MICHELE PANCHERI
Pensare ‘ai margini’
Escatologia, ecclesiologia e politica nell’itinerario di
Erik Peterson
Università degli Studi di Trento, Trento 2013,
pp. 390, € 13,00
Recensioni
E
rik Peterson (1890-1960) è un
insigne studioso, passato dal protestantesimo al cattolicesimo. Le sue
ricerche spaziarono dalla storia delle
religioni all’archeologia cristiana (studio sulle testimonianze epigrafiche e
iconologiche), dallo studio del NT
alla patrologia, esplicitandosi in una
lunga e vasta attività didattica e scientifica, con un particolare riferimento
alla magna quaestio della teologia-politica. Il pensiero petersoniano è stato
poco recepito dalla teologia italiana, addirittura inesistente, a quanto
sembra, nei rimandi bibliografici dei
corsi accademici teologici, pur essendo egli vissuto in Italia per tantissimi
anni. Lo studio di Pancheri affronta
il tema della teologia-politica nell’opera di Peterson vagliandone i fondamenti, che vengono rintracciati in
due grandi aree del settore teologico:
l’escatologia e l’ecclesiologia. L’intera ricerca petersoniana si muove in
senso escatologico e questo giustifica
anche la collocazione metodologica
del primo capitolo all’interno della
ricerca. Il tutto prende l’avvio dall’analisi della sua dissertazione discussa
nell’estate del 1920 a Göttingen, nella quale s’indaga il senso del significato dell’acclamazione monoteistica
Heis Theos, testo accolto nella famosa
collana Forschungen zur Religion und
656
Literatur des Alten und Neuen Testaments curata da R. Bultmann e H.
Gunkel. La critica al deficit escatologico del protestantesimo, con annessi
appunti critici mossi nella sua lezione
esegetica della Römerbrief, lo porterà
ad abbracciare il cattolicesimo. È dal
contrasto con il protestantesimo che
emergerà in maniera evidente quell’aspetto “pubblico” del credo cristiano,
e da qui inizierà ad emergere uno
dei principali interessi di Peterson:
la ritraduzione politico-giuridica del
messaggio evangelico, centro dei suoi
corsi soprattutto negli anni di docenza a Bonn. Il secondo capitolo, dedicato all’ecclesiologia, costituisce insieme con l’escatologia uno dei temi di
maggiore interesse, basti pensare alla
postfazione dello scritto Die Kirche,
nella quale la questione ecclesiologica è fortemente connessa con il tema
dell’autorità dogmatica. La Chiesa
presenta questo duplice volto e «si è
compreso come alla Zweideutigkeit
ecclesiale inerisca necessariamente il
rappresentare i contenuti dell’irrotta
realtà escatologico-trascendente attraverso gli strumenti del “residuo” storico-mondano» (239).
Partendo dall’escatologia e arrivando all’ecclesiologia quali realtà che
non possono essere scisse, ma interdipendenti, nell’ultimo capitolo, si
Rassegna di Teologia 56 (2015) 656-694
messo che per conversione. Tra Stato
e Chiesa deve, comunque, sussistere
una tensione dialettica perché da un
lato la Chiesa non può esimersi dal
suo essere “calata” nella storia e dall’altro non può non riconoscere che il suo
tempo è un tempo escatologico [escathologische Zeit]. Questo non significa che la dissoluzione della teologia
politica operata nel suo scritto Monotheismustraktat escludesse del tutto
la questione, così com’è stata intesa da
Carl Schmitt che sostiene una sorta
di dietrofront teologico nel Monotheismus. Lo stesso Schmitt vi aveva letto,
nonostante la mancanza di espliciti
riferimenti, un attacco personale alla
sua teoria. Tuttavia il dibattito Peterson/Schmitt non si è limitato al problema politico; ciò si evince anche in
base al Nachlass di entrambi, grazie al
quale si è giunto «a una ridefinizione
del rapporto intellettuale e personale
dei due autori» (263).
Inoltre, risulta molto elaborata la
sezione finale del lavoro dove si ricostruiscono i diversi significati dell’atteggiamento della Chiesa evangelica
tedesca negli anni del nazismo e la
conseguente acquiescenza nei confronti del Führer. Peterson sente il
bisogno di protestare nei confronti
di un cristianesimo che perda come
punto di riferimento la sua destinazione escatologica “svendendosi” a un
compromesso politico. «Il cristiano è
‘indifferente’ rispetto alla sfera politica nel senso che egli è consapevole
della relatività di ogni ordine mondano, con la conseguenza che il problema della forma fattiva di governo non
assorbe tutte le sue preoccupazioni»
(271).
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Recensioni
approda alla riflessione teologico-politica di Peterson, dopo averne delineato la cornice teorica. Infatti, tale questione attraversa come fil-rouge tutta
l’opera petersoniana. Interessante l’analisi di alcuni “frammenti” di opere
analizzati (244ss) che colgono questa
preoccupazione del mettere in sinergia la realtà escatologico-ecclesiale e
quella socio-politica. Infatti «epurando il religioso della sua componente
pubblico-politica, lo si ridurrebbe
alla sfera del privato, banalizzandolo
e annacquando la sua valenza trascendente; sciogliendo il politico dal suo
legame metafisico e pragmatico con la
sfera religiosa, lo si assolutizzerebbe,
giustificandone la pretesa di assumere
un significato pseudo-sacrale e salvifico-universale» (247).
Peterson affronta le sfide della teologia politica durante gli anni controversi dell’epopea nazista, anni in cui
si dissocia dal collega Carl Schmitt;
in questa prospettiva si affronta la
possibilità della plausibilità stessa di
una teologia politica. Emerge, tuttavia, una radicale incompatibilità tra
Regno di Dio e politica, una distanza
assoluta rispetto al cristianesimo e alle
sue possibili traduzioni politiche. Peterson privilegia l’indiscutibile indole
escatologica dell’annuncio cristiano
nei riguardi di tutti i sistemi totalitaristici, invitando a rifuggire qualsiasi
sacralizzazione degli ordinamenti politici e difendendo la libertà religiosa da
qualsiasi strumentalizzazione politico-economica. Occorre ribadire che le
convinzioni religiose dei cristiani, nolens volens, “minacciavano”, per certi
versi, l’autorità imperiale, che si apriva
alla “nuova” religio, più per compro-
Indubbiamente, quello che presentiamo è un testo degno di rilievo,
molto bene articolato e strutturato;
tuttavia resta un testo ancora “acerbo”
in quanto vi manca una più ampia
contestualizzazione teologica dei temi
affrontati; tale mancanza rappresenta
un impedimento per un appropriato
bilancio esaustivo sull’opera petersoniana. L’A. avverte questa difficoltà,
ad esempio, all’inizio del secondo capitolo, laddove egli stesso parla della
necessità di una contestualizzazione
storico-teoretica. Diamo atto, infine,
all’A. del fatto che sia i riferimenti
scientifici a testi inediti, sia l’abbondanza dei rimandi bibliografici, meritano, senza eccesso di generosità,
un’attenta considerazione anche per
essersi egli cimentato nel confronto
con un paradigma di pensiero che
richiede specifiche competenze per
essere studiato e ben compreso: quello di Peterson, che, nonostante la sua
complessità, mantiene una valida proposta teoretica, ancora oggi, a distanza di moltissimi anni.
Nicola Salato
GEORG SANS
Sintesi a priori
La filosofia critica di Immanuel Kant
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2013,
pp. 188, € 18,00
I
l libro del gesuita Georg Sans, docente di Storia della filosofia contemporanea presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, offre
un’introduzione chiara e completa alla
filosofia di Kant, accessibile ad ogni
lettore in grado di affrontare un primo
ciclo di studi universitari. Oltre alla
prefazione dell’A. stesso, il manuale di
Sans è suddiviso in un’introduzione,
sette capitoli e una conclusione.
Nell’introduzione viene presentata la nozione di “sintesi a priori”,
che l’A. adotta come filo rosso della
sua esposizione del pensiero kantiano, nella convinzione che per Kant,
«qualunque conoscenza oggettiva, sia
del mondo fisico sia del dovere etico,
è resa possibile per l’attività sinteti658
ca del nostro intelletto, descrivibile
indipendentemente da qualche dato
empirico» (13). La sintesi del giudizio presiede, pertanto, all’elaborazione dell’intero sistema critico, che,
nel suo sviluppo progressivo, intende
rispondere alle famose quattro domande: 1) che cosa posso sapere? 2)
che cosa devo fare? 3) che cosa mi è
lecito sperare? 4) che cosa è l’uomo?
(23-27).
La risposta di Kant alla prima domanda costituisce l’oggetto dei primi tre capitoli, nei quali si sintetizza
il percorso della Critica della ragion
pura. Esso prende le mosse dalla distinzione tra due facoltà conoscitive, la sensibilità e l’intelletto, basate
rispettivamente sull’intuizione e sul
della ragion pura sostiene l’inconoscibilità, subiscono una profonda trasformazione con il passaggio dall’ambito
della speculazione teoretica alle riflessioni pratiche» (113), dove l’immortalità dell’anima, la libertà dell’uomo e
l’esistenza di Dio sono ammesse come
postulati della ragion pratica.
L’esposizione della filosofia pratica
di Kant si conclude al capitolo VI, dedicato alla filosofia del diritto e alla filosofia politica, con particolare attenzione alla concezione della proprietà
privata e dello stato di diritto. Alcuni
cenni sui giudizi estetici e sulla finalità
della natura al capitolo VI riassumono
il contenuto della terza Critica, la Critica del giudizio.
Trattandosi di un’introduzione di
carattere generale, il libro di Sans si
limita a presentare i contributi maggiori del filosofo di Königsberg, tralasciando ambiti come la metafisica della natura o l’antropologia pragmatica,
oggi di interesse prevalentemente storico. All’A. preme sottolineare piuttosto che il pensiero di Kant assume un
punto di vista decisamente contrario
tanto al naturalismo epistemico quanto al relativismo etico (13), ribadendo, nelle considerazioni conclusive,
che attribuirgli una posizione scettica,
in rapporto alla possibilità della conoscenza empirica, o una forma di relativismo circa l’obbligazione morale,
significherebbe distorcere gravemente il senso della sua concezione della
sintesi a priori (175). Le tre domande che guidano l’indagine kantiana si
riassumono nella quarta: la domanda
sull’uomo (174). È questa “preoccupazione antropologica”, l’interesse
cioè per la «questione del senso ultimo
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Recensioni
concetto, e dotate ciascuna di proprie
forme a priori. Spazio e tempo, che
costituiscono le forme dell’intuizione
sensibile, vengono trattati nel capitolo
I. Il capitolo II espone, quindi, i concetti puri dell’intelletto e la loro deduzione trascendentale, cioè la struttura
logica del pensiero, mentre i principi
dell’intelletto puro, cioè i principi
sintetici a priori, che fondano la conoscenza di tutti gli oggetti dell’esperienza in generale, rendendo così possibile la fisica come scienza, vengono
presentati nel capitolo III.
Questo capitolo si conclude con la
discussione della relazione tra causalità e libertà, che fa da transizione alla
questione della fondazione della morale nella Fondazione della metafisica
dei costumi e nella Critica della ragion
pratica, opere nelle quali assumono un
ruolo centrale la seconda e la terza delle quattro domande sopra enunciate.
Il problema della fondazione dell’etica
kantiana sulla legge morale e delle sue
implicazioni per l’autonomia della ragione costituisce appunto il tema del
capitolo IV.
Dopo aver considerato nei primi
quattro capitoli l’Estetica e l’Analitica trascendentale della prima Critica
come pure l’Analitica della ragion pura
pratica della seconda Critica, l’A. completa la presentazione delle prime due
Critiche prendendone in esame, nel
capitolo V, le rispettive sezioni dialettiche, nelle quali vengono tematizzate da Kant le tre idee metafisiche o
dell’incondizionato: Io, Mondo e Dio.
Il capitolo V offre, pertanto, una sorta
di compendio della metafisica kantiana, mostrando che le «medesime idee
dell’incondizionato, di cui la Critica
dell’esistenza umana» (176), a costituirne il vero orizzonte.
L’A. presenta il pensiero di Kant
con obiettività ed equilibrio, pur senza esimersi dall’evidenziarne punti nevralgici e questioni aperte. Numerosi
rimandi a una selezione necessariamente essenziale ma accurata di titoli
della letteratura secondaria orientano
utilmente il lettore desideroso di approfondimento.
Giovanni Pietro Basile SJ
RAYMOND WINLING
Natale e il Mistero dell’Incarnazione
Queriniana, Brescia 2013,
pp. 254, € 23,50
C
ome è noto, il ciclo liturgico
del Natale è più recente rispetto a quello della Pasqua. Il primo si
è consolidato attorno al IV secolo,
ovviamente anche in relazione alle
questioni cristologiche sulla Persona e
sulle nature di Cristo. L’A. riassume
la storia liturgica in materia e propende per una tesi che si è imposta
a partire dal XIX secolo: la Chiesa di
Roma avrebbe introdotto la festività
del Natale per “cristianizzare” la festa
pagana del sol invictus (l’A. vi ritorna
alle pp. 153-154). Winling la ritiene
l’ipotesi che «offre una verosimiglianza maggiore» (11). È comprensibile
che egli si accodi a una corrente che
è stata vasta e può vantare anche autori noti tra i suoi rappresentanti. Soprattutto perché Winling non è uno
studioso di storia della liturgia, perciò
è naturale che tenda ad accogliere le
proposte di quello che, fino a pochissimo tempo fa, era il mainstream degli
specialisti. Tuttavia, la tesi che sinora
veniva avanzata da un po’ di tempo
perde consensi e non mancano studi
660
che propongono argomenti contrari
ad essa. Tra questi, il fatto che la vera
origine della festa liturgica del Natale non andrebbe individuata a Roma
bensì in Palestina, ossia nei luoghi
dove il Natale avvenne e dove si sviluppò la prima comunità cristiana ed
il suo culto.
Winling riconosce che non si può
accettare l’idea che, prima del IV secolo, i cristiani abbiano ignorato del
tutto a livello liturgico il Natale di
Cristo, ma rimane dell’idea che fu
solo in quell’epoca che si stabilì il 25
dicembre come data comune per la
celebrazione della festa (20).
