I COMUNI ITALIANI E FEDERICO BARBAROSSA
L'espansionismo dei comuni appartenenti al regno d'Italia si era potuto realizzare in
conseguenza della situazione politica venutasi a creare nel Sacro Romano Impero.
Dopo la morte di Enrico V, protagonista del concordato di Worms ed ultimo imperatore della
casa di Franconia (1125), la Germania era sprofondata in un periodo caratterizzato da ininterrotte
guerre feudali per la successione al trono.
Il titolo imperiale era infatti conteso fra i sostenitori dei duchi di Svevia, la famiglia degli
Hohenstaufen (detti ghibellini, dal castello svevo di Waiblingen) e quelli dei duchi di Baviera e
Sassonia, i Welfen (detti guelfi, dal capostipite Welf), II termine «ghibellino» e il termine «guelfo»,
diffusisi in Italia nel secolo XIII, indicheranno rispettivamente i seguaci dell'idea imperiale e i
sostenitori del papato.
Con l'elezione al trono imperiale di Federico I di Svevia (1152-1190), che era un sovrano
imparentato anche con i duchi di Baviera, il duro scontro dinastico in atto nel Sacro Romano
Impero si era venuto attenuando.
Il nuovo imperatore, un monarca dalla forte personalità, che desiderava ripristinare il proprio
ruolo egemonico ormai decaduto, ebbe pertanto la possibilità di occuparsi, dopo decenni di
trascuratezza, della situazione del regno d'Italia, dove sarebbe disceso per ben cinque volte.
Federico I, in seguito definito dagli italiani il Barbarossa per il pelo fulvo che gli ornava il
volto, considerò del tutto intollerabili l'indipendenza e l'illegittima espansione di molti comuni, cosi
come gli sembrò insostenibile lo stato di disordine e di guerra endemica provocato
dall'espansione di Milano a danno delle città minori, le quali gli facevano pervenire continue
lamentele.
Nel 1154, durante la sua discesa verso Roma per farsi incoronare dal papa, l'imperatore sostò a
Roncaglia, presso Piacenza, dove convocò una «dieta» - cioè un'assemblea giudiziaria composta dai
feudatari - nella quale invitò i comuni, e soprattutto Milano, sia a ripristinare i diritti imperiali
usurpati, sia a restituire ai «signori» ed alle altre città i territori illegittimamente conquistati.
In un primo momento egli agì in sintonia con il papa, aiutandolo a riconquistare Roma, da
dove era stato cacciato.
Anche nella città eterna, infatti, come in molte altre, era scoppiato un moto comunale (1143)
sostenuto dalle classi sociali emergenti, che avevano imposto istituzioni ispirate all'antica repubblica
di Roma; il papa era stato costretto a fuggire. Protagonista del movimento era quindi diventato
Arnaldo da Brescia, un monaco animato da idee riformatrici, che con la sua predicazione ispirata a
temi pauperistici, aveva attirato e coinvolto anche i più umili strati del popolo. Caduto in disgrazia
anche presso le istituzioni comunali romane - le quali temevano che rivolta politica degenerasse in
rivolta sociale -, Arnaldo, dopo l'insediamento di papa Adriano IV sotto la protezione dell'imperatore,
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dovette lasciare Roma; venne quindi catturato dal Barbarossa e bruciato come eretico.
Ma la manifesta intenzione di Federico I di Svevia di porsi alla guida di tutto il mondo cristiano,
la tendenza cioè al dominium mundi, a cui anche la Chiesa, da Gregorio VII in poi, aspirava, irritò ben
presto la curia papale.
Fra i due poteri nacquero dissapori che sfociarono in scontro aperto dal momento in cui
l'imperatore iniziò ad opporre a papa Alessandro III ( 1159'! 181) una lunga serie di antipapi, che
si succedettero per ben diciassette anni.
Quando l'imperatore, per fare rispettare le inascoltate ordinanze sui diritti imperiali più volte
emesse, prima assediò e sconfisse Milano (1158), poi la rase al suolo (1162), il papato appoggiò senza
incertezze le posizioni comunali.
In seguito alla sua politica autoritaria e violenta nei confronti delle libertà cittadine, che lo
aveva spinto alla distruzione di Milano, Federico Barbarossa perdette a poco a poco anche
l'appoggio dei comuni minori. Inoltre, per opporsi al comportamento decisamente liberticida
dell'imperatore, molte città dell'Italia centro-settentrionale finirono per coagularsi in due leghe, la
lega veronese (1163) e lega lombarda (1167); quest'ultima edificò una nuova città fortificata,
Alessandria, cosi chiamata in onore del papa.
