solamente dai contenuti conoscitivi che possono divenire contenuti
formativi ma anche da tutta una serie di altri elementi, quali le
competenze, le capacità e le esperienze delle persone, le modalità di
interazione nell’ambito del processo produttivo, ossia da tutti quegli
elementi che concorrono a formare il capitale intellettuale di una
organizzazione.
La convergenza del knowledge management e dell’e-learning consente
effettivamente la gestione e lo sviluppo del capitale intellettuale di
un’organizzazione
63
Figura 16
Gestione del capitale intellettuale.
L’importanza dell’ICT
Il
settore
dell’Informazione
e
Comunicazione,
cioè
il
mercato
complessivo dei servizi e delle produzioni delle ICT - Tecnologie
dell'Informazione e della Comunicazione -, viene considerato come il
driver dello sviluppo dei primi anni del terzo millennio.
Si può stimare che il suo fatturato globale abbia già superato i 1500
miliardi di dollari. Il fatturato delle prime 100 società che operano in
questo settore ha superato i 200 miliardi di dollari.
rappresenta il 7% del PIL, in Italia il 3.9%.
Negli USA
Il tasso medio annuo di
crescita in Europa delle ICT è pari alI' 8.1%, dimostrando l’elevata
flessibilità ed importanza di questo settore nell’economia globale.
Il settore dell’ICT
Il ruolo del settore della Comunicazione s'intreccia con lo sviluppo
dell'economia digitale, e presenta diversi aspetti: quello più "materiale"
dei
fornitori
d'apparecchiature,
delle
reti
e
dei
servizi
di
telecomunicazione e informatici, ma anche quello dei fornitori dei
“contenuti”.
Proprio quest’ultimo aspetto del settore dell’ICT ha
determinato negli ultimi anni il forte sviluppo economico e l’integrazione
64
con i concetti di Economia della conoscenza e di Knowledge.
Su
quest'ultimo aspetto si decidono non solo gli equilibri ed i protagonisti
de1l’ICT, ma anche i contenuti che passeranno in quella parte più
strumentale che è rappresentata dalle reti, e cioè i film, gli audiovisivi,
la musica, l'informazione, i dati e le immagini.
Il settore dell’ICT, così come definito dall’OECD nel 1998, “include un
insieme d’industrie manifatturiere e di servizi, la cui attività consiste
nella raccolta, trasmissione e visualizzazione di dati e informazioni per
via elettronica”22.
“Il termine new economy viene frequentemente utilizzato per indicare un
modello di crescita non inflattivo basato su investimenti ingenti in
nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) e sulla
riconfigurazione dell’economia conseguente all’emergere di queste
tecnologie”23.
Spesso il concetto di new economy viene associato
all’avvento di Internet e del commercio elettronico, tuttavia gli effetti in
termini di commercio e di investimenti riguardano non solo i settori
appartenenti al comparto ICT, ma anche i settori manifatturieri e di
servizi che utilizzano tali tecnologie. In questo senso, il ruolo dell’ICT
può essere valutato in modo completo, analizzando le ricadute di tale
fenomeno sull’economia nel suo complesso.
La new economy
rappresenta un processo di cambiamento strutturale, in quanto la
diffusione delle ICT è destinata ad avere un effetto di lungo periodo sul
comportamento economico di produttori e consumatori in tutti i settori
dell’economia, in termini di produzione, commercio, investimenti e
occupazione.
22
23
OECD 2002.
OECD, Annual Report 2001b.
65
Con l’avvento della new economy si è assistito ad una progressiva
perdita d’importanza dei concetti di geografia, distanza e tempo. I costi
di transazione per i consumatori e per le imprese si sono rapidamente
ridotti, a causa dell’eliminazione di alcune fasi dell’interazione fra
acquirenti e venditori. In questo contesto, l’impatto più significativo si è
avuto con lo sviluppo del commercio elettronico, che ha consentito una
parziale riduzione delle barriere all’entrata nei diversi mercati. Questo
fenomeno ha importanti implicazioni sia a livello d’impresa, poiché le
piccole imprese e le multinazionali possono competere nel mercato
globale, sia a livello di paese, in quanto i paesi più arretrati hanno
l’opportunità di superare alcuni ostacoli, in termini di infrastrutture di
trasporto e comunicazione e di risorse, che hanno da sempre limitato il
loro potenziale di crescita nel passato.
In secondo luogo, all’interno della nuova configurazione dell’economia,
le industrie di servizi, soprattutto il settore della finanza e le
telecomunicazioni, ma anche la logistica, l’educazione, l’energia e i
trasporti hanno sviluppato un ruolo sempre più rilevante, in quanto
contribuiscono
a
creare
all’economia mondiale.
un’infrastruttura
globale
di
supporto
Quest’infrastruttura agevola il progresso e la
ristrutturazione delle industrie esistenti e lo sviluppo di nuovi settori.
Come abbiamo potuto vedere nei precedenti paragrafi, questa nuova
economia è knowledge-based, nel senso che le informazioni e la
conoscenza
costituiscono
le
risorse
fondamentali
per
acquisire
competitività: rispetto ai tradizionali fattori di produzione - lavoro e
capitale - l’informazione e la conoscenza sono meno vincolate al
contesto per quanto riguarda le loro capacità di crescita.
L’economia moderna basata sulla conoscenza non sostituisce le attività
economiche già esistenti, ma cambia progressivamente le modalità e la
66
dimensione spazio-temporali attraverso cui i beni e i servizi sono
prodotti e commercializzati all’interno di uno stesso paese e fra paesi
diversi.
Le applicazioni ICT influenzano in modo significativo la
struttura dei costi e la competitività relativa di singole imprese e di
interi settori.
Inoltre il mercato elettronico consente un accesso più
semplice e più diffuso a tecnologie, informazioni e know-how. Questa
trasformazione si riflette nella possibilità di recuperare risorse e
competenze da ogni parte del mondo, nelle modalità d’integrazione della
produzione in orizzonti spazio-temporali differenti, nel modo in cui
l’informazione sulla qualità di beni e servizi, sui costi (e sui prezzi) e sui
mercati può essere condivisa istantaneamente a livello globale.
Il settore ICT appare fra i settori a più elevata crescita in termini di
commercio negli ultimi dieci anni, con un tasso di crescita del 98.5%,
rispetto al 57.8% di tutta l’industria manifatturiera in generale.
Un’analisi dettagliata sulle tipologie di prodotti rivela che le tre categorie
che compongono il settore ICT – radio, television and communication
equipment; electrical machinery and apparatus; office accounting and
computing machinery - sono cresciute in modo sostanziale.24
Categoria industriale
ISIC
code
90-98
90-98
2423
145,5%
11,9%
AND
32
131,2%
11,0%
AND
31
100,9%
9,1%
PHARMACEUTICALS
RADIO,
TELEVISION
Crescita CAGR
COMMUNICATION EQUIPMENT
ELECTRICAL
MACHINERY
APPARATUS, NEC
24
OECD: Stan database: http://www.oecd.org/dataoecd/53/21/1831002.pdf
67
OFFICE,
ACCOUNTING
AND
30
85,2%
8,0%
RUBBER AND PLASTICS PRODUCTS
25
68,9%
6,8%
OTHER TRANSPORT EQUIPMENT
35
68,1%
6,7%
MEDICAL, PRECISION AND OPTICAL
33
66,2%
6,6%
AND
34
62,2%
6,2%
CHEMICAL
24
62,1%
6,2%
36
60,8%
6,1%
15-37
57,8%
5,9%
22
56,9%
5,8%
20
52,9%
5,5%
28
52,0%
5,4%
CHEMICALS, excluding pharmaceuticals 24ex2423 46,6%
4,9%
MACHINERY AND EQUIPMENT, N.E.C.
29
46,0%
4,8%
OTHER
26
41,5%
4,4%
FOOD PRODUCTS AND BEVERAGES
15
39,8%
4,3%
TEXTILES
17
37,0%
4,0%
LEATHER, LEATHER PRODUCTS AND
19
29,8%
3,3%
COMPUTING MACHINERY
INSTRUMENTS,
WATCHES
AND
CLOCKS
MOTOR
VEHICLES,
TRAILERS
SEMI-TRAILERS
CHEMICALS
AND
PRODUCTS
FURNITURE; MANUFACTURING, N.E.C.
TOTAL MANUFACTURING
PUBLISHING,
REPRODUCTION
PRINTING
OF
AND
RECORDED
MEDIA
WOOD AND PRODUCTS OF WOOD AND
CORK
FABRICATED
METAL
PRODUCTS,
except machinery and equipment
NON-METALLIC
MINERAL
PRODUCTS
68
FOOTWEAR
PAPER AND PAPER PRODUCTS
21
26,3%
3,0%
BASIC METALS
27
26,3%
3,0%
TOBACCO PRODUCTS
16
24,6%
2,8%
23
-10,5%
-1,4%
18
-64,1%
-12,0%
COKE,
REFINED
PETROLEUM
PRODUCTS AND NUCLEAR FUEL
WEARING APPAREL, DRESSING AND
DYEING OF FUR
Tabella 1
Crescita nelle esportazioni per settore industriale.
Il commercio relativo ai servizi legati al settore ICT è cresciuto ancora
più rapidamente: fra il 1992 e il 1998, si è passati da 11.6 miliardi di
dollari a 28.8 miliardi di dollari per i paesi dell’OECD, con un tasso di
crescita del 148%, rispetto a una crescita media del 32% negli altri
settori di servizi.
La quota del commercio ICT sul commercio totale
varia considerevolmente fra paesi: in alcuni - ad esempio Irlanda e
Corea del Sud - tale quota supera il 30%, mentre in altri essa rimane
inferiore al 10%. La quota media si attesta su un valore di 17%: ciò
suggerisce la presenza di differenze significative nelle quote del
commercio ICT sul commercio complessivo dei singoli paesi.
La
percentuale delle esportazioni di servizi legati all’ICT sul totale delle
esportazioni di servizi è invece ancora limitata, anche se crescente (dal
2.7% del 1992 al 4% del 1998).
Nonostante esista una forte relazione fra l’attività del settore ICT e la
velocità del progresso tecnologico, è opportuno sottolineare che
l’esistenza di un settore ICT avanzato non necessariamente rappresenta
69
una condizione sufficiente per l’avvio e la sostenibilità di un processo di
crescita
(anche
commerciale)
basato
sulle
nuove
tecnologie.
Innanzitutto, la presenza in un paese di imprese produttrici di hardware
non è così importante per gli utenti quanto la presenza di produttori di
software o di fornitori di servizi, i quali rappresentano una risorsa
fondamentale sia per le imprese, che necessitano di competenze e
consulenza per implementare cambiamenti organizzativi e tecnologici
legati all’ICT, sia per i consumatori, che richiedono formazione per
migliorare
il
loro
livello
di
alfabetizzazione
informatica.
Secondariamente, la produzione di queste tecnologie è fortemente
concentrata, a causa delle elevate barriere all’entrata e delle economie
di scala che caratterizzano i comparti hardware dell’ICT (soprattutto la
produzione di sistemi di telecomunicazioni e hardware informatico): ciò
significa
che
pochi
paesi
possono
beneficiare
di
un
vantaggio
competitivo in quest’area.
“A riprova del fatto che un settore ICT avanzato non necessariamente è
legato ad un’elevata diffusione delle nuove tecnologie, è interessante
notare che alcuni paesi, che sono caratterizzati da un alto tasso di
investimenti in ICT e da un diffuso utilizzo di tali tecnologie, hanno una
produzione di ICT non molto sviluppata. Al contrario, paesi con una
produzione di ICT sviluppata non sono fra quelli che hanno registrato la
crescita più alta negli anni ‘90. La produzione di ICT rappresenta il 3%
del valore aggiunto del settore manifatturiero in Irlanda e il 2% in
Finlandia, paesi in cui la produttività è cresciuta notevolmente (fra il 4%
e il 5%), ma Australia, Canada e Danimarca hanno registrato una
crescita rilevante nella produttività, pur avendo un settore ICT
nazionale di dimensioni relativamente ridotte, mentre il Giappone, che
70
può beneficiare di un elevato tasso di produzione nel settore ICT, ha
evidenziato una bassa crescita della produttività”25.
Da questi dati si può evincere che l’aspetto rilevante non è tanto il
commercio in prodotti ICT, ma piuttosto il commercio in beni e servizi
resi disponibili dalla diffusione di ICT all’interno dell’economia.
Le
esportazioni di ICT non rappresentano una condizione sufficiente per il
successo commerciale o per la crescita, mentre le importazioni di
prodotti ICT appaiono più importanti per le prospettive commerciali di
un paese. Gli effetti della diffusione di ICT sul commercio includono sia
guadagni di produttività - con le conseguenti ricadute sui prezzi e sui
volumi scambiati – sia facilitazioni nel commercio (ad esempio l’utilizzo
di mezzi di comunicazione e la semplificazione delle transazioni
commerciali).
“La Tabella 2 mostra che i paesi in cui la spesa in ICT è aumentata
fortemente, sono anche quelli che registrano una forte crescita nel
commercio.
Tuttavia, l’esempio della Grecia mostra che una spesa
elevata in ICT non garantisce un parallelo incremento nel commercio e
nelle esportazioni.
Inoltre, paesi come il Messico, il Canada e la
Spagna, in cui gli investimenti in ICT sono stati nel tempo relativamente
bassi, hanno registrato risultati commerciali eccellenti. In generale
quindi è possibile affermare che non esiste una relazione precisa fra la
posizione dei paesi in termini di spesa ICT e la performance
commerciale”26.
25
26
OECD: OECD 2001a, http://www.oecd.org/dataoecd/31/16/2732509.pdf
OECD: Fonte OECD 2001 sui dati ICT.
71
Paese
Crescita nella
Crescita nelle
Crescita nel
spesa ICT
esportazioni
commercio di
1992-1999
1993-1999
beni 1993-1999
Turchia
Alta
Alta
Media
Grecia
Alta
Bassa
Bassa
Portogallo
Alta
Media
Media
Polonia
Alta
Alta
Alta
Irlanda
Alta
Alta
Alta
Finlandia
Alta
Alta
Alta
Repubblica
Alta
Alta
Alta
Ungheria
Alta
Alta
Alta
Norvegia
Media
Media
Bassa
Danimarca
Media
Bassa
Bassa
Regno Unito
Media
Media
Media
Stati Uniti
Media
Media
Alta
Giappone
Media
Bassa
Bassa
Olanda
Media
Bassa
Bassa
Australia
Media
Bassa
Media
Nuova
Media
Bassa
Bassa
Messico
Bassa
Alta
Alta
Spagna
Bassa
Alta
Alta
Italia
Bassa
Bassa
Bassa
Austria
Bassa
Media
Media
Germania
Bassa
Media
Bassa
Francia
Bassa
Media
Bassa
Ceca
Zelanda
72
Belgio
Bassa
Media
Media
Canada
Bassa
Alta
Alta
Svizzera
Bassa
Bassa
Bassa
Svezia
Bassa
Media
Media
Tabella 2
Crescita della spesa e del commercio in ICT.
La relazione fra crescita nella spesa in ICT e la crescita nel commercio
può essere analizzata secondo due diverse prospettive: da un lato,
elevati investimenti in prodotti e servizi legati all’ICT potrebbero
condurre
a
migliori
risultati
commerciali;
dall’altro,
la
crescita
commerciale potrebbe aumentare la necessità di investimenti in ICT. I
vantaggi
competitivi
derivanti
dagli
investimenti
in
ICT
non
necessariamente si rendono visibili nel breve periodo, poichè “esiste un
ritardo
fra
lo
sviluppo
di
tecnologie,
la
loro
diffusione
e
la
manifestazione del loro impatto su altre attività produttive, causato da
fattori quali la mancanza di flessibilità del mercato del lavoro, la
necessità di investire in formazione ed educazione, l’esistenza di
barriere tariffarie e non tariffarie (ad esempio standard tecnologici) al
commercio”27.
Uno dei fattori principali che hanno contribuito a promuovere
l’innovazione tecnologica e l’incremento di produttività che ne deriva è
stata l’apertura dei mercati. La riduzione delle barriere tariffarie e la
liberalizzazione dei mercati dei capitali hanno aperto importanti
opportunità di commercio e di investimenti.
L’apertura dei mercati
27
Hubb Meijers: “Sources of Growth in the Knowledge Based Economy: The Role of R&D and ICT in
Europe and US” Maastricht, 2002
73
aumenta la dimensione dei mercati disponibili alle imprese che
innovano e ai consumatori, e allo stesso tempo facilita la diffusione
della conoscenza, delle tecnologie e delle nuove attività produttive.
“L’apertura dei mercati può inoltre contribuire a ridurre i costi,
attraverso un’ ulteriore liberalizzazione delle tariffe del commercio in
prodotti
ICT:
tale
politica
incoraggia
l’adozione
di
standard
internazionali che proteggono sia i consumatori, che beneficiano della
presenza di tecnologie compatibili, sia le imprese, che sviluppano nuovi
prodotti basati su piattaforme tecnologiche standardizzate e quindi
facilmente commerciabili”28.
Come possiamo vedere nella Tabella 3, il valore della spesa in ICT e del
commercio totale rispetto al PIL mostrano l’esistenza di una relazione
fra l’apertura dei mercati e l’investimento in nuove tecnologie29.
Paese
28
29
Spesa ICT su PIL –
Commercio su PIL –
1999
1999
Turchia
4,5%
36%
Grecia
4,5%
29%
Portogallo
5,3%
56%
Polonia
5,4%
47%
Irlanda
5,8%
125%
Finlandia
6,8%
57%
Ungheria
8,2%
110%
Norvegia
6,8%
52%
Danimarca
7,5%
53%
Regno Unito
7,9%
41%
OECD: OECD, 2001a http://www.oecd.org/dataoecd/31/16/2732509.pdf
OECD: Fonte OECD 2001 sui dati ICT
74
Stati Uniti
8%
19%
Giappone
8,1%
17%
Olanda
8,2%
86%
Australia
8,8%
30%
10,7%
48%
Messico
3,5%
58%
Spagna
4,3%
43%
Italia
4,8%
39%
Austria
5,7%
62%
Germania
6,4%
48%
Francia
6,8%
42%
Canada
8,7%
72%
Svizzera
8,8%
62%
Svezia
9,3%
63%
Nuova
Zelanda
Tabella 3
Tabella 3 Spesa in ICT e commercio sul PIL.
Valutando le precedenti tabelle, se ne può dunque dedurre che la
relazione fra le esportazioni a livello sia di impresa che di paese e
l’investimento e crescita in ICT evidenzi come quest’ultima contribuisca
a rimuovere le barriere spaziali e temporali al commercio.
“Con
l’avvento di Internet i confini rilevanti non sono più fra diversi paesi, ma
piuttosto fra gli individui che sono connessi alla rete e quelli che non lo
sono”30.
30
Meeting of the Committee for Scientific and Technological Policy (CSTP), 1999
75
“L’effetto sul commercio della diffusione di tecnologie che esibiscono
costi progressivamente più bassi è duplice. Da una lato, le imprese di
alcuni settori che in precedenza non partecipavano alla competizione
internazionale sono ora costrette a confrontarsi con i produttori
stranieri: di conseguenza il commercio internazionale di beni e servizi,
che prima dell’avvento della new economy era troppo costoso scambiare,
sta
diventando
diversificazione
più
relativamente
economico,
pronunciata
del
comportando
commercio.
D’altro
una
lato,
la
riduzione dei costi delle tecnologie sta creando una domanda che prima
non esisteva, sia perché era tecnicamente impossibile acquistare e
vendere alcuni beni e servizi (ad esempio i libri elettronici), sia perché la
diffusione di nuove tecnologie ha determinato l’insorgere di nuove
esigenze
(ad
esempio
programmi
di
formazione
in
tecnologie
informatiche)”31.
In questo contesto, si deve ricordare che le ICT hanno un ciclo di vita
molto breve, in quanto il progresso tecnico procede a ritmi incessanti,
generando continuamente nuove applicazioni e nuove piattaforme
tecnologiche. Questa caratteristica incoraggia le imprese a sfruttare il
loro prodotto più velocemente possibile e a competere in mercati di
ampie dimensioni, cercando di incrementare le loro esportazioni.
La crescente importanza dell’ICT nell’economia influenza la dimensione
e la natura del commercio, facilitando l’attività commerciale delle
piccole e medie imprese e dei paesi.
In linea di principio, l’economia della conoscenza e l’utilizzo sempre
maggiore di nuove tecnologie dovrebbero rafforzare l’integrazione
economica facilitando il commercio e creando nuove opportunità per
31
Hubb Meijers: “Sources of Growth in the Knowledge Based Economy: The Role of R&D and ICT in
Europe and US” Maastricht, 2002
76
paesi che erano precedentemente esclusi dal commercio internazionale.
D’altro canto però esiste il rischio di un “digital divide”32 fra diversi
paesi: senza le tecnologie e le infrastrutture necessarie, i paesi più
svantaggiati sono minacciati dalla possibile esclusione dai flussi di
commercio e di investimenti.
A tal proposito si può notare che, per i paesi emergenti, il commercio di
beni e servizi legati all’ICT appare essere più vantaggioso rispetto al
commercio di altri beni.
Come possiamo vedere nella Tabella 4,
un’economia basata maggiormente sullo sviluppo della conoscenza e
sull’utilizzo e scambio di informazioni e di tecnologia può costituire
un’opportunità per lo sviluppo economico dei paesi guidato dal
commercio33.
32
Il digital divide può essere definito come il gap fra individui, famiglie, imprese e aree geografiche a
diversi livelli socio-economici, con riferimento sia alle opportunità di accedere alle ICT, sia all’utilizzo di
Internet nell’ambito di diverse attività (OECD, 2001d). Questa definizione di digital divide riguarda
l’accessibilità e la disponibilità delle infrastrutture di comunicazione, delle tecnologie, delle applicazioni
e dei servizi. Più in generale, il digital divide può essere definito come il divario fra imprese e
consumatori che beneficiano dei vantaggi della società dell’informazione, e quelli che sono ancora in
attesa del manifestarsi di tali benefici. Molti piani governativi dei paesi sviluppati, così come molte
conferenze e piani di azione di diversi organismi internazionali, hanno dedicato molto tempo e stanziato
ingenti risorse al tema del digital divide, anche se, sorprendentemente, gli sforzi fatti per migliorare gli
strumenti e gli approcci per la misurazione di questo divario non sono stati così numerosi. La maggior
parte delle iniziative è stata, infatti, rivolta alla definizione degli obiettivi politici e degli aspetti
programmatici del digital gap, piuttosto che all’implementazione di progetti di ricerca per misurare e
stimare realmente quanto ampio sia il divario e quali strumenti siano più idonei alla sua valutazione. In
aggiunta, il tema del digital divide è sempre stato impostato in una contrapposizione fra paesi “sviluppati”
e paesi “in via di sviluppo”, spesso giungendo a rilevare divergenze rilevanti, senza però riuscire a
motivarle in chiave di diversa “velocità” di digitalizzazione (si veda per tutti Kenny, 2001). Viceversa,
tale tema assume maggiore rilevanza, sia da un punto di vista informativo, sia da un punto di vista di
implicazioni di policy, quando analizzato fra realtà economiche “simili”. Nell’affrontare un esame
retrospettivo degli studi sulla digitalizzazione, è possibile individuare almeno due linee di ricerca. Un
primo filone, ormai abbastanza corposo, si è focalizzato sui percorsi di diffusione delle diverse tecnologie
digitali a livello macro (sistemi-paese) e a livello micro (settori produttivi, consumatori, sistema
pubblico). Un secondo filone ha invece affrontato più specificatamente il tema dei “divari” di
digitalizzazione, cercando di quantificare e motivare le differenze nei pattern di sviluppo delle tecnologie
digitali. Per una rassegna di queste tematiche, si rimanda a Corrocher e Ordanini (2002)
33
OECD: Fonte OECD 2001 sui dati ICT.
77
Paesi
Stati
Quota delle
Ranking
Quota delle
esportazioni
esportazioni
mondiali
mondiali di ICT
Ranking
12.4
1
16.3
1
Giappone
7.5
3
11.9
2
Singapore
2.0
16
7.9
3
Taiwan
2.2
15
5.9
4
Malesia
1.5
20
5.8
5
Corea
2.6
14
5.6
6
Hong
3.1
11
--
7
Germania
9.6
2
4.8
8
Paesi
3.6
8
4.1
9
Cina
3.5
9
3.9
10
Francia
5.3
4
3.7
11
Messico
2.4
15
3.3
12
Filippine
0.7
31
3.0
13
Irlanda
1.3
21
2.9
14
Uniti
Kong
Bassi
Tabella 4
Classifica dei paesi in termini di esportazioni.
Da questa analisi è possibile evincere che esiste effettivamente un
“digital divide” fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, causato da
un divario in termini di infrastrutture tecnologiche e risorse umane, ma
anche che la presenza di questo divario non aggravi di per sé le
disuguaglianze già esistenti in termini di commercio. “Al contrario, vi
78
sono opportunità maggiori per i paesi in via di sviluppo nei settori legati
all’ICT piuttosto che in altre aree del commercio internazionale.
Nonostante alcuni paesi siano ancora esclusi dal commercio e la loro
esclusione sia resa ancora più visibile dal “digital divide”, il numero di
nazioni escluse è sceso costantemente grazie all’avvento delle nuove
tecnologie e all’emergere di nuove applicazioni commerciali”34.
Alla luce di tali considerazioni e, come spiegato in precedenza,
considerando la correlazione ormai più evidente tra intensità degli
investimenti ICT e livello di crescita e di competitività di un Sistema
Paese, possiamo schematizzare non tanto gli indicatori di uno sviluppo
del settore dell’ICT, quanto il suo impatto sulle possibilità di crescita e
sviluppo in un’economia che ne faccia uso (Fig.17).
Impatto sulla crescita
Diffusione
¾ Quota spesa IT sul PIL
¾ PIL
¾ PC pro capite
¾ Valore aggiunto
¾ PC per occupato
¾ Investimenti
¾ % PC nelle famiglie
¾ Occupazione
¾ Utenti Internet
¾ Produttività
¾ Acquirenti on-line
¾ Natalità delle imprese
Grado di competitività
Tassi di penetrazione
Figura 17
Evoluzione degli indicatori di “Digital Divide” tra Paesi.
34
Mansell e Wehn, 1998, http://www.apc.org/books/ictpolsa/index.html
79
L’importanza crescente dell’ICT nell’economia mondiale
Come abbiamo visto, “l’Information Technology” ha assunto nel tempo
un peso sempre più significativo sul contesto economico generale. Lo
sviluppo di tale fenomeno negli ultimi anni è stato veicolato da alcune
condizioni35:
- I progetti di adeguamento all’Euro e all’Anno 2000 hanno spinto le
aziende non solo a rinnovare tecnologie e architetture, ma anche ad
effettuare una generale revisione e riorganizzazione delle applicazioni e
dei processi.
- La crescita della domanda di applicazioni gestionali legate a modelli di
organizzativi ha portato l’Information Technology ad assumere sempre
più il ruolo di strumento a supporto della competitività e dell’efficienza
aziendale.
