Le strade del desiderio in Heine e in Platen

Le strade del desiderio in Heine e in Platen
«Il mio bastone da pellegrino non conosce soste», proclamava dulcamaro August von Platen parafrasando Byron in un’estate di quasi due secoli fa. Il delicato marchese di Hallermünde, poeta e versificatore di grandissimo talento (tanto da competere col suo avversario Heinrich Heine), viaggiatore
e osservatore del multiforme ‘bello’ italico, nato ad Ansbach in Baviera nell’autunno del 1776
e morto a Siracusa nell’inverno del ’35, visse le stagioni più intense nei suoi ultimi dieci anni,
ramingo per l’Italia.
Il suo non fu un Grand tour tradizionale. L’andare a sud non era solo una ricerca di radici culturali,
o goethiani ringiovanimenti dell’anima, quanto una fuga. Il suo viaggio si può leggere anche come
tentativo di sottrarsi a chi intendeva sorvegliarlo, e soprattutto punirlo, in seguito agli scandali sessuali che ne provocarono l’allontanamento dalla scuola militare e poi dall’università. Classicista ma
anche orientalista, era preso dal demone della bellezza e della lontananza (degli antichi greci e latini
ma anche dei persiani medioevali, maestri di versificazione erotica). Questo dàimon lo trascinava in
un’Italia il cui spirito antico egli vedeva rifiorire negli oggetti del suo desiderio, i bei ragazzi italiani.
Firenze 1829: in versi che ricordano accenti del Gennariello pasoliniano il poeta trentenne ne canta
l’aspetto: «ma tu (bellezza) fiorisci ancor sempre nelle tue creature,/ e i modelli di quell’arte
s’aggirano ancor oggi/ sul Lungarno come un tempo: ancora essi/ popolano i tuoi teatri, come un
tempo». Più esplicito il diario siciliano, 1835: «Sono rimasto un paio di giorni a Caltagirone perché
non avevo motivo di affrettarmi. Di questo mi sono convinto ancora di più una volta arrivato qua. Là
ho visto un giovane di straordinaria bellezza».
Prima meta di Platen è Venezia (agosto-novembre 1824). Del 1825 i Sonetti veneziani, che in Germania fecero subito sensazione. Sensazione accentuata dall’arresto dell’autore rimasto in Laguna
troppo a lungo, presentatosi in ritardo di mesi al proprio reparto militare.
Platen nel 1826 parte definitivamente per l’Italia, sostenuto dal suo editore ripagato con sonetti, inni,
odi, romanze e forme ricercate di versificazione: un Viaggio in poesia, in cui prendono forma e ritmo
luoghi noti ma anche sperdutissimi, dai più mandati a memoria per la facilità del verso, alcuni tradotti da Carducci (si pensi alla Tomba sul Busento). Quadri d’ambiente, pitture di genere in versi,
narrazioni quasi epiche d’incontri con monumenti capaci di parlare del passato (così Piramide Cestia,
Invito a Sorrento, o sonetti e romanze su ignoti borghi di Calabria e di Sicilia).
Le poesie spesso fanno ricorso alla descrizione di quadri, intessendo dialoghi con i pittori – per
esempio, a Venezia, Tiziano, Giorgione, Canaletto, e i protagonisti delle tele: personaggi del mito,
della storia religiosa; o ancora ritraggono paesaggi urbani, lagunari, rurali da prospettive insolite, in
un precario equilibrio tra forma classica e inquietudine romantica. In questi ambienti, «labirinti di
bellezza», il poeta si sperde, inseguendo un’idea, un amore, un desiderio.