L'imperatore, a cui erano rimaste fedeli ormai pochissime città, tentò di stroncare questa
ennesima opposizione armata, ma, sottovalutando le forze comunali, fu sconfitto nella battaglia di
Legnano (1176) e dovette sottostare alle nuove condizioni firmate nella pace di Costanza (1183): i
comuni si riprendevano i diritti politici ed economici già di pertinenza imperiale, pur accettando di
soggiacere ad una sudditanza formale al Barbarossa.
Si riconciliavano intanto anche papato ed impero, decidendo di porre fine allo scisma e di
procedere uniti contro le dottrine eretiche che si diffondevano fra i cristiani; questa nuova posizione
di difensore della Chiesa portò l'imperatore ad aderire alla terza crociata nel corso della quale egli
peri in un banale incidente, durante l'attraversamento di un fiume in Anatolia (1190).
L'opera politica del Barbarossa non si era tuttavìa esaurita con il cedimento nei confronti dei
comuni; nel 1186 era infatti riuscito ad unire in matrimonio il figlio, futuro Enrico VI, con Costanza
d'Altavilla, unica discendente della dinastia normanna di Sicilia, ponendo le premesse dì un allargamento dell'impero.
INNOCENZO III E L’EGEMONIA PAPALE
Alle soglie del secolo XIII la Chiesa godeva in Europa di una posizione di grande prestigio.
Essa esercitava la sua autorità non solo in campo spirituale, ma anche sulle questioni politiche e
dinastiche dell'impero e degli altri regni europei, riuscendo a ottenere adesioni alle crociate contro
gli infedeli da parte di numerosi nobili e regnanti.
L'ascesa al soglio papale di un colto esponente della nobiltà romana, Lotario dei conti di
Segni, con il nome di Innocenzo III (1198-1216), rafforzò ulteriormente l'influenza della Chiesa
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sul mondo cristiano.
Innocenzo III, sviluppando i disegni egemonici di Gregorio VII, elaborò un progetto di vera
e propria teocrazia papale: il papa, in quanto «vicario di Cristo» sulla terra, doveva essere
considerato la massima autorità non solo spirituale, ma anche temporale; dall'autorità pontificia
derivava, e ad essa era sottoposto, ogni altro potere, compreso quello dell'imperatore e di tutti i
principi cristiani; questi avrebbero dovuto ridursi a semplici vassalli, da sollecitare in caso di
bisogno, e da reprimere con scomuniche e confische territoriali nell'eventualità di divergenze dal
volere papale.
Innocenzo III si avvaleva innanzitutto, per l'attuazione del proprio progetto, di una solida
preparazione in diritto e teologia, che aveva acquisito nelle scuole di Bologna e di Parigi.
Tale capacità culturale, unita alle sue ferree convinzioni sul primato del potere papale e ad una
eccezionale abilità politica, condusse il pontefice là dove aveva in parte fallito Gregorio VII, che
ai suoi tempi era stato fieramente contrastato dall'imperatore Enrico IV: riuscire a frenare le
ambizioni egemoniche degli imperatori tedeschi. Queste parvero essersi pericolosamente
realizzate quando, alla morte di Federico Barbarossa (1190), il figlio Enrico VI, unitosi in
matrimonio con Costanza d'Altavilla, divenne erede anche dei possedimenti normanni nel sud
d'Italia, riuscendo cosi ad estendere i domini imperiali fino a cingere, da sud e da nord, i territori
della Chiesa come in un assedio. Ma le circostanze resero possibile un'immediata contromossa
papale; Enrico VI infatti mori prematuramente nel 1197, lasciando un erede di soli tre anni,
Federico II. Nel vuoto di potere che venne a crearsi e che scatenò una dura lotta per la
successione al trono, il papa si intromise prontamente rivendicando - grazie alla consuetudine in
uso fin dalla conquista normanna -la supremazia della Chiesa sul regno di Sicilia; alla morte di
Costanza (1198) ottenne inoltre la tutela sul piccolo Federico, schierandosi allo stesso tempo in
favore del «guelfo» Ottone IV di Brunswick, che contendeva al pretendente svevo, Filippo, ultimo
figlio del Barbarossa, il trono di Germania; quando però si accorse che anche Ottone, diventato
imperatore (1209-1218), intendeva condurre una politica di potenza, non esitò a scomunicarlo, e ad
opporgli il proprio protetto, Federico II, che nel 1212 divenne re, oltre che di Sicilia, anche di
Germania: il papa era riuscito cosi, fomentando inimicizie e contrasti fra i principi tedeschi, a
controllare tutto l'impero.