- Internet sta diventando sempre più pervasivo; il mercato veicolato da
Internet cresce a ritmi sostenuti.
- L’abbassamento della barriera d’entrata dei prezzi dei Personal
Computer ha contribuito a rendere le tecnologie delle commodities alla
portata di tutti, e non solo di un’utenza avanzata.
- Le tecnologie informatiche stanno diventando un canale privilegiato di
comunicazione nelle aziende.
Come possiamo vedere nella Figura 18, “la crescita del settore ICT non
solo è superiore, ma addirittura sembra non essere più vincolata a
quella
dell’economia:
gli
investimenti
in
Information
and
35
NetConsulting: “L'impatto dell'Information Technology sulla competitività e la crescita di un Sistema
Paese” Microsoft White Paper, 2001
80
Communication Technology non sono più legati a fattori congiunturali,
ma si sono con il tempo “scollati” da questi”36.
Dinamica del mercato IT e del PIL
Variazioni % su anno precedente
Incidenza % mercato IT
sul totale PIL
2,75%
3%
15%
3%
10,4%
2,04%
10,3% 10,5%
10,8%
10%
2%
1,87%
7,7%
6,3%
5%
4,3%
3,9%
2%
7,5%
4,2%
3,8%
1%
3,0%
4,3%
4,0%
3,5%
2,5% 2,7%
2,5%
1%
0%
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
0%
Mercato IT
PIL
1991
1995
2000
Figura 18
Dinamica del mercato mondiale dell’ICT e del PIL (1991-2000).
La crescita del mercato IT non è più quindi subordinata agli andamenti
congiunturali delle economie ma viene anzi ad assumere un ruolo
importante e crescente, che influenza le performance delle imprese
utilizzatrici attraverso una sempre più stretta penetrazione nelle loro
strategie di business.
L’analisi dell’andamento del mercato IT a livello internazionale nell’arco
di oltre un decennio (Fig.19) mostra da un lato quale sia stata la
36
Elaborazioni NetConsulting su dati Assinform ed International Monetary Found, “L'impatto
dell'Information Technology sulla competitività e la crescita di un Sistema Paese” Microsoft White Paper,
2001
81
dinamica della crescita per i diversi Paesi o aree geografiche; dall’altro,
anche, quali siano stati i motori di tale performance.
18,0%
Diffusione
Efficienza
E-business
16,0%
14,0%
Stati Uniti
12,0%
10,0%
Europa
8,0%
Italia
6,0%
4,0%
2,0%
0,0%
-2,0%
1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000
Stati Uniti
Europa
Italia
Figura 19
Tassi annui di crescita del mercato dell’informatica negli Stati Uniti, in Europa
ed in Italia (1987-2000) - Variazioni % su anno precedente.
Si possono, infatti, definire tra il periodo 1987 e 2000 tre sottoperiodi
corrispondenti ad altrettanti paradigmi di crescita:37
- Fase della diffusione delle tecnologie: fino al 1992 crescono quei
mercati a minore penetrazione, come l’Italia, che si trovavano a dover
colmare il gap che li dividevano dagli altri Paesi più avanzati. Sul
mercato incide in maniera significativa il processo di penetrazione dei
Personal Computer; non a caso, il mercato cresce a ritmi più lenti negli
37
NetConsulting: “L'impatto dell'Information Technology sulla competitività e la crescita di un Sistema
Paese” Microsoft White Paper, 2001
82
Stati Uniti, più evoluti in termini di penetrazione e diffusione delle
tecnologie, rispetto al mercato di Europa ed Italia che devono invece
accelerare per colmare il divario esistente.
- Fase dell’efficienza delle aziende: crescono i mercati a maggiore
presenza di imprese strategiche e che operano su mercati competitivi ed
aperti e che fanno un uso più strategico dell’Information Technology. E’
il periodo della razionalizzazione dei processi e delle tecnologie presenti
in azienda, dell’implementazione di soluzioni che impattano sul
business aziendale (quali ad esempio le soluzioni gestionali ERP); in
questa fase sono gli Stati Uniti a crescere più velocemente rispetto
all’Europa.
- Fase dell’e-business: questa fase presenta due motori di crescita, la
diffusione delle tecnologie e la loro strategicità. Si riducono i differenziali
di crescita tra i Paesi. Nel 1999, il mercato italiano registra una crescita
a due cifre, pari al 10.6% rispetto all’anno precedente, per la prima
volta dal 1990; non solo, nel 2000 per la prima volta la dinamica del
mercato italiano è superiore a quella europea e statunitense.
Basandoci sull’analisi effettuata riguardante il mercato dell’ICT e
l’importanza strategica nello sviluppo dell’economia, possiamo evincere
che i fattori chiave che nei prossimi cinque anni guideranno e
indirizzeranno l’adozione e o sviluppo di tecnologie informatiche e di
telecomunicazioni possono così sintetizzarsi:38
- la globalizzazione dell’economia;
38
Francesco Aiello: “Mercato Information & Communications Technology (ICT)”, 2001,
http://www.bve.com
83
- la ridefinizione dello scenario competitivo;
- i fenomeni legati alla deregulation e alla privatizzazione;
- i cambiamenti nelle strategie e nelle strutture aziendali indotti dal
nuovo contesto di mercato;
- la diffusione del modello di impresa virtuale;
- la diffusione di Internet.
L’importanza della Globalizzazione
La globalizzazione dei mercati e le tecnologie dell'informazione sono
state le due grandi forze che hanno interagito, alimentandosi a vicenda,
in questi due decenni. Lo sviluppo della società dell'informazione svolge
un
ruolo
trainante
nei
processi
di
globalizzazione,
grazie
alla
costituzione di reti digitali globali che collegano fra loro una moltitudine
di soggetti e sospingono la creazione di una nuova economia globale
basata sulle reti e su fattori immateriali.
Cambiano, come abbiamo
visto nel primo capitolo, i fattori che rendono competitive e dominanti le
economie. Il contenuto tecnologico, la qualità e il marchio del prodotto,
la proprietà intellettuale, la tempestività del servizio stanno prendendo
il sopravvento sui tradizionali fattori di costo.
Con l'era della globalizzazione l'economia delle materie prime è stata
soppiantata dall'economia della conoscenza.
La ricchezza non è più
creata solo dalle risorse naturali o dalla produzione, ma da come i
prodotti e i servizi sono progettati e immessi sul mercato.
I settori
industriali e dei servizi basati sulla conoscenza – l’economia della
conoscenza – sono caratterizzati da un alto input di ricerca e sviluppo,
da un impiego di manodopera con un livello di qualificazione superiore
84
alla media ed hanno superato i settori più tradizionali in termini di
crescita di valore e di occupazione, capitalizzazione e capacità di
esportazione.
Internazionalizzazione, Mondializzazione e Globalizzazione
Prima
di
approfondire
il
concetto
di
globalizzazione
e
le
sue
caratteristiche in un’economia basata sulla conoscenza, si ritiene
opportuno
differenziare
il
concetto
di
internazionalizzazione,
mondializzazione e globalizzazione.
- L'internazionalizzazione indica il carattere dei rapporti economici,
politici, giuridici e culturali che una comunità o uno Stato stabiliscono
con altri Paesi: si può allora parlare di internazionalizzazione mercantile
(di merci), produttiva (investimenti all'estero), finanziaria (movimenti di
capitali), tecnologica (trasferimento di tecnologie), culturale (rapporti
culturali), oppure legata a movimenti di persone (migrazioni).
- La mondializzazione indica il complesso di problemi i cui effetti si
manifestano a livello mondiale e le cui soluzioni sono possibili solo
attraverso la creazione di organismi internazionali e la cooperazione tra
Stati nazionali. Tra questi, ad esempio, i problemi ambientali,
dell'acqua, del clima, dell'energia, quelli delle migrazioni, quelli delle
malattie etc…
- Per globalizzazione si intende l'estensione e la diffusione di una
quantità sempre crescente di dispositivi simbolici, materiali, tecniche,
procedure, discorsi, logiche e prodotti potenzialmente fruibili su scala
mondiale. La globalizzazione sta ad indicare le nuove forme assunte nel
85
mondo dal processo di accumulazione di capitale, soprattutto in questa
fine secolo dalla triade Usa, Giappone, Unione Europea per creare un
unico mercato e per ottenere profitti su scala mondiale.
Il fenomeno della globalizzazione implica l'interazione di dinamiche
complesse ed è caratterizzato dal comune confluire di processi non solo
economici ma anche politici, sociali e culturali; la ricerca di spazi globali
si è verificata nella storia per rispondere ad esigenze conoscitive,
esplorative, militari oppure è legata alla tendenza a trasmettere idee,
valori e fedi religiose ma il tema della globalizzazione e l'analisi delle sue
conseguenze occupano un ruolo di primo piano nella storia dell'800 e
del '900 perché è soprattutto in questo periodo che le spinte
globalizzatrici
hanno
trovato
la
loro
massima
diffusione
grazie
all'apporto delle nuove tecnologie.
Se prendiamo in analisi il rapporto tra gli Stati e la globalizzazione, si
può notare come fattori quali l’economia, politica, cultura e società
siano strettamente interdipendenti e l'evoluzione di uno di questi
comporti la trasformazione degli altri.
I processi di globalizzazione si muovono dunque tra “locale” e “globale”,
in uno spazio che Mc Luhan ha definito con il termine di "villaggio
globale"39 per descrivere la contrapposizione tra il termine “villaggio” che
39
In uno scritto del 1964 Marshall Mc Luhan, studioso delle comunicazioni di massa, parlava di un'epoca
elettrica che si sostituiva alla passata epoca meccanica e tracciava un accurato ritratto di un uomo nuovo,
un abitante del villaggio globale, ancora sospeso tra le due tecnologie, due modi diversi di agire e
pensare.
Definisce quest'uomo alla ricerca dei suoi valori, della sua integrità con un ritorno al passato per poi
congiungerlo al futuro; un uomo che pretende di comprendere fino in fondo la propria indole,
consapevole dell'agire, ma bisognoso di chiarezza nel caos delle informazioni. Quest'uomo vive in
un'unica realtà, il "mondo intero" ed è attore e spettatore e deve lavorare per costruire le proprie
responsabilità perché davanti a lui si presenta una realtà "ricca di scambi, influenze, confronti tra tutte le
sue parti improvvisamente collegate l'una con l'altra da un afflusso continuo di dati". Un'interconnessione
che lo costringe ad essere vigile per prevenire la "distruzione di una qualsiasi parte dell'organismo che
può risultare fatale per il tutto".
86
esprime qualche cosa di piccolo, di circoscritto ed il termine “globale”
che esprime l’idea di totalità, di pianeta.
Come abbiamo visto, si può utilizzare il termine globalizzazione per
definire
la combinazione di processi economici, politici, sociali e
culturali. Questi hanno come effetti:40
- La formazione di un mercato finanziario globale;.
- L'aumento dell'incidenza delle nuove tecnologie per lo scambio di
beni e servizi;.
- L'iperconcorrenza, ovvero un'accentuata competitività agevolata da
processi di liberalizzazione, di privatizzazione e di deregulation.
- Lo sviluppo di un'informazione che insieme al contemporaneo
progresso dei mezzi di trasporto unifica il mondo per ridurlo alla
dimensione di "villaggio".
Il "villaggio globale" è un ossimoro, è il fortunato ossimoro inventato da Marshall Mc Luhan per
descrivere la situazione contraddittoria in cui viviamo. I due termini dell'enunciato si contraddicono a
vicenda, il "villaggio" esprime qualcosa di piccolo, mentre "globale" sta a significare l'intero pianeta.
Mc Luhan ha forzato il linguaggio per meglio esprimere una situazione inedita e difficilmente
rappresentabile. Per capire cosa intende Marshall Mc Luhan possiamo immaginare il mondo popolato da
giganteschi dinosauri, o da gatti con gli stivali, che con pochi balzi lo percorrono da un capo all'altro.
Quello che prima era gigantesco, grazie alle nostre potenti invenzioni tecnologiche - i magici stivali - è
diventato piccolissimo, percorribile in lungo e in largo. La metafora degli stivali prende in considerazione
solo l'ambito degli spostamenti, ma quello che rende il mondo un villaggio globale non è solo la
possibilità di muoversi rapidamente da un punto all'altro.
La globalizzazione agisce a molti livelli che interagiscono e si "rinforzano" reciprocamente. La
globalizzazione investe ogni campo ed il risultato, l'effetto di questo fenomeno è quello che accade in un
punto qualsiasi del pianeta è come se avvenisse sotto casa, accanto a noi come se vivessimo in un
immenso villaggio.
Mc Luhan afferma che per creare un mondo globale c'è bisogno di una fusione organica tra tutte le
funzioni frammentarie e lo spazio totale. In conclusione il processo di formazione dell'uomo moderno
risulta apparire più complesso di quello del villaggio globale dal momento che entriamo nel nuovo
millennio ancora carichi del passato e bisognosi di autodefinirci sia come singoli che come abitanti di un
solo unico mondo.
Fonte: http://www.globalizzazione2000.it/Villaggioglobale.htm
40
Commissione Europea: “Incentivi a favore della competitività delle imprese europee a fronte della
globalizzazione” COM (1998) 718, Bruxelles, 1999
87
- La formazione di una cultura globale, cultura in cui il peso dei
singoli apporti riflette la capacità di influenza delle varie nazioni
componenti.
- La perdita di rilevanza dello Stato o del sistema nazionale come
punto di riferimento fondamentale nello scenario economico e
politico nel nuovo assetto globale.
Da queste caratteristiche di un’economia globale, si evince che la
globalizzazione pone i mercati in contatto sempre più stretto –
accorciando le distanze fisiche e culturali – e quindi esaspera la
concorrenza internazionale mettendo “a rischio” i mercati locali.
Tuttavia essa offre, parallelamente, crescenti opportunità di sbocco su
nuovi mercati ai prodotti e servizi di ogni attore economico, purché
questi riescano a distinguersi nel panorama della vasta offerta
internazionale.
Si può quindi notare come la dicotomia “villaggio” e “globale” di Mc
Luhan sia attuale e rappresentativa del nuovo tipo di mercato che si
sviluppa attraverso l’implementazione di un’economia basata sulla
conoscenza.
Un altro aspetto che caratterizza la globalizzazione, costituendone al
tempo stesso un presupposto ed una conseguenza, è rappresentato
dalla forte riduzione delle distanze tecnologiche e cognitive, che
permette alle imprese un più facile ed immediato accesso alle
informazioni e alle conoscenze indispensabili ad accrescere la propria
competitività, così da riuscire a profittare delle nuove opportunità di
espansione.
L’informazione, la conoscenza, e l’innovazione sono dunque gli elementi
strategici sui quali le imprese – comprese quelle di più ridotte
88
dimensioni – possono far leva per rimanere competitive ed accrescere la
loro produttività.
Questi stessi elementi – informazione, conoscenza, ricerca, innovazione
– rivestono un’importanza strategica nel determinare il grado di
competitività di un sistema economico nell’attrarre investimenti esteri
tecnologicamente all’avanguardia. Si tratta di investimenti che possono
innescare un processo a catena di diffusione e radicamento delle
innovazioni, poiché da un lato provocano l’innalzamento degli standard
tecnologici con i quali le imprese italiane si dovranno confrontare, e
dall’altro determinano effetti di ricaduta positivi favorendo processi di
trasferimento di tecnologia.
“Ma per favorire l’afflusso di tali
investimenti occorre disporre di un ambiente – economico, sociale e
strutturale – favorevole.
Bisogna cioè essere in grado di offrire una
adeguata “infrastruttura immateriale”: ovvero di una rete di elementi
che forniscano supporto alle idee, spazio alla creatività applicata, e
seguito alle innovazioni sperimentali.
Questo particolare sistema
infrastrutturale dovrà coinvolgere e collegare tra loro una moltitudine di
soggetti, dalle Università e i vari istituti di ricerca scientifica e
industriale, al sistema della formazione scolastica e professionale, al
sistema delle imprese”41.
Mentre da un lato, per globalizzazione s’intende una forma particolare
dell’economia di mercato che, a ruota, coinvolge inevitabilmente tutte le
altre, dall’altro lato è un fenomeno caratteristico, con eventi che vanno
oltre gli aspetti puramente economici.
Si ritiene che gli aspetti che esulano dal contesto puramente economicofinanziario
siano
altrettanto
importanti
per
meglio
comprendere
l’influenza di tale fenomeno sui mercati internazionali, in particolare
41
Globalizzazione: http://www.globalizzazione2000.it/la%20globalizzazione%20economica.htm
89
quelli che sempre più si basano sullo sviluppo di economie della
conoscenza dove, come abbiamo visto, gli aspetti socio-culturali si
intrecciano profondamente con lo sviluppo economico.
La Società Globale
La Società attuale viene definita “complessa”42.
Al suo interno
l’economia si sviluppa dall’economia di mercato, in maniera per certi
versi molto semplice e strettamente correlati alla società: ricordiamo a
tal proposito le teorie micro e macroeconomiche che si basano sul
concetto primario di “irrazionalità” dei consumatori.
Possiamo dunque definire come “società complessa”:43
- la società che tende quasi sempre alla frammentazione dei settori della
vita: ciascuno di noi porta dentro tanti ambiti di vita tra loro
giustapposti. Svolgiamo attività molto diverse, che toccano i vari ambiti
della vita e la fatica che facciamo è quella di trovare un punto di unità
tra tutte queste cose.
Economia, politica, religione, tempo libero,
medicina, arte: ognuno ha le sue regole e caratteristiche, ed è molto
difficile passare da un ambito a un altro per la profonda diversità delle
logiche che regolano questi ambiti. Fino a qualche decennio fa erano
molte le attività svolte da una sola persona, ma erano anche molto
profondamente correlate tra loro ad esempio scuola, famiglia, chiesa,
ecc. Il lavoro è stato il primo ambito che ha iniziato a sganciarsi da
questa logica. Oggi ci troviamo all’estremo di questa frammentazione.
42
43
Local Futures, “Global change, local strategies” http://www.localfutures.com, 2002
“Globalizzazione, cooperazione e volontariato: scenari e prospettive” Bergamo, 2001
90
- Aumentano le possibilità di scelta: è un fatto che, rispetto al passato, le
nostre società stanno aumentando le possibilità di scelta, non solo
economica,
un
prodotto
invece
che
un
altro,
non
solo
nella
differenziazione dei prodotti, personalizzazione dei prodotti o nella
comunicazione
virtuale
ad
esempio
la
possibilità
di
orientarsi
individualmente, ancora poco usato internet, ma anche nella possibilità
di fare esperienza, di incontrare persone, di conoscere.
- Complessità vuol dire anche, che aumentano sempre più le diversità di
pensiero, di cultura e le impostazioni di vita tra le persone.
Le diversità a livello di individui e a livello di gruppi, un pluralismo
sempre più accentuato:
per esempio la multicultura, l’immigrazione o la comunicazione
pubblica che portano a
contatto culture e modi di pensare molto diversi tra loro.
Tutti questi fenomeni ci aiutano a capire il processo di globalizzazione
delle economie: processo che si radica ben al di là delle pure forme di
commercio o di produzione, ma più profondamente a livello socioculturale.
Si possono dunque definire alcune caratteristiche particolari di
un’economia globalizzata:
- Scambio: sempre più accentuato, a livello mondiale, strettamente
legato all’economia di mercato. Gli scambi, che prima avvenivano solo a
livello locale e solo per certi settori, ora vedono come scenario l’intero
globo e tutti i settori. Non si tratta solo di beni economici, ma anche
informazioni esperienze, conoscenze, cultura.
91
Tutto diventa scambio.
Le persone si muovono di più, si conoscono di più: entra in gioco la
dimensione della comunicazione pubblica, internet, che sono l’effetto e
la causa, insieme di questi processi.
- Legame: si accentuano i legami. In un periodo, in cui ognuno cerca
maggiormente la propria autonomia e la propria indipendenza, la
ricerca di se stessi, delle proprie emozioni, della propria idea, in una
parola di una maggiore e individualizzata definizione di se stesso si
trova a fare i conti con il maggiore e più stretto legame con gli altri, che
ha la forma dell’interdipendenza. Siamo sempre più condizionati
reciprocamente. Per esempio: possiedo un’auto e questo mezzo mi
permette di raggiungere certi posti, molto più velocemente di una volta,
di quando andavo in giro col carretto. Sono più autonomo. Ma allo
stesso tempo io sono sempre più condizionato da coloro che vendono la
macchina, la benzina, riparano la macchina, producono la macchina.
- Realtà: il processo di scambio, di mobilità e di interdipendenza,
comporta un fenomeno: la realtà tende a diventare sempre più virtuale,
aumentando, ma tuttavia diventando sempre più inconsistente.
- Lo spazio e il tempo: la globalizzazione modifica profondamente la
concezione del tempo e dello spazio. In tempo reale si può vedere cosa
capita a distanza di migliaia di chilometri. Tramite l’utilizzo di nuove
tecnologie, di internet, posso entrare anche in uno spazio lontanissimo
da me.
Posso trovarmi là non in maniera reale, ma con la mia
conoscenza, con la mia sensazione. Si modificano i modi di vivere, il
tempo e lo spazio.
92
La forte accelerazione dei cambiamenti nella società e nei prodotti e nei
servizi, dovuta alla concorrenza globale, impone dunque un consistente
sforzo di aggiornamento e la continua introduzione di innovazioni.
Innovazione
e
competitività
sono
da
considerarsi
due
elementi
essenziali, nella formulazione di una strategia di sviluppo, per le
imprese che intendono affermarsi nell’economia globale.
Un nuovo
fenomeno che le imprese si trovano ad affrontare in questo contesto è
infatti rappresentato dalla forte accelerazione dei cambiamenti che i
prodotti e i servizi subiscono nei mercati, a fronte dell’intensificazione
delle occasioni di scambio tra sistemi diversi.
Questa è dovuta non
soltanto
di
alla
rapida
contrazione
del
ciclo
vita
dei
prodotti
(particolarmente evidente per quelli ad elevato contenuto tecnologico),
ma anche alla maggiore spinta competitiva che le imprese subiscono nei
rispettivi settori di attività.
La concorrenza internazionale, dunque,
impone loro un consistente sforzo di aggiornamento e miglioramento
della propria offerta, attraverso l’introduzione costante di elementi
innovativi.
L’importanza dell’Innovazione
Il termine “innovazione” viene spesso utilizzato per indicare il processo
di sviluppo tecnologico a base di una società, organizzazione o di
un’economia.
In questa sede, facendo riferimento ai precedenti
paragrafi, s’intende precisare il ruolo dell’innovazione nell’economia
basata sulla conoscenza e l’importanza nella crescita economica.
93
Nel panorama delle diverse teorie sulla crescita economica, possiamo
trovare alcune definizioni sul concetto di innovazione:44
M. Porter
“Companies achieve competitive advantage through acts of
innovation. They approach innovation in its broadest sense,
including both new technologies and new ways of doing
things.”
P. Drucker
“Innovation is the specific tool of entrepreneurs, the means by
which they exploit change as an opportunity for a different
business or service.”
T. Peters
“We must learn - individually and as organisations - to
welcome change & innovation …the corporate capacity for
continuos change must be dramatically increased.”
Seguendo queste definizioni, si può notare come ciascuna abbia come
concetto ricorrente l’abbinamento tra innovazione e cambiamento.
Possiamo dunque sostenere che l’innovazione è il cambiamento che
un’organizzazione riesce ad apportare (Fig.20)
44
Claudio Petti: “L’innovazione”, E-business, management School, 2002
http://digilander.libero.it/claudiopetti/courses/innovationmngmt.htm
94
Figura 20
Innovazione = Cambiamento
Come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, lo sviluppo tecnologico ha
un’importante ruolo nell’economia della conoscenza. Il Capitale Umano
veicolato da un’infrastruttura di tecnologie permette lo scambio di
informazioni, idee e “sapere” in tutto il mondo. Quello che si genera è
dunque una forte capacità di innovazione.
Si può quindi distinguere tra invenzione che risulta essere una nuova
idea, un nuovo sviluppo scientifico oppure una novità tecnologica.
L’invenzione è spesso causale e non indotta da motivazioni economiche
o competitive, mentre l’innovazione è la realizzazione delle invenzioni in
un nuovo processo o prodotto. L’innovazione è dunque la capacità di
rendere produttiva un’invenzione, ed è proprio ciò che determina lo
sviluppo economico e la crescita di un’organizzazione.
95
Diverse sono le elaborazioni teoriche che si sono misurate fino ad ora
con il concetto di innovazione e con i reciproci modelli.
Si possono
individuare in linea generale 5 filoni:45
Figura 21
I filoni della teoria dell’innovazione.
-
Filone neoclassico: sia l’approccio dell’equilibrio generale, sia
quello degli equilibri parziali considerano l’innovazione un fatto
esogeno in una visione statica che non può tenere conto del
carattere dinamico e discontinuo, tipico invece dell’innovazione.
-
Filone Paleo-Schumpeteriano: l’innovazione produce un extraprofitto agli imprenditori più capaci per i quali si ipotizza un
comportamento differenziato.
In questo schema, Schumpeter
distingue invenzione, innovazione e diffusione dell’innovazione.
Malgrado Schumpeter definisca l’innovazione come costituita da 5
45
modalità
diverse
(nuovo
mercato,
nuova
fonte
prodotto,
di
Eciclopedia economica Garzanti, ed. 1999.
96
materie
nuovo
prima,
processo,
nuovo
ristrutturazione
dell’offerta) non ha tenuto conto dei comportamenti delle singole
aziende in fatto di innovazione.
-
Filone Neo-Schumpeteriano: si tratta degli sviluppi empirici volti a
comprendere
l’evoluzione
del
capitalismo
verso
la
fase
manageriale contraddistinta dal successo della grande impresa
operante in situazione di controllo del mercato, capace di
realizzare al proprio interno attività di ricerca e sviluppo tali da
controllare l’innovazione ai fini della propria crescita.
-
Filone
Neo-tecnologico:
Vi
è
il
riconoscimento
dell’autodeterminazione della tecnologia che si traduce in una
non subordinazione all’economia. Anzi, la tecnologia provoca
modificazioni importanti all’interno delle strutture economiche
(macro e micro) in funzione delle nuove opportunità che essa
offre. Questo approccio nega l’ipotesi neoclassica di indifferenza
delle
aziende
nei
confronti
del
cambiamento
tecnologico,
sottolineando le diverse modalità con le quali esse accedono e si
appropriano delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie.
Il
progresso tecnico va considerato una variabile autonoma, dotata
di proprie leggi di sviluppo; possibilità di offerta tecnologica e di
domanda di innovazione possono non combaciare o prodursi in
modo difforme rispetto alle precedenti situazioni di equilibrio
concorrenziale.
Economia
e
tecnologia
non
sono
quindi
indipendenti ma nemmeno in automatica sintonia. Fra di esse si
manifesta una dialettica derivante dal fatto che la trazione
esercitata dalla domanda di innovazione (demand pull) può
risultare sfasata rispetto alle potenzialità, ai tempi e alle direzioni
97
emergenti
dalle
attività
a
carattere
scientifico-tecnico
(technological push).
