Le persone colte non-frequenti e la musica oggi. Senti Questo di

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Le persone colte non-frequenti e la musica oggi. Senti Questo di Alex Ross.
Jacopo Conti
Alcune riflessioni sullo stato della musica contemporanea e sui rapporti musica colta-popular
music a partire da «Senti Questo», il nuovo libro di Alex Ross, il critico musicale del New
York Times e autore del premiatissimo «Il Resto è Rumore» del 2009.
Finito di stampare a maggio, all’inizio di questa estate è uscito in
Italia Senti Questo, il nuovo libro di Alex Ross. La copertina non
manca di ricordarci, con abile mossa di marketing, che è Ross
l’autore de Il Resto è Rumore, che ha avuto una notevole risonanza
internazionale (ancora più ragguardevole se si calcola che era
un’opera prima): ha vinto il National Book Critics Circle Award, il
Guardian First Book Award, il Premio Napoli, il Grand Prix des
Muses ed è stato candidato al Pulitzer e al Samuel Johnson Prize.
In questa raccolta di saggi scritti per il New York Times, l’autore si
cimenta
in
un’impresa
meno
rischiosa
della
precedente;
dall’introduzione: «Il mio ultimo libro si dispiegava su un vasto affresco storico […]; questo è più
intimo, più circoscritto» (p. 12). In altre parole, qui ci si occupa esplicitamente di quello che
interessa a Ross. Stavolta lo scrittore si è messo al riparo da una critica di non poco conto, se
calcoliamo che uno dei limiti principali de Il Resto è Rumore era proprio il disequilibrio
inspiegabile – per un libro di storia della musica “classica” del Novecento – tra le attenzioni
dedicate ai vari argomenti: vi era un lungo capitolo solo per Britten e il suo Peter Grimes, più o
meno lo stesso spazio dedicato a Brecht, Weill, L’opera da tre soldi (in tre sottocapitoli distinti),
Schönberg e l’ascesa della dodecafonia, Eisler e Wozzeck e Lulu di Berg messi insieme.
Questo librone (quasi 500 pagine + altre cento tra note, ascolti consigliati, ringraziamenti, crediti e
indice analitico) è costituito da venti capitoli suddivisi in tre parti (3 + 14 + 3) nei quali Ross tratta
argomenti che gli stanno particolarmente a cuore, senza particolari pretesti. La prima sezione
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contiene «tre rilievi aerei, abbracciando sia il territorio classico sia quello pop» (p. 11). Il primo
capitolo è un’autobiografia musicale dell’autore e una precisazione sulle posizioni ideologiche di
Ross. Come suggerisce il sottotitolo «Varcare il confine tra la classica e il pop», si sofferma sul
passaggio dal “purismo classico” dell’adolescenza agli ascolti di rock e punk nel periodo
universitario fino ad un equilibrio raggiunto nell’età adulta; il secondo, «Ciaccona, lamento,
walking blues», è un volo pindarico che riguarda una linea di basso discendente, comparsa in tempi
e luoghi molto diversi; il terzo è un’analisi del rapporto tra musica eseguita e registrazione partendo
dagli albori.
La seconda parte «segu[e] le tracce di una dozzina di musicisti» (p. 12). In realtà i capitoli non sono
dedicati solo a musicisti (classici e pop: Mozart, Schubert, Verdi, John Cage, John Luther Adams, i
Radiohead, Sinatra, Kurt Cobain, Cecil Taylor, Sonic Youth, il bizzarro duo Kiki & Herb, Björk),
ma ad un gran numero di argomenti: le orchestre contemporanee (Esa-Pekka Salonen, Gustavo
Dudamel e la Los Angeles Philarmonic), i giovani musicisti che cercano di dare nuova linfa al
repertorio classico (i giovani dei seminari del Marlboro, di nuovo Salonen, Dudamel e la Los
Angeles Philarmonic, il St. Lawrence Quartet), la musica nel nuovo mercato mondiale (la Cina di
oggi, un nuovo mondo che si sta sviluppando a grande velocità), l’insegnamento della musica nel
mondo contemporaneo (Hassan Ralph Williams e la sua Malcom X Shabazz, una marching band
per adolescenti, i conservatori cinesi), il razzismo negli ambienti della musica colta americana (un
capitolo è dedicato a Marian Anderson, la prima cantante di colore ad aver “osato” dedicarsi al
repertorio classico a fine anni Trenta). In generale, il tema di fondo è la situazione attuale della
musica e dei musicisti, non tanto la musica contemporanea di per sé; anzi, di musica in senso stretto
si parla relativamente poco.