L’esposizione, dopo aver offerto
qualche dato sulla prefigurazione di
Cristo nell’AT, passa poi a trattare dei
Vangeli dell’infanzia. Risalendo l’edizione originale del saggio al 2010,
l’A. non ha potuto avvalersi del terzo
volume del Gesù di Nazaret di J. Ratzinger/Benedetto XVI, pubblicato nel
2012 e dedicato proprio a L’infanzia
di Gesù. Ma Winling si rifa ad autori
di valore, quali R. Laurentin e J. Da-
di Signore, scrive che viene usato nelle
epistole paoline con riferimento all’investitura di Gesù dopo la risurrezione,
ma anche per riferirsi alla divinità di
Cristo come preesistente (cita 1Cor
8,6); e conclude: «Di fatto, Paolo dà a
Kýrios il significato che gli era già stato
dato dai cristiani prima dell’entrata in
scena di Paolo. Kýrios equivale al nome
stesso di Dio, tradotto con “Signore”
dalla LXX. La logica dell’attribuzione
vuole che Gesù non diventi Kýrios in
seguito alla risurrezione, ma che lo sia
da sempre» (54).
Il terzo capitolo si occupa degli
apocrifi, dando spazio soprattutto al
Protovangelo di Giacomo, e del Corano, riguardo alla concezione verginale
di Maria e alla nascita di Gesù.
I capitoli quarto e quinto offrono
una panoramica ben scritta sulle eresie cristologiche e le risposte ad esse
fornite dai Padri e dai Concili ecumenici. Chi conosce la materia non
troverà elementi nuovi, ma la lettura
è godibile e le informazioni corrette e
misurate. Nell’insieme i due capitoli,
come il successivo sull’incarnazione,
si attengono a una corretta ermeneutica applicata alla storia del dogma.
Winling espone alcune categorie
soteriologiche strettamente connesse con l’incarnazione: illuminazione,
ricapitolazione, rigenerazione, adozione filiale e divinizzazione. Senza
poterci diffondere, segnaliamo il tema
da lui trattato (157-159), e non sempre presente in altre opere simili, di
quella che si può chiamare la “denumificazione” del mondo. Winling vi
dedica un paragrafo apposito dal titolo: «Cristo ci libera dalla superstizione
e dalle false credenze: astrologia, falsi
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Recensioni
niélou, come pure a Ch. Perrot e X.
Léon-Dufour, tra gli altri. Egli propone una lettura biblica piana dei testi
evangelici dedicati ai primi anni della
vita di Cristo, seguita da una ripresa
dei loro contenuti teologici. L’A. accoglie in forma moderata la tesi per la
quale tali testi sono una forma cristiana di Midhrāš, per cui scrive: «Il Midhrāš cristiano in generale, e quello di
Luca in particolare, consiste dunque
nel partire da Gesù, decifrando la sua
identità, narrando la sua opera di salvezza con l’uso di elementi narrativi
o teologici provenienti dall’Antico Testamento, considerato come annuncio di ciò che si realizza pienamente
in Gesù Cristo» (35; cf. 42).
La trattazione sul NT si arricchisce
poi di altri testi che riguardano le origini e l’identità di Gesù. Sul discusso
brano di Rm 1,3-4 (interpretabile in
modo adozionista), l’A. non ha timore di affermare che «Cristo non è un
uomo che conduce una vita esclusivamente umana, prima di risorgere dai
morti, per diventare Figlio di Dio in
seguito alla sua esaltazione. Egli è il
Figlio di Dio che assume la condizione
umana nascendo come discendente di
Davide» (51). Opportuno è anche il
commento all’inno di Fil 2, rispetto
al quale Winling osserva che «prima
della kénosis, il Cristo preesistente era
di condizione divina. Questo termine
“condizione” designa il modo divino
di esistenza e non la natura divina. La
kénosis equivale quindi a uno “spossessamento” di quel modo di esistenza
e non della natura divina in quanto
tale» (52). Anche nel commentare alcuni titoli cristologici, egli mantiene la
stessa linea. Ad esempio, circa il titolo
dèi, fatalismo». Chiudono il volume
un capitolo sulla spiritualità, in cui
tra l’altro si tocca il tema delle «due»
o «tre» nascite di Cristo tra Patristica
e Medioevo, e si sottolinea opportunamente il legame che una sana spiritualità deve sempre mantenere con
il dogma. Quanto a questo secondo
aspetto, segnaliamo le pagine del paragrafo intitolato: «Si deve mantenere
l’affermazione della concezione verginale oppure concedere che si tratta
di una rappresentazione di portata
puramente simbolica?» (202-207).
Nell’ottavo e ultimo capitolo, infine,
la trattazione si sofferma sull’espressione poetica del tema dell’incarnazione: dopo una pagina dedicata a
Clemente Alessandrino, ci si diffonde
per tutto il resto del capitolo sul poema Éve di Ch. Péguy. Alle pp. 241246 è inoltre offerto un utile glossario.
Il testo di Winling rappresenta,
in senso buono, un utile compendio
didascalico. La sua lettura è da raccomandarsi particolarmente a coloro
che si accostano per la prima volta alla
considerazione teologica del Natale.
Dati il numero e la complessità delle
questioni trattate, è chiaro che la brevità del volume rappresenta un limite
rispetto ad approfondimenti che non
trovano spazio. Ma è un pregio, per il
fatto che non scoraggia i lettori meno
esperti.
Mauro Gagliardi
GIOVANNI ANCONA
Antropologia teologica
Temi fondamentali
Queriniana, Brescia 2014,
pp. 226, € 24,00
G
iovanni Ancona propone ai lettori un saggio di sintesi dei principali temi di carattere antropologico
che hanno segnato il percorso della
riflessione cattolica. La constatazione
da cui muove l’A. è che «l’idea teologica cristiana della grazia, in quanto
tale, non può che essere totalmente
riferita al Dio di Gesù Cristo. Nella
rivelazione di Gesù Cristo, infatti,
Dio si autocomunica agli umani in
modo assolutamente unico come Dio
che si prende cura della sua creazione
secondo un criterio amorevole e misericordioso, benevolo e riconcilian-
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te, libero e gratuito, al fine di salvare
totalmente quanto è uscito dalle sue
mani di creatore» (206). La teologia
della grazia sviluppata cristologicamente è il nucleo teoretico centrale
della visione antropologica proposta
da Ancona. Il volume Antropologia
teologica. Temi fondamentali, per dichiarata ammissione dell’A., non ha
la pretesa di essere un manuale nel
senso classico del termine. Egli diffida
persino della stessa possibilità di uno
studio sufficientemente esaustivo di
questa disciplina. Tale consapevolezza
lo spinge pertanto ad elaborare uno
scelta tematica, tuttavia, ha un suo
prezzo. Si può opinare, ad esempio,
l’assenza di riferimenti espliciti al
XX secolo e ad autori come Rahner
e de Lubac, così decisivi per il ripensamento dell’antropologia teologica
in chiave attuale. Eppure occorre riconoscere che si tratta pur sempre di
un’opzione coerente con l’intenzione
originaria, che appare quella di offrire
un’introduzione ai grandi plessi problematici della storia della teologia,
individuando uno sviluppo tematico
che, in realtà, tiene conto anche delle
acquisizioni più recenti. Non a caso
il volume si apre con una riflessione
sulla visione cristica dell’antropologia, cioè sull’elezione di Dio in Gesù
Cristo, termine con cui l’A. traduce
il più controverso «predestinazione»
e che egli pone a fondamento del
proprio itinerario teologico. Scrive Ancona: «L’evento della elezione
(predestinazione) è comprensibile
all’uomo nella fede e per la fede gli
viene chiarito l’orizzonte del proprio
vivere globale. Quando l’uomo, in altre parole, riconosce, crede, accoglie
l’eterno progetto del Padre, il quale
intende salvarlo, per mezzo di Cristo,
nella forza dello Spirito, gli viene dischiuso l’orizzonte della propria storia e della storia universale e in tale
orizzonte egli istituisce il suo agire
concreto, legato alle vicende dell’esistenza» (51). Se dunque l’evento
dell’elezione è un’opera interamente
dovuta alla grazia di Dio e alla sua
iniziativa provvidente, tale dono si
riverbera nella storia degli uomini e
sul loro concreto porsi nelle vicende
dell’esistenza, secondo il criterio della
chiamata di Cristo di tutta l’umanità.
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Recensioni
strumento che conservi del manuale
il linguaggio piano e uno schema di
fondo lineare e coerente, ma che disponga di quella libertà creativa nel
soffermarsi in modo più ampio su
alcune questioni specifiche, che di
solito la manualistica, per sua natura,
deve trattare solo en passant. Il risultato di questo sforzo possiede alcuni
pregi osservabili già ad occhio nudo.
Innanzitutto, sebbene si tratti di
uno studio che possiede una preoccupazione pedagogica e che è pensato
per l’insegnamento accademico, esso
risulta stimolante anche per lo specialista. Inoltre, la scelta selezionata di
sei questioni fondamentali nella storia del trattato permette all’A. di poter rinviare a opere enciclopediche o
a monografie più specifiche l’approfondimento di alcuni argomenti peculiari che non risultano decisivi per
un’introduzione di carattere generale,
per potersi invece soffermare sugli
snodi cruciali che hanno segnato lo
sviluppo dell’antropologia teologica.
La scelta di Ancona cade su alcuni
cardini tematici autonomi, quasi fossero trattati distinti che consentono
una lettura non necessariamente interdipendente gli uni dagli altri. Naturalmente, la creazione in Cristo è
il filo conduttore che lega tra loro i
sei macroargomenti attorno ai quali
Ancona articola la propria riflessione. Il testo inizia con il tema dell’elezione (predestinazione), prosegue
con una teologia della creazione, la
trattazione dell’uomo in quanto creatura, il tema (centrale) della grazia
di Dio, l’immagine deformata, ossia
l’uomo peccatore, e infine la grande
categoria della giustificazione. Ogni
Qui l’A. individua nello spazio della
libertà il riflesso antropologico centrale dell’elezione-predestinazione.
Elezione di Dio e risposta confidente e libera dell’uomo sono i due poli
che costituiscono dialetticamente la
storia della salvezza. Il dinamismo di
chiamata e risposta è reso possibile da
una «creaturale struttura trascendentale», che rende l’uomo capace di determinarsi liberamente nei confronti
di un dono che risulta decisivo per la
sua pienezza di vita. Di tale dono egli
avverte già la presenza ed è propria-
mente ciò che contrassegna «tutto il
percorso dell’esistenza umana credente e ne plasma l’identità» (52).
Quello di Ancona è in definitiva un
volume capace di prendere per mano
il lettore e di accompagnarlo nella
comprensione (biblica, patristica, storico-teologica e sistematica) delle non
semplici questioni che hanno segnato la strutturazione del rapporto uomo-Dio in Occidente. Esso si segnala
pertanto come uno strumento prezioso di sintesi e di raccordo.
Enrico Brancozzi
SEVERINO DIANICH
La Chiesa Cattolica verso la sua riforma
Queriniana, Brescia 2014,
pp. 168, € 12,00
D
ove va la Chiesa? È la domanda
che si pone il teologo Dianich in
questo libro ricco di quaestiones disputatae ecclesiologiche di fondamentale
importanza, che invocano una loro
impegnativa riformulazione nel contesto contemporaneo. Tale riformulazione se vuol diventare una vera e
incisiva riforma non può che nascere dall’interno della Chiesa stessa. In
questo senso, l’affondo dell’A. sul laicato è significativo: la concentrazione
del rapporto fra i vertici della Chiesa
e quelli della società civile «ha portato con sé la riduzione alla passività e
la deresponsabilizzazione dei fedeli»
(53). Dianich, tra l’altro, ricorda le
difficoltà che molti laici hanno nello
svolgimento del loro impegno socia664
le e politico, in quanto condizionati,
molto spesso, dalle direttive dei loro
vescovi. Di grande rilievo è la critica
che l’A. compie, sulla scorta della storia dell’ecclesiologia, nei confronti di
una Chiesa, ancora oggi, connotata
da un’impostazione verticistica/societaria che continua ad essere causa «di
stili di vita mondani e di carrierismo»
(53), una sorta di piaga del clero, per
parafrasare Rosmini. A tutto questo
si aggiunge la scarsa testimonianza
resa dalla povertà evangelica sia delle istituzioni, sia delle persone che
in esse vi operano. Un altro aspetto
che esige un approccio riformativo è
senza dubbio il CJC che non sembra
aver recepito la lezione ecclesiologica
conciliare e che non avendo affron-
il “protagonismo” della sua missione
e delle sue decisioni importanti, solo
ai suoi pastori; in questa prospettiva
però essa «mai potrà essere una comunità che cammina insieme, immersa
come un lievito nella società civile, agli uomini e alle donne in mezzo ai quali essa esiste e vive» (107).
Nell’attuale ordinamento canonico i
ministri ordinati, se non i diaconi, si
privano di fondamentali diritti dei fedeli, come quello di sposarsi, di esercitare professioni civili (salva qualche
eccezione) e di impegnarsi in politica,
aspetti nei quali possono impegnarsi
i laici, che restano una sorta di “battitori liberi”. Nel momento, però, di
interventi pubblici, in nome della
Chiesa Cattolica su grandi problemi
della vita sociale e politica, questi li
fanno il Papa e i vescovi. Lo stesso
Benedetto XVI, nel discorso giubilare
dell’enciclica Mater et magistra, aveva
affermato che i laici non sono solo
esecutori passivi del magistero, ma
anche collaboratori preziosi dei pastori nelle singole formulazioni. Le istituzioni ecclesiastiche senza lasciarsi
fecondare dalle competenze specifiche
dei laici, non possono coprire tutti gli
spazi della vita sociale. Nel parlare
della questione del laicato, poi, non si
può non parlare del ruolo delle donne all’interno della Chiesa. Su questo
argomento, avvalendosi degli studi
di S. Noceti, l’A., pur conoscendo le
indicazioni magisteriali al riguardo,
profila la possibilità di un’ordinazione
diaconale della donna, un riconoscimento «capace di non clericalizzare la
donna, ma di introdurre nel ministero ordinato la ricchezza dei suoi carismi specifici» (120).