La lettura parallela delle poesie e dei diari chiarisce i tentativi di conciliare le dimensioni estetica ed
erotica del suo disordinato, a volte disperato viaggio. I diari sono scritti in tedesco, ma in francese
tutti i passaggi in cui Platen annota pensieri e ricordi, speranze e angosce legate ai suoi amori
maschili. «Ché dove regna bellezza, è amore che regna,/ e per questo nessuno mostrerà meraviglia/
se proprio non riesco a tacere/ come il tuo amore mi spezzi l’anima. / So che questo sentire non si
farà vecchio in me/ perché fitto s’intreccia con Venezia:/ sempre mi sorge un sospiro nel petto,/ dopo
primavere sbocciate a metà./ Come ringrazierà lo straniero dei favori,/ se pure il cuore tuo credesse
di dargli gioia/ incontrandolo in teneri pensieri? Non c’è rimedio che ti porti più vicino,/ e solitario
guardi ogni notte il passo mio/ vagare avanti e indietro per San Marco». E così dal 1824 al 1835,
sulla scia di interessi storici, artistici e culturali, sulle orme dei grandi viaggiatori, in cerca di amici
e colleghi artisti, inseguendo corpi antichi reincarnati, Platen visse in Italia. Raggiunse Roma proprio nel giorno del suo trentesimo compleanno, il 24 ottobre 1826. Ma il soggiorno più importante fu
Napoli, dove si trattenne a più riprese tra il 1827 e il 1834, con escursioni tra isole e costiera, a Sorrento, Capri, Paestum, Amalfi. Sempre con base ideale Napoli, con interruzioni in Germania dopo la
morte del padre, dal 1828 si avventura senza meta prima nel Nord Italia toccando di nuovo Venezia,
Firenze, Roma, Verona, ma anche in itinerari inconsueti a Sud, tra Lucania, Puglia, Calabria, e infine
in Sicilia.
Negli ultimi anni napoletani vedeva quasi solo italiani, e nella primavera del 1834 conobbe Giacomo
Leopardi e Antonio Ranieri (nel suo diario non manca di osservare come la cultura e la delicatezza
d’animo e di conversazione del poeta italiano ne trasfigurassero l’aspetto). Benedetto Croce racconta
come «presto un’intima relazione d’amicizia si formò tra questi due uomini insigni e non passò
giorno che il Platen non visitasse per un’ora il suo amico malato» (Croce ne tradusse poi le Massime
per la vita). Resta, di una sua visita in casa Ranieri, una cabbaletta scritta in italiano: «August Platen
saluta /Giacomo Leopardi/ Che si alza tanto tardi/ E Antonio sempre fuori/ Dottissimi signori». Nel
1835 Platen fugge da Napoli e dall’incipiente colera, che a Venezia, Firenze e Roma aveva già mietuto le sue vittime. Ne leggiamo tutta la preoccupazione nel diario, che prefigura il disastro
igienico-sanitario. Una dimenticatissima opera teatrale del 1898, Leopardi. Storia di un’anima, di
Emilio V. Banterle, ripubblicata nel 2013 in Inghilterra da una casa editrice dal suggestivo nome
Forgotten Books, chiude il primo atto proprio con la partenza di Platen da Napoli; la scena, involontariamente comica, in cui il poeta si congeda da Leopardi, Antonio e Paolina Ranieri distribuendo
baci a destra e a manca, ci dà la misura della notorietà di Platen come ospite prediletto in casa
Ranieri.
Il poeta s’imbarca per Palermo, passa per Caltagirone, poi per le lande intorno a Segesta (gli paiono
desolatissime ma non prive di un loro peculiare fascino). Osserva la bellezza selvaggia dei siciliani,
e le «particolarità somatiche» dovute alla mescolanza di popoli, nonché il bel suono del dialetto
(«molto melodioso quando pronunciato in modo chiaro»). Sulla costa orientale, che gli appare aspra
e petrosa, quasi spaventosa, trova ospitalità presso l’amabile ma sordastro conte Landolina, nella cui
villa si stabilisce, e si ammala fatalmente di tifo. Una colica lo trae in inganno, e preso dal panico di
avere il colera muore per overdose di farmaci. Riposa nel giardino della Villa Landolina, oggi parte
del Museo archeologico di Siracusa.
