la lucania - istituto comprensivo venosa ii repubblica

SCUOLA MEDIA STATALE “G.B. DE LUCA”
VENOSA
LA LUCANIA
DALLA PREISTORIA ALL’OTTOCENTO
MATERIALI DI STUDIO
ANNO SCOLASTICO 2003/2004
PALEOLITICO
Il nome Paleolitico, deriva dal greco e vuol dire epoca della pietra antica, quindi delle
trasformazioni e dello sviluppo dell’uomo preistorico.
Non è possibile individuare con precisione il suo momento iniziale: i primi strumenti di pietra
costruiti dagli uomini preistorici, risalgono circa a ben 2.500.000 anni fa.
In quest’era la materia prima fondamentale era la pietra scheggiabile, che veniva lavorata
mediante percussione.
La pietra poteva essere lavorata in modi diversi, usando tecniche che con il passare degli anni
si fecero via via più complesse.
La costruzione d’utensili testimonia l’intelligenza degli uomini che seppero aumentare la
capacità delle loro mani per rispondere alle esigenze che poneva loro la vita.
Essi erano quasi inermi di fronte al clima, alle intemperie, alle malattie e agli animali; però
quegli utensili semplici e rozzi davano loro un po’ di forza e di possibilità di sopravvivenza.
Gli uomini della preistoria amavano molto la caccia e abitavano in caverne, o in ripari
addossati alle rocce.
Questi gruppi d’uomini primitivi, praticavano l’inumazione dei morti, cioè li seppellivano con
un corredo funebre che ritenevano potesse essere loro utile nella vita dell’oltretomba.
La sepoltura avveniva in primo luogo per ragioni igieniche e in secondo luogo per motivi
religiosi.
In alcune sepolture sono state trovate pesanti lastre di pietra sulle braccia, sui piedi e sulla
testa del cadavere.
Si voleva, così impedire, il ritorno dei morti fra i vivi.
IL PALEOLITICO IN BASILICATA
Per quanto riguarda il Paleolitico della Basilicata, non è facile avere un’idea esatta dopo
millenni d’abbandono.
I siti privilegiati come insediamenti umani, erano le cavità naturali in prossimità delle coste o
sui corsi d’acqua.
Le più remote testimonianze del Paleolitico in Basilicata, le troviamo nella zona di Venosa,
nell’Altopiano materano e nella Gravina di Matera (Grotta dei Pipistrelli, Grotta Funeraria,
etc…).
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IL SITO DI NOTARCHIRICO
Il sito di Notarchirico è formato da una sovrapposizione di undici livelli frequentati nel
paleolitico inferiore. In ogni livello si trovano strumenti utilizzati dall’uomo preistorico e resti
di animali estinti che erano stati recuperati dalle acque.
Notarchirico è stato scoperto nel 1979 in seguito ad una ricognizione da parte di alcuni
membri dell’Istituto italiano di “Paleontologia Umana” e da ricercatori della Soprintendenza
speciale al Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Leonardo Pigorini”. Profonde arature
avevano portato alla luce molti materiali litici e paleontologici.
Dal 1980 al 1984 gli scavi effettuati dall’Istituto italiano di Paleontologia Umana e dalla
Soprintendenza Speciale confermarono la possibilità che i livelli potessero occupare vaste
aree; perciò dal 1985 gli Istituti citati insieme alla Soprintendenza Archeologica della
Basilicata, all’Università Federico II di Napoli e al Comune di Venosa continuarono le
ricerche e lo studio dei territori e dei materiali portarono, così, ad un programma di tutela e di
valorizzazione dell’intera area. Si cominciò in questo modo a costruire un primo nucleo di
parco paleolitico il cui progetto finale prevedeva l’estensione del parco fino alle “Grotte di
Loreto” in un unico complesso che doveva rimanere come testimonianza permanente nota in
tutta Europa per la sua antichità
NOTARCHIRICO: RESTI DI FEMORE UMANO
Il reperto osseo che è stato ritrovato a Notarchirico rappresenta il femore destro di un
individuo femminile. I laboratori di istituto hanno saputo datare il “ femore” a circa
trecentomila anni fa. La superficie del femore era ricoperta da materiale osseo, questa
formazione appariva porosa e compatta, era probabile che nel femore ci fosse
un’infiammazione dovuta a una profonda ferita della coscia subita quando la donna era ancora
in vita.
MESOLITICO, NEOLITICO ED ETÀ DEI METALLI
L’età Mesolitica va dall'8500 al 5000 a.C.
E’ il periodo di passaggio dal Paleolitico al Neolitico, un’età che corrisponde al tempo in cui
si ritirarono i ghiacciai verso le zone del nord e molti animali abituati al clima freddo
emigrarono verso le zone settentrionali.
Per la mancanza di selvaggina gli uomini furono costretti a nutrirsi di pesci.
L’età Neolitica va dal 5000 al 4000 a.C.
Gli uomini, in questo periodo cambiarono sistema di vita: da nomadi divennero sedentari.
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Iniziarono a coltivare e ad allevare il bestiame, impararono a levigare la pietra con la sabbia,
costruirono la loro capanna sulle palafitte.
Sorsero altre attività come la tessitura e la fabbricazione del vasellame.
Per la fabbricazione di quest’ultimo inventarono la ceramica.
Il ruolo fondamentale fu rivestito dalle donne.
Esse aiutavano gli uomini nel lavoro raccogliendo dei vegetali.
L’età dei metalli, chiamata così per l’uso e la lavorazione d’alcuni metalli, si divise in tre fasi:
Età del Rame, Età del Bronzo ed Età del Ferro.
La prima di esse, dal 4000 al 2000 a.C., prese il nome dal primo metallo usato dagli uomini
preistorici che fu appunto il rame.
In questo periodo furono caratteristiche le costruzioni megalitiche forse a scopo funerario,
religioso o commemorativo come i “Dolmen” i “Menihir” e i “Cromlech”.
L’Età del Bronzo, dal 2000 al 1000 a.C. prese il nome dal bronzo. In quest’età si ebbero le
prime città con le loro fortificazioni, i templi e i palazzi dei capi.
L’Età del Ferro, dal 1000 a.C. in poi, prese il nome da questo metallo la cui lavorazione fu
scoperta intorno alla prima metà del II millennio a.C.
LE GROTTE DI LATRONICO
Sono una serie di cavità naturali, originariamente molto più articolate, site nella frazione
“Bagni di Calda”.
Conosciute da circa un secolo come uno dei maggiori centri dell’età del Bronzo dell’Italia
meridionale, le grotte erano state interpretate come uno dei più grandi santuari dedicati al
culto delle acque, naturalmente in relazione con il fenomeno delle sorgenti.
I moderni interventi di scavo hanno smentito tale ipotesi appassionante.
Alla base del deposito della grotta n° 3 sono stati rinvenuti livelli a chiocciolato, privi di
ceramica e con industria microlitica a trapezi, che si riferiscono ad uno stadio d'economia
mesolitica, un momento finora quasi sconosciuto in Basilicata.
La frequentazione stabile delle grotte ebbe inizio in un momento già avanzato del Neolitico e
continuò fino alla media età del Bronzo.
IL POPOLAMENTO ANTICO TRA L’VIII E IL IV SECOLO
Nella prima età del ferro (IX-VIII sec.) l’area del Vulture si presentava scarsamente abitata.
Oltre all’insediamento di Toppo Daguzzo (Rapolla) era certamente occupato il territorio di
Lavello.
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Da questo centro provengono, infatti, armi, oggetti ornamentali relativi a sepolture sia
maschili sia femminili del IX e della prima metà dell’VIII secolo a. C.
Alla seconda metà del secolo si riferiscono i testi di capanne rinvenuti a Lavello.
Si tratta di strutture a pianta tondeggiante, scavate nella roccia e affiancate da focolari e da
fosse di scarico.
Le ceramiche trovate all’interno delle capanne documentano importazioni artigianali dalla
Valle del Bradano.
Con l’esclusione di Lavello e Banzi, un’evidente ripresa dell’occupazione umana del Vulture
si ebbe solo dagli ultimi anni dell’VIII secolo.
Alla seconda metà del secolo appartengono due sepolture principesche di Lavello. Soprattutto
quella maschile, ha restituito un corredo d'eccezionale ricchezza per il mondo dauno.
I vasi di corredo di bronzo e in ceramica, evidenziano l’importanza della zona del Melfese in
questo periodo.
La presenza di questi oggetti di ferro sottolinea il cambiamento di costumi dei capi indigeni,
ad imitazione dei nobili greci.
Attraverso il Melfese, fra la costa ionica e quella tirrenica, si determinò la nascita
d'insediamenti come quelli di Pisciolo, Leonessa e Chiuchiari (Melfi), Toppo Daguzzo
(Ripacandida, Ruvo del Monte).