-
Filone Organizzativo-manageriale: si é sviluppato a partire dalla
fine degli anni ’60, in parallelo con quello neo-tecnologico, a opera
di
studiosi
interessati
all’analisi
del
fenomeno
innovativo
all’interno della singola azienda piuttosto che nel complesso del
sistema economico. Questo filone sottolinea la natura complessa
dell’innovazione non solo in senso verticale (ricerca di base,
ricerca applicata, ricerca orientata, sviluppo, diffusione) e con
l’attenzione rivolta agli effetti sulle strutture e al comportamento
di categorie strutturali (per es. grande impresa, piccola impresa,
impresa
multinazionale),
come
prevale
negli
schemi
neotecnologici, ma anche in senso orizzontale, cioè rispetto alle
aree funzionali delle aziende portatrici di diversità significative
delle loro strutture organizzative. In ogni azienda lo sfruttamento
efficace di un’idea innovativa é, da una lato condizionato da tutta
una serie di variabili organizzative e ambientali che non sono
individuabili per categorie strutturali, dall’altro, richiede un
particolare orientamento di tutte le funzioni dell’impresa (globalità
dell’innovazione).
Con questo approccio la focalizzazione della
problematica dell’innovazione tende a spostarsi dagli aspetti
tecnici a quelli organizzativi.
Se consideriamo le precedenti teorie economiche, possiamo affermare
che l’innovazione “è il risultato che porta alla configurazione di una
nuova
funzione
di
produzione,
98
che
provoca
un
cambiamento
nell’insieme delle possibilità (opportunità) generatrici di prodotti e di
modalità di produzione”46.
Figura 22
Il sistema innovativo.
Dunque si può dire che l’innovazione non è solo tecnologia, ma include
un
cambiamento
organizzativo
e
del
mercato
e
trasformazioni
strutturali. Non coinvolge solo la Ricerca & Sviluppo, ma la produzione,
clienti, fornitori, utenti, mercato, e tutto il contesto socio-economico.
Si possono quindi definire diversi tipi di innovazione:
- Oggetto del cambiamento:
ƒ
Innovazione di Prodotto: cambiamenti in “cosa” viene offerto
ƒ
Innovazione di Processo: cambiamenti in “come” viene
offerto
46
Claudio Petti: “L’innovazione”, E-business, management School, 2002
http://digilander.libero.it/claudiopetti/courses/innovationmngmt.htm
99
- Grado di novità:
Innovazione
ƒ
processo,
incrementale:
prodotto
o
comporta
servizio
miglioramento
rispetto
ad
un
di
design
dominante, architettura di prodotto, processo produttivo e
domanda esistenti.
Innovazione radicale: una rottura con prodotti o processi
ƒ
esistenti
(transistor
contro
valvole
termoioniche).
L’innovazione consiste nel far qualcosa di nuovo nel
sistema economico e non deriva necessariamente da una
invenzione.
- Scopo:
Innovazione di componente: cambiamento in componenti
ƒ
isolati
Innovazione
ƒ
di
sistema:
cambiamento
nell’intera
architettura del prodotto/servizio, può generarsi anche da
cambiamenti
di
un
solo
componente
quando
questo
richiede cambiamenti in tutta la struttura del prodotto
Il
processo
innovativo
diviene
quindi
imperativo
per
tutte
le
organizzazioni: il non fare nulla in un ambiente competitivo non è
un’alternativa, in quanto la sopravvivenza delle organizzazioni non in
grado di attivare continuamente processi innovativi è seriamente
minacciata dai “concorrenti”.
Le conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona47 hanno richiamato
l’attenzione su due
esigenze:
47
Il Consiglio europeo ha tenuto una sessione straordinaria il 23 e 24 marzo 2000 a Lisbona per
concordare un nuovo obiettivo strategico per l'Unione al fine di sostenere l'occupazione, le riforme
economiche e la coesione sociale nel contesto di un'economia basata sulla conoscenza.
100
– ricavare il massimo beneficio in termini di innovazione dagli sforzi di
ricerca compiuti a livello nazionale e comunitario,
– creare un ambiente favorevole per la costituzione e lo sviluppo di
imprese innovative.
Queste priorità riflettono, innanzi tutto, l’importanza dell’innovazione
come generatrice di nuovi prodotti, servizi e processi, nonché gli ostacoli
incontrati da questo tipo di innovazione e, secondariamente, la
necessità che l’innovazione (basata o meno sulla tecnologia) si diffonda
dai “motori primi” andando a rinvigorire l’intero tessuto economico e
sociale.
Per sopravvivere nel nuovo ambiente concorrenziale, le organizzazioni
non possono permettersi di rimanere inattive. Devono essere aperte a
nuove idee, a nuovi modi di operare, all’adozione di nuovi strumenti e
attrezzature, ed essere in grado di assimilarli e di trarne vantaggio. La
promozione dell’innovazione deve rappresentare una delle componenti
principali di una moderna politica economica.
101
CAPITOLO II
Il ruolo della Ricerca e Sviluppo nella crescita
economica
Prefazione
Nel Capitolo precedente abbiamo potuto analizzare gli elementi chiave
che caratterizzano le economie della conoscenza. In particolare dopo un
approfondimento sulle diverse teorie che hanno quantizzato l’apporto
dell’innovazione alla crescita economica, abbiamo potuto focalizzare il
discorso sui quattro pilastri di un’economia della conoscenza. Questi
rappresentano
gli
elementi
necessari
che
grazie
alla
loro
complementarità definiscono gli aspetti primari di queste economie. In
particolare
abbiamo
visto
l’importanza
del
Capitale
intellettuale,
dell’ICT, della globalizzazione e dell’innovazione.
In questo Capitolo si vuole proseguire il discorso sull’economia della
conoscenza cercando di portare in luce i fattori che più direttamente
legano gli investimenti in Ricerca e Sviluppo (R&S) alla crescita
economica.
Facendo riferimento alle teorie della New Growth Theory (Capitolo I) così
come ai diversi approcci degli economisti in materia, si cercherà di
analizzare la crescita economica ed i fattori legati all’economia della
conoscenza che la influenzano.
In particolare si vuole porre l’accento sul legame tra Ricerca e Sviluppo
ed aumento della produttività con le derivanti conseguenze di aumento
dell’occupazione e della competitività.
102
In conclusione si cercherà di mostrare l’importanza della Ricerca e
Sviluppo come “cuore” della crescita economica, valutando alcuni
esempi pratici di economie della conoscenza. Questo servirà anche come
punto di transizione al prossimo Capitolo dove si svilupperà per
l’appunto un’analisi comparativa di alcune Nazioni peculiari per il loro
approccio ad uno sviluppo economico della conoscenza.
103
Introduzione
Nel quadro generale economico l’investimento in ricerca e sviluppo (R&S)
resta un elemento considerato essenziale per l’innovazione, la crescita
economica e il benessere sociale. Cambiamenti importanti intervenuti
nel settore riguardano i soggetti, i meccanismi e le politiche che
sostengono l’attività di ricerca e sviluppo nella generalità dei paesi
industrializzati, dalla crescita del ruolo dei soggetti privati nel
finanziamento delle attività di ricerca, alle innovazioni istituzionali e
organizzative che hanno interessato il settore pubblico di ricerca.
L’intensità della spesa totale in ricerca e sviluppo è aumentata tra il
1994 e il 2001 in Germania, Svezia, Finlandia, Spagna, Grecia e
Portogallo e si è ridotta in Francia e Inghilterra.
Nel nostro paese il
rapporto tra spesa totale in ricerca e prodotto nazionale lordo è rimasto
sostanzialmente stabile, e comunque basso (Fig.23).
Se si guarda alla spesa industriale per ricerca e sviluppo (BERD), si
nota nel corso dell’ultimo decennio un aumento del finanziamento
proprio della ricerca da parte delle industrie stesse. Si osserva, infatti,
nei paesi della UE un incremento dal 77,8% del 1990 all’82,5% del
2000. Nei paesi dell’OECD si passa dall’80,6% del 1990 al 87,7% del
2000.
Si
è
verificata
inoltre
una
contemporanea
diminuzione
del
finanziamento pubblico alla spesa industriale, che, nell’arco dei 10 anni
considerati, diminuisce di quasi la metà sia nei paesi UE (dal 14,5% del
1990 al 8,5% del 1999) sia in quelli OCDE (dal 16,7% del 1990 all’8,3%
del 2000).
Anche in Italia si è registrata nel corso degli ultimi 10 anni la stessa
tendenza all’aumento del finanziamento da parte dell’industria alla
104
ricerca industriale, che passa dal 73,4% del 1990 al 78,7% del 1999.
L’industria, pertanto, ha dovuto supplire alla riduzione dei trasferimenti
finanziari pubblici a sostegno della ricerca industriale.
Figura 23
Spesa totale per ricerca e sviluppo in percentuale sul PIL (1994-2001)
L’effetto di questi due fenomeni (aumento del contributo privato e
riduzione di quello pubblico verso la ricerca industriale) ha fatto sì che
la spesa di ricerca direttamente sostenuta dall’industria sia rimasta
stabile nella media OCDE.
Altri cambiamenti che si possono notare nel quadro globale dello
sviluppo della ricerca e sviluppo si sono realizzati attraverso la
ristrutturazione di parti dei sistemi pubblici di ricerca per accrescerne
l’efficienza o il legame con i bisogni sociali.
Ad esempio sono stati
promossi “centri di eccellenza”, caratterizzati dalla alta qualità e
flessibilità delle risorse umane, da meccanismi di retribuzione legati a
105
valutazione e da rappresentanza dell’industria negli organismi di
governance.
Questi provvedimenti, strategie e sviluppi dimostrano l’importanza della
ricerca e sviluppo per il progresso non solo tecnologico e sociale, ma
anche
economico
delle
organizzazioni.
Si
cerca
di
sviluppare
l’innovazione (cfr. paragrafo sull’Innovazione pag. 81), ma soprattutto si
cerca di sviluppare dei centri di ricerca atti a stimolare e mantenere il
Capitale Umano (ricercatori, scienziati, professori….)
La crescita economica
La crescita è un aumento durevole in termini reali di un indicatore della
performance economica: è dunque un fenomeno di lungo termine. La
crescita economica per una nazione corrisponde ad un cambiamento di
dimensione nel tempo, misurata in termini di Prodotto globale reale o in
termini di Reddito nazionale a prezzi costanti. È al tempo stesso fattore
e conseguenza del cambiamento sociale.
Associati alla crescita e al
progresso tecnico vanno considerati infatti anche i costi sociali di questi
fenomeni: inquinamento, sfruttamento intensivo delle risorse naturali,
distruzione di impieghi, emergenza dei fenomeni di emarginazione, ecc.
Un altro aspetto importante della crescita che si deve tener conto, è che
i frutti della crescita sono di norma ridistribuiti in modo ineguale tra gli
individui. Ciò significa che, un aumento costante del PIL non determina
necessariamente aumento del benessere generale.
Per valutare dunque il fenomeno della crescita, si devono considerare
diversi aspetti che interagiscono: quello economico, sociale e culturale,
oltre
a
quello
politico
e
istituzionale.
Tutte
queste
multidimensionali rendono difficile la formalizzazione teorica.
106
variabili
Come
analizzato
nel
Capitolo
precedente,
esistono
varie
teorie
economiche che cercano di sviluppare e razionalizzare questo concetto
di crescita economica.
Su un punto economisti “mainstream” ed
eterodossi sono consenzienti: l’innovazione e il progresso tecnico sono fra
le determinanti più importanti della crescita.
Robert Solow, negli anni ‘50 con Abramowitz, sottolinea come la
variabile che che normalmente nella funzione di produzione aggregata
veniva classificata come residuo, spiegava la metà (fino a ¾) della
crescita economica USA di quegli anni.
Non è quindi sufficiente riconoscere quanto sia importante l’innovazione
e lo sviluppo tecnologico per le imprese,
ma è altrettanto essenziale
comprendere gli effetti del progresso tecnico e dell’innovazione a un
livello più aggregato (economia nel suo insieme, ma anche sviluppo,
benessere generale e occupazione).
Interrogarsi sugli effetti macroeconomici del progresso tecnico significa
quindi comprendere gli effetti della diffusione dell’innovazione sullo
sviluppo e la crescita economica.
Anche tralasciando gli aspetti qualitativi (che essendo più aleatori
rendono difficile la stima) e considerando solo gli aspetti quantitativi, la
crescita rimane un fenomeno difficile da misurare.
I meccanismi di
calcolo sono molto complessi e non sempre molto precisi.
Fra i problemi concreti di misura possiamo rilevare in particolare:48
- Scelta dell’aggregato e continuità statistica: di norma si sceglie il
PIL (PIL per abitante in particolare invece che PIL globale).
Il PIL
presenta però dei limiti: dire per esempio che in Svizzera tra il 1870 e il
48
Alberto Bucci: “Potere di Mercato ed Innovazione Tecnologica nei recenti Modelli di Crescita
Endogena con Concorrenza Imperfetta” Milano, 2002
107
1985 il PIL reale è cresciuto di 15 volte cosa significa?
Nel 1870 le
condizioni di produzione e di consumo erano completamente diverse
rispetto al 1985. Vi sono quindi problemi di continuità statistica.
- Il PIL è una misura “povera” del tenore di vita o del benessere di
una popolazione: si limita a conferire un miglioramento ad un
aumento del valore, ma non analizza altre variabili.
- La contabilità nazionale, strumento pur potente, non riesce a
tenere conto di tutto: per esempio non considera l’economia domestica
e la sua importanza, come neppure il lavoro in nero, molto diffuso in
certi Paesi. Se si potessero dimensionare e contabilizzare anche questi
due fenomeni taluni Paesi rivelerebbero tassi di crescita maggiori
rispetto alle cifre consegnate nel calcolo del PIL.
I fattori della crescita economica
Come sopraccitato, la crescita, almeno nel linguaggio economico più
diffuso, è un fenomeno essenzialmente quantitativo.
Nei modelli
neoclassici il punto di partenza è rappresentato dalla funzione di
produzione aggregata.
La crescita dell’output globale di una nazione
proviene dall’aumento della quantità dei fattori di produzione (capitale,
lavoro) o da una maggiore efficacia nel combinarli (progresso tecnico).
I fattori quantitativi più rilevanti sono:
- le risorse naturali (suolo, fonti di energia, materie prime),
-
la
popolazione
e
la
sua
evoluzione
(pensiamo
al
fenomeno
dell’invecchiamento e alle conseguenze di questo fenomeno sulla
crescita),
- il capitale, inteso come insieme di impianti e attrezzature (macchinari,
edifici industriali, scorte di beni prodotti e utilizzati nella produzione,…)
108
- il lavoro, inteso come valore di ore lavorate, ma anche come numero di
occupati e, sempre di più come capitale umano. (che concerne l’abilità,
le conoscenze, le competenze racchiuse nelle mani e nelle menti di una
popolazione)
Ma a favorire la crescita vi sono anche fattori qualitativi.
combinazione
efficace
dei
fattori
di
produzione,
che
La
dipende
sostanzialmente dal progresso tecnico e dal suo elemento di base che è
la ricerca e lo sviluppo, gioca un ruolo cruciale tanto quanto il poter
disporre in quantità e prezzo di questi medesimi fattori.
Altri fattori interagiscono con quelli quantitativi e qualitativi appena
citati concorrendo a loro volta alla crescita economica.
Si tratta dei
fattori socio-culturali ed istituzionali. Si può pensare all’importanza del
contesto politico, delle misure di sostegno all’economia in generale o
delle tecnologie più in particolare ma anche ai rapporti sociali che si
instaurano ogni qualvolta avvengono dei cambiamenti tecnologici
(nuove relazioni di lavoro, nuove forme di contratto,...) e dal punto di
vista socio-culturale, ai problemi di adattamento delle persone ai
cambiamenti economici, politici e istituzionali.
Figura 24
La crescita: il risultato dell’interazione tra fattori quantitativi, qualitativi e
fattori socio-culturali ed istituzionali.
109
L’appropriazione di questi cambiamenti e delle relative conseguenze
dipendono da processi interattivi di apprendimento che hanno tempi
diversi dall’evoluzione economica e tecnologica.
Per questo, appare
fondamentale investire sul capitale umano. È importante che i fattori
socio-culturali, politici e istituzionali siano un’ulteriore leva rispetto ai
fattori quantitativi per la crescita e non si rivelino come ostacoli alla
medesima.
Parallelamente e sovente in opposizione alla visione neoclassica della
crescita si è sviluppata una visione più storica e più “tecnologica”
dell’evoluzione economica di lungo termine.
Gli autori che hanno
sviluppato questa visione si sono interrogati e s’interrogano a tutt’oggi
sulla natura, la forma, la dimensione e gli effetti delle fluttuazioni
cicliche dell’economia.
In queste fluttuazioni, l’innovazione e il
progresso tecnico giocano un ruolo essenziale. Come punto di partenza
troviamo i cicli economici definiti da Kondratiev49.
lunghi, della durata media di 40-60 anni.
Si tratta di cicli
Ad ogni fine-inizio ciclo
corrisponde una rivoluzione tecnologica, contraddistinta da innovazioni
di tipo radicale.
La teoria dei cicli prende spunto dallo schema
microeconomico del ciclo di vita del prodotto (Fig.25), per estendersi alle
fluttuazioni macroeconomiche di lungo periodo (Fig.26).
49
N.D. Knodratiev: http://www.gold-eagle.com/editorials_01/alexander051401.html
110
Figura 25
Dinamica del ciclo di vita del prodotto.
Fase esplorativa: fase di grande incertezza tecnologica. In questa fase
l’innovazione
è
radicale.
Emergono
nuovi
paradigmi
tecnologici
(es.
automobile, elettricità e elettrodomestici, informatica e telematica). Si
riscontra un’ondata di innovazioni di prodotto. Sul mercato appaiono
versioni migliorate di prodotti, adattate a usi sempre più diversificati. I
processi produttivi sono ancora poco efficaci e i prezzi restano elevati. Il
numero di imprese produttive tende ad aumentare.
Fase di Sviluppo: il mercato cresce molto: le applicazioni si moltiplicano; i
clienti acquistano – adottano – i nuovi prodotti e i prezzi scendono. In questa
fase aumenta la produttività e la concorrenza. I prezzi continuano a
scendere. Il numero di imprese sul mercato si stabilizza.
Fase di Maturità: le innovazioni diventano vieppiù di tipo incrementaleadattativo e centrate sui processi e l’organizzazione, piuttosto che sui
prodotti. La concorrenza attraverso i prezzi continua. Il numero di imprese
comincia a diminuire. Non ci sono più new entry nel settore e tra le imprese
attive le economie di scala generano fallimenti e fusioni.
Fase di Declino: nel caso non si riesca ad introdurre nel mercato nuovi
prodotti, si va verso il declino. Il prodotto è a fine ciclo, le sue vendite
regrediscono o smettono. Altri prodotti lo sostituiscono
111
Figura 26
Fluttuazioni cicliche dell’economia.
Fase di Ripresa: momento a partire dal quale il movimento di contrazione
cambia direzione.
Fase di Espansione: boom degli affari: l’indicatore dell’attività conosce una
forte crescita. Aumenta anche l’occupazione e i prezzi.
Fase di Crisi: punto di cambiamento del ciclo. La produzione stagna, gli
stock si accumulano, le imprese sono in difficoltà, alcune spariscono e con
loro i posti di lavoro.
Fase di Depressione o di recessione: la riduzione del numero delle imprese
genera la regressione dell’indicatore di attività economica. Aumenta la
disoccupazione. Si assiste a un ribasso generalizzato dei prezzi.
“La visione è storica perché insiste sulle rotture della crescita
(periodizzazione della storia economica). È tecnologica nel senso che il
ritmo e l’orientamento dell’innovazione sono considerati le determinanti
del movimento d’assieme delle economie.
La pertinenza empirica
dell’ipotesi del ciclo di vita del prodotto non è sempre provata e
comunque è difficoltosa.
Infatti, ogni prodotto è costituito da più
tecnologie che possono evolvere secondo traiettorie diverse.
112
Inoltre,
ogni industria offre molteplici prodotti che possono conoscere storie
diverse.”50
Per esempio può essere il caso dell’informatica, dove il ciclo di vita dei
computer in generale può essere ben distinto dalle single parti che lo
costituiscono (microprocessori, memoria, hard disk, software etc…) o
dai sistemi di cui sono essi stessi parte (reti aziendali, grossi sistemi
etc…).
Anche
in questo
caso,
per
riprendere
la
terminologia
sopraccitata di Patrizio Bianchi, “ognuno ha la sua propria storia”.
A livello microeconomico l’ipotesi funziona: le imprese la utilizzano
sistematicamente nelle loro strategie.
A livello macroeconomico la
generalizzazione resta problematica. Per difficoltoso e problematico che
sia, rimane comunque il miglior strumento per spiegare le fluttuazioni
economiche di lungo periodo.
Come introdotto precedentemente, a partire dai lavori di Schumpeter si
è sviluppata una ricca tradizione di lavori economici e storici che si
propone di spiegare le successioni dei sistemi tecnici e delle relazioni tra
queste successioni e la crescita economica.
Con Schumpeter nasce
anche la nozione di sistema tecnico e di paradigma tecnologico. Ad ogni
nuovo
ciclo
di
crescita
corrisponderebbe
un
nuovo
paradigma
tecnologico–economico (tecniche di produzione + modi e mezzi di
produzione + nuovi prodotti + nuovi metodi organizzativi + nuovi metodi
di consumo + nuova divisione del lavoro).
Alcune famiglie di tecnologie dominanti nascono e ne influenzano altre,
come lo è stato nel caso del sistema legato alla tecnologia del vapore, del
sistema legato alla tecnologia dell’elettricità e come lo è e lo sarà il
sistema nato e che si svilupperà anche in futuro a partire dalle nuove
tecnologie dell’informazione e della comunicazione o dalle biotecnologie.
Il modello Schumpeteriano prevede 4 fasi:
50
Patrizio Bianchi: “L’innovazione come fattore di produzione” Cacucci Editore, Bari, 1999.
113
- La fase di espansione: emergenza di un nuovo paradigma tecnologico.
Momento in cui le innovazioni sono soprattutto radicali. Si creano veri
e propri grappoli di innovazione, contraddistinti da molti prodotti e da
molte applicazioni nuove. I profitti sono elevati. È una fase d’intensa
distruzione creatrice e di forte crescita economica.
- Fase di maturazione: il filone tecnologico si inaridisce. Le innovazioni
sono perlopiù incrementali. Si fanno meno numerose e meno radicali.
Le imprese tendono a concentrarsi.
La crescita rallenta.
Il profitto
diminuisce a causa dell'erosione delle rendite associate alle posizioni di
monopolio e alla riduzione dei prezzi dovuta a una più accresciuta
concorrenza.
- Fase di crisi: è contraddistinta da fallimenti, dalla recessione, dalla
“pulizia del mercato”. In questa fase rinasce lo stimolo (o la necessità) di
innovare. È una fase in cui si prepara l’emergenza di nuovi paradigmi
tecnologici (la necessità aguzza l’ingegno).
- Fase di risanamento e di ripresa dell’accumulazione.
Le conseguenze dell’innovazione e del progresso tecnico
I risultati positivi registrati in termini economici e quantitativi relativi ai
processi di crescita legati alla ricerca e sviluppo non significano
necessariamente un pari aumento del benessere generale di una
società.
Tra gli effetti più importanti del progresso tecnico possiamo
citare gli effetti sull’impiego. L’innovazione e la ricerca e sviluppo ad
essa collegata sono spesso considerate come forze distruttrici di
impieghi. In questi ultimi anni, l’apparizione e i progressi rapidi della
microelettronica
hanno
portato
mutazioni
radicali
nel
campo
dell’automazione dei processi produttivi nell’industria (robotica).
114
Nel
campo informatico la miniaturizzazione permette la diffusione di potenti
capacità di calcolo in tutti i settori dell’economia.
Per la prima volta
questo progresso tecnico concerne tanto l’industria quanto il terziario.
Le conseguenze sull’impiego e il lavoro sono notevoli.
delle
nuove
tecnologie
è
accompagnata
L’introduzione
dall’apparizione
e
dalla
sparizione di diversi mestieri e modifica il contenuto degli impieghi
esistenti. Le conseguenze che si possono quindi analizzare sono sia a
livello di struttura delle qualifiche, sia a livello di organizzazione del
lavoro.
Mentre negli anni ‘80 e ‘90, le soppressioni di posti di lavoro sono
aumentate sia nell’industria (quella labour intensive soprattutto) che
nei servizi (banche e assicurazioni in testa), in un contesto di
disoccupazione che è aumentato in modo notevole fino a un paio di anni
fa, non si può generalizzare che l’aumento tecnologico provochi un
aumento della disoccupazione.
Personalità quali J. Rifkin51 hanno
parlato addirittura della “fine del lavoro”, che sarebbe progressivamente
reso inutile a causa di un’efficienza sempre maggiore della tecnologia.
L’introduzione generalizzata delle innovazioni e del progresso tecnico
(nella fase di massima diffusione) genera delle trasformazioni strutturali
importanti e si deve quindi anche considerare che l’innovazione di
prodotto ha un effetto inverso: l’apparizione di nuovi prodotti, genera
51
Jeremy Rifkin è il fondatore e il presidente della Foundation on Economic Trends di
Washington. È autore di tredici libri sull’impatto dei cambiamenti tecnologici sull’economia,
sulla forza lavoro e sull’ambiente, che sono stati tradotti in quindici lingue e vengono usati in
centinaia di università in tutto il mondo. Negli ultimi 25 anni ha tenuto corsi ed è stato "resident
scholar" in oltre 300 università di dieci paesi diversi. Il suo ultimo libro, La fine del lavoro è il
risultato di tre anni di ricerca sui mutamenti delle condizioni e della natura del lavoro nell’era
dell’informazione. Jeremy Rifkin si è laureato in economia del Wharton School of Finance and
Commerce dell’Università della Pennsylvania, e in affari internazionali alla Fletcher School of
Law and Diplomacy della Tufts University. È “visiting lecturer” al Wharton School of Finance
and Commerce Senior Executive Training Program (The Aresty Institute of Executive
Education).
115
nuova domanda e quindi le imprese devono aumentare la produzione,
per cui assumono.
Quindi, periodi come quelli attuali, in cui dominano le innovazioni di
processo (informatica e la robotica) tendono a creare, almeno in un
primo
tempo,
disoccupazione,
mentre
i
periodi
dominati
dalle
innovazioni di prodotto generano un incremento di occupazione.
La
realtà
non
macroeconomico
nega
non
questi
si
può
fatti.
Tuttavia,
parlare
di
dal
punto
distruzione
di
vista
sistematica
d’impieghi o di creazione sistematica e generalizzata di impieghi. Infatti,
dalla rivoluzione industriale in poi la produttività del lavoro è stata
moltiplicata per 20 volte, senza che l’impiego sia diminuito in modo
sensibile.
