Anno XX1X, 1/30 settembre 2007, n. 1 ANTRO P O L O G IA E SC U O L A rifiutando spiegazioni del comportamento umano formulate in termini esclusivamente biologici”. Il punto focale degli studi è sempre stato centrato sui processi di marginalizzazione per ragioni etniche, razziali o di classe sociale, e sulle loro influenze nei processi educativi. Sia che abbiano messo in rilievo l’incidenza delle istituzioni scolastiche (J. Henry), sia che abbiano posto l’accento sulle “differenze” prodotte dal contesto d’apprendimento (coniugi Whiting), e conseguentemente degli stili interazionali, gli studiosi afferenti alla corrente di cultura e personalità hanno dato corpo alla responsabilità della scuola nello studiare e nel comprendere il patrimonio culturale di gruppi minoritari per impiegarlo nelle molteplici fasi dell’attività didattica, senza considerare le carenze di quei gruppi come un prodotto di culture di rango “inferiore”. È esemplificativa la ricerca di S. B. Heath, che mise in evidenza i problemi incontrati dagli insegnanti bianchi di classe sociale media nel rivolgersi ai loro alunni neri di classe sociale bassa con il medesimo lessico e le stesse strutture sintattiche (evidentemente inadeguate) che impiegavano con i propri figli. J. Ogbu ha invece rilevato la tendenza degli immigrati volontari a integrarsi nell’identità sociale e nei paradigmi culturali della società ospitante, tentando con ciò di stabilire un’interconnessione tra forze locali ed extra-locali nel processo di apprendimento: il che, nonostante i limiti giustamente evidenziati da D. Foley, mi risulta particolarmente persuasivo, poiché nella mia esperienza di accoglienza degli alunni stranieri ho sempre notato (e avvertito come un problema cui la scuola, per inadeguatezza, non sa ancora dare risposte efficaci) che ai genitori degli studenti stranieri “sta bene” ogni azione o proposta degli insegnanti riguardo la didattica e la valutazione dei loro figli, come se qualsiasi iniziativa da parte della famiglia, quand’anche espressamente sollecitata, possa compromettere il processo d’integrazione nella comunità del Paese ospitante, e di conseguenza inficiare qualsiasi possibilità di futura mobilità sociale. Sembrano assai convincenti (quand’anche indiscutibilmente datate, e dalle conclusioni assai divergenti tra loro) le tesi di P. Bourdieu e di P. Willis riguardo alla tendenza del sistema scolastico di regolare i meccanismi di riproduzione sociale. Il primo individua tra i dispositivi che determinano “l’eliminazione continua dei figli delle classi meno privilegiate” il capitale culturale, inteso come una sorta di eredità culturale familiare, punto d’inizio delle diseguaglianze, espressione di valori impliciti ed espliciti riconducibili all’origine sociale dei soggetti e responsabile delle differenti riuscite scolastiche. È specialmente il capitale linguistico – secondo Bourdieu - a fungere sin dai primi anni di scuola da strumento di selezione, a partire dal giudizio dei maestri sino all’intera durata della carriera universitaria: “La langue – scrive infatti l’autore – n’est pas seulement un instrument de communication, mais elle fournit, outre un vocabulaire plus ou moins riche, un système de catégories plus ou moins complexe, en sorte que l’aptitude au déchiffrement et à la manipulation de structures complexes, qu’elles soient logiques ou esthétiques, dépend pour une part de la complexité de la langue trasmise par la famille”. Willis coglie invece una relazione diretta tra le caratteristiche peculiari della cultura operaia e la cultura “antiscolastica”, riconoscibile nell’atteggiamento antagonistico verso l’autorità (con l’elaborazione di uno stile consono), nel sabotaggiorallentamento intenzionale del lavoro, nel tentativo d’imporre il proprio ritmo produttivo in opposizione al taylorismo scolastico e nell’elaborazione d’un orizzonte d’attesa lavorativo coerente con l’atteggiamento assunto, mettendo in atto in tal modo un “processo di separazione del sé da un sistema già dato” (differenziazione). Sicché in definitiva “le reazioni dei lads vanno interpretate come la conseguenza del modo in cui essi percepiscono la condizione economica della classe sociale a cui appartengono nel sistema capitalistico”. Accogliendo congiuntamente la lezione dei due autori – che in una visione assolutamente personale e non scientifica del “problema” mi piace di considerare in un certo senso complementari l’una all’altra – il concetto di classe diviene così uno spartiacque identitario ampia-mente condiviso, e secondo Willis per certi versi anche “accettato”, e provocato, da entrambe le classi. È in definitiva la posizione “mediana” sia di F. Erickson, secondo cui “l’insuccesso scolastico si riferisce ai modi in cui le scuole ‘agiscono’ perché gli studenti vadano male, e a quelli in cui gli studenti ‘agiscono’ per andare male a scuola”, sia di H. Varenne e R. MacDermott, che collocano l’individuo al centro del meccanismo che determina il successo o l’insuccesso nel sistema scolastico. Le più moderne conquiste dell’antropologia forniscono quindi una risposta più convincente al problema dell’insuccesso, non più inteso come deficit da compensare (modello compensatorio di O. Lewis) ma come un fatto culturale arbitrario, che diviene reale proprio in quanto naturalizzato. Nell’ambito di percorsi interculturali – e specialmente nei laboratori per l’inclusione - sicura- 9 LA RIVISTA DELLA SCUOLA mente l’antropologia dell’educazione contribuisce a predisporre esperienze didattiche che sostengano la curiosità e il comportamento esplorativo; a offrire a studenti italiani e stranieri “la possibilità di esprimere la propria originalità e di vederla riconosciuta e rispettata”; a progettare “percorsi che consentano di sperimentare le differenze nelle percezioni, nelle sensazioni, nelle emozioni, negli stili relazionali e cognitivi”; a migliorare la conoscenza e le relazioni con le differenze culturali. La ricerca delle “differenze” e delle “similarità” con altre appartenenze culturali, in contesto scolastico, porta però troppo spesso – e qui anche chi scrive deve fare autocritica – alla banalizzazione delle culture diverse, riducendole a “cartoline” da cui lasciarsi piacevolmente suggestionare sull’onda di quello stesso “fascino dell’esotico” che accompagnava l’antropologia culturale di un secolo fa, con il rischio, che ne consegue, di “chiudere” il ventaglio delle possibilità di scoperta proprio mentre si cerca invece in buona fede di aprirlo. Più convincente, sotto il profilo interpretativo, la nozione di habitat di significato proposta da Hannerz. Troppo spesso, inoltre, si vorrebbe che lo straniero in classe fungesse da enciclopedia vivente della cultura del suo paese d’origine, sempre pronto a spiegarci seduta stante usi, costumi, feste, cerimonie, gastronomia, musica e folclore che egli stesso per primo forse non ha mai conosciuto. In tal modo si giunge a quella deviazione che l’antropologo M. Aime ha definito come eccessi di culture, e si tende a dimenticare di avere piuttosto a che fare con “individui che portano con sé un modo di leggere il mondo, non culture in senso astratto” . L’antropologia culturale può inoltre essere chiamata a far parte, a pieno titolo, di una programmazione didattica “alternativa” e anticonformista. Chi scrive propose pubblicamente, qualche tempo fa, una “rilettura” pluridisciplinare di alcuni classici delle scienze positivistiche tra fine-Ottocento e primo-Novecento, allo scopo di riscoprire una tradizione razzistica italiana ormai del tutto dimenticata ed espunta dagli stessi libri di testo. Se ancora si studiano i nomi di storici-antropologi come J. A Gobineau, G. Vacher de La Pouge e H. S. Chamberlain come precursori del razzismo nazista, sono oggi dimenticate opere, di presunto fondamento scientifico ma indubbio contenuto razzista, di C. Lombroso (In Calabria, 1897), A. Niceforo (L’Italia barbara contemporanea, 1898; La delinquenza in Sardegna, 1897; Italiani del nord e italiani del sud, 1901) ed E. Ferri (L’omicidio, 1897). Come è noto costoro, servendosi dei metodi “infallibili” della moderna scienza (come ad esempio l’antropometria), “dimostrarono” la superiorità razziale delle popolazioni italiane del nord rispetto a quelle del sud, fintanto che non furono costretti, anche per le autorevoli rimostranze di B. Croce e di G. Salvemini, ad attenuare le loro tesi in nome delle superiori esigenze dello Stato unitario. L’utilità di una programmazione didattica che tenga conto di questi autori, e dei loro errori, può prendere facilmente la direzione verso una