Da alcuni elementi del suo nome e della sua vicenda – il mito di Venezia come luogo della bellezza
e della morte, in qualche modo da lui stesso fondato –, la passione omoerotica legata al culto
dell’antico, la morte per colera, la fuga erotica verso sud, Thomas Mann trasse spunto per la sua
novella La morte a Venezia, diventata film con Luchino Visconti: il protagonista si chiama Gustav,
anagramma di August, e varia nel cognome il toponimo del luogo natale di Platen (Ansbach, che
Mann trasforma in Aschenbach). Il connubio morte-bellezza espresso in quella che forse è la strofe
più celebre di Platen, apre in effetti, in exergo, il racconto di Mann: «Chi ha guardato negli occhi la
bellezza/ È già preso da morte,/ Non servirà più a nulla sulla terra/ Eppure tremerà innanzi alla
morte,/ Chi ha guardato negli occhi la bellezza!».
Nell’ultimo capitolo del suo resoconto di viaggio italiano Heine cita Platen con effetto manzoniano:
«Platen, chi era costui?». In effetti lo sapeva benissimo, «grande poeta» lo definisce – ma per lui
insopportabile per «i sospiri della pederastia» sparsi a piene mani nei suoi versi. I motivi della ruggine? Heine aveva stroncato crudelmente la pièce di Platen [/V_TXT]Edipo romantico. E l’autore non
gradisce, rispondendo con frecciate antisemite. Tutte le energie di Heine a partire dal 1829 si concentrarono quindi a depennare il collega dal catalogo dei veri poeti, dedicando una intera sezione
del suo viaggio in Italia (appunto I Bagni di Lucca) allo scherno più feroce, e almeno tanto omofobo
quanto Platen era stato antisemita.
Heine, borghese di origine ebraica ma libero pensatore, poeta, polemista, critico letterario e d’arte,
convertito al protestantesimo, nonché fervente zelatore delle Madonne e soprattutto delle Maddalene italiane del Quattro-Cinquecento, si consuma a distanza in una continua triangolazione con
i rispettivi viaggi in Italia. Vero è che entrambi, al di là della polemica che fece discutere molto ma di
cui non resta nulla di commendevole, erano in modi diversi dilaniati dalla ricerca di un luogo in cui
vivere in presa diretta l’oggetto del loro desiderio indefinito (Sehnsucht). Il primo cercandolo in
un’incarnazione erotica, il secondo consapevole in modo amaro dell’illusorietà del tutto. Entrambi
sono, per opposti motivi, viaggiatori post-goethiani.
Mentre Platen cercava la bellezza pittorica e architettonica italiana – antica, medievale e rinascimentale –, e insieme quella efebica classica sotto le spoglie dei fanciulli in cui si imbatteva per le
strade e spesso per i postriboli di città e villaggi italiani, Heine, nel suo viaggio, esilarante nelle
annotazioni caratteristiche, intelligentissimo nelle osservazioni di costume, sorprendente nelle associazioni storico-culturali, commovente malgré lui nella contemplazione dei paesaggi, continuamente
si muove in un mondo in cui i riferimenti sono alla bellezza dell’età rinascimentale (per giunta in un
momento in cui il concetto di Rinascimento non è ancora stato sistemato da Jacob Burckhardt–
secondo un principio di rinascita dell’antico in Italia, potenziato dalla bellezza soprattutto femminile
e dalle virtù civili).
I luoghi parlano del passato e del presente, l’Italia parla dell’Europa, parla d’amore, cultura, religione e molto spesso di politica. Tutto questo non in modo astratto, ma lasciandosi trascinare
dall’acuta osservazione della realtà, con un elegiaco senso di perdita, ancora riaffiorante nel sogno
e in certe atmosfere della sera.