Con questo possiamo dire che, globalmente, la tecnologia distrugge
attività e impieghi in certi settori in particolari congiunture economiche,
per crearne di nuovi in altri settori.
compensazione52.
È il cosiddetto effetto di
Quindi pare più corretto ragionare in termini di
“saldo globale” derivato dall’innovazione considerando maggiormente il
quadro macroeconomico rispetto a quello microeconomico.
52
Gli economisti classici sostenevano la validità della teoria della compensazione , vale a dire del
carattere temporaneo dei sacrifici che devono essere sopportati dai lavoratori a causa degli effetti diretti
che il progresso tecnico porta sulla forza lavoro occupata. Essi ritenevano che l'introduzione delle
macchine nel breve periodo riducesse l'occupazione, ma che nel lungo la perdita dei posti di lavoro non
rimanesse permanente, perché i lavoratori espulsi dalle macchine sarebbero rientrati nel processo
produttivo per produrle e per rispondere all'aumento della domanda, determinato dalla diminuzione dei
prezzi causata dalle nuove tecnologie. In questa ottica, la compensazione degli effetti era un meccanismo
endogeno e non richiedeva comportamenti particolari delle varie classi. Sostanzialmente, la
disoccupazione tecnologica per i classici potrebbe quindi aversi quando non si verifica un aumento della
produzione capace di riassorbirla (giacché vi è un insufficiente incremento della domanda globale),
oppure perché vi è un'offerta di capitale insufficiente a tal fine.
http://www.unitec.it/ita/tesi/pozzi/cap1.1.htm
116
R&S e crescita economica
La ricerca e sviluppo (R&S) industriale consiste quindi in quell’insieme
di attività intraprese in modo sistematico con lo scopo sia di accrescere
le conoscenze dell’impresa sia di realizzare invenzioni ed individuare
scoperte utilizzabili commercialmente che di aumentare la produttività,
l’impiego e la diffusione della tecnologia. La R&S è la prima fase del
processo di innovazione che include anche la sperimentazione dei
prototipi
di
nuovi
prodotti/processi,
la
messa
a
punto
delle
caratteristiche in relazione alle esigenze specifiche della clientela, la
produzione su scala industriale e l’introduzione sul mercato.
processo di innovazione
tecnico-scientifica non è
altro che
Il
un
particolare processo produttivo nel quale l’impresa impegna degli input
(personale, risorse finanziarie e infrastrutture) nella speranza di
realizzare output (nuova tecnologia o miglioramento di quella esistente).
“Tale ciclo ha quindi inizio con l’opportunità di ricerca (la decisione di
effettuare studi e sperimentazioni su un determinato argomento) e si
conclude con la disponibilità di un “plus tecnologico” che si traduce in
valore addizionale per l’impresa”53. Tale risultato è comunque incerto e
l’incertezza riguarda sia l’interesse per l’impresa delle conoscenze
acquisite, sia, e soprattutto, la capacità di utilizzare quelle conoscenze
per
migliorare
la
posizione
dell’azienda
stessa
(in
termini
di
realizzazione tecnica, successo commerciale o cessione di know how).
Lo svolgimento di attività di R&S è quindi uno strumento chiave su cui
basare la strategia competitiva di un’impresa o di un’intera nazione.
53
G. Petroni: “Tecnologia e impresa. Scelte tecnologiche e sviluppo dell’innovazione nell’impresa
industriale” Padova, 1984
117
R&S ed aumento nella produttività
Come abbiamo visto in precedenza, la crescita economica dipende tanto
dall’accumulazione di capitale fisico quanto umano, dall’incremento
della forza lavoro attiva e dall’efficienza con cui entrambe queste risorse
vengono impiegate. La capacità di ottenere produzioni più elevate senza
alterare la combinazione dei fattori produttivi corrisponde ad un
aumento della produttività.
caratteristiche
qualitative
del
Quest’ultima dipende a sua volta da
capitale
fisico,
miglioramenti
nelle
competenze della forza lavoro, progressi tecnologici e nuovi modi
d’organizzare questi fattori produttivi. Storicamente gli incrementi di
produttività hanno costituito la principale fonte di crescita economica;
essi hanno reso possibile espandere la produzione senza aumentare
contemporaneamente l’impiego di fattori produttivi (consentendo anzi
riduzioni dell’orario lavorativo) ed ottenere un aumento sostenuto dei
redditi reali.
Il recente rallentamento nella crescita della produttività nell’Unione è
sinonimo di una competitività in calo (dove per competitività s’intende
uno sviluppo durevole nei redditi reali e nel tenore di vita associato alla
disponibilità di posti di lavoro per chiunque desideri un’occupazione).
La crescita della produttività può quindi favorire il finanziamento di
programmi d’espansione dell’impresa, ed offrire all’impresa anche la
possibilità di sostenere aumenti di redditività in
termini reali.
Analogamente il tenore di vita in uno Stato migliora quando si registra
una crescita sostenuta della produttività.
Consolidando la posizione competitiva delle imprese innovative gli
incrementi di produttività possono non solo ridurre il costo unitario dei
prodotti, ma anche ampliarne i potenziali mercati. I cittadini dal canto
loro beneficiano di prodotti migliori a prezzi unitari inferiore nonché,
118
come visto nel paragrafo precedente della possibilità a medio termine, di
una crescita dell’occupazione.
Anche quando gli aumenti di produttività si limitano inizialmente a
settori specifici dell’economia, essi finiscono per estendersi ad altri in
seguito a cambiamenti nei prezzi relativi cui sono associati aumenti dei
redditi reali. In generale il paese che riesca ad ottenere una crescita
vigorosa e sostenuta della produttività registra altresì rapidi aumenti del
tenore di vita.
Ciò si può per esempio vedere dimostrato se analizziamo l’epoca d’oro
europea della crescita e della convergenza, che va dal periodo
successivo alla seconda guerra mondiale fino al primo shock petrolifero
almeno. Nonostante i buoni risultati macroeconomici degli ultimi anni
nella seconda metà degli anni ’90 la crescita di produttività della
manodopera nell’UE non è riuscita ad eguagliare i risultati precedenti, il
che non può esser considerato altro che un’evoluzione particolarmente
negativa della situazione.
Poiché la crescita dell’occupazione è
tradizionalmente debole l’aumento dei redditi nell’UE dipende in
maniera decisiva dall’aumento di produttività della manodopera. Il fatto
che negli anni scorsi quest’ultima non sia riuscita a mantenere
nemmeno il suo andamento storico comporta l’impossibilità di sostenere
la crescita dei redditi nazionali e del tenore di vita.
La crescita della produttività fa capo ad una serie di fattori.
Per
esempio se analizziamo i risultati ottenuti dall’Europa in questo campo
negli ultimi anni si nota la scarsa attività innovativa, che si estrinseca
nel livello insufficiente degli investimenti in tecnologie per l’informazione
e la comunicazione (ITC) ed alla scarsa diffusione di tali tecnologie.
Queste carenze hanno avuto pesanti ripercussioni sul confronto per
sempio tra Stati Uniti ed UE in termini di risultati ottenuti.
119
Questo
risultato riflette l’impatto dei profitti provenienti da investimenti nei
settori tecnologici e delle innovazioni nazionali. Negli USA la rivoluzione
delle ICT ha incoraggiato la riorganizzazione aziendale e modificato i
termini della concorrenza.
manodopera
verso
Ha altresì indirizzato la domanda di
competenze
idonee
alle
nuove
tecnologie.
Nell’Unione Europea i settori ad elevata intensità di conoscenze hanno
trainato la creazione di posti di lavoro, ma l’evoluzione della produttività
è risultata assai meno favorevole che negli USA.
Ciò pone in risalto una serie di caratteristiche associate a paesi o
regioni che registrano una crescita vigorosa e sostenibile della
produttività, tra cui l’evoluzione tecnologica, un capitale umano ben
curato
od
in
all’innovazione.
aumento
Tale
ed
un
ambiente
ambiente
offre
altamente
numerose
favorevole
occasioni
per
l’apparizione di nuove imprese e per la revisione dei modelli gestionali e
la modernizzazione operativa d’imprese già esistenti.
Il contesto
concorrenziale a sua volta svolge un ruolo cruciale nel preservare tale
ambiente perché un’intensa concorrenza incoraggia l’innovazione,
promuove la crescita della produttività e contribuisce alla competitività.
Come
spiegato
nel
Capitolo
I,
nel
paragrafo
dedicato
alla
Globalizzazione, l’internazionalizzazione dei mercati determina una
sempre più forte competitività che stimola a sua volta l’innovazione e la
spesa in R&S per un aumento di produttività.
La crescita della produttività svolge inoltre una funzione importante ai
fini della più ampia questione della sostenibilità ambientale, sociale ed
economica: la crescita della produttività determina infatti l’ecoefficienza,
vale a dire il rapporto tra produzione industriale ed impiego delle risorse
oppure emissione di sostanze inquinanti. La crescita della produttività
rientra dunque nel contesto della sostenibilità tanto economica quanto
ambientale.
120
Tutte queste caratteristiche possono essere influenzate dalle politiche
perseguite, che possono dunque avere ripercussioni di rilievo sui
risultati ottenuti in fatto di produttività.
R&S ed il cuore dello sviluppo
Globalizzazione dei mercati e tecnologie dell'informazione (ICT) sono
state le due grandi forze che hanno interagito, alimentandosi a vicenda,
in questi due decenni. Lo sviluppo della società dell'informazione svolge
un
ruolo
trainante
nei
processi
di
globalizzazione,
grazie
alla
costituzione di reti digitali globali che collegano fra loro una moltitudine
di soggetti e sospingono la creazione di una nuova economia globale
basata sulle reti e su fattori immateriali.
Cambiano i fattori che
rendono competitive e dominanti le economie. Il contenuto tecnologico,
la qualità e il marchio del prodotto, la proprietà intellettuale, la
tempestività
del
servizio
stanno
prendendo
il
sopravvento
sui
tradizionali fattori di costo.
Come abbiamo approfondito nel primo capitolo, attraverso l’età della
globalizzazione l’economia delle materie prime è stata soppiantata
dall'economia della conoscenza. La ricchezza non è più creata solo dalle
risorse naturali o dalla produzione, ma da come i prodotti e i servizi
sono progettati e immessi sul mercato. I settori industriali e dei servizi
basati sulla conoscenza, la cosiddetta knowledge based economy,
caratterizzati da un alto input di ricerca e sviluppo e che impiegano
manodopera con un livello di qualificazione superiore alla media e in
particolare quelli imperniati sulla titolarità di diritti d'autore o sul
possesso di know-how, hanno superato i settori più tradizionali in
termini di crescita di valore e di occupazione, capitalizzazione e capacità
di esportazione. Nel periodo 1985-1998 il tasso medio annuo di crescita
121
delle esportazioni di prodotti industriali ad alto contenuto tecnologico è
stato dell’11,3% nei paesi sviluppati e del 21,4% nei paesi in via di
sviluppo.
Nello stesso periodo il tasso di crescita per i prodotti
industriali a media e bassa tecnologia era rispettivamente del 8,5% e del
13% e quello delle materie prime del 4,4% e del 1,3%. In Europa, nel
periodo 1995-1999, l’occupazione in questi settori è cresciuto ad un
tasso triplo rispetto alla media dell'industria e nei servizi l’area orientata
alla comunicazione e all’informazione ha avuto un tasso annuo di
crescita più che doppio rispetto alla media.
Gli investimenti in
“conoscenza” sono diventati pari al 4,7% del Prodotto Lordo come media
dei paesi sviluppati (area OCDE).
Nel corso degli anni ‘90 questi
investimenti sono cresciuti ad un tasso del 3,4% annuo, mentre gli
investimenti in capitale fisso (macchinari, edifici etc) sono cresciuti ad
un tasso del 2,2%.
In questo contesto, la ricerca e lo sviluppo tecnologico e la qualità del
capitale umano (la qualità della loro formazione) diventano fattori
cruciali in quanto si accorcia il ciclo della ricerca e sviluppo. Il modello
classico della ricerca (“ricerca di base precompetitiva - ricerca
industriale - attività di sviluppo”) corrisponde sempre meno alla realtà.
Nei nuovi campi, dall'informatica alle biotecnologie, le attività di ricerca
di base possono portare direttamente alla creazione di prodotti e il
tempo di ritorno degli investimenti nella ricerca è molto più rapido come
testimoniano gli utili delle società hi-tech nella farmaceutica o nel
software.
Una buona correlazione è evidente tra il tasso di crescita
economica e il tasso di crescita della spesa per la ricerca e sviluppo. In
Europa, nel periodo 1995-1999, i paesi con tassi di crescita della spesa
inferiori alla media hanno avuto anche tassi di sviluppo inferiori alla
media, mentre tutti i paesi con tassi di crescita della spesa superiori
alla media hanno avuto anche una prestazione economica superiore. In
122
secondo luogo perché l’impiego efficace delle nuove tecnologie richiede
che l’insieme della forza lavoro sia dotato di un’elevata qualificazione.
Da qui la rilevanza economica degli investimenti nel capitale umano,
nella formazione scolare e professionale e nell'aggiornamento. La spesa
pubblica e privata, per le attività di ricerca e sviluppo è cresciuta
nell'area OCDE nel corso degli anni ‘90 al ritmo di circa il 4% annuo.
Dopo un generalizzato declino della spesa (in % sul Pil) nel corso dei
primi anni ‘90, a partire dal 1994, negli Stati Uniti e in Giappone la
spesa - in primo luogo per gli investimenti del settore privato, che
coprono circa il 75% della spesa - è tornata a crescere più del PIL,
mentre in Europa l’incidenza sul reddito è rimasta declinante. La spesa
per la ricerca e sviluppo è cresciuta soprattutto nel settore privato e
soprattutto negli Stati Uniti.
Nella gran parte dei paesi sviluppati,
invece, è declinata la quota di spesa pubblica (sia in rapporto al PIL che
al totale della spesa) e se ne è modificata sia la composizione che la
destinazione.
Il tratto essenziale è costituito dalla contrazione, molto
accentuata negli Stati Uniti, della ricerca pubblica legata alle attività
militari. Ciò nonostante, ancora nel 1999 alla difesa era destinata il
53% della spesa pubblica in ricerca e sviluppo degli Stati Uniti (ma era
il 70% nel 1987) e il 15% nei paesi europei (ma il 35% in Gran
Bretagna). Nello stesso periodo è invece aumentata la spesa pubblica
nel settore della ricerca medica e farmaceutica (+10% in Giappone, +8%
negli Stati Uniti, +5% in Europa), trainata in particolare dagli
investimenti nella ricerca biotecnologica. Lo sviluppo della ricerca si è
tradotto in una crescita accelerata del numero di brevetti e della
proprietà intellettuale. Tra il 1990 e il 1997 le domande di brevetto sono
cresciute di oltre il 5% annuo, con una forte concentrazione nei settori
delle biotecnologie (+10%) e dell’ICT (+8%). I brevetti sono estremamente
123
concentrati nei paesi sviluppati: il 35% è registrato dagli Stati Uniti, il
32% da paesi dell’Unione Europea e il 27% dal Giappone.
Le tecnologie dell'informazione e della comunicazione sono state finora il
cuore della nuova economia della conoscenza. Come mostra la rapida
crescita della produttività del lavoro avvenuta nella seconda metà degli
anni ‘90 negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei a più alta densità di
ICT, raggiunta una certa soglia critica, lo sviluppo delle tecnologie della
comunicazioni e dell'informazione ha permeato l’insieme del sistema
economico consentendo un cambiamento delle tecnologie di produzione,
di organizzazione delle imprese e dei mercati, di gestione del consumo.
E’ cambiato il modo di operare delle economie e della vita individuale e
sociale. La connessione informatica trasforma radicalmente il concetto
di distanza e di mercato locale e tendenzialmente determina una
concorrenza mondiale istantanea, consentendo di superare molti vincoli
fisici e informativi per il commercio, le transazioni finanziarie, la ricerca.
L’accesso alle tecnologie dell’informazione e comunicazione è cresciuto
rapidamente in questi anni. Il ritmo di diffusione delle nuove tecnologie
- in primo luogo Internet e la telefonia cellulare - è senza precedenti.
Dai 20 milioni di utilizzatori di Internet e dalle poche migliaia di siti web
del 1995 si è giunti a oltre 400 milioni di utilizzatori e 20 milioni di siti
web a fine 2000.
Negli ultimi due anni gli utilizzatori Internet sono
raddoppiati negli Stati Uniti e quadruplicati negli altri paesi sviluppati.
Nell'area dei paesi OCDE gli abbonati ad Internet sono tra il 10% e il
35% della popolazione e nei paesi scandinavi gli utilizzatori abituali
sono superiori al 50% della popolazione adulta. Anche la disponibilità
di personal computer è cresciuta in maniera significativa.
Nei paesi
sviluppati tra il 20 e il 70% della popolazione dispone di un personal
124
computer ed in quasi tutti i paesi almeno la metà delle famiglie ne
possiede uno.
L’ingresso nell'economia della conoscenza e l’accesso alle tecnologie
dell’informazione non è però stato uniforme. Vi è uno scarto immenso il digital divide- tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Ma vi è
anche un ampio fossato che divide, all'interno dei paesi sviluppati il
gruppo di quelli ad alta tecnologia (in primo luogo Stati Uniti e paesi
nordici dell'Europa) dagli altri paesi sviluppati (in primo luogo i paesi
dell'area mediterranea).
Gli investimenti nelle infrastrutture possono però significare un
sacrificio della soddisfazione di bisogni fondamentali, acuendo le
ineguaglianze tra classi sociali e tra popolazione urbane e popolazione
rurale.
La Malesia ha investito 3,6 miliardi di dollari per il suo
Multimedia Super Corridor, ma la gran parte delle strutture scolastiche
è priva di computer e il 10% della popolazione è ancora privo di energia
elettrica.
Ma per questi paesi le tecnologie informatiche e delle
telecomunicazioni possono consentire un salto di sviluppo, una rottura
di continuità.
Gli esempi sono già visibili: l’espansione dell'economia
globale e delle tecnologie ICT hanno creato nuove opportunità per
attività di nicchia. Pur in un contesto di deprivazione culturale, alcuni
paesi in via di sviluppo possiedono centri di eccellenza e risorse
intellettuali e tecnologiche. Bangalore, in India, per sempio, è uno degli
“hub” tecnologici più importanti del mondo. Ma anche in altre aree, in
Brasile, in Sud Africa, in Tunisia, in Malesia, oltre che in Corea e a
Taiwan, vi sono aree di ricerca e sviluppo delle tecnologie informatiche e
di telecomunicazione di eccellenza.
Da queste aree oggi si esportano
non solo tecnologie, ma, soprattutto, capitale umano, ricercatori,
tecnici, che soddisfano i fabbisogni dell'industria e dei servizi degli Stati
125
Uniti e dei paesi europei, determinando una diaspora che impoverisce le
risorse di questi paesi e ne mina le possibilità di sviluppo.
126
CAPITOLO III
Analisi comparativa
Prefazione
Dopo aver analizzato tutti gli aspetti fondamentali dal punto di vista
teorico delle economie basate sulla conoscenza, si vuole cercare, nei
prossimi paragrafi, di portare alcuni esempi pratici che mostrino a
tutt’oggi quali paesi abbiano scelto la strada dello sviluppo tecnologico
come punto cardine della crescita economica.
Abbiamo visto attraverso i precedenti capitoli i principali temi legati alle
componenti
delle
economie
basate
sulla
conoscenza
(Knowledge
Economy) così come si è cercato di rendere chiaro la relazione che esiste
tra sviluppo economico e ricerca e sviluppo.
Dopo un breve paragrafo introduttivo attraverso il quale si potrà vedere
il diverso approccio di alcuni paesi alle strategie di incentivo sugli
investimenti in R&S, vedremo in particolare gli aspetti di evoluzione di
alcune economie da industriali a basate sulla conoscenza.
Questo servirà come base analitica per comparare l’attuale situazione
dell’Europa che nel panorama mondiale presenta quote di investimenti
in R&S decisamente inferiori rispetto a paesi quali gli Stati Uniti, Nuova
Zelanda, Canada, Giappone etc…
A tal proposito sarà sviluppato in particolare il nuovo obbiettivo
proposto dalla Commissione Europea ed approvato dal Parlamento
Europeo per raggiungere entro il 2010 la quota del 3% di investimento
127
del PIL nazionale in ricerca e sviluppo per poter far fronte alla crescente
competitività degli altri paesi e per poter donare nuovi impulsi ad
un’economia
europea
stagnante
ed
ancora
fortemente
legata
all’industrializzazione.
Introduzione
Secondo il Professor Lester Thurow54 l’economia della è proprio
l’abbinamento di formazione ed innovazione tecnologica.
Senza uno
sforzo continuo e mirato nei settori della formazione e dell’innovazione
tecnologica sarà difficile per un Paese rimanere competitivo a livello
internazionale. E ciò vale ancor più in tempi di globalizzazione, come
abbiamo spiegato nel corso del primo capitolo di questo lavoro. Gli Stati
Uniti hanno sempre spinto in questa direzione e non a caso, sottolinea
il professor Thurow, investono costantemente in ricerca e sviluppo circa
il tre per cento del loro enorme prodotto interno lordo.
La loro supremazia su moltissimi settori viene da un’acuta e tempestiva
capacità di previsione.
Per esempio, nelle biotecnologie l’attuale
monopolio degli USA si basa anche sulla tempestività degli investimenti
in formazione. “All’M.I.T. – spiega Thurow – aprimmo quarant’anni fa il
primo corso di microbiologia.
In Giappone ci arrivarono 20 anni più
tardi”55. Negli Stati Uniti, la propensione alla ricerca viene alimentata
costantemente anche se non si intravede un ritorno immediato: per
esempio sono stati fatti enormi investimenti nelle fibre ottiche che, per il
momento, non trovano spazio sul mercato, anche se per molti
industriali ed economisti è solo una questione di tempo.
54
55
Professore di Management e di Economia all’M.I.T di Boston
L. Thurow, M.I.T. Boston, 2002.
128
Moltissimi studi si stanno inoltre concentrando sui cibi geneticamente
modificati, che l’Europa “scruta” con grande sospetto. “E’ un altro
campo nel quale gli Stati Uniti stanno accumulando enormi vantaggi
anche per la maggior capacità del sistema di accettare il valore del
rischio.
Un rischio calcolato, perché tiene conto dei responsi
rassicuranti delle nostre istituzioni di sanità, di cui gli americani si
fidano”56.
Lo sforzo tecnologico è fondamentale, ma da solo non basta. La
tecnologia – sempre secondo Thurow – da sola non fa il business. Per
questo occorrono gli imprenditori, capaci di mixare un’innovazione
tecnologica con tutti gli altri aspetti che determinano l’aderenza al
mercato di un determinato prodotto.
Ma gli imprenditori possono e
devono poter sbagliare, fare mille tentativi prima di riuscire. E possono
far ciò se la società in cui operano tollera il fallimento. Altrimenti si
preferirà non rischiare57.
Questo tipo di strategia è poco riconosciuta nei mercati dell’Unione
Europea ed in particolar ein Italia con la conseguenza della perdita di
posizioni nel panorama internazionale. Tutto ciò vale ancora di più in
tempi di globalizzazione, una globalizzazione che, in mancanza di un
governo globale, si presenta allo stato attuale “senza regole” dove la
56
L. Thurow, M.I.T. Boston, 2002.
Negli Stati Uniti, secondo quanto riportato dal professor Lester Thurow, se un imprenditore non ha alle
spalle almeno un fallimento non viene preso sul serio dai possibili finanziatori. Si accetta il fallimento e
lo si considera un momento normale quando si è alla ricerca di nuove vie. Anzi, si è notato che i progetti
di nuove società ad alto contenuto tecnologico presentati dopo due tentativi falliti sono quelli che hanno
le maggiori probabilità di successo. Altrove non si ha la stessa tolleranza per il fallimento. In Paesi come
il Giappone, ad esempio, la tolleranza è inesistente ed un imprenditore che incappa nel fallimento, per il
disonore, può giungere al suicidio. Al contrario, l’accettazione della possibilità di fallimento è – secondo
Thurow - uno dei motivi del successo degli Stati Uniti e della stasi di Paesi come il Giappone, insieme
alla presenza di altri elementi di dinamicità come la “distruzione creativa di posti di lavoro”. L’elevata
possibilità di licenziare, sempre secondo il pensiero del professore del M.I.T. di Boston, pur comportando
problemi rilevanti soprattutto per gli over 55, ha come aspetto positivo la messa sul mercato di nuove
energie, che potranno essere reimpiegate in filoni emergenti.
57
129
concorrenza diventa il paramentro principale di confronto tra imprese e
tra nazioni.
Naturalmente, anche in tempi di globalizzazione, recessioni e crolli
finanziari sono “fisiologici” ed è in queste fasi che diventa fondamentale
l’appoggio e le azioni a carattere politico. Per esempio la leva fiscale, i
negoziati, le partnership, le fuzioni etc… Anche per Richard Locke58,
“un progetto di cooperazione e di scambio scientifico, la qualità del
capitale umano, per accrescere in particolare le competenze tecniche e
manageriali, sono elementi fondamentali per il successo di un Paese”59.
E gli esempi di economie da anni in difficoltà ed ora entrate a pieno
titolo nell’economia della conoscenza (come nel caso della Svezia)
dimostrano che i cambiamenti possono avvenire anche nel giro di pochi
anni. Caso ancor più eclatante quello dell’Irlanda dove, a parte la leva
fiscale, secondo è stato fondamentale il forte investimento fatto dal
governo nell’ “education”, in particolare quella universitaria.
Alcuni esempi di Economie della Conoscenza
Come abbiamo detto precedentemente l’attenzione dei governi nel
promuovere e stimolare lo sviluppo di economie basate sulla conoscenza
è fondamentale.
Molti paesi hanno investito nella formazione, ma
anche nella crescita della società verso le nuove tecnologie, verso nuovi
valori e verso l’accettazione dell’introduzione di nuove tecnologie e nuovi
prodotti. Ma non tutti i paesi hanno scelto la medesima strada e gli
approcci, dovuti anche al diverso substrato storico sociale, hanno
58
59
Professore di politica comparativa ed economia politica e direttore del M.I.T.-Italia
http://www.netmanager.it/Site/Tool/Article/view_html?ida=6924&idc=318
130
condotto a risultati diversi, ma con un unico obbiettivo: la crescita
economica ed il rafforzamento economico in un’economia globale i
rapido mutamento.
Stati Uniti e Canada hanno sviluppato concetti e teorie generali.
L’Unione Europea si può dire che abbia sostenuto alcuni progetti pilota
per
supportare
l’industria
e
promuovere
una
coesione
sociale.
Inghilterra e Nuova Zelanda si sono focalizzate sulla competitività delle
infrastrutture. Gli Stati Uniti hanno utilizzato questa nuova economia
per stimolare la produzione di ricchezza, mentre l’UE ha enfatizzato lo
sviluppo
regionale.
Il
Giappone
ha
fatto
una
fortissima
leva
sull’economia della conoscenza per cercare di sbloccare la difficile
congiuntura economica utilizzando in particolare le ICTs.