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Recensioni
tato la questione complessa del rapporto Chiesa-mondo, rischia di tradire in profondo la sua natura. Così
come anche la mancanza di una codificazione relativa all’esercizio della
collegialità episcopale e della sinodalità, implica, talvolta, un deprimente
ritorno alla societas ecclesiale: tutto si
riduce a ordinare le relazioni dei cattolici fra di loro senza alcuna responsabilità della missione nel mondo,
perché tutto si concentra intorno al
tema dell’autorità e delle forme del
suo esercizio: «un’ecclesiologia autosufficiente, che era del tutto congrua a una società che praticamente
coincideva con la Chiesa stessa» (86).
Grosse riserve si presentano nell’utilizzo del concetto di suddito, che
è stato bandito dalla Costituzione
Americana del 1787 e che ritorna
nell’ordinamento del CJC, lessico
tipico delle monarchie assolute. Tale
termine è presente anche in LG 27,
CD 19, NEP 2, a singolare testimonianza di un non completo superamento di un’ecclesiologia di natura
prevalentemente giuridica. Un ulteriore motivo di “imbarazzo” nell’ordinamento attuale è la possibilità di
celebrare un “secondo” matrimonio
a dei battezzati divorziati civilmente
in quanto l’ordinamento canonico
ritiene quel matrimonio invalido.
«Le ragioni teoricamente plausibili di
questa normativa cozzano in maniera
clamorosa con la situazione esistenziale dei coniugi sposati civilmente,
giacché essi si trovano in condizioni
assolutamente identiche» (97).
A proposito della teologia del laicato, Dianich ritiene che sia ancora
appesantita da una Chiesa che affida
Il bisogno di sinodalità nel cammino ecclesiale conclude questo capitolo e si tocca il tema delle Conferenze Episcopali nelle loro rilevanze
giuridiche e pastorali. L’attenzione si
sposta sulla loro incapacità collegiale di decidere in maniera obbligante per tutti i vescovi, salvo i casi in
cui la Sede Apostolica l’abbia loro
concesso. La riaffermazione degli
esercizi collegiali dopo il Vaticano
II si riallaccia al tema, complesso
secondo Dianich, del rapporto tra
giurisdizione e ordine, per cui se il
sacerdozio era il vertice dell’ordine
sacramentale, il ruolo del vescovo era
di carattere giurisdizionale. Il Vaticano II ha inteso superarla definendo
la consacrazione episcopale quale
pienezza del sacramento dell’Ordine e dichiarando che nell’unico atto
di consacrazione episcopale vengono assegnati l’ufficio di santificare,
insegnare e governare. Tuttavia si
continua ad avere l’impressione che
il vescovo sia un mandato del Papa
a governare la Chiesa e che il suo
ministero riguardi per lo più aspetti amministrativi. «Si pensi a quanti
vescovi, soprattutto fra i titolari impiegati in uffici curiali, non praticano la predicazione quotidiana, non
confessano mai, raramente benedicono matrimoni, eccezionalmente
battezzano, celebrano i funerali solo
dei preti e delle persone importanti,
non visitano i malati se non nelle
occasioni ufficiali delle visite pastorali, raramente sono a cena in casa
di una famiglia che non sia di per-
666
sone eminenti» (137). L’andamento
dell’assunto magisteriale, come quello di Christus Dominus, evidenzia in
maniera apodittica l’ufficio pastorale
come l’abituale e quotidiana cura del
gregge; gli affari giuridici della Diocesi, però, molto spesso coinvolgono
le attività episcopali a discapito della
cura pastorale dei fedeli. L’ultimo capitolo si sofferma sulla forma di vita
apostolica e sul fatto che i beni e le
proprietà della Chiesa possano essere
un impedimento alla realizzazione
del suo fine evangelico. La pubblicazione dell’esortazione apostolica
Evangelii gaudium ha un significato
programmatico e conseguenze più
che rilevanti per molti dei temi che
sono stati affrontati in questo agile
libro. Il fil rouge del testo ruota attorno all’importanza dell’annuncio/
comunicazione della fede (tema centrale dell’ecclesiologia di Dianich),
che non è un dossier di informazioni
che si trasmette senza curarsi del destinatario!
Il bilancio conclusivo su questo
testo non può che essere positivo,
dove oltre ad evidenziare una profonda e matura conoscenza della materia
ecclesiologica, vi è una considerazione di fondo, di primaria importanza,
che struttura tutto il percorso metodologico, ossia che la riforma deve
apportare un sano e autentico rinnovamento affinché la Chiesa di Cristo
possa essere un umile strumento nelle mani di Dio nella tensione verso
il Regno.
Nicola Salato
JEAN GRONDIN
C
on una scrittura estremamente accessibile e coinvolgente, J. Grondin – tra i principali esperti dell’ermeneutica contemporanea – riesce a dar
conto della complessità teoretica dell’itinerario di Paul Ricœur collocandolo
nel contesto della filosofia contemporanea e della storia del ’900. Ciò che
colpisce è la capacità di delineare il filo
conduttore della proposta di Ricœur,
ripercorrendo gli snodi principali della
sua riflessione e lasciando emergere la
peculiarità del suo pensiero rispetto a
ben noti interlocutori quali Heidegger
e gli esistenzialisti, Husserl, Gadamer,
Mounier, Marcel e Jaspers. In una prima approssimazione si può dire che il
suo percorso, radicato nella tradizione
riflessiva francese, nel personalismo e
nell’esistenzialismo, mostra costante
interesse per una Filosofia della volontà
(orig. in due volumi: 1950, 1960) nutrita da «dialogo, speranza, confronto
di idee e apertura all’inedito dell’iniziativa umana» (11). Questa filosofia
dell’ascolto, intesa fondamentalmente
come ermeneutica, rivela radici più
consone all’impostazione di Dilthey
che a quella di Heidegger, in quanto
per Ricœur l’ermeneutica riguarda
«l’arte delle manifestazioni vitali fissate
per iscritto» (70) e, accogliendo il monito kantiano secondo cui «il simbolo
dà a pensare», si pone in sostanziale
continuità con le istanze di una filo-
sofia della riflessione che costituisce
l’originalità del suo intero progetto.
Nel 1965 Ricœur ebbe modo di distinguere una via corta e una via lunga
dell’ermeneutica: la prima è identificata con la tesi heideggeriana in base alla
quale la comprensione è una modalità
dell’esistenza, con la conseguente svalutazione delle questioni epistemologiche tradizionali dell’interpretazione.
La via lunga, invece, si delinea in continuità con l’impostazione di Dilthey,
ponendo al centro le questioni epistemologiche, metodologiche e linguistiche e mantenendo aperto il dialogo
con i saperi scientifici.
L’approccio all’ermeneutica, inoltre, è caratterizzato da profonda attenzione a tutte le scienze dell’umano – in particolare a quelle attente ai
miti e ai simboli – allo scopo di venir
a capo della problematica del male:
«Il male non potrebbe dunque essere
compreso che alla luce dei simboli che
l’hanno rappresentato e che occorre
interpretare. La svolta ermeneutica
della fenomenologia sarebbe allora determinata dall’aporia costituita dalla
sfida del male, e segnerebbe un limite
alla fenomenologia stessa e alla sua via
privilegiata, quella dell’introspezione:
l’ego non può conoscersi che con un
cammino attraverso i simboli, i miti e
i racconti nei quali si è tradotto il suo
sforzo di esistere» (68).
667
Recensioni
Leggere Paul Ricœur
Queriniana, Brescia 2014,
pp. 154, € 14,50
Dopo la svolta maturata negli anni
’60, il problema centrale dell’ermeneutica consiste nel capire il sacro nel
contesto della modernità, senza però
fare della modernità la questione centrale della riflessione filosofica contemporanea. L’ermeneutica presenta
una funzione restauratrice nella misura
in cui consente di aprirsi meglio al
messaggio dei simboli e di superare
l’oblio del sacro che caratterizza la
nostra epoca. A tal proposito si può
parlare dell’esigenza di una seconda
ingenuità che trae profitto anche dalla lezione demistificatrice segnata dal
contributo di Freud: Ricœur collega
l’ermeneutica con l’interpretazione
dei simboli, «ma non contrappone
più frontalmente l’ermeneutica restauratrice all’interpretazione riduttrice di Freud. Al contrario, l’interpretazione riduttrice e la meditazione
restauratrice sono viste sempre più
come due vie complementari, quelle
del sospetto e della fiducia, essenziali
all’arco ermeneutico» (85).
In realtà il progetto di un’ermeneutica restauratrice non è mai stato
realizzato fino in fondo in linea con
le intuizioni iniziali perché Ricœur
ha avvertito l’esigenza di rispettare
il confine tra la filosofia e la fede: a
partire dal 1965 egli «ha ampliato,
ma anche modificato, la sua comprensione del compito ermeneutico,
cessando forse di legare ad esso così
direttamente, in nome di una seconda
ingenuità, speranze immediatamente
religiose suscettibili di contrastare
la carenza di senso della modernità.
Tuttavia si potrebbe dire che per certi
aspetti Ricœur non abbia mai interamente rinnegato il suo primo ingresso
668
nell’ermeneutica, in quanto richiamo
a qualcosa di essenziale relativo alle
possibilità dell’uomo e alla sua ricerca
di senso» (87). L’originalità della sua
proposta non è stata colta da quanti
hanno visto nell’opera Dell’interpretazione (orig. 1965) semplicemente un
saggio su Freud: al centro dell’interesse, infatti, c’è la consapevolezza della
priorità del linguaggio come luogo in
cui si manifestano tutte le espressioni
di senso. La presenza di un doppio senso non riguarda dunque solo i sogni,
ma caratterizza tutto il campo del linguaggio e rinvia alla nozione di simbolo: le nozioni di simbolo e di interpretazione si spiegano reciprocamente
(93). Ciò non impedisce a Ricœur di
problematizzare le letture riduttive
che intendono il simbolo solo come
un’illusione o un sintomo. Prendendo
poi le distanze dalla linea heideggeriana e, almeno in parte, anche da quella
di Gadamer, non tutte le funzioni significanti sono assunte come oggetto
dell’ermeneutica in quanto l’interpretazione riguarda primariamente la
funzione simbolica.
Il problema affrontato in Il conflitto
delle interpretazioni (1969) non costituisce uno scacco per il lavoro ermeneutico perché l’esercizio del sospetto
praticato da Marx, Freud e Nietzsche
aiuta la coscienza a comprendersi meglio e di conseguenza arricchisce il
compito di una filosofia della riflessione. Accolti gli stimoli critici della
via del sospetto, l’ermeneutica può
percorrere la via della restaurazione attraverso l’apporto dell’esegesi biblica e
della fenomenologia che scruta l’intenzionalità della coscienza: «Essa prende
il senso quale si dona, illuminando e
ta, quella espressa dalle summae della
maturità che si collocano sul piano
dell’ermeneutica del tempo e del racconto, dell’etica e del pensiero della
storia. Ovunque gli uomini raccontano delle storie: «la comprensione che
abbiamo di noi stessi proviene dai racconti che ci costituiscono e di cui ci
siamo appropriati. Essi costituiscono
ciò che Ricœur chiama la identità narrativa: rispondere alla domanda “chi?”
vuol dire raccontare la storia di una
vita» (122). Un’ermeneutica dell’identità narrativa ha inevitabilmente delle conseguenze etiche: la storia
apre al campo dell’azione possibile e
responsabile, ponendo in primo piano l’attenzione alla coesistenza e alla
reciprocità. Le questioni dell’identità
e dell’etica rinviano all’interesse per
un’ontologia che non si concentri sul
senso dell’essere in generale, ma sulle possibilità dell’uomo. Da questo
punto di vista la distanza rispetto al
progetto ermeneutico di Heidegger e
di Gadamer risulta, almeno in parte,
parzialmente attenuata. Attraverso la
meditazione sulla storia, sul racconto e sui percorsi del riconoscimento,
l’interesse conclusivo di Ricœur approda alla scoperta della positività di
un oblio di riserva, di una possibilità
di dimenticare che non consiste nella
cancellazione delle tracce del passato,
ma indica disponibilità a un’attiva
in-curanza: essa restituisce all’uomo la
possibilità di vivere la libertà dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo
che, pur non seminando, mietendo
e accumulando nei granai, vivono in
pienezza la felicità dell’amore.
Antonio Trupiano
669
Recensioni
guidando la coscienza, non senza trarne una salutare lezione di umiltà dalle
ermeneutiche del sospetto» (98). Rispetto alla svolta introdotta da Freud,
Ricœur avverte l’esigenza di superare
l’assolutizzazione del condizionamento dell’inconscio e dell’involontario,
non perché essi non esercitino il loro
potere, ma perché la loro rilevanza non
può indurre la coscienza alla rassegnazione di chi rinuncia a comprendersi.
L’intenzione di recuperare il nesso
esistente tra verità e metodo – oltre a
ribadire una parziale distanza rispetto
al progetto ermeneutico di Gadamer
– sospinge Ricœur a un confronto
con lo strutturalismo, mosso però
dalla consapevolezza che l’interesse per le questioni sintattiche non
può mai prescindere dall’attenzione
alla semantica e ai contenuti espressi: «Costituendo il linguaggio come
un’entità autonoma di dipendenze interne, la linguistica strutturale riesce
a porsi come scienza, ma vi giunge a
prezzo di esclusioni. In effetti esclude
“l’intenzione prima del linguaggio,
che è quella di dire qualcosa su qualcosa”» (106). La portata referenziale
del discorso, la “freccia del senso”, costituisce la tesi centrale dell’ermeneutica di Ricœur: il senso manifesta nel
discorso il suo impulso ad avanzare e,
avanzando, provoca nel destinatario
l’interpretazione di sé. Tale programma è palesemente espresso sin dal titolo dell’opera Dal testo all’azione (orig.
1986): «la comprensione del testo che
noi siamo, rinvia in ultima istanza
all’azione da compiere, che rappresenta il punto di partenza e di arrivo
dell’interpretazione» (115). Questa
consapevolezza prepara l’ultima svol-
PATRIZIA MANGANARO
Empatia
Edizioni Messaggero, Padova 2014,
pp. 143, € 14,00
M
ettersi nei panni dell’altro.