Si trattava di centri culturalmente non omogenei, a conferma del carattere di confine
rappresentato nell’antichità, dal territorio del Vulture, che subì influenze daune, campane e
dell’area potentina.
Dal mondo greco derivò, invece, la tecnica di costruire le case con strutture a secco. In questa
maniera era anche costruito il grande edificio trovato a Lavello in Contrada San Felice, dotato
di una pianta regolare complessa: primo esempio di edificio con funzione collettiva politicosacrale.
Dalla fine del VI sec. e nel V sec. sono documentate tombe principesche. Piuttosto chiara, in
queste sepolture, è la caratterizzazione dei vasi di corredo greci ed etruschi, sia in ceramica a
figure rosse e a vernice nere in bronzo, come servizi da vino. Nella sepoltura maschile è
evidente l’affievolirsi del carattere guerriero a favore di valori e costumi urbani di matrice
greca. Nelle sepolture femminili la presenza di candelabri in bronzo di probabile produzione
etrusca sottolinea la partecipazione della donna a tutti i rituali domestici.
La graduale ellenizzazione di quest’area è documentata dalla presenza di ceramiche fini da
mensa di tipo greco, anche nei corredi funebri di minore rilievo.
Anche per questo periodo è stato individuato, a Lavello, un edificio con funzione sacrale.
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Nel corso della seconda metà del V secolo gruppi sanniti occuparono Poseidonia e si
spostarono verso l’interno della Basilicata provocando nell’area del Vulture l’abbandono di
alcuni centri. Con la fine del IV secolo la presenza romana determinò un grande
spopolamento dell’area. Solo a Lavello alcune sepolture in ceramica ipogeica sembrano
documentare la presenza di aristocratici che erano chiamati al controllo di questo territorio,
dopo l’occupazione romana.
IL TERRITORIO INDIGENO NEL V E NEL IV SEC. A.C.
Nella vallata dei territori costieri e sub costieri occupati dai coloni greci, la presenza di corsi
d’acqua e di passaggi obbligati lungo i fondovalli ha permesso e favorito i contatti e gli
scambi commerciali.
Con il V secolo le necropoli indigene subirono un improvviso impoverimento ed una
progressiva rarefazione in più di qualche caso centri, che al finire del VI secolo erano
fiorentissimi, scomparvero addirittura fino a tutta la prima metà del IV secolo; gli altri
sopravvissero stancamente.
Questo momento critico per il territorio indigeno è attribuito ad un’ultima discesa di genti
sannite, che sul Tirreno occuparono la colonia di Poseidonia e si spinsero poi sulle coste
ioniche.
Le fonti antiche, greche e latine, danno a queste genti il nome di Lucani. Prima che i Lucani si
scontrino con le colonie greche sembra che essi abbiano pensato ad un’organizzazione interna
del territorio costruendo formidabili difese per i propri insediamenti, federati in qualche modo
intorno a grandi centri di culto.
Alla seconda metà del IV secolo appartengono, infatti, le fortificazioni del Potentino e
dell’alto Materano e i santuari grandi e piccoli della Lucania.
Su uno dei blocchi della fortificazione di Serra di Vaglio è attestato il nome di Nummelos che
appare come l’arconte della città.
Ma se si guardano le strutture della fortificazione di Serra di Vaglio e degli altri centri
fortificati e quelli del Santuario di Rossano, diviene allettante l’ipotesi che tutte quante
possano essere attribuite alla stessa mente ideatrice, verosimilmente proprio a quella di
Nummelos.
La ripresa lucana in tutto il territorio della regione e la straordinaria fioritura dei centri, hanno,
però, breve durata. Nel giro di pochi decenni, la vigorosa presa di coscienza dell’unità
religiosa e della forza politica si frantuma prima in un estenuante logoramento contro i Greci
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della costa e finisce poi con lo schiantarsi nello scontro decisivo con i Romani agli inizi del III
secolo a.C.
LA COLONIZZAZIONE GRECA
L’evento storico che ha segnato la storia di questo territorio dell’Italia Meridionale è
rappresentato dalla fondazione di città greche nel corso del VII secolo a.C.
Si tratta di un’immigrazione forzata da regioni piuttosto povere della Grecia, alla ricerca di
terre fertili da coltivare. Il primo stanziamento greco in Occidente fu l’emporio d’Ischia,
fondata verso il 770 a.C.
Si ebbe poi una fase di popolamento acheo a carattere agricolo con la fondazione di Sibari,
Crotone, Caulonia verso la fine dell’VIII sec. e di Metaponto verso la metà del VII secolo.
Alla fine dell’VIII secolo fu fondata l’unica colonia spartana, Taranto.
Agli inizi del VII secolo si fa risalire la fondazione di Siris.
Le relazioni tra metropoli e colonie furono spesso strette ed inquadrabili entro rapporti
prevalentemente religiosi.
Alle origini del movimento coloniale vanno poste le crisi politiche, economiche e sociali
delle comunità di partenza.
Nel mondo greco si conoscono i caratteri distintivi di tale crisi: aumento della popolazione,
scarsità di suolo agricolo, carestie, ecc…
Le colonie dovettero crescere e prosperare rapidamente, ad appena un secolo dalle prime
fondazioni, continuò a registrarsi l’invio dei coloni e la nascita delle nuove città. In questo
caso il fenomeno si deve inquadrare nel processo di crescita delle popolazioni e nel bisogno di
nuovi spazi da controllare.
Nel giro di circa due secoli tutte le coste dell’Italia Meridionale e della Sicilia si trovarono
sotto il controllo delle città greche.
In Basilicata, le due aree colonizzate dalla Grecia, furono il Metapontino e la Siritide.
Con l’arrivo dei coloni in Occidente entrarono nella storia greca le popolazioni indigene. Il
campo d’indagine più vasto resta quello della documentazione archeologica. I coloni, dotati di
una cultura diversa da quella indigena, divennero artigiani e artisti. Erano in possesso di
un'esperienza tecnologica molto più avanzata delle popolazioni italiche del Meridione.
Queste, però, s’impadronirono ben presto delle nuove tecniche.
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HERACLEA
La colonia di Heraclea venne fondata nel 433-32 a.C. da una coalizione costituita da Taranto e
Thurii.
Si trattava di una vera e propria città racchiusa da mura monumentali con strade regolari che
collegavano vari quartieri abitativi. Una vasta “agorà” per le attività politiche ed economiche
era affiancata da aree a destinazione religiosa con templi e santuari.
Inizialmente l’impianto urbano occupò la collina del Castello. Nella prima metà del IV secolo
a.C., conobbe un periodo di ricchezza che coincideva con la scelta di Heraclea come sede
della Lega Italiana (la confederazione formata dalle colonie della Magna Grecia contro i
Lucani).
I materiali ritrovati negli scavi illustrano le vere fasi di Heraclea e ne mostrano gli aspetti
della vita quotidiana.
Particolarmente fiorente e diffusa era la tecnica dell’artigianato su terracotta legata a materiali
tarantini.
Nelle Necropoli il rito di sepoltura più frequente era l’inumazione in fossa terragna con
copertura di tegole o a casse; meno documentata è l’incinerazione.
Di particolare rilievo è una tomba databile all'incirca intorno al 400 a.C. contenente vasi
attribuiti ai pittori di Policoro, di Creusa e delle Carnee, artisti tra i primi e più importanti ad
operare in quel periodo in Magna Grecia.
SIRIS
Il più antico centro greco della Basilicata, Siris era ubicata nella fascia pianeggiante allo
sbocco dei fiumi Agri e Sinni.
La colonia fondata da genti provenienti dalla Grecia e dall’Oriente, sorse nel territorio che
corrisponde l’odierno centro di Policoro.
Le ricerche archeologiche alla foce del Sinni non hanno avuto, finora, esiti positivi, mentre un
insediamento fortificato di Siris è stato individuato sulla collina di Policoro.
Questo insediamento doveva costituire il centro politico- militare della colonia, organizzata
soprattutto in nuclei sparsi. Al mondo religioso di Siris rimanda la ricca documentazione
proveniente dall’area sacra.
Sull’organizzazione interna della città mancano attestazioni sicure cui far riferimento
Le necropoli sono state localizzate, invece, in una località ad occidente della collina.
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METAPONTO
Un’altra importante colonia greca presente in Basilicata era Metaponto, fondata verso il 640
a.C. da coloni provenienti da una regione montuosa del Peloponneso: l’Acaia.
Nel caso di Metaponto si è in presenza, fin dalle prime fasi di vita della colonia, di un
impianto urbano regolare con strade principali e secondarie che separano i quartieri
residenziali da uno spazio destinato alla vita pubblica (agorà), con un edificio per riunioni e
un santuario. Le fonti letterarie riportano notizie di frequentazioni della zona già in epoche
precedenti alla sua fondazione, attraverso la presenza dei personaggi dell’epica omerica.