Vediamo ora attraverso un breve escursus le principali caratteristiche di
alcune delle più incisive economie mondiali che hanno impegnato il loro
futuro sullo sviluppo della conoscenza e della ricerca.
Australia
Nel 1998 l’Australia era una delle economie mondiali con il tasso di
crescita superiore (4.9% di crescita del PIL). Parte di questo successo
risiede nelle iniziative pubbliche e private che hanno posizionato
l’Australia tra i paesi più avanzati tecnologicamente, con un alto
contenuto di innovazione e di utilizzo delle ICT.
Questi sforzi sono
coordinati da un organismo nazionale statale (National Office for the
Information Economy) con l’obiettivo di aumentare i profitti della nuova
economia e la sua espansione nella comunità industriale e sociale.
131
Per esempio il numero di aziende che sfruttano i servizi di commercio
on-line è cresciuto di circa il 100% in meno di 12 mesi nel 1998.
All’inizio del 1999 oltre 48 mila società avevano registrato il loro
dominio on-line ed utilizzavano servizio di ISP.
I
profitti
generati
dall’industria
dell’informazione
australiana
in
quell’anno ammontavano a circa A$60 miliardi. L’Australia rappresenta
solamente l’1.2% del PIL mondiale, ma genera circa un 2.3% di attività
globale nell’industria dell’ICT.
Sotto il punto di vista dell’aumento dell’occupazione, lo sviluppo
dell’economia
basata
sulla
conoscenza
ha
portato
un
notevole
incremento dei nuovi posti di lavoro i quali sono aumentati solo per il
settore dell’ICT del 46% negli ultimi 10 anni, rispetto ad un aumento del
16% medio per gli altri settori. Nel 1998 il tasso di disoccupazione del
settore dell’ICT non raggiungeva il 2%.
Come vedremo successivamente per quanto riguarda il panorama
Europeo, l’importanza dello sviluppo regionale determina dei forti
impulsi di crescita all’interno di una stessa nazione.
In Australia questo fenomeno è chiaramente riscontrabile con lo “State
of Victoria”.
Già nel 1996 il governo dello stato di Vittoria aveva
adottato una strategia di sviluppo volta verso la tecnologia e la
multimedialità, con il famoso “Victoria 21”, con lo scopo di indirizzare lo
stato verso un rapido e sicuro sviluppo economico e per attirare gli
investimenti sia interni che esogeni. Il progetto “Victoria 21” ha favorito
l’aumento di investimenti in R&S generando la crescita dell’occupazione
e creando una nuova e forte immagine di “marca” per Vittoria
nell’ambito dello sviluppo delle ICTs, come “centro di eccellenza”
nell’economia globale.
I risultati di questi investimenti sono stati dal 1996 la creazione di 10
ila nuovi posti di lavoro e un flusso di investimenti annuo di A$ 2
132
miliardi (solo per la regione di Vittoria).
Tutto ciò ha permesso di
attirare numerosi attori nel mercato dei servizi, comunicazioni etc… di
paesi esteri che hanno trovato in Vittoria un fertile terreno di sviluppo e
di investimento.
Anche se il caso “Victoria 21” si può considerare come esemplare, il
governo australiano in generale ha comunque investito notevolmente
per accelerare lo sviluppo del paese verso un’economia basata sulla
conoscenza, offrendo sovvenzioni e defiscalizzazioni per gli investimenti
in R&S ed agevolando gli investimenti stranieri nel paese.
Finlandia
Il caso della Finlandia comporta caratteristiche ben diverse rispetto
all’Australia, non solo per le forti differenze socio-culturali, ma per la
stessa organizzazione dell’economia dei due paesi.
La Finlandia presenta un territorio molto vasto, disseminato di laghi e
foreste, con una densità di popolazione bassa.
Per lunghi anni
l’industria del legname ha rappresentato la forza primaria del paese.
Oggi questo settore rappresenta solo il 3% del PIL nazionale.
Negli ultimi 50 anni l’occupazione nel settore del legname è sceso dal
70% al 6%. Questo per un cambio radicale di obiettivi del paese che
hanno investito pesantemente sullo sviluppo dell’industria dell’ Hightech, aiutando a far crescere il PIL di oltre 5 volte. Tanto le industrie
quanto la società ha accettato cambi strutturali nell’organizzazione del
lavoro e nell’impiego. Molte industrie si sono riconvertite all’economia
basata sulla conoscenza.
Esempio chiave dell’economia finlandese e’
Nokia: in origine una delle più importanti industrie di trattamento delle
polpe di cellulosa, ha saputo cambiare radicalmente il suo obiettivo
primario (missione), diventando oggi il leader mondiale delle ICTs.
133
Anche in questo caso possiamo notare come il Governo abbia svolto un
ruolo primario nello sviluppo strategico della nuova economia del paese.
La Finlandia ha saputo diversificarsi per accogliere l’avvento delle nuove
tecnologie
in
maniera
attiva
nell’innovazione tecnologica.
diventando
uno
dei
paesi
leader
Si può notare come l’avvio dato dal
governo sul cambiamento dell’economia sia stato accolto positivamente
dalle imprese, tanto che oggi le imprese finlandesi investono il 10.4% in
ricerca e sviluppo contro una media del 4.6% mondiale.
Questo sistema dinamico e rivolto verso l’investimento in R&S è stato
abbinato ad un forte approccio culturale definito “learning economy”
che ha portato alla creazione di figure professionali capaci e competitive
nel quadro internazionale.
Irlanda
L’Irlanda ha saputo trasformare la propria economia da una situazione
di disastro finanziario e di stagnazione economica, ad una delle più
dinamiche economie del mondo.
Tutto questo nel lasso di un solo
decennio.
L’economia irlandese è stata per lunghi anni un modello di ristrettezze
fiscali, di riforme, di tagli e dubbie scelte organizzative. Ma quando nel
periodo 1990 – 1997 l’economia ha incominciato a crescere di poco
sotto il 7% (in comparazione al 2% medio dell’UE), si può che ha saputo
dare un forte impulso attraverso:
- il forte investimento nell’educazione (specialmente tecnica)
- la correzione dei problemi fiscali del paese attraverso adeguate riforme
monetarie
- il controllo delle spese pubbliche e dei costi
134
- la rapida privatizzazione di imprese e settori produttivi
- una scelta strategica di posizionamento del paese nel centro delle
transazioni finanziarie europee
- la creazione di incentivi per stimolare l’economia con forti sgravi fiscali
I fondi messi a disposizione dall’Unione Europea hanno giocato un ruolo
predominante nello sviluppo dell’economia irlandese, ma le forze locali
hanno saputo adattarsi velocemente alla necessità di cambio e di
sviluppo verso un’economia basata sulla conoscenza.
Il tasso di
emigrazione dei giovani oggi è diminuito drasticamente e si può
addirittura notare un riflusso dei precedenti emigrati grazie ad un
notevole incremento dell’occupazione ed alla creazione di nuovi posti di
lavoro.
Canada
Sovente oscurato dall’economia degli Stati Uniti, il Canada resta un
valido modello di sviluppo basato sulla nuova economia. Se guardiamo
agli ultimi dati statistici, il Canada presenta una solida base di
infrastrutture, così come una seria politica statale di supporto ed
investimento.
Già nel settembre 1995 l’IHAC (Information Highway
Advisory Council) aveva presentato le strategia da adottare nel paese
per sviluppare l’utilizzo delle ICTs. Attraverso un documento (Preparino
Canada for a Digital World) l’IHAC promuoveva l’implementazione di 5
principi base per una rapida e corretta trasformazione dell’economia
canadese:
- creare e rendere operativa una rete nazionale
- agevolare lo sviluppo pubblico e privato
135
- assicurare la privacy e la sicurezza delle reti
- stimolare la competitività nei servizi
- sostenere il “lifelong learning” (apprendimento continuo)
La strategie canadese riconosce l’importanza centrale dell’educazione e
la necessità per i giovani di essere introdotti all’utilizzo delle tecnologie
per creare il cuore di un’economia basata sulla conoscenza. Nel 1999 il
governo canadese annunciava un investimento di US$ 1.2 miliardi in
progetti legati all’ICT, compreso un investimento di US$ 134 milioni per
lo sviluppo del sistema educativo canadese attraverso il progetto
“School Net”.
Il Canada ha dunque saputo raggiungere in un breve periodo un elevato
sviluppo delle tecnologie ed una sostanziale mutazione da economia
industriale ad economia basata sulla conoscenza, posizionandosi tra le
più attive economie di questo genere, grazie a:
- una forte spesa sulle ICTs
- la competitività del suo settore di informazione e comunicazione
- il grado di liberalizzazione nel settore delle telecomunicazioni
- la forte modernizzazione del sistema delle ICTs
- i bassi costi per l’utilizzo delle ICTs
- la forte penetrazione dell’uso di nuove tecnologie in tutto il paese
- la crescita nella formazione60
A differenza di altri paesi, come abbiamo analizzato in precedenza,
possiamo notare che il Canada ha puntato molto sullo sviluppo delle
nuove
tecnologie
e
delle
infrastrutture
informatiche
e
di
60
Melnyk Max: “Annex B: Key Indicators for Benchmarking the Development of Canada’s Information
Highway” Industry Canada: http://strategis.ic.gc.ca/SSG/ih01637e.html
136
telecomunicazioni. Ciò ha portato negli ultimi anni un divario rispetto a
queste economie per quanto riguarda gli investimenti in ricerca e
sviluppo a discapito di una minore crescita del PIL. Per questo motivo
che a tutt’oggi il Canada malgrado gli sforzi e le strategie messe in atto,
si piazza solo a metà del gruppo delle economie che si possono definire
stabilmente basate sulla conoscenza. Ciò può anche essere una delle
ragioni per cui l’out-flow di risorse umane rimane in Canada un
problema grave, tanto che nel 1999 si poteva ancora contare
un’emigrazione di circa 300 mila persone verso la Silicon Valley ed un
altro 600 mila in altre zone.
Singapore
Singapore rappresenta sicuramente un valido esempio di sviluppo di
un’economia verso l’eccellenza dello sfruttamento della conoscenza.
Isola di solo 600Km² senza risorse naturali, ha accresciuto la sua
economia riuscendo ad aggiungere valore aggiunto ai prodotti di altri
paesi, ed ha sfruttato la sua posizione offrendo servizi bancari,
finanziari, logistici e di trasporto.
Singapore è stato uno dei primi paesi a scegliere la strada dello sviluppo
della conoscenza. Nel 1981 il governo dell’isola lancia un programma di
sviluppo con lo scopo di informatizzare i servizi dello stato. Nel 1986
viene creato il “National IT Plan” che con il progetto “IT200” detta i passi
per trasformare l’economia del paese in una “Intelligent Island”61.
Si possono oggi analizzare i risultati delle decisioni strategiche effettuati
agli anizi degli anni ’90 e si può notare come lo sviluppo della
conoscenza e la scelta di investire in R&S abbiano portato frutti positivi
61
Hardy Sarah, “Intelligent Island” Far Eastern Economic Review 1998
137
per l’isola. Il settore delle ICT di Singapore genera un rendimento di
US$ 7.3 miliardi (tra vendite di hardware, software e servizi IT). Oltre il
99% della popolazione è collegata all’unica rete a banda larga statale del
mondo: Singapore ONE che include ad oggi oltre all’accesso a tutti i
servizi statali anche a più del 50% dei servizi di e-commerce privati.
I forti investimenti in ICT avvicinano Singapore all’economia Finlandese
tanto da contendersi il posto di seconda economia leader nelle ICTs.
Stati Uniti
Gli Stati Uniti sono certamente il caso più utile per la comprensione di
uno sviluppo da un’economia industriale ad un’economia basata sulla
conoscenza.
All’inizio degli anni ’80, attraverso gli Stati Uniti molte
industrie chiudevano.
Un’economia ormai satura creava centinaia di
migliaia di disoccupati in ogni settore. Già nella metà degli anni ’90
questa situazione era capovolta tanto che il tasso di disoccupazione si
avvicinava al 5% ed era addirittura inferiore nel settore dell’high-tech.
Le ICTs e lo sviluppo dei servizi hanno creato un nuovo motore di spinta
dell’economia Americana e di riflesso hanno portato ad uno sviluppo
rapido di tutta l’economia mondiale.
Se analizziamo gli indici vediamo che PIL, occupazione, esportazioni,
investimenti,
stock-market
sono
positivi
mentre
disoccupazione,
inflazione e tassi di interesse sono giustamente negativi, segno di
un’economia forte ed in crescita.
Ad oggi la situazione è cambiata
sicuramente a causa di una congiuntura internazionale sfavorevole ed
anche a causa di una crescente economia europea che pian piano riesce
a imporsi sul piano internazionale in maniera sempre più importante.
Se riprendiamo il concetto Schumpeteriano di “creative destruction”
(distruzione creativa) analizzato nei capitoli precedenti, possiamo notare
138
come la perdita di quasi 44 milioni di posti di lavoro si sia trasformata
attraverso il processo di aggiustamento dell’economia del paese nella
creazione di 73 milioni di nuovi posto di lavoro, con un guadagno di
circa 29 milioni di posti di lavoro dal 1980. Ad oggi si può considerare
che il 55% dei posti di lavoro sono in settori nuovi rispetto alla
precedente economia industriale62.
Quello che appare come una miracolosa inversione di trend, altro non è
che
il
risultato
di
una
lungimirante
ed
innovativa
politica
di
investimento che gli Stati Uniti hanno saputo applicare correttamente:
- le imprese statunitensi sono state le prime a cogliere l’importanza dei
computer e delle tecnologie dell’informazione ed hanno investito capitali
importanti tanto da raggiungere il 40% dell’investimento totale mondiale
nel settore dell’informatica e ICT.
Negli Stati uniti sono presenti 5 volte il numero di computer per
lavoratore rispetto all’Europa ed al Giappone. Le industrie americane
investono pesantemente nelle nuove tecnologie, ma anche nella
necessaria formazione per un giusto “training” del personale.
- le industrie americane hanno saputo cambiare il loro core business
passando efficacemente da una produzione prettamente industriale ad
un’economia delle infrastrutture informatiche e dell’ICT.
Hanno
rimpiazzato i beni di massa con beni sofisticati che contengono una
grande porzione di capitale intellettuale.
L’esportazione di beni dagli
Stati uniti consiste per la maggior parte di beni con notevole valore
aggiunto che non devono semplicemente competere nel mercato dei
prezzi.
- in generale gli Stati Uniti spendono in ricerca e sviluppo più di ogni
altro paese ed il gap è in continua crescita.
62
Zuckerman Mortimer: “A Second American Century. Foreign Affairs” 1999
139
La particolarità della trasformazione degli Stati Uniti risiede nel mix di
elementi che hanno favorito la rapida introduzione di un nuovo tipo di
economia basata su concetti e forze nuove. L’elemento socio-culturale
rappresenta una parte essenziale di questa crescita e trasformazione
essendo un paese che promuove l’individualismo imprenditoriale, il
talento, l’innovazione ed il rischio.
Ed è proprio questa base socio-
culturale che differenzia gli Stati Uniti dagli altri paesi, nei quali è
generalmente il governo a farsi carico degli investimenti e delle
trasformazioni, mentre negli USA, il settore privato rappresenta una
componente primaria negli investimenti in ricerca e sviluppo.
Gli operatori impegnati nell’attività di R&S negli Stati Uniti sono
raggruppabili in tre categorie:
- l’industria privata
- la pubblica amministrazione
- le università
A queste si deve aggiungere un quarto gruppo che sta assumendo un
ruolo sempre più importante, i centri di ricerca senza scopo di lucro.
Secondo recenti informazioni fornite dall’OECD ed elaborate dall’Airi,
(Associazione Italiana per la Ricerca Industriale), che sistematicamente
raccoglie dati riguardo la R&S nei principali paesi industrializzati,
l’attività di ricerca negli Stati Uniti viene svolta per più del 70% dalle
imprese private attraverso laboratori interni o tramite collaborazioni
interorganizzative, circa il 15% dalle università, poco più del 10% è
attuata da enti pubblici e circa il 3% da associazioni non profit, il cui
contributo ha registrato negli ultimi anni un trend crescente (Tab. 5).
140
Tabella 5
Spesa per R&S globale in USA per settore esecutore (composizione per settore).
Confrontando questi dati, che si riferiscono all’ultimo decennio, con
rilevazioni precedenti, emerge che il ruolo dell’industria privata è
aumentato, passando dal 67% del 1970, al 69% del 1980 e al 71% del
1990.
Tradizionalmente l’attività di R&S svolta dal settore privato è legata alle
imprese di grandi dimensioni per la necessità di disporre di ingenti
capitali da investire nel processo innovativo. Molti studi negli anni ‘60 e
‘70 sono stati indirizzati alla ricerca di una relazione tra la dimensione
dell’impresa e l’impegno diretto nella creazione di nuove tecnologie. Vi
sono una serie di argomentazioni convincenti che giustificano il pesante
ruolo delle grandi imprese nel processo di creazione di innovazione:
-
la
struttura
finanziaria
delle
imprese
di
grandi
dimensioni
consentirebbe di accedere all’autofinanziamento, fonte indispensabile
per lo sviluppo dell’attività di ricerca, dato l’elevato grado di incertezza
connesso63;
63
M. Sombrero: “Innovazione tecnologica e relazioni tra imprese” La Nuova Italia Scientifica, Roma
1996
141
- esiste una dimensione minima al di sotto della quale non è realizzabile
un dipartimento di R&S in termini di abilità specialistiche, tecniche e
scientifiche e di attrezzature necessarie per lo sviluppo e l’esecuzione
delle prove;
- per le piccole imprese risulta gravoso il sostenimento delle spese
necessarie per mettere a punto un’invenzione, per trasformarla in
innovazione e renderla utilizzabile commercialmente. Tali costi possono
essere anche dieci volte superiori al costo dell’innovazione di base;
-
l’impresa
considerata
deve
necessariamente
l’elevata
rischiosità
avviare
dell’attività
tanti
di
progetti,
ricerca,
poiché
molti
si
riveleranno un fallimento;
- è necessario realizzare alti volumi di vendita per coprire gli ingenti
costi fissi sostenuti;
- un’impresa di grandi dimensioni ha la possibilità di sfruttare
l’innovazione in più aree e mercati attraverso la realizzazione di
economie di scopo.
Le analisi empiriche non hanno evidenziato una precisa relazione tra
dimensione aziendale e percentuale del fatturato destinata all’attività di
R&S. Poiché però, per misurare il contributo al processo innovativo ciò
che è rilevante è il valore assoluto delle spese per la ricerca è indubbio il
ruolo della grande impresa.
Tuttavia oggi le fonti del processo
innovativo stanno cambiando ed emerge l’importanza di modelli di
collaborazione interorganizzativa.
L’innovazione è sempre più il risultato di un’interazione di più soggetti
economici: imprese di piccola e media dimensione, centri di ricerca e
università. Le relazioni tra le imprese consentono agli attori coinvolti di
allargare e valorizzare il proprio patrimonio di conoscenze e competenze,
attraverso lo scambio di know-how e lo sfruttamento di sinergie esterne.
142
Sebbene
i
dati
sulle
risorse
finanziarie
investite
nelle
attività
collaborative inter-impresa siano abbastanza limitati, sono comunque
sufficienti per concludere che dall’inizio degli anni ’80 le alleanze e le
collaborazioni tra imprese per lo sviluppo di innovazione sono in
crescente aumento. Dati recenti64 dimostrano come nel 1995 le imprese
statunitensi hanno speso più di cinque miliardi di dollari per le attività
di R&S condotte all’esterno, tramite contratti con altre imprese,
università e organizzazioni non profit. Questo ammontare corrisponde al
4,7% dei fondi spesi in quell’anno per la ricerca intra-muros e
rappresenta un sostanziale incremento rispetto a quanto speso
precedentemente nelle ricerche extra-muros. Infatti all’inizio degli anni
’90 tale quota era del 3,6% mentre nei primi anni ’80 del 2%. Il boom
degli
accordi
di
cooperazione
negli
USA
si
è
avuto
dopo
la
promulgazione del “National Cooperative Research Act” (NCRA) del 1984
e del “Federal Technology Transfer Act” del 1986 che hanno permesso le
collaborazioni formali e facilitato la nascita di joint venture per la
ricerca.
Il principio di fondo che ha guidato i legislatori statunitensi è stata la
constatazione che la cooperazione nella R&S non solo non avrebbe
ostacolato la competizione fra le imprese (e quindi non sarebbe andata
contro la restrittiva normativa anti-trust) ma l’avrebbe sicuramente
promossa,
grazie
al
miglioramento
delle
opportunità
in
campo
tecnologico che sarebbero scaturite da lavori congiunti.
64
J. E. Jankowski: “R&D: foundation for innovation” Research Technology Management, March/April
1998
143
Figura 27
Crescita delle collaborazioni per R&S negli USA.
Il grafico della Figura 27 mostra la crescita graduale del numero di
accordi di questo genere: tra il primo gennaio 1985 (entrata in vigore del
NCRA) e il 31 dicembre 1995 furono registrate 575 research joint
venture (RJV); alla fine del 1996 il numero saliva a 665 (Vonortas,
1997). La cooperazione nella ricerca ha avuto luogo soprattutto nelle
industrie high-tech: più di un quinto degli accordi ha interessato le
telecomunicazioni e numerosi sono stati siglati nei settori dell’energia,
della protezione ambientale, della chimica, del software e dei trasporti.
In alcuni campi, come quello dei materiali innovativi, delle attrezzature
industriali, degli apparecchi ottici e degli strumenti di precisione sono
stati registrati alti tassi di incremento tra il 1994 e il 1995. Poco
propense alla collaborazione si sono invece dimostrate le industrie
farmaceutiche, i settori della biotecnologia e delle apparecchiature
mediche.
Naturalmente fanno parte di queste RJV anche operatori stranieri; circa
un terzo delle imprese coinvolte (1.092 su 3.429) non sono statunitensi.
Il Canada, il Giappone, il Regno Unito e la Germania contano ognuno
più di 100 partecipanti; presenze consistenti provengono anche da
Francia, Italia, Australia e Svezia.
144
Dei 2.337 operatori statunitensi
l’86% è costituito da imprese (di cui più della metà di piccola-media
dimensione), il 4% da enti pubblici e il restante 10% da organizzazioni
non profit.
Lo sviluppo di relazioni interorganizzative risponde alla necessità di
superare l’isolamento dei centri di ricerca e promuovere il trasferimento
delle conoscenze. Un ruolo importante in questa rete di collaborazioni è
assunto dalle università. L’alta qualità del lavoro di ricerca condotto
all’interno degli istituti accademici statunitensi ha incentivato la nascita
di esperienze come quelle dei parchi scientifici e dei poli tecnologici. Gli
science-parks sono aree attrezzate dove si svolgono in modo continuo ed
istituzionalizzato funzioni di sviluppo, progettazione e costruzione di
prototipi, solitamente ubicati nei pressi di uno o più istituti di
formazione tecnologica avanzata. I parchi scientifici costituiscono un
interessante ed efficiente mezzo per conseguire buoni risultati nella
R&S evitando la duplicazione di sforzi innovativi isolati e il conseguente
spreco di risorse
Le imprese e l’amministrazione pubblica costituiscono le principali fonti
di finanziamento della R&S statunitense. Come si può notare dalla
Tabella 6 la percentuale di ricerca finanziata dall’industria privata è
passata dal 50,2% del 1988 al 59,9% del 1995, mentre il ruolo dello
Stato è risultato, nell’arco dello stesso periodo, decrescente.
Tabella 6
145
Spesa per R&S globale in USA per settore finanziatore (composizione
percentuale).
“Infatti, nel 1988 il 47,8% delle spese totali per R&S del paese erano
state sostenute dalla pubblica amministrazione contro una quota del
36,1% nel 1995.
Per poter spiegare le motivazioni di questo calo,
iniziato sul finire degli anni ottanta, si deve ricorrere ad un’analisi delle
ripartizioni degli stanziamenti pubblici per obiettivi socioeconomici. I
dati forniti dalla NSF rivelano che nel 1987 il 69% dei fondi statali per la
ricerca era destinato a scopi militari e solo lo 0,2% allo sviluppo
industriale, cioè al miglioramento della produttività e allo sviluppo di
tecnologie nelle imprese. Con la fine della guerra fredda sono diminuiti
i finanziamenti dello Stato alla ricerca militare (la cui percentuale è
rimasta comunque ancora superiore al 50%) ma non c’è stato un
contemporaneo
aumento
dell’impegno
nelle
altre
categorie
socioeconomiche. Emerge quindi un trend decrescente del contributo
governativo all’attività di ricerca e un ruolo sempre più preponderante
delle imprese private come finanziatrici del processo innovativo.
Lo
stesso quadro è confermato dai dati sull’evoluzione della spesa pubblica
per R&S in percentuale del PIL che mostrano un andamento crescente
fino al 1987 (da 1,22 del 1980 a 1,28 del 1987) poi un’inversione di
tendenza (1,27 nel 1988 e 1,22 nel 1989).
Anche le recenti rilevazioni della NSF convalidano questa situazione e
forniscono dati in linea con l’andamento che emerge dalla Tabella 6.
Nel 1997 il 65% dell’attività di ricerca statunitense è stata finanziata
146
dalle imprese, il 30% dalla pubblica amministrazione, il 3% dalle
università e il restante 2% da altre organizzazioni nazionali”65.
Solo una modesta percentuale dei fondi statali viene erogata come
supporto alle imprese: la NSF ha stimato che tra il 1981 e il 1994 circa
24 miliardi di dollari sono stati forniti all’industria tramite crediti
d’imposta per attività di ricerca sperimentale ed incrementale, pari ad
una percentuale di circa il 3% di tutti i fondi statali disponibili per R&S
in questo periodo (NSF, 1996).
Tabella 7
Spesa per R&S in USA, imprese, per settore finanziatore (composizione
percentuale).
Osservando i dati della Tab. 7, che si riferiscono alla R&S svolta dalle
sole imprese, si nota che la maggioranza dei finanziamenti proviene da
risorse interne e un contributo sempre minore viene fornito dalla
pubblica amministrazione (da più di un quinto nel 1991 a circa un
sesto nel 1995).
Le imprese sono sempre meno dipendenti dai fondi
federali: nel 1997 questi ultimi hanno finanziato il 15% della ricerca
industriale, mentre nel 1987 ben il 33%; più della metà dei fondi
disponibili in quell’anno erano stati erogati a favore di imprese
costruttrici di aerei e missili.
65
J. E. Jankowski: “R&D: foundation for innovation” Research Technology Management, Marzo-Aprile
1998
147
Lo Stato continua ad essere il maggiore finanziatore delle università per
lo svolgimento dell’attività di ricerca, anche se il suo impegno è in
continua diminuzione dall’inizio degli anni ottanta.
Circa l’80% dei
fondi destinati agli istituti accademici è erogato tramite tre agenzie
federali: gli Istituti Nazionali di Sanità (53%), la NSF (15%) e il
Dipartimento della Difesa (12%) che provvedono a distribuire gli
stanziamenti nei rispettivi campi di competenza.