Quante volte si sente questa
espressione, che inconsapevolmente
cela una delle più grandi sfide della
vita: la relazione con l’altro. P. Manganaro in questo agile libretto prova a
mettere in pratica l’empatia (dal greco
én – páthos), ossia a sviluppare un discorso, come lei stessa attesta nell’incipit, che introduca il lettore nella
capacità di vivere una vera e propria
avventura nei confronti dell’altro. Il
punto di partenza è affidato a quanto, molti anni or sono, sosteneva L.
Wittgenstein a proposito dell’alterità:
senza di essa ci sentiremmo smarriti e
confusi incapaci di ritrovare noi stessi
senza aver ritrovato anche l’altro. Riprendendo i primi studi del '900 sulla
tematica in questione, si affronta la
problematica di quel quid che ci accumuna tutti e che ci offre la possibilità
non solo di comunicare, ma anche di
relazionarci. L’empatia, tuttavia, non
è immedesimazione – traduzione erronea del concetto – quanto piuttosto
la capacità di entrare in sintonia con
l’altro. Non a caso l’A. nello scrivere si
propone di stabilire con il lettore questa sorta di correlazione, come a suo
tempo aveva fatto anche W. Dilthey,
e non solo lui. «Chi dice empatia dice
pensiero, parola, azione. Dice lógos e
páthos, atto intenzionale, formativo e
670
performativo» (25). Il pensiero soggiacente a queste riflessioni è la filosofia fenomenologica di Edith Stein che
si era occupata a più riprese di questa
tematica che per E. Husserl, anche
nelle lezioni della maturità, restava
una sorta di enigma oscuro, continuando virtualmente a discutere con
Th. Lipps. Il tutto si gioca, secondo
l’A., in uno scavo profondo di questa esperienza, fenomenologicamente,
originaria per il soggetto che la vive
e non originaria per chi si de-centra
e cerca di fare spazio e accogliere in
sé l’altro. In nome di queste premesse
si prosegue nel viaggio conosciuto e
sconosciuto insieme del pianeta empatia. In questo percorso trasversale,
indiscutibilmente, ci s’incontra/scontra con il dolore e la sofferenza, nel
senso che siamo patici ed empatici
insieme. Il dolore rinchiude l’uomo
in se stesso nella solitudine più arida
o dischiude nuovi orizzonti? Se lo è
domandato lo psicopatologo B. Callieri, che distingue il dolore cronico,
fisico e l’esperienza di chi vive nella
sofferenza, nella depressione; in questo caso il dolore si distingue dalla
sofferenza. Sul patire che dischiude
una vasta gamma di nuove possibilità
si è interrogato V. Frankl, per il quale
la sofferenza diventa anche una possibilità di maturazione per chi la vive.
una società, come la nostra, multietnica e multireligiosa, dove il fenomeno
della globalizzazione tenta di azzerare
le differenze. Il riscatto potrà avvenire
recuperando due singolari universali:
l’humanitas e la communitas, e come
sosteneva Husserl nella Krisis, spetta alla filosofia il compito più arduo
quale responsabilità di fronte all’intera umanità. Vorrei richiamare, come
fa l’autrice, il “no alla globalizzazione
dell’indifferenza” denunciato da papa
Francesco, in occasione della sua visita all’isola di Lampedusa (8 luglio
2013), contro l’ipertrofia dell’io, dove
l’altro, in questo caso lo straniero,
non è il diverso o il nemico (J.P. Sartre), ma il prossimo, il fratello. L’indifferenza è un “cancro” che paralizza
le nostre relazioni e crea una vacua
forma di solipsismo. L’invito è quello
di ritornare alla forte valenza antropologica dell’esperienza e del pensiero di
Francesco d’Assisi, richiamato nel testo dalle parole di M. Cacciari. A questo punto non posso non soffermarmi
sulla parte più incisiva e brillante di
questo libretto che è il poscritto, qui
si narra dell’incontro dell’autrice con
l’estro artistico di G. Sanmartino
(1720-1793): il Cristo velato, che si
trova nell’affascinante ed enigmatica
cappella di famiglia del principe di
Sansevero in Napoli. «Trascendenza
e presenza si fondono in questo che
non è un corpo inerte, inanimato,
adagiato su un letto di morte, la testa reclinata su due morbidi, eleganti
cuscini, la vena della fronte che pulsa
sangue e morte, sangue e sofferenza,
sangue e vita» (133). Un’opera straordinaria, dove il marmo acquista una
plasticità tale che sembra essere infor671
Recensioni
Risulta consequenziale che dire empatia significa fare spazio alla verità su
noi stessi dando vita a un movimento
di uscita da sé: primato della ragion
pratica in questo squarcio di luce che
diventa un vero e proprio percorso di
conoscenza di sé stessi. Il quarto capitolo tenta un excursus sulla questione
a partire dalle ricerche estetiche di R.
Vischer, passando attraverso il “continente sommerso” della fenomenologia di E. Stein, letta talvolta – in molta letteratura contemporanea – come
una variante di un languido spiritualismo cattolico.
Nella mia esperienza vissuta
non-originaria (nicht-originären), io
mi sento accompagnato da un’esperienza vissuta originaria, la quale non
è stata vissuta in prima persona da
me, eppure si presenta in me, manifestandosi nella mia esperienza vissuta
non-originaria, scrive la Stein nella
sua tesi di laurea. Se io sono capace
di vivere empaticamente con un altro, avrò la costituzione della persona estranea nella sua datità: anche un
semplice sorriso (Lächeln), può offrirmi la possibilità di lanciare “un’occhiata”, uno sguardo nel nucleo della
persona (Kern der Person). L’individuo
psico-fisico è una realizzazione della persona spirituale; il rapporto con
l’altro svela la nostra contingenza, il
nostro continuo cercare, in sostanza il
nostro non auto-possederci in nessun
modo se non in relazione con altre
persone. Anche per Stein, la via mistica della passione che sente dentro di
sé l’altro (Einfühlung) viene interpretata come “l’autentica pratica dell’empatia” (R. Kühn). L’ultimo capitolo
del libro coglie la sfida dell’empatia in
mato di vita, diventando apparentemente una materia flessibile e leggera
come il velo che ricopre la sofferenza
del Cristo. Qui lo scultore dimostra
come l’empatia assurga a una vera e
propria commistione d’intenti; chi lo
guarda non può restare impassibile
di fronte ad esso. In ultima istanza,
consigliamo vivamente la lettura di
questo scritto, che introduce in parole semplici, per quanto mai distante
dal suo tratto scientifico, un tema di
grande attualità nel nostro tempo.
Nicola Salato
ROCCO PITITTO
La Christus, Hoffnung der Welt di Heinz Tesar:
tra architettura, filosofia e teologia
Diogene Edizioni, Pomigliano d’Arco 2014,
pp. 100, € 25,00
«L
e Chiese sono le ancore della
trascendenza e della pietà nel
caos dei mercati globali […] Scrivere
sulla costruzione di una chiesa significa per me, sostanzialmente, descrivere le proprie costruzioni e verbalizzare i pensieri che producono questi
edifici» (89). Con quest’affermazione
di H. Tesar si chiude il preludio del
testo di R. Pititto: chiave di lettura
dell’opera e riferimento sintetico del
pensiero del noto progettista austriaco. Lo studio è apprezzabile per la
convincente argomentazione critica
che suggerisce e consente di aprire un
interessante fronte di speculazione
storico-architettonica, al cui interno
si intrecciano questioni propriamente
filosofiche e teologiche, nonché strettamente liturgiche. L’idea di architettura di Tesar è allo stesso tempo semplice e complessa: idea che si realizza
in una visione d’insieme dell’arte del
costruire e dell’abitare. Le sue proposte progettuali evidenziano nel tempo
oltre a una sicura e originale sintesi
672
architettonica, espressa in modelli in
cui la sintesi formale si coniuga con
una intelligenza pianificazione funzionale, anche un impegno intellettuale atto a realizzare un dialogo profondo
sull’uomo e sulle sue attese con i suoi
interlocutori, come scrive felicemente
l’autore nel paragrafo Come un preludio. Lo studio di Pititto si articola in
nove capitoli ed è un’analisi fenomenologica sullo spazio sacro e sul tipo
di spazio sacro adatto all’uomo di
oggi, comprendendo anche la presentazione dettagliata del progetto architettonico. Il volume presenta un ricco
corredo documentario, con immagini, studi preliminari e schede e riporta in appendice due scritti di Tesar. Il
panorama dell’architettura religiosa
odierna è sicuramente vasto e variegato, diversificato in molte declinazioni
dello stesso senso di architettura sacra. In questo contesto l’architettura
di Tesar va letta innanzitutto nel suo
ruolo sociale, esperienza dello spazio
in una forma semplice che si deforma
può non prendere atto del cambiamento di prospettiva e di funzione
che assume il luogo di culto cattolico
dopo il Concilio e nella contemporaneità. L’architetto ha realizzato un
segno fortemente riconoscibile, che
possa essere di passaggio dalla vecchia
Vienna alla nuova: un edificio sacro
sulla piazza, reinventato e rovesciato
nella concezione tradizionale e ridisegnato con aspetti nuovi e originali,
senza nulla o quasi concedere al passato; non vi è la torre campanaria che
svetta per affermare il suo ruolo preminente nella città e nella storia. L’intero complesso consente di sviluppare e fruire di tutta l’articolazione di
pieni e di vuoti, mentre l’assetto delle
strutture verticali consente di definire
lo spazio interno senza racchiuderlo.
L’obiettivo è realizzare una “comunità viva” in una città in espansione.
Il lavoro architettonico risulta una
risposta efficace alla doppia esigenza di trascendenza e di orizzontalità.
È questo il motivo che illumina in
prospettiva la costruzione. Lo spazio
sacro così concepito non rappresenta
una spaccatura con il mondo ma un
suo pieno completamento. Precarietà
e incertezza nel cammino dell’uomo
rendono più immediato il ritrovamento di una protezione nel segno
della Croce. Forse è per questo che
l’architetto colloca la sola croce bianca intagliata sulla facciata, una sorta
di porta d’ingresso aperta al mondo.
La “Croce” viennese di Tesar diventa
il percorso di ogni essere umano: il
suo compimento e la sua salvezza definitiva.
Giuliana Albano
673
Recensioni
attraverso il processo. Su questa linea
di matrice fenomenologica, aperta
alla presenza nel mondo umano dello
spazio sacro, la Cristus, Hoffnung der
Welt è assunta sul piano scientifico e
narrativo come un caso-studio: riflessione dell’uomo religioso che è alla
ricerca di un contatto con Dio e di
un luogo dove incontrarlo e dialogare
con Lui. Uno spazio sacro che coniuga proposte antropologiche, aspettative religiose e sapere architettonico
secondo i dettami del Concilio Vaticano II. Costruita nel 2000 l’architettura si presenta esternamente come
un volume semplice e compatto: un
cubo che si trasforma in una Chiesa
a pianta ottagonale, rivelandosi una
soluzione corretta dal punto di vista
teologico, segno di un popolo disperso che si ritrova unito attorno alla
mensa. Una trama di oblò permette
alla luce di entrare nello spazio interno. Si accede a una zona filtro prima
dell’aula; l’interno è rivestito in legno, l’assemblea è disposta intorno
al presbiterio rialzato dove sono collocati l’altare e l’ambone; agli angoli,
illuminati da appositi lucernai, sono
il tabernacolo e il fonte battesimale.
Questa disposizione favorisce l’azione liturgica: presbiterio, tabernacolo,
fonte battesimale, come luoghi di
luce e il celebrante si muove tra queste sorgenti luminose. Il luogo liturgico è dunque pensato e realizzato in
funzione della liturgia del movimento, dove i poli liturgici sono “in luce”
e dove l’assemblea riunita celebra realmente e simbolicamente il mistero
pasquale. Consapevole dei processi
storico-teologici del tempo Tesar non
XAVIER TILLIETTE
Gesù romantico
a cura di A. Sabetta
Lateran University Press, Città del Vaticano 2014,
pp. 521, € 40,00
I
n questo nuovo libro, il gesuita
francese X. Tiliette offre un “miscuglio dei generi”, attraverso cui
misurarsi con il romanticismo, vero
e proprio «stato dello spirito o dell’anima» più che mero «fenomeno d’epoca» (19). Lo si potrebbe pensare
come una sorta di splendido catalogo
di esperienze poetiche della figura di
Gesù, da gustare una per una, sapendo che neanche la partizione del volume, la sua scansione nei vari capitoli, risponde alla solida logica della
trattazione, che si dipana per argomenti rigorosamente concatenati.
L’idea di fondo che accompagna il
libro è la convinzione che il romanticismo non sia solo ateo. La la morte di Cristo come parabola dell’ateismo sono solo un aspetto della
cultura del sec. XIX. La riflessione
si dipana dal riferimento alla prima
apparizione del Cristo romantico
dovuta a Jean Paul. Si trova nel romanzo Siebenkäs e si intitola Discorso
del Cristo morto dall’alto dell’edificio
del mondo, annunciante che non vi è
nessun Dio. Gesù discende dai cieli
dopo che non vi ha trovato Dio ma
solo «l’eterna tempesta che nessuno
governa». La conclusione è: «Siamo
tutti orfani, io e voi, siamo tutti senza padre». Tilliette spiega che tale
apparizione è divenuta famosa nella
674
traduzione francese di Germaine de
Staël che lo ha fatto conoscere come
Sogno di Jean Paul. Poiché ella ne ha
omesso la rassicurante conclusione
originaria (il risveglio dell’autore che
ringrazia Dio del fatto che fosse solo
un sogno, anzi un incubo), il Sogno
ha finito per divenire una rivelazione o “apocalisse dell’ateismo”, i cui
echi «si sono propagati fino alla fine
del secolo e oltre; non vi è scrittore,
grande o piccolo, che non gli abbia
fatto da coro» (30-31).