riflessione sui più recenti e maturi risultati dell’antropologia culturale, e mettere in rilievo come essa oggi tenda a servirsi delle proprie conoscenze e scoperte per “avvicinare” le diversità e non, come nel caso degli autori sopra ricordati, per scavare solchi sempre più profondi. L’antropologia culturale può nondimeno contribuire a spiegare le ibridazioni culturali nell’antichità, fornendo i concetti di locale e globale, così come li abbiamo ricordati in questa relazione, alle didattiche della storia e della letteratura. Ciò vale non soltanto per l’imperialismo romano, ma anche per il sistema di coordinazione politica costruito dai greci: “Non solo nelle sue origini – scrive S. Settis – ma anche nella sua trasmissione, dall’antichità fino a noi, la cultura greca si è mescolata ad altre culture, ne è stata fecondata e le ha fecondate; poiché ogni scambio è fatto di dare e avere. A un estremo Omero che a volte, è stato scritto, “sembra tradurre dall’accadico”, o Esiodo, che riprende miti cosmogonici degli Ittiti; all’altro estremo il gran califfo al-Ma’mun (IX secolo), che dopo aver visto in sogno Aristotele manda messi a Bisanzio, e ne ottiene, per farli tradurre in arabo, “preziosi libri in greco di filosofia, geometria, musica, aritmetica e medicina”. L’interesse per le ragioni profonde delle altre culture era del resto assai vivo nell’antichità. Ricordo soltanto il famoso aneddoto di Erodoto teso a dimostrare l’attaccamento di ciascuno alle proprie usanze come “di gran lunga le migliori di tutte”, e il valore della consuetudine come “regina di tutte le cose”. Dario – racconta lo storico greco – fece venire i Greci che erano presso di lui, e chiese loro a qual prezzo avrebbero acconsentito a cibarsi dei propri padri morti; e quelli gli dichiararono che a nessun prezzo avrebbero mai fatto ciò. Poi chiamò presso di sé gli indiani Callati, noti per divorare i genitori, e mentre ancora i Greci erano presenti e seguivano per mezzo di un interprete i discorsi, chiese ai Callati a quale prezzo avrebbero acconsentito a gettare nel fuoco i loro genitori defunti: e quelli con alte grida lo invitarono a non dire simili empietà. A. Fe. Disturbi di apprendimento Circ. min. Prot. 4674 del 10/5/ 2007 Disturbi di apprendimento – Indicazioni operative Questo Ministero in diverse occasioni ha avuto modo di richiamare l’attenzione degli insegnanti sui disturbi di apprendimento (dislessia, disgrafia, discalculia). Il tema è attualmente oggetto di proposte di legge sostenute da tutti i gruppi parlamentari. In particolare, con nota del 5 ottobre 2004, prot. n 4099/A/4, richiamata da altra nota del 5 gennaio 2005, questo Ministero ha evidenziato la necessità che nei confronti di alunni con disturbi di apprendimento, certificati da diagnosi specialistica di disturbo specifico, vengano utilizzati strumenti compensativi e attuate misure dispensative. Mentre gli strumenti compensativi, per la loro funzione di ausilio, sono particolarmente suggeriti per la scuola primaria e, in generale, nelle fasi di alfabetizzazione strumentale per i diversi apprendimenti (tabella dei mesi, tabella dell’alfabeto e dei vari caratteri, tavola pitagorica, tabella delle misure, tabella delle formule geometriche, calcolatrice, registratore, computer con programmi di video-scrittura con correttore ortografico e sintesi vocale, ecc.), le misure dispensative possono avere un campo di applicazione molto più ampio che si estende anche agli studenti degli istituti di istruzione secondaria superiore. A mero titolo di esempio, si indicano le misure dispensative già richiamate dalle citate note ministeriali: dispensa dalla lettura ad alta voce, scrittura veloce sotto dettatura, uso del vocabolario, studio mnemonico delle tabelline, dispensa, ove necessario, dallo studio della lingua straniera in forma scritta, programmazione di tempi più lunghi per prove scritte e per lo studio a casa, organizzazione di interrogazioni programmate, valutazione delle prove scritte e orali con modalità che tengano conto del contenuto e non della forma. In merito alle misure dispensative, questo ministero ha avuto modo di precisare anche recentemente che in sede di esame di Stato non è possibile dispensare gli alunni dalle prove scritte di lingua straniera, ma che, più opportunamente, è