Una caratteristica
peculiare
loro
delle
università
statunitensi
è
la
capacità
di
autofinanziarsi: dal 1980 al 1995 la percentuale di ricerca universitaria
finanziata da risorse interne è aumentata dal 14% al 18%. Gli istituti
accademici ricevono fondi anche dalle imprese private con le quali
collaborano per la realizzazione di progetto di ricerca.
Il rapporto
stretto, tipico del sistema statunitense, tra ambiente industriale ed
educativo è molto diverso da quello che caratterizza la realtà italiana in
cui l’impresa finanzia e l’università esegue.
In USA entrambi gli
operatori contribuiscono alle spese e l’università riesce a coprire buona
parte della sua quota grazie all’alta percentuale di autofinanziamento
che è in grado di produrre.
Il deficit europeo nell’investimento in R&S
Gli sforzi per la ricerca sono molto minori in Europa di quanto non
siano
negli
Stati
Uniti
o
in
Giappone,
e
la
situazione
si
è
significativamente deteriorata a partire dalla metà degli anni ‘90.
L'Unione Europea è una potenza scientifica di livello mondiale, con un
enorme potenziale di ricerca di alta qualità e di risorse umane
estremamente competenti.
Tuttavia, si sta acuendo il divario con i
principali concorrenti per quanto riguarda gli investimenti. Nel 2000,
148
gli Stati Uniti hanno speso in totale 287 miliardi di euro per la ricerca e
lo sviluppo (R&S), 121 miliardi di euro in più rispetto all'UE.
La differenza tra l'UE e USA è quasi raddoppiata dal 1994, anno in cui il
divario era di 43 miliardi di euro, raggiungendo gli 83 miliardi di euro
nel 2000. L'Europa destina alla ricerca una proporzione molto minore
della sua ricchezza (1,9% del PIL nel 2000) rispetto ai suoi principali
concorrenti, Stati Uniti (2,8%) e Giappone (3%).
Causa principale di
questo divario negli investimenti è il minor apporto del settore privato in
Europa al finanziamento della R&S, in confronto ad altre regioni del
mondo.
Secondo il Commissario europeo per la ricerca, Philippe Busquin,
“questa tendenza conferma quanto sia importante e urgente conseguire
l'obiettivo convenuto in occasione del Consiglio Europeo di Barcellona,
nel 2002, vale a dire l'aumento della spesa per la R&S in Europa, per
avvicinarsi al 3% del PIL entro il 2010, e pone l’accento sull'esigenza di
una discussione generale sul modo in cui il bilancio pubblico per la
ricerca possa stimolare al meglio l'investimento privato”.
149
Figura 28
Indicatori scientifici e tecnologici 2003.
L’Europa investe meno delle proprie ricchezze in R&D rispetto a Stati
Uniti e Giappone. Il Giappone ha già raggiunto l'obiettivo di investire il
3% del PIL in R&S, e gli Stati Uniti seguono a ruota (2,8% nel 2000).
Nell'Unione, invece, gli investimenti in R&S si attestavano all'1,94% nel
2000, e sono scesi al disotto del 2% per tutta la durata dell'ultimo
decennio.
Inoltre, l’Europa non sta recuperando terreno con Giappone e Stati
Uniti in termini di investimenti in R&S. La percentuale di PIL destinata
alla R&S è cresciuta, nella seconda metà degli anni ‘90, ad un ritmo
molto più lento nella UE (+0,6% all'anno) rispetto agli USA (+1,7%
annuo) o al Giappone (+1,8%). L'aumento del divario negli investimenti
nella seconda metà degli anni ''90 è dovuto essenzialmente alla scarsa
crescita della spesa di R&S da parte dei grandi paesi membri come la
Francia, il Regno Unito e l'Italia. Tuttavia, questo fenomeno viene in
150
parte compensato dal buon andamento di altri paesi membri, come la
Finlandia, la Grecia ed il Portogallo.
Figura 29
Percentuale di spese per R&S in rapporto al PIL.
Se la tendenza in atto prosegue, l'Unione Europea conseguirà al
massimo un tasso di circa il 2,2% - 2,3% entro il 2010.
È evidente
quindi che, se l'Unione deve aumentare il livello globale di spesa per la
ricerca, al fine di avvicinarsi al 3% del PIL entro il 2010, è necessario
compiere ora sforzi sostanziali, per creare le condizioni propizie ad un
cambiamento positivo.
Buona parte della carenza complessiva di investimenti nella R&S in
Europa può attribuirsi al basso livello di investimenti da parte del
151
settore privato europeo. La differenza nell’apporto del settore privato tra
le compagnie statunitensi ed europee rappresenta circa l’80% del
divario negli investimenti totale (Fig.30).
Figura 30
Percentuale del valore complessivo di spese per R&S, finanziate dall’industria (in
%).
L'aumento degli investimenti privati deve essere accompagnato da un
aumento degli investimenti pubblici. Nella seconda metà degli anni '90,
il finanziamento totale pubblico per la ricerca è cresciuto solo dello
0,5% nell'Unione - nonostante una crescita rapida in alcuni paesi
membri come il Portogallo (16,1%), la Grecia (9,2%), la Finlandia (7,2%)
e il Belgio (6%) - in confronto all'1,9% negli Stati Uniti e al 4% in
Giappone.
152
Un divario in aumento con ritardi nell’alta tecnologia
Come abbiamo visto pocanzi, la spesa per la R&S nell'UE e negli Stati
Uniti mostra un divario consistente e in rapida crescita, sia in termini
assoluti che come percentuale del PIL.
Tale divario ha raggiunto i 124 miliardi di euro correnti nel 2000 ed è
raddoppiato a prezzi costanti a partire dal 1994.
Massima parte di tale divario (pari a oltre l'80%), e gran parte
dell'aumento registrato negli ultimi anni, è dovuta agli investimenti
ridotti del settore delle imprese dell'UE. Oltre a ciò, va ricordato che il
governo statunitense stanzia almeno un terzo dei finanziamenti
destinati alla R&S a sostegno delle attività di Ricerca e Sviluppo delle
imprese; nell'UE i finanziamenti pubblici rappresentano soltanto la
metà di queste cifre (16%). Il divario in termini di intensità di R&S è
ancora più rilevante tra UE e Giappone: quest'ultimo infatti stanzia il
3% del PIL l per le attività di R&S.
Il settore delle imprese, inoltre,
contribuisce al 72% delle spese di R&S del Giappone, rispetto al 56%
dell'Europa e al 67% degli USA. Il raffronto con il Giappone presenta,
tuttavia, numerose limitazioni, visti i diversi ruoli svolti dal settore
pubblico e dal settore privato e visti i problemi del sistema finanziario
giapponese, che hanno indebolito le prestazioni economiche del
Giappone non evidenziando i benefici derivanti dall'alta intensità di
R&S.
L'aumento della produttività della manodopera, attribuibile in parte
all'innovazione tecnologica, è rallentato nell'UE nella seconda metà degli
anni '90, mentre nello stesso periodo negli Stati Uniti ha subito un
rialzo.
Inoltre, l'andamento degli scambi internazionali di prodotti di
alta tecnologia mette in evidenza le debolezze dell'Europa a livello di
153
competitività in alcuni segmenti tecnologici dell'economia: la quota del
mercato mondiale che l'Europa detiene a livello di prodotti di alta
tecnologia è ancora molto inferiore a quella degli Stati Uniti, con un
18% (esclusi gli scambi intra-europei) rispetto al 22% degli USA.
L'industria statunitense è molto più specializzata nell'alta tecnologia e
nei settori ad alta intensità di ricerca rispetto all'Europa, e ciò spiega in
parte il divario. Buona parte delle diversità tra USA e UE è conseguenza
di diversi investimenti nel settore della difesa e da diversi investimenti
nel settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione
(ICT).
Gli effetti di investimenti strutturali diversi non possono,
tuttavia, spiegare interamente il divario tra USA e UE a livello di
investimenti di R&S. In gran parte dei settori, compresi l'industria di
prodotti a bassa e media intensità tecnologica ed il settore dei servizi, le
imprese europee investono di meno, in proporzione alle vendite, rispetto
alle imprese omologhe americane. Ciò significa che le imprese dell'UE
tendono a specializzarsi in prodotti e servizi a minor intensità
tecnologica e rischiano così di perdere competitività rispetto alle rivali
più innovative, anche nei settori non altamente tecnologici che
rappresentano il nucleo dell'economia dell'Unione europea.
L’Europa dovrebbe pertanto incentivare il passaggio a settori ad alta
intensità di R&S che hanno grosse potenzialità di crescita e, fattore
forse ancora più importante, deve incentivare un maggiore impegno di
R&S in tutti i settori.
Le multinazionali rappresentano la maggiore percentuale di spesa in
R&S delle imprese e tendono sempre più ad investire sulla base di
un'analisi globale delle possibili sedi.
Una tendenza preoccupante in
questo senso è la sempre maggiore concentrazione negli USA delle spese
transnazionali di R&S, che denota un calo dell'interesse che l'Unione
154
Europea riveste a livello mondiale come sede per svolgere attività di
R&S rispetto agli Stati Uniti. Al contempo, un numero sempre maggiore
di PMI e di grandi imprese nazionali si trova a dover affrontare la
concorrenza internazionale sui propri mercati interni ed è costretto ad
aumentare le proprie capacità di innovazione conducendo attività di
R&S al proprio interno o commissionandole all'esterno.
Dai dati
disponibili si evince che in Europa le imprese più piccole investono
relativamente meno in R&S rispetto a quanto avviene negli Stati Uniti.
Ciò si spiega con l'esistenza di una serie di ostacoli connessi, ad
esempio,
con
le
risorse
umane,
l’accesso
a
fonti
esterne
di
finanziamento e ad infrastrutture locali adeguate, la divulgazione delle
conoscenze all'interno dell'UE e la creazione ed espansione di imprese a
base tecnologica.
L'intensità di R&S dei vari paesi e regioni dell'Europa è molto diversa: si
passa infatti dall'1% circa del PIL o meno degli Stati Membri
meridionali, al 3,4% della Finlandia e al 3,8% della Svezia.
Le
divergenze sono ancora più rilevanti tra le regioni all'interno dei vari
paesi. Anche le tendenze sull'intensità di R&S sono diverse: si registra
così una rapida crescita nei paesi del Nord, in Irlanda e in Austria,
mentre la percentuale di investimenti in R&S rispetto al PIL è scesa in
Francia e nel Regno Unito.
Un'attenzione particolare merita infine
l'evoluzione a livello interregionale, in quanto negli ultimi anni
l'andamento su scala regionale sembra aver fatto emergere divergenze.
A questo propositò analizzeremo più in dettaglio nel Capitolo successivo
la situazione attuale e le possibilità di sviluppo del Piemonte.
Anche il peso relativo degli investimenti pubblici e delle imprese varia
notevolmente tra i vari paesi dell'UE, con investimenti privati in R&S
superiori o prossimi ai due terzi degli investimenti complessivi per la
155
Ricerca in Finlandia, Svezia, Germania, Belgio e Irlanda e investimenti
inferiori al 30% in Grecia e Portogallo.
Nel complesso i paesi candidati all'adesione stanno facendo progressi
nel settore dell'R&S: hanno infatti un'intensità media di R&S pari allo
0,7% del PIL, simile a quella della Grecia e del Portogallo, con punte
dell'1,25% per la Repubblica Ceca e del'1,5% del PIL per la Slovenia. Il
tasso di finanziamento operato dalle imprese rimane però molto basso
in gran parte dei Paesi Candidati e per aumentarlo sarà necessario un
sostegno specifico.
Le
diverse
situazioni
esistenti
in
Europa
richiedono
politiche
differenziate ma coordinate tra loro per raggiungere quello slancio
comune necessario per conseguire l'obiettivo del 3%.
L’obiettivo del 3%
Nel marzo 2002 il Consiglio europeo di Barcellona ha formulato un
invito ad adottare iniziative per aumentare gli investimenti nella ricerca
e nello sviluppo tecnologico e colmare il divario che separa l'Europa dai
suoi principali concorrenti.
Gli investimenti nella ricerca, questa la
decisione del Consiglio europeo, dovranno passare dall'1,9% al 3% del
PIL dell'Unione europea entro il 2010, e la parte finanziata dalle imprese
dovrà essere aumentata fino ai due terzi del totale.
Come abbiamo visto, il divario negli investimenti per la ricerca tra
l'Unione europea e gli Stati Uniti già supera 120 miliardi di € e sta
rapidamente aumentando, con conseguenze allarmanti per possibili
futuri sviluppi in materia di innovazione, crescita e creazione di posti di
lavoro in Europa. Come illustrato tale divario si spiega con le condizioni
meno attraenti per gli investimenti privati nella ricerca in Europa,
156
dovute sia al fatto che il sostegno pubblico è inferiore e, forse, anche
meno efficace, sia alla presenza di diversi ostacoli nelle condizioni che
regolano la ricerca e l'innovazione in Europa.
Molti Stati membri hanno fissato i propri obiettivi nazionali in modo tale
da allinearli con quello europeo del 3% proposto dalla Commissione
Europea.
Ad esempio, sia la Francia che la Germania hanno fatto
proprio l'obiettivo del 3%, come pure la Slovenia, futuro Stato membro.
Molte
associazioni,
inoltre,
come
l'Unione
delle
Confederazioni
dell'industria e degli imprenditori d'Europa (UNICE) e la Tavola Rotonda
degli Industriali Europei (ERT), hanno sottolineato che conseguire
l'obiettivo
del
3%
riveste
un
importanza
fondamentale
per
la
competitività europea, ma che saranno necessari notevoli cambiamenti
politici affinché l'Europa possa attrarre maggiori investimenti nella
ricerca.
L'ERT
ha
posto
l'obiettivo
del
3%
al
centro
delle
raccomandazioni indirizzate al Consiglio europeo del marzo 2003, e
l'UNICE ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia. Le associazioni che
rappresentano le piccole e medie imprese (PMI) hanno riconosciuto
l'importanza di aumentare gli investimenti nella ricerca per i loro
aderenti.
Le
grandi
società
europee
progettano
di
mantenere
un
livello
significativo di investimenti nella ricerca, nonostante il rallentamento
della crescita economica in corso e, in particolare, nonostante la crisi
acuta che ha colpito alcuni settori dell'alta tecnologia. Tuttavia, poiché
il deterioramento della situazione economica impone a tali società di
razionalizzare il loro sviluppo globale, esse non progettano di effettuare
nuovi investimenti nella ricerca nell'Unione Europea bensì in altre
regioni ritenute più attraenti, quali Stati Uniti od alcuni paesi asiatici.
Le PMI europee ritengono invece che le loro capacità di investimento in
157
ricerca e innovazione siano spesso frenate da un'insufficiente capacità
di autofinanziamento e da un accesso più difficile a fondi esterni.
L'attuale situazione economica ha ulteriormente ridotto per le PMI le
possibilità di accesso ai finanziamenti mirati alla ricerca e l’ innovazione
tecnologica. La crisi economica rende quindi ancora più importante e
urgente concentrare l'azione pubblica sul sostegno alla ricerca e
all'innovazione.
Seguendo uno studio econometrico realizzato per conto dei servizi della
Commissione, “l'obiettivo di destinare il 3% del PIL agli investimenti
nella ricerca è destinato ad avere un impatto significativo, e di lungo
termine, sulla crescita e sull'occupazione in Europa, quantificabile con
uno 0,5% di crescita supplementare e nella creazione di ulteriori
400.000 posti di lavoro all'anno dopo il 201066.
L'impatto globale sulla crescita e l'occupazione potrebbe rivelarsi
superiore
alle
aspettative
grazie
all'impulso
che
un
ulteriore
potenziamento di una ricerca di livello mondiale potrebbe dare alla
competitività dell'industria e dei servizi europei e, in generale,
all'attrattiva economica esercitata dall'Europa.
Infine, un maggiore
impegno nella ricerca in settori di interesse sociale o ambientale
aiuterebbe l'Europa a svolgere un ruolo guida verso un futuro più
sostenibile” 67.
Tutti gli studi, hanno dimostrato che questo approccio costituisce
l'unico modo credibile per realizzare i progressi necessari nel campo
degli investimenti pubblici e privati per la ricerca.
66
E ciò in particolare grazie ai principali mutamenti strutturali dell'economia europea, come il passaggio
a un tipo di industria ad elevata crescita e intensità di ricerca e a un aumento considerevole della capacità
di innovazione dell'economia europea.
67
Studio realizzato dal gruppo di ricerca ERASME (Parigi) con una versione adattata del modello
NEMESIS.
158
Per realizzare questo importante obiettivo, il piano d'azione messo a
punto dalla Commissione Europea illustra innanzitutto la necessità di
sviluppare una comprensione comune condivisa a tutti i livelli politici e
da tutte le parti interessate per garantire un progresso continuo e
coerente in tutta Europa. Questi obiettivi, secondo gli esponenti della
Commissione,
appropriato,
possono
un
essere
processo
di
conseguiti
coordinamento
adottando,
aperto,
laddove
piattaforme
tecnologiche europee ed un processo d’apprendimento comune per le
regioni europee, nonché attraverso la formulazione e l’applicazione di
politiche che utilizzino coerentemente un'ampia gamma di strumenti.
Pare inoltre fondamentale il sostegno pubblico alla ricerca e le entità
delle risorse pubbliche disponibili e al miglioramento delle condizioni
dell’economia europea:
-
migliorare
l'efficacia
del
sostegno
pubblico
alla
ricerca
e
all'innovazione, sia in campo finanziario che nel campo delle risorse
umane e della ricerca pubblica di base.
- riorientare le risorse pubbliche verso la ricerca e l'innovazione,
mediante una maggiore attenzione alla qualità della spesa pubblica, un
adeguamento delle norme sugli aiuti di Stato ed un uso migliore degli
appalti pubblici.
- migliorare le condizioni per la ricerca e l'innovazione, quali i diritti di
proprietà intellettuale, la regolamentazione dei mercati dei prodotti, le
norme sulla concorrenza, i mercati finanziari, le condizioni fiscali, la
gestione societaria e le informazioni finanziarie delle imprese in materia
di ricerca.
Il proseguimento delle riforme strutturali dei mercati dei prodotti, dei
servizi, del capitale e del lavoro è inoltre importante per la creazione di
159
un ambito imprenditoriale più dinamico e competitivo che, a sua volta,
può
favorire
un
aumento
degli
investimenti
nella
ricerca
e
nell'innovazione.
Avanzare congiuntamente
In alcuni ambiti la ricerca svolge un ruolo fondamentale per affrontare
le principali sfide a livello tecnologico, economico o sociale.
In
quest’ambito le piattaforme tecnologiche europee possono fornire gli
strumenti per favorire un efficace applicazione dell’obiettivo comune del
3% con la partecipazione, laddove opportuno, della ricerca pubblica,
dell'industria, delle istituzioni finanziarie, degli utenti, delle autorità di
regolamentazione e politiche, dando lo slancio iniziale necessario per la
mobilitazione di ricerca e d’innovazione in Europa.
In pratica, le piattaforme tecnologiche saranno strumenti per riunire
tutte le parti interessate allo scopo di sviluppare una visione a lungo
termine e creare una strategia coerente e dinamica per tradurre in
pratica tale visione ed indirizzarne l'applicazione. Un’agenda strategica
della ricerca costituirà un aspetto fondamentale della strategia volta ad
ottimizzare il contributo della ricerca al processo in questione.
Le
piattaforme tecnologiche dovranno inoltre permettere di definire i
requisiti per lo sviluppo, l'applicazione e l'uso ottimale delle tecnologie,
quali regolamenti, norme, aspetti finanziari, accettazione sociale, abilità
e necessità di formazione, ecc., tenendo conto al contempo delle
pertinenti politiche comunitarie.
Se consideriamo il panorama delle varie regioni europee possiamo
notare che una serie d’iniziative hanno già incoraggiato le regioni a
sviluppare le proprie strategie di innovazione, compresi gli aspetti della
ricerca.
Tuttavia, l'obiettivo del 3% segna un nuovo punto di partenza
160
all'origine di molti nuovi sviluppi nelle politiche a livello nazionale ed
europeo, per cui si deve tenere conto nelle strategie regionali, che vanno
aggiornate e potenziate.
Per raggiungere entro il 2010 il previsto aumento degli investimenti
nella ricerca e sviluppo, l'Europa deve far fronte anche al tema della
formazione per poter contare su un numero maggiore di ricercatori
dotati di adeguate conoscenze e capacità. L'aumento degli investimenti
nella ricerca può determinare quindi un aumento della domanda di
ricercatori. L'adeguamento delle risorse umane alle previste necessità
in materia di ricerca ed innovazione richiede un notevole impegno da
parte di tutte le faorze operanti nell’attività di cambiamento del quadro
economico europeo. Questo significa anche cercar di attirare in Europa
un numero sufficiente di ricercatori di valore mondiale, rendere la
ricerca più attraente per varie fasce di popolazione come abbiamo visto
nei paragrafi precedenti per quanto riguarda le realtà di altri paesi.
Potenziare le risorse umane nella ricerca significa quindi adottare una
serie di iniziative a livello regionale, nazionale e comunitario tese a68:
- attirare un numero maggiore di studenti verso la ricerca, in particolare
aumentando gli incentivi finanziari, le iniziative "Scienza e società" e
facilitando ulteriormente la mobilità degli studenti;
- attirare in Europa i ricercatori internazionali e favorire la mobilità tra
il mondo accademico e l'industria;
- fare sì che i ricercatori rimangano nella professione e nello Spazio
europeo della ricerca, garantendo favorevoli prospettive di carriera e
un'immagine positiva della professione di ricercatore.
68
Comunicazione della Commissione: “Investire nella ricerca: un piano d'azione per l'Europa” Bruxelles,
giugno 2003.
161
Riorientare la spesa pubblica verso la ricerca e l’innovazione e
migliorare le condizioni per gli investimenti privati
Migliorando la qualità del sostegno pubblico alla ricerca si contribuisce
automaticamente ad aumentare il livello degli investimenti privati.
Considerando però il forte gap tra l’Europa ed altri paesi come gli USA e
Giappone, ciò non appare tuttavia sufficiente.
Sono necessari infatti
anche maggiori investimenti pubblici a sostegno della ricerca.
La recente comunicazione della Commissione sul rafforzamento del
coordinamento delle politiche di bilancio ha confermato che “la qualità
delle finanze pubbliche costituisce, dal punto di vista del loro contributo
alla crescita, parte integrante della sorveglianza di bilancio nel contesto
dei programmi di stabilità e convergenza”
69.
In questo senso la
Commissione ha ripetutamente sottolineato la necessità di riorientare la
spesa
pubblica
verso
investimenti
maggiormente
produttivi,
in
particolare a sostegno della ricerca e dell'innovazione, poiché saranno
essi a generare in futuro una maggiore crescita.
Al fine di garantire la stabilità macroeconomica e la sostenibilità a lungo
termine delle finanze pubbliche, tutto ciò deve essere realizzato nel
quadro del dell’obiettivo del 3% da raggiungere per il 2010.
Un
aumento del sostegno pubblico alla ricerca e all'innovazione rientra tra
le categorie di spesa atte a supportare gli obiettivi di Lisbona. L'attuale
rallentamento della crescita economica rende ancora più importante
garantire che le politiche di bilancio sostengano gli investimenti che
determineranno in futuro una crescita superiore e sostenibile.
69
COM(2002) 668 del 27 novembre 2002.
162
In accordo con tale metodologia, la proposta della Commissione relativa
agli indirizzi di massima per le politiche economiche 2003-2006
raccomanda di riorientare la spesa pubblica verso investimenti più
produttivi, in particolare verso la ricerca e l'innovazione, e traduce
questa priorità in una serie di raccomandazioni specifiche agli Stati
membri.
Se è vero che un maggiore e migliore sostegno pubblico è necessario per
dare impulso alla ricerca e all'innovazione in Europa, è altrettanto vero
che a tale sostegno devono accompagnarsi notevoli miglioramenti nelle
condizioni generali, per far sì che l'Unione europea diventi veramente
attraente per gli investimenti privati nella ricerca e nell'innovazione.
Nuove azioni sono necessarie in settori quali la proprietà intellettuale,
l'organizzazione dei mercati, le norme sulla concorrenza, i mercati
finanziari, la fiscalità e la comunicazione finanziaria delle imprese in
materia di ricerca.
La protezione della proprietà intellettuale riveste grande importanza per
la competitività della maggior parte degli organismi pubblici e privati e
per l'attrattiva che essi esercitano sugli investitori.
Ciò che è
necessario, in particolare, è un sistema della proprietà intellettuale
opportunamente equilibrato, che offra incentivi adeguati per gli
investimenti nella ricerca e nell'innovazione, garantendo al contempo
che la diffusione e l'ulteriore sviluppo dei risultati della ricerca
procedano nel modo migliore.
163
CAPITOLO IV
Il Piemonte: caso di eccellenza?
Prefazione
Attraverso questo capitolo conclusivo, si vuole presentare il caso
particolare della regione del Piemonte.
Dopo aver valutato gli aspetti teorici che caratterizzano le economie
basate sulla conoscenza, abbiamo potuto analizzare alcuni esempi di
paesi che hanno saputo trasformare la loro economia in maniera rapida
e profonda per dare ampio spazio allo sviluppo delle nuove tecnologie e
per valorizzare i settori basati sul capitale intellettuale.
Nel corso di questo Capitolo faremo riferimento alla situazione attuale
dell’Unione Europea, ed in particolare al nuovo obiettivo del 3%
d’investimento del PIL in R&S.
Analizzeremo innanzitutto la situazione economica italiana per poter
meglio situare la realtà del Piemonte nel contesto nazionale.
In seguito si cercherà di mettere in risalto le caratteristiche principali
della situazione attuale dell’economia piemontese che ha saputo
contrastare la forte crisi economica degli anni ’90 preparando un
substrato socio-culturale ed organizzativo tale che oggi la porta ad
essere la regione italiana con la maggior percentuale d’investimento in
R&S pari a molte delle regioni nord-europee.
Concluderemo con alcune prospettive per il futuro della regione in
relazione alle direttive comunitarie in materia di investimento in ricerca
e sviluppo.
164
Introduzione
Come abbiamo analizzato nel precedente Capitolo, l’Europa ha perso
terreno negli anni ‘90 in termini di competitività nei confronti degli Stati
Uniti. Minore è stata sia la crescita del PIL (circa un punto percentuale
in meno), sia quella della produttività del lavoro, così che è aumentato il
differenziale di produttività già favorevole agli Stati Uniti. Nel 2001 la
produttività totale dei fattori ha registrato un aumento molto marcato
per gli Stati Uniti, una sostanziale tenuta nel 2000 per l’Europa e,
invece, una tendenza negativa per l’Italia (Fig. 31) Va sottolineato come
gli Stati Uniti abbiano raggiunto un livello anche inferiore all’UE e
all’Italia nel 2000 ma abbiano poi saputo risalire in modo più veloce e
consistente nell’anno successivo.
Figura 31
Produttività totale dei fattori.