Le prime testimonianze archeologiche di cui abbiamo notizia appartengono alla seconda metà
del VII secolo, ma sono della prima metà del VI secolo i primi resti monumentali.
Metaponto, alleatasi con Sibari e Crotone, contribuì alla distruzione della colonia Siris. Subito
dopo, nel 510 a.C., insieme alla città di Crotone pose fine all’impero di Sibari.
Durante la guerra del Peloponneso portò aiuto ad Atene.
Dopo la fondazione di Heraclea, però, cominciò a perdere d’importanza; nel secolo IV a.C. il
territorio fu bonificato e ridistribuito, sorsero numerose fattorie e la città, nonostante la
pressione delle popolazioni lucane, risentì di una maggiore floridezza.
OCELLO LUCANO
A Metaponto, colonia della Magna Grecia, Pitagora fondò una scuola dove entrarono a far
parte molti giovani lucani, che spesso appartenevano ad una stessa famiglia.
Tra loro, il maggiore fu certamente Ocello Lucano, operante nel V secolo a.C. Probabilmente
nativo di Grumentum, Ocello scrisse in lingua greco- dorica e successivamente i suoi scritti
furono tradotti in lingua greco- attica.
Delle sue opere si conservano pochi frammenti e titoli: “Del regno”, “Della Giustizia”, “Delle
leggi”, “Della natura dell’Universo”.
LA LUCANIA E ROMA
Verso la fine del ΙV secolo a.C. in Italia Meridionale troviamo la presenza di Roma.
I Romani fecero leva sulle aristocrazie locali, cui garantivano la concentrazione del potere,
per ottenere successi nella loro politica d’espansione nel Mediterraneo. Nettamente
ridimensionate sul piano economico e militare le vecchie grandi città della Magna Grecia
furono teatro, con l’Apulia e la Lucania, del lungo e sanguinoso scontro tra Annibale e i
Romani soprattutto nel corso della seconda guerra punica. Con la conquista romana della
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Penisola, portata a compimento al termine delle guerre contro Annibale, le grandi città greche,
persero, con l’autonomia, ogni prestigio ed iniziò da allora quel fenomeno di decadenza che
doveva trasformare la Lucania in una delle aree più depresse d’Italia.
All’abbandono dei siti, al calo demografico, la politica romana cercò di far fronte con
numerose deduzioni di colonie latine come Venosa, già nel 291 a.C., Paestum nel 273 a.C. e
Grumentum, pure nella prima metà del ΙΙΙ secolo a.C.
Questo fatto comportò l’arrivo di genti d’altre regioni, specialmente dalla Campania
settentrionale e dal Lazio.
Al termine della guerra sociale (91-88 a.C.) combattuta dagli Italici contro Roma per
rivendicare il diritto alla cittadinanza romana, la Lucania conobbe, un nuovo assetto
territoriale in seguito all’estensione del diritto di cittadinanza e alla creazione d’alcuni
municipi, come quello di Heraclea nel 90 a.C. e quello di Banzi tra l’80 e il 60 a.C.
Tra il 73 e il 71 a.C. in Lucania soggiornò Spartaco.
Metaponto, ridotta ormai ad un borgo di poca importanza, fu saccheggiata da Spartaco proprio
in quegli anni.
Ma la battaglia decisiva, combattuta alle sorgenti del Sele, pose fine alla guerra civile.
L’organizzazione romana al sud si basava sulle grandi arterie stradali: la Via Appia creava un
asse privilegiato verso l’Oriente con la testa di ponte a Brindisi.
Un’altra grande via attraversava la Calabria attuale collegando Reggio al Vallo di Diano e
questo a Capua in Campania.
Del ΙΙΙ-ΙV secolo d.C. è invece il tracciato della Via Hercula, da Heraclea all’attuale Ariano
Irpino, attraverso l’interno della Lucania, per Grumentum, Potenza e Venosa.
HERACLEA
Heraclea durante il periodo annibalico rimase fedele a Roma, che la privilegiò con un
“foedus” particolare.
Agli inizi del I sec. a. C. venne trasformata in un municipio e adottò, verso la metà del secolo,
la lingua latina come lingua ufficiale.
Alla fine del I sec. a. C., a seguito di avvenimenti, quali la guerra civile ed il passaggio di
Spartaco, la città fu ridotta ad una dimensione di mera sussistenza e gradatamente si contrasse
verso la punta orientale della collina del Castello. Ci fu contemporaneamente un lento
spostarsi dei centri costieri verso l’interno.
La fondazione della colonia di Grumentum in Val d’Agri spostò il centro politico ed
amministrativo lungo la via Popilia.
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Pian piano il territorio di Heraclea perse tutta la sua importanza e alle opere di bonifica
subentrarono il pascolo e la palude.
GRUMENTUM
La colonia romana di Grumentum fu fondata, probabilmente agli inizi del III secolo a.C.,
come Venusia e Paestum in un momento in cui Roma era impegnata nella lotta contro i
Sanniti ed in una zona da cui fosse possibile esercitare un controllo politico e militare.
Grumentum occupava una posizione strategica importante per Roma, posta com’era
all’incrocio di strade d’ampia comunicazione, una delle quali, partendo da Venusia, toccava
Potentia e Grumentum.
Coinvolta nella seconda guerra punica, non fu distrutta, infatti, nel II secolo a.C., le
testimonianze archeologiche attestano una vita fiorente ed un centro abbastanza consistente.
Il suo territorio fertile e pianeggiante fu coltivato e forse suddiviso in appezzamenti in età
graccana.
Durante la guerra sociale, Grumentum fu distrutta più volte; subito dopo, intorno agli anni 50
a.C., si ebbe una ripresa dell’attività edilizia che portò a ricostruire le mura ed a realizzare
edifici pubblici come l’anfiteatro.
Durante l’età Augustea, Grumentum continuò ad arricchirsi d’edifici pubblici e privati di
notevole bellezza: furono costruiti il teatro, le terme pubbliche, la domus e mosaici.
Durante l’età imperiale (V, VI sec.), Grumentum continua ad essere un centro ricco ed
importante, ma comincia ad essere abbandonata.
Il centro antico, situato su una colonia denominata “Civiltà”, presenta un impianto urbano
regolare (risalente al III sec. a.C.) caratterizzato da tre strade parallele disposte secondo l’asse
NE-SO e intersecate da strade trasversali.
METAPONTO
Il periodo delle guerre annibaliche investe le colonie greche della costa ionica: alla decadenza
dei centri abitati fa riscontro anche la crisi del territorio.
Nel corso del III secolo a.C. si abbandonano i santuari extraurbani.
Il centro urbano si restringe nell’aria fortificata del “Castrum”, tra il 212 e il 209 a.C.,
Metaponto fu quartiere generale dei Cartaginesi e teatro di drammatiche vicende, tra cui il
trasferimento forzato dei Metapontini al seguito dell’esercito punico.
Nel II secolo a .C. sono ancora utilizzate le “Stoà” e le strade; sono in funzione un’officina
metallurgica e una bottega di ceramisti.
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In questo secolo e in quello successivo il centro vive probabilmente per la sua attività
portuale.
Al seguito delle distruzioni provocate dalla guerra sociale del I secolo d.C., la “Stoà” viene
distrutta e l’area dove sorgeva, livellata.
Le sepolture del I secolo d.C. invadono il fossato del Castrum e il santuario d’Apollo.
Dopo un lungo periodo di crisi, dal III secolo d.C. un impianto termale ed una basilica
paleocristiana si sovrappongono alle sedi stradali del “Castrum”.
VENOSA (PERIODO ROMANO)
Nel 291 a.C. fu fondata la colonia latina di Venusia e vi furono insediati migliaia di coloni cui
furono distribuite terre che, probabilmente, occupavano gli attuali territori dei comuni di
Melfi, Lavello, Ripacandida, Rionero, Atella ed altri.
La zona di Venosa costituiva un punto di grande importanza strategica: era alla confluenza di
vie di traffico e comunicazione con la Campania attraverso il passo di Benevento, con la zona
di Salerno attraverso l’alto Ofanto, Conza e il Sele. All’Adriatico, la zona di Venosa, era
collegata attraverso l’Ofanto, allo Ionio attraverso la valle del Bradano.
Era importante il controllo del territorio di Venosa, poiché Roma cominciò nel 343 e portò a
termine nel 267 a.C. l’occupazione dell’Italia Meridionale; durante questo settantennio di
guerre la stessa Roma si servì di diversi strumenti fra cui alleanze con molte città dell’Italia
meridionale
Istituita come colonia, prima di diritto latino e poi di diritto romano, Roma ebbe in genere
grandi cure e rispetto per Venosa, non abolì le magistrature locali, le istituzioni senatorie,
l’esercito.
La città tuttavia tentò di scuotersi della servitù non sempre mite.