Oltre a frenare le mire dei re e dei feudatari germanici, Innocenzo colse in Europa altri successi
politici, costringendo al vassallaggio il re d'Inghilterra Giovanni Senzaterra - dopo averlo
scomunicato in seguito ad un contrasto sulla nomina dell'arcivescovo di Canterbury -, e ricevendo
spontanea sottomissione da parte dei regni cristiani d'Oriente, del regno aragonese, di quello
portoghese, di quello bulgaro e di quello ungherese. Tali sottomissioni portavano al papato non
soltanto un indubbio prestigio politico, ma anche tangibili vantaggi materiali sotto forma di
indennizzi e versamenti di denaro.
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Con l'organizzazione della quarta crociata (1202-1204), che fu dirottata su Costantinopoli per
volere dei veneziani (vedi cap. Quattro, par. 4), il papa questa volta falli il suo obiettivo primario, che
era quello di combattere gli infedeli; comunque cercò di limitare lo smacco subito, proponendosi di
fare del neonato impero latino d'Oriente, sorto sulle ceneri di quello bizantino, uno stato cristiano
vassallo della Chiesa, proprio nel territorio degli scismatici bizantini.
FEDERICO II E IL REGNO DI SICILIA
Mentre la Chiesa si andava rafforzando nelle strutture politiche e si fortificava nell'impianto
dottrinario grazie all'opera di eminenti intellettuali, anche l'impero, nella prima metà del XIII secolo,
stava per raggiungere il suo massimo splendore.
Abbiamo visto come il figlio primogenito di Barbarossa, Enrico VI (1191-1197) fosse riuscito,
grazie al matrimonio con Costanza d'Altavilla, a riunire le corone di Germania e di Sicilia. Per rendere
effettiva tale unificazione, però, egli aveva dovuto impegnarsi su vari fronti. In Germania aveva
combattuto con successo contro le forze feudali avverse agli Svevi, arrivando ad imprigionare il re
d'Inghilterra Riccardo Cuor di Leone, alleato dei suoi nemici, che tornava dalla terza crociata. In
Italia meridionale aveva contrastato le pretese alla successione del regno di Sicilia, dopo la morte di
Guglielmo II (1166-1189), da parte di Tancredi di Lecce, un nipote naturale del sovrano defunto,
sostenuto, invano, da papa Celestino III, timoroso della crescente potenza dell'impero. Enrico VI
mirava alla realizzazione di un «impero universale», esteso dalla Germania ai territori bizantini,
fondato sull'ereditarietà del titolo imperiale e sulla supremazia dell'impero nei confronti del papato.
L'attuazione di tale progetto, per altro fortemente ostacolata dal pontefice, dai feudatari tedeschi, dai
comuni italiani e dai nobili normanni, fu interrotta dalla improvvisa morte dell'imperatore nel
1197.
Il compito di continuare l'opera di Enrico VI toccò al figlio Federico II, che era rimasto per
molti anni sotto l'ombra e la protezione interessata del papato, guadagnandosi per questo il
soprannome di «re dei preti».
Abiurando le promesse fatte in precedenza a papa Innocenzo III, con le quali si impegnava a non
riunificare la Germania ed il regno di Sicilia in un solo impero, egli riprese la strada già battuta dal
padre e si fece incoronare imperatore nel 1220 da papa Onorio III - un pontefice certamente più malleabile del precedente -, dopo aver assegnato il regno di Germania al proprio figlio Enrico.
Nel corso del suo lungo regno (1220-1250) Federico II cercò di organizzare un vasto e potente
impero, non più centrato sulla Germania, ma, come al tempo degli Ottoni, imperniato sull'Italia e
sul Mediterraneo, in particolare sul regno di Sicilia; egli sì trasferì infatti a Palermo,
organizzandovi una corte ricca, fastosa e centro di una vivace attività culturale; a Palermo sorse
anche la «scuola siciliana», la prima della nostra letteratura, che tanto avrebbe influenzato lo
sviluppo poetico toscano.