La terza sezione «tent[a] di descrivere in modo più personale tre figure radicalmente diverse – Bob
Dylan, Lorraine Hunt Lieberson e Johannes Brahms».
Questo è il libro di un giornalista, non di un musicologo (e infatti vende tantissimo), quindi al suo
interno non si trovano analisi musicali di difficile lettura (ogni tanto c’è qualche piccolo tecnicismo,
ma niente di più); le importanti questioni sollevate non vengono sviscerate fino a trovarne le
motivazioni profonde (o eventualmente proporre strade future), ma non va negato il merito di
presentare a un pubblico più ampio di quello dei musicologi alcuni importanti problemi che
riguardano la musica oggi.
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Non è questa certo la prima volta che viene attaccata la «sacralizzazione» (p. 31) della cosiddetta
musica “colta”, la «feticizzazione del passato» (p. 32), quando però tale attacco viene sferrato
dall’interno (il bagaglio tecnico di Ross è esclusivamente classico, come ammette lui stesso e come
dopo si dirà), questo è certamente più sentito. Di tanto in tanto, capita di inciampare su qualche
ingenuità, come la sentenza «ogni musica finisce per diventare musica classica» (p. 39). Come in
ogni luogo comune, anche in questo caso si nasconde più che un fondo di verità, e cioè che ogni
repertorio (classico, jazz, pop, canzone d’autore, rock, rap…) è destinato a sedimentare e a
diventare un “classico”; e allora dov’è l’ingenuità? In ciò che è scritto subito dopo: «la storia del
jazz, ad esempio, sembra ricapitolare quella della classica ad alta velocità», con conseguente
riassunto in cinque parti e poche righe, dal ragtime ai «fasti borghesi» delle big band, dal bop al free
fino alla “restaurazione” di Wynton Marsalis. Certo, una parte significativa del jazz fa parte di
quello schema, ma una parte altrettanto importante non vi rientra: dove collochiamo – per dire
qualche nome a caso – Stan Kenton, Stan Getz, Sun Ra, Joe Zawinul, Jan Garbarek o Bill Frisell? E
dove lo mettiamo il Miles Davis elettrico di In A Silent Way e Bitches Brew (per citare una figura
più che fondamentale)? Questo tipo di riassunto, tra l’altro, va strettissimo anche alla musica colta:
Bach e Ravel sono in un rapporto di consequenzialità così diretta? Questa “teoria della linea” non
funziona proprio. Peraltro, si è persa un’occasione per ricordare un aspetto essenziale, e cioè che il
jazz è tra i primi generi in assoluto a essersi sviluppato nell’epoca della registrazione, cosa che ne
ha radicalmente deviato il corso rispetto alla musica “d’arte”: pensiamo anche solo al rapporto con
lo spartito (in questo caso non si chiama partitura) che ha qualsiasi jazzista dilettante in relazione
all’improvvisazione, o agli stili improvvisativi che si sono potuti sviluppare così ampiamente
proprio grazie alla radio e al disco. Per essere un critico così attento agli aspetti della registrazione,
come dimostra il terzo capitolo, qui Ross è proprio scivolato su una buccia di banana.