necessario compensare le oggettive difficoltà degli studenti mediante assegnazione di tempi adeguati per l’espletamento delle prove e procedere in valutazioni più attente ai contenuti che alla forma. In particolare si richiama l’attenzione sul fatto che gli specifici disturbi di apprendimento rendono spesso difficile lo svolgimento di prove scritte che non si effettuano nella lingua nativa. Le prove scritte di lingua non italiana, ivi comprese ovviamente anche quelle di latino e di greco, determinano obiettive difficoltà nei soggetti con disturbo specifico di apprendimento, e vanno attentamente considerate e valutate per la loro particolare fattispecie con riferimento alle condizioni dei soggetti coinvolti. In tutti i casi in cui le prove scritte interessino lingue diverse da quella materna e non si possano dispensare gli studenti dalla loro effettuazione, gli insegnanti vorranno riservare maggiore considerazione per le corrispondenti prove orali come misura compensativa dovuta. Il Direttore Generale: Mario G. Dutto Processi penali Circ. min. VCG/S Prot. AOOUFGAB n.7664/FR del 10 maggio 2007 Procedimenti penali - Amministrazione P.I. individuata quale parte offesa. Costituzione di parte civile ex art. 1, comma 4, L. 3 gennaio 1991, n. 3. Richiesta di autorizzazione - Competenza Amministrazione centrale Si trasmette, per ogni opportuna informativa, l’unita direttiva prot. n. 5393/FR del 22 marzo ultimo scorso con cui sono state dettate istruzioni circa la procedura da adottarsi in materia di richiesta di autorizzazione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per la costituzione di parte civile in procedimenti penali nei quali risultino coinvolti personale della scuola, alunni, genitori e/o parenti di questi ultimi. Per ovvie ragioni di uniformità di indirizzo le indicate precisazioni debbono intendersi estese anche al personale amministrativo del comparto Ministero. Allegati Circ.min.Prot. n. 5393/FR del 22 marzo 2007 Atti di violenza nelle scuole Azioni da intraprendere e aspetti procedurali Il Ministro della pubblica istruzione ha più volte espresso la propria ferma volontà di contrastare on ogni mezzo e in ogni sede ogni atto di violenza che dovesse verificarsi nelle istituzioni scolastiche, siano gli stessi ascrivibili a docenti, ad alunni o a genitori e parenti di questi ultimi. In particolare, essendo in tali evenienze lo Stato qualificabile come parte offesa, si rende necessario chiedere alle sedi dell’Avvocatura dello Stato territorialmente competenti la costituzione di parte civile da parte del Ministero della pubblica istruzione. Poiché in alcuni casi si sono evidenziate incertezze da parte degli uffici periferici di questa amministrazione sulla procedura da seguire si rende opportuno fornire precisazioni al riguardo. Le vigenti disposizioni (legge n. 3/1991) prevedono che la costituzione di parte civile deve essere autorizzata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. La relativa richiesta è peraltro competenza esclusiva dell’Amministrazione centrale e non può essere avanzata dai titolari degli organi periferici. Ciò comporta che ogni evento cui si ricolleghi l’attivazione della specifica procedura deve essere tempestivamente portato a conoscenza di questo Gabinetto, adeguatamente istruito con l’acquisizione, anche mediante immediato accertamento ispettivo, di ogni utile elemento di fatto e di diritto che connota la singola fattispecie. Con l’occasione si ricorda che, come già si è avuto modo di esporre in un recente incontro con i Direttori Generali Regionali, gli episodi che configurano ipotesi penalmente rilevanti, oltre che ad essere oggetto di accertamenti ispettivi come sopra rilevato, dovranno anche costituire oggetto di immediata informativa sia alla Procure della Repubblica che alle Procure regionali della Corte dei Conti. Il Capo Di Gabinetto: Lucio Alberti Ricor diamo a tutti gli ope ratori economici e alle a g enzie pub b licitar ie c he La Rivista della Scuola costituisce un continuo str umento di consultazione da par te dei dir ig enti e dei docenti della scuola sta tale e non sta tale . La pub b licità è assai visi bile e dur a tur a. Per informazioni e preventivi: tel.02/669.2195 - fax 02/6698.3333 Consultate il nostro sito: www.girgenti.it - email: [email protected]