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La personalità di Federico II fu estremamente complessa: alla sua formazione avevano
contribuito sia una molteplicità di esperienze, che andava dagli stretti rapporti con i papi alle
amicizie con gli emiri arabi, sia una composita miscela di tradizioni diverse - tedesche,
normanne, italiane, arabe -, grazie alla quale egli era in grado di parlare ben cinque lingue.
Per consolidare il proprio potere l'imperatore operò una profonda ristrutturazione del
regno siciliano, che, pur sconvolto da decenni di anarchia feudale, era tuttavia ricco e fertile; a
tale scopo egli realizzò uno stato accentrato e dotato di possenti strutture burocratiche, sulla
traccia di quello normanno, ma irrobustito dall'introduzione del diritto e della tradizione
romani.
Tale scelta politica accentratrice fu accompagnata dalla formazione di una nuova classe di
funzionari imperiali - educati nel campo del diritto presso l'università di Napoli fondata dallo
stesso imperatore - e dall'unificazione legislativa. Federico affidò quest'ultima, importantissima
opera a due famosi giuristi del tempo: Pier delle Vigne e Jacopo Amalfitano, arcivescovo di
Capua; frutto del loro lavoro furono le Constitutiones regni utriusque Siciliae (leggi del regno delle
due Sicilie). Promulgate dall'imperatore in un parlamento tenutosi a Melfi nel 1231, e per questo
note come «Costituzioni di Melfi», esse erano divise in tre libri: il primo trattava
dell'ordinamento complessivo, il secondo del processo, il terzo del diritto civile, penale e feudale.
Sintesi del diritto romano, della legislazione normanna e delle nuove disposizioni imperiali, esse
rappresentano uno dei più importanti documenti del diritto medievale.
Il lato debole del governo di Federico si rivelò nell'eccessivo carico fiscale, finalizzato al
mantenimento dell'imponente apparato amministrativo e ad una rinnovata politica di potenza, a
cui furono sottoposte le regioni meridionali e soprattutto le città, che, dopo essere state costrette
a rinunciare alle proprie iniziative politiche ed economiche a vantaggio della corte imperiale,
vedevano defluire verso di essa la maggior parte delle loro ricchezze.
Avendo spostato il baricentro del suo impero in Italia meridionale, Federico II trascurò
progressivamente il regno di Germania, tanto da lasciare via libera al potere dei feudatari, ai quali
egli stesso riconobbe il diritto alla sovranità territoriale con un editto intitolato Constitutio in
favorem principum. Era l'inizio della divisione del territorio tedesco in una molteplicità di regni,
ducati e principati, che avrebbe impedito, contrariamente ad altre nazioni e a somiglianza
dell'Italia, il formarsi di uno stato nazionale.
Il figlio Enrico, sollecitato e aiutato dalle città tedesche che temevano di perdere la loro
autonomia nei confronti dei feudatari, si ribellò alle decisioni paterne: per questa rivolta venne
attaccato, sconfitto ed imprigionato dal padre, che pose al suo posto il secondogenito Corrado
IV, un bambino di appena nove anni.
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UNA NUOVA OFFENSIVA IMPERIALE
Federico II, che stava formando nell'Italia meridionale un regno forte e burocratizzato, cominciò
a guardare anche verso l'Italia settentrionale, di cui era formalmente re - si ricordi che il titolo di re
d'Italia era collegato a quello di imperatore -, intenzionato a ricomporre i domini imperiali, che cosi
non avrebbero avuto soluzione di continuità dal mar Baltico al Mediterraneo.
Egli cercò di riportare sotto la propria egemonia i comuni centro-settentrionali, usi ormai ad una
larga autonomia, ma questi costituirono nel 1226 una nuova lega lombarda, sulle tracce di quella
vittoriosa contro il Barbarossa, per difendersi dalle pretese imperiali.
Anche il rapporto fra l'imperatore e la Chiesa, in precedenza improntato a buoni propositi e
reciproci vantaggi, cominciò ad incrinarsi.
