La responsabilità individuale come responsabilità sociale di Tiziana Agostini Premessa: il “caso Schettino” e la deriva individualistica Venerdì 13 gennaio 2012 salpa dal porto di Civitavecchia la nave Concordia, della compagnia di navigazione Costa, per la prima tappa della crociera “Profumo degli agrumi”. Ci sono a bordo 3.216 passeggeri e 1.013 membri dell'equipaggio, per un totale di con 4.229 persone. Al comando della nave il cinquantaduenne Francesco Schettino. Alle ore 21.42 il transatlantico naufraga nelle acque dell'Isola del Giglio: all'opposto del comandante che mette in salvo i suoi e affonda con la nave, è Schettino il primo che deve salvarsi, come emergerà poco tempo dopo la tragedia. In conseguenza del sinistro si conteranno 30 morti, 2 dispersi e 110 feriti. Al di là dei lutti, del disastro ambientale, dell’immagine ferita dell’Italia a livello internazionale, del danno economico, ciò che lascia esterefatti è proprio l’immediata reazione del comandante Schettino. Si è trattato di un caso isolato e non ripetibile? Certamente la vicenda “Schettino” ha oltrepassato un limite del sentire comune, come mai accaduto in precedenza, ma a voler allargare l’indagine sui comportamenti autocentrati, in realtà si registra nel nostro tempo un progressivo venir meno della responsabilità come valore che fa capo alla persona. Scopriamo insomma che il nostro comandante si pone dopo una serie non breve e probabilmente non chiusa di progressive irresponsabilità. Se pensiamo agli scandali finanziari registrati tra la fine secolo XX e inizio XXI – ricordiamo l'improvviso crollo della Enron, il gigante energetico texano finito in bancarotta nel dicembre 2001, o al crac della Parmalat, il più grande caso di bancarotta fraudolenta e aggiotaggio perpetrato da una società privata in Europa - non si sono verificati comportamenti occasionali di disonestà, imputabili a persone che avevano sbagliato e avrebbero potuto pentirsi, ma perversioni morali permanenti, che se non fossero state scoperte sarebbero continuate perché non generavano nei soggetti sensi di colpa. Queste derive estreme naturalmente hanno il carattere della patologia, ma l'accelerazione imposta alla società dalla rivoluzione informatica e dalla competizione del mercato tende a generare questi comportamenti piuttosto che combatterli. Le persone dotate di serietà, cautele, scrupoli, sono accusate spesso di rallentare i processi decisionali, facendo sfumare opportunità che si devono invece cogliere al volo; nelle carriere e nella selezione della classe dirigente si favoriscono persone scaltre, veloci, il cui pragmatismo in realtà cela l’omissione di remore morali. A questa darwiniana selezione sociale al negativo si accompagna nelle nostre comunità il venir meno dei legami interpersonali e dello spirito di solidarietà tipico della civiltà contadina. Nella dimensione rurale del vivere, scandita da ritmi ordinari e caratterizzata dalla sedentarietà, un individuo nel corso della sua vita entrava in relazione al massimo con due-trecento persone e si sentiva in qualche maniera ad esse obbligato: oggi che metà della popolazione vive in metropoli le incontra in un giorno. Vedere troppe persone significa non riconoscerle, non distinguerle e dunque non potersi rispecchiare in esse creando una empatia e conseguenti legami diretti o sociali. Poiché l'individuo per crescere ha bisogno di imitare l’altro, il non poter emulare i propri simili determina un senso di totale smarrimento. La più grave forma di solitudine è infatti quella del singolo risucchiato dalla folla indistinta. Meglio allora per lui ripiegarsi, isolarsi per non essere travolto da una sorta di inondazione permanente, perché evitare gli altri può diventare anche un modo per sopravvivere. E se un po’ di anni fa i ragazzi si erano messi gli auricolari per utilizzare il nuovo mezzo di riproduzione sonora inventato, il walkman, oggi il cosiddetto sounding out, il separarsi dalla colonna sonora della città genera forme progressive di autismo digitale. Non ci interessano più i vicini di casa o i vicini di sedile, in treno piuttosto che in metropolitana. Perdiamo la curiosità per l’altro, reprimiamo i sentimenti, per timore di esporci, preferiamo rimanere centrati su noi stessi, passando il tempo a consultare gli schermi dei nostri strumenti tascabili la cui funzione di telefoni è solo una delle possibilità che ci offrono. Il pronome inglese io “I”, come osserva Aime nel suo saggio La morte del prossimo (Einaudi, 2009), non a caso è divenuto il prefisso dei nuovi prodotti