Venosa prese posizione contro Roma particolarmente dopo la vittoria ad Eraclea del re Pirro
d’Epiro contro i Romani (280 a.C.) partecipando alla battaglia dell’Ofanto presso Ascoli
Satriano.
Dopo questa vittoria di Pirro, le cose non andarono molto bene per i suoi alleati lucani;
prigionieri venosini seguirono nell’Urbe il trionfo romano del 275: Malevento divenne
Benevento.
Sotto Augusto, Venosa apparteneva alla Regio Secunda («Apulia et Calabria») ed in omaggio
a questo antico legame con la Puglia storica nel 1975 si è tenuto in Venosa il XIII Convegno
Paleocristiano di Puglia e Lucania.
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Il cristianesimo attecchì in questa città sin dai primi tempi, e fu favorito, anche se contro
voglia, dall’esistenza della comunità ebraica.
Si ricorda un vescovo Filippo, nel 238, essendo papa S. Fabiano ed imperatore Massimino;
certamente Filippo, ammesso che sia veramente esistito, non fu il primo capo della chiesa
venosina.
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente Venosa seguì le sorti di tutte le altre città
del meridione.
ORAZIO
Quinto Orazio Flacco, nacque l’8 dicembre nel 65 a.C.; era figlio di un uomo del popolo, che
inizialmente fu fatto schiavo e poi liberato.
Nella sua fanciullezza non ebbe il conforto materno, perché la madre gli morì troppo presto e
crebbe solo col padre, che sempre ne ebbe cura amorosamente.
Venosa era piena di splendore; un immenso agro, due acquedotti, terme, anfiteatro con scuole
gladiatorie, templi ricchi di marmo, vie brulicanti di gente di tutti i paesi transitori per
l’Appia, ricca di boschi, popolata nella pianura e per le colline.
Così Venosa restò nella mente e nel cuore d’Orazio e ciò lo possiamo costatare leggendo le
sue opere.
A Venosa il fanciullo dovette avere come maestro principalmente il padre, per il quale
conservò un’immensa gratitudine.
A 18 anni il poeta andò ad Atene, dove si appropriò della cultura più fine del tempo. Orazio fu
tribuno militare; con Bruto si trovò a Filippi.
Dopo l’amarezza della sconfitta gli furono confiscati i suoi beni nella nativa Venosa. La
povertà, com’egli dice, lo spinse a comporre poesie.
Le sue composizioni troveranno pian piano ammiratori a Roma e ben presto trovò protezione
ed amicizia nel grande Mecenate il quale lo volle insieme a Virgilio nel famoso circolo
culturale che prende il nome dallo stesso Mecenate; fu quello certamente il periodo più bello
della vita di Orazio.
Nel fulgore della sua grandezza, non dimenticò lo svago ed i piaceri dell’amore che sapeva,
però, dominare con doveri.
Visse tra pochi amici e spesso isolato, si dedicò nell’età matura agli studi filosofici, che non
spensero la sua poesia.
Orazio morì il 27 novembre dell’8 a.C., dopo breve tempo dalla morte del suo grande amico
protettore.
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Le opere di Orazio durarono in eterno, come il poeta predisse, anche perché legate alla
grandezza di Roma immortale.
Nelle Odi, consistenti in 103 composizioni di squisita fattura, si può affermare che la tecnica
rende il verso immateriale; e alla classica bellezza dei metri greci, va unita la potenza del
pensiero romano.
Gli argomenti svariati, dalla gloria di Roma alla fede religiosa e dalla comprensione della
natura all’ebbrezza del sogno, rispecchiano la versatilità del genio che le compose.
CARMEN SAECULARE
Phoebe silvarumque potens Diana,
lucidum coeli decus, o colendi
semper et culti, date quae precamur
tempore sacro,
quo Sibyllini monuere versus
vergines lectas puerosque castos
dis, quibus septem placuere colles,
dicere carmen.
Alme Sol, curru nitido diem qui
promis et celas aliusque et idem
nasceris, possis nihil urbe Roma
visere maius.
Rite maturos aperire partus
lenis,Ilithyia,tuere matres
sive tu Lucina probas vocari
seu Genitalis.
Diva, producas subolem patrumque
prosperes decreta super iugandis
feminis prolisque novae feraci
lege marita,
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certus undenos deciens per annos
orbis ut cantus referatque ludos
ter die claro totiensque grata
nocte frequentis.
CARMEN SAECULARE
Febo e tu Diana, regina dei boschi,
O sempre venerati e venerandi
lumi del cielo, ascoltateci in questo
sacro momento,
in cui, conforme ai sibillini versi,
vergini elette e candidi fanciulli
agli dei che hanno a cuore i sette colli
sciolgono un canto.
O Sole, che col fulgido tuo carro
scopri e nascondi il giorno e, sempre uguale
nasci e diverso, nulla mai non veda
maggior di Roma.
E tu, che schiudi i germi della vita,
benigna, Ilizia, proteggi le madri,
ti chiamino col nome di Lucina
o Genitale:
cresci la stirpe e i decreti dei Padri
sui matrimoni delle donne, o dea,
e sulla legge di famiglia, ricca
di nuova prole,
sì che il ciclo di cento e dieci anni
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riporti i canti e i giochi per tre volte
nel luminoso giorno e nella grata
notte affollati.
LA LUCANIA DOPO IL PERIODO ROMANO
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, quando Odoacre nel 476 mandava a
Zenone, imperatore di Costantinopoli le insegne imperiali, l’Italia venne dichiarata provincia
dell’Impero Romano d’Oriente e quindi terra di confine tra Oriente ed Occidente e teatro di
continue incursioni e scontri tra soldatesche barbare bizantine.
Nel 568 in Italia scendevano i Longobardi, che raggiunta l’Italia Meridionale, istituirono il
ducato di Benevento.
La Lucania fu allora divisa fra Bizantini e Longobardi, in seguito fu terra d’approdo da parte
dei Saraceni i quali, arrivando dal mare, vi si assicurarono molti domini. Quando, verso la fine
del X secolo, sembrava si fosse consolidato il dominio bizantino e l’Italia meridionale ebbe
un’organizzazione, cominciarono a giungere i Normanni sul principio del XI secolo.
Provenienti dalla Normandia, i Normanni giunsero in Puglia ed ottennero dal duca di Napoli
la contea d'Aversa per alcuni aiuti prestati.
Successivamente Guglielmo Braccio di Ferro ottenne il ducato di Melfi e Roberto il
Guiscardo nel 1059 divenne vassallo della Chiesa.
Nel 1091 Ruggiero d’Altavilla occupò la Sicilia, ma nel 1130 Ruggiero II riunificò sotto di sé
la Sicilia con la parte continentale dell’Italia Meridionale.
La dominazione normanna terminò quando Enrico IV di Svevia marito di Costanza
d’Altavilla nel 1190 ebbe il titolo di re di Sicilia inaugurando il regno degli Svevi nell’Italia
Meridionale che vide fra i suoi re il famoso Federico II che è stato ritenuto il più intelligente e
capace sovrano del suo tempo. Egli fece di Melfi una delle città più importanti del suo regno e
le leggi che emanò con il nome di ” Costituzioni Melfitane” furono promulgate da questa
città.
Durante il regno di Federico II molta importanza ebbero le arti e la cultura perché questo re
era stato educato all’amore per il sapere e per l’arte.
Di questo periodo restano testimonianze artistiche a Melfi, Monticchio, Rapolla e Matera.
D’importazione bizantina sono le numerose “Madonne nere”, che ancora oggi si venerano in
Lucania.
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Monumenti attestanti il periodo normanno si ritrovano a Melfi, Venosa, nella zona di Lavello,
Rionero, Palazzo San Gervasio, Irsina e Tricarico.
Tra i tanti di notevole importanza, ricordiamo la Basilica della S.S. Trinità a Venosa, voluta
da Roberto il Guiscardo, la Certosa di Padula, la cattedrale di Acerenza, Santa Maria
d’Anglona, il Duomo di Melfi.
LUPO PROTOSPATA
Lupo Protospata visse tra il 1030 e il 1107 e ci ha lasciato un’interessantissima cronaca dei
fatti che si svolsero tra l’860 e il 1102.
E’ quasi certo che sia nato a Matera ma alcuni lo vogliono nativo di Bari o d’Ascoli Satriano.
E’ certo, comunque, che da vescovo a “protospata” imperiale, egli operò fra Ascoli Satriano,
Acerenza, Venosa, Matera e Melfi; poiché i fatti narrati si riferiscono prevalentemente a
quella fascia di territorio.
GLI SVEVI
Gli Svevi arrivarono nell’Italia meridionale a seguito del matrimonio di Enrico VI con
Costanza d’Altavilla. Enrico VI prese nel 1180 il titolo di re di Sicilia, alla sua morte, nel
1187, salì al trono suo figlio Federico II, dopo tante lotte per la successione al trono.