Secondo i dati OCDE (Fig. 32) il divario che separa l’Europa dagli Stati
Uniti e dal Giappone continua ad allargarsi. In Europa il livello di spesa
165
per ricerca è fermo intorno all’ 1,9% del PIL da 10 anni, mentre negli
Stati Uniti esso è cresciuto continuamente (dal 2,4% nel 1994 al 2,7 %
del PIL nel 2000).
Gli investimenti europei in ricerca sono inferiori
anche rispetto al Giappone ed alla Corea del Sud.
Figura 32
Investimenti in R&S nel 2001.
Ovviamente la situazione non è omogenea tra i paesi membri
dell’Unione Europea. Alcuni paesi sono prossimi al livello del 3% (ad
esempio Svezia, Finlandia e Danimarca) mentre altri (tra cui Italia e
Spagna) restano ancora assai distanti da quell’obiettivo.
Indicativa è
poi l’articolazione degli investimenti tra pubblico e privato. (Tab. 8)
166
Tabella 8
Spesa per R&S nel 2000.
Alcuni paesi mostrano tendenze superiori alla media europea. Tra
questi vi è la Spagna, che grazie ad un tasso di crescita annuo degli
investimenti del 5% negli ultimi anni ha sorpassato l’Italia.
La posizione dell’Italia
Il quadro della ricerca in Italia che emerge dal confronto internazionale
rivela una situazione di forte ritardo sia rispetto ai principali paesi
industriali che ad alcune economie europee di minori dimensioni come
quelle svedese e finlandese.
167
Per quanto riguarda l’intensità di R&S, in termini di investimenti in
percentuale del PIL, l’Italia mostra un ritardo rispetto ai paesi europei e
rispetto al Giappone e Stati Uniti. Valori inferiori a quelli italiani si
riscontrano solo per Spagna, Portogallo e Grecia.
Nel corso degli ultimi anni, nel nostro paese si è assistito ad una
riduzione degli investimenti pubblici realmente destinati alla ricerca.
L’Italia mostra (Fig. 33) una spesa pubblica in R&S intorno allo 0,5%
del PIL, dato di gran lunga inferiore sia rispetto alla media dell’UE che
degli Stati Uniti (circa lo 0,7%), sia a quelli di Francia e Germania (circa
lo 0,8%).
Figura 33
Spesa pubblica in R&S nel 2000.
Riguardo alla ricerca svolta dalle imprese, l’Italia registra un notevole
ritardo rispetto ai principali paesi terzi (Fig. 34). Questo dato va però
considerato alla luce delle caratteristiche specifiche sia del sistema
168
produttivo italiano che dei meccanismi di rilevazione delle spese in
ricerca delle imprese.
Figura 34
Spesa privata in R&S nel 2000.
Se i livelli sono ancora bassi, è però vero che le imprese italiane,
soprattutto a partire dalla seconda metà del decennio scorso, hanno
mostrato una accelerazione dell’impegno nell’attività di ricerca, tanto
che a partire dal 1995 si riscontra un trend di crescita della spesa per
R&S delle imprese, così come viene calcolata dall’OCDE, superiore a
quello dei principali paesi industriali.
L’aumento delle attività di R&S viene confermato anche dal maggiore
numero di progetti di ricerca presentati dalla imprese italiane sia a
livello europeo che nazionale. Fenomeno che riguarda in misura sempre
maggiore anche le PMI.
L’Italia ha ottenuto infatti il numero maggiore di progetti finanziati dal
Programma Europeo dedicato ai progetti delle PMI.
169
Il modello italiano dell’innovazione
I parametri di ricerca e sviluppo utilizzati nelle statistiche ufficiali non
sembrano cogliere pienamente l’attività di innovazione svolta dalle
imprese italiane.
Attività di innovazione che sta alla base sia della
presenza delle imprese italiane in molti settori a media ed alta
tecnologia, sia della qualità dei nostri prodotti in molti settori
tradizionali.
L’innovazione può assumere forme diverse dalla ricerca svolta nei
laboratori, in molti casi si tratta di tecnologie incorporate in nuovi
materiali, nell’integrazione tra design e nuovi materiali, nell’applicazione
di tecnologie avanzate, in prodotti personalizzati sulla base delle
esigenze del cliente, anche attraverso un processo di imitazione dei
propri concorrenti.
L’Italia presenta un valore aggiunto nelle imprese a medio-alta
tecnologia in linea con la media europea e superiore a Stati Uniti,
Francia,
Finlandia
e
Spagna.
Ciò
si
spiega
con
la
grande
specializzazione delle nostre imprese, ad esempio, nel settore dei
macchinari.
Di molto inferiore a Stati Uniti, Giappone, Finlandia,
Svezia e Francia il valore nei settori ad alta tecnologia. In linea con la
media dei paesi è poi il dato relativo alle imprese basate sulla
conoscenza, ovvero sulle capacità innovative ed applicative ad
alto valore aggiunto anche se non formalizzate e formalizzabili come
R&S.
Sono molteplici i fattori che hanno determinato la specializzazione
produttiva e tecnologica del nostro Paese, ma tanti sono ancora i vincoli
che
devono
essere
superati
per
comunitario del 3%.
170
l’implementazione
dell’obiettivo
- La dimensione delle imprese: per il 90% è molto contenuta. La grossa
presenza di PMI se da un lato ha permesso al nostro paese di essere
flessibile e competitivo su molti settori, con punte di dominio, ora che la
competitività si basa sempre di più sulla ricerca e innovazione rischia di
rappresentare un vincolo. Ciò perché si riscontra una minore attività di
R&S nelle imprese di dimensioni ridotte.
- La rigidità del mercato del lavoro: l’Italia ha avuto negli ultimi decenni
un mercato del lavoro molto rigido. Le imprese hanno cercato di
superare gli ostacoli posti da questa rigidità e soprattutto dall’elevato
costo del lavoro aumentando gli investimenti in innovazioni di processo
e in macchinari. Ciò si è riflesso in un rapporto capitale/lavoro molto
più alto dei nostri principali competitori.
- La mancanza di una politica della ricerca chiara e di lungo periodo:
sempre nella distribuzione dei fondi, è mancato un disegno complessivo,
che permettesse, sulla base dell’analisi dei punti di forza e di debolezza
del sistema produttivo, di orientare gli investimenti (sia in termini di
incentivi alle imprese che di fondi per ricerca effettuati da soggetti
pubblici) verso determinati settori.
- La scarsità di competenza scientifiche di livello internazionale: un forte
ostacolo alla diffusione della R&S nelle imprese, soprattutto PMI, è stata
l’assenza di un sistema della ricerca pubblica flessibile e capace di
dialogare con il sistema produttivo.
Le università e gli Enti pubblici di ricerca sono stati caratterizzati da
logiche di autorefenzialità e di ridottissima apertura al mercato e
soprattutto alle PMI.
171
Raccomandazioni specifiche dell’UE per l’Italia
La crescita economica in Italia è stata in genere inferiore a quella
dell’insieme dell’UE dai primi anni Novanta.
Se il differenziale di
crescita si è ridotto durante l’ultimo rallentamento ciclico, tra l’altro
grazie ad un dosaggio meno restrittivo delle politiche, si
stima che il tasso di crescita potenziale del PIL sia ancora più basso
delle media dell’area dell’euro.
Il debito pubblico assai elevato,
attraverso i suoi effetti sul risparmio nazionale e l’accumulazione del
capitale, ha ostacolato la crescita. La persistente moderazione salariale
e alcuni importanti provvedimenti di riforma a partire dal 1998 hanno
migliorato sensibilmente il funzionamento del mercato del lavoro,
abbassando il tasso di disoccupazione al di sotto del 9% alla fine del
2002. Tuttavia, il crescente contributo dell’ occupazione alla crescita
economica è andato di pari passo con un netto rallentamento
dell’aumento della produttività totale dei fattori, parzialmente da
attribuire alla maggiore partecipazione di lavoratori scarsamente
qualificati, specie nel settore dei servizi.
Malgrado significativi
miglioramenti negli ultimi anni, i tassi di partecipazione rimangono tra i
più bassi dell’UE.
Globalmente, la Commissione Europea vede come principale problema
per l’Italia il basso potenziale di crescita.
Tra i principali fattori che
frenano la crescita potenziale si annoverano il problema ancora non
risolto delle finanze pubbliche, i persistenti divari regionali, specie in
termini di entità della quota di popolazione in età lavorativa inattiva o
disoccupata nel Mezzogiorno, come pure i fattori che penalizzano la
produttività totale dei fattori quali il basso livello d’istruzione e di
investimenti nella R&S. Al fine di poter raggiungere l’obiettivo del 3%
172
preposto,
la
Commissione
Europea
suggerisce
al
nostro
paese
l’intervento radicale e repentino per risolvere alcuni problemi70:
- Risanare rapidamente le finanze pubbliche
- Assicurare la sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche
nella prospettiva dell’invecchiamento demografico
- Alzare il basso tasso di occupazione, specie tra le donne ed i lavoratori
più anziani, e ridurre le ampie disparità economiche tra Nord e Sud
- Rafforzare l’economia fondata sulla conoscenza in termini di livello di
istruzione
e
di
qualificazione,
investimenti
in
tecnologie
dell’informazione, R&S e innovazione
- Continuare a migliorare il contesto in cui operano le imprese e
accrescere la concorrenza nei settori dell’energia e dei servizi
Le tendenze dello sviluppo Regionale: il Piemonte
Gli anni Novanta sono stati caratterizzati da una certa ripresa dei divari
di crescita all’interno delle diverse aree del Paese.
Dapprima il
rafforzamento del mercato unico e successivamente l’adozione della
moneta unica europea hanno sottoposto il sistema economico italiano a
tensioni e mutamenti di carattere permanente che si sono riflessi in
misura differenziata sulle diverse aree territoriali e regionali. Si devono
tenere anche presenti i cambiamenti esterni all’Europa, come il
passaggio all’economia di mercato dei Paesi dell’Europa centro-orientale
(e la loro crescente apertura) e l’espandersi di una vigorosa crescita nei
Paesi emergenti dell’Asia e dell’America latina.
70
Commission Staff Working Paper: “Investing in Research: an action plan for Europe” Bruxelles 2003.
173
Come si è visto, il quadro della crescita economica in Europa in questo
periodo è risultato piuttosto debole anche a causa delle politiche
restrittive che hanno accompagnato la nascita della moneta unica ed
ancor meno favorevole è risultato quello della crescita dell’economia
italiana.
Si è rafforzata la posizione delle regioni (Nord-orientali),
mentre il Nord-Ovest ha manifestato una dinamica meno soddisfacente
ed il Mezzogiorno nel suo complesso si è caratterizzato per una
insufficiente reattività, anche se in alcune regioni sembra essersi
innescato negli anni più recenti un certo recupero di competitività di
taluni sistemi produttivi locali.
Il problema delle differenze nella crescita a livello regionale ha assunto
un rilievo crescente, anche a causa delle politiche d’integrazione in
ambito europeo che hanno dato oggettivamente risalto, in seguito al
ridimensionamento
del
dominio
delle
politiche
nazionali,
alla
dimensione regionale. Nel contempo la progressiva eliminazione delle
barriere economiche e la crescente omogeneizzazione nei comportamenti
e nei gusti, ha comportato processi di aggiustamento all’interno delle
singole economie regionali con effetti sulle prospettive di crescita delle
singole aree; essi saranno ulteriormente alimentati negli anni a venire
174
dall’allargamento
dell’Unione
Europea
–
e
dalla
crescente
globalizzazione.
Due visioni delle conseguenze dei processi di crescita a livello locale si
contrappongono nell’analisi economica:
- la teoria della convergenza, che ammette e vuole spiegare una
progressiva tendenza nel tempo all’avvicinamento dei livelli di benessere
economico in aree connotate inizialmente da diverso livello di sviluppo
- le teorie che si basano sulla polarizzazione, per le quali invece il
processo di sviluppo tende ad accentuare le differenziazioni esistenti a
livello territoriale.
Secondo la teoria economica nella prima versione, ad esempio, il
processo di unificazione regionale europeo sarebbe accompagnato (o
favorirebbe) una convergenza fra le economie dei diversi Paesi e regioni
d’Europa. Si sostiene che siccome i Paesi che più sono lontani dal loro
tasso di crescita naturale (quello cioè che date le caratteristiche
dell’economia si realizza nel lungo periodo) hanno la tendenza a
crescere più velocemente di quelli che ne sono più vicini.
Questo
concorre al raggiungimento (catching up) da parte delle regioni più
deboli dei livelli di benessere di quelle più forti.
In realtà non è così facile ammettere l’esistenza di una sostanziale
omogeneità fra le diverse regioni tale da consentire un potenziale di
sviluppo uguale per tutte; alle caratteristiche strutturali ancora molto
differenziate fra i Paesi e le regioni dell’Unione, infatti, si aggiungono i
fattori di ‘perturbazione’ del sentiero di crescita dei singoli sistemi
produttivi, che condizionano considerevolmente il processo descritto.
A questa teoria, si contrappone quella invece basata sulla polarizzazione
ed enfatizza le condizioni di inamovibilità di taluni fattori.
Le teorie
della crescita endogena danno infatti rilievo alle specificità e ai vincoli di
175
localizzazione dei fattori di produzione come elemento del vantaggio
competitivo che si realizza attraverso rendimenti crescenti localizzati,
che danno così origine a una distribuzione polarizzata dello sviluppo.
Per esse assumono rilevanza ai fini dello sviluppo fattori quali la
dotazione e le caratteristiche del capitale umano specifico di un
territorio, l’innovazione tecnologica nei processi produttivi che matura
all’interno
del
sistema
produttivo
locale
e
che
è
difficilmente
trasmissibile al di fuor di un determinato contesto territoriale, il tessuto
relazionale contenuto nel concetto, spesso un po’ sfuggente, di capitale
sociale, ma che assume sempre maggior attenzione nei modelli di
crescita, le relazioni istituzionali prevalenti.
Alcune ricerche sottolineano come gli effetti di ricaduta (spillover) che
avvengono sul territorio siano estremamente rilevanti nell’alimentare
l’attività innovativa.
Essi tuttavia si esplicano soprattutto in ambiti
territoriali connotati da forti omogeneità produttive, e grandi a
sufficienza da attivare un livello di domanda adeguato per stimolare lo
sviluppo e l’innovazione in “cluster” produttivi specializzati.
Se si guarda allo sviluppo regionale in questa luce, a maggior ragione in
una situazione di economia aperta ed integrata, il bacino di domanda
rilevante all’interno del quale collocare il potenziale innovativo di una
regione tende sicuramente a superare i suoi confini. Occorre pertanto
tenere in conto le caratteristiche del contorno interregionale nel quale
una regione è inserita ed il grado di omogeneità produttiva in esso
presente,
che
attiva
e
determina
le
relazioni,
sapendo
che
è
probabilmente a questo livello che si determina la domanda rilevante
più che non al solo livello regionale.
176
L’osservazione dell’andamento delle economie regionali nel corso degli
anni Novanta mette
in evidenza percorsi piuttosto differenziati,
indicando una diversa capacità di reazione al contesto economico
globale e nazionale da parte dei singoli territori.
In questo quadro l’evoluzione dell’economia piemontese riflette un
andamento ciclico più marcato di quello nazionale, accentuando
rispetto a quest’ultimo le fasi di crisi e di ripresa.
Nonostante in questo periodo siano emerse per intensità di crescita
economica le aree del Nord-Est, tuttavia per il Piemonte il bilancio non
appare negativo o critico, come si poteva pensare alcuni anni or sono.
In effetti fra il 1990 ed il 1998 il PIL del Piemonte è aumentato in
termini reali dell’8%, ad un tasso inferiore a quello nazionale, che si è
commisurato nel 9,6%: la dinamica della regione è risultata inoltre
differente nei due distinti sottoperiodi che segnano l’andamento del ciclo
economico in questi anni.
Nel triennio ‘90-‘93 la crisi colpisce più
pesantemente il Piemonte, che fa registrare una contrazione del 3% del
prodotto lordo.
La situazione tuttavia sembra subire un cambiamento considerevole nel
periodo successivo. Fra il 1993 ed il 1998 l’economia piemontese cresce
complessivamente in termini reali ad un tasso del 10,7%, con una
dinamica superiore a quella nazionale (+9,9%).
Nel corso degli anni Novanta il dato che ha caratterizzato maggiormente
l’andamento dell’economia regionale è senza dubbio la consistente
ripresa della domanda estera (e, verosimilmente, anche quella verso le
altre regioni) che ha fatto conseguire alla regione saldi ampiamente
positivi delle esportazioni nette, in una fase nella quale il contributo alla
crescita del PIL, soprattutto nella prima parte di questo periodo, fornito
dalle componenti della domanda interna regionale è stato negativo o
scarsamente dinamico.
177
La risultante delle dinamiche citate ha fatto sì che la crescita del
prodotto regionale fra il 1990 ed il 1998 sia stato nel complesso solo di
poco al di sotto di quella nazionale:
Se si analizzano congiuntamente la dinamica della produttività e del
tasso di occupazione si comprende la specificità del sistema piemontese
in questi anni, che ha associato una debole dinamica del prodotto
complessivo in presenza di un discreto incremento del reddito pro
capite.
L’andamento del PIL pro capite può essere scomposto in diverse
componenti in modo da evidenziare il contributo che su di esso hanno
avuto le componenti economiche, quelle del mercato del lavoro e quelle
demografiche.
178
Tabella 9
Caratteristiche dello sviluppo nelle regioni italiane
(Variazioni % su valori a prezzi costanti 1993-'98)
La Tabella 9 scompone la crescita fra il 1993 ed il 1998 del PIL pro
capite mettendone a confronto le principali differenze.
Se il PIL pro capite (per unità di popolazione) aumenta più di quanto
aumenta la produttività (misurata dal valore aggiunto per occupato) si
da luogo ad uno sviluppo che potremmo definire di tipo “intensivo”, cioè
ottenuto attraverso un minor utilizzo delle risorse lavorative, e infatti la
proporzione di occupati sulla popolazione totale si riduce, mentre al
179
contrario se l’aumento del PIL pro capite avviene in presenza di una
dinamica della produttività inferiore, si ha uno sviluppo di tipo
“estensivo” cioè maggiormente utilizzatore di risorse umane: in questo
caso, infatti, il tasso di occupazione, calcolato sulla popolazione totale,
subisce un aumento.
Le forze di lavoro e le dinamiche produttive della regione
Tra i fattori fondamentali che condizionano lo sviluppo economico e
sociale di tutte le economie, vi è, come analizzato nei precedenti capitoli,
la disponibilità e la composizione delle forze di lavoro.
Queste
costituiscono un elemento di importanza cruciale per la realtà
piemontese. Senza disporre di risorse umane sufficienti ed adeguate,
nessun sistema economico locale può alimentare le proprie ambizioni di
crescita e qualificazione.
Senza un’adeguata capacità di attivare e
valorizzare appieno il potenziale contributo professionale insito nella
propria popolazione, nessun sistema, anche locale può evitare di
perdere attrattiva verso gli abitanti stessi e verso gli investitori,
diminuendo la loro disponibilità ad investire nella qualificazione e nella
partecipazione attiva al mercato del lavoro.
Il Piemonte è la prima regione italiana per spese in R&S effettuate dalle
imprese. Nel 2000 sono stati spesi 1.640 milioni di euro, ossia l’1,7%
del PIL regionale, più del triplo della media italiana (0,5%).
180
Figura 35
Spesa in R&S di alcune regioni europee (valori in %).
La ricerca effettuata dalle imprese – 1250 milioni – rappresenta circa
l’85% del totale degli investimenti innovativi e regionali e rappresenta
l’81% del totale regionale; a fronte del 73% della Lombardia, del 52%
dell’Emilia Romagna e del 49% della media nazionale. La preminenza
della ricerca e sviluppo di fonte industriale accomuna il Piemonte alle
regione europee più avanzate dal punto di vista tecnologico ed
economico: infatti come il Piemonte, anche Baden-Wurttemberg (81%),
Rône-Alpes (73%) o l’intera Svezia (72%) segnalano che lo sforzo
innovativo effettuato nelle aree avanzate è soprattutto di origine
impreditoriale e non pubblica.
Per quanto riguarda la dimensione degli investimenti in ricerca e
sviluppo, il Piemonte è confrontabile con Rhône-Alpes, South-West,
West-Midland.
A Torino opera il Centro Ricerche Fiat (CRF), il
principale nel settore auto veicolistico in Italia e tra i più importanti del
181
mondo. Oltre il 40% dei centri di ricerca in Piemonte operano nel settore
automotive.
Per il 2003 le stime dell’EITO, European Information Technology
Observatory, indicano l’Italia come quarto mercato europeo dell’ICT con
una quota dell’11%, pari ad un valore di circa 71 miliardi di euro.
In particolare l’Italia vanta una previsione di crescita del 6.2% nel
settore delle telecomunicazioni (inferiore solo a quella della Germania) e
del 10,2% nel settore dell’IT, aumento praticamente pari a quello della
Gran Bretagna e superiore a quello di tutti gli altri paesi europei.
In particolare il settore dell’ICT in Italia sta conoscendo una forte
crescita nei segmenti wireless ed e-security.
Nello scenario italiano - che rappresenta il 15% del totale delle imprese
biotech europee, con oltre 200 imprese direttamente coinvolte in
innovazioni a carattere biotecnologico ed un mercato farmaceutico che è
il sesto a livello mondiale- il Piemonte si colloca all’avanguardia anche
nel settore delle scienze della vita e biotecnologie.
La regione Piemonte si rivela partner strategico per lo sviluppo comune
di progetti di ricerca oltre che come luogo in cui identificare partner
scientifici ed industriali e realizzare insediamenti grazie alla presenza di
una rete di centri di ricerca, pubblici e privati, (3 poli universitari, il
Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’Istituto per la Ricerca sul Cancro di
Candiolo, il Bioindustry Park), grazie ad un ambiente favorevole e una
base industriale fatta di piccole e medie imprese e gruppi multinazionali
(Serono, RBM, Bracco, Antibioticos, Sorin, ecc), di centri di supporto
all’innovazione, alla formazione ed al trasferimento tecnologico e di oltre
800 laureati l’anno in discipline legate alle Scienze della Vita.
182
Oltre alle attività di ricerca realizzate da Fiat Avio e Alenia Spazio sono
numerosi i centri di R&S attivi in Piemonte in settori di interesse per
l’industria aerospaziale.
Il Piemonte: una crescita “intensiva”
Tra il 1993 ed il 1998 in Piemonte l’occupazione sulla popolazione totale
è diminuita sostanzialmente a causa di una contrazione del tasso di
occupazione in presenza di un tasso di offerta (rispetto alla popolazione
totale) sostanzialmente stabile. Questa stabilità è nel caso del Piemonte
attribuibile ad un consistente incremento del tasso di offerta della
popolazione attiva avvenuto, tuttavia, contemporaneamente ad un
restringimento di analoga entità della popolazione attiva rispetto a
quella totale. Se si confronta la situazione del Piemonte con quella delle
regioni del Nord-Est, si nota come in queste ultime lo sviluppo che
abbiamo definito di tipo “estensivo” abbia comportato, a differenza del
Piemonte, un aumento del tasso di occupazione in presenza di una
tendenza all’aumento anche dell’offerta di lavoro in rapporto alla
popolazione complessiva, dovuta soprattutto ad una componente
negativa demografica inferiore a quella manifestatasi in Piemonte, ma
con tassi di offerta non molto dissimili.
In sostanza lo sviluppo “intensivo” del Piemonte in questo periodo è
avvenuto in presenza di un potenziale di risorse umane in calo per
effetto della demografia, ma con un tasso di partecipazione al mercato
del lavoro crescente.
Siccome gli effetti demografici hanno ristretto
considerevolmente la popolazione in età lavorativa, la accresciuta
propensione alla ricerca di un lavoro non ha potuto impedire che il
numero delle persone che sono offerte sul mercato del lavoro regionale
183
sia diminuito: ciononostante la domanda di lavoro da parte del sistema
produttivo regionale è risultata relativamente debole, con persistenti
elevati tassi di disoccupazione.
Se si tiene conto, inoltre, che nella
congiuntura recente anche i tassi di disoccupazione sono sensibilmente
scesi mentre anche l’offerta di lavoro segna una ripresa, vi è da
domandarsi se uno sviluppo di questo tipo possa essere assicurato in
prospettiva, quando paiono emergere, come negli anni più recenti,
chiari sintomi di squilibri fra domanda ed offerta di lavoro.
Oggi si intravedono i primi successi della conversione alla new economy
in varie zone del Piemonte.
In particolare possiamo analizzare la
situazione del Canavese71:
- creazione di nuove imprese nel settore Ict (spesso da ex dipendenti
Olivetti);
-localizzazione di nuove attività di call centers e di altre imprese
innovative in settori diversi dall’Ict: nel Bioindustry Park, nella
meccanica
(con
Pininfarina),
nell’entertainment
(con
il
previsto
Millenium Park), ma anche nello sviluppo delle produzioni Ict (Fulchir e
Lexicon);
- costituzione di poli formativi specializzati: tre corsi di diploma del
Politecnico di Torino, oltre a quello di telecomunicazioni ad Aosta, due
corsi di laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università degli
Studi, un centro di eccellenza di formazione professionale (Forum scrl –
ex Centro Ghiglieno), che ha ottenuto recentemente la certificazione Iso
di Qualità per la formazione e il master di design multimediale –
Interaction Design Institute –, che dovrebbe diventare un laboratorio di
progettazione nei servizi di comunicazione digitale con un’impronta
71
V. Ferrero: “Contesto economico” IREscenari, Torino, 2003
184
fortemente internazionale, dato il suo collegamento con il London Royal
Institute of Arts;
- presenza di finanza innovativa (Banca Sella e venture capital);
creazione di infrastrutture specializzate (Infoville ed e-Canavese, il
portale che riunisce privati come Olivetti e Banca Sella) e sviluppo delle
produzioni cinematografiche a San Giorgio Canavese.
I call centers di Infostrada e Omnitel, e quello più piccolo di Tin.it, sono
collocati
nell’area
e
generano
un
importante
assorbimento
di
occupazione giovanile (circa 2000 unità). Essi si stanno affermando non
solo
nell’ambito
delle
telecomunicazioni,
ma
anche
nel
settore
finanziario, assicurativo e dei servizi pubblici, come soluzioni essenziali
per migliorare la qualità del servizio, ampliare il mercato e ridurre i costi
distributivi e di erogazione. Spesso sono gestiti in outsourcing e manca
tuttora un adeguato riconoscimento sociale della nuova professione di
chi ci lavora.
In generale, l’apparato di iniziative imprenditoriali attive nell’area
canavesana risulta descritto in modo esauriente da una serie di
caratteristiche come per esempio:
- Le imprese del Canavese sono di tipo familiare: è opinione comune che
le imprese canavesane si dividano in due categorie:
- le “vecchie”, soprattutto appartenenti al settore meccanico, a
conduzione famigliare, non evolute dal punto di vista della
struttura societaria e più numerose;
- le “nuove”, appartenenti al settore elettronico e informatico,
società di capitali che sono il risultato, spesso, dell’uscita di un
tecnico particolarmente brillante dalla grande impresa: per questo
185
motivo l’impronta dell’imprenditore giovane e aggressivo è pesante e
permea tutta la struttura aziendale.