Il capitolo sulla registrazione, appunto, ci ricorda quanto questa pratica fosse vista di cattivo occhio
da musicisti di inizio XX secolo tutt’altro che marginali come John Philip Sousa (il direttore di
banda americano per eccellenza), e quanto in realtà ci siano ancora un sacco di preconcetti – e di
ignoranza bella e buona – al riguardo; un passo è particolarmente illuminante:
Anche se gli esecutori e gli ascoltatori di musica classica amano immaginarsi in cima a un’alta
torre, lontani dalla mischia elettronica, sono anch’essi asserviti alle macchine. Parte della più
accesa propaganda in favore delle nuove tecnologie è arrivata proprio dal campo classico, dove il
miraggio della riproduzione perfetta appare particolarmente seducente. Le registrazioni classiche
dovrebbero negare il fatto che sono delle registrazioni. Tale processo richiede paradossalmente un
notevole grado di artificio. (pp. 104-105)
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Chiunque abbia avuto una qualche pratica di studio di registrazione, questa cosa la sa; chi non è mai
andato in sala di registrazione, invece, è portato a pensare che – a rigor di logica – un suono al
naturale non sia trattato e che solo le pop star abbiano bisogno di fare tante sovraincisioni e passare
ore al mixaggio. Non è una differenza endemica tra due mondi lontanissimi, come in molti pensano;
la realtà dei fatti ci dice che questi due mondi hanno in comune molto più di quanto non si creda.
Il secondo capitolo, quello sulla linea di basso discendente che collega idealmente la ciaccona, il
lamento e il blues, è il momento più ardito di tutto il libro. Per intenzione può far parte della vasta
ricerca di un universale in musica, come il terzo capitolo di Come È Musicale L’Uomo? (1986; ed.
orig. How Musical Is Man?, 1973) di John Blacking o Kojak – 50 Seconds of Television Music
(1979) e Fernando the Flute (1981) di Philip Tagg (seppure Blacking e Tagg siano diversissimi per
approccio e repertori studiati) senza averne però il respiro critico (del primo in particolare) e
l’ampiezza della ricerca (degli altri due). Trenta/quaranta anni dopo, è un tentativo forse un po’
troppo positivista (anche se certo non privo di spunti interessanti). Si può fare a meno della
semiotica trattando di simili argomenti? E si può non distinguere assolutamente tra una linea
cromatica (cioè che comprende tutte le note) e una diatonica (cioè una che, per esempio, in do
maggiore toccherebbe solo i tasti bianchi di un pianoforte)? Se si può non distinguere, perché non
viene precisato?
Non mi si fraintenda: non sono nella posizione per dire cosa è giusto scrivere e cosa no (sempre che
esista, questa posizione). La divulgazione (perché questo è un libro divulgativo) è un momento
importantissimo della saggistica, specialmente in un momento storico in cui l’accademia – Ross non
è un accademico, ma mettiamo che voglia prenderne le difese o voglia imitarne l’approccio – è
invisibile al resto del mondo, ed è sia un bene che anche un lettore non esperto sappia che esiste
questo tipo di ricerca estremamente affascinante e complicata. Ma questo capitolo, più che farne
parte, ne è un accenno, nulla di più.
Chi ha letto Il Resto è Rumore e abbia una qualche familiarità con i popular music studies ha forse
avuto qualche perplessità leggendo: «Negli album della metà degli anni settanta Station To Station,
Low e Heroes, [David] Bowie abbandonò la classica struttura A-B-A della canzone pop in favore di
forme semiminimaliste caratterizzate da attacchi secchi e rapide pulsazioni ritmiche» (A. Ross, Il
resto è rumore, Bompiani, Milano 2009, p. 801), non collegando a nulla di conosciuto questa
«classica struttura» tripartita (forse l’A-A-B-A degli standard americani? Forse la strofahttp://www.turindamsreview.unito.it
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ritornello?). E, comunque, vi furono altri tentativi (precedenti di quasi un decennio, anche ad opera
dello stesso Bowie) di scardinare la forma classica (quale?) delle canzoni. In questo libro, nel
capitolo sui Radiohead, il quinto, c’è una frase simile: «Basta togliere un qualunque elemento […] e
i Radiohead sono un altro gruppo. Insieme, i cinque elementi formano un’unica mente, con i suoi
vezzi e i suoi tic: il Compositore dei Radiohead» (p. 145). Qui si vede in pieno il critico di ferrea
formazione classica, non abituato a concepire la musica come creazione collettiva; anche quando
scritte da un solo autore, all’interno di un gruppo le canzoni vengono quasi sempre arrangiate da
tutti. Sono rarissimi gli esempi di compositori e songwriters che portano una parte scritta al proprio
batterista, per il quale magari c’è un’idea, ma non tutta la parte scritta per filo e per segno. Ciò che
sembra pratica aliena per un musicista classico, è la quotidianità per tutti gli altri: non saperlo e anzi
rilevarlo come un elemento rivoluzionario ancora oggi, nel 2011, è errato. Ross non sembra
conoscere molto i popular music studies.