Essendo Federico II ancora un ragazzo fu nominato re di Sicilia sotto la tutela del Papa
Innocenzo III.
Alla morte di Federico II nel 1250 salì al trono Manfredi che, dopo un breve periodo di
successi e di fortuna, decadde malinconicamente fino al disastro di Benevento con cui Carlo
d’Angiò darà inizio alla dominazione angioina.
Federico II organizzò e consolidò il suo potere costruendo nel Regno di Sicilia, che
comprendeva tutta l’Italia meridionale, uno stato monarchico centralizzato.
Con una serie di leggi chiamate “Costituzioni Melfitane”, poiché promulgate nella città di
Melfi nel 1231, egli affermò la sovranità assoluta del re.
Educato nell’amore per il sapere e per l’arte, all’interno del suo regno, sviluppò e favorì la
cultura.
RICCARDO DA VENOSA
Alla corte del più grande imperatore dell’Italia Meridionale: Federico II di Svevia, troviamo il
giudice Riccardo da Venosa, primo scrittore della Basilicata medievale.
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Il giudice Riccardo da Venosa, figura singolare e significativa, fu autore di una commedia
elegiaca in latino: “Paolino e Polla”, che ha una grande importanza soprattutto sul piano
culturale.
Un giudice poeta che scriveva un’opera in latino per poi donarla all’imperatore; un giudicepoeta che viveva a Venosa, e che scriveva proprio in questa città ci invita a conoscere meglio
la Basilicata.
La commedia di Riccardo fu considerata un’opera pre- umanistica, e, non a caso,
all’Umanesimo lo ascrisse il francese Du Méril.
Della sua vita si sa ben poco e le poche informazioni sono state ricavate dalla sua opera.
Dal prologo, infatti, si è ricavato, che lui è nato, o, almeno, è vissuto, a Venosa (Venusinae
gentis alumnus / Judex Riccardus tale peregit opus: Il giudice Riccardo, figlio della gente
Venusina scrisse quest’opera).
Ritornando allo scritto del giudice venosino possiamo ricavare notizie sulla Venosa del
tempo: polverosa, popolata da cani randagi, con le fogne aperte sulle strade; una Venosa che
si reggeva, almeno per i rapporti matrimoniali, su statuti sanciti dal Diritto Romano.
IL LIBRO DI PAOLINA E POLLA
La commedia è divisa in 1118 versi e vede sulla scena tre personaggi: Polla, Paolino e
Fulcone, forse Riccardo da Venosa, lo stesso autore, si “nascose” in quest’ultimo personaggio
intermediario delle nozze fra i due anziani coniugi.
Paolino in gioventù era già stato innamorato di Polla ma ormai in tarda età, non pensava più
alle nozze con la sua amata.
Falcone funge da intermediario tra i due e cerca di convincerlo al matrimonio con molte
battute.
La commedia è, infatti, tutta giocata sulle battute e sulle farse.
DA FEDERICO II A CARLO I D’ANGIÒ
GLI ANGIOINI
Carlo I d’Angiò, salì al trono nel 1266 e trasferì la capitale da Palermo a Napoli.
Come in tutto il regno anche in Lucania la dinastia angioina dovette far pagare col sangue la
sua politica.
Infatti, molti appartenenti della borghesia e della nobiltà lucana riscoprirono i loro sentimenti
filosvevi; ma dopo il fallimento di Corradino sconfitto a Tagliacozzo nel 1268, Lavello,
Venosa, Spinazzola, Minervino e Montemilone si arresero alle truppe angioine.
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Ma la repressione prodotta da Carlo I d’Angiò fu devastante e la distruzione e la morte si
diffusero per quasi tutti i paesi e confini tra la Lucania e la Puglia.
Melfi, l’antica capitale normanna, Venosa città cara a Federico e a Manfredi, tutta la valle di
Vitalba risentirono tragicamente della repressione angioina.
Lo stesso successe di Matera. Durante il regno di Carlo II detto lo Zoppo ci fu una lunga e
devastante guerra tra Angioini ed Aragonesi.
Solo con Roberto d’Angiò detto il Saggio la situazione cambiò e l’intero regno poté godere di
un lungo periodo di pace e tranquillità.
Questa situazione favorì lo sviluppo artistico e letterario.
Ma alla morte di Roberto d’Angiò con la successione di Giovanna I tutte le situazioni che
erano state tenute sotto freno sfociarono in guerre, disordine e rovine.
Alla morte di Giovanna I il regno fu conteso tra Luigi II d’Angiò e Ladislao di Durazzo.
A Ladislao, vincitore, successe nel 1414 Giovanna II corrotta e sregolata come la prima.
Alla sua morte si scatenò una lunga guerra fra Angioini e pretendenti Aragonesi i quali
vinsero nel 1443 con Alfonso d'Aragona.
Il fermento culturale serpeggiò e si sviluppò ben presto in tutto il regno Aragonese.
Anche la Basilicata trasse qualche vantaggio, e se ne avvantaggiarono, come sempre, centri
con una certa tradizione: Venosa, Atella, Melfi, Lavello e Matera.
EUSTACHIO DA MATERA
Eustachio da Matera visse intorno al 1270 e scrisse in lode d’Arrigo VI e di Federico II, una
cronaca “De situ urbium” e il poema “Planctus Italiae” contro l’invasore Carlo d’Angiò.
Da due epigrammi riportati dal Viggiani, si rileva che l’Eustachio sarebbe vissuto a Matera e
che verso il 1270, si sarebbe trasferito a Venosa, venendo come giudice e scrittore.
Un epigramma, trovato in un antico libro conservato nell’archivio che tenevano i padri di S.
Francesco, diceva: “Nomen Matera genitrix Eustachiu, nomen judicis et scribae Venusiaque
dedit.
Excidium patriae velut alter flevit Hjeremias mundi conflictus Italiaeque malum” (Matera gli
assegnò il nome, Venosa la fama di giudice e di scrittore. Novello Geremia, pianse la rovina
della patria e le sventure italiche).
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DAGLI ARAGONESI AGLI SPAGNOLI
Nel 1494 alla morte del re Ferrante, tutta l’Italia Meridionale passò nelle mani di Ferdinando
II d’Aragona nello stesso anno Carlo VIII re di Francia, intendendo far valere sul regno di
Napoli i diritti che gli derivavano dalla discendenza angioina, varcò le Alpi per accedere alla
conquista di Napoli.
Ma se in un primo momento Carlo VIII giunse a Napoli senza incontrare alcuna resistenza, in
un secondo momento gli Stati Italiani si resero conto del pericolo e si organizzarono in una
lega “anti-francese”.
Intanto Ferdinando II d’Aragona riuscì a recuperare il Regno.
Nel 1496 alla morte improvvisa di Ferdinando II il regno passò a Federico I d’Aragona.
Ma le mire delle potenze europee, specialmente di Spagna e Francia sull’Italia meridionale,
fecero sì che, ben presto, l’Italia meridionale con il trattato di Lione passasse sotto il dominio
della Spagna.
Cominciò così il lungo periodo della dominazione spagnola che durò per oltre due secoli.
Alla dominazione spagnola, si accompagnò la politica repressiva della Controriforma, sicché
gravi danni ne derivarono alla vita economica, sociale e politica delle popolazioni
meridionali.
La Lucania, più di tutte le altre regioni, per cause geografiche e storiche, subì i mali di tale
situazione, né può trarre in inganno che un certo fermento culturale la percorse.
Poiché negli ambienti culturali ferveva una certa opposizione alla politica spagnola, il viceré
di Toledo procedette allo scioglimento, nel 1547, degli ambienti culturali che facevano capo
all’Accademia del regno.
GIOVANNI BRANCATI
Giovanni Brancati era materano, o almeno legato a Matera, perché da qui partiva la sua
lettera per il re Ferrante, fra il 1476 e il 1481.
Nel periodo in cui risiedeva a Matera, tra il 1476 e il 1481, attendeva al volgarizzamento della
“ Naturalis Historia” di Plinio il Vecchio.
Il lavoro che effettuò G. Brancati sull’opera di Plinio il Vecchio è di grande importanza
perché testimonia una tendenza politico- culturale, che si andava imponendo anche nell’Italia
meridionale, per cui la lingua latina veniva sostituita pian piano, come strumento di
espressione, dal volgare napoletano, che certamente permetteva una maggiore e più larga
diffusione della cultura.
Il volgarizzamento della “Naturalis Historia”, tuttavia, non fu completato.
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ACCADEMIA PONTIANA
Durante il periodo della dominazione aragonese fu sempre e soprattutto Napoli il centro della
vera fioritura culturale, dando origine all’Umanesimo Napoletano.