Il viaggio di Heine si snoda tra 1828 e 1829 da Monaco, via Tirolo – in cui l’Italia si annuncia –,
a Trento, dove i volti narrano una lunga storia di dominazioni diverse, a Verona luogo della romanità,
a Milano con la sua arte pittorica e il suo duomo e Marengo (dove egli fa risorgere i fantasmi della
vittoria di Napoleone e fa un bilancio della situazione europea alla vigilia degli scossoni del Trenta),
fino a Genova, che gli appare subito dopo l’epifania del mare, scendendo dall’appenino («l’acqua
azzurra appare tra le verdi cime delle montagne, e le navi che si vedono qua e là sembrano navigare
a vele spiegate sui monti»), città costruita su un erto lastrone di roccia, dalle altissime case e strettissime strade, per concludersi a Lucca, «fantasma di città», popolato da preti boccacceschi, nobili di
dubbia fama e scene di quadri devozionali che gli risvegliano pensieri profondi, mai privi d’ironia.
Del Viaggio pubblica due edizioni, una in tedesco e una in francese, dato che la sua patria d’elezione,
o forzosa, essendo bandito dalla Germania per motivi politici, resterà Parigi fino alla fine dei suoi
giorni.
L’anima dissacratrice di Heine di fronte al mito dell’Italia si può forse capire leggendo la sequenza
che accosta una generosa citazione dal canto goethiano di Mignon («conosci la terra dove fioriscono
i limoni? (…) Laggiù. Laggiù, vorrei andarmene con te, amore mio») – chiosata immediatamente: «Sì,
ma non all’inizio di agosto, quando di giorno sei arrostito dal sole e di notte dilaniato dalle pulci».
Il suo viaggio s’intitola Reisebilder (Impressioni di viaggio, qui nella traduzione di Vanda Perretta).
All’improvviso una persona, di solito una donna, o una situazione sociale o paesaggistica, diventano
quadro, Bild pittoresco da cui trarre spunto per meditare sul passato e sul presente dell’Europa e/o
dell’Italia contemporanea.
Il modo di riconoscere nel ‘sud’ le tracce dell’antico non è estetico, ma si potrebbe dire
antropologico-culturale. Pensiamo alla «bella filatrice tirolese che filava secondo un antichissimo
sistema, tenendo la rocca con il suo batuffolo di lana ferma sotto il braccio (…). Così filavano in Grecia le figlie dei re, così filano oggi le Parche e tutte le Italiane». Ma qui sta la differenza rispetto
all’estetizzazione [/V_TXT]à la Platen: «Però, quegli occhi nessun Greco li avrebbe potuti sognare».
Il senso di sopravvivenza dell’antico non necessariamente porta, come in Goethe, effetti di vitalità. In
Heine – da Mario Praz citato per le sue figure di belles dames sans merci e vampiresse – i sentimenti
sono sempre ambigui. Così, già a Trento «anche le ragazze giovani e vivacissime mi sembravano portare addosso qualche cosa di morto da secoli e allo stesso tempo qualcosa di vivo, in fiore, tanto che
provavo quasi una specie di orrore, lo stesso dolcissimo orrore che avevo sentito quando, a mezzanotte di una notte solitaria, baciai la bocca di Maria, una donna bellissima che non aveva allora
alcun difetto tranne quello di essere morta». La scena del bacio all’amata morta in Germania torna
più e più volte in momenti forti del viaggio in Italia, a sottolineare un certo fondo necrofilo e morboso delle passioni dei viaggiatori nordici verso sud.
Un’attempata e formosa fruttivendola permette all’osservatore di «seguire su di lei le tracce di tutte
le civiltà italiane, quella etrusca, romana, gotica, lombarda, via via sino a quella incipriata di oggi,
e l’innata civiltà di quella donna mi sembrò assai interessante, in contrasto con il mestiere che esercitava e la brutalità dei suoi modi».
Una cuoca irosa verso il marito è Medea, con «riccioli neri come svolazzanti serpenti», una bella
ragazza una «Niobe pezzente». Del tutto moderna è invece la «figlia di un vecchio pagliaccio», di
«aspetto appassito e anemico», con un «tremito di disperazione del bel viso»: un’anti-Mignon,
l’adolescente androgina consegnataci da Goethe nel suo Wilhelm Meister, e incarnata nella rivisitazione di Wenders con una giovane Nastassja Kinski in Falso Movimento.