Dalla lettura di questo momento decisivo della vicenda del Gesù
romantico ci avvertiamo sollecitati
a una considerazione che ci appare altrettanto decisiva, e che investe
ogni altro dei momenti che costituiscono la coinvolgente narrazione/
presentazione di Tilliette. Il lettore
non vi trova soltanto l’occasione per
una meditazione di carattere estetico
e sentimentale. La presenza decisiva
di Gesù comporta presso colui che vi
si avvicina con sensibilità teologica
un’ulteriore opportunità, di carattere
marcatamente spirituale: quella della
relazione alla persona da cui si cerca
e si spera pienezza di senso e risposta
alle più profonde attese del cuore. In
tal senso la figura del Cristo di Jean
Paul/de Staël che torna dal cielo a
mani vuote, e che si limita a comu-
te, «si manterrà a lungo e s’imporrà
a parecchie generazioni di credenti»
(116). Tra coloro che se ne faranno
attrarre, George Sand, la più celebre
delle muse romantiche, scrittrice infaticabile che sceglie amanti deboli ed
effeminati e all’occasione si fa chiamare “compagno George”. È come
rapita dall’opera di Chateaubriand,
perché essa «rende la religione amabile, accomodante, […] è il libro del
chiostro per eccellenza, è il codice di
chi ha ricevuto la tonsura […] Chateaubriand diventava il mio prete e il
mio iniziatore» (cit. a p. 260).
Alla luce di queste considerazioni,
riteniamo il titolo, Gesù romantico,
particolarmente felice, nonostante
l’A. puntualizzi che si è trattato di una
scelta di ripiego, in quanto il titolo
desiderato – il Cristo romantico – era
già stato utilizzato (e difatti nel corso
del libro Tilliette si riferisce sempre
a il Cristo più che a Gesù). Ma l’impressione che ne abbiamo ricevuto è
che il titolo attuale faccia il paio con
la natura del libro: “Gesù”, più che “il
Cristo” è il nome proprio di Colui con
cui si entra in relazione attraverso la
considerazione poetica offertane dal
libro, è Colui col quale ci si avverte in
empatica prossimità, al punto da sentirne la presenza e la compagnia nella
gioia, nel pianto, nella commozione
propri dell’esperienza estetica più alta
e più profonda.
Roberto Di Ceglie
675
Recensioni
nicare che non vi è alcun Padre e che
di conseguenza si è tutti condannati
per sempre alla condizione di orfani,
risulta deludente, estranea, incomprensibile. Non semplicemente sotto
il profilo edificante pur richiesto dalla sensibilità cristiana, quanto piuttosto – ed è ciò che interessa qui rilevare – sotto il profilo marcatamente
estetico. Se difatti la figura di Cristo
viene privata di ciò che la costituisce nell’esperienza viva del credente,
questi non la riconosce se non come
immagine scialba e priva di interesse.
Di conseguenza, lo stesso elemento cruciale della fruizione estetica
sembra venire meno. È possibile che
un’opera come Gesù romantico possa aiutare a cogliere questo nesso tra
esperienza estetica e identità teologica? Forse. In ogni caso, va riconosciuta gratitudine a Tilliette che ci
consente in tal modo di riflettere sulla grande vicenda intellettuale della
relazione tra vero e bello.
Su questa linea, della relazione
vero-bello, un momento estetico che
certamente si può vivere appieno, essendovi descritto un Cristo pieno di
pathos e rispondente ad attese e tensioni del credente, è quello di Génie
du christianisme. Chateaubriand vi
insiste su temi teologici sicuri come
quello dell’abbassamento e della compassione. Gesù è «Dio dei miseri»,
chinato sull’umanità sofferente, e che
non per caso, come sottolinea Tilliet-
DARIO VITALI
Verso la sinodalità
Edizioni Qiqajon, Magnano 2014,
pp. 158, € 15,00
C
on l’elezione di papa Francesco
si è tornati a invocare più collegialità, dottrina espressa dalla Lumen
Gentium e che ha ricevuto una debole
ricezione. Si è riacceso il desiderio di
un governo della Chiesa meno affetto
da una sindrome di “centralismo” (cf
5), di cui è sembrata soffrire in modo
sempre più drammatico la Chiesa negli anni del postconcilio. Molto spesso
il collegio è stato confuso con la Curia
romana e ciò non solo ha sostanzialmente lasciato lettera morta la pagina
conciliare, ma «ha tentato di imporre
un’ermeneutica – o un’attuazione –
che ha stravolto le linee originarie della
collegialità disegnate dal Concilio Vaticano II» (6). L’A. vuole rispondere
ad alcune domande: come ristabilire le
linee originarie di quel disegno? Come
attuare la pagina conciliare sulla collegialità? Più che interrogare i significativi gesti e le parole di papa Francesco,
che stimolano ad imboccare una «salutare decentralizzazione» (EG 16), Vitali
sceglie una via particolare: tornare alla
pagina conciliare. Il saggio è articolato
in sei capitoli. Il primo capitolo è un
commento del testo conciliare. Più che
ascoltare i commentatori del Concilio,
l’A. interroga il testo al fine di liberare
il tema della collegialità da interpretazioni ideologiche. La concentrazione
cade sui paragrafi 22-23 del capitolo
III di LG, una sorta di dittico che «pre-
676
senta due scene distinte e separabili,
ma che solo accostate possono rivelare
l’interezza del discorso» (14). Sebbene
sia LG 22 il testo che affronta ex professo la dottrina della collegialità, tuttavia
la sua comprensione non può avvenire
senza il riferimento a LG 23 che illustra le relazioni dei vescovi all’interno
del collegio. Nel capitolo secondo l’A.
verifica i diversi motivi del difficile e
debole processo di ricezione, spesso legato a una interpretazione che ha finito per ridurre il collegio al suo capo. Si
richiama l’asse portante necessario per
disegnare un modello ecclesiologico,
ossia il nesso costitutivo tra Chiesa universale e Chiese particolari: l’una non
può esistere senza le altre, e viceversa
(cf 51; cf. LG 23). Inoltre sono esplicitate le conseguenze rischiose dell’applicazione della precedenza ontologica e
temporale della Chiesa universale sulle
Chiese particolari al tema della collegialità (cf 54). Nel terzo capitolo l’A.
mette in luce i nodi da sciogliere dal
momento che impediscono o rallentano un corretto esercizio della collegialità: il primo nodo è rappresentato
dal rapporto tra collegialità e primato,
ossia dal rapporto tra i due soggetti di
piena e suprema autorità nella Chiesa;
il secondo nodo riguarda il rapporto tra
il popolo di Dio e i suoi pastori. Si sottolinea in modo particolare il vincolo
tra il sensus fidei del popolo di Dio e il
diere ideologiche» (122). Nel capitolo
conclusivo Vitali presenta la sua ipotesi
di un’articolazione della communio ecclesiale in cerchi concentrici, capace di
favorisce una feconda comunicazione
dal centro alla periferia e dalla periferia
al centro. Il cerchio più esterno sarebbe
quello delle singole Chiese particolari;
i tre cerchi intermedi si situerebbero a
livello delle province ecclesiastiche, delle Chiese nazionali (o delle Conferenze
episcopali nazionali), dei patriarcati
continentali o subcontinentali; infine il
collegio episcopale, sempre cum Petro e
mai sine Petro. La proposta di Vitali di
un possibile esercizio della collegialità
a tutti i livelli della communio e pensata a partire da LG 22-23, ricollocati
nell’orizzonte più ampio del capitolo
II di LG sul popolo di Dio, costituisce il tentativo onesto di coniugare in
armonia la compresenza di due soggetti di piena e suprema autorità nella
Chiesa e di orientare concretamente e
coraggiosamente la vita della Chiesa e
i processi ecclesiali nella direzione della collegialità, della sinodalità e della
partecipazione corresponsabile di tutti,
rompendo, una volta per sempre, quella incomunicabilità tra i pastori della
Chiesa e il popolo di Dio.
Agostino Porreca
KLAUS BERGER
Commentario al Nuovo Testamento
I. Vangeli e Atti degli apostoli
Queriniana, Brescia 20142,
pp. 656, € 73,00
F
in dal titolo del
libro si compren-
de che K. Berger ha l’intenzione di
fornire un commento ai primi libri
677
Recensioni
munus docendi dei pastori, vincolo che
impone una «doppia ricollocazione»: il
Papa dentro il collegio e questo dentro
il popolo di Dio. Il terzo nodo riguarda
la composizione del collegio episcopale, capace di ricomporre in armonica
corrispondenza la communio fidelium,
la communio ecclesiarum e la communio hierarchica, con il Papa come principio e fondamento di unità delle tre
forme di communio. Il capitolo quarto
è quello della proposta teologica. L’A.
disegna un sistema di relazioni che realizzano una circolarità effettiva tra universitas fidelium, collegio dei vescovi e
Papa. Occorre riavviare il movimento
circolare di tre momenti, a cui fanno
capo tre azioni necessarie e tre soggetti
interdipendenti della Chiesa: il momento della profezia (appartenente al
popolo di Dio), il momento del discernimento (appartenente ai pastori della
Chiesa) e quello dell’attuazione di ciò
che nel discernimento è stato individuato nel collegio come volontà di Dio
per la Chiesa (cf 103-104). Il quinto
capitolo, a partire dal dato neotestamentario, presenta l’ascolto come la
regola d’ora della vita ecclesiale, il momento iniziale di ogni processo ecclesiale: «senza ascolto, la partecipazione,
la sinodalità, la collegialità rimangono
parole vuote o, peggio, diventano ban-
del Nuovo Testamento (Vangeli e gli
Atti degli Apostoli). Il volume molto articolato offre, per ogni singolo
testo, informazioni generali per favorire un contatto con le questioni
principali riguardanti l’autore, la datazione, i destinatari e il contesto sociale e storico in cui è stato concepito
lo scritto. A completamento di ogni
introduzione vi è un commento alle
singole sezioni del testo per fornire le
linee teologiche generali dello stesso.
Approfondendo il contenuto del
lavoro notiamo che l’autore esordisce
con la presentazione del Vangelo di
Matteo per il quale offre un’ipotesi
di datazione piuttosto bassa (50-60
d.C.) basandosi su alcuni dati quali
l’insistenza della continuità tra giudei e credenti in Cristo e per la quasi
assoluta assenza delle questioni sulla
circoncisione. La Cristologia, rintracciata a partire dai titoli, è legata
alle immagini del pastore di Israele e
degli altri, del maestro e taumaturgo
e del Messia di Israele. Il commento
è offerto per grandi sezioni, sebbene
si tocchino tutti i capitoli. La metodologia di analisi è quella classica con
un apporto specifico del confronto
con la letteratura giudaica e cristiana, biblica ed extra-biblica, per fornire un’interpretazione profonda del
testo. Nota l’insistenza dell’evangelista Matteo sui tratti di educatore riguardanti Gesù, sottolineando come
egli unifichi varie sezioni dell’insieme (Mt 5-7; 8-10) intorno al topos
dei dialoghi. Molto entusiasmante
è l’interpretazione delle parabole in
relazione ad alcune categorie quali la
“crescita”, la “decisione” e il “lasciar
andare” e l’evidenza data alle parole
678
differenti per il racconto dell’ultima
cena, rispetto agli altri evangelisti.
Infine è offerta una rilettura della sepoltura di Gesù mediante il confronto con il vangelo apocrifo di Pietro
per accentuare il carattere drammatico dell’evento.
Nel presentare il Vangelo di Marco, Berger esordisce con un elenco di
dati negativi per sostenere un’ipotesi
di datazione. In effetti, a partire dal
rifiuto del titolo di figlio di Davide
da parte di Gesù, dalla constatazione che il Vangelo di Marco scagioni
Pilato dalla responsabilità della morte
del nazareno e dall’evidente diversificazione nel racconto tra i disordini
nelle città e le attese future dei credenti, l’autore paventa la possibilità
che l’ambiente di nascita e il tempo di
redazione del Vangelo sia in un contesto di persecuzione, visto il tentativo
di “tenere buoni” i romani (cf 159). A
questo dato l’esegeta aggancia i riferimenti di Mc 10,35-45 che descrivono un clima di tensione nell’ambiente
sociale e storico della vita comunitaria. Identifica questo periodo di tensione con gli anni di Erode Agrippa
(41-44 d.C.) e propone come data di
redazione del Vangelo il 45 d.C., presentando i destinatari come “giudeo/
etnico cristiani” mediamente istruiti. Analizzando alcune affermazioni
interessanti per la riflessione, frutto
del commento al testo, evidenziamo
la proposta di rileggere la categoria
del “segreto messianico” non come
espediente letterario, legato alla teologia dell’evangelista, bensì come
paradigma pedagogico utilizzato da
Gesù per educare i discepoli alla sofferenza del Messia e diversificarli da
salienti per identificare la cristologia
lucana. Tra essi suggerisce il ruolo
di Gesù come redentore, liberatore
che riconcilia l’uomo con Dio e che
invia i discepoli dopo averli istruiti.
Individua come particolarmente rivelativa la sezione del viaggio verso
Gerusalemme per esprimere i termini attraverso cui Gesù, come agnello
immolato, redime l’uomo. Anche
per i racconti di passione l’esegeta
lascia emergere i particolari del racconto per rintracciare l’attenzione
dell’evangelista per la preghiera, la
carità, il perdono, eventi probabilmente significativi per la comunità
cui il Vangelo era destinato.
Evidente il cambiamento di struttura del Vangelo di Giovanni, basato,
secondo Berger, non sulle parabole,
ma sulle metafore, secondo lo schema
“Io-sono + metafora” (cf 412). Il fine
esegeta ritiene che, l’evangelista Giovanni, faccia emergere quegli aspetti
cristologici lasciati ai margini dagli
altri evangelisti a partire dallo spostamento di attenzione dall’annuncio
del regno alla persona stessa di Gesù.