Questo libro ha il grande merito di dedicarsi a un mondo musicale sempre più importante e vivo
come quello cinese e di citare compositori altrimenti sconosciuti in questa parte del globo come Tan
Dun, Chen Yi, Zhou Long e Guo Wenjing. In casi come questi, non si può che essere felici di
vivere nell’epoca di internet, che annulla le distanze e consente di acquistare facilmente le loro
opere o anche solo di averne degli assaggi su YouTube. Lo stesso vale per un nome poco noto come
quello di John Luther Adams, compositore americano che vive in Alaska e che da anni dedica la sua
attività a sonorizzare le vaste distese ghiacciate in cui vive. Certamente la quasi omonimia con John
Coolidge Adams, il compositore americano vivente più eseguito, non lo ha aiutato.
Leggendo, si scopre che un elemento della società italiana è diffusissimo anche negli Stati Uniti
(forse è molto presente anche in tanti altri stati); sono – il nome l’ho scoperto qui – le «persone
colte non-frequentanti» (p. 42), uno dei principali mali della musica colta oggi (ma anche del jazz, e
presto anche del rock). Sono le persone di cultura alta che si intendono di filosofia, letteratura,
cinema, arti figurative, architettura o di teatro ma che di fronte alla musica alzano le braccia e
dichiarano “Sono ignorante”. Vanno alle mostre e al cinema, ma non ai concerti. Da tempo, ormai,
la musica è considerata una materia per eletti, solo per chi l’ha studiata. Se pensiamo che le persone
colte in generale sono già una forte minoranza della popolazione, e se aggiungiamo che chi va
effettivamente ai concerti ne è una ulteriore minoranza esigua (più qualche altro cultore di musica
ignorante del resto), ci rendiamo conto del perché la musica classica oggi sia così poco seguita. Una
sorte simile sta accogliendo il jazz; con il passare di una o due generazioni, la situazione sarà la
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medesima anche per il rock e, chissà, tra cent’anni potrebbe succedere anche al rap. In questo caso,
sì, la sentenza «ogni musica finisce per diventare musica classica» è fondata, nel senso che tutte le
forme musicali finiscono per diventare sempre meno culturalmente influenti. È innegabile che la
«feticizzazione del passato» giochi un ruolo fondamentale in questa svalutazione (linguaggi che
parlano sempre meno alle nuove generazioni), ma certamente ne è causa anche l’assenza della
musica dai programmi scolastici. Paradossalmente, la forma d’arte più presente nella vita di tutti è
probabilmente quella meno presa in considerazione in maniera attiva.
Forse c’è una speranza: il precedente Il Resto è Rumore arrivò, solo tra settembre e dicembre del
2009, a tre edizioni italiane. Per quanto lo si potesse criticare a livello di contenuti, era ben scritto e,
pur superando le 800 pagine si leggeva bene; Ross è un ottimo scrittore, di piacevolissima lettura e
qui ne abbiamo la riprova. Ma l’elemento su cui è opportuno prestare attenzione è l’interessamento
di un pubblico così vasto; evidentemente la musica – anche quella più “difficile” – non è così
snobbata: magari basta parlarne in maniera comprensibile. Allora forse è solo un bene se un ragazzo
interessato alla musica ma non edotto in materia compra questo libro e, dopo aver letto il capitolo
sui Radiohead, prova ad ascoltare un po’ di questo Messiaen che viene citato, o se, dopo aver letto il
capitolo su Björk, cerca in rete qualcosa di Stockhausen. Forse avere qualche persona meno colta
ma frequentante conviene a tutti.
Alex Ross
Senti Questo
Bompiani, Milano 2011
ISBN 978-88-452-6719-2
pp. 582 - 24,00 euro
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