- Il settore predominante è quello manifatturiero, anche se è in atto un
progressivo processo di diversificazione produttiva.
- Le imprese del Canavese non collaborano tra di loro: esiste una presa
di coscienza della necessità di essere rappresentate, ma sussiste ancora
una mancanza nella presa di coscienza di essere parte di un sistema di
imprese che potrebbe essere di tipo cooperativo e non esclusivamente
competitivo.
Questo
approccio
chiaramente
offrirebbe
nuove
opportunità di interesse per tutto il tessuto imprenditoriale locale, basti
pensare alla possibilità di realizzare centri di ricerca comuni e condivisi,
networks di distribuzione/acquisto, attività di marketing comuni,
identificazione e sfruttamento della presenza di clusters di imprese,
ecc.).
- Le imprese del Canavese sono poco internazionalizzate.
- Le imprese del Canavese sono subfornitrici: siamo in presenza di un
tessuto imprenditoriale che vede l’attività di produzione/assemblaggio
di componenti come risorsa fondamentale e preziosa e si sta assistendo
al passaggio dal conto-terzismo alla realizzazione di un componente
proprio, all’assemblaggio di gruppi di componenti, a un rapporto di
collaborazione con il committente basato sui principi del co-engineering
e della co-makership.
- Le imprese del Canavese sono prevalentemente “monoprodotto”.
- I concorrenti delle imprese canavesane sono locali e la forza della
concorrenza viene individuata prevalentemente nel “fattore prezzo”,
nella presenza di una rete commerciale efficiente e nel “fattore qualità”:
il tessuto imprenditoriale canavesano è, infatti, storicamente orientato
al prodotto più che al mercato.
186
- Le imprese del Canavese “sanno fare” ma non “sanno vendere”: la
tradizione di subfornitura ha impedito che sorgesse spontaneamente
nelle imprese un approccio market o customer oriented verso il mercato.
- Le imprese del Canavese sono “ad alta tecnologia” e innovative: la
storia economica del tessuto imprenditoriale canavesano ha visto come
imprese di riferimento sempre imprese ad alta tecnologia. La rete di
subfornitori quindi, volente o nolente, ha dovuto adeguarsi a questa
situazione sia dal punto di vista qualitativo, sia dal punto di vista della
situazione tecnologica.
- Le piccole imprese del Canavese sono in crescita: il tessuto
imprenditoriale minore ha già dimostrato di possedere una vitalità
autonoma, creando posti di lavoro in numero quasi pari a quelli persi
nella
grande
impresa.
Gli
ostacoli
all’innovazione
e
allo
sviluppo/crescita che ancora permangono vanno ricercati soprattutto
nella difficoltà di finanziamento degli investimenti/crescita e nella
mancanza di manodopera qualificata.
- Le imprese del Canavese non fanno formazione continua72.
L’economia del Piemonte è caratterizzata indubbiamente dalla realtà
imprenditoriale, sia a causa dell’elevato numero di aziende, sia per la
presenza a Ivrea della sede centrale di Olivetti.
Mentre parte del territorio vanta un’antica industrializzazione nei settori
tessile, della forgiatura dell’acciaio e dello stampaggio a caldo, la zona
orientale,
che
grosso
modo
corrisponde
all’Eporediese,
non
ha
conosciuto un vero sviluppo industriale sino all’inizio del XX secolo,
quando si sviluppò l’indrustria di tipo elettro-meccanico, ed in
particolare l’Olivetti.
Da allora l’economia del Canavese è sempre
cresciuta in rapporto più o meno conflittuale con questa realtà.
72
V. Ferrero: “Contesto economico” IREscenari, Torino, 2003
187
Il Canavese è attualmente un’area caratterizzata da imprenditorialità
diffusa, è inoltre ricca di risorse tecnologiche, culturali, finanziarie e
paesaggistiche, elementi che spesso caratterizzano i sistemi territoriali
più innovativi e di successo.
Accanto a Olivetti non si può dimenticare di citare Vodafone, il cui fiore
all’occhiello, Omnitel, è nato nelle valli del Canavese e non nella
campagna inglese, e la Getronics, nata in Italia nel 1999, quando il
gruppo ha acquisto Wang Global, multinazionale americana attiva nel
settore Ict, che a sua volta nel marzo 1998 aveva rilevato da Olivetti la
società di soluzioni e servizi informatici Olsy. La consociata italiana si
avvale delle risorse e delle competenze nell’ambito della ricerca
informatica e dello sviluppo di progetti di Olivetti Ricerca, recentemente
acquisita.
Il Piemonte tra old e new economy
Attualmente si sta assistendo a una rincorsa tra ammodernamento del
sistema socioeconomico regionale e rapida ridefinizione delle sfide
espresse dal contesto evolutivo nel quale il Piemonte si colloca; si parla
infatti di una Regione “tra old e new economy”.
Volendo analizzare la situazione economica piemontese nell’attuale
decennio, si può notare come, scongiurata la prospettiva di un netto
declino e della marginalizzazione del sistema piemontese rispetto al
contesto competitivo globale – e non ancora realizzatasi l’ipotesi del
salto tecnologico con cui il Piemonte avrebbe potuto conquistare livelli
di eccellenza assoluta nell’alta tecnologia –, l’economia e la società
regionale si sono mosse, in prevalenza, lungo un sentiero definibile
come “ristrutturazione su basi tradizionali”, che in misura solo parziale
188
(anche se tutt’altro che trascurabile) ha potuto affiancare ai vecchi
motori dello sviluppo regionale nuove spinte di crescita, nuove vocazioni
e competenze produttive, nuovi localismi a forte dinamicità.
Questi segnali, che fanno ritenere percorribile un’evoluzione lungo le
direttrici di una diversificazione qualificata, si innestano su alcuni punti
di forza della Regione, quali un elevato livello di reddito, il suo
inserimento in un contesto macroregionale a elevato benessere, la
diffusione di consumi evoluti, la crescente apertura verso l’esterno, il
riposizionamento di alcune filiere produttive verso le funzioni di pregio,
la crescente attenzione alla qualità dei prodotti, la razionalizzazione
delle strutture aziendali orientate dall’acquisita consapevolezza della
strategicità della componente ambientale nelle scelte;
tali
condizioni
favorevoli
sembrano
caratterizzare
soprattutto
il
capoluogo piemontese, che dovrà fungere da promotore di uno sviluppo
che si ripercuote gradualmente sull’intero territorio.
Alcuni elementi di fragilità possono comunque essere rinvenuti: il tasso
di crescita dell’economia piemontese è stato negli anni Novanta
leggermente inferiore alla media nazionale e fortemente distanziato dalle
vivacissime Regioni del Nord-est; la stasi del reddito disponibile e la
preoccupazione sulle prospettive economiche di vita, più marcata che in
altre
realtà
regionali,
potrebbe
incidere
negativamente
sull’imprenditorialità dei piemontesi e sulla dinamica di consumi e
investimenti; i livelli di disoccupazione dell’area torinese risultano fra i
più elevati del Nord Italia; la qualificazione scolastica e professionale va
adeguatamente stimolata e indirizzata, per colmare il gap esistente con
le altre Regioni del Nord, dove il grado di istruzione della forza lavoro è
mediamente più elevato, e per rispondere con più efficacia alle esigenze
di professionalità espresse dalle imprese; il divario fra uomini e donne,
189
in termini di partecipazione al lavoro, livelli retributivi e percorsi di
mobilità verticale si dimostra persistente.
Oggi il Piemonte si trova dunque esposto ad evoluzioni molto
differenziate, che contengono al loro interno tanto elementi di forza e
opportunità di crescita, quanto fattori di debolezza, che richiedono
un’attenta gestione strategica.
Il quadro che ne emerge è quello di una situazione di tensione tra il
lascito
di
un
passato ipermanifatturiero che ancora condiziona
negativamente la creatività del sistema economico piemontese (ad
esempio attraverso una forza lavoro non sempre dotata dei necessari
requisiti di qualificazione e adattabilità rispetto alle possibilità di
business create dall’ICT) e un complesso di spinte innovative che ancora
non sono riuscite compiutamente a “fare sistema”, a volte per debolezza,
a volte
perché
non del
tutto
compatibili
entro
linee
evolutive
convergenti; il sistema che qui si propone, il virtual accelerator, è volto a
sostenere proprio questo processo attualmente ancora incompleto.
Il territorio piemontese, grazie al suo alto livello di industrializzazione e
di dotazione tecnologica, rappresenta in Europa una delle sette aree di
maggior interesse per lo sviluppo della Società dell’Informazione: da un
lato perché la presenza significativa di imprese e di una rilevante culture
del lavoro offrono il miglior substrato per la transizione a un sistema
economico più improntato alla net economy e dall’altro perché il sistema
socioeconomico del Nord-ovest sta ormai chiedendo a gran voce di non
essere relegato al ruolo di gregario nel panorama evolutivo europeo.
Le imprese piemontesi operanti nell’Ict sono circa 5000, di cui il 64%
(3200) localizzate in provincia di Torino: un dato che si riflette anche
sulla forte vocazione all’export high tech del capoluogo piemontese. Dal
190
punto di vista territoriale, si segnala un evidente squilibrio tra la
situazione torinese/canavesana da un lato, aree in cui si concentrano le
funzioni strategiche dell’offerta di servizi e tecnologie, nonché la più
elevata densità di imprese ICT, e il resto della Regione dall’altro,
territorio che a sua volta appare diviso tra la vivacità di alcune aree
distrettuali (Albese e Valenza Po in primis) e il ritardo di altre.
Figura 36
Imprese piemontesi impegnate nella “new economy”.
In Piemonte, secondo l’indagine sulle città digitali promossa da
Assinform-Rur, nel 1999 vi erano solo 66 enti dotati di collegamenti in
rete (fra cui la Regione, 4 Province e non più di 60 Comuni), ma anche
le amministrazioni si stanno ora adeguando, sotto la spinta unificatrice
dell’Aipa
(Agenzia
per
l’Informatizzazione
della
Pubblica
Amministrazione). In totale, ad oggi, oltre il 50% dei Comuni ha aderito
o pre-aderito all’iniziativa e il 25% di essi è già collegato in rete.
191
Prospettive per il futuro
Tenteremo ora, in conclusione, di evidenziare gli elementi fondamentali
per la promozione di un contesto economico orientato alle nuove
tecnologie
dell’informazione,
valutando,
in
particolare,
la
loro
presenza/assenza nel territorio piemontese. Per analogia con le analisi
fatte nei capitoli precedenti riguardanti alcune realtà mondiali,
scegliamo come fattori fondamentali l’infrastrutturazione del territorio,
la disponibilità di risorse umane e le risorse finanziarie disponibili,
intese sia come investimenti che come mercato potenziale di partenza.
Infrastrutture: La presenza di infrastrutture sufficientemente diffuse,
unita allo sfruttamento delle più moderne tecnologie è sicuramente una
condizione di base per lo sviluppo di azioni legate all’economia basata
sulla conoscenza.
In particolare è necessario valutare la presenza di
spazi fisici attrezzati e di reti diffuse sul territorio.
Localizzazione: Gli spazi fisici necessari alla collocazione, allo sviluppo e
alla consulenza tecnica di imprese operanti nel settore ICT e della
Società dell’Informazione sono ritenuti necessari per poter ospitare le
infrastrutture e godere di condizioni vantaggiose per accedere alla Rete
e ai relativi servizi (hosting, housing, ecc.).
Reti: Torino metropoli vanta attualmente la presenza di numerosi
operatori di telecomunicazione, che sembrano competere soprattutto
attraverso interventi di cablaggio in fibra ottica della città, che vanta
dunque una rete a banda larga diffusa.
Ben diversa è
la situazione
nella restante
parte
del territorio
piemontese, dove una crescita delle infrastrutture ICT permetterebbe di
192
riflesso un maggiore sviluppo economico offrendo servizi, agevolazioni e
connettività a banda larga.
Occorre quindi cercare di contrastare una situazione evolutiva di digital
divide,
soprattutto
tramite
l’intervento
sia
della
pubblica
amministrazione, che delle imprese private.
Risorse umane: La presenza di capitale umano qualificato è un altro
fattore fondamentale per lo sviluppo di un sistema imprenditoriale
competitivo inserito in un’economia basata sulla conoscenza. I nuovi
centri per l’impiego devono costituire, sotto questo profilo,
un
riferimento territoriale forte, dove far convergere le varie competenze
riconoscibili sul mercato (orientamento, formazione, incontro domandaofferta), creando le opportune sinergie per alimentare il processo,
ancora fragile di job-creation.
Sistema universitario e formazione superiore: Un forte sostegno alla
creazione di capitale umano qualificato è garantito dalla presenza
nell’area torinese di ottime strutture pubbliche di formazione e di
ricerca e sviluppo scientifico-tecnologico di valore europeo e mondiale
quali il Politecnico, con il relativo incubator, l’Università degli Studi, Csi
e Csp, senza contare i centri di ricerca privati, tra i quali TiLab.
Un’azione sinergica di queste strutture è uno dei presupposti per il
corretto funzionamento del virtual accelerator.
Presenza di talenti (imprenditoriali e non): Le ricerche che monitorano la
domanda occupazionale di ICT e la relativa offerta rilevano la presenza
in Italia di un significativo “skill shortage”; tale situazione riflette anche
quella piemontese dovrebbe essere cambiata puntando su politiche di
formazione unite a una capacità di attrarre giovani talenti stranieri.
193
Risorse finanziarie: L’offerta di capitale per gli investimenti tradizionali
appare ben strutturata, mentre è poco presente l’offerta di “venture
capital” per le attività innovative e orientate all’economia della
conoscenza. Questo è uno dei fattori, come abbiamo prima analizzato,
che caratterizza la grande diversità tra gli investimenti Italiani (ed in
molti casi europei) e quelli extra comunitari nei quali l’apporto dei
capitali privati raggiunge in certi casi anche l’80%.
Possiamo dire che le caratteristiche fondamentali di un venture capital
sono quelle di un investimento:
a) di lungo termine;
b) a elevato rischio e ad alto potenziale di crescita;
c) con un ritorno atteso dalle 5 alle 10 volte quanto inizialmente
stanziato;
d) con un minor costo del finanziamento rispetto al capitale di debito;
e) con un forte investimento nelle persone e nelle idee.
Internet e le tecnologie di rete in generale (ICT) rappresentano oggi lo
strumento fondamentale per permettere ai sistemi territoriali di
raggiungere quei livelli di qualità e di competitività in grado di
posizionarli favorevolmente nel nuovo contesto competitivo.
Si tratta di una sfida di modernizzazione di straordinarie dimensioni,
che coinvolge tutti gli attori del sistema territoriale.
Le ICT costituiscono la “tecnologia abilitante” all’accesso a un sistema
di interscambio sociale ed economico più legato al capitale della
conoscenza e alla valorizzazione del capitale sociale, e come tali
diventano uno strumento essenziale per il sistema territoriale.
194
In questa prospettiva la pubblica amministrazione è chiamata a guidare
l’adeguamento del territorio alla diffusione delle nuove tecnologie,
nell’obiettivo di non rimanere intrappolati dal meccanismo del digital
divide.
La Provincia di Torino con la sua storia sociale e industriale ha
necessità di introdurre al proprio interno tutte queste nuove possibilità,
secondo un procedimento “governato” che permetta di utilizzare al
meglio le opportunità di sviluppo economico e occupazionale, unito al
miglioramento della qualità della vita.
Al fine di veicolare questi cambiamenti per il territorio piemontese, si
ritiene necessaria l’adozione di una strategia di sviluppo che possa
agevolare la crescita economica sotto il profilo della nuova economia
basata sulla conoscenza.
A tal proposito si crede che i passi da
sostenere riguardino in particolare :
a) disponibilità di risorse umane qualificate;
b) facilità di accesso a risorse finanziarie;
c) rapporto virtuoso tra territorio e Università locali;
d) efficienza delle infrastrutture;
e) incentivi e venture capital per lo start-up;
f) incubators di impresa nel settore dell’ICT;
g) buon livello di qualità della vita.
Ricercando la presenza di tali fattori di sviluppo nello scenario
piemontese, l’area di Torino si evidenzia come un territorio dotato di
buone basi di partenza per lo sviluppo della Società dell’Informazione.
195
Tra le condizioni di base si rilevano infatti:73
a) ottime strutture pubbliche di formazione e di ricerca e sviluppo
scientifico-tecnologico
di
valore
europeo
e
mondiale
(Politecnico,
Università degli Studi, Csi, ecc.);
b) presenza di aziende leader in ricerca e sviluppo in settori high e
medium-tech quali:
– telecomunicazioni, elettronica, It (Motorola, Lucent, Agilent, TiLab),
– automobile e design (Fiat/Crf, Pininfarina, Italdesign),
– aerospaziale (Alenia, Sia);
c) ampia base di Pmi attive nel settore Ict (oltre 3000);
d) presenza di infrastrutture e network (parchi tecnologici e incubators,
Rupar, iniziative integrate tra istituzioni pubbliche e private quali
Torino Internazionale e l’Istituto Superiore per le Telecomunicazioni
Mario Boella).
Anche altre condizioni sembrerebbero favorire l’area torinese:
a) il Miur appoggia Torino come esperienza pilota di cluster hi-tech in
Italia e sceglie la città come polo di eccellenza nel wireless (cfr. Torino
Internazionale, Accelerare la realizzazione del cluster hi-tech di Torino,
agosto 2000);
b) le Olimpiadi Invernali del 2006 offriranno una buona visibilità e un
certo appeal internazionale nel medio termine.
Per il Piemonte, si ritiene quindi importante la necessità di potenziare
alcuni fattori chiave per lo sviluppo dell’economia basata sulla
conoscenza ed in particolare:
73
V. Ferrero: “Contesto economico” IREscenari, Torino, 2003
196
a) diventare un centro di eccellenza capace di attrarre talenti e
potenziali imprenditori o tecnici per il settore dell’information society a
livello internazionale;
b) diffondere una cultura imprenditoriale;
c) attrarre capitali di investimento quali privati sia sottoforma di venture
capital, sia di investimenti esteri.
197
CONCLUSIONE
L’economia
della
conoscenza,
come
abbiamo
potuto
analizzare
attraverso i precedenti capitoli, si è integrata nella società di numerose
realtà economiche.
Ci sono paesi come gli Stati Uniti, Australia,
Canada etc… che hanno scommesso il loro sviluppo economico
sull’implementazione delle caratteristiche tipiche di un’economia basata
sulla conoscenza.
Abbiamo visto gli elementi fondamentali che costituiscono questi tipi di
economie, attraverso i quali è possibile comprendere l’importanza degli
investimenti in ricerca e sviluppo.
Il Capitale Umano costituisce la base di ogni economia basata sulla
conoscenza,
ma
ugualmente
importanti
sono
lo
sviluppo
delle
infrastrutture in ICT che permettono la comunicazione e l’informazione,
la globalizzazione che rende il capitale umano, le idee e le merci
accessibili ovunque e libere di spostarsi, ed in fine l’innovazione, come
base per gli investimenti in ricerca e sviluppo.
L’attività innovativa è diventata la “religione industriale” del XXI secolo,
nel senso che le imprese la vedono come lo strumento chiave con cui
aumentare profitti e quote di mercato ed i governi si affidano ad essa
quando cercano di sviluppare l’economia.
Negli ultimi anni, caratterizzati da rivolgimenti tecnologici profondi
indotti dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, è
emerso con evidenza il nesso causale esistente fra capacità innovativa e
crescita economica. Si è visto, cioè, che le imprese che innovano sono
198
quelle più capaci di utilizzare al meglio le risorse nel processo
produttivo e sono, quindi, destinate ad espandersi a scapito delle
concorrenti non innovatrici.
Attraverso l’analisi delle importanti regole che stanno alla base della
crescita economica, abbiamo potuto comprendere la differenza tra la
visione neoclassica e quella della “New Growth Theory”.
In quest’ultima si cerca di spiegare la crescita economica utilizzando la
tecnologia e l’input del capitale umano non come fattori esogeni, ma
come caratteristiche fondamentali di un’economia.
A seguito di questi principi si è insistito sull’importanza della R&S come
fattore di crescita economica sia in ambito macroeconomico che
microeconomico.
A titolo di esempio abbiamo potuto analizzare alcune economie mondiali
che hanno basato la loro crescita economica sull’implementazione della
conoscenza, del capitale umano e della ricerca e sviluppo.
Paesi quali gli Stati Uniti, Australia, Giappone, Canada, Finlandia
hanno già strutturato le loro economie in questo senso passando da
economie industriali (sovente in crisi) a delle realtà basate sullo
sviluppo delle ICT e dove il Capitale Umano riveste un ruolo primario.
In conseguenza di ciò possiamo dire che l’istruzione e l’educazione sono
due elementi chiave sui quali ogni organizzazione dovrebbe investire per
garantire una continua capacità innovativa ed una crescita economica
stabile.
A tal proposito abbiamo potuto valutare, attraverso l’ultimo capitolo, la
situazione attuale ed alcune prospettive future del nostro paese ed in
particolare della regione del Piemonte.
199
L’Italia, globalmente, investe nella ricerca e sviluppo circa lo 0.5% del
suo GDP, una cifra decisamente inferiore rispetto alla media Europea
dell’ 1.2% che resta decisamente lontana dai valori di paesi quali gli
Stati Uniti, Giappone che raggiungono il 3%.
Il Piemonte, nel quadro europeo, si distingue per il suo costante
impegno nella ricerca e sviluppo realizzando un investimento medio di
circa l’1.7% del GDP regionale.
Questo fa del Piemonte un caso singolare e di esempio per le altre
regioni europee.
Il nuovo obiettivo imposto dalla Commissione europea per il 2010 porta
l’investimento in R&S al 3% del GDP per tutte le nazioni europee in
modo da poter rilanciare l’economia europea a fronte delle crescenti
economie
extra-comunitarie.
Questo
permetterà
sicuramente
al
Piemonte da far da guida all’economia nazionale e di trovare nuove aree
di sviluppo per raggiungere gli obiettivi prefissati.
Resta in Italia, particolarmente ampio il divario tra investimenti pubblici
e privati nella ricerca e sviluppo.
Mentre paesi come Stati Uniti,
Australia, Finlandia presentano una quota di investimenti privati in
R&S decisamente maggiore di quella pubblica, in Italia, ed anche in
Piemonte, i privati non contribuiscono efficacemente, determinando una
minor crescita economica.
Crediamo dunque che sia importante, tanto per le realtà regionali quali
il
Piemonte,
quanto
per
l’Europa
in
generale,
lo
sviluppo
e
l’incentivazione degli investimenti in Ricerca e Sviluppo da parte dei
privati per determinare un mercato concorrenziale capace di autoregolarsi e di portare una crescita economica adeguata al panorama
mondiale attuale.
200
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INDICE DELLE FIGURE E TABELLE
Figura 1 La funzione della produzione. ............................................. 12
Figura 2 La quantità di lavoro domandata in un sistema di concorrenza
perfetta. ...................................................................................... 14
Figura 3 L’equilibrio del mercato del lavoro. ...................................... 15
Figura 4a L’equilibrio IS-LM di breve periodo. ................................... 17
Figura 5b L’equilibrio IS-LM di breve periodo. ................................... 18
Figura 6c L’equilibrio IS-LM di lungo periodo. ................................... 19
Figura 7 Come agiscono le tre fonti della crescita sulla funzione della
produzione. ................................................................................. 21
Figura 8c Il progresso tecnico nello schema IS-LM/AD-AS. ............... 25
Figura 9a Il progresso tecnico nello schema IS-LM/AD-AS. ............... 26
Figura 10c Ciclo e trend: la loro scomposizione e rappresentazione nello
schema ....................................................................................... 26
Figura 11d Il progresso tecnico nello schema IS-LM/AD-AS. ............. 27
Figura 12 Interazione fra ricerca ed apprendimento. ......................... 41
Figura 13 Capitale intellettuale, apprendimento e creazione di nuova
conoscenza.................................................................................. 54
Figura 14 Il Processo di creazione ed utilizzo della conoscenza. ......... 61
Figura 15 Processo di Learning ......................................................... 62
Figura 16 Gestione del capitale intellettuale...................................... 64
Figura 17 Evoluzione degli indicatori di “Digital Divide” tra Paesi. ..... 79
Figura 18 Dinamica del mercato mondiale dell’ICT e del PIL (19912000). ......................................................................................... 81
Figura 19 Tassi annui di crescita del mercato dell’informatica negli
Stati Uniti, in Europa ed in Italia (1987-2000) - Variazioni % su
anno precedente.......................................................................... 82
Figura 20 Innovazione = Cambiamento ............................................. 95
Figura 21 I filoni della teoria dell’innovazione.................................... 96
Figura 22 Il sistema innovativo. ........................................................ 99
203
Figura 23 Spesa totale per ricerca e sviluppo in percentuale sul PIL
(1994-2001) .............................................................................. 105
Figura 24 La crescita: il risultato dell’interazione tra fattori quantitativi,
qualitativi e fattori socio-culturali ed istituzionali. ..................... 109
Figura 25 Dinamica del ciclo di vita del prodotto............................. 111
Figura 26 Fluttuazioni cicliche dell’economia. ................................. 112
Figura 27 Crescita delle collaborazioni per R&S negli USA. ............. 144
Figura 28 Indicatori scientifici e tecnologici 2003. ........................... 150
Figura 29 Percentuale di spese per R&S in rapporto al PIL.............. 151
Figura 30 Percentuale del valore complessivo di spese per R&S,
finanziate dall’industria (in %). .................................................. 152
Figura 31 Produttività totale dei fattori. .......................................... 165
Figura 32 Investimenti in R&S nel 2001. ........................................ 166
Figura 33 Spesa pubblica in R&S nel 2000. .................................... 168
Figura 34 Spesa privata in R&S nel 2000........................................ 169
Figura 35 Spesa in R&S di alcune regioni europee (valori in %). ...... 181
Figura 36 Imprese piemontesi impegnate nella “new economy”. ...... 191
Tabella 1 Crescita nelle esportazioni per settore industriale. .................. 69
Tabella 2 Crescita della spesa e del commercio in ICT............................... 73
Tabella 3 Tabella 3 Spesa in ICT e commercio sul PIL. .............................. 75
Tabella 4 Classifica dei paesi in termini di esportazioni. ........................... 78
Tabella 5 Spesa per R&S globale in USA per settore esecutore
(composizione per settore). .......................................................................... 141
Tabella 6 Spesa per R&S globale in USA per settore finanziatore
(composizione percentuale). ........................................................................ 145
Tabella 7 Spesa per R&S in USA, imprese, per settore finanziatore
(composizione percentuale). ........................................................................ 147
Tabella 8 Spesa per R&S nel 2000. ................................................................. 167
Tabella 9 Caratteristiche dello sviluppo nelle regioni italiane (Variazioni
% su valori a prezzi costanti 1993-'98) ................................................... 179
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