L’attenzione principale del Vangelo
verte su alcune questioni rilevanti,
quali il rapporto Gesù-Dio e il contenuto delle affermazioni di Gesù per
verificare se sono bestemmie. Appoggiandosi ai dati degli scavi di Qumran
identifica i destinatari del Vangelo
come giudeo-cristiani della prima ora
e propone come data di redazione il
68/69 d.C., in quanto il Vangelo attribuisce a una donna, Marta, la principale confessione di fede (Gv 11,27),
non menziona la necessità di più
persone per autenticare una testimonianza, facendo andare solo Maria di
679
Recensioni
altri suoi seguaci (cf 222). Egli fa ruotare l’intera teologia dell’evangelista
intorno all’identità di Gesù, Messia e
Figlio di Dio, dapprima velata e poi
progressivamente svelata mediante la
sofferenza. A tal proposito attribuisce
notevole rilevanza all’episodio della
trasfigurazione (Mc 9). Esprime una
sua opinione, non distante da quella
della maggioranza degli esegeti, circa la doppia conclusione del Vangelo di Marco. Circa quella più antica
(Mc 16,1-8) la ritiene enigmatica per
il lettore, giacché invitato a prendere posizione rispetto al silenzio delle
donne, partendo dall’evento della
tomba vuota che enuncia l’avverarsi delle predizioni di Gesù di morte
e resurrezione. Per le apparizioni del
risorto (Mc 16,9-20) riscontra dipendenze con gli altri evangelisti e
aggiunge che esse sono una chiusura
tematica, aggiunta in seguito, con il
tentativo di fare da ponte tra il Vangelo e l’annuncio.
Per il Vangelo di Luca, considerando che è concepito come opera
insieme agli Atti degli Apostoli, ma
cronologicamente è anteriore, e che
gli Atti sono redatti prima della morte di Paolo, poiché essi riportano solo
il processo a Paolo e non l’esecuzione di una condanna a morte, Berger
individua come margine di redazione dei due libri gli anni tra il 66-70
d.C., optando per una data intermedia 66/67, escludendo il 70 d.C.,
vista la trascrizione sommaria della
distruzione del tempio riportata nel
Vangelo (Lc 21). Elementi contenutistici emergenti sono legati dall’autore all’analisi dei testi che ricorrono
solo nel Vangelo di Luca in quanto
Magdala al sepolcro, non accenna alla
caduta del tempio durante l’episodio della sua purificazione. L’esegeta
accenna un’ipotesi di riformulazione
dell’ordine delle lettere di Giovanni,
sia storicamente sia teologicamente secondo questa successione: 2Gv;
3Gv; 1Gv; Gv. Mentre nelle lettere
i temi sono l’ospitalità e la fraternità, nel Vangelo è sviluppato l’unico
tema della Cristologia. La redazione
di Giovanni sarebbe quindi indipendente dagli altri Vangeli.
Un’unica nota si sottolinea per la
presentazione degli Atti degli apostoli, così come descritta dall’autore,
legata alla teologia lucana, ovvero il
tentativo di includere il più possibile
posizioni diverse. Berger vede il libro
degli Atti come un’opera di mediazione tra il giudaismo farisaico e la
missione ai pagani; tra cristianesimo
antiocheno e gerolosomitano; tra la
missione Petrina e quella Paolina; tra
l’azione dello Spirito Santo e la pianificazione umana (cf 538). Elenca,
tra i motivi per unificare intorno a
un unico autore il terzo Vangelo e gli
Atti, il prologo, l’attenzione ai poveri
e la sostanziale continuità organica
tra Israele e la Chiesa. Circa la data
di redazione è ipotizzato un periodo
tra il 66-67, prima della morte di Paolo, perché non è descritta.
Il contenuto dell’opera in analisi si presenta ricco, affascinante e
stimolante per ulteriori approfondimenti e consegna al lettore la possibilità di comprendere il nucleo essenziale dei Vangeli e degli Atti degli
680
Apostoli. Tra gli aspetti innovativi
del lavoro va evidenziato l’aver affiancato all’analisi mediante i criteri
della critica-storica, quella condotta
tenendo conto della prospettiva giudaica, quale sfondo principale in cui
si sono sviluppate le teologie dei diversi scritti. Un ulteriore aspetto di
novità è il tentativo ben riuscito di
avvicinare all’analisi dei testi evangelici, scritti antico-testamentari,
apocrifi dell’Antico e del Nuovo testamento e gli scritti dei padri, alla
ricerca di conferme per l’interpretazione offerta. Tali approfondimenti consegnano al lettore intuizioni
complementari a quelle di altri studi
dello stesso genere.
Un aspetto critico dell’insieme è
legato alle notizie introduttive ai singoli libri. In particolare si evince la
scarsa argomentazione offerta a sostegno delle ipotesi innovative quali la
datazione dei testi anticipata di diversi anni rispetto a quella generalmente
condivisa e offerta da tanti studiosi.
Ad esempio ritenere Marco redatto
nel 45 d.C., solo per il clima di persecuzione che si respira nel testo e l’atteggiamento accomodante rispetto ai
romani, ci sembra fare un torto alla
previsione della caduta del tempio
(Mc 13), che necessita un contesto
più prossimo all’evento stesso, per
poterlo oggettivamente prevedere. Lo
stesso vale per le altre ipotesi basate
su dati facilmente criticabili, perché
non supportati da corrispondenti argomentazioni.
Bartolo Puca
GIULIO CESAREO
Q
ual è il senso e il contenuto della
vita che l’uomo riceve gratuitamente dall’incontro trasformante con
Cristo? Come si articola il suo «camminare in novità di vita» (Rm 6,4)? È
a questo interrogativo che l’A., docente di teologia morale presso il Seraphicum di Roma, cerca di rispondere con
questo saggio in cui tratteggia «l’ethos
dell’uomo nuovo in Cristo». Anziché
ripercorrere il contenuto dei nove capitoli in cui si organizza il (forse troppo) ricco materiale raccolto, vorrei
segnalare alcune intuizioni particolarmente feconde per delineare il volto
di un’etica – anzi di un ethos, come
opportunamente sottolinea l’A. – che
scaturisce dal battesimo.
Si tratta anzitutto di un ethos della
persona o della libertà. La concezione
antropologica di fondo è definita dalla
polarità fra natura e persona: l’uomo
possiede una natura, ma è una persona.
Se la natura esprime il «che cosa», la
persona fa riferimento al «chi». Quella
dice universalità, datità, necessità; questa singolarità, relazionalità, libertà.
Ordinariamente, in teologia morale,
la persona si pensa come concetto «liminale», per asserirne la dignità inalienabile e inviolabile; qui il concetto di
persona è, potremmo dire, «massimale»: persona è eccedenza sulla natura,
è singolarità, apertura, vocazione. In
una parola, è libertà. Da qui l’idea che
l’uomo è certo persona, ma soprattutto è chiamato a realizzare il compito
di diventare persona, in un processo di
progressiva personalizzazione.
Tutto ciò ha fondamento in Dio: il
concetto di persona, com’è noto, è prima teologico che filosofico. Il fondamento delle riflessioni proposte dall’A.
è Dio non solo perché egli tratteggia
le linee essenziali di un ethos del cristiano, ma nel senso che il suo sfondo
teoretico è quello della grande teologia trinitaria. Appoggiandosi sulla teologia dei primi concili, propone un
ethos trinitario, radicato nella «libertà
amante» delle Tre persone divine. Un
ethos in cui la persona emerge quale
alterità nella comunione e comunione
nella distinzione, libertà nell’amore,
creatività ek-statica (34-35).
In terzo luogo si deve parlare di
un ethos ecclesiale. La Chiesa è realtà personale, «modalità di essere» che
consente l’identità tropica (Zizioulas),
«stile» rinnovato di esistenza, autentica «dimora» dell’uomo. La novità
di vita del cristiano la si può cogliere
nella contrapposizione di due modalità di esistenza: quella biologica, definita dall’A. secondo gli slogan «si salvi
chi può» oppure mors tua vita mea, e
quella ecclesiale, definita dalla «libertà
ipostatica di donare la vita e di ripren-
681
Recensioni
Battesimo e vita morale
L’ethos dell’uomo nuovo in Cristo
Miscellanea Francescana, Roma 2014,
pp. 286, € 16,00
derla di nuovo» (43). In altri termini
si può affermare che la vita nuova non
scaturisce dalla datità della natura, ma
dalla eccedenza della persona che, dimorando in un nuovo stile di esistenza, assume la natura quale strumento
di libertà amante.
L’uomo, chiamato a diventare persona in Cristo, può anche fallire questa vocazione. Può cioè stravolgere,
invertire il rapporto natura/persona,
mettendo la persona a servizio della natura, riducendosi al «che cosa»:
de-ipostatizzandosi. Il rifiuto di mettersi in rapporto con l’altro (Dio, altri, se stessi) è l’aseitas, il peccato radicale (Florenskij). È un vero e proprio
«dramma antidivino» (Balthasar),
che si può comprendere solo a partire dall’amore di Dio che è arrivato
fino in fondo (nella croce). Il peccato diventa così esperienza di morte,
rottura delle relazioni con l’altro, autismo, malattia, schiavitù. Per questo
l’ethos battesimale deve essere ethos di
conversione: il peccato richiede lotta,
purificazione, ascesi. L’A. si ispira alla
«dottrina delle tre vie» (purgativa, illuminativa, unitiva), a cui vengono
associate le tre virtù teologali (rispettivamente fede, speranza, carità), in
un itinerario teso ad acquisire una
seconda natura, che è in realtà l’unica natura umana, l’essere uomini in
e alla maniera di Cristo: una natura,
682
cioè, trasparente, plasmabile dall’ipostasi amante.
Infine, ed è questo il tratto riassuntivo, si può parlare di un ethos escatologico. Nell’agire dell’uomo purificato
e unito a Dio si dà già ora l’irruzione
dell’ottavo giorno nel tempo dell’uomo. È la novità di Cristo, del suo comandamento nuovo (al tempo stesso
per qualità e per definitività): novità
ricevuta e continuamente da rinnovare,
di inizio in inizio (Gregorio di Nissa).
Il testo qui presentato si inserisce
in una ricca tradizione dogmatica e
ecclesiale. Oltre agli autori occidentali (Bonaventura in primis), l’A. attinge
in modo abbondante ai Padri greci e
a filosofi e teologi ortodossi (Evdokimov, Yannaras, Bulgakov, Zizioulas,
ecc.). La consonanza con la tradizione orientale è sottolineata anche
dalla presentazione di un’etica che è
essenzialmente ethos, concepito come
dimora di libertà, esistenza ecclesiale,
e non come codice normativo.
La lettura del saggio, superato l’ostacolo di una certa dispersività del
materiale presentato, si raccomanda
per il respiro spirituale e l’attenzione
pratica. Esso presenta un itinerario
esigente perché l’uomo possa progressivamente «personalizzarsi», fino
a raggiungere la pienezza escatologica
nella vita divina, libertà amante.
Stefano Zamboni
FRANCESCO PAOLO CASAVOLA
C
ostruire una nuova patria giuridica dei cittadini europei fondata
sui valori cardine della democrazia e
sul diritto. Il nuovo orizzonte della
democrazia non può che essere globale perché «il cammino del mondo non
è solo quello verso mercati globali ma
anche verso società globali» (99). È la
riflessione, di grande attualità anche
alla luce degli attuali eventi migratori,
del prof. Francesco Paolo Casavola,
Presidente emerito della Corte Costituzionale e massimo esponente del
Comitato nazionale per la bioetica.
L’analisi, prettamente giuridica, si
sviluppa fra temi di cultura laica e di
cultura religiosa e ha come punto di
partenza quei valori che costituiscono
i pilastri di qualsiasi sistema democratico. Primo fra tutti la dignità dell’uomo che, un anno dopo la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo,
trova il suo riconoscimento più forte,
dal punto di vista giuridico, nel primo articolo della Legge Fondamentale della Repubblica Federale Tedesca
(“La dignità dell’uomo è intangibile.
È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla”) e, dal punto
di vista religioso, nel magistero della
Chiesa con la Pacem in terris. Tappe
storiche importanti verso il riconoscimento del «genere umano non come
specie biologica ma come universo
politico» (18). La dignità della perso-
na umana è anche uno dei temi centrali del Concilio, strettamente collegato, evidenzia l’A., a quello della
libertà religiosa «che più di ogni altra
può portare la pace nel mondo, col
dialogo fra tutti gli uomini che dentro di sé si appartano per ascoltare la
voce di Dio, quale che ne sia l’immagine ricevuta dalle diverse tradizioni e
culture» (29).
I diritti rappresentano un patrimonio culturale che ha trovato un
riconoscimento giuridico dopo un
percorso storico segnato da momenti
anche dolorosi della vita dei popoli,
da difendere dalle insidie dei poteri
che operano ormai in un alveo senza
confini, che “governano risorse planetarie non perimetrabili da frontiere
politiche”: i poteri della scienza, della
tecnologia, dei media.
Le carte dei diritti umani hanno evidenziato l’insufficienza del diritto dei
singoli Stati a garantire i diritti dell’uomo e del cittadino. Quando quei diritti vengono calpestati dalle leggi o dalle
istituzioni l’istanza suprema diventa la
comunità internazionale. L’evoluzione
dei rapporti sociali propone nuove figure di diritti che, scrive il presidente
emerito della Consulta, «richiedono riconoscimento e costituzionalizzazione
meno dai legislatori e più dall’interpretazione dei giudici» (97). Una nuova
giurisdizione europea è l’orizzonte di
683
Recensioni
Tornare alle radici
Per la ricostruzione delle basi della democrazia
Cittadella, Assisi 2014,
pp. 106, € 11,80
riferimento. Un orizzonte nuovo ma
con origini filosofiche antiche legate ai
progetti di pace perpetua di ispirazione
kantiana. In fondo, dopo la Seconda
guerra mondiale, il processo di pace
in Europa è stato avviato seguendo la
strada indicata da Kant, quella del diritto, sulla quale non è possibile tornare indietro.