Alfonso d’Aragona diede il suo appoggio affinché Antonio Beccadelli divenuto famoso con il
nome di Panarmita, provvedesse alla fondazione dell’Accademia Pontiana, la quale non si
riuniva alla corte del re, ma in casa del suo fondatore.
Fra i vari adepti si annoverano anche i grandi dotti della Lucania che vivevano alla corte
aragonese:
1) Giovanni BRANCATI di Matera, scrittore e medico di sua Maestà;
2) Giovanni ALBINO di Castelluccio, segretario personale di sua Maestà;
3) Federico MELVINDI di Matera, dotto maestro di Federico, figlio di sua Maestà;
4) Giovanni de TRUCCOLI di Tramutola, giurista;
5)Tommaso CHIAULA detto “CIAOLA” di Chiaromonte, poeta.
GIOVANNI ALBINO
Giovanni Albino nato probabilmente a Castelluccio nel 1445 emigrò dal suo paese,
raggiungendo Napoli.
Entrato alla corte degli Aragonesi fu segretario del re Ferrante, dal quale ebbe, vari e delicati
incarichi e fece parte dell’Accademia Pontiana.
Scrisse in latino il poema “De gentis regnum Napolitanorum de Aragona” che contiene gli
elogi della casa aragonese.
Di lui si ricorda fra l’altro un’inedita traduzione in volgare delle “Vite parallele” di Plutarco.
GIOVANNI DE TRUCCOLI
A Giovanni de Truccoli si attribuisce il primo interessante documento di lirica in volgare che
appare in Lucania nel XV secolo, le cui rime, furono scoperte nella seconda metà
dell’Ottocento, in un codice parigino che conteneva liriche di poeti napoletani del
Quattrocento.
Per lungo tempo egli fu ritenuto nativo di Napoli, successivamente, da atti e documenti, si
riuscì a scoprire che era nativo di Tramutola e che era stato al servizio di Ferrante d’Aragona
insieme ad altri lucani.
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imaneva e rimane, ancora oggi, il problema dell’attribuzione dei testi del codice, scritti dal
poeta. Infatti, ci si domanda ancora quali liriche sono da attribuirsi al poeta e quali, invece,
sono di altri poeti napoletani, anche, perché le liriche sono pervenute anonime.
LA DOMINAZIONE SPAGNOLA SECONDO IL GIUDIZIO DI ALCUNI STORICI
La dominazione spagnola affermatasi su buona parte dell’Italia, durò dal 1559 al 1713, cioè
dalla pace di Cateau-Cambresis alla pace di Utrecht.
La Spagna, oltre che su altre regioni Italiane, ebbe il governo di tutta l’Italia Meridionale:
Dal punto di vista economico iniziò una lenta decadenza cui contribuì in misura anche
maggiore la modificazione strutturale ed oggettiva dell’economia occidentale che andò
gravitando verso l’Atlantico.
Il Braudel, tutt’altro che incline a parlare indiscriminatamente di decadenza italiana, sostiene:
“Nel ‘600 è indubbio che lo spazio mondiale, ne4lla forma allora assunta, recò un colossale
svantaggio e addirittura un colpo mortale allo spazio mediterraneo che circonda l’Italia”.
De Sanctis, Croce e Manzoni espressero un giudizio completamente negativo sul secolo.
Il De Sanctis scrive: ”Il ‘600 ere il tempo che l’Italia non solo non riusciva a fondare la patria,
ma perdeva affatto la sua indipendenza, la sua libertà, il suo primato nella storia del mondo e
di questa catastrofe non vi era coscienza nazionale”.
Il Croce nella sua opera “Storia del Regno di Napoli” osserva: “La Spagna governava il
Regno di Napoli come governava se stessa con la medesima sapienza o la medesima
insipienza” e aggiunge: “Tutto il meridione italiano e le altre regioni d’Italia, sottomesse alla
Spagna ebbero la sventura di subire non tanto una dominazione straniera, quanto piuttosto la
dominazione di un paese economicamente inerte”.
Manzoni con il suo romanzo “I Promessi Sposi” non volle narrare semplicemente la vicenda
di Renzo e Lucia, ma fa rivivere il ‘600 con tutte le sue contraddizioni, giungendo a una
condanna tanto più definitiva, quanto più meditata e sofferta.
Sarà la negativa situazione economica a spingere il governo spagnolo ad imporre numerose
tasse ed un esoso fiscalismo sulla popolazione; da tutto questo si sviluppa un diffuso
malcontento che sfocia nei tumulti popolari di Napoli e Palermo del 1647.
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ISABELLA DI MORRA
Isabella Morra nata nel 1520 è stata la più interessante poetessa che sia vissuta in Basilicata.
I pochi componimenti della raffinata poetessa, sono giunti fino a noi, attraverso un’antologia
cinquecentesca, che contiene dieci sonetti e tre canzoni, ma nessun altro scritto si conosce di
lei.
Gran parte della poesia di Isabella, risponde, alle mode culturali del tempo, che dettano il
trionfo della lirica, del sentimento del “Canzoniere petrarchesco” sugli altri generi letterari.
Isabella ritrae con forza il paese in cui era costretta a vivere dipingendo i paesaggi con
aggettivi danteschi.
Il senso della fortuna crudele, del destino avverso, si rende concreto nella tragica vicenda
biografica.
L’avvicendamento tra spagnoli e francesi nel regno di Napoli causò l’esilio del padre e di un
fratello di Isabella.
Il resto della sua famiglia fu costretta a vivere in Basilicata. Il feudatario della vicina Bollita ,
Diego Sandoval de Castro , si innamorò di Isabella.
Il loro rapporto, più che fondato sulla passione erotica, era fondato su scambi di poesie e
lettere e su affinità elettive.
Diego provocò la reazione dei fratelli della poetessa, imbarbariti dall’isolamento e dalla
mancanza del padre.
Essi uccisero la fanciulla e poi Diego.
In seguito a questo agguato furono costretti all’esilio, ma fuggirono per sottrarsi alla giustizia.
Canto a Giunone
Sacra Giunone, se i volgari amori
son de l’altro tuo cor
Tanto nemici,
i giorni e gli anni miei
chiari felici
fà con tuoi santi e ben
concessi ardori.
Cingimi al collo un bello aurato laccio
dè tuo più cari ed umili soggetti,
che di servir a te sola procaccio.
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Guida Imeneo con sì cortesi affetti
e fà sì caro il modo
ond’io mi allaccio,
ch’una sola alma regga i nostri petti.
Isabella Morra
LUIGI TANSILLO
Luigi Tansillo è un poeta famoso del ΧVI sec. Egli è nato a Venosa da padre proveniente da
Nola.
Luigi fu valente nelle lettere e nelle armi, e proprio per il suo valore fu scelto per
accompagnare don Garzia nella spedizione che la flotta spagnola fece in Africa.
Il primo testo letterario lo compone a soli 25 anni e ritenuto come componimento licenzioso
fu inserito negli elenchi dei libri proibiti.
Il poeta avendo composto,
in seguito,
una canzone al Pontefice Paolo IV, il testo
precedentemente scritto per interessamento del pontefice fu escluso dai libri proibiti.
IL viceré Pietro di Toledo volle nominarlo segretario e poi governatore di Gaeta, dove L.
Tansillo morì nel 1569.
Oltre alle opere elencate, Tansillo compose alcune commedie in prosa: il “Finto”, il
“Cavallerizzo” e il “Sofista”; gli studiosi, però, pensano che a scriverle, sia stato Pietro
Areutino.
Quel che è certo è che Tansillo scrisse in occasione del matrimonio di don Garzia con
Antonietta de Conti di Collesano in Messina, una commedia pastorale; sfortunatamente
quest’opera non è giunta sino a noi.
TOMMASO STIGLIANI
Tommaso Stigliani nacque a Matera nel 1573 e la sua formazione di base avvenne
probabilmente a Matera.
Nel 1589 si trasferì a Napoli, per studiare presso l’università partenopea; ma gli studi di
medicina non lo interessavano quanto la poesia, perciò si introdusse negli ambienti letterari
della città.
Dal 1598 peregrinò in parecchie città italiane, si trasferì, infatti, prima a Roma, poi a Milano,
a Venezia e infine a Parma, dove rimase fino al 1621.
24
Qui intensificò la sua attività letteraria, facendo parte dell’Accademia degli Innominati; ad un
certo momento, anzi, ne divenne persino presidente.
Scatenò, però, le gelosie di un letterato di corte, e quando cercò di pubblicare la sua opera
“Mondo Nuovo”, poema dedicato alla scoperta dell’America, non riuscì a trovare un editore.
Tornato a Roma, sperava di poter passare una serena vecchiaia, ma un lungo periodo di stenti
e difficoltà, lo indussero a ritornare a Matera.
Oltre all’opera precedentemente citata, ricordiamo, il “Polifemo” e le “Rime”.
