di Davide Coppo
foto di Delfino Sisto Legnani
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Altre Storie
Me ne sono accorto per caso una sera di inverno, mentre me
ne stavo sul divano a guardare la grandiosità di Apocalypse
Now di Francis Ford Coppola compressa nei tredici pollici
dello schermo di un laptop. Ero arrivato alla “scena-delmango”, quella in cui il soldato Chef si addentra nella giungla
per cercare del mango, e si trova faccia a faccia con una tigre saltata fuori da un cespuglio. Forse la colpa fu della poca
tensione di una scena che conoscevo bene, quasi a memoria,
ma ricordo di non essermi concentrato né su Chef, né sulla
tigre, né sul pericolo che la giungla vietnamita nasconde. Mi
ero concentrato sul cespuglio, che in realtà non era un vero
cespuglio. E pensai: «Che bella alocasia».
L’alocasia è una pianta tipica del Sud-est asiatico, può raggiungere un’altezza di tre o quattro metri ed è caratterizzata
da grosse foglie verdi, simili a orecchie di elefante. Quella dietro cui si nascondeva la tigre vietnamita era del tipo
macrorrhiza, una delle più comuni, potenzialmente la più
grande. La macrorrhiza è anche la stessa alocasia che a pochi
centimetri da me, nel mio salotto, stava patendo la secchezza
dei caloriferi di Milano nord, che avevano già ucciso le due
foglie principali e mettevano in pericolo le restanti, più piccole, alcune neonate. Non avevo ancora capito quale fosse il
problema, cioè la mancanza di umidità, eppure Apocalypse
piante più rare, pezzi di design naturale preziosi e unici.
Questa espressione è strana. Da molti punti di vista, una
pianta non è un pezzo di design, per tutti i motivi elencati
poco sopra in contrasto con i mobili Ikea. Da altri, invece, lo
è. Lo scopo per cui le piante finiscono nelle nostre case, sulle
nostre mensole e sui nostri pavimenti, è uno strano ibrido tra
l'ornamentale e e il funzionale. Dal punto di vista funzionale, soddisfa un probabile istinto atavico dell’uomo: quando
fai crescere qualcosa con le tue cure, ciò che ti ritorna, sotto
forma di soddisfazione e appagamento, dà un certo benessere. Dal punto di vista ornamentale, beh, le piante sono belle.
Almeno: quelle che scegliamo per la nostra casa (quelle brutte
non le conosciamo, perché essendo brutte sono state lasciate
nel loro habitat, ai Tropici). Le piante, su Instagram, su Tumblr, nei servizi di moda e sulle riviste di arredamento, sono
design. Jean Des Esseintes, nel romanzo À Rebours di J.K.
Huysmans, arredava la sua particolarissima casa con fiori e
piante finte, ma di una rassomiglianza al reale così estrema
da renderle indistinguibili. Des Esseintes deficitava evidentemente del lato più sentimentale, ma era un problema non
relegato alle sole piante.
Generalmente, quando realizzo – non lo realizzo immediatamente – di stare attraversando una nuova passione (la
Lo scopo per cui le piante finiscono nelle nostre case è uno
strano ibrido tra l'ornamentale e il funzionale. Dal punto di vista
funzionale, soddisfa un istinto atavico dell’uomo; dal punto
di vista ornamentale, beh, le piante sono belle.
Now presentava già la soluzione: nella giungla, con un’inquadratura a campo più largo, era facile notare le piccole nuvole
di nebbia che permettono alle alocasie di prosperare.
✳
Prima di quell’inverno c’era stato un autunno, prima dell’autunno un’estate e quell’estate mi ero trasferito in una nuova
casa. In poco tempo, come non mi era mai successo prima,
stavo riempiendo la casa di piante. Come un riflesso incondizionato. Si comincia dalle piante-Ikea, posizionate in ogni
megastore svedese strategicamente nell’ultimo reparto, con
una precisa logica commerciale: dopo i mobili pre-fabbricati,
dopo il legno pre-tagliato, le scaffalature in serie e le (brutte)
librerie che hanno uniformato l’estetica dell’arredamento occidentale dal 1965 a oggi, dopo tutto questo legno smaltato,
complementi d’arredo... le piante: che sono uniche, verdi, imperfette, delicate, personali. Vive, soprattutto. Dopo le piante
Ikea (l’iperresistente zamia, l’aloe, i piccoli ficus generalmente destinati a morti precoci) si passa alle piante più tradizionali da appartamento, il ficus elastica, il benjamin, le madeleine dell’infanzia in un salotto con quadro familiare. Poi, se
il vezzo di arredamento diventa passione, inizia la ricerca di
scoperta di uno scrittore; la cucina; un genere cinematografico; il gin) faccio un gioco con me stesso: provo ad andare
a ritroso alle origini della passione, in una specie di logica
deterministica freudiana, convinto che le passioni siano, in
qualche modo, guidate da qualcosa. Qualcosa che può essere
un sentore, soltanto questo. Sfuggente, astratto, intangibile.
L’ho fatto anche con le piante, e ho trovato un po’ di indizi.