L’Unione Europea è fondata sui
trattati e su organi rappresentativi degli Stati membri ma anche sulla Carta
dei diritti fondamentali. Il processo
di integrazione dell’UE iniziato con
la Comunità del Carbone e dell’Acciaio è culminato nell’adozione della
moneta unica. Parallelamente la giurisprudenza della Corte di Giustizia,
inizialmente costituita da materie
riguardanti i rapporti commerciali
internazionali, si è evoluta arricchendosi di controversie relative ai diritti
fondamentali. Ciò dimostra che non
basta il mercato per dare vita a una
società europea «perché il mercato
scambia ricchezza non valori sociali
e perché lo spazio economico è globalizzato e non racchiudibile in un
orizzonte europeo» (93). Quindi una
giurisdizione europea può costituire
un passo importante verso l’adozione
di una Costituzione europea e, nell’
“età dei diritti” (espressione che l’A.
mutua da Bobbio), può rappresentare
il fisiologico superamento del limite e
dell’inadeguatezza delle Costituzioni
nazionali di fronte al proliferare di
nuove figure di diritti scaturite dall’evoluzione dei rapporti sociali, soprattutto di quelli di più recente affermazione come il diritto all’ambiente, alla
qualità della vita, alla pace.
La Carta dei diritti fondamentali
rappresenta già un punto di riferimento e una sintesi di figure riconosciute dalle Costituzioni nazionali.
«Può diventare il nucleo di una costituzionale formale in progress se da essa
si fa scaturire il soggetto in cui la cittadinanza europea trova la sua identità giuridica» (98). Il popolo come
insieme giuridico dei cittadini di ogni
nazione che possano trovare garanzie
dei propri diritti in una Patria giuridica comune europea.
Annalisa Latartara
FERNANDO BELLELLI
Etica originaria e assoluto affettivo
La coscienza e il superamento della modernità
nella teologia filosofica di Antonio Rosmini
Prefazione di P. Sequeri e Postfazione di N. Galantino
Vita e Pensiero, Milano 2014,
pp. 377, € 30,00
I
l pensiero filosofico e teologico di
Rosmini, che ha vissuto fasi alterne
nella tradizione culturale dell’Occidente – dal sospetto e dalla condanna
da parte della Chiesa alla sottovalutazione da parte della cultura laica, fino
684
a una parziale (ma ancora limitata)
riabilitazione a partire dalla seconda
metà del secolo scorso – sembra aver
trovato negli ultimi decenni una stagione di rinnovata attenzione. Si sono
infatti moltiplicati, in questo periodo
ideale ed essere morale – tra le quali il
primato va ascritto all’essere morale.
Partendo da questo assunto, Bellelli
si sofferma anzitutto sul rapporto tra
essere-morale e coscienza, mettendo
in evidenza la circolarità tra loro esistente. La coscienza è infatti quella
componente antropologica attraverso
la quale l’uomo, tramite la riflessione
su di sé, perviene alla consapevolezza
sulla moralità delle proprie azioni mediante un giudizio speculativo relativo a un giudizio pratico.
Ma la coscienza, nella sua struttura originaria e nella messa in atto
del giudizio, non è riconducibile unicamente a un dato razionale e di volontà; in essa un ruolo determinante
esercita l’affezione, che fa soprattutto
di essa l’ambito entro il quale l’uomo
percepisce l’elemento religioso come
momento unificante dell’essere morale, e dunque come l’elemento che
conferisce unità alla persona, aprendola alla trascendenza e consentendo
il darsi della rivelazione. Si istituisce
così per Rosmini un nesso stretto tra
rivelazione e coscienza morale; nesso
che ha nell’ontologia dell’affezione il
proprio fondamento assoluto. A rendere possibile questo nesso è il sentimento fondamentale, che sta alla
radice della stessa affezione e che fa
della coscienza il luogo dove si verifica
l’incontro tra la libertà della persona
e il donarsi della grazia. Si realizza in
questo modo in Rosmini una profonda interazione tra filosofia e teologia;
interazione che ha poi un ulteriore
riscontro nel rapporto che il Roveretano evidenzia tra il sistema dell’essere
uno e trino e il mistero trinitario in
cui tale sistema confluisce.
685
Recensioni
soprattutto in campo cattolico (forse anche a seguito della sua beatificazione) gli studi attorno ad alcuni
aspetti della sua ricerca teoretica, la
quale contiene (come viene sempre
più emergendo) elementi di grande
attualità.
Un significativo contributo a
questo lavoro di analisi e di attualizzazione della proposta rosminiana è
costituito dal presente robusto saggio
di Fernando Bellelli, edito di recente nella prestigiosa collana “Ricerche
filosofia” dell’editrice Vita e Pensiero
di Milano, che propone una “nuova
ermeneutica” della concezione filosofico-teologica del Roveretano, legata a
quella che lo stesso Bellelli definisce
come la “quarta fase” della ricerca. La
questione di fondo, che è fatta oggetto
di accurata indagine, è rappresentata
dal rapporto tra filosofia e teologia o,
più specificamente, tra l’apertura della coscienza alla trascendenza e l’accesso alla rivelazione. L’obiettivo perseguito dall’autore è quello di istituire
un confronto tra la ricerca rosminiana
e alcune istanze emergenti nell’attuale
contesto postmoderno, fatte criticamente proprie, sul versante filosofico in particolare da E. Lévinas, e su
quello teologico da P. Sequeri e, più
in generale, dalla Scuola della Facoltà
teologica di Milano.
Il volume, che è suddiviso in due
grandi parti, delinea nella prima la
proposta antropologica di Rosmini
nella sua originalità, mettendo in luce
come l’elemento proprio dell’essere
morale costituisca la “cifra” della sua
riflessione sull’uomo. L’uomo è per lui
il soggetto nel quale si attuano le tre
forme dell’essere – essere reale, essere
Non è difficile, secondo Bellelli,
trovare una conferma di questa impostazione (e un suo ulteriore approfondimento) nella “teoria della coscienza
credente”, che Sequeri pone alla base
della propria teologia fondamentale.
Reagendo alla deriva razionalistica
della modernità, che ha prodotto l’estrinsecismo della grazia da un lato,
e l’immanentismo positivista dall’altro, il teologo milanese coglie infatti
nella costituzione della coscienza, sia
trascendentale che pratica, il legame
fondamentale tra il logos e gli affetti,
e dunque la struttura antropologica
che dà ragione dell’affectus fidei come
proprio della libertà finita e intenzionale all’apprendimento del vero e
del bene. La struttura salvifica della
fede teologale è in tal modo collocata dentro l’orizzonte epistemico della coscienza della verità – sta qui la
convergenza più significativa con la
dottrina rosminiana – determinando
il superamento dell’estrinsecismo della fede e dando conto dell’esperienza
del soggetto storico, che non può essere ridotto al soggetto trascendentale
proprio della modernità.
Bellelli si inoltra successivamente
– è questo il contenuto della seconda
parte del volume – in un’analisi accurata del contributo che Rosmini può
fornire alla cultura posmoderna, contrassegnata dalla crisi della metafisica
classica e della ragione illuminista e
tentata, al tempo stesso, di incorrere
nel fideismo fondamentalista o, inversamente, nell’irrazionalismo nichilista. Essenziale diviene qui il ricorso
alla svolta operata nei confronti della
tradizione classica e moderna dalla filosofia di Lévinas, il quale, collocan686
do l’etica al di là dell’ontologia (anzi
considerandola una nuova ontologia)
mette in stretta connessione il desiderio e il bene, attribuendo al desiderio
un effettivo carattere metafisico e fondando l’esigenza etica sull’esperienza
dell’alterità, che rinvia, come a fondamento, al riconoscimento di un’alterità assoluta. Bellelli sottolinea la compatibilità di questa concezione con la
dottrina dell’essere morale di Rosmini, che – come già si è visto – gode, a
livello antropologico, del primato sulle altre forme di essere. Ma egli mette
soprattutto in evidenza – in questo
andando oltre Lévinas – come, considerando la coscienza quale forma originaria dell’essere morale e rilevando
come in esso converga l’affettività, si
giunga alla convinzione che l’originario affettivo è ontologico e l’ontologico è originariamente affettivo.
Il rimando, secondo Bellelli, è
allora ancora una volta alla teologia
fondamentale di Sequeri, il quale,
partendo dalla constatazione che la
modernità ha trascurato il soggetto
concreto, insiste sull’importanza del
desiderio e sulla necessità di ricuperare una fenomenologia dell’affectus
e una metafisica della coscienza nella
quale si dia la convergenza tra ratio e
fides, facendo interagire l’affettivo e il
simbolico con gli altri fattori costitutivi dell’umano. In questa prospettiva
il sensibile diventa l’ambito da cui la
teologia deve ripartire, rintracciando
nell’estetica l’elemento di connessione tra le discipline filosofiche e quelle
teologiche. Verità razionale e verità
salvifica sono infatti nel kerygma cristiano realtà che devono mutuamente
integrarsi in una prospettiva unitaria.
provocazione aprono inoltre la strada
alla ricerca teologica, specificamente
a quella dell’odierna teologia fondamentale – come è testimoniato dal
costante riferimento di Bellelli alla
proposta di Sequeri – offrendo un apporto decisivo all’approfondimento
delle strutture antropologiche della
fede. Attraverso questa via viene allora, da un lato, fornita al pensiero
teologico contemporaneo una base
fondativa arricchente; e vengono proposti, dall’altro, stimoli fecondi alla
riflessione culturale contemporanea.
La novità di Rosmini rispetto al proprio tempo (e non solo) sta infatti nel
superamento del modello teologico
del duplex ordo e del razionalismo teologico mediante l’instaurarsi di una
fusione di orizzonti tra filosofia e teologia, che consente il superamento
tanto dell’estrinsecismo quanto di
una totale identificazione.
L’essere morale come dato originario e l’ontologia dell’affezione, che
determina le condizioni fenomenologico-trascendentali per pensare Dio,
fanno sì che l’accesso alla rivelazione
non venga concepito come estraneo
alla realtà della coscienza, ma venga
pienamente integrato in essa. L’esperienza della grazia sperimentata dalla
coscienza è perfettamente sintonizzata con questo processo: l’originaria
struttura affettiva di quest’ultima si
apre, in modo connaturale, all’esperienza simbolico-sacramentale della
charitas-agape, che è la trascrizione
teologicamente più fedele dell’evento
cristiano.
Il sistema aperto di Rosmini, ripensato alla luce dell’apporto della ricerca
fenomenologico-personalista odierna,
687
Recensioni
A creare le basi della possibilità di
questa integrazione – è questo l’assunto di Bellelli – concorre in misura
decisiva l’etica dell’incontrovertibile,
che ha nella percezione dell’alterità –
ritorna qui il pensiero di Lévinas – la
propria specificità. La fede cristiana
affonda in questo humus le proprie
radici: il rapporto con Dio è infatti
concepito in essa nella forma della
charitas-agape, che è la realizzazione
più alta della relazionalità. La riflessione di Rosmini è pienamente riconducibile a questa visione: l’essere morale, che è la componente ontologica
dell’antropologia, rinvia, a livello filosofico, al pulchrum, che ha una chiara dimensione metafisica e religiosa e
apre al trascendentale assoluto della
charitas-agape, che definisce, a livello
teologico, la natura del Dio-Trinità.
L’approccio ermeneutico di Bellelli alle opere di Rosmini – in particolare al Trattato sulla coscienza, alla
Teosofia e all’Antropologia soprannaturale – ha dunque, in definitiva, lo
scopo di interpretare l’intenzionalità
del suo pensiero, traducendolo nel
codice della postmodernità. Si rende
così evidente l’originalità e l’attualità
di una riflessione che, prendendo sul
serio la soggettività nella sua eccedenza rispetto a qualsiasi ordine oggettivo
e, nel contempo, in quanto orientata, grazie all’apertura della coscienza,
alla trascendenza, sollecita il pensiero
postmoderno a riacquisire la fiducia in una capacità razionale, che ha
nell’essere morale e nella cifra dell’affezione una portata ontologica.
L’attenzione privilegiata alla coscienza, e alla coscienza credente, e il
passaggio attraverso Lévinas e la sua
non può, in definitiva. che condurre
all’elaborazione di una “teologia filosofica”, destinata a superare gli schemi della classicità senza incorrere nei
rischi del soggettivismo e del relativismo. Si tratta, perciò, di un contributo
innovativo che fa del filosofo e teologo
roveretano un anticipatore della svolta
antropologica del Vaticano II, la quale, superando l’apologetica allora dominante, ha dato il via all’elaborazione
di una forma di ragione teologica che
offre un servizio all’intelligenza della
fede nel pieno rispetto della dimensione misterica che le è connaturale.
È merito di quest’opera di Bellelli l’aver fornito una originale chiave
interpretativa del contributo di un
pensatore di grande rigore quale è Rosmini, la cui importanza è a tutt’oggi
sottovalutata e che può, invece, costituire – come già si è ricordato – un
utile riferimento per lo sviluppo di un
dialogo costruttivo tra cristianesimo
e cultura odierna. Si sarebbe (forse)
potuto auspicare un’esposizione più
lineare e l’uso di un linguaggio meno
criptico, nonché un periodare più
snello. Ma sono appunti del tutto secondari, che nulla tolgono al valore di
un saggio, che costituisce un essenziale apporto non solo all’interpretazione del pensiero di Rosmini, ma, più
in generale, alla ricerca filosofico-teologica contemporanea.
Giannino Piana
M. COPPOLA – G. FERNICOLA – L. PAPPALARDO (EDD.)
Dialogus
Il dialogo filosofico fra le religioni nel pensiero
tardo-antico, medievale e umanistico
Città Nuova, Roma 2014,
pp. 619, € 50,00
C
ome si evince dal titolo, il focus
dell’opera è quello di verificare,
in un arco di tempo di circa milletrecento anni, il ruolo della filosofia
nell’esercizio del dialogo tra i grandi
monoteismi della storia europea: il
cristianesimo, l’ebraismo e l’islam.
All’origine della ricerca, vi è l’intento di accertare se, fin dall’epoca tardo-antica, si possano scorgere delle
tracce di una riflessione filosofica – e
quindi basata sulla ragione – che tenti di individuare le principali verità
condivise dalle tre grandi religioni.
In altri termini: andando oltre alle
688
differenze di ciascuna confessione
religiosa, nel corso dei secoli si è riusciti – attraverso la filosofia – a trovare un terreno comune, sul quale
innestare una forma di confronto? Il
volume raccoglie una serie di studi su
quelle che sono ritenute le opere più
significative del dialogo interreligioso dall’età tardo-antica fino all’umanesimo. L’Introduzione, curata da G.