ACCADEMIA DEI PIACEVOLI VENOSINI
Nell’anno 1592 don Scipione de Monti, uomo colto nelle lettere latine, volgari, greche e
spagnole, “retrovandosi” nella città di Venosa, vedendo alcuni “elevati spiriti giornalmente
poetizzare”, eresse in detta città un’accademia dei “più elevati spiriti che si ritrovano instrutti
nella poesia”.
Si diede inizio all’accademia che lo stesso Scipione de Monti intitolò “Accademia dei
Piacevoli Venosini” e “con lui aggregò gli infrascritti:
1)Ill.mo Don SCIPIONE de MONTI Principe dell’Accademia
2)Ill. mo Don CAMILLO de MONTI accademico Cortese
3)Signor GIO ANTONIO ROSSANO accademico Risvegliato
4)Signor MARCO AURELIO GIUSTINIANO accademico Amoroso
5)Dott. di legge ASCANIO CENNA accademico Grave
6)Dott. di legge GIO. BATTISTA MARANTA accademico Pensoso
7)Dott. di legge GIO. CESARE de MARINARIIS accademico Infiammato
8)Theologo Don LOYGGI MARANTA accademico Costante
9)Dott. medico VINCENZO BRUNO accademico Tirunculo
10)Primincerio Don ACHILLE CAPPELLANO accademico Sottile
11)Signor HORATIO CAPUTI accademico Ridello
12)Signor MANILIO CAPPELLANO accademico Incognito
13)S. prof. In legge GIUSTINIANO d’ALTRUDA accademico
14) LEONE BARONE accademico Indegno
15) HORATIO de GERVASITS accademico Povero
16) POMPILIO RUSSO accademico Esercitato
17) GASPARO CILIBERTO accademico Faceto
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CARLO GESUALDO
Il principe Carlo Gesualdo, nacque l’8 marzo 1566 da Fabrizio II e Geronima Borremeo,
sorella di S. Carlo.
Seguì a Napoli severi studi ai quali fu avviato dal padre. Fu compositore di madrigali e di
musica sacra.
Ebbe come maestri di musica Pomponio Nenna, Giovanni Macque, Stefano Felis, Scipione
Stella ed altri eccellenti musici del tempo.
All’età di 19 anni pubblicò il primo mottetto, “Ne reminiscaris Dominae, delicta nostra”
dimostrando fin da giovane una passione enorme per la musica. Fu musicista raffinatissimo
innovatore ed eccezionale precursore della musica moderna.
Nel 1586 sposò la cugina Maria d’Avalos.
Durante un ballo Maria conobbe il duca di Andria e fra i due nacque un profondo amore che
suscitò la gelosia di Carlo Gesualdo e di conseguenza l’uccisione, da parte di quest’ultimo,
della moglie e del duca d’Andria.
Dopo l’uccisione Carlo si nascose nel castello- fortezza di Gesualdo. Dopo tre anni e quattro
mesi dal duplice assassinio si recò a Ferrara per unirsi in matrimonio con Eleonora d’Este.
Il matrimonio fu celebrato il 21 marzo del 1584.
Dopo vari spostamenti, Gesualdo, da solo, si stabilì prima a Napoli, poi definitivamente a
Gesualdo.
Durante il periodo vissuto a Gesualdo, il principe poté dedicarsi completamente alla musica
per cui, oltre ai quattro libri di Madrigali ne compose altri due.
Compose, inoltre, altri Mottetti, un libro di Responsori ed un Benedictus, un Miserere, Sacrae
Cantiones a cinque voci e uno a sei voci, composte “con artifizio singolare e per sommo
diletto degli animi induriti”.
Egli fu certamente uno spirito introverso, tormentato e neuropatico: la vita non gli diede molte
gioie e lo colpì con sofferenze fisiche e psichiche, con delusioni e con perdite dolorose.
Nell’ultimo periodo, Gesualdo abbandonò la musica profana per dedicarsi completamente alla
musica sacra.
Pentito per il duplice assassinio, attanagliato dal rimorso, afflitto da emicranie e da atonie
intestinali, il principe visse momenti di ansia tremenda.
Il 20 agosto 1613 gli giunse da Venosa la notizia della morte accidentale di Emanuele, il suo
unico erede; Carlo , sopraffatto dal dolore, si ritirò in un camerino del castello di Gesualdo e
dopo pochi giorni anch’egli morì, trovando questa volta la pace ed il perdono tanto desiderati
da sempre.
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ACCADEMIA DEI RINASCENTI
Il giorno 26 Marzo dell’anno 1612 Emanuele Gesualdo di Venosa, promuove il costituirsi
dell’Accademia dei “Rinascenti” per prevenire “ai tedi che da otri disordinati sogliono
accadere …”.
Volle che dovessero unirsi nel suo castello due volte a settimana acciocché con grato
intendimento venissero gli spiriti a sollevarsi trattando di utile e varie materie concernenti a
varie scienze.
Entrarono a farvi parte:
1)Padre GESUITA ANGELO “Principe dell’Accademia”
2)Signor ANIBALE CARACCIOLO “Accademico Ardito”
3)Don EMANUELE GESUALDO “Accademico Schivo
4)Dottor VINCENZO BRUNO “Accademico Torbido”
5)Dottor CAMILLO di LUCA “Accademico Ravvivato”
6)Dottor CESARE PRINCIPE “Accademico Rinforzato”
7)Dottor don IACOVO CENNA “Accademico Vivace”
8)Dottor POMPILLO RUSSINO “Accademico Esercitato”
9)Dottor FABRITTO de PILLI “Accademico Oscuro”
10)Theologo fra LORENZO di TERLIZZI “Accademico Conosciuto”
11)Signor GIOVANNI ANTONIO CAPPELLANO “Accademico Pronto”
12)Signor IACOVO SVAVE “Accademico Veloce”
13)Signor BERNARDINO CENNA “Accademico Ringiovinito”
14)Signor MATTHEO CAVASELICE “Accademico Infiammato”
15)Dottor JOCAVO NIGRO “Accademico Rinfrescato”
16)Signor ANDREA MATTHEO di RUGGIERO “Accademico Generoso”
17)Signor MUTIO MONACO “Accademico Svegliato”
18)Signor OTTAVIO ALBERTI “Accademico Tempestoso”
19)Signor PAULO SARLUCA “Accademico Vago”
I BORBONI
Tra la fine del Seicento e per tutta la metà del Settecento, in Europa vi furono tre grandi
guerre chiamate “Guerre di successione”.
La prima di queste, la guerra di successione spagnola, avvenne fra il 1700 e il 1714, e
determinò la fuga degli spagnoli dall’Italia Meridionale e da altri domini della penisola. Il
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posto degli Spagnoli, a Napoli, fu preso dagli Austriaci che portarono in questa zona un
grande fermento culturale.
Con lo scoppio della guerra di “successione polacca” si ebbero nuovi capovolgimenti politici
nell’Italia Meridionale e nel 1734, gli spagnoli tornarono all’assalto del Vice Regno
Napoletano e don Carlo di Borbone, duca di Parma e figlio di Filippo I, re di Spagna, fu
proclamato re di Napoli e di Sicilia.
Carlo III nel 1735, fece un viaggio verso la provincia percorrendo gran parte della Lucania.
Le impressioni sulle condizioni del suo regno furono molto disastrose, perciò Carlo III di
Borbone avviò un programma di riforme sociali e politiche.
Nel frattempo in tutto il regno “si onorarono le lettere e le arti”.
Nel 1740 scoppiò la guerra “di successione austriaca” che terminò con la pace di Aquisgrana
e riconfermò l’assetto europeo e dello stesso regno di Napoli.
Quando Carlo III di Borbone fu chiamato ad occupare il trono di Spagna, a Napoli prese il
regno il figlio Ferdinando II.
La cultura nel regno di Napoli fu molto fattiva: si svilupparono scuole di pensiero non solo a
Napoli ma anche in Provincia, con la nascita di Accademie sotto il nome di “Arcadia”.
Anche in Lucania, con la fine del Settecento, si ebbe una sezione dell’Arcadia a Vaglio.
Notevole sviluppo in questo periodo, in tutta la regione, ebbe la pittura e
l’architettura, quest’ultima non fu più solo religiosa, ma anche civile sia pubblica che privata.
Anche la musica ebbe i suoi talenti e la transizione dalla musica sacra del Seicento a quella,
per dir così, laica del Settecento, si coglie proprio nel passaggio di mano dal Duni padre al
Duni figlio.
Il programma innovatore dei Borboni sul principio non aveva trascurato nemmeno il ruolo
dell’istruzione. In tutto il regno furono istituite scuole minori (elementari), nei centri più
grossi furono istituite anche scuole superiori.
ACCADEMIA DELL’ARCADIA
Sul movimento culturale dell’Arcadia in Lucania, sui suoi rappresentanti, ci sono poche
notizie.