L’antico è anche cristiano, e il gioco vale anche al contrario. Dalle tele alla realtà. La Maddalena di
Genova, di Paolo Veronese, è «così bella da far temere che venga sedotta un’altra volta. Mi ci soffermai davanti a lungo … ma ahimè! Non alzò mai gli occhi. Cristo sembrava un Amleto della religione:
go to a nunnery!»
Ma la pittura religiosa di Lucca riporta alla vita un’apparizione molto concreta del Cristo: «un Ebreo
pallido e rigato di sangue» capace di gettare «la croce sull’alta tavola degli dei, facendo tremare
i boccali d’oro. (…) È l’inizio dell’era del conforto, fine dell’era della gioia».
Lo spazio della pensosità è sempre bilanciato dall’ironia sapiente. Non possiamo non sorridere
all’osservazione sulla religione cattolica, «ottimo culto estivo» per via del fresco che si può godere in
ogni chiesa, lodata per il sacramento della confessione, che libera la coscienza dei fedeli – e degli
stessi pittori – al cospetto delle bellezze mondane effigiate in forma di Madonne: «un santo dolce far
niente, si prega, si sogna e si pecca col pensiero (…), e poi, in ogni angolo, c’è uno scuro confessionale, pronto soccorso per i bisognosi della coscienza».
Come le persone, così le città mostrano i segni del [/V_TXT]révenant, Roma in primis: «Certo, ora
Roma antica è più che morta, (…) Ma poi sorgeva in me un dubbio falstaffiano: e se non è morta del
tutto? E se invece ha solo finto di essere morta e all’improvviso risuscitasse? Sarebbe spaventoso!»
Il terrore di venir travolti da legioni romane e costumi violenti si mescola con illuminate osservazioni
sulla natura della grandezza di Roma, che Heine attribuisce al culto di Roma eterna. Un’idea alta,
tanto più grande quanto più veniva smentita dalla «piccineria dei costumi dei romani». Per questo,
soggiunge il viaggiatore, Roma fu patria della satira. Aggirandosi tra le gradinate dell’anfiteatro
veronese Heine non si turba incontrando una torma di fantasmi romani. S’intrattiene con Cesare che
«passeggiava sottobraccio a Marco Bruto. – Vi siete riconciliati? – chiesi. – Credevamo di avere
entrambi ragione, – rise Cesare verso di me, – io non pensavo che esistesse ancora un Romano, e mi
credetti in diritto di potermi mettere in tasca Roma intera, e poiché mio figlio Marco Bruto era proprio quest’ultimo Romano, si credette in diritto di uccidermi».
Ecco Roma antica, e alcuni guai italiani. Sempre oscillando tra antico e cristianesimo, a Milano, in
un dialogo surreale con una statua appollaiata sul duomo, Heine coglie un elemento di secolarizzazione. Lo «strano santo» gli parla di «quando il cristianesimo sarà tramontato», elogiando lo zelo
di Napoleone nel concludere i lavori al Duomo, edificio «comunque utile» anche ad altri scopi. Heine,
che certo cattolico non era, commenta: «Io quasi mi spaventai sentendo che in Italia esistevano santi
che dicevano queste cose».
Continuamente Heine mette a fuoco il punto di vista sull’Italia attraverso dialoghi con fantasmi
o altri viaggiatori stranieri colti in divertenti sketches – per lo più ladies e gentlemen albionici.
Schermaglie anche con dame ma soprattutto con artigiane, commercianti e domestiche italiane,
scambi d’opinione con prelati e nobiluomini, nessuno al riparo dal suo fiele. L’oscillazione vita/morte,
sogno/realtà, è la nota romantica, la spina struggente cui Heine prova a resistere con le armi
dell’ironia, trasmettendo al «caro lettore» le stesse emozioni ambigue.
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