D’Onofrio, esplicita lo scopo della
raccolta ed il significato della categoria di “paradigma medievale”. Tale
categoria, secondo D’Onofrio, serve
ad indicare il riconoscimento di una
Va riconosciuto innanzi tutto
l’interesse della raccolta e il valore di
numerosi contributi, che mettono
a disposizione del lettore testi noti e
meno noti e permettono di apprezzare un percorso millenario di tentativi di incontro tra le grandi religioni,
propiziato dal ricorso alla ragione. Ci
permettiamo però alcuni rilievi, quasi
per avviare un ipotetico “dialogo” con
i curatori del volume. Il primo rilievo concerne la categoria di dialogus,
che forse meritava una più distesa
contestualizzazione. È vero che qua
e là i singoli interventi, e soprattutto
l’Introduzione, tentano di precisarne il significato ma avrebbe giovato
un’inquadratura più puntuale e complessiva, magari in un saggio d’apertura. Il lasso di tempo preso in esame
– da Giustino alla Riforma – non ha
aiutato a individuare una categoria
univoca di “dialogo”. Probabilmente,
restringere il contributo a uno spazio di tempo più circoscritto (alto o
basso medioevo) avrebbe facilitato il
compito. Un po’ sorprende l’assenza
di qualsiasi riferimento allo studio:
C. Cardelle de Hartmann, Lateinische
Dialoge 1200-1400. Literaturhistorische Studie und Repertorium, Leiden-Boston 2007. La poderosa opera
analizza, all’interno di un periodo più
facilmente dominabile, le varie formae
assunte dal genere letterario dialogus.
A nostro avviso, l’approccio ermeneutico è quello da privilegiare ed aiuta a
leggere con più equilibrio il linguaggio “controversistico” di alcuni autori
medievali. Ci riferiamo, in particolare, al saggio di A. Galonnier, dall’eloquente titolo: La duplice impostura
del richiamo al dialogo filosofico nel
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Recensioni
duplice via di accesso alla verità: la
via parziale e limitata è rappresentata
dalla ragione (lumen rationis); quella
piena e indefettibile è data dalla fede
(lumen fidei). Questa visione, tendenzialmente dicotomica, della realtà caratterizzerebbe il pensiero medievale
non solo cristiano ma anche ebraico
e musulmano. Tale approccio, sempre
secondo l’A., non impedisce ai grandi
pensatori medievali, come ad esempio
Tommaso d’Aquino, di valorizzare la
ragione e la filosofia quali preziosi
strumenti preparatori (preambula)
per accogliere il dato rivelato. Inoltre, sempre alla luce della lezione del
Dottore Angelico, la ragione e la filosofia svolgono la funzione di verifica
interna (aletologia) della congruenza
delle verità teologiche e di smascheramento delle obiezioni degli avversari, cogliendone gli errori di ragionamento. «La concezione medievale del
rapporto tra ragione e rivelazione, tra
scienza e fede», seppur caratterizzata
dall’uso strumentale e ancillare della
filosofia e della ragione, può essere
assunta «come un osservatorio particolarmente utile e stimolante per
suggerire condizioni e metodo anche
alla ricerca teologica attuale, inevitabilmente impegnata sul fronte del
dibattito con le religioni» (53). All’Introduzione fanno seguito ben diciotto
contributi, che, attraversando la storia
della cultura occidentale dal II sino al
XVI secolo, studiano una ricca panoramica di autori: Giustino, Temistio,
Pier Damiani, Gilberto Crispino,
Ruperto di Deutz, Abelardo, Tommaso d’Aquino, Pico della Mirandola,
Bartolomeo de Las Casas, Seripando,
solo per citarne alcuni.
‘Contra sectam sive haeresim Saracenorum’ di Pietro Venerabile (323-352).
La ricerca di una forma di dialogo,
basato su ragioni filosofiche, in Pietro
Venerabile, è effettuata dall’A. senza
alcuna “simpatia previa” e sembra caratterizzata da aspettative tipiche del
pensiero contemporaneo, che non
possono essere rintracciate tout-court
in un pensatore medievale. Ci sentiamo invece in sintonia con altri autori
della raccolta e in particolare con R.
Mocerino, che nel suo saggio La lettera di Pio II a Maometto II (429-456)
esordisce avvertendo della necessità di
una contestualizzazione storica: «Date
queste premesse, si pone un primo
obiettivo alla lettura dell’epistola:
quello di sottrarsi necessariamente ai
pre-giudizi, nel senso proprio di svincolarsi da una forma mentis che sottintende già specifici criteri e condizioni
per il dialogo tra credi differenti e tra
religione e laicità» (430). In secondo
luogo, a nostro avviso, suscita qualche
perplessità la stessa categoria di “paradigma medievale”, se non altro per il
fatto che l’approccio alla verità attraverso le due vie della ragione e della
fede non pare esclusivo appannaggio
del medioevo, ma anche di altre correnti di pensiero teologico, che sono
giunte sino al XX secolo. Entrando
più nel merito, viene da chiedersi se
il tentativo di analizzare il contributo
dei singoli autori, separando gli argomenti di ragione (filosofici) da quelli
di fede (teologici), sia il più adeguato.
690
In altri termini, ci chiediamo se la distinzione tra ratio e fides sia davvero
di aiuto: se, da un lato, è innegabile
che ci sia una distinzione formale tra
le due forme di conoscenza, dall’altro
è vero – come in più occasioni viene
ribadito nel volume – che soprattutto nell’epoca medievale la fides non è
mai senza la ratio e la ratio non è mai
pensata autonomamente, a prescindere dalla fides. Il contributo – citato ma
forse non adeguatamente valorizzato
– di M.L. Arduini (Ruperto di Deutz
e la controversia tra Cristiani ed Ebrei
nel secolo XII, con testo critico dell’“Anulus seu dialogus inter Christianum et
Iudeum”, a cura di R. Haacke, Roma
1979) si muove sullo stesso binario
e presenta la stessa ambiguità. Forse
varrebbe la pena di riconoscere che
la distinzione, non solo formale, tra
ragione e fede è un fenomeno tipico
dell’epoca moderna e pertanto distinguere “argomenti di ragione” da
“argomenti di fede” non corrisponde
del tutto al sentire dei pensatori medievali. Da questo punto di vista, ci
sembra emblematica la prospettiva di
Abelardo, il più “filosofo” tra i teologi,
ricordata nel volume da M. Coppola:
«A sotterraneo governo del Dialogus
opera un ideale di contiguità tra filosofia e cristianesimo, imperniato sulla
unicità del lògos e del vero. […] La razionalità intera si è manifestata soltanto in e tramite Cristo […]» (La «ratio»
nelle ‘Collationes’ di Abelardo, 251).
Alessio Magoga
ARISTIDE FUMAGALLI
U
no sguardo realista e appassionato sulla realtà matrimoniale
del nostro tempo, la scelta tematica
del Sinodo degli anni 2014 e 2015, il
dibattito voluto e promosso da papa
Francesco nella Chiesa sulle questioni legate alla coniugalità hanno collocato il tema della famiglia al centro
dell’interesse della comunità credente. Anche se spesso la divulgazione ha
colto ben poco della posta in gioco,
talvolta strumentalizzando le posizioni degli uni contro quelle degli altri e
rileggendo tutto in categorie di potere
e di influenza, la discussione sul matrimonio e sulla famiglia è nata e si
è sviluppata all’interno di coordinate
teologiche e pastorali molto precise.
Non a caso, tra gli interpreti più rilevanti di questo scambio vi sono W.
Kasper e J. Ratzinger, sulla cui autorevolezza teologica nessuno avanzerebbe dubbi. In questo senso, il volume
di Fumagalli è un testo prezioso per
leggere, alla luce di una fede incarnata nella storia, i fenomeni culturali e
religiosi che stanno attraversando la
nostra società e che interpellano i cristiani in modo profondo, forse addirittura inedito rispetto al passato.
Fumagalli struttura il suo saggio a
partire da una consapevolezza di fondo: la Chiesa, ogni volta che è emersa
una questione etica, ha sempre cercato
una via al di là del rigorismo e del las-
sismo, in forza dell’autorità di legare
e sciogliere conferita dal Signore. Tale
atteggiamento è propriamente ciò
che è richiesto per leggere la situazione che si presenta ai cristiani di oggi:
«Lungi dal fissarsi in un rigore dottrinale che esclude a priori ogni nuovo
adattamento pastorale, come pure dal
cedere a un lassismo pastorale che dimentichi la dottrina tradizionale, la
chiesa è oggi nuovamente sfidata a
intraprendere la via che, nella continuità della tradizione, sappia incedere
pastoralmente a partire dal punto in
cui lo Spirito l’ha recentemente condotta nella comprensione dottrinale
della verità dell’amore matrimoniale, e di lì determinare la conferma o
l’eventuale modifica della disciplina
pastorale» (36-37). È questo, in definitiva, il motivo ultimo che spinge i
credenti di ogni generazione ad accettare come sfide (come sottolinea il titolo del libro) quelle che sono trasformazioni epocali nella comprensione
di alcuni dati, anche secolari, della
tradizione e della prassi della Chiesa.
Interrogarsi sulla disciplina cristiana,
ed eventualmente ripensarla, non è
quindi una resa alla cultura del tempo, o addirittura il tradimento di un
deposito intangibile, ma, al contrario,
una necessità intrinseca della stessa
parádosis della fede.
Il volume si struttura in tre parti.
691
Recensioni
Il tesoro e la creta
La sfida sul matrimonio dei cristiani
Queriniana, Brescia 2014,
pp. 169, € 12,00
Nella prima (Inquadratura), l’A. colloca gli interrogativi relativi al matrimonio nell’alveo di una rinnovata
attenzione pastorale, al di fuori del
quale essi perderebbero gran parte del
loro significato. Accanto a un’analisi
teologico-fondamentale sul dinamismo della tradizione, l’A. si sofferma
esplicitamente su alcuni testi del Vaticano II come imprescindibile bussola per il nostro tempo, e rilegge, alla
luce del dettato conciliare, anche la
riflessione del magistero successivo,
in modo particolare quello di Paolo
VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Colpisce, ed è certamente
merito di Fumagalli che li ha riportati
alla luce, la lucidità dei numerosi interventi del papa emerito, tra i primi
autori a prendere atto con intelligenza
ecclesiale che andava posta una “questione matrimoniale” con cui interrogare la riflessione eminentemente
teologica. In particolare, un passaggio
di questa sezione è imprescindibile
per qualsivoglia giudizio di merito si
possa avere sull’argomento: «L’attuale
crisi dei matrimoni sacramentali non
ha peraltro nella loro instabilità, certo maggiore che in passato, il criterio
di giudizio, per lo meno il criterio di
giudizio cristiano. Quest’ultimo non
dipende dal solo fatto che i due coniugi permangano insieme, ma si
fonda sulla qualità cristiana della loro
relazione, ovvero sul loro amarsi così
come Cristo, per mezzo del sacramento, consente ed esige che essi si amino. L’odierna instabilità, come pure
la precedente stabilità dei matrimoni,
sono un indice sociologico che descrive un fenomeno, ma ancora non ne
spiega la causa. Da che cosa dipende692
va la maggiore stabilità dei matrimoni
del passato? Da una maggior corrispondenza delle coppie alla grazia del
sacramento? Se così fosse stato, il raffronto tra la qualità delle relazioni tra
marito e moglie e tra genitori e figli
vissute in passato e al presente dovrebbe mostrare il più alto grado di amore
cristiano dei matrimoni di un tempo.
[…] Si può, tuttavia, negare che nei
matrimoni del passato il rapporto tra
i coniugi sia stato spesso vissuto con
l’uno – il marito – in posizione di dominio sull’altro – la donna?» (18-19).
Nella seconda sezione (Messa a
fuoco), il teologo milanese richiama la
comprensione cristiana del matrimonio, offrendo una rilettura del dato
biblico vetero e neotestamentario e
mostrando come la Chiesa abbia autenticamente interpretato nei secoli
la verità e la dignità di una peculiare
vocazione battesimale.
Nel terzo momento (Prospettive),
il più ampio e complesso, l’A. prende
in considerazione svariati temi legati al sacramento del matrimonio nel
tentativo di problematizzare lo status
quaestionis della disciplina cattolica e,
nello stesso tempo, suggerendo alcuni
sentieri di superamento. Si tratta di
una sezione particolarmente feconda
sia perché si offre una lettura accessibile anche ai non addetti ai lavori
delle complesse questioni che l’A.
solleva, sia perché Fumagalli riesce
in poche pagine a non sottrarsi ad
alcuna domanda spinosa: il rapporto
tra fede battesimale e matrimonio sacramentale; la validità e la nullità del
matrimonio; la cura dei matrimoni
feriti; l’indissolubilità e l’eventuale
fallimento del matrimonio; l’esclusio-
Il volume di Fumagalli, lungi
dall’imporre risposte definitive ed affrettate, è piuttosto un equilibrato invito alla riflessione che riesce a coniugare con efficacia il rigore dell’analisi
teologica con la passione della prossimità alle situazioni di fragilità e di fatica relazionale. Il risultato è uno studio
agile, irrinunciabile per chi opera nella
formazione dei fidanzati o nei consultori familiari, ma anche per tutti coloro che vogliano mettere a fuoco con
strumenti adeguati il quadro di comprensione della famiglia nel panorama
odierno senza cedere a facili nostalgie
o a scorciatoie non veritiere.
Enrico Brancozzi
Recensioni
ne di nuove nozze sacramentali; l’ammissione ai sacramenti e il riconoscimento ecclesiale delle nuove unioni.
La questione chiave che si presenta
alla Chiesa di oggi è il ripensamento
del rapporto tra la fede personale dei
nubendi e il matrimonio sacramentale: «Lo scarto tra la dottrina conciliare
della chiesa circa il sacramento del
matrimonio e la diffusa crisi dei
matrimoni cristiani sollecita a fuoriuscire da una comprensione acritica del
principio canonico secondo il quale
“tra i battezzati non può sussistere
un valido contratto matrimoniale che
non sia per ciò stesso sacramento”
(CIC, can 1055 § 2)» (87).
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