Federico infatti non intendeva tener fede alla promessa, fatta al papato, di condurre una
crociata in Terrasanta, per la quale aveva peraltro già ricevuto in cambio favori e concessioni e
l'incoronazione ufficiale ad imperatore. Egli era contrario ad allontanarsi dagli affari italiani, né
desiderava compromettere i buoni rapporti che andava instaurando con le potenze musulmane nel
Mediterraneo; però, dopo la scomunica inflittagli da papa Gregorio IX (1227-1241), si vide costretto
a partecipare alla sesta crociata (1228-1229), che riuscì a risolvere accordandosi con il sultano
d'Egitto per la liberazione di Gerusalemme, di cui divenne re. Questa soluzione diplomatica, anche
se aveva ottenuto lo scopo prefissato di liberare il Santo Sepolcro, non piacque alla curia romana,
che confermò l'interdetto a Federico e invase con truppe mercenarie il regno di Sicilia. Federico
tuttavia, tornato in patria, respinse l'attacco e costrinse alla pace il papato, che fu indotto a revocare
la scomunica e a riconoscere nuovamente l'autorità imperiale (1230).
Ormai i due poteri erano entrati in un conflitto irreversibile che si tinse di risvolti
spiccatamente religiosi, con reciproche accuse di eresia, lanci di interdetti e prese di posizione
teologiche.
Federico II, se pure decisamente avverso alle eresie e, anzi, loro tenace persecutore, sposò un
certo radicalismo cristiano, avverso ai fasti ed alla ricchezza del papato e della gerarchia ecclesiastica.
I contrasti fra l'imperatore e la lega dei comuni si incanalarono invece su un piano più
specificamente militare. Ad una prima fase favorevole al sovrano, vincitore nella battaglia di
Cortenuova (1237) grazie anche all'aiuto di un potente signore feudale come Ezzelino da Romano,
segui una bruciante sconfitta delle forze imperiali a Fossalta, presso Modena (1249), dove il figlio
naturale di Federico II, Enzo, re di Sardegna, venne catturato dai bolognesi, e costretto poi ad una
lunghissima detenzione.
La morte colse l'imperatore nel 1250, mentre preparava la rivincita contro i comuni della lega.
Egli lasciava un solido regno nel meridione, ma il suo progetto di unificazione dell'Italia restava una
chimera, ed il contrasto fra gli Svevi ed il papato rimaneva pericolosamente acceso.
Inoltre, mentre in Germania il potere pubblico andava dissolvendosi a favore di numerosi
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principati laici ed ecclesiastici, nell'Italia centro-settentrionale si intensificava la lotta tra i comuni,
schierati nei due campi avversi dei guelfi e dei ghibellini a seconda della prevalenza dell'una o
dell'altra fazione al loro interno, delle scelte dei comuni rivali, dei favori ricevuti dal papa o,
viceversa, dall'imperatore.
LA DISCESA DI CARLO D’ANGIO’
La morte di Federico II fu seguita dal rapido sgretolamento della sua ambiziosa costruzione
politica. Corrado IV, suo figlio ed erede, mori nel 1254 lasciando la corona imperiale in balia dei
principi tedeschi, che solo dopo venti anni si accorderanno per l'elezione di un nuovo sovrano. Il
trono di Sicilia, che Corrado IV aveva lasciato al figlioletto Corradino, venne affidato alla reggenza
di un figlio naturale di Federico II, Manfredi, il quale nel 1258, diffusa la falsa notizia della morte
del nipote, assunse direttamente titolo e corona.
Diventato re di Sicilia, Manfredi sembrò rinverdire i fasti di Federico II, ponendosi a capo del
partito imperiale in Italia. Con il suo appoggio, infatti, i ghibellini di Toscana, coagulati intorno al
comune di Siena, inflissero ai guelfi, radunati sotto le insegne di Firenze, una dura sconfitta a
Montaperti (1260).
Il re svevo ottenne anche dei buoni risultati in politica internazionale, riuscendo ad allargare la
propria influenza nel bacino del Mediterraneo, e combinando il matrimonio della figlia Costanza
con Pietro III, l'erede al trono d'Aragona.
Impensierito dall'avanzare minaccioso della potenza del ghibellino Manfredi, il papato reagì,
cercando, attraverso un cavillo politico, di opporgli un valido avversario. Sappiamo che dal tempo
della conquista normanna del sud d'Italia (prima metà del secolo XI) il regno di Sicilia era sottoposto
al vassallaggio del papa, che ne era il formale signore; come tale, egli non solo riscuoteva rendite in
denaro, ma manteneva il potere di nominarne il sovrano.