Innanzitutto, il nuovo negozio nel nuovo quartiere: ha aperto
poche settimane prima del mio trasferimento, è il mio riferimento e il mio modo preferito di spendere i soldi e regalarmi
piccole dosi di serotonina (sì: capita che le piante migliorino
l’umore, come l’Mdma; no: non rendono più sciolto il ballo
in discoteca). Si chiama Offfi, con tre effe, e lo gestisce Mario
Nobile, uno che dopo dieci anni di management ha mollato
l’ufficio per aprire il suo negozio di piante. Qui le piante sono
particolari, dai cactus crestati ecuadoregni a vari tipi di alocasia del Sud-est Asiatico, al selecio kleinia dall’Etiopia. Mario, quando gli chiedo perché a un certo punto della sua vita
ha deciso di cambiare lavoro così radicalmente, mi dice che
sentiva il bisogno di fare qualcosa di concreto. Vale a dire di
non lavorare soltanto con numeri e dati su un computer, ma
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con qualcosa di tangibile, in cui immergere le mani, e da far
nascere con le mani. Il verbo fare, nel senso più concreto del
termine: qualcosa di molto simile a costruire.
Chiedo a Mario se ha un’opinione sul “ritorno delle piante”, su questo interesse e questo sentore. Lui cita Jorn de
Précy, figlio di un ricco commerciante britannico, vissuto a
cavallo tra Ottocento e Novecento, proprietario del giardino
di Greystone e autore del piccolo libro E il giardino creò l’uomo (Ponte alle Grazie), descritto nel sottotitolo con una frase
un po’ troppo new age: Un manifesto ribelle e sentimentale
per filosofi giardinieri. De Précy dice cose come: «Ecco: solo
i giardini resistono al naufragio della modernità. Di questo
tratta il libro che tenete tra le mani: di come solo questi luoghi
sfuggano ai disastri della storia invitandoci in rifugi incantati, lontani dalle perversioni della civiltà». Oggi, meno epicamente, parleremmo di un bisogno di slow in una società sempre più veloce. D’altronde ciò che sta accadendo con le piante
è simile a quello che è successo con il cibo pochi anni fa.
Altri indizi sul sentore, cioè, mi dico, sulla correttezza del
sentore: la recente nascita di due riviste indipendenti, internazionali, con quell’estetica da magazine indipendente e internazionale e cool, le fotografie giuste, l’impaginazione giusta. Questione di design, come si diceva prima. Una si chiama
to vera e molto importante: «You feel so grateful», che è un
sentimento che si prova quando si riceve qualcosa. Quando
la tua alocasia “butta” una nuova foglia, ad esempio. Design
e funzionalità “viva”, come prima. Appagamento estetico e
appagamento sentimentale.
Questo ritorno alla natura in contesti urbani è ravvisabile
anche in letteratura: il libro H is for Hawk, un esempio fortunatissimo di nature writing, scritto da Helen McDonald, ha
vinto a novembre 2014 il prestigioso Samuel Johnson Prize for
Non-Fiction. È la storia autobiografica dell’autrice e del suo
avvicinamento alla falconeria. A gennaio 2015 per Adelphi
è uscito Diario di Oaxaca di Oliver Sacks, in cui lo scrittore
e neurologo inglese racconta il suo viaggio nel Messico meridionale a studiare le felci con l’American Fern Society. E
proprio grazie a Sacks si constata, per l’ennesima volta, come
i trend siano circolari, fatti di eterni ritorni: durante la metà
dell’Ottocento, in un’Inghilterra immersa in un inarrestabile
aggiornamento della Rivoluzione Industriale (e nel 1848 sarebbe uscito il Manifesto del Partito Comunista), scoppiò la
pteridomania o Fern-Fever, vale a dire la mania delle felci. A
suo modo, anche questa una necessità di lentezza nel periodo più fast che la società umana abbia mai vissuto. Niente di
nuovo, quindi, nelle mode occidentali. Niente di male, anzi.
Wilder Quarterly e ha base a New York, è stata fondata
a fine 2011 da Celestine Maddy, un’ex digital strategist;
l’altra si chiama The Plant, il primo numero è dell’estate 2011, ha sede a Barcellona ma un ufficio anche a
Londra. Come Mario, anche Celestine Maddy ha lasciato un lavoro digitale per dedicarsi alle piante – sotto forma di rivista. «Non riuscivo a trovare una rivista
[di piante, nda] che parlasse alle persone della mia età»
ha detto a proposito della decisione di fondare Wilder.
Cristina Merino, spagnola, è la direttrice di The Plant.
Quando le chiedo dell’ascesa del trend delle piante, e
lo paragono a quella recente del cibo, mi fa capire che
è d’accordo. Spiega: «Il paragone con il food ha molto
senso. Le piante e il cibo sono sempre esistite; ora c’è
un interesse crescente – specialmente in ambienti urbani – e suppongo abbia a che fare con un forte bisogno
di ritorno alla natura. La vita oggi ha ritmi così veloci
che prendersi del tempo per andare al mercato e cucinarsi una buona cena, o prendersi cura delle proprie
piante e osservarle mentre crescono e sbocciano, è un
autentico lusso». Poi dice una frase che mi sembra mol-
Davide Coppo. Milanista, digital editor di Studio e caporedattore di Undici.
A volte scrive anche altrove, su web o carta stampata. @davcoppo
«Le piante e il cibo sono sempre esistiti; ora c’è un interesse crescente
– specialmente in città – che ha a che fare con un bisogno di ritorno
alla natura. La vita oggi ha ritmi così veloci che cucinarsi una buona
cena, o prendersi cura delle proprie piante, è un autentico lusso»
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