L’unico tentativo di sezione arcadica, di cui si abbia notizie, è quello messo in atto a Vaglio di
Basilicata.
Essa, però, sorse alla fine del secolo XVIII e durò solo fino ai primi anni dell’Ottocento.
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Ebbe vita brevissima e assai tardiva rispetto al movimento storico. Ne fu autore l’arciprete del
paese, Matteo Catalani, che in Arcadia fu detto “Amintore Metauriense” e associò la sezione
di Vaglio dell’Accademia dei Sinceri dell’Arcadia Reale di Napoli.
Si iscrissero:
1)BONIFACIO di LUCA di LATRONICO “Statheo Cireneo”
2)FILIPPO OLIVETO di MURO LUCANO “Ernicio Burense”
3)PIETRO ANTONIO CORSIGNONI vescovo di Venosa “Ernicio Burense”
4)MARIO PAGANO di BRIENZA “Dolmiro Egireo”
5)GIOVANNI ANTONIO del MONACO di SAPONARA “Flavillo Emilio”
6)GIAMBATTISTA GOTTINI frate benedettino di Matera “Tirinto Agirino”
7)AURORA SANSEVERINO di GRUMENTO NOVA “Lucinda Coritesia”
AURORA SANSEVERINO
Nata a Grumento Nova nel 1669 Aurora Sanseverino apparteneva a una famiglia nobile, suo
padre era Carlo Maria Sanseverino, la mamma era Maria Fardelli.
All’età di tredici anni Aurora sposò Girolamo Acquaviva, conte di Conversano. Nel 1684,
diventò socio dell’Arcadia di Roma ed ebbe la possibilità di conoscere Mario Crescimbeni
che fu il vero organizzatore dell’Arcadia in Italia.
Aurora Sanseverino fu ammirata socia dell’Arcadia romana ed anche dell’Accademia degli
Spensierati a Rossano di Calabria.
Nel frattempo rimasta vedova del primo marito, si sposò in seconde nozze col nobile Gaetani
d’Aragona. Fu in tale occasione che il padre rappresentò un dramma pastorale: "Elidoro”.
A Napoli, dove visse con il marito, Aurora fece della sua casa il luogo di incontro di
intellettuali. Morì nel 1730 circa raggiungendo scarsi risultati nella poesia. Le sue rime
andarono quasi tutte perdute, successivamente, perché mancò un'edizione apposita. Quel che
rimane è quanto si può ricavare da due antologie di poeti napoletani del tempo.
Su Aurora Sanseverino e sui frequentatori dei salotti arcadici, gli avvenimenti esterni non
esercitavano alcun influsso intesi com’erano al culto delle Muse e a modellare varie azioni sui
temi fissi e consacrati dalla letteratura ufficiale.
FRANCESCO MARIO PAGANO
Mario Pagano nacque a Brienza nel 1748 da una famiglia di notai.
Trasferitosi a Napoli presso uno zio prete all’età di 12 anni, fu avviato agli studi classici da
Giuseppe Ghini.
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All’università seguì le famose lezioni di “commercio” di Antonio Genovesi. Amico di
Gaetano Filangieri e con lui affiliato alla massoneria, Pagano esercitò l’avvocatura ed insieme
l’insegnamento, prima come docente di Etica dal 1770, poi alla cattedra di Diritto Criminale
che gli fu affidata nel 1785.
Nel 1789 fu nominato avvocato dei poveri, presso il tribunale dell’Ammiragliato. Dalla sua
attività forense resta testimonianza nella pubblicazione delle difese sostenute in alcuni
processi tra il 1777 e il 1784, oltre a quella più nota, cioè la difesa dei “rei di Stato” nel 1794,
accusati di aver organizzato una congiura contro i Borboni.
Egli, fu un convinto sostenitore contro la “tortura”.
I “Saggi politici” di Mario Pagano, riassumono tutta la sua cultura e si pongono nelle
intenzioni dell’autore come un testo di analisi della società.
Nel Proemio vi è subito il richiamo a Socrate come maestro morale e inoltre, dopo aver citato
l’attività di Macchiavelli, Galilei, Domenico Cassini, Newton, d’Alambert, Bailly e tanti altri
fino a Filangieri, indirizzandoci sulle tracce delle sue letture antiche e moderne, Pagano
nell’opera riflette sul valore pedagogico dell’arte che deve insegnare la storia e la morale.
Lo sguardo si sposta, poi, sulla decadenza dell’Italia, che viene squarciata dalle riflessioni di
Vico.
Secondo Pagano l’arte è al servizio del progresso, della storia e delle società. Prendendo
spunto dal “Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze” di Antonio Genovesi, un
testo di poetica rivoluzionario, Francesco Mario Pagano sviluppa la sua riflessione sulla
poesia, aggiungendo un personale apporto di derivazione sensista nei “Discorsi sulla poesia,
sul gusto e le belle arti” posti in Appendice ai Saggi politici.
Anche in questi Discorsi, il punto di partenza della riflessione è Vico, cui si aggiunge, però, il
sensismo di Condillac: il processo artistico è tutto giustificato dalla sensazione, dei sensi.
Come scrittore di tragedie si afferma che Pagano facesse rappresentare le sue opere teatrali
nella casa dell’Arenella.
Forse ne faceva letture pubbliche, certo è che delle tragedie “Gli esuli tebani”, il “Gerbino”, il
“Corradino”, del melodramma lirico “Agamennone” e della commedia “Emilia”(1792), non
vi furono pubbliche rappresentazioni né a Napoli, né altrove.
Caratterizzate da temi sentimentali più che politici, le opere teatrali avevano come fine quello
di commuovere e istruire il popolo.
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RANCESCO LOMONACO
Francesco Lomonaco era nato a Montalbano Ionico il 22 novembre del 1772; preromantico o
romantico nel modo di sentire la vita e di viverla secondo istinto e passione , fu ritenuto il
“Foscolo meridionale”.
Apparteneva a una famiglia borghese di giuristi, in cui certamente circolavano idee nuove,
infatti anche Luigi, fratello di Francesco, si troverà coinvolto nei moti del 1799.
A Napoli, Francesco si iscrisse a giurisprudenza poi si laureò in medicina. Durante i giorni
della rivoluzione del 1799, fu tra gli estremi difensore della Repubblica, condannato a morte
riuscì a salvarsi per un errore nella trascrizione del suo cognome. Espatriò in Francia dove
visse tra Marsiglia e Parigi dove scrisse il “Rapporto al cittadino Carnot”.
Al “Rapporto”, faceva seguito “Colpo d’occhio sull’Italia”.
In questo testo, Lomonaco, parlava dell’Unità d’Italia, che doveva estendersi dal Piemonte
alla Sicilia.
Seguace di Napoleone Buonaparte nel 1800 ritornò in Italia fermandosi a Milano , qui fece
amicizia col Foscolo e col Manzoni.
Nel 1802 pubblicò l’opera “Vita degli eccellenti italiani”, nel testo Lomonaco tracciò la vita
di tutti quegli italiani, compreso Dante, che avevano onorato la propria nazione e avevano
contribuito a farla nascere nella mente e nel cuore dei propri connazionali.
Animo irrequieto, per numerose amarezze e delusioni si suiciderà nel settembre del 1810.
LAURA BATTISTA
Laura Gerarda Rosa Maria Battista, nacque a Potenza il 23 novembre 1845 da Raffaele e da
Caterina Atella, entrambi materani.
Laura sottolineò nei suoi versi le vicende antiche e recenti della patria; cantò Garibaldi,
Francesco Mario Pagano, Camillo Benso di Cavour, Vittorio Emanuele II e Umberto I, cantò
la libertà e l’Italia.
Lauretta non aveva ancora compiuto i 15 anni quando pubblicò “Fior di ginestra”
un’antologia di poeti lucani stampata nel 1860 a Potenza, una canzone in morte della madre,
“All’usignuolo”.
Nel 1874 la poetessa fu chiamata ad insegnare nel Convitto magistrale di Potenza, dove
conservò l’ufficio di maestra fino al 1883, quando, ottenuto il diploma di abilitazione
all’insegnamento di lettere nelle Scuole normali (Istituti magistrali) fu mandata a Camerino.
L’anno dopo lasciò l’insegnamento per motivi di salute e si ritirò a Tricarico. Ispirata da molti
poeti, Laura Battista cantò le Itale Glorie.
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La sua poesia, però, non fu sempre spontanea, ma mirata alla tensione retorica del racconto.
La canzone libera leopardiana, che la poetessa maneggiava con discreta bravura, consentì
ampli stralci narrativi, pur conservando, però, l’afflato del sentimento.
Oltre alle opere patriottiche Laura, compose anche opere dedicate alla famiglia. Molte di loro
furono raggruppate nella raccolta che prese il titolo di “Canti”.
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