Il papa francese Urbano IV (1261-1264), al quale fu impedito perfino di risiedere a Roma a
causa del predominio svevo in Italia, sfruttò abilmente questa opportunità feudale ed investi del titolo
di re di Sicilia, in opposizione a Manfredi, Carlo I d'Angiò, un feudatario francese in grande ascesa,
fratello del re di Francia Luigi IX.
Carlo I, che aveva unito alla contea d'Angiò, assegnatagli dal padre, anche la Provenza e parte
del Piemonte, pervenutegli in dote matrimoniale, attratto dalla possibilità di impadronirsi del ricco
regno italiano, accettò nel 1263 la proposta papale, promettendo alla Santa Sede il pagamento di
una altissima rendita.
Le forze angioine, irrobustite dagli eserciti dei comuni guelfi, penetrarono nei territori del regno
di Sicilia ed affrontarono le truppe ghibelline di Manfredi, sconfiggendole nella battaglia di
Benevento (1266), dove lo stesso re svevo perse la vita.
Il tentativo dell'ultimo degli Hohenstaufen, il sedicenne Corradino, di riprendere il regno con
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l'aiuto ghibellino si infranse nel 1268 a Tagliacozzo, in Abruzzo: egli fu catturato e con la sua morte,
avvenuta a Napoli per decapitazione, la dinastia sveva si estinse.
Insediatosi sul trono di Sicilia (1266-1285), Carlo d'Angiò apri il sud d'Italia all'influenza
francese, che si sarebbe protratta fino al XV secolo, e che si concretizzò innanzitutto nell'avvento in
Italia meridionale di una classe politica di stampo feudale, riottosa ed ostile al potere centrale.
Gli Angioini cominciarono a praticare un'ambiziosa politica espansionistica, i cui rilevanti costi
andarono a sommarsi ai debiti contratti per organizzare la spedizione in Italia. Per far fronte a tutte
queste spese essi sfruttarono a fondo le risorse economiche del regno, sottoponendolo ad una massiccia pressione fiscale e lasciando via libera ai mercanti settentrionali, soprattutto fiorentini, che vi
instaurarono una sorta di colonizzazione commerciale.
Il sud, preda di una classe di nuovi padroni sfruttatrice ed assenteista nella gestione economica,
conobbe cosi una lenta ed irreversibile decadenza: il fiorente giardino diventò un terreno che
produceva soltanto grano per città e regni stranieri.
La dominazione angioina, comunque, ebbe breve durata; proprio per la sua rapacità, infatti, in
tutto il regno essa incontrò una vasta opposizione. Quest'ultima era particolarmente accentuata in
Sicilia, dove l'insofferenza per la pressione fiscale, sommata allo scontento per il trasferimento della
capitale da Palermo a Napoli, alimentava fermenti di ribellione sia tra il popolo che presso i nobili,
alcuni dei quali, fedeli agli Svevi, si erano rifugiati alla corte di Pietro III d'Aragona, considerato erede
legittimo del regno di Sicilia in quanto marito di Costanza, figlia di Manfredi.
L'ostilità latente esplose il lunedì di Pasqua del 1282 con una vera e propria rivolta, nota come
«vespri siciliani» per l'ora ed il luogo - il piazzale davanti ad una chiesa - in cui scoppiò. La
sommossa, nata dall'oltraggio fatto da un soldato francese ad una donna siciliana, si estese a
macchia d'olio in tutta l'isola e coinvolse tutti i ceti sociali. I francesi furono vittime di feroci
massacri ed infine cacciati. Mentre le città si organizzavano in comuni, le forze aragonesi, chiamate
dalla classe dirigente locale, occuparono la Sicilia: il loro sovrano Pietro III veniva acclamato re a
Palermo.
Gli Angioini dovettero abbandonare l'isola, ma ingaggiarono una lunga guerra per
riconquistarla. Nel 1302, dopo alterne vicende, il conflitto si concluse con la pace di Caltabellotta,
che mantenne l'Italia meridionale continentale sotto il dominio angioino e assegnò la Sicilia al figlio
di Pietro III d'Aragona, Federico II, che assunse il titolo di re di Trinacria (antico nome greco della
Sicilia). Alla morte di questi l'isola sarebbe dovuta tornare agli Angioini: ma gli Aragonesi non
rispettarono il trattato, facendo della Sicilia un loro possesso ereditario.
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