N e w s l e t t e r Novembre 2005, Anno 2, Numero 10 Sociologia e Ricerca Sociale Scrivi alla redazione >> [email protected] Ricerca Sociale R i c e r c a 5 S o c i a l e Prosegue, con questo articolo, la rubrica dedicata ai percorsi lungo i quali i docenti della nostra facoltà e, più in generale, dell’Ateneo torinese sono diventati sociologi e sociologhe. Questa volta abbiamo intervistato la professoressa Chiara Saraceno, titolare della cattedra di Sociologia della Famiglia, coordinatrice del dottorato in Ricerca Sociale Comparata, oltre che Presidente del Centro interdisciplinare di ricerche e studi delle donne (CIRSDe). Intervista a Chiara Saraceno di Michele Manocchi D: Professoressa Saraceno, come si è avvicinata alla sociologia? R: Casualmente. Io appartengo a una generazione che non ha incontrato la sociologia nel proprio percorso formativo. Non c’era neanche un insegnamento di sociologia all’università, quando l’ho fatta io. Io sono laureata in filosofia, e credo che tra i sociologi della mia generazione siano tre i percorsi verso la sociologia più rappresentati: chi proveniva da filosofia, chi da lettere e chi da economia. Quella filosofica è un tipo di formazione che io ritengo molto importante. Pensi che quando sono andata a insegnare all’Università di Trento alla fine del 1968 – un fatto che ha deciso della mia vocazione sociologica – gli studenti allora in agitazione chiedevano proprio corsi di filosofia dato che per lo più provenivano da istituti tecnici e non avevano mai studiato filosofia. Eppure si rendevano conto che dietro il materialismo storico, dietro Marx, come dietro la scuola di Francoforte – gli autori e la scuola di pensiero cui si ispirava gran parte del movimento – c’era una tradizione di pensiero filosofico che non poteva essere ignorata. Al di là di questa notazione biografico-generazionale, In generale credo che la preparazione filosofica costituisca una buona base per destreggiarsi tra teorie e concetti, e credo aiuti anche ad assumere un certo rigore intellettuale. Ciò detto, la mia propensione sociologica, se così si può dire, è emersa in realtà già con la tesi di laurea. Io mi sono laureata in filosofia teoretica alla Cattolica di Milano col professor Bontadini, con una tesi nata dalla lettura di Weber, e in particolare da L’etica protestante e lo spirito del capitalismo: ho cercato di ricostruire alcune delle teorie che Weber presentava. La mia tesi era molto complicata, andava da Johnatan Edwards a William James, dal puritanesimo al pragmatismo americano, fino a Dewey. Cercavo una continuità tra questi autori e le loro idee, tra il puritanesimo e il pragmatismo. Quindi questo è stato il mio primo contatto con la sociologia. Ma non credo che sia per questo che sono diventata sociologa. D: E cos’è che l’ha portata verso la sociologia? R: Ho iniziato l’intervista con l’avverbio “casualmente”: credo che sia importante, soprattutto per i giovani studiosi, considerare quanto ci sia di casuale nelle vicende biografiche e professionali di ognuno di noi. E con questo mi vengono in mente anche alcuni discorsi che sento oggigiorno sulla precarietà della situazione dei giovani e sulla mancanza di quelle certezze che invece caratterizzavano, a dire di alcuni, la vita lavorativa e privata fino a qualche decennio fa. Io non sono d’accordo con questa visione e credo invece che anche allora, ai miei tempi (gli anni sessanta-settanta), la precarietà fosse una condizione “normale” dei giovani. Solo che era considerata in positivo, come apertura di possibilità. E ciò era reso possibile, anche psicologicamente, non perché ci fossero maggiori strumenti di protezione dai rischi – anzi forse ce ne erano meno – ma perché eravamo in un contesto in cui prevaleva l’idea e l’orizzonte simbolico dello sviluppo, del miglioramento. Ma veniamo alla sociologia. Mi sono laureata nel 1965; per un paio d’anni ho insegnato in un liceo e intanto facevo l’assistente “volontaria” in filosofia teoretica, che era l’unico modo per restare nell’ambiente universitario. In quegli anni è arrivato alla Cattolica Alberoni, con la prima cattedra di sociologia, affiancato successivamente da Baglioni. Alberoni fece una cosa intelligente, e se si vuole dovuta: voleva costituire un nucleo di ricercatori in sociologia e iniziare ad insegnarla a Milano. Per questo decise di raccogliere giovani ricercatori e assistenti, provenienti da molte e diverse discipline. Ne faceva parte anche mio marito, anch’egli laureato in filosofia e anch’egli assistente in filosofia teoretica. Questo gruppo era composto da soli uomini. A quei tempi la condizione delle donne nell’università era molto più difficile di quella odierna, soprattutto all’Università Cattolica. D: Come è entrata a far parte anche lei di questo gruppo? R: Tutti i componenti del gruppo di Alberoni, ed anch’io, parteciparono alla prima occupazione dell’Università Cattolica, nel 1967, e alle varie azioni di contestazione, assolutamente non violente (sciopero della fame, lettura in pubblico della Costituzione, di “Lettera ad una professoressa” e così via). Questo ha rafforzato il gruppo, che da allora ha mantenuto saldi rapporti di amicizia. È da questo insieme di persone che Alberoni ha pescato i giovani sociologi che poi si è portato a Trento quando si è allontano dalla Università Cattolica alla fine del 1968. Questa volta l’invito è stato rivolto anche a me. È da questo momento che io ho deciso di diventare sociologa: ho rinunciato a partecipare a un concorso per un posto di ruolo nelle scuole medie superiori per un contratto annuale a Trento. La precarietà, dunque, come vede, era condizione imprescindibile e non ha riguardato solo il mio caso, ma era un fenomeno diffuso: i contratti annuali andavano per la Novembre 2005, Anno 2, Numero 10 Scrivi alla redazione >> [email protected] maggiore e l’ambiente universitario era molto difficile da conquistare. Come le ho detto, in Cattolica io ero assistente volontaria, ovvero non percepivo alcun riconoscimento economico, ma questo non voleva dire che io potessi fare quello che volevo: per mantenere questo ruolo, ogni anno dovevo pubblicare su una rivista scientifica almeno un articolo e dovevo partecipare alle sessioni di esame. La prima volta che mi hanno pagato per il mio lavoro universitario è stato a Trento. D: Cos’è, allora, che fa pensare ai giovani d’oggi di essere più precari? R: Come dicevo prima, è cambiato il contesto economico ed anche il discorso pubblico. Noi eravamo oggettivamente precari, ma in un contesto che appariva pieno di possibilità. In più, devo aggiungere, che sono cresciuta in una famiglia nella quale accettare le sfide, rischiare, era non solo accettato, ma incoraggiato. L’unico momento in cui ricordo di aver vissuto un possibile rischio è stato quando, una volta scoppiato il movimento femminista, di cui io facevo parte, fui oggetto di discussioni nel Consiglio Comunale di Trento: alcuni consiglieri sostenevano che non era possibile dare un incarico di insegnamento ad una “così selvaggia”. Allora l’Università di Trento era privata e finanziata dalla Provincia. Quindi la voglia di esercitare un controllo politico era molto forte. Perché sono diventata sociologa? Devo dire per merito, o colpa, o responsabilità di Alberoni che, senza conoscermi realmente, decise di portarmi con sé a Trento. Ma poi ho preso le mie strade, e gli argomenti, le ricerche di cui mi sono occupata nella mia carriera mi hanno plasmato, mi hanno fatto diventare la sociologa che sono oggi. Anche nella scelta dei temi da affrontare il caso ha avuto il suo peso. D: Ci spieghi... R: All’inizio io mi occupavo di filosofia, tenevo dei brevi seminari, con moltissimi studenti e studentesse, parlando dei grandi pensatori della filosofia: Hegel, Kant, il materialismo storico. Prima di arrivare a Trento, a onor del vero, avevo già messo il naso nella sociologia, collaborando con mio marito ad una ricerca sulla religiosità giovanile, per la quale lui aveva pubblicato Giovani e secolarizzazione e poi insieme avevamo pubblicato, con un titolo storicamente molto connotato: Ideologia religiosa e conflitto sociale. Come detto, tuttavia, devo ad Alberoni il fatto di essere diventata sociologa. Ma un’altra persona, alla quale intellettualmente mi sento più legata, ha determinato l’inizio del mio lavoro di ricerca rivolto alle famiglie. Questa persona è Manoukian, uno dei primi sociologi della famiglia in Italia. Anche lui era a Trento e mi ha chiesto di collaborare con lui al corso universitario che teneva. Facevo dei seminari, delle lezioni per gli studenti lavoratori il sabato e la domenica, e l’interesse per la famiglia ha cominciato a svilupparsi in questa collaborazione, per me molto affascinante. Poi lui è andato via, io sono entrata in modo più attivo nel movimento delle donne e ho incominciato a fare ricerca anche in questo ambito e questo da un lato ha contribuito a creare il mio profilo intellettuale, ma in parte non è stata una partecipazione delle più semplici. N e w s l e t t e r Sociologia e Ricerca Sociale 6 D: Perché? R: Da un lato io non ero più una studentessa, ero più vecchia rispetto alla media delle donne coinvolte. E poi insegnavo, per cui ero dall’altra parte della barricata. In secondo luogo facevo una cosa che era del tutto disdicevole per quei tempi dentro al movimento delle donne, ovvero pubblicavo col mio nome, invece di celarmi/annullarmi dentro al movimento. Per di più, nonostante i miei testi avessero una ispirazione “militante”, ambivano pur sempre ad essere testi di sociologia, argomentati sia empiricamente che teoricamente, non dei pamphlet. D: Per cui lei ha vissuto una situazione molto particolare... R: Sì, all’università ero una delle poche donne in un ambiente prevalentemente maschile e maschilista; ero una sociologa, ma mi occupavo di cose di poco conto, a detta degli altri, più influenti e più riconosciuti sociologi, quali la famiglia e le condizioni delle donne. Ricordo un episodio particolare. A livello nazionale, i sociologi avevano creato un’associazione per iniziare a organizzarsi. Eravamo un gruppo di giovani, dal quale poi, molti anni dopo, nacque l’Associazione Italiana di Sociologia (AIS). Quando c’erano queste riunioni di giovani sociologi, con nomi molto importanti degli ambienti accademici di allora, io ero guardata con sospetto, quasi dall’alto al basso: loro si occupavano di cose serie, di classi, di economia, eccetera. Io invece di questioni “private”, politicamente e socialmente irrilevanti… Riflettendo retrospettivamente, tutto sommato se dovessi dire che cosa ha contribuito, a prescindere dai contenuti, al mio profilo intellettuale, credo sia stata la mia posizione di straniera, che non considero una virtù, ma che riassume bene ciò che mi è capitato. Sono sempre stata, diciamo, “sulla porta”, in uno stato né di appartenenza né di nonappartenenza. Uno degli aspetti positivi di questa situazione è la libertà di scelta: io potevo scegliere di non-appartenere. Come donna mi muovevo in un mondo di soli uomini; ero sposata quando non era di moda farlo dentro al movimento femminista; ero già non più studentessa seppur giovane (o almeno apparivo più giovane di quanto non fossi); nel movimento femminista ero percepita non come una di loro, ma al margine; ho avuto figli quando dentro al movimento la maggior parte o era troppo giovane per pensarci, o li aveva già avuti e rivendicava l’importanza di dedicarsi ad altro. Alla riscoperta della maternità da parte del movimento io avevo le figlie già grandi. Mi occupavo di temi “marginali” rispetto a quelli ritenuti importanti. Il dover in qualche modo sempre legittimarmi mi ha dato questa dose di aggressività che se vuole mi rende anche un po’ antipatica, ma che mi ha anche dato una certa libertà interiore. Sapere di essere sempre sotto osservazione e guardata di sottecchi, potremmo dire, mi ha spinto a fare sempre meglio le cose di cui mi occupavo, a non lasciare nulla di scontato e a difendere le posizioni che di volta in volta andavo assumendo. Questo mi ha obbligata a approfondire molto alcuni aspetti dei temi di cui mi sono occupata. Inoltre, sapere di fare delle cose che comunque non erano considerate “importanti” mi ha reso un po’ più laica Novembre 2005, Anno 2, Numero 10 Scrivi alla redazione >> [email protected] verso le mie stesse attività di ricerca, consentendomi di avere libertà anche dal mio stesso lavoro e dai miei stessi interessi, insomma consentendomi di guardare al mio lavoro con passione e con un utile distacco. L’interesse sociologico per la famiglia quindi ha questa doppia origine: la collaborazione con Manoukian e la partecipazione al movimento delle donne. Ma è stata questa seconda a segnare in modo profondo la elaborazione del mio approccio teorico. D: Verso quali altri ambiti si è poi mossa? R: Per noi che partivamo dal punto di vista delle donne, occuparci di famiglia ha significato inevitabilmente occuparci di welfare state , ed è così che sono diventata anche una sociologa del welfare, partendo appunto dalla famiglia. Inevitabile è stato un approccio multidisciplinare, perché guardare alla famiglia e al welfare significa occuparsi ad esempio di sociologia del lavoro e di sociologia delle istituzioni e dei processi di formazione delle decisioni. L’altro grande tema di cui mi sono occupata, e per il quale in qualche modo sono riconosciuta, è la povertà. In questo caso, da parte mia non c’è stata, però, alcuna scelta: sono stata messa di fronte a questo tema. Le “donne” le ho scelte io, la “famiglia” è arrivata come logica conseguenza. La “povertà” invece mi è arrivata del tutto inaspettata, anzi posso dire che sia stata la povertà a scegliere me, e all’inizio anche per ragioni, diciamo, improprie. Nel 1984 entrai a far parte della Commissione di Indagine sulla povertà, presieduta da Ermanno Gorrieri. C’era stato il movimento delle donne, quindi a livello politico si ritenne che l’interrogativo se ci fosse una specificità femminile nell’esposizione al rischio di povertà si era posta anche in Italia, tanto più che essa era molto presente nel dibattito internazionale (la “femminilizzazione della povertà”) e la stessa Commissione Europea lo aveva affrontato. In una Commissione ove tutti rappresentavano qualche “parte” (per lo più “politica”) io ero stata indicata per “rappresentare le donne”. Ovviamente questa compartimentalizzazione – o lottizzazione – era assurda sul piano tematicoconoscitivo. Perciò incominciai a studiare come una matta, per acquisire tutte le conoscenze possibili sulla questione della povertà. Ho imparato moltissimo da Ermanno Gorrieri con cui ebbi una collaborazione per me splendida. Ovviamente, mi guadagnai subito le riserve di altri sociologi che da tempo si occupavano di povertà, tema per me assolutamente inedito. D: Beh, sono molte le occasioni che ha colto... R: Trovo interessanti queste congiunzioni, e in parte credo che siano un fenomeno generazionale: ad alcune, non tante, donne della mia generazione sono capitate delle occasioni, si sono verificate alcune possibilità per andare a riempire degli spazi lasciati vuoti, o creati ex novo, su temi ritenuti marginali, meno importanti, e per i quali i grandi sociologi di allora non intendevano perdere tempo. Siamo state buttate a nuotare, inserite in ambienti di alto profilo, costrette a confrontarci con professionisti affermati, e spronate a giustificare sempre in modo puntuale i risultati dei nostri lavori, il valore delle ricerche condotte su temi apparentemente di secondo piano. N e w s l e t t e r Sociologia e Ricerca Sociale 7 Oggi, ogni tanto guardo ai più giovani, e pur non volendo dare giudizi gratuiti sono portata a fare delle comparazioni. Oggi i giovani sono molto più solidi come formazione, più specializzati, ovviamente sto parlando di quelli bravi, difendono molto di più il loro profilo, si connotano molto di più nel loro ambito. Noi eravamo in contatto con realtà più diversificate, avevano delle reti di contatti più ampie, aperte, ed eravamo portate a confrontarci anche con realtà e persone lontane dall’ambiente universitario, a fare altri lavori (non necessariamente per soldi), a frequentare altri ambienti. Questo, almeno per quanto mi riguarda, mi ha aiutato a pormi problemi che forse non sarebbero emersi se fossi rimasta nell’ambiente universitario e basta, a vedere le cose da altri punti di vista. Penso alle centinaia di assemblee di genitori o di operatori sociali cui sono stata invitata a parlare e da cui ho imparato a mia volta. Oggi, la specializzazione che caratterizza i giovani studiosi ha dei pregi immensi, ma porta con sé alcuni pericoli di chiusura, di monotematicità. D: Lei, professoressa, ha scritto anche in merito all’età e al corso della vita... R: Sì. Questo è un filone però più esterno rispetto alla mia attività di ricerca. Posso dire di essere stata una delle prime in Italia a pormi il problema dell’aspetto dinamico del corso della vita. È un filone assolutamente consolidato negli Stati Uniti, fin dagli anni Cinquanta, mentre qui in Italia ha tardato molto ad arrivare e ad essere sistematizzato. Anche questo incontro è stato casuale. Ero negli Stati Uniti durante un anno di congedo e stavo cercando testi su famiglia, donne, eccetera, in queste magnifiche biblioteche statunitensi, con tutti i volumi a vista su grandi scaffali. Nello scaffale in cui stavo prendendo un libro sono inciampata in questa vastissima letteratura sull’età e il corso della vita, rendendomi conto che ero di fronte a un lavoro immenso, di cui non avevo mai sentito parlare prima. Per me è stata una rivelazione. Si tratta più che di un tema di un vero e proprio approccio, di un modo diverso di guardare al mondo che ci circonda, un modo che una volta appreso non lo si può più ignorare. Per me è stato un po’ come l’approccio di genere: ha cambiato la mia visuale su molte questioni. D: In sintesi, cosa caratterizza la sua storia? R: La curiosità e la tenacia. La curiosità mi ha consentito di cogliere le occasioni anche impreviste. La tenacia mi ha consentito di non perdermi. Ho un forte senso del dovere e sono anche orgogliosa, ahimè. Quando mi sono trovata in situazioni anche molto difficili, come ad esempio l’incontro con il tema allora per me sconosciuto della povertà, ho comunque reagito in modo forte: una volta preso l’incarico, dovevo portarlo a termine nel migliore dei modi. Ho sempre voluto poter dire la mia su tutto. Confesso che ho un forte senso di me, della mia dignità. Ci sono state e ci sono anche molte insicurezze. Ma ciò che per me è sempre contato è non farmi mettere i piedi in testa da nessuno e per reazione ho sviluppato questo misto di orgoglio, senso del dovere, e a volte durezza che mi caratterizza e del quale in fondo non mi rammarico.