multimediali di largo consumo più ambiti: I-Phone, I-Pad, I-Mac. La lontananza dagli altri non è solo una scelta che va ascritta alla libertà dell’individuo, ma un effetto indotto dalle condizioni odierne di esistere, e determina una situazione di privazione relazionale, capace di generare patologie del soggetto e della collettività. L'individuo solo incontra la depressione e, in un circolo vizioso, sente venir meno la forza e la spinta per andare incontro all'altro. Siamo di fronte ad una sorta di declino di civiltà e se già altre epoche hanno conosciuto il declino, il nostro è quello di più vaste proporzioni, visto che il degrado umano generato dall’urbanesimo e da una certa crescita economica coinvolge il pianeta intero. Ma guardare ancora una volta alla storia, trovando analogie con il nostro tempo, può fornire qualche spunto per tracciare un cammino nuovamente positivo. Pensiamo ad esempio al declino dei Romani, certamente determinato dall'arrivo dei barbari, ma anche da una crisi interna della società, una vera e propria crisi morale, come ricorda Agostino nella Civitate Dei, che aveva spostato la mentalità comune dalla veritas alla vanitas. E le due logiche si contrappongono perché la vanità dà il primato all'apparenza, alla maschera rassicurante che indossiamo e dentro alla quale perdiamo la nostra unicità di persone, mentre la verità fonda le sue scelte sui valori permanenti, sulla dignità del soggetto. L’effetto “butterfly” Di fronte allo smarrimento epocale che stiamo vivendo, alla società liquida dove anche i valori perdono solidità, come dimostrato da Zygmund Baumann nei diversi scritti dedicati a questo tema, anche quando ci sentiamo animati dalle migliori intenzioni, può sembrare difficile o velleitario reagire, per non trasformarci in novelli don Chisciotte in lotta contro la deriva sociale che fa sembrare monete fuori corso la responsabilità individuale e il valore della relazione interpersonale. Ma forse, anche in quanto rotariani, è necessario che guardiamo dentro a noi stessi e anziché accusare l’altro o gli altri, la società o il destino cinico e baro, ci assumiamo la responsabilità del nostro tempo. Una responsabilità che parta da una decisione personale e assuma carattere sociale e politico, per gli effetti che determina nella polis, quella locale nella quale operiamo e quella globale a cui tutti apparteniamo. Assumersi la responsabilità come gesto volontaristico senza aspettare che altri provvedano – persone o istituzioni che siano – significa automaticamente svolgere nei fatti quella funzione di leadership, a cui ogni rotariano ambisce, ma che così gli può derivare non tanto da un desiderio di supremazia sull’altro, ma dalla capacità di mettersi in gioco. La vera funzione del leader è propria di colui che evita di stare a guardare e prendere in mano la situazione per passare all’azione, a costo anche di compiere un gesto solitario ed isolato, che però mette in moto una catena positiva di reazioni. Non dobbiamo temere che i nostri comportamenti si disperdano nella massa indistinta delle persone come se le nostre azioni fossero stille d’acqua nell’oceano, ma avere la convinzione che dal nostro agire dipenda la salvezza dell’umanità. Questo tipo di comportamento è chiamato, come è noto, effetto butterfly: un battito d’ali di una farfalla a Macao o a Hong Kong può far crollare un grattacielo a Chicago o la Borsa di Wall Street. La responsabilità sociale è in primo luogo un fatto individuale e in questa dimensione va declinata: ammoniva ancora nel 1966 don Lorenzo Milani in una lettera alla studentessa napoletana Nadia Neri che lo avrebbe voluto riferimento collettivo: «So che vorreste che io fossi un uomo pubblico a disposizione di tutti … non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola. Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina, forse qualche centinaio. E siccome l'esperienza ci dice che all'uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più». Il magistero di Paul Harris In un contesto non molto differente dalle metropoli di oggi, caratterizzate da polverizzazione sociale e assenza di legami comunitari, si trovò ad operare Paul Harris nella Chicago di inizio Novecento, la più grande new town del secolo scorso, passata nel volger di pochi decenni, dopo il devastante incendio del 1871, da poche migliaia di abitanti ad oltre un milione, grazie al tumultuoso sviluppo economico registrato in quegli anni. Lo stesso Harris vi era approdato dalla provincia, in cerca delle opportunità professionali che la città sembrava offrire per la sua carriera di avvocato, ma a prezzo dello sradicamento e della solitudine. Proprio a Chicago egli maturò l’idea di creare non una nuova associazione, ma una associazione nuova. Facendo leva sulla tradizionale inclinazione americana all’associazionismo - rilevata ancora all’inizio dell’Ottocento da Alexis de Tocqueville nel suo saggio La democrazia in America quale carattere costitutivo della società dei pionieri degli Stati Uniti –, ma superando l’idea di associazione fondata su persone affini per orizzonte ideale o scopo professionale, egli mise insieme soggetti con caratteri culturali, credo e attività lavorative differenti. Lo scopo non era infatti perseguire una unità di intenti, ma una differente modalità relazionale, basata sull’idea della sociabilità, ovvero sulla capacità di stare insieme mettendo in primo piano non le identità personali ma i bisogni individuali che richiedono di essere soddisfatti. Le condizioni dell’amicizia rotariana vengono dunque legate al’idea di farsi carico dell’altro non in quanto uguale a me, ma in quanto differente, eppure accomunato dalle stesse necessità, reali e ideali. L’idea del servire è la naturale conseguenza di questo pensiero, che rifiuta la dimensione della carità, ma sviluppa quella di sentirsi responsabili attivamente della comunità nella quale ci è capitato di vivere. Il prestigio personale, a cui Paul Harris per primo ambisce, oltre ad una esistenza ricca di rapporti, scaturisce in conseguenza a questo responsabilità individuale che il rotariano deve assumere. Paul Harris non è né un missionario, né un filantropo, né un utopista, ma una persona che si è interrogata cercando di dare soluzioni personali a bisogni anche collettivi, cancellando il deserto sociale di Chicago, come egli stesso definisce il clima nel quale si era trovato ad operare. Le risposte che si offrono alla comunità attraverso l’assunzione personale di responsabilità qualificano la persona e la fanno diventare un punto di riferimento della comunità nella quale opera. Il sodalizio rotariano, va davvero sottolineato, non nasce fortuitamente, ma in conseguenza ad un puntuale interrogarsi in primo luogo del suo fondatore: come afferma Paul Harris nella sua autobiografia My road to Rotary gli elementi che lo avevano generato erano stati un misto di idealismo, ambizione, entusiasmo e determinazione. La responsabilità rotariana Ancor oggi essere rotariani significa assumere un volontario codice etico in cui l’impegno personale è la cifra distintiva dell’interesse per gli altri. Il rotariano nel suo servire mette da parte le visioni provvidenzialistiche e guarda alla comunità per quello che essa rappresenta o, potremmo dire, parte dalla dimensione umana nella sua finitezza con l'intento di trascenderla. Punto di partenza è l’egualitarismo nel quale è chiamato a credere, simboleggiato dalla ruota dentata, che rappresenta una forza semplice ma irriducibile. Il rotariano impara a stare con gli altri a partire dai commensali che siedono al suo tavolo per abituarsi a stare in relazione col mondo: solo assumendosi la responsabilità del vicino ci si può far carico dell’intero pianeta, non viceversa. Già ammoniva in tal senso Jean Jacques Rousseau, quando affermava che un filosofo ama i Tartari per essere dispensato dall'amare i propri vicini, così come oggi è più facile adottare un bambino a distanza che guardare la povertà sotto casa, perché la solidarietà ravvicinata spaventa e compromette. La vicinanza è invece una diga naturale a protezione dei sentimenti, del nostro essere umani; sconfigge l’insensibilità e l’egolatria per costruire le condizioni di una civil society. Non c’è spazio nel Rotary per gli Schettino di turno. Il rotariano non abbandona la nave e i suoi passeggeri al loro destino, non si volta, o non dovrebbe voltarsi dall’altra parte quando vede un problema che gli si presenta, ma se ne assume la responsabilità, in primo luogo come fatto personale. È orgoglioso di appartenere ad una elite, selezionata non dal sangue, dal denaro o dalla furbizia, ma dal talento, dall’interesse per l’altro e dalla dedizione alla comunità. Egli sa, come afferma Enzo Bianchi in L’altro siamo noi (Einaudi, 2010) che: «ritrovare la propria qualità di cittadini significa essere attori di una storia collettiva, capaci di immaginare se stessi assieme agli altri, tesi a riscoprire valori comuni e principi etici condivisi, attraverso i quali edificare la polis, rifiutando che sia la forza a prevalere. Certo questo richiede volontà». Buon